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                 IL CONTE DI MONTECRISTO  di Alessandro Dumas. 
 
                                VOLUME PRIMO. 
 
 
 
 
 
 
                                   INDICE. 
 
      Capitolo  1. L'arrivo a Marsiglia:                     pagina   4. 
      Capitolo  2. Padre e figlio:                           pagina  20. 
      Capitolo  3. I Catalani:                               pagina  33. 
      Capitolo  4. Il complotto:                             pagina  52. 
      Capitolo  5. Il pranzo di fidanzamento:                pagina  63. 
      Capitolo  6. Il sostituto del Procuratore del Re:      pagina  86. 
      Capitolo  7. L 'interrogatorio:                        pagina 103. 
      Capitolo  8. Il Castello d'If:                         pagina 125. 
      Capitolo  9. La sera del fidanzamento:                 pagina 146. 
      Capitolo 10. Il gabinetto delle Tuileries:             pagina 157. 
      Capitolo 11. Il lupo di Corsica:                       pagina 168. 
      Capitolo 12. Padre e figlio:                           pagina 182. 
      Capitolo 13. I cento giorni:                           pagina 194. 
      Capitolo 14. I due prigionieri:                        pagina 210. 
      Capitolo 15. Il numero 34 e il numero 27:              pagina 230. 
      Capitolo 16. Lo scienziato:                            pagina 261. 
      Capitolo 17. La cella dello scienziato:                pagina 278. 
      Capitolo 18. Il tesoro:                                pagina 312. 
      Capitolo 19. Il terzo attacco:                         pagina 330. 
      Capitolo 20. Il cimitero del Castello d'If:            pagina 348. 
      Capitolo 21. L'isola di Tiboulen:                      pagina 357. 
      Capitolo 22. I contrabbandieri:                        pagina 379. 
      Capitolo 23. L'isola di Montecristo:                   pagina 393. 
      Capitolo 24. L 'abbagliamento:                         pagina 407. 
      Capitolo 25. Lo sconosciuto:                           pagina 424. 
      Capitolo 26. L'albergo del Ponte di Gard:              pagina 436. 
      Capitolo 27. Il racconto:                              pagina 459. 
      Capitolo 28. I registri delle prigioni:                pagina 481. 
      Capitolo 29. La casa Morrel:                           pagina 493. 
      Capitolo 30. Il 5 settembre:                           pagina 517. 
      Capitolo 31. L'Italia e Sindbad il Marinaio:           pagina 545. 
      Capitolo 32. Risveglio:                                pagina 589. 
      Capitolo 33. I briganti:                               pagina 600. 
      Capitolo 34. Le apparizioni:                           pagina 654. 
      Capitolo 35. Il patibolo:                              pagina 694. 
      Capitolo 36. Il carnevale di Roma:                     pagina 720. 
      Capitolo 37. Le catacombe di San Sebastiano:           pagina 754. 
      Capitolo 38. Il convegno:                              pagina 785. 
 
 
 
 
                                 Capitolo 1. 
                            L'ARRIVO A MARSIGLIA. 
 
 
      Il 24 febbraio 1815 la vedetta della Madonna della  Guardia  dette 
      il  segnale  della  nave  a  tre alberi il Faraone,  che veniva da 
      Smirne, Trieste e Napoli. 
      Com'è d'uso,  un pilota costiere partì  subito  dal  porto,  passò 
      vicino al Castello d'If e salì a bordo del naviglio fra il capo di 
      Morgiou e l'isola di Rion. 
      Contemporaneamente  com'è  ugualmente  d'uso,  la  piattaforma del 
      forte San Giovanni si ricoprì  di  curiosi;  poiché  è  sempre  un 
      avvenimento  di  grande  interesse a Marsiglia l'arrivo di qualche 
      bastimento,  in particolare  poi  quando  questo  legno,  come  il 
      Faraone,  si  sapeva  costruito,  arredato  e stivato nei cantieri 
      della vecchia Phocée e appartenente ad un  armatore  della  città. 
      Frattanto  il  naviglio  avanzava ed aveva felicemente superato lo 
      stretto,  formatosi da qualche scossa  vulcanica  fra  l'isola  di 
      Casareigne e quella di Jaros. 
      Aveva  oltrepassato Pomègue,  avanzando il suo gran corpo sotto le 
      sue tre gabbie ma tanto lentamente,  e con andamento  così  mesto, 
      che  i  curiosi con quell'istinto che presagisce le disgrazie,  si 
      domandavano quale infortunio fosse accaduto a bordo. 
      Tuttavia gli esperti alla  navigazione  riconoscevano  che  se  un 
      qualche  accidente  era avvenuto,  questo non era al materiale del 
      bastimento,  poiché  se  procedeva  lentamente,  lo  faceva  nelle 
      condizioni di un naviglio eccellentemente governato. La sua àncora 
      era gettata,  i pennoni di bompresso abbassati, e vicino al pilota 
      che s'apprestava a dirigere il Faraone nella stretta  entrata  del 
      porto di Marsiglia c'era uno svelto giovane, che con occhio attivo 
      sorvegliava  ciascun  movimento  del naviglio,  e ripeteva ciascun 
      ordine del pilota. 
      La vaga inquietudine che commoveva la folla aveva  particolarmente 
      agitato  uno degli accorsi alla spianata di San Giovanni,  che non 
      volle attendere l'entrata del bastimento nel porto,  ma  saltò  in 
      una  barchetta e ordinò di vogare verso il Faraone,  che raggiunse 
      dirimpetto all'ansa  di  riserva.  Il  giovane  marinaio,  vedendo 
      giungere  quest'uomo,  lasciò  il  suo posto a lato del pilota,  e 
      venne col  cappello  in  mano  ad  appoggiarsi  al  parapetto  del 
      bastimento.  Era un giovane di vent'anni circa,  alto, snello, con 
      occhi neri,  e capelli color dell'ebano.  Si scorgeva in tutta  la 
      persona  quell'aspetto  di calma e di risoluzione che sono proprie 
      degli uomini  avvezzi  fin  dalla  loro  infanzia  a  lottare  coi 
      pericoli. 
      "Ah  siete  voi  Dantès?"  esclamò  l'uomo  della barca.  "E che è 
      accaduto, e perché quest'aria di tristezza sulla vostra nave?" 
      "Una gran disgrazia,  signor Morrel"  rispose  il  giovane,  "gran 
      disgrazia  particolarmente  per  me.  All'altezza di Civitavecchia 
      abbiamo perduto il bravo capitano Leclerc..." 
      "Ed il carico?" domandò con premura l'armatore. 
      "E giunto a buon porto,  signor Morrel,  e sono persuaso che sotto 
      questo aspetto sarete contento. Ma il povero capitano Leclerc..." 
      "Che  gli  è  dunque  accaduto?"  domandò  l'armatore notevolmente 
      rallegrato. "Che accadde a questo bravo Capitano?" 
      "E' morto." 
      "Caduto in mare?" 
      "No, morto di una febbre cerebrale, tra orribili patimenti." 
      Poi voltandosi verso l'equipaggio disse: 
      "Olà eh! Ciascuno al suo posto per l'ancoraggio." 
      L'equipaggio obbedì. 
      Nel medesimo istante gli otto o dieci marinai che  lo  componevano 
      si slanciarono alcuni sulle scotte, altri sui bracci, taluni sulle 
      dritte,  altri  ancora  sul  carico  abbasso del trinchetto,  e il 
      rimanente infine, agli imbrogli delle vele. 
      Il giovane marinaio gettò uno sguardo noncurante agli inizi  della 
      manovra  e  vedendo che si eseguivano i suoi ordini ritornò al suo 
      interlocutore. 
      "E come accadde  dunque  questa  disgrazia?"  continuò  l'armatore 
      riprendendo  la  conversazione  al  punto  ove il giovane marinaio 
      l'aveva interrotta. 
      "Mio  Dio,  signore,  nel  modo  più  imprevisto.  Dopo  un  lungo 
      colloquio col comandante del porto,  il capitano Leclerc abbandonò 
      Napoli molto agitato: in capo a  ventiquattr'ore  fu  colto  dalla 
      febbre e tre giorni dopo era morto.  Gli abbiamo resi gli ordinari 
      funerali, ed egli riposa,  decentemente avviluppato in una branda, 
      con  una  palla  da  36  ai  piedi ed una alla testa,  all'altezza 
      dell'isola del Giglio.  Noi riportiamo alla vedova  la  sua  croce 
      d'onore e la sua spada.  Valeva ben la pena" continuava il giovane 
      con un sorriso malinconico,  "di fare per  dieci  anni  la  guerra 
      agl'Inglesi per arrivare poi a morire,  come tutti gli uomini, nel 
      suo letto." 
      "Peccato!  Che volete,  Edmondo" riprese l'armatore  che  sembrava 
      consolarsi sempre più,  "siamo tutti mortali, e bisogna bene che i 
      vecchi cedano il posto ai giovani;  senza questo,  non vi  sarebbe 
      più  progresso,  ed  al  momento  che  voi  mi  assicurate  che il 
      carico..." 
      "E' in buono stato,  signore Morrel,  ve lo  garantisco.  Ecco  un 
      viaggio  ch'io  vi  consiglio  di non scontare per meno di 25 mila 
      franchi di guadagno." 
      Poi come era passata la Torre Rotonda: 
      "Attenzione a caricare  le  vele  dei  pennoni,  il  fiocco  e  la 
      bregantina" comandò il giovane marinaio, "fate attenzione!" 
      L'ordine  venne  eseguito quasi colla stessa celerità che sopra un 
      bastimento da guerra. 
      "Ammaina, e carica in ogni luogo!" 
      All'ultimo comando tutte le vele si abbassarono, ed il naviglio si 
      avanzò in un modo quasi insensibile,  non camminando più  che  per 
      l'impulso ricevuto. 
      "Ora  se  volete  montare,  signor  Morrel" disse Dantès,  vedendo 
      l'impazienza dell'armatore,  "ecco qui il vostro  scrivano  signor 
      Danglars  che  esce  dal  suo  camerino,   e  vi  darà  tutti  gli 
      schiarimenti che  potete  desiderare:  quanto  a  me  bisogna  che 
      sorvegli l'ancoraggio e che metta la nave a lutto." 
      L'armatore  non se lo fece ripetere due volte,  afferrò una gomena 
      che gli gettò Dantès,  e con una sveltezza che avrebbe fatto onore 
      ad  un  uomo  di mare,  sorpassò gli scalini inchiodati sul fianco 
      sporgente del bastimento, mentre l'altro,  ritornando al suo posto 
      di  secondo,  cedeva la conversazione a colui che aveva annunziato 
      sotto il nome di Danglars,  il quale uscendo dalla sua  cabina  si 
      avvicinava all'armatore. 
      Il  sopravvenuto  era  un  uomo  di venticinque-ventisei anni,  di 
      figura molto cupa,  ossequioso verso i suoi  superiori,  insolente 
      con i sottoposti; cosicché, oltre il suo ufficio di computista, di 
      per  sé  motivo  di avversione per i marinai,  era tanto malveduto 
      dall'equipaggio, quanto al contrario Edmondo Dantès era amato. 
      "Ebbene  signor  Morrel"  disse  Danglars,   "voi  sapete  già  la 
      disgrazia, non è vero?" 
      "Sì, sì, povero capitano Leclerc! Era un bravo ed onest'uomo." 
      "E  soprattutto  un  eccellente  uomo di mare,  invecchiato fra il 
      cielo e l'acqua,  come si conviene ad  un  uomo  incaricato  degli 
      affari  di  una  casa così importante come quella Morrel e figlio" 
      rispose Danglars. 
      "Ma" disse l'armatore tenendo gli  occhi  rivolti  a  Dantès,  che 
      cercava  il  punto del suo ancoraggio,  "mi sembra che non occorre 
      essere tanto vecchio  marinaio  quanto  voi  dite,  Danglars,  per 
      conoscer bene il mestiere.  Ecco il nostro amico Edmondo che fa il 
      suo, e mi sembra un uomo che non ha bisogno di chieder consigli ad 
      alcuno." 
      "Sì" disse Danglars gettando su Dantès uno sguardo obliquo in  cui 
      balenò  un  lampo d'odio: "sì,  questi è giovane e perciò non teme 
      nulla.  Appena il  Capitano  fu  morto,  prese  il  comando  senza 
      consultare  alcuno,  e  ci  ha  fatto  perdere  un  giorno e mezzo 
      all'isola d'Elba, invece di ripiegare direttamente a Marsiglia." 
      "Quanto a prendere il comando del naviglio" disse l'armatore, "era 
      suo dovere farlo come secondo; quanto al perdere un giorno e mezzo 
      all'isola d'Elba, ha fatto male, a meno che il naviglio non avesse 
      avuto qualche avaria da riparare." 
      "Il naviglio stava bene come sto  io,  e  come  desidero  che  voi 
      stiate sempre, signor Morrel, e questa giornata e mezzo fu perduta 
      per  un  capriccio,  per  il solo piacere di andare a terra,  ecco 
      tutto." 
      "Dantès"  disse  l'armatore,  rivolgendosi  verso  il  giovanotto, 
      "venite qui." 
      "Scusate, signore" disse Dantès. "sarò da voi fra un istante." Poi 
      indirizzandosi all'equipaggio: 
      "Date fondo!" diss'egli. 
      Sull'istante l'àncora cadde, e la catena scivolò con rumore. 
      Dantès restò al suo posto, malgrado la presenza del pilota, fino a 
      che fu compiuta la manovra, quindi disse: 
      "Abbassate  la  fiamma  a  mezz'albero,   la  bandiera  in  derno, 
      incrociate le antenne!" 
      "Voi vedete" disse Danglars, "egli si crede, sulla mia parola, già 
      capitano." 
      "E lo è, difatti" disse l'armatore. 
      "Si,  signor Morrel,  salvo la vostra firma e  quella  del  vostro 
      associato." 
      "Diamine!  Perché  non  lo  lasceremo  noi  a questo posto?" disse 
      l'armatore.  "E' giovane,  lo so bene,  ma mi sembra  adatto  alla 
      bisogna, e molto esperto nel suo mestiere." 
      Una nube passò sulla fronte di Danglars. 
      "Io volevo domandarvi perché vi siete fermato all'isola d'Elba." 
      "Lo  ignoro  io  stesso:  fu  per  eseguire  un ultimo comando del 
      capitano Leclerc,  che morendo mi aveva confidato un plico per  il 
      gran Maresciallo Bertrand." 
      "L'avete dunque veduto, Edmondo?" 
      "Chi?" 
      "Il gran Maresciallo." 
      "Sì." 
      Morrel si guardò attorno e tirò da parte Dantès. 
      "E come va l'Imperatore?" domandò egli vivamente. 
      "Bene, per quanto ho potuto giudicare coi miei occhi." 
      "Avete dunque veduto anche l'Imperatore?" 
      "Entrò dal Maresciallo mentre vi ero io." 
      "E gli avete parlato?" 
      "Cioè, fu egli che parlò a me" rispose Dantès, sorridendo. 
      "E che vi disse?" 
      "Mi  ha  fatto delle domande sul bastimento,  sull'epoca della sua 
      partenza da Marsiglia,  sul viaggio che aveva fatto,  e sul carico 
      che portava.  Credo che se questo fosse stato vuoto, e io ne fossi 
      stato il padrone,  la sua intenzione sarebbe stata quella di farne 
      acquisto. Ma gli dissi ch'io non ero che un semplice secondo, e il 
      bastimento apparteneva alla casa Morrel e figlio. Ah! - diss'egli, 
      -  la  conosco.  I Morrel sono armatori di padre in figlio,  ed ho 
      conosciuto un Morrel,  che serviva nello stesso reggimento con me, 
      quando ero in guarnigione a Valenza." 
      "E  vero,   è  vero!"  esclamò  l'armatore  tutto  contento.  "Era 
      Policarpo Morrel,  mio zio,  che  divenne  capitano;  Dantès,  voi 
      direte  a  mio  zio che l'Imperatore si è ricordato di lui,  e voi 
      vedrete piangere il vecchio brontolone. Andiamo, andiamo" continuò 
      il vecchio armatore battendo amichevolmente la mano  sulla  spalla 
      del  giovane,  "voi avete fatto bene ad eseguire le istruzioni del 
      capitano Leclerc, e fermarvi all'isola d'Elba,  quantunque,  se si 
      venisse  a sapere che voi avete consegnato un plico al Maresciallo 
      e   parlato   coll'Imperatore,    ciò   potrebbe   senza    dubbio 
      compromettervi." 
      "Come volete voi che ciò mi comprometta" disse Dantès,  "io non so 
      neppure ciò che ho portato,  e l'Imperatore non mi  ha  fatto  che 
      quelle  domande  che  avrebbe indirizzate al primo arrivato...  Ma 
      scusate" riprese Dantès, "ecco la Sanità e la Dogana che giungono. 
      Voi permettete, non è vero?" 
      "Fate, fate pure, mio caro Dantès." 
      Il giovane si allontanò,  e a misura che si allontanava,  Danglars 
      si accostava. 
      "Ebbene"  chiese,  "ha  addotto  buone ragioni sulla sua fermata a 
      Portoferraio?" 
      "Eccellenti, mio caro Danglars." 
      "Ah,   tanto  meglio"  rispose  questi,   "poiché  è  sempre  cosa 
      spiacevole vedere un camerata che non fa il proprio dovere." 
      "Dantès ha fatto il suo" rispose l'armatore,  "e non vi è nulla da 
      ridire. Fu il capitano Leclerc che gli ordinò questa fermata." 
      "A proposito del capitano Leclerc,  vi ha  egli  rimessa  una  sua 
      lettera?" 
      "A me? No. Ne aveva dunque?" 
      "Io  credevo  che  oltre il plico,  il capitano Leclerc gli avesse 
      confidata questa lettera." 
      "Di quale plico intendete parlare?" 
      "Di quello che Dantès ha depositato nel passare da Portoferraio." 
      "E come sapete ch'egli aveva un plico per Portoferraio?" 
      Danglars arrossì. 
      "Passavo davanti alla porta del capitano,  che  era  socchiusa,  e 
      vidi rimettere a Dantès il plico e la lettera." 
      "Non me ne ha parlato" disse l'armatore, "ma se ha questa lettera, 
      me la consegnerà." 
      Danglars rifletté un istante. 
      "Allora,  signor Morrel, vi prego" disse, "di non parlare di ciò a 
      Dantès; mi sarò ingannato." 
      In quel momento il giovane fece ritorno; Danglars si allontanò. 
      "Ebbene, mio caro Dantès, siete libero?" domandò l'armatore. 
      "Sì, signore." 
      "La cosa non è stata lunga." 
      "No, ho consegnato alla Dogana la lista delle vostre mercanzie; e, 
      quanto alla consegna,  è arrivato col pilota costiere un  uomo  al 
      quale ho rimesso le mie carte." 
      "Allora non avete più niente a fare qui?" 
      Dantès gettò uno sguardo rapido intorno a sé. 
      "No, qui tutto è in ordine." 
      "Potete dunque venire a pranzo con noi?" 
      "Scusatemi, signor Morrel, scusatemi, ve ne prego, ma la prima mia 
      visita  la  debbo  a  mio  padre.  Non sono però meno riconoscente 
      all'onore che mi fate." 
      "E' giusto, Dantès, è giusto: so che siete un buon figlio." 
      "E..." domandò Dantès con una  certa  esitazione,  "sta  bene  mio 
      padre, che voi sappiate?" 
      "Io credo di sì, mio caro Edmondo, quantunque non l'abbia veduto." 
      "Sì, egli si tiene ritirato nella sua cameretta." 
      "Ciò prova, per lo meno, che non ha avuto bisogno di nulla durante 
      la vostra assenza." 
      Dantès sorrise. 
      "Mio  padre è altero,  signore,  e quand'anche fosse sprovvisto di 
      tutto,   non  si  sarebbe  rivolto  a  chiedere  cosa   alcuna   a 
      chicchessia, eccetto a Dio." 
      "Ebbene, dopo questa prima visita, noi contiamo su voi." 
      "Scusatemi di nuovo,  signor Morrel,  ma dopo questa prima visita, 
      io ne farò un'altra che non mi sta meno a cuore." 
      "Ah, è vero, Dantès, dimenticavo che vi è ai Catalani qualcuno che 
      deve aspettarvi con non minor impazienza di vostro  padre.  E'  la 
      bella Mercedes." 
      Dantès arrossi. 
      "Ah!  ah!" disse l'armatore.  "Non mi sorprende più che sia venuta 
      tre volte a domandare notizie del Faraone. Perbacco, Edmondo,  voi 
      non  siete  da  compiangere,  vi  ritrovate  ad avere una graziosa 
      amica." 
      "Non è mia amica,  ma" disse  con  gravità  il  marinaio,  "è  mia 
      fidanzata." 
      "Qualche volta è tutta una cosa" disse ridendo l'armatore. 
      "Ma non per noi" rispose Dantès. 
      "Andiamo,  andiamo!  Mio  caro Edmondo" continuò l'armatore,  "non 
      voglio trattenervi di più.  Voi avete fatto abbastanza bene i miei 
      affari,  perché  io  vi debba lasciare il comodo di fare i vostri. 
      Avete bisogno di denaro?" 
      "No, signore, ho tutti i miei stipendi del viaggio, cioè quasi tre 
      mesi di soldo." 
      "Voi siete un giovane previdente, Edmondo!" 
      "Aggiungete che ho un padre povero, signor Morrel." 
      "Sì, sì, so bene che siete un buon figliolo! Andate dunque a veder 
      vostro padre. Io pure ho un figlio, e non saprei perdonare a colui 
      che dopo tre mesi di viaggio lo trattenesse lontano da me." 
      "Dunque mi permettete?" disse il giovane salutandolo. 
      "Sì, se voi non avete niente altro da dirmi." 
      "No." 
      "Il capitano Leclerc non vi ha dato,  morendo,  alcuna lettera per 
      me?" 
      "Gli  sarebbe  stato  impossibile scrivere,  ma ciò mi ricorda che 
      avrei un congedo di qualche giorno da domandarvi." 
      "Per prender moglie?" 
      "Prima di tutto per quello, poi per andare a Parigi." 
      "Bene,  bene!  Prenderete il tempo che  vorrete,  Dantès.  Non  ci 
      vorranno meno di sei settimane per scaricare il bastimento,  e non 
      rimetteremo in mare prima di  tre  mesi.  Sarà  opportuno  che  vi 
      troviate  qui  fra  tre  mesi.  Il  Faraone"  continuò  l'armatore 
      battendo sulla spalla del giovane marinaio,  "non potrebbe mettere 
      alla vela senza il suo capitano." 
      "Senza il suo capitano!" esclamò Dantès cogli occhi sfavillanti di 
      gioia.  "Ponete  ben  mente  a ciò che dite,  signore,  poiché voi 
      rispondete alle  più  segrete  speranze  del  mio  cuore;  avreste 
      intenzione di nominarmi capitano del Faraone?" 
      "Se fossi solo, vi stenderei la mano, mio caro Dantès, e vi direi: 
      è fatto; ma ho un socio, e voi sapete l'antico proverbio italiano, 
      ha  un  padrone  chi  ha un compagno.  Ma la metà della faccenda è 
      fatta; poiché sopra due voti, voi ne avete di già uno; fidatevi di 
      me per avere l'altro, farò quanto potrò di meglio." 
      "Oh, signor Morrel" esclamò il giovane marinaio,  stringendo colle 
      lacrime  agli occhi le mani dell'armatore,  "signor Morrel,  io vi 
      ringrazio in nome di mio padre e di Mercedes." 
      "Va bene,  va bene Edmondo;  vi è un Dio in  cielo  per  la  brava 
      gente; andate a vedere vostro padre, andate a vedere Mercedes, poi 
      ritornate da me." 
      "Non volete che vi riconduca a terra?" 
      "No,  grazie,  rimango a regolare i miei conti con Danglars. Siete 
      rimasto contento di lui durante il viaggio?" 
      "Secondo il senso che voi date a  questa  domanda;  se  come  buon 
      camerata no, perché io credo ch'egli non mi ami, dal giorno in cui 
      ebbi la debolezza,  in conseguenza d'una contesa, di proporgli che 
      ci fermassimo dieci minuti all'isola di Montecristo per  terminare 
      questa  contesa,  proposta  che io ebbi torto di fargli e che egli 
      ebbe ragione di rifiutare se è  poi  come  scrivano  che  mi  fate 
      questa domanda,  credo che non vi sia nulla da dire,  e voi sarete 
      contento del modo con cui ha disimpegnato il suo dovere." 
      "Ma"  domandò  l'armatore,   "se  foste   capitano   del   Faraone 
      conservereste voi Danglars con piacere?" 
      "Capitano,  o  secondo" rispose Dantès,  "avrò sempre i più grandi 
      riguardi per coloro che godono la fiducia dei miei armatori." 
      "Andiamo,  andiamo,  Dantès,  vedo bene che siete un bravo giovane 
      sotto  tutti  i  rapporti.  Non  voglio  più  a lungo trattenervi; 
      andate, poiché siete sulla brace." 
      "Arrivederci, signor Morrel, e mille ringraziamenti." 
      "Arrivederci, mio caro Edmondo, e buona ventura!" 
      Il giovane marinaio balzò sulla lancia,  andò a sedersi a poppa  e 
      ordinò di approdare alla Canebière. 
      Due marinai si piegarono sui loro remi e la barca fuggì con quella 
      rapidità  che  è  possibile in mezzo a mille barche che ingombrano 
      quella specie di angusta strada  che  conduce,  fra  due  file  di 
      navigli,  dall'entrata del porto allo scalo di Orléans. L'armatore 
      sorridendo lo seguì  cogli  occhi  fino  alla  spiaggia,  lo  vide 
      saltare  sui  gradini  dello scalo e perdersi subito in mezzo alla 
      folla variopinta,  che dalle cinque del mattino  alle  nove  della 
      sera  ingombra  questa  famosa  strada  della Canebière,  di cui i 
      Phocéens moderni sono tanto orgogliosi,  che dicono,  con  la  più 
      gran  serietà  del  mondo  e  con  quell'accento che imprime tanto 
      carattere a ciò che dicono: "Se Parigi avesse la Canebière, Parigi 
      sarebbe una piccola Marsiglia". 
      Volgendosi,  l'armatore vide Danglars,  che in apparenza  sembrava 
      attendere i suoi ordini,  ma in realtà seguiva come lui il giovane 
      marinaio collo sguardo.  Soltanto vi era una grandissima diversità 
      nella  espressione  di  questo doppio sguardo diretto sul medesimo 
      individuo. 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 2. 
                               PADRE E FIGLIO. 
 
 
      Lasciamo che Danglars,  alle prese col genio dell'odio,  cerchi di 
      gettare  contro  il  suo  camerata  qualche  maligna  supposizione 
      all'orecchio dell'armatore,  e  seguiamo  Dantès,  che  dopo  aver 
      percorsa  la  Canebière  in tutta la sua lunghezza,  prende la rue 
      Noaille, entra in una piccola casa situata alla sinistra dei viali 
      di Meillan,  monta prestamente i quattro piani di una scala oscura 
      e  tenendosi  con  una  mano  alla ringhiera comprime coll'altra i 
      battiti del suo cuore,  si arresta davanti a una porta  socchiusa, 
      che lascia vedere sino al fondo una piccola camera. 
      Questa camera era quella del padre di Dantès. 
      La  notizia  dell'arrivo  del  Faraone  non  era  ancor  giunta al 
      vecchio,  che sopra una  cassa,  era  occupato  a  piantare  delle 
      cannucce  sopra  cui  adattava  con  mano tremante alcuni nasturzi 
      misti a clematidi che si  arrampicavano  lungo  la  pergola  della 
      finestra. 
      Ad  un tratto si sentì circondare il corpo da due braccia,  ed una 
      voce ben conosciuta gridare dietro di sé: 
      "Padre! Mio buon padre!" 
      Il vecchio gettò un grido e si voltò,  poi vedendo il  figlio,  si 
      lasciò cadere tra le sue braccia, tutto tremante e pallido. 
      "Che  avete dunque,  padre" esclamò il giovane commosso,  "sareste 
      ammalato?" 
      "No, mio caro Edmondo, mio caro figlio, no; ma non ti aspettavo, e 
      la gioia,  la sorpresa di  rivederti  così  all'improvviso...  mio 
      Dio!... mi sembra di morire..." 
      "Coraggio, rimettetevi, padre. Sono io, proprio io. Si dice sempre 
      che  la  gioia  non  nuoce ed è perciò che sono entrato così senza 
      farvi preparare; guardatemi, sorridetemi, invece di osservarmi con 
      occhi spaventati. Io ritorno e noi saremo felici." 
      "Ah,  tanto meglio,  figlio" riprese il vecchio.  "Ma in qual modo 
      possiamo  noi  essere  felici?  Tu  dunque  non  mi abbandoni più? 
      Vediamo, raccontami le tue fortune." 
      "Che il Signore mi perdoni" disse il giovane,  "di rallegrarmi  di 
      una  fortuna  che  faccio col lutto di una famiglia: ma Dio sa che 
      non ho desiderato questa fortuna!  Essa mi giunge ed io non ho  la 
      forza  di affliggermene.  Il bravo capitano Leclerc è morto,  ed è 
      probabile che colla protezione del signor Morrel io  vada  al  suo 
      posto... Capitano a vent'anni! Con cento luigi di stipendio ed una 
      parte nell'interesse! Non è assai più di ciò che poteva sperare un 
      povero marinaio come sono io?" 
      "Sì, figlio mio, sì, infatti questa è una felicità." 
      "E  perciò  voglio che col primo denaro che riscuoterò voi abbiate 
      una casetta con un giardino per piantare le  vostre  clematidi,  i 
      vostri nasturzi ed il vostro caprifoglio.  Ma che avete, padre? Si 
      direbbe che state male!" 
      "Pazienza, pazienza, non sarà nulla." 
      E, mancandogli le forze, il vecchio cadde. 
      "Vediamo,  vediamo" disse il giovane,  "un buon bicchiere di vino, 
      caro padre, vi rianimerà. Dove mettete il vostro vino?" 
      "No,  grazie, non lo cercare, non ne ho bisogno" disse il vecchio, 
      tentando di trattenere il figlio. 
      "Lasciate fare, lasciate fare, padre." 
      Ed egli aprì due o tre armadi. 
      "E' inutile" disse il vecchio, "non vi è più vino." 
      "Come, non vi è più vino" disse Dantès, impallidendo a sua volta e 
      guardando alternativamente le  guance  smunte  ed  increspate  del 
      vecchio,  e  gli  armadi vuoti.  "Come non vi è più vino!  Sareste 
      rimasto privo di denaro, padre?" 
      "Non son rimasto privo di nulla poiché tu sei qui." 
      "Frattanto" balbettò Dantès, asciugandosi il sudore che freddo gli 
      colava dalla fronte,  "avevo lasciato 200 franchi,  tre  mesi  fa, 
      partendo." 
      "Si,  sì,  Edmondo, è vero, ma tu avevi dimenticato nel partire un 
      piccolo debito col vicino Caderousse;  egli me  lo  ha  ricordato, 
      dicendomi  che  se  non  pagavo per te,  andava a farsi pagare dal 
      signor Morrel.  Allora comprenderai bene...  per timore che non ti 
      facesse torto..." 
      "Ebbene?" 
      "Ebbene, ho pagato per te." 
      "Ma"  esclamò  Dantès,  "il  mio  debito con Caderousse era di 140 
      franchi!...  E voi li avete pagati  coi  200  franchi  che  vi  ho 
      lasciati?" 
      Il vecchio fece un segno affermativo con la testa. 
      "Dimodoché  voi  avete vissuto" mormorò il giovane,  "per tre mesi 
      con solo 60 franchi!" 
      "Tu sai quanto poco mi abbisogni e mi basti." 
      "Oh  mio  Dio!  Mio  Dio!  Padre,  perdonatemi"  esclamò  Edmondo, 
      gettandosi ai piedi del buon vecchio. 
      "Che fai adesso?" 
      "Ah, voi mi avete trafitto il cuore!" 
      "Tu  sei  qui"  disse  il  vecchio,   sorridendo,   "ora  tutto  è 
      dimenticato, poiché tu stai bene." 
      "Sì,  io son qui;  eccomi con un bell'avvenire e con  un  poco  di 
      denaro.   Prendete,  padre"  disse,  "prendete  e  inviate  subito 
      qualcuno a comprare qualche cosa." 
      E vuotò sulla tavola la borsa che conteneva una dozzina di  monete 
      d'oro, cinque o sei scudi da cinque franchi e della moneta minuta. 
      Il viso del vecchio si annuvolò. 
      "Di chi è quel denaro?" 
      "Mio,  tuo,  nostro,  prendete,  comprate  delle provviste,  siate 
      felice, domani ve ne sarà dell'altro." 
      "Adagio,  adagio" disse il vecchio sorridendo,  "col tuo  permesso 
      farò  uso della tua borsa,  ma con moderazione.  Le persone che mi 
      vedessero fare grandi provviste direbbero  che  ero  obbligato  ad 
      aspettare il tuo ritorno per far degli acquisti." 
      "Fate  come  vi aggrada,  ma prima di ogni altra cosa provvedetevi 
      una persona di servizio,  non voglio più che usciate di casa solo. 
      Ho  del  caffè,  e  dell'eccellente tabacco di contrabbando in una 
      cassetta nel fondo della stiva; l'avrete domani.  Ma zitto,  sento 
      arrivare qualcuno." 
      "Sarà  Caderousse,  che avendo saputo del tuo arrivo viene a darti 
      il benvenuto." 
      "Bene,  ecco altre labbra che dicono diversamente da ciò che pensa 
      il  cuore.  Ma non serve" mormorò Edmondo,  "è un vicino che ci ha 
      reso un favore; che sia il benvenuto!" 
      Difatti al momento in cui Edmondo terminava la frase a voce bassa, 
      si vide comparire la  testa  nera  e  barbuta  di  Caderousse  sul 
      limitare della porta. 
      Era  un  uomo  di venticinque-ventisei anni,  aveva fra le mani un 
      pezzo di panno,  che da buon sarto si accingeva  a  tramutare  nei 
      risvolti di un abito. 
      "Ah,  eccoti  dunque  di  ritorno,  Edmondo!" disse con un accento 
      marsigliese pronunciato,  e con un largo sorriso che gli  scopriva 
      dei bellissimi denti, bianchi come l'avorio. 
      "Come  vedi,  vicino Caderousse,  e pronto a servirti in qualunque 
      cosa" rispose Dantès,  dissimulando male la sua freddezza nel  far 
      questa offerta. 
      "Grazie,  grazie,  fortunatamente io non ho bisogno di nulla, anzi 
      sono qualche volta gli altri che hanno bisogno di me." 
      Dantès fece un movimento d impazienza. 
      "Non dico per te, giovanotto; ti prestai del denaro,  tu me lo hai 
      reso, ciò si pratica fra buoni vicini e noi siamo pari." 
      "Non si è mai pari con quelli che ci hanno favorito" disse Dantès, 
      "quando non gli si deve più danaro si deve riconoscenza." 
      "Perché parlare di ciò?  Quel che è passato,  è passato,  parliamo 
      del tuo felice  ritorno,  giovanotto.  Ero  andato  al  porto  per 
      trovare da comprare del panno color marrone,  quando ho incontrato 
      l'amico Danglars. 
      "Tu! A Marsiglia?" gli dissi. 
      "Si, io stesso" rispose. 
      "Ti credevo a Smirne!" 
      "Potrei ancora esserci, vengo di là." 
      "E Edmondo, dov'è il bravo giovane?" 
      "Certamente presso suo padre" rispose  Danglars.  "Ed  allora  son 
      venuto qua per avere il piacere di stringere la mano ad un amico." 
      "Questo buon Caderousse" disse il vecchio, "ci ama molto." 
      "Certo  vi amo e vi stimo ancora,  tanto più che gli uomini onesti 
      sono così rari...  Ma sembra che tu ritorni ricco..." continuò  il 
      sarto,  volgendo uno sguardo bieco sull'oro e l'argento che Dantès 
      aveva posto sulla tavola. 
      Al giovane marinaio non sfuggì  il  lampo  di  cupidigia  del  suo 
      vicino. 
      "Eh,  mio  Dio"  disse  con noncuranza,  "questo danaro non è mio; 
      avevo manifestato a mio padre il timore che nella mia assenza  gli 
      fosse mancato qualche cosa, ed egli, per rassicurarmene ha vuotata 
      la  sua  borsa  sulla  tavola.  Andiamo,  padre"  continuò Dantès, 
      "rimettete il vostro denaro nel tiretto,  a  meno  che  il  vicino 
      Caderousse  non  ne  abbia  a  sua volta bisogno,  nel qual caso è 
      sempre a sua disposizione." 
      "No,  giovanotto" disse Caderousse,  "non ho  bisogno  di  niente. 
      Grazie a Dio lo status mantiene l'uomo...  Conserva il tuo danaro, 
      conservalo, poiché non se ne ha mai troppo;  ciò non toglie che ti 
      sia obbligato della tua offerta,  nello stesso modo come ne avessi 
      approfittato." 
      "Era di buon cuore..."  disse  Dantès.  "Non  ne  dubito.  Ebbene, 
      eccoti dunque di bene in meglio col signor Morrel, furbo che sei!" 
      "Il  signor  Morrel ha sempre avuto molta bontà per me..." rispose 
      Dantès. 
      "In questo caso tu hai avuto torto a rifiutare il suo pranzo." 
      "Come, rifiutare il suo pranzo!" riprese il vecchio.  "Egli dunque 
      ti aveva invitato a pranzo?" 
      "Sì,  padre  mio"  riprese Edmondo sorridendo della meraviglia che 
      cagionava a suo padre l'eccessivo onore cui lo credeva soggetto. 
      "E perché dunque hai ricusato, figlio mio?" domandò il vecchio. 
      "Per ritornare più presto vicino a voi, padre" rispose il giovane, 
      "avevo fretta di vedervi." 
      "Però sarà  dispiaciuto  a  quel  buon  uomo  del  signor  Morrel" 
      soggiunse  Caderousse;  "quando uno aspira a divenir capitano,  ha 
      torto a non fare la corte al suo armatore." 
      "Gli ho spiegato la causa del mio rifiuto" rispose Dantès, "e sono 
      certo che l'ha intesa." 
      "Ah,  per diventar capitano bisogna  accarezzare  un  poco  più  i 
      padroni." 
      "Spero diventar capitano anche senza di ciò." 
      "Tanto  meglio,  tanto  meglio;  ciò  farà  piacere ai tuoi vecchi 
      amici.  So che vi è qualcuno laggiù  dietro  alla  cittadella  San 
      Nicola che ne sarà molto contento." 
      "Mercedes?" disse il vecchio 
      "Sì,  padre mio" disse Dantès,  "e col vostro permesso, ora che vi 
      ho veduto,  e so che  voi  state  bene,  e  avete  tutto  ciò  che 
      abbisogna,  vi  chiederei  il  consenso  di  fare  una  visita  ai 
      Catalani." 
      "Va', figlio mio, va'" disse il vecchio Dantès, "e Dio benedica te 
      nella tua donna, come benedisse me nel figlio!" 
      "Sua donna?"  disse  Caderousse.  "Voi  andate  tropp'oltre,  papà 
      Dantès; non lo è ancora, io credo." 
      "No" rispose Edmondo, "ma non tarderà molto a divenirlo." 
      "Non  importa,  non  importa" disse Caderousse,  "hai fatto bene a 
      spicciarti." 
      "E perché?" 
      "Perché Mercedes è una bella  ragazza,  e  le  belle  ragazze  non 
      mancano  d'innamorati,  quella  particolarmente!  La  seguivano  a 
      dozzine!" 
      "Davvero!" disse Edmondo con  un  sorriso,  sotto  cui  traspariva 
      un'ombra d'inquietudine. 
      "Oh sì!" rispose Caderousse.  "E anche bei partiti! Ma capisci tu? 
      Diventa capitano e si guarderà bene dal rifiutarti." 
      "Ciò equivale  a  dire"  disse  Dantès  con  un  sorriso  che  mal 
      dissimulava  la  sua  inquietudine,  "che  se  io  non  diventassi 
      capitano..." 
      "Eh! eh!" esclamò Caderousse. 
      "Andiamo, andiamo" disse il giovane,  "io ho migliore opinione che 
      voi delle donne in generale,  e di Mercedes in particolare, e sono 
      convinto che,  diventi o no capitano,  lei mi  resterà  ugualmente 
      fedele." 
      "Tanto  meglio!  Tanto  meglio!" disse Caderousse.  "E' sempre una 
      buona cosa che i giovani quando si maritano siano forniti di buona 
      fede; ma non serve, credimi Dantès,  non perdere tempo nell'andare 
      ad  annunziarle  il  tuo  arrivo,  e  a metterla a parte delle tue 
      speranze." 
      "Vado" disse Edmondo. 
      Abbracciò suo padre,  salutò con un moto  di  testa  Caderousse  e 
      partì. 
      Caderousse  restò  ancora un istante,  poi,  prendendo congedo dal 
      vecchio Dantès, discese a sua volta e andò a raggiungere Danglars, 
      che lo aspettava all'angolo della rue Senac. 
      "Ebbene" disse Danglars, "l'hai veduto?" 
      "L'ho lasciato ora." 
      "Ti ha parlato della sua speranza di divenir capitano?" 
      "Egli ne parla come se lo fosse già." 
      "Pazienza, pazienza!" disse Danglars.  "Mi sembra che si solleciti 
      troppo." 
      "Diavolo!  Sembra che il posto gli sia stato promesso dallo stesso 
      signor Morrel." 
      "Perciò sarà molto contento." 
      "Cioè,  è molto insolente.  Mi ha già offerti i suoi servizi  come 
      fosse un personaggio d'importanza; mi ha offerto inoltre denaro in 
      prestito, come fosse un banchiere." 
      "E tu avrai rifiutato." 
      "Certamente,  quantunque  avessi  potuto  accettare,  giacché sono 
      stato io che gli ho messo fra le mani le prime monete bianche  che 
      ha  toccato;   ma  ora  Dantès  non  avrà  più  bisogno  d'alcuno, 
      diventando capitano." 
      "Baie!" disse Danglars. "Non lo è ancora." 
      "In fede mia sarebbe una  bella  cosa  non  lo  fosse  più"  disse 
      Caderousse,  "altrimenti  non  vi  sarebbe  più  modo  di potergli 
      parlare." 
      "Se non lo vogliamo veramente" disse Danglars, "resterà ciò che è, 
      e forse diventerà ancora meno di quello che è." 
      "Che dici tu?" 
      "Niente, parlo a me stesso. E sempre innamorato della catalana?" 
      "Innamorato pazzo;  è andato da lei.  Mi  sbaglierò  ma  avrà  dei 
      dispiaceri da quella parte." 
      "Spiegati." 
      "A che serve." 
      "E'  più  importante  di  quello che credi.  Tu non ami certamente 
      Dantès." 
      "Io non amo gli arroganti." 
      "Ebbene, dimmi allora ciò che sai relativamente alla catalana." 
      "Non so niente di positivo soltanto ho veduto cose  che  mi  fanno 
      credere,   come  ti  dicevo,  che  il  futuro  capitano  avrà  dei 
      dispiaceri nei dintorni delle Vecchie Infermerie." 
      "Che hai visto? Via, dimmelo." 
      "Ebbene,  ho visto che tutte le volte che Mercedes entra in città, 
      è  sempre  accompagnata  da un robusto e minaccioso catalano cogli 
      occhi neri, la pelle rossa, molto scuro,  ardentissimo,  e che lei 
      chiama mio cugino." 
      "Ah, veramente, e credi che questo suo cugino le faccia la corte?" 
      "Lo suppongo.  Che diavolo vuoi che faccia un giovanotto di ventun 
      anni con una bella ragazza di diciassette?" 
      "E dici che Dantès è andato ai Catalani?" 
      "E' uscito da casa sua poco prima di me." 
      "Se andiamo dalla medesima parte ci  fermeremo  all'osteria  della 
      Riserva di papà Panfilo, e bevendo un bicchiere di vino di Malaga, 
      attenderemo notizie." 
      "E chi ce le porterà?" 
      "Staremo  sulla  sua strada,  e vedremo sul viso di Dantès ciò che 
      sarà avvenuto." 
      "Andiamo..." disse Caderousse. "Ma sei tu che paghi?" 
      "Certamente..." rispose Danglars. 
      E tutti e due s'incamminarono con  passo  rapido  verso  il  luogo 
      indicato. 
      Giunti là si fecero portare una bottiglia e due bicchieri. 
      Papà  Panfilo  aveva  veduto  passare Dantès,  che non erano dieci 
      minuti. 
      Certi che Dantès era ai Catalani,  si assisero  tra  i  banchi  di 
      verdura ai piedi delle piante di sicomori;  sui rami una scherzosa 
      quantità di uccelli salutava i primi giorni della primavera. 
 
 
 
 
                                 Capitolo 3. 
                                 I CATALANI. 
 
 
      A cento  passi  dal  luogo  dove  i  due  amici,  con  lo  sguardo 
      all'orizzonte e l'orecchio all'erta,  vuotavano lo spumoso vino di 
      Lamalgue,  s'innalzava,  dietro un monticello nudo ed arido per il 
      sole e per il maestrale, il piccolo villaggio dei Catalani. 
      In un bel giorno, una colonia misteriosa partì dalla Spagna, venne 
      ad approdare alla lingua di terra che abita anche oggigiorno. 
      Giungeva non si sa da dove, e parlava una lingua sconosciuta. 
      Uno  dei  capi,  che capiva il provenzale,  domandò alla Comune di 
      Marsiglia di ceder loro quel promontorio nudo  ed  arido,  su  cui 
      essi avevano,  come gli antichi marinai,  ritirati i loro navigli. 
      La loro domanda fu accordata,  e  tre  mesi  dopo  si  elevava  un 
      piccolo  villaggio  attorno  ai  dodici  o quindici bastimenti che 
      erano stati tirati a terra da questi zingari. 
      Il villaggio,  costruito in modo bizzarro e pittoresco,  di  stile 
      metà moresco, metà spagnolo, è quello oggi abitato dai discendenti 
      di quegli uomini, che parlano ancora la lingua dei loro padri. 
      Dopo  tre  o  quattro  secoli  essi  sono  rimasti fedeli a questo 
      piccolo promontorio, in cui si erano imbattuti, come uno stormo di 
      uccelli di mare,  senza mischiarsi alla  popolazione  marsigliese, 
      maritandosi  fra  di loro,  e conservando usi e costumi della loro 
      madre patria, come ne hanno conservata la favella. 
      I nostri lettori  ci  seguano  attraverso  una  strada  di  questo 
      villaggio ed entrino con noi in una di queste case,  alle quali il 
      sole fuori ha  dato  il  bel  colore  di  foglia  secca,  come  ai 
      monumenti  del  paese,  e  dentro uno strato di tinta gialla,  che 
      forma l'unico ornamento delle Posadas spagnole. 
      Una bella ragazza coi  capelli  neri  come  l'ebano,  cogli  occhi 
      vellutati come quelli della gazzella,  stava ritta e appoggiata ad 
      un assito sfrondando tra le sue dita  profilate  come  un  disegno 
      antico, un'innocente erica di cui strappava i fiori, le fronde già 
      sparse  sul terreno;  le sue braccia nude fino al gomito,  braccia 
      bronzine ma  che  sembravano  modellate  su  quelle  della  Venere 
      d'Arles, fremevano con impazienza febbrile, e lei batteva la terra 
      col piede agile e curvato,  in modo da fare apparire la forma pura 
      e superba della gamba,  serrata da un calza  di  cotone  rosso  ad 
      angoli grigi e azzurri. 
      A tre passi da lei, sopra una cassa che dondolava con un movimento 
      rozzo,  appoggiando il gomito ad un vecchio mobile tarlato,  stava 
      un robusto giovane di venti ventidue anni,  che  la  guardava  con 
      un'aria  da cui si capiva l'interno contrasto tra l'inquietudine e 
      il dispetto.  I suoi occhi interrogavano;  ma lo sguardo  fermo  e 
      fisso della ragazza dominava il suo interlocutore. 
      "Vediamo, Mercedes" diceva il giovane, "fra poco sarà Pasqua, ecco 
      un epoca propizia ad un matrimonio." 
      "Vi  ho risposto cento volte,  Fernando,  e bisogna per verità che 
      voi siate nemico di voi stesso, perché rinnoviate questa domanda." 
      "Ebbene, ripetetelo ancora, io ve ne supplico,  ripetetelo ancora, 
      affinché  giunga  a  crederlo;  ditemi  per la centesima volta che 
      rifiutate il mio amore,  malgrado l'approvazione di vostra  madre; 
      fatemi ben comprendere che vi prendete gioco della mia felicità, e 
      che la mia vita e la mia morte sono un nulla per voi. Ah, mio Dio! 
      Aver  sognato per dieci anni di essere vostro sposo,  Mercedes,  e 
      perdere questa speranza che era la sola meta della mia vita!" 
      "Non che abbia giammai  incoraggiata  questa  speranza,  Fernando" 
      rispose Mercedes.  "Non avete una sola lusinga a rimproverarmi,  a 
      vostro riguardo.  Vi ho sempre detto: "Io vi amo come un fratello; 
      ma  non esigete mai da me altra cosa che questa amicizia fraterna, 
      poiché il mio cuore è dato ad un altro!".  Non vi ho sempre  detto 
      ciò, Fernando?" 
      "Sì,   lo  so  bene,  Mercedes"  rispose  il  giovane,  "vi  siete 
      compiaciuta a mio riguardo del merito crudele della franchezza. Ma 
      dimenticate che esiste fra i catalani una legge sacra,  che ordina 
      di maritarsi fra loro." 
      "Voi v'ingannate,  Fernando,  non è una legge, è una consuetudine, 
      ecco tutto; e credetemi, non vi giova invocare questa consuetudine 
      in vostro favore! Siete entrato nella coscrizione,  l'arbitrio che 
      vi  lascia  non  è  che  una  semplice  tolleranza.  Da un momento 
      all'altro potete essere chiamato  al  servizio  militare,  ed  una 
      volta soldato, che farete voi di me, cioè di una povera orfanella, 
      infelice,  senza beni,  che in tutto possiede una capanna quasi in 
      rovina,  alla quale sono attaccate alcune reti  usate,  miserabile 
      eredità lasciata da mio padre a mia madre, e da mia madre a me? Da 
      un anno è morta,  pensate,  Fernando,  e io vivo quasi di pubblica 
      carità.  Qualche volta fingete che io vi sia utile,  e ciò  è  per 
      darmi il diritto di dividere la vostra pesca;  io accetto,  perché 
      siete il figlio del fratello di mio padre,  perché noi siamo stati 
      allevati assieme,  e più ancora soprattutto,  perché vi cagionerei 
      troppo dispiacere s'io rifiutassi.  Ma capisco bene che  il  pesce 
      che  vado  a  vendere e dal quale traggo il denaro per comprare la 
      canapa che filo, capisco bene, Fernando, che non è che elemosina." 
      "E che importa, Mercedes! Così povera e sola come siete mi piacete 
      assai più che la figlia del più superbo armatore,  o del più ricco 
      banchiere di Marsiglia.  A noi che abbisogna?  Una donna onesta ed 
      atta alle faccende domestiche.  Chi potrei trovar meglio di voi da 
      questo punto di vista?" 
      "Fernando"  rispose  Mercedes,  scuotendo  la  testa,  "si diviene 
      inette alle faccende domestiche e non si può garantire  di  restar 
      femmine oneste,  quando si ama un altro uomo, che non è il marito. 
      Contentatevi della mia amicizia; perché, ve lo ripeto, ciò è tutto 
      quanto posso promettervi,  ed io  non  prometto  che  quanto  sono 
      sicura di mantenere." 
      "Sì, lo comprendo, voi sopportate pazientemente la vostra miseria, 
      ma  avete  paura della mia.  Ebbene,  Mercedes,  amato da voi,  io 
      tenterò la fortuna;  voi mi porterete felicità,  ed  io  diventerò 
      ricco.  Posso  estendere il mio stato di pescatore,  posso entrare 
      come commesso in un banco, posso diventare negoziante." 
      "Voi non potete tentar niente di tutto ciò,  Fernando,  voi  siete 
      soldato,  e  se siete ancora ai Catalani è perché non vi è guerra; 
      restate dunque pescatore, non fate dei sogni, che farebbero ancora 
      più terribile  la  realtà,  e  contentatevi  della  mia  amicizia, 
      giacché io non posso darvi altro." 
      "Avete  ragione,  Mercedes,  io  sarò marinaio;  avrò,  invece del 
      costume dei padri nostri, che disprezzate, un cappello col fiocco, 
      una camicia a righe ed una  giacca  turchina  con  le  ancore  sui 
      bottoni... Non è così che bisogna essere vestito per piacervi?" 
      "Che  intendete dire?" domandò Mercedes con uno sguardo imperioso. 
      "Che intendete dire? Non vi capisco." 
      "Voglio dire, Mercedes,  che siete così inflessibile e crudele con 
      me,  perché  attendete  qualcuno  così vestito.  Ma quello che voi 
      aspettate è forse incostante;  e se non lo è,  il mare  lo  è  per 
      lui." 
      "Fernando"  esclamò  Mercedes,  "io  vi  credevo  buono  e mi sono 
      ingannata;  Fernando,  avete un cuore cattivo,  invocando ad aiuto 
      della gelosia la collera di Dio. Ebbene sì, non vi nascondo nulla, 
      aspetto,  ed amo colui che dite,  e s'egli non ritorna,  invece di 
      accusarlo di incostanza dirò che è morto amandomi." 
      Il giovane Catalano fece un gesto di rabbia. 
      "Vi capisco, Fernando,  vi rivarreste su di lui perché non vi amo, 
      voi  incrocereste  il coltello catalano col suo pugnale.  Ma a che 
      servirebbe? A perdere la mia amicizia se rimaneste vinto,  a veder 
      cambiarsi  in  odio  la mia amicizia se vincitore.  Credetemi,  il 
      muovere contesa con un uomo è un cattivo mezzo  per  piacere  alla 
      donna  che  ama  quest'uomo.  No,  Fernando,  voi non vi lascerete 
      trasportare da così perversi pensieri;  se non mi potete avere  in 
      moglie,  vi  contenterete  di avermi amica e sorella.  D'altronde" 
      soggiunse commossa e cogli occhi bagnati di  lacrime,  "aspettate, 
      aspettate,  Fernando, voi lo avete detto or ora, il mare è perfido 
      e sono già quattro mesi che ho contate molte burrasche!" 
      Fernando restò impassibile. 
      Non cercò di asciugare le lacrime che scorrevano sulle  guance  di 
      Mercedes,  anche  se  avrebbe  dato  una libbra del suo sangue per 
      ciascuna di quelle lacrime che scorrevano per un altro.  Si  alzò, 
      fece un giro nella capanna,  ritornò,  si fermò davanti a Mercedes 
      coll'occhio cupo, e coi pugni fortemente serrati. 
      "Vediamo, Mercedes" disse,  "ancora una volta rispondete...  Siete 
      ben decisa?" 
      "Io  amo  Edmondo Dantès" disse freddamente la ragazza,  "e nessun 
      altro fuorché Edmondo sarà il mio sposo!" 
      "E l'amerete sempre?" 
      "Finché avrò vita!" 
      Fernando chinò la testa scoraggiato,  emise un sospiro che  sembrò 
      un gemito; poi ad un tratto alzando la fronte, coi denti serrati e 
      le narici socchiuse: 
      "Ma s'egli è morto?" disse. 
      "Se è morto, io morrò!" 
      "Ma se vi dimentica?" 
      "Mercedes"  esclamò  una voce esultante al di fuori della capanna, 
      "Mercedes!" 
      "Ah" esclamò la ragazza arrossendo di  gioia,  esultando  d'amore, 
      "tu vedi bene che non mi ha dimenticata, eccolo qua..." 
      Si slanciò verso la porta e aprì gridando: 
      "A me, a me, Edmondo, eccomi!" 
      Fernando  pallido  e  fremente indietreggiò come fa un viaggiatore 
      alla vista di un serpente,  e urtando nella  cassa  vi  ricadde  a 
      sedere. 
      Edmondo e Mercedes erano tra le braccia l'una dell'altro. 
      Il  sole  ardente  di Marsiglia che penetrava per l'apertura della 
      porta, li inondava di un torrente di luce. 
      Sulle prime non videro  niente  di  ciò  che  li  circondava,  una 
      felicità immensa li isolava da questo mondo;  non si parlavano che 
      con quelle parole tronche che  sono  lo  slancio  della  più  viva 
      gioia, e sembrano accostarsi all'espressione del dolore. 
      Ad  un  tratto  Edmondo  si  accorse della figura cupa di Fernando 
      nell'ombra,  pallida e minacciosa;  per un movimento,  di cui egli 
      stesso  non  si sarebbe forse data ragione,  il catalano teneva la 
      mano sul coltello posto alla cintura. 
      "Scusate" disse Dantès,  inarcando a sua  volta  le  sopracciglia, 
      "non avevo notato che eravamo in tre." 
      Poi volgendosi a Mercedes domandò: 
      "Chi è questo signore?" 
      "Sarà il vostro migliore amico,  giacché è il mio;  è mio cugino e 
      mio germano; è Fernando, l'uomo, che dopo voi, Edmondo, amo di più 
      su questa terra." 
      Edmondo, senza abbandonare Mercedes di cui teneva una mano, stese, 
      con un movimento di  cordialità,  l'altra  mano  al  catalano.  Ma 
      Fernando  invece di corrispondere al gesto amichevole,  restò muto 
      ed immobile come una statua. 
      Allora Edmondo  portò  il  suo  sguardo  scrutatore  da  Mercedes, 
      commossa e tremante, a Fernando cupo e minaccioso. 
      Questo solo sguardo gli fece tutto comprendere. 
      La collera salì alla sua fronte. 
      "Non  sarei  venuto con tanta fretta da voi,  Mercedes,  se avessi 
      saputo di ritrovarvi un nemico." 
      "Un nemico!" esclamò Mercedes con uno sguardo corrucciato  rivolto 
      al  cugino.  "Un  nemico  presso di me,  tu dici,  Edmondo?  Se lo 
      credessi,  ti darei subito  il  mio  braccio  e  me  ne  andrei  a 
      Marsiglia,  abbandonando  questa  casa  per non riporvi mai più il 
      piede." 
      L'occhio di Fernando ebbe un lampo. 
      "Se ti accadesse una disgrazia,  mio  Edmondo"  continuò  lei  col 
      medesimo implacabile sangue freddo,  che provava a Fernando che la 
      ragazza aveva saputo leggere fin nel profondo  dei  suoi  sinistri 
      pensieri,  "se ti accadesse qualche disgrazia, salirei sul capo di 
      Morgiou e mi getterei sugli scogli con la testa in avanti." 
      Fernando divenne spaventosamente pallido. 
      "Ma tu t'inganni,  Edmondo"  continuò  ancora,  "tu  qui  non  hai 
      nemici: qui non c'è che Fernando,  mio fratello,  che ti stringerà 
      la mano come ad un amico, di cuore." 
      A queste parole la ragazza fissò  il  suo  sguardo  imperioso  sul 
      catalano,  il  quale,  come  se  fosse stato affascinato da questo 
      sguardo, si accostò lentamente a Edmondo, e gli stese la mano. 
      Il suo odio,  pari ad  un  flutto  impotente  quantunque  furioso, 
      veniva   ad  infrangersi  contro  l'ascendente  che  questa  donna 
      esercitava su lui.  Ma appena ebbe toccata  la  mano  di  Edmondo, 
      sentì  di aver fatto tutto ciò che poteva,  e,  slanciandosi fuori 
      della capanna correndo come un insensato e intrecciandosi le  mani 
      nei capelli esclamava: 
      "Oh, chi mi libererà da quest'uomo? Me infelice! Me infelice!" 
      "Ehi, catalano! Ehi, Fernando, dove corri?" disse una voce. 
      Il  giovane  si  arresta  ad  un  tratto,  guarda  attorno  a sé e 
      riconosce  Caderousse  seduto  a  tavola  con  Danglars  sotto  un 
      pergolato di foglie di vite. 
      "Ehi!" disse Caderousse.  "Perché non vieni qui?  Hai dunque tanta 
      fretta da non avere il tempo di dire buon giorno agli amici?" 
      "Particolarmente quando hanno ancora  una  bottiglia  quasi  piena 
      davanti..." soggiunse Danglars. 
      Fernando  guardò  quei due uomini con occhi assentì  e non rispose 
      nulla. 
      "Sembra proprio stordito" disse Danglars,  urtando il ginocchio di 
      Caderousse.  "Possibile  che  ci  siamo  sbagliati,  e  che Dantès 
      trionfi in barba a quanto previsto?" 
      "Diavolo, è da vedersi!" disse Caderousse. 
      E volgendosi verso il catalano: 
      "Ebbene, ti decidi?" 
      Fernando asciugò il sudore che gli grondava  dalla  fronte,  entrò 
      lentamente sotto il pergolato,  l'ombra sembrava rendere un po' di 
      calma ai suoi sensi,  e la freschezza un poco di sollievo al corpo 
      spossato. 
      "Buon giorno" disse. "Mi avete chiamato, non è vero?" 
      E  fu  piuttosto  un  cadere che il sedersi sopra una delle panche 
      attorno alla tavola. 
      "Ti ho chiamato perché correvi come un pazzo,  e perché  ho  avuto 
      paura  che  andassi  a gettarti in mare" disse ridendo Caderousse. 
      "Che diavolo! Quando uno ha degli amici, non è soltanto per offrir 
      loro un bicchiere di vino,  ma anche per impedirgli  di  andare  a 
      bere tre o quattro pinte d'acqua." 
      Fernando mandò un gemito che sembrava un singulto, e lasciò cadere 
      la testa sopra i due pugni incrociati sulla tavola. 
      "Ebbene!  Vuoi  che  lo  dica  io,  Fernando"  riprese  Caderousse 
      intavolando la conversazione con quella  villana  brutalità  della 
      gente  del  popolo,  alla  quale  la curiosità fa dimenticare ogni 
      specie di diplomazia. "Hai l'aria di un amante sconfitto." 
      E accompagnò questo scherzo con una forte risata. 
      "Baie" intervenne Danglars,  "un giovanotto della forza di  costui 
      non  è fatto per essere disgraziato in amore;  tu ti burli di lui, 
      Caderousse." 
      "Niente  affatto"  riprese  questi.   "Non  senti  come   sospira? 
      Coraggio,  Fernando"  disse  Caderousse,  "alza  in alto il naso e 
      rispondi.  Non è cortese non rispondere agli amici  che  domandano 
      come va la salute." 
      "La mia salute va bene" disse Fernando serrando i pugni,  ma senza 
      alzar la testa. 
      "Ah,  vedi,  Danglars"  disse  Caderousse,  strizzando  un  occhio 
      all'amico,  "ecco qua come sta l'affare: Fernando, che vedi qui, e 
      che è un buono e bravo catalano,  uno dei  migliori  pescatori  di 
      Marsiglia,  è  innamorato  di  una  bella  ragazza  che  si chiama 
      Mercedes,  ma disgraziatamente sembra che  la  bella  ragazza  sia 
      innamorata  del  secondo del Faraone,  e siccome questo battello è 
      entrato oggi stesso nel porto, tu capisci?..." 
      "No, io non capisco niente" disse Danglars. 
      "Il povero Fernando avrà ricevuto il suo congedo." 
      "Ebbene?" disse Fernando alzando la testa e  guardando  Caderousse 
      come  in  cerca  di  qualcuno  con  cui  sfogare  la  sua collera. 
      "Mercedes non dipende da alcuno,  non è vero?  Dunque è libera  di 
      amare chi vuole." 
      "Ah!  Se tu la prendi così" disse Caderousse,  "è un altro affare. 
      Ti credevo un catalano,  e mi era stato detto che i  catalani  non 
      eran tali da lasciarsi soppiantare da un rivale, e mi si era fatto 
      credere che particolarmente Fernando fosse un uomo terribile nella 
      vendetta." 
      Fernando sorrise con un sorriso di pietà. 
      "Un innamorato non è mai terribile" disse. 
      "Povero  ragazzo"  riprese Danglars,  fingendo di compiangerlo dal 
      più profondo dell'anima,  "che vuoi tu?  Lui non si  aspettava  di 
      vedere ritornare Dantès così presto.  E' forse infedele,  o che so 
      io? Queste cose sono tanto più sconvolgenti quanto più ci accadono 
      ad un tratto, e all'impensata." 
      "In fede mia" disse Caderousse che beveva parlando,  e su  cui  il 
      vino  di Malaga cominciava a fare il suo effetto,  "Fernando non è 
      il solo che viene afflitto dal felice  arrivo  di  Dantès.  Non  è 
      vero, Danglars? 
      "Non importa" soggiunse Caderousse,  versando un bicchiere di vino 
      a Fernando,  e riempiendo il proprio per l'ottava o decima  volta, 
      mentre  Danglars  aveva  appena  assaggiato il suo,  "non importa, 
      frattanto egli sposa Mercedes: almeno ritorna per questo." 
      Danglars fissava uno sguardo scrutatore per scoprire il cuore  del 
      giovane,  sul  quale  le parole di Caderousse cadevano come piombo 
      liquido. 
      "E quando si faranno le nozze?" domandò 
      "Oh, non sono ancor fatte" mormorò Fernando. 
      "No,  ma si faranno" disse  Caderousse.  "Così  come  Dantès  sarà 
      capitano del Faraone. Non è così, Danglars?" 
      Danglars  rabbrividì  a  questo  colpo inatteso,  e si voltò verso 
      Caderousse di cui studiò i lineamenti  per  capire  se  era  stato 
      premeditato,  ma egli non lesse che l'invidia su quel viso fattosi 
      quasi ebete dall'ubriachezza. 
      "Ebbene" disse,  riempiendo  i  bicchieri,  "beviamo  dunque  alla 
      salute del capitano Edmondo Dantès, marito della catalana!" 
      Caderousse  portò  il bicchiere alla bocca,  e con mano pesante lo 
      tracannò in un fiato. 
      Fernando prese il suo e lo ruppe gettandolo a terra. 
      "Eh!  eh!   eh!"  disse  Caderousse.   "Cosa  vedo  sull'alto  del 
      promontorio,  laggiù,  verso i Catalani?  Guarda tu, Fernando, che 
      hai miglior vista della mia; credo di cominciare a veder doppio, e 
      tu sai che il vino è un traditore...  Si direbbe che i due  amanti 
      passeggino, tenendosi vicini vicini!" 
      "Il cielo mi perdoni! Non sanno d'esser veduti... Eccoli!" 
      Danglars  non  perdeva alcuna delle angosce che soffriva Fernando, 
      il cui viso si scomponeva palesemente. 
      "Li riconoscete, Fernando?" disse. 
      "Sì" rispose questi, con sorda voce, "sono Edmondo e Mercedes." 
      "Ah, vedete" disse Caderousse,  "li avevo riconosciuti!  Che bella 
      ragazza! E diteci quando si faranno le nozze, poiché Fernando si è 
      ostinato a non volercelo dire." 
      "Vuoi tacere" disse Danglars,  simulando di trattenere Caderousse, 
      che colla tenacia dell'ubriaco si sforzava di piegarsi  fuori  del 
      pergolato. "Cerca di tenerti dritto, e lascia gl'innamorati amarsi 
      tranquillamente.  Guarda Fernando,  e prendi esempio da lui,  è un 
      uomo ragionevole." 
      Forse Fernando, ridotto agli estremi,  e punto da Danglars come il 
      toro  dai  giostratori,  stava  per slanciarsi,  perché si era già 
      alzato e  sembrava  raccogliersi  per  scagliarsi  contro  il  suo 
      rivale,  ma Mercedes, ridente e accorta, alzò la sua bella testa e 
      fece brillare il suo limpido sguardo. 
      Allora Fernando si ricordò la minaccia che aveva fatto  di  morire 
      se Edmondo fosse morto, e ricadde scoraggiato sul suo sedile. 
      Danglars    guardò    quei    due   uomini:   l'uno   imbestialito 
      dall'ubriachezza, l'altro dominato dall'amore. 
      "Non ne caverò niente da questi imbecilli" mormorò,  "ed  ho  gran 
      paura  di  essere  qui  fra  un  ubriaco  ed un poltrone.  Ecco un 
      invidioso che si ubriaca con del vino,  mentre dovrebbe farlo  col 
      fiele;  ecco  un grande imbecille al quale vien tolta la sua bella 
      di sotto al naso,  e si contenta di piangere e di lamentarsi  come 
      un ragazzo: nonostante abbia occhi fulminanti come gli spagnoli, i 
      siciliani e i calabresi, i quali sanno vendicarsi così bene, e dei 
      pugni  che  infrangerebbero  la  testa a un bove come la mazza del 
      macellaio!  Decisamente il destino di Edmondo la vince: sposerà la 
      ragazza, sarà fatto capitano, e si riderà di noi, a meno che..." 
      Un sinistro sorriso affiorò alle labbra di Danglars. 
      "A meno che io non vi prenda parte..." soggiunse. 
      "Olà!" continuava a gridare Caderousse,  a metà alzato e coi pugni 
      sulla tavola.  "Olà,  Edmondo,  non vedi dunque gli amici,  o  sei 
      diventato già tanto superbo da non poter parlar loro?" 
      "No,  mio  caro Caderousse" rispose Dantès,  "io non sono superbo, 
      sono  felice,  e  la  felicità  acceca,  credo,  assai  più  della 
      superbia." 
      "Alla  buon'ora,  ecco  una  bella  spiegazione" disse Caderousse. 
      "Ehi! Buon giorno, signora Dantès." 
      Mercedes salutò con gravità. 
      "Questo ancora non è il mio nome" disse,  "e nel mio  paese  porta 
      cattivo augurio chiamare le ragazze col nome del fidanzato,  prima 
      che sia loro marito. Vi prego dunque di chiamarmi Mercedes." 
      "Bisogna perdonare il buon vicino" disse Dantès,  "egli si sbaglia 
      di poco." 
      "Dunque  le  nozze cadranno quanto prima,  Dantès?" disse Danglars 
      salutando i due giovani. 
      "Il più presto possibile,  signor Danglars:  oggi  si  prenderanno 
      tutti  gli accordi con mio padre,  e domani al più tardi il pranzo 
      di fidanzamento, qui alla Riserva. Spero che gli amici vi saranno, 
      e ciò vuol  dire  che  siete  invitato,  signor  Danglars,  e  tu, 
      Caderousse, non mancherai." 
      "Fernando" disse Caderousse ridendo, "sarà invitato anche lui?" 
      "Il  fratello  della mia sposa è pure mio fratello" disse Edmondo, 
      "e tanto Mercedes che io vedremmo con sommo dispiacere che egli si 
      allontanasse da noi in questa circostanza." 
      Fernando aprì la bocca per rispondere,  ma la voce gli si  estinse 
      in gola, e non poté articolar parola. 
      "Oggi gli accordi,  domani o dopo il fidanzamento!... Che diavolo! 
      Capitano, voi avete molta fretta." 
      "Danglars" rispose Edmondo sorridendo,  "vi dirò ciò che  Mercedes 
      diceva  or  ora  a  Caderousse:  non  mi date un titolo che non mi 
      appartiene... Mi porterebbe cattivo augurio." 
      "Scusate" precisò Danglars,  "dicevo semplicemente che  voi  avete 
      molta  fretta.  Che  diavolo!  Noi  abbiamo tempo;  il Faraone non 
      metterà la vela che fra tre mesi." 
      "Si ha sempre fretta di  esser  felici;  quando  uno  ha  sofferto 
      lungamente,  si  pena  a  credere alla felicità.  Ma non è il solo 
      egoismo che mi fa agire  in  tal  modo;  occorre  che  io  vada  a 
      Parigi." 
      "Ah davvero? A Parigi? E' la prima volta che ci andate, Dantès?" 
      "Sì." 
      "Vi avete degli affari?" 
      "Non  per  conto mio;  è un'ultima commissione del nostro capitano 
      Leclerc da adempiere;  voi capirete,  Danglars,  che questa è cosa 
      sacra.  D'altronde, state tranquillo, io non prenderò che il tempo 
      necessario per l'andata e il ritorno." 
      "Sì, sì capisco" disse ad alta voce Danglars, poi soggiunse fra sé 
      abbassando la voce: 
      "A Parigi, senza dubbio, per rimettere al suo indirizzo la lettera 
      che gli consegnò il Capitano. Ah,  perbacco!  Questa lettera mi fa 
      nascere  un'idea,  un'eccellente  idea,  perbacco!  Signor Dantès, 
      amico mio, non hai ancora dormito a bordo del Faraone nella cabina 
      numero 1." 
      Poi volgendosi a Edmondo che già si allontanava: 
      "Buon viaggio..." gli gridò dietro. 
      "Grazie..."  rispose  Edmondo  voltando  la  testa,  accompagnando 
      questo movimento con un gesto amichevole. 
      Quindi  i  due  innamorati  continuarono  la  loro  strada lieti e 
      tranquilli come due anime che salgono al cielo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 4. 
                                IL COMPLOTTO. 
 
 
      Danglars seguì Edmondo e Mercedes collo sguardo finché  i  due  si 
      dileguarono  per  uno  degli  angoli  della porta San Nicola;  poi 
      volgendosi s'avvide che Fernando  era  ricaduto  sulla  sua  panca 
      pallido e fremente,  mentre Caderousse balbettava le parole di una 
      canzone da osteria. 
      "Ecco qua" disse Danglars a Fernando,  "un matrimonio  che  sembra 
      non faccia la felicità di tutto il mondo." 
      "Questo è la mia disperazione." 
      "Voi dunque amate Mercedes?" 
      "Dal momento che la conobbi l'amai; l'ho sempre amata!" 
      "E  voi  state  là  a  strapparvi  i  capelli invece di cercare un 
      rimedio? Che diavolo!  Io non credevo che fosse questo il modo con 
      cui agiscono quelli della vostra razza." 
      "Che cosa volete che faccia?" domandò Fernando. 
      "E  che  so  io?  E' forse cosa che mi riguarda?  Non sono io,  mi 
      sembra, l'innamorato di Mercedes, ma voi." 
      "Io volevo pugnalar l'"hombre", ma lei mi ha detto che se avveniva 
      una disgrazia al suo fidanzato si sarebbe uccisa." 
      "Baie! Queste son cose che si dicono sempre, e non si fanno mai." 
      "Signore, voi non conoscete Mercedes: quando minaccia, esegue." 
      "Imbecille!" mormorò Danglars.  "Che lei si uccida o no a me  poca 
      importa purché Dantès non diventi capitano." 
      "E  prima che Mercedes muoia" soggiunse Fernando,  coll'accento di 
      una ferma risoluzione, "morirei io stesso." 
      "Questo si chiama amore!" disse Caderousse con  voce  avvinazzata. 
      "Se questo non è vero amore, davvero non lo so più conoscere." 
      "Vediamo"  disse Danglars,  "voi mi sembrate un gentil giovane,  e 
      vorrei, che il diavolo mi porti, togliervi d'imbarazzo, ma..." 
      "Sì, sì" disse Caderousse, "vediamo il modo." 
      "Mio caro" soggiunse Danglars,  "tu sei per  tre  quarti  ubriaco; 
      termina la bottiglia e lo sarai del tutto.  Bevi, e non mischiarti 
      di ciò che facciamo, perché bisogna aver libera la testa." 
      "Io ubriaco?" disse Caderousse. "Eh via! Io delle tue bottiglie ne 
      berrei altre quattro!  Non sono più grandi di una boccetta d'acqua 
      di  Colonia!...  Papà Panfilo,  del vino!" E per dare effetto alle 
      parole, Caderousse batté il bicchiere sulla tavola. 
      "Dunque  dicevate,  signore?"  riprese  Fernando,  aspettando  con 
      impazienza il seguito della frase interrotta. 
      "Che dicevo? Non me ne sovvengo. Questo ubriacone di Caderousse mi 
      ha fatto perdere il filo delle idee." 
      "Ubriaco  quanto  vorrai.  Tanto peggio per quelli che hanno paura 
      del vino!  Ciò perché hanno qualche cattivo pensiero e temono  che 
      il vino lo tolga dal cuore." 
      E  Caderousse  si  mise  a cantare gli ultimi versi di una canzone 
      molto in voga a quei tempi: 
 
      Acqua bevon color che fan del male: 
      N'e una prova il diluvio universale! 
 
      "Dicevate, signore" riprendeva Fernando, "che mi vorreste levar di 
      pena, ma aggiungeste..." 
      "Sì, aggiungevo che per levarvi di pena basta che Dantès non sposi 
      quella  che  voi  amate,   ed  il  matrimonio  può  benissimo  non 
      effettuarsi anche senza che Dantès muoia." 
      "La morte sola può separarli" disse Fernando. 
      "Voi  ragionate come un ragazzo,  amico mio" disse Caderousse,  "e 
      siccome Danglars è un furbo, un maligno, un greco,  vi mostrerà in 
      qual modo voi avete torto.  Provalo, Danglars, io ho garantito per 
      te.  Digli che non vi è bisogno che Dantès muoia...  D'altronde mi 
      dispiacerebbe  che  morisse,  Dantès;  è  un  buon  giovane...  io 
      l'amo... io ti amo Dantès... alla tua salute Dantès!" 
      Fernando si alzò con la massima impazienza. 
      "Lasciatelo  dire"  riprese  Danglars,  trattenendo  il  catalano, 
      "sebbene  ubriaco  non dice un grande sproposito: l'assenza separa 
      due individui tanto bene quanto la morte...  Supponete per esempio 
      che  vi  fosse fra Edmondo e Mercedes la muraglia di una prigione; 
      essi sarebbero divisi né più né meno che se vi fosse la lapide  di 
      una tomba." 
      "Sì,  ma di prigione si esce" disse Caderousse, che con gli ultimi 
      sprazzi della sua  intelligenza,  si  andava  frammischiando  alla 
      conversazione,  "e quando si esce di prigione,  e si porta il nome 
      di Edmondo Dantès, uno si vendica." 
      "Che importa!" mormorò Fernando. 
      "E poi" rispose Caderousse,  "perché  si  metterebbe  in  prigione 
      Dantès? Egli non ha né rubato, né ammazzato, né assassinato." 
      "Taci una volta!" disse Danglars. 
      "Io non voglio tacere;  pretendo che mi si dica perché si vuol far 
      mettere in prigione Dantès. Amo Dantès! Alla tua salute Dantès!" 
      E vuotò d'un fiato un altro bicchiere di vino. 
      Danglars seguì con lo sguardo i progressi dell'ubriachezza del suo 
      compagno, e volgendosi a Fernando: 
      "Ebbene, comprendete che non vi è bisogno di ucciderlo?" 
      "No certo,  se,  come voi dicevate poco fa,  si potesse trovare il 
      modo di farlo arrestare." 
      "Cercando bene" disse Danglars,  "lo si potrebbe trovare...  Ma di 
      che diavolo  vado  io  ad  immischiarmi?  E'  forse  cosa  che  mi 
      riguarda?" 
      "Non  so  se  ciò  vi  riguardi"  disse  Fernando afferrandogli un 
      braccio, "ma ciò che so è che voi avete qualche motivo particolare 
      di odio contro Dantès: chi  odia  se  stesso,  non  s'inganna  sui 
      sentimenti degli altri." 
      "Io!...  dei motivi di odio con Dantès? Nessuno, sulla mia parola! 
      Io vi ho visto infelice e la vostra  infelicità  mi  ha  commosso, 
      perciò ho preso interesse per voi,  ecco tutto. Ma dal momento che 
      voi credete che agisca per conto mio, addio,  amico caro: levatevi 
      d'imbarazzo come potete." 
      E Danglars fece atto a sua volta d'alzarsi. 
      "No"  disse  Fernando trattenendolo,  "restate;  in fin dei conti, 
      poco m'importa che voi odiate o no Dantès: io l'odio e lo confesso 
      altamente.  Trovate il mezzo ed io l'eseguo,  purché non causi  la 
      morte  dell'uomo  poiché  Mercedes  si ucciderebbe se Dantès fosse 
      ucciso." 
      Caderousse che aveva lasciato cadere la testa sul tavolo rialzò la 
      fronte e guardando Fernando e Danglars,  con occhi  appesantiti  e 
      spenti: 
      "Uccidere Dantès..." disse.  "Chi parla di uccidere Dantès? Io non 
      voglio che sia ucciso, io!... E' mio amico... Mi ha offerto questa 
      mattina di divider con me il suo denaro,  come io ho diviso il mio 
      con lui... Non voglio che si uccida Dantès!..." 
      "E  chi  ti parla di ucciderlo,  imbecille" riprese Danglars,  "si 
      parla di un semplice scherzo.  Bevi  alla  sua  salute"  soggiunse 
      riempiendogli il bicchiere, "e lasciaci tranquilli." 
      "Sì,  sì,  alla  salute  di Dantès" disse Caderousse,  vuotando il 
      bicchiere, "alla sua salute... alla sua salute... al... la..." 
      "Ma il mezzo?... Il mezzo?" disse con impazienza Fernando. 
      "Voi non lo avete ancora trovato?" 
      "No, voi ve ne siete incaricato." 
      "E' vero" rispose Danglars,  "i francesi hanno questa  superiorità 
      sopra   gli   spagnoli:  gli  spagnoli  ruminano,   e  i  francesi 
      inventano." 
      "Inventate dunque, inventate" disse Fernando con impazienza. 
      "Cameriere!" disse Danglars, "carta, penna e calamaio." 
      "Carta, penna, calamaio?" mormorò Fernando. 
      "Sì, io son scrivano computista, la penna, l'inchiostro e la carta 
      sono i miei strumenti,  e senza di questi  non  saprei  fare  cosa 
      alcuna." 
      "Carta, penna e calamaio!" gridò ad alta voce Fernando. 
      "Ecco tutto" disse il cameriere portando gli oggetti richiesti. 
      "Quando si pensa" disse Caderousse, lasciando cadere la mano sulla 
      carta,  "che  con  questa  carta  si può ammazzare un uomo con più 
      facilità  che  se  si  attendesse  all'angolo  di  un  bosco   per 
      assassinarlo.   Ho   sempre  avuto  più  paura  di  una  bottiglia 
      d'inchiostro, di una penna e di un calamaio,  che non di una spada 
      o di una pistola." 
      "Il  buffone  non  è ancora ubriaco quanto sembra" disse Danglars. 
      "Versategli dunque da bere, Fernando." 
      Fernando riempì il bicchiere di  Caderousse;  e  questi,  da  quel 
      bravo  bevitore che era,  levò la mano dalla carta,  e la portò al 
      bicchiere. 
      Il catalano  seguì  i  movimenti  fino  a  che  Caderousse,  quasi 
      sopraffatto  da  questo  nuovo  attacco,   lasciò  cadere  il  suo 
      bicchiere sulla tavola. 
      "Ebbene..." riprese il catalano, vedendo che il poco della ragione 
      che restava a Caderousse cominciava a sparire sotto l'influenza di 
      quest'ultimo bicchiere di vino. 
      "Ebbene dicevo dunque, per esempio" riprese Danglars, "che se dopo 
      un viaggio come quello che ha fatto Dantès e  in  cui  ha  toccato 
      Napoli e l'isola d'Elba, qualcuno lo denunciasse..." 
      "Lo denunzierò io" disse con vivacità il giovane. 
      "Sì,  ma allora vi si fa firmare la vostra dichiarazione,  e vi si 
      confronta con quello che avete denunciato.  Io vi  somministro  di 
      che  sostenere  la  vostra accusa,  lo so bene.  Ma Dantès non può 
      restare eternamente in prigione; un giorno o l'altro ne uscirà,  e 
      il  giorno  in  cui esce sarà terribile con quello che lo ha fatto 
      entrare." 
      "Oh, io non desidero che una cosa" disse Fernando, "che egli venga 
      a provocare un duello." 
      "Sì,  e Mercedes?  Mercedes vi prenderà  in  odio  se  voi  avrete 
      soltanto  la  disgrazia  di  scalfire  la  pelle  al  suo  diletto 
      Edmondo!" 
      "E' giusto" disse Fernando. 
      "No, no" riprese Danglars,  "se si decide una cosa simile,  vedete 
      bene,  è meglio prendere bonariamente, così come faccio io, questa 
      penna,  bagnarla nell'inchiostro e scrivere con la mano  sinistra, 
      affinché  il  carattere  non sia individuato,  la piccola seguente 
      denuncia." 
      E Danglars, unendo l'esempio all'insegnamento, scrisse con la mano 
      sinistra e con un  carattere  rovesciato,  che  non  aveva  alcuna 
      analogia  col suo carattere ordinario,  le parole che egli passò a 
      Fernando e questi lesse a mezza voce. 
 
      "Il signor Procuratore del Re è avvisato,  da un amico del trono e 
      della religione, che un tale, nominato Edmondo Dantès, secondo del 
      bastimento  il Faraone giunto questa mattina da Smirne,  dopo aver 
      toccato Napoli e Portoferraio,  fu  incaricato  da  Murat  di  una 
      lettera per l'usurpatore,  e dall'usurpatore di una lettera per il 
      Comitato bonapartista di Parigi.  Si avrà la prova del suo delitto 
      arrestandolo  poiché si troverà questa,  o nelle sue tasche,  o in 
      casa di suo padre, o nella sua cabina a bordo del Faraone." 
 
      "Alla buon'ora" continuò Danglars, "in tal modo la vostra vendetta 
      sarà attribuita alle circostanze,  e sarete sicuro che non ricadrà 
      sopra  di voi,  e la cosa andrà da sola.  Perciò non vi resterebbe 
      più che piegare la lettera come faccio io,  scriverci  sopra:  "Al 
      Procuratore del Re", e tutto sarebbe fatto." 
      E Danglars fece la soprascritta come se avesse scherzato. 
      "Sì,  tutto  sarebbe  fatto"  gridò Caderousse,  che con un ultimo 
      sforzo d'intelligenza aveva seguito la lettura,  e che comprendeva 
      per  istinto tutto il male che avrebbe potuto apportare una simile 
      denuncia. "Sì, tutto sarebbe fatto, soltanto sarebbe un'infamia." 
      Ed allungò il braccio per prendere la lettera. 
      "Per tal modo" disse Danglars,  allontanando la lettera,  "per tal 
      modo  tutto ciò che ho detto e fatto non è che uno scherzo,  ed io 
      sarei il primo ad esserne afflitto se accadesse qualche  disgrazia 
      a Dantès, a questo buon Dantès! Così osservate..." 
      Egli  prese la lettera,  la spiegazzò fra le mani e la gettò in un 
      angolo del pergolato. 
      "Alla buon'ora" disse Caderousse.  "Dantès  è  mio  amico,  e  non 
      voglio che gli si faccia del male." 
      "E  chi  diavolo  pensa  a  fargli  del male?  Certamente né io né 
      Fernando" disse  Danglars  alzandosi,  e  squadrando  il  catalano 
      rimasto  seduto,  che  non perdeva d'occhio il foglio denunciatore 
      gettato nell'angolo. 
      "In questo caso" riprese Caderousse, "che ci portino del vino,  io 
      voglio bere alla salute di Edmondo e della bella Mercedes." 
      "Tu  hai  anche troppo bevuto,  ubriacone!" disse Danglars.  "E se 
      continui sarai obbligato a dormir qui,  poiché non potrai reggerti 
      in piedi." 
      "Io!" disse Caderousse, alzandosi colla fatuità dell'uomo ubriaco, 
      "io non potrò tenermi in piedi?  Scommetto che monto sul campanile 
      degli Accoulès anche senza il bilanciere!" 
      "Sia!" disse Danglars. "Io scommetto, ma per domani; oggi è ora di 
      ritornare a casa. Dammi il braccio e andiamo." 
      "Andiamo" disse Caderousse,  "ma non ho bisogno del  tuo  braccio. 
      Vieni anche tu, Fernando? Rientri con noi a Marsiglia?" 
      "No" disse Fernando, "io ritorno ai Catalani." 
      "Tu fai male, vieni con noi a Marsiglia. vieni." 
      "Non ho da fare a Marsiglia, e non ci voglio andare." 
      "Come hai detto?  Non vieni galantuomo? Ebbene a tuo comodo. Vieni 
      Danglars,  lasciamo rientrare il giovanotto  ai  Catalani,  poiché 
      vuole così." 
      Danglars approfittò del momento di buona volontà di Caderousse per 
      trascinarlo alla volta di Marsiglia; e solo per lasciare la strada 
      più  corta  e  più  facile a Fernando,  invece di ritornare per la 
      riviera della nuova  Riva,  ritornò  per  la  porta  San  Vittore; 
      Caderousse lo seguì barcollando attaccato al suo braccio. 
      Quando  fu  ad  una  ventina  di  passi,  Danglars si voltò e vide 
      Fernando precipitarsi sul foglio e metterlo in tasca;  poi  subito 
      balzare fuori dal pergolato, e andarsene dalla parte del Pilone. 
      "Ebbene,  che  fa  dunque?"  disse Caderousse.  "Ha mentito: ci ha 
      detto che andava ai Catalani  ed  ha  voltato  dalla  parte  della 
      città. Olà! Fernando, tu ti sbagli, caro ragazzo!" 
      "Sei tu che vedi male" disse Danglars, "egli segue direttamente la 
      strada delle Vecchie Infermerie." 
      "Davvero?"  disse  Caderousse.  "Eppure  giurerei che ha voltato a 
      destra! Decisamente il vino è un traditore!" 
      "Andiamo, andiamo" mormorò Danglars, "credo che l'affare sia  bene 
      avviato e non resti altro da fare che lasciarlo progredire da sé." 
                                 Capitolo 5. 
                          IL PRANZO DI FIDANZAMENTO. 
 
 
      Il giorno dopo fu un bel giorno, il sole si alzò puro e rilucente, 
      e i suoi primi raggi di un rosso purpureo screziavano le cime  dei 
      flutti di un bel color rubino. 
      Il  pranzo  era  stato  preparato  al primo piano di quella stessa 
      Riserva col pergolato, di cui noi facemmo già conoscenza. 
      Era una gran sala illuminata da cinque o sei  finestre,  e  al  di 
      sopra di ciascuna,  senza sapersi il perché, stava scritto il nome 
      di una delle grandi città della Francia;  una  terrazza  in  legno 
      univa le finestre. 
      Quantunque  il pranzo non fosse fissato che per mezzogiorno,  fino 
      dalle undici del  mattino  questa  terrazza  era  sovraccarica  di 
      persone  che  vi  passeggiavano  con  impazienza.  Erano i marinai 
      privilegiati del Faraone e qualche amico di Dantès. 
      Tutti,  in onore del fidanzato,  erano vestiti dei  loro  migliori 
      abiti. 
      Correva voce fra i convitati del promesso sposo,  che gli armatori 
      del Faraone avrebbero onorato il fidanzamento del loro secondo. Ma 
      questo, a loro pensare,  era un onore così grande per Dantès,  che 
      nessuno osava crederci.  Però Danglars,  che giungeva in compagnia 
      di Caderousse,  confermò la notizia.  La mattina  aveva  visto  lo 
      stesso  signor  Morrel,  e  questi lo aveva assicurato che sarebbe 
      venuto a pranzo alla Riserva. 
      Difatti,  pochi momenti dopo il signor Morrel fece il suo ingresso 
      nella  sala  e fu salutato dai marinai del Faraone con un evviva e 
      unanimi applausi. 
      La presenza dell'armatore era una  conferma  della  voce  che  già 
      correva  che  Dantès  sarebbe  stato nominato capitano;  e siccome 
      Dantès era molto amato a bordo,  questa brava gente faceva  capire 
      in  tal  modo  all'armatore  che  una  volta  tanto  la nomina del 
      capitano era in armonia coi desideri dei subordinati. 
      Appena il signor Morrel fu entrato,  Danglars e Caderousse  furono 
      unanimemente incaricati di andare incontro ai fidanzati. 
      Dovevano avvertirli dell'arrivo del personaggio importante, la cui 
      venuta  aveva prodotto una così forte impressione,  e dir loro che 
      si affrettassero. 
      Danglars e Caderousse partirono di  corsa;  ma  non  ebbero  fatto 
      cento passi che scorsero la piccola compagnia che veniva alla loro 
      volta. 
      Questa piccola compagnia si componeva di quattro ragazze amiche di 
      Mercedes,  catalane come lei, che accompagnavano la fidanzata alla 
      quale Edmondo dava il braccio.  Vicino alla futura sposa camminava 
      il  vecchio  Dantès,  e  dietro loro veniva con sinistro sogghigno 
      Fernando; i poveri giovani erano così felici, che non vedevano che 
      se stessi e il bel cielo che li benediceva. 
      Danglars  e  Caderousse  disimpegnarono  la   loro   missione   di 
      ambasciatori;  quindi  dopo aver scambiato con Edmondo una stretta 
      di mano vigorosa ed amichevole, andarono, Danglars a prender posto 
      vicino a Fernando,  Caderousse a mettersi a fianco  del  padre  di 
      Dantès, centro dell'attenzione generale. 
      Il  vecchio  era  vestito  del  suo  bell'abito  di taffetà misto, 
      guarnito con larghi bottoni di acciaio tagliati a faccette. Le sue 
      gambe sottili, ma nerborute,  erano ricoperte da un magnifico paio 
      di  calze  di  cotone  operato,  di contrabbando inglese.  Dal suo 
      cappello a tre pizzi pendeva una fettuccia bianca e  turchina.  Si 
      appoggiava  sopra  un  bastone  di legno tornito e ricurvo in alto 
      come il "pedum" degli antichi.  Si sarebbe  detto  uno  di  quegli 
      zerbinotti  che  facevano  la  loro  parata  nel 1796 nei giardini 
      nuovamente riaperti del Lussemburgo e delle Tuileries. 
      Vicino a lui, come già detto, si era introdotto Caderousse, che la 
      speranza  di  un  buon  pranzo  aveva  riconciliato  con   Dantès, 
      Caderousse  al  quale  restava nella mente una vaga memoria di ciò 
      che era accaduto il giorno innanzi,  come quando nello  svegliarsi 
      la  mattina  si  ritrova  l'ombra  del  sogno che si è fatto nella 
      notte. 
      Danglars nell'avvicinarsi a Fernando aveva  gettato  sul  catalano 
      imbarazzato uno sguardo profondo. 
      Fernando  camminava dietro ai fidanzati,  completamente trascurato 
      da Mercedes, che, con quell'egoismo giovanile caro all'amore,  non 
      aveva occhi per altri che per Edmondo;  Fernando era pallido,  con 
      improvvisi rossori che lasciavano il posto a un pallore sempre più 
      crescente. 
      Ogni tanto guardava verso Marsiglia,  ed allora un tremito nervoso 
      ed  involontario  gli  scorreva  per le membra.  Fernando sembrava 
      attendere o per lo meno prevedere un qualche  avvenimento.  Dantès 
      era  vestito con semplicità.  Appartenendo alla marina mercantile, 
      aveva un abito fra l'uniforme militare ed il costume  borghese,  e 
      sotto questo abito il suo portamento, eccitato anche dalla gioia e 
      dalla bellezza della sua fidanzata, era superbo. 
      Mercedes  era  bella come una di quelle greche di Cipro o di Ceos, 
      dagli occhi d'ebano e dalle labbra di corallo. 
      Camminava col passo franco e libero delle andaluse. 
      Una ragazza di città avrebbe forse cercato di  nascondere  la  sua 
      gioia  sotto un velo o almeno sotto il velluto delle palpebre;  ma 
      Mercedes sorrideva e guardava tutto ciò che la  circondava,  e  il 
      suo   sorriso  ed  il  suo  sguardo  dicevano  francamente  quanto 
      avrebbero potuto dire le  sue  parole:  "Se  voi  mi  siete  amici 
      rallegratevi, poiché in verità io sono molto felice". 
      Dal  momento che i fidanzati e coloro che li accompagnavano furono 
      in vista della Riserva,  Morrel discese,  e avanzò verso di  loro, 
      seguito  dai  marinai e dai soldati coi quali era rimasto ed a cui 
      aveva rinnovato la  promessa,  già  fatta  a  Dantès,  che  questi 
      sarebbe succeduto al capitano Leclerc. 
      Edmondo,  vedendolo venire, lasciò il braccio della fidanzata e lo 
      cedette a Morrel. 
      L'armatore e la ragazza dettero allora l'esempio  e  salirono  per 
      primi  la scala di legno che metteva alla stanza ove era preparato 
      il pranzo.  La scala scricchiolò per cinque minuti sotto i pesanti 
      passi dei convitati. 
      "Padre mio" disse Mercedes,  fermandosi a metà della tavola,  "voi 
      starete alla mia destra,  alla sinistra porrò colui che fin qui mi 
      ha  fatto da fratello" e lo disse con una dolcezza che penetrò nel 
      più profondo del cuore di Fernando come un colpo di pugnale. 
      Le sue labbra s'incresparono e, sotto la tinta livida del suo viso 
      maschile,  si poté vedere il sangue ritirarsi a poco a  poco,  per 
      affluire al cuore. 
      Durante questo tempo Dantès aveva eseguita la stessa manovra: alla 
      sua  destra  aveva  posto Morrel,  alla sinistra Danglars;  quindi 
      aveva fatto segno con la mano che ciascuno prendesse posto  a  suo 
      piacere. 
      Già  circolavano intorno alla tavola i salami di Arles colle carni 
      brune  e  affumicate,  le  aragoste  ricoperte  della  loro  rosea 
      corazza,  i ricci di mare che sembravano castagne circondate dalla 
      loro  scorza  spinosa,   le  cappe  che  presso  i  ghiottoni  del 
      mezzogiorno  sono  valutate  più delle ostriche del nord;  e tutti 
      quei crostacei,  che i flutti gettano sulla riva sabbiosa e che  i 
      pescatori  riconoscenti  designano  col nome generico di frutti di 
      mare. 
      "Bel silenzio!" disse il vecchio, assaggiando un bicchiere di vino 
      giallo topazio,  che papà  Panfilo  in  persona  aveva  portato  a 
      Mercedes.  "Si  direbbe  che  qui  ci  sono trenta persone che non 
      desiderano altro che ridere..." 
      "Eh, un marito non è sempre allegro" disse Caderousse. 
      "Il fatto è" disse Dantès,  "che  sono  troppo  felice  in  questo 
      momento.  Se  è  così  che  voi la intendete,  caro vicino,  avete 
      ragione: la gioia qualche volta fa un effetto strano: essa opprime 
      come il dolore." 
      Danglars osservò Fernando la cui natura impressionabile riceveva e 
      rifletteva ciascuna emozione. 
      "Andiamo dunque" disse,  "avreste forse paura di qualche cosa?  Mi 
      sembra al contrario che vada tutto secondo i vostri desideri." 
      "Ed  è  precisamente  questo  che  mi spaventa" disse Dantès,  "mi 
      sembra che l'uomo non sia fatto per essere così facilmente felice. 
      La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte 
      sono guardate dai draghi, bisogna combattere per conquistarli,  ed 
      io per dir la verità non so qual merito mi abbia valso la felicità 
      di diventare il marito di Mercedes." 
      "Marito,  marito!"  disse  Caderousse ridendo,  "non ancora,  caro 
      capitano.  Provati un poco a fare da marito e tu vedrai come sarai 
      ricevuto." 
      Mercedes arrossì, Fernando si agitava sulla sedia, rabbrividiva al 
      più piccolo rumore,  e di tanto in tanto si asciugava grosse gocce 
      di sudore sulla fronte, come le prime gocce di un uragano. 
      "In fede mia" disse Dantès cavando l'orologio, "vicino Caderousse, 
      non val la pena di darmi una smentita per così poco.  Mercedes non 
      è ancora mia moglie, è vero, ma fra un'ora e mezzo lo sarà." 
      Ciascuno fece un grido di sorpresa,  eccetto il padre di Dantès il 
      cui largo riso mostrava dei denti sempre belli. 
      Mercedes sorrise e non arrossì più. 
      Fernando afferrò convulsamente il manico del suo coltello. 
      "Fra un'ora" disse Danglars impallidendo anch'egli, "e come?" 
      "Sì,  amici miei" rispose Dantès,  "grazie al credito  del  signor 
      Morrel,  l'uomo  al  quale  dopo  mio  padre io debbo più a questo 
      mondo, tutte le difficoltà furono appianate; noi abbiamo pagato le 
      pubblicazioni,  e alle due e mezzo  il  Sindaco  di  Marsiglia  ci 
      aspetta al Palazzo di città.  Essendo l'una e un quarto,  credo di 
      non essermi sbagliato dicendo  che  tra  un'ora  e  trenta  minuti 
      Mercedes si chiamerà signora Dantès." 
      Fernando  chiuse  gli  occhi;  una  nube  di  fuoco  bruciò le sue 
      palpebre,  si appoggiò alla tavola per non cadere in  deliquio,  e 
      malgrado tutti i suoi sforzi non poté ritenere un sordo gemito che 
      si   perdette   fra  il  rumore  delle  risa  e  le  felicitazioni 
      dell'assemblea. 
      "E' un bel fare,  eh?" disse il padre di Dantès.  "Vi  sembra  che 
      questo  si  chiami perder tempo?  Arrivato ieri mattina,  maritato 
      oggi! Parlatemi di marinai per andar dritti alla meta." 
      "Ma le altre formalità?" obbiettò timidamente Danglars. 
      "Il contratto"  disse  Dantès  ridendo,  "il  contratto  è  fatto. 
      Mercedes non ha niente ed io lo stesso,  noi ci maritiamo sotto il 
      regime della comunione, vedete che questo non è lungo a scrivere e 
      non sarà costoso a pagarsi." 
      Questa facezia eccitò una nuova esplosione di gioia e di evviva. 
      "Per tal modo quello che noi crediamo un pranzo  di  fidanzamento" 
      disse Danglars, "è invece un pranzo di nozze?" 
      "No" disse Dantès,  "state tranquillo,  non perdete niente. Domani 
      mattina parto per Parigi: cinque giorni per andare,  cinque giorni 
      per   tornare,   un   giorno  per  eseguire  coscienziosamente  la 
      commissione di cui sono incaricato,  e il  dodici  marzo  sono  di 
      ritorno.  Per  il dodici di marzo dunque vi aspetto al vero pranzo 
      di nozze." 
      La prospettiva di un nuovo festino raddoppiò  l'ilarità  al  punto 
      che  Dantès  padre,  che  al principio del pranzo si lamentava del 
      silenzio, faceva ora,  in mezzo alla conversazione generale,  vani 
      sforzi  per fare intendere il suo voto di prosperità in favore dei 
      promessi sposi. 
      Dantès indovinò il pensiero del padre e  rispose  con  un  sorriso 
      pieno d'amore. 
      Mercedes  cominciò  a  guardare  l'orologio  della  sala e fece un 
      piccolo segno a Edmondo. 
      Regnava intorno alla tavola quella gioia fragorosa,  propria della 
      fine  dei pranzi della gente povera.  Quelli che erano malcontenti 
      del loro posto si erano  alzati  da  tavola,  ed  erano  andati  a 
      cercare altri vicini. 
      Tutti cominciavano a parlare in una volta e nessuno si occupava di 
      rispondere  a  ciò  che  gli  domandava  il suo interlocutore.  Il 
      pallore di Fernando era  passato  quasi  eguale  sulle  guance  di 
      Danglars; in quanto a Fernando stesso non viveva più e sembrava un 
      dannato  in  un  lago  di fuoco.  Egli si era alzato tra i primi e 
      passeggiava in lungo e in largo nella sala,  cercando d'isolare il 
      suo   orecchio  dal  rumore  delle  canzoni  e  dal  toccarsi  dei 
      bicchieri.  Caderousse si  avvicinò  a  lui  nel  momento  in  cui 
      Danglars,  che egli sembrava fuggire,  lo raggiungeva in un angolo 
      della sala. 
      "In verità" disse Caderousse,  a cui il vino di papà Panfilo aveva 
      tolto  tutti  i  resti  di quell'odio di cui l'inattesa fortuna di 
      Dantès aveva gettato i germi nella sua anima, "in verità, Dantès è 
      un gentiluomo,  e quando lo guardo seduto presso la sua fidanzata, 
      mi  vado  dicendo  che  sarebbe stato veramente male fargli quella 
      cattiva burla che tramavate ieri." 
      "Tu hai veduto" disse Danglars,  "che la cosa non ha avuto nessuna 
      conseguenza.  Questo  povero  Fernando  era  così sconvolto che mi 
      aveva sulle prime fatto pena;  dal momento che ha preso il partito 
      di  essere il primo testimone alle nozze del suo rivale,  non vi è 
      più niente a ridire." 
      Caderousse guardò Fernando; era livido. 
      "Il sacrificio è tanto più grande" continuava Danglars, "in quanto 
      la ragazza è molto  bella.  Che  furbo  felice  è  il  mio  futuro 
      capitano! Io vorrei chiamarmi Dantès, solo per dodici ore." 
      "Partiamo?"  domandò la dolce voce di Mercedes.  "Suonano le due e 
      siamo aspettati alle due e un quarto." 
      "Sì, sì, partiamo" disse vivamente Dantès. 
      "Partiamo" ripeterono in coro  tutti  i  convitati.  Nel  medesimo 
      istante  Danglars  che  non  perdeva  di  vista Fernando assiso al 
      parapetto della finestra,  lo vide aprire  due  occhi  spaventati, 
      alzarsi  come per un sussulto e ricadere sul suo posto.  In quello 
      stesso momento un sordo rumore rintronò sulle scale, un fragore di 
      passi ed un mormorio di voci, confuso all'urtarsi di armi,  superò 
      le  esclamazioni  dei  convitati  per  quanto  fossero chiassose e 
      attirò l'attenzione generale,  che si manifestò in un istante  con 
      un inquieto silenzio. 
      Il  rumore  si avvicina,  tre colpi percuotono la porta,  ciascuno 
      guarda il suo vicino con sorpresa. 
      "In nome della legge!" gridò una voce, a cui nessuno rispose. 
      La porta si apri, e un commissario, cinto della sua sciarpa, entrò 
      nella sala seguito da  quattro  soldati  armati,  condotti  da  un 
      caporale. 
      L'inquietudine diede posto al terrore. 
      "Che  c'è?" domandò l'armatore,  facendosi avanti,  al commissario 
      che conosceva. "Certamente, signore, qui c'è uno sbaglio." 
      "Se c'è uno sbaglio, signor Morrel" rispose il commissario, "state 
      sicuro che lo sbaglio sarà riparato.  Frattanto sono portatore  di 
      un  mandato  di  arresto,   e,   quantunque  esegua  l'ordine  con 
      dispiacere,  sono obbligato ad eseguirlo.  Chi di  voi  si  chiama 
      Edmondo Dantès?" 
      Tutti  gli  sguardi  si  voltarono  verso il giovane,  che,  molto 
      commosso,  ma conservando la sua dignità,  fece un passo avanti  e 
      disse: 
      "Sono io, signore. Che si vuole da me?" 
      "Edmondo Dantès"" riprese il commissario, "in nome della legge voi 
      siete in arresto." 
      "Voi  mi  arrestate!"  disse  Edmondo con un leggero pallore.  "Ma 
      perché vengo arrestato?" 
      "Io, signore,  non lo so,  ma voi lo saprete certamente nel vostro 
      primo interrogatorio." 
      Morrel   capì   bene  che  non  c'era  nulla  da  fare  contro  la 
      inflessibilità della situazione,  un commissario cinto di  sciarpa 
      non è più un uomo, è l'esecutore della legge. 
      Il vecchio invece si precipitò verso l'ufficiale, vi sono cose che 
      il cuore di un padre o di una madre non capiscono mai.  Egli pregò 
      e supplicò,  ma lacrime e preghiere non ebbero alcun potere;  e la 
      sua  disperazione era così grande che il commissario ne fu persino 
      commosso. 
      "Signore" disse, "state calmo, forse vostro figlio avrà trascurato 
      qualche formalità di dogana  o  di  sanità,  e  secondo  tutte  le 
      probabilità,  allorché si saranno ricevuti da lui gli schiarimenti 
      che si desiderano, sarà messo in libertà." 
      "Che significa tutto questo?" domandò Caderousse,  aggrottando  le 
      sopracciglia, a Danglars che fingeva di esser sorpreso. 
      "Lo so io forse?" disse Danglars.  "Io son come te, guardo ciò che 
      accade, mi confondo e non ci capisco niente." 
      Caderousse cercò con gli occhi Fernando: era sparito. 
      Tutta la scena del giorno avanti si presentò allora  a  Caderousse 
      con una spaventevole chiarezza. 
      Si  sarebbe  detto  che la catastrofe veniva ad alzare il velo che 
      l'ubriachezza del giorno innanzi aveva posto  fra  lui  e  la  sua 
      memoria. 
      "Oh, oh!" diss'egli con voce rauca. "Sarebbe questa la conseguenza 
      dello scherzo di cui parlavate ieri, Danglars? In questo caso guai 
      a colui che l'avesse fatto, perché è ben tristo!" 
      "Niente  affatto" rispose Danglars,  "tu sai bene che al contrario 
      ho stracciato il foglio." 
      "Tu non l'hai stracciato" gridò Caderousse,  "tu l'hai spiegazzato 
      e gettato in un angolo, ecco tutto." 
      "Taci, tu non hai veduto nulla; tu eri ubriaco." 
      "Dov'è Fernando?" domandò Caderousse. 
      "E  che  so  io!" rispose Danglars.  "Sarà andato per i fatti suoi 
      probabilmente. Ma invece di occuparci di ciò,  andiamo piuttosto a 
      portare qualche consolazione a questi poveri afflitti." 
      Infatti,  durante  questa  conversazione,  Dantès aveva stretta la 
      mano sorridendo ai suoi amici,  e si era  costituito  prigioniero, 
      dicendo: 
      "State   tranquilli,   ben   presto   si  spiegherà  l'errore,   e 
      probabilmente non andrò neppure fino alla prigione." 
      "Oh,  sì certamente,  io ne risponderei" disse  Danglars,  che  in 
      questo momento si avvicinava, come fu detto, al gruppo principale. 
      Dantès  discese  la scala preceduto dal commissario di polizia,  e 
      circondato dai soldati. 
      Una carrozza con lo sportello  aperto  aspettava  alla  porta;  vi 
      montò,  due soldati ed il commissario di polizia montarono dopo di 
      lui. 
      Lo sportello si  chiuse,  e  la  carrozza  riprese  la  strada  di 
      Marsiglia. 
      "Addio Dantès,  addio Edmondo!" gridava Mercedes sporgendosi fuori 
      dalla terrazza. 
      Il prigioniero intese quest'ultimo grido uscito come un singhiozzo 
      dal cuore lacerato della  fidanzata;  si  sporse  dalla  portiera, 
      gridò: 
      "Arrivederci,  Mercedes!"  e scomparve dietro uno degli angoli del 
      forte San Nicola. 
      "Aspettatemi qui" disse l'armatore,  "prendo la prima carrozza che 
      incontro, corro a Marsiglia, e vi porterò sue notizie." 
      "Andate" gridarono tutte le voci, "andate e ritornate presto." 
      Dopo questa duplice partenza ci fu un momento di stupore terribile 
      che  invase  tutti coloro che erano rimasti: il vecchio e Mercedes 
      rimasero qualche tempo isolati,  ciascuno nel proprio  dolore.  Ma 
      infine  i  loro  occhi s'incontrarono,  si riconobbero due vittime 
      colpite dallo stesso colpo,  subito  si  gettarono  nelle  braccia 
      l'una dell'altro. 
      In quel momento Fernando rientrò,  versò un bicchiere d'acqua,  lo 
      bevve e andò a sedersi su una sedia.  Il caso volle che  Mercedes, 
      svincolandosi  dalle braccia del vecchio,  venisse a sedere in una 
      sedia vicina. 
      Fernando rabbrividì e con  un  movimento  affatto  istintivo  tirò 
      indietro la propria sedia. 
      "E lui" disse Caderousse a Danglars che non aveva perduto di vista 
      un momento il catalano. 
      "Non lo credo" rispose Danglars, "è troppo bestia. In ogni caso il 
      colpo ricada sulla testa di chi lo vibrò!" 
      "Tu non parli di colui che lo ha consigliato" disse Caderousse. 
      "In fede mia" disse Danglars, "se si dovesse esser responsabili di 
      tutto quello che si dice all'aria..." 
      "Sì,  allorché ciò che si dice all'aria,  ricade sulla testa di un 
      innocente." 
      Durante questo tempo gli altri  convitati,  riunitisi  in  gruppi, 
      commentavano l'arresto, ciascuno secondo la sua opinione. 
      "E  voi,   Danglars"  disse  una  voce,  "che  pensate  di  quanto 
      accaduto?" 
      "Io" disse Danglars,  "io credo che abbia portato qualche pacco di 
      merce proibita." 
      "In  questo  caso  voi  lo  avreste  dovuto  sapere,  che siete lo 
      scrivano." 
      "Sì, è vero ma lo scrivano non conosce che i colli che gli vengono 
      dichiarati. So che abbiamo un carico di cotone, ed ecco tutto; che 
      abbiamo preso il carico in Alessandria  dal  signor  Pastret  e  a 
      Smirne dal signor Pascal; e non me ne domandate di più." 
      "Oh me ne ricordo bene" mormorò il povero padre, "mi ha detto ieri 
      che aveva per me una cassa di caffè ed una di tabacco." 
      "Vedete dunque" disse Danglars, "è questo. Nella nostra assenza la 
      dogana avrà fatto una visita a bordo del Faraone,  e avrà scoperto 
      il contrabbando." 
      Mercedes non credeva niente di tutto ciò. Compresso il dolore fino 
      a quel momento, scoppiò ad un tratto in singulti. 
      "Coraggio, coraggio, speriamo!" disse il padre di Dantès. 
      "Speriamo!" ripeté Danglars. 
      "Speriamo" tentò  di  mormorare  Fernando,  ma  questa  parola  lo 
      soffocava, le sue labbra si agitarono, e non ne uscì alcun suono. 
      "Amici!"  gridò uno dei convitati che era rimasto di vedetta sulla 
      terrazza.  "Amici,  una  carrozza...  Ah!  E'  il  signor  Morrel! 
      Coraggio! Senza dubbio ci porta una buona notizia." 
      Mercedes  ed  il  vecchio  padre  corsero  verso  l'armatore,  che 
      incontrarono sulla porta; il signor Morrel era pallidissimo. 
      "Ebbene?..." gridarono ad una voce. 
      "Ebbene,  amici miei"  rispose  l'armatore,  scuotendo  la  testa, 
      "l'affare è più grave di quello che noi possiamo pensare." 
      "Oh signore" gridò Mercedes, "egli è innocente!" 
      "Lo credo" rispose Morrel, "ma è accusato..." 
      "Di che dunque?" domandò il vecchio Dantès. 
      "Di essere un agente bonapartista!" 
      Quelli  dei  lettori  che  hanno  vissuto nell'epoca di cui tratta 
      questa storia,  si ricorderanno quale terribile accusa era  allora 
      quella riferita da Morrel. 
      Mercedes gettò un grido e il vecchio si lasciò cadere sulla sedia. 
      "Ah" mormorò Caderousse, "voi mi avete ingannato, Danglars, quello 
      che  voi  chiamate  scherzo,  fu  fatto.  Ma io non voglio lasciar 
      morire di dolore questo vecchio e questa ragazza,  vado a  spiegar 
      loro ogni cosa." 
      "Taci,  disgraziato!"  esclamò  Danglars,  afferrando  la  mano di 
      Caderousse,  "o io non rispondo della tua vita.  Chi ti  dice  che 
      Dantès  non  sia  veramente colpevole?  Il bastimento si è fermato 
      all'isola d'Elba,  egli è disceso;  è rimasto un giorno  intero  a 
      Portoferraio.  Se  si  è  trovata  qualche lettera compromettente, 
      potrebbero essere definiti  suoi  complici  coloro  che  volessero 
      sostenerlo." 
      Caderousse  aveva  l'istinto rapido dell'egoismo,  e capì tutta la 
      solidità di questo ragionamento;  guardò Danglars con occhi  ebeti 
      dal timore e dal dolore, e per un passo che aveva fatto in avanti, 
      ne fece due indietro. 
      "Aspettiamo allora" mormorò. 
      "Aspettiamo"  disse  Danglars,  "se  è  innocente  sarà  messo  in 
      libertà; se è reo, è inutile compromettersi per un cospiratore." 
      "Allora partiamo, io non posso restare qui più a lungo." 
      "Sì, vieni" disse Danglars,  contento di trovare un compagno nella 
      ritirata, "vieni, e lasciamoli uscire d'impaccio come potranno." 
      Essi partirono. 
      Fernando, ridivenuto il sostegno della ragazza, prese Mercedes per 
      la  mano,  e  la  ricondusse  ai  Catalani.  Gli  amici  di Dantès 
      ricondussero il vecchio quasi svenuto ai  viali  di  Meillan.  Ben 
      presto  la  notizia  che  Dantès  era  stato arrestato come agente 
      bonapartista, si sparse per tutta la città. 
      "L'avreste creduto,  caro Danglars?" disse Morrel raggiungendo  il 
      suo computista e Caderousse, volendo rientrare in fretta in città, 
      per  avere  qualche  notizia  diretta di Edmondo dal sostituto del 
      Procuratore del Re, signor Villefort,  che egli conosceva un poco. 
      "Lo avreste mai creduto?" 
      "Diamine signore" rispose Danglars,  "io vi avevo detto che Dantès 
      non si sarebbe fermato senza un motivo all'isola d'Elba,  e questa 
      fermata, voi lo sapete, mi era sembrata sospetta." 
      "Ma  avete  detto  a  qualcuno,  oltre che a me,  di questo vostro 
      sospetto?" 
      "Me ne sarei ben guardato" soggiunse a bassa voce  Danglars,  "voi 
      sapete bene che a cagione di vostro zio,  Policarpo Morrel, che ha 
      servito sotto l'altro e che non  nasconde  il  suo  pensiero,  voi 
      siete  sospetti  di  amare  Napoleone,  e avrei avuto paura di far 
      torto ad Edmondo, non meno che a voi.  Vi sono cose,  che è dovere 
      del subordinato dire al suo armatore,  e tenere severamente celate 
      agli altri." 
      "Bene,  Danglars,  bene!" disse Morrel.  "Voi siete un  brav'uomo! 
      Così  avevo  pensato  a  voi  nel caso in cui questo povero Dantès 
      fosse divenuto capitano del Faraone." 
      "Come, signore?" 
      "Sì, avevo già domandato a Dantès cosa pensava di voi, e se avesse 
      avuto obiezioni a conservarvi il  posto;  non  so  perché  mi  era 
      sembrato scorgere qualche screzio fra voi due." 
      "E che vi ha risposto?" 
      "Che  credeva  effettivamente avere avuto,  in una circostanza che 
      non ha voluto precisare,  qualche  torto  verso  di  voi;  ma  che 
      chiunque  avesse  avuto  la  fiducia dell'armatore,  avrebbe anche 
      avuto la sua!..." 
      "Povero ragazzo" disse Caderousse,  "è un  fatto  ch'egli  era  un 
      eccellente giovane." 
      "Sì, ma frattanto" disse Morrel, "ecco il Faraone senza capitano." 
      "Oh,  bisogna  sperare,  poiché non possiamo ripartire che fra tre 
      mesi, che di qui a quell'epoca Dantès sia messo in libertà." 
      "Senza dubbio. Ma fino a quell'epoca?" 
      "Ebbene,  sino a quell'epoca,  eccomi  qua  signor  Morrel"  disse 
      Danglars. "Voi sapete che conosco il modo di tenere un bastimento, 
      quanto un capitano venuto da un lungo viaggio.  Ciò vi offre nello 
      stesso tempo il vantaggio di servirvi di me,  e,  allorché Edmondo 
      uscirà di prigione, non dovrete licenziare nessuno egli riprenderà 
      il suo posto ed io il mio." 
      "Grazie,  Danglars"  disse  l'armatore,  "ecco  difatti il modo di 
      conciliare tutto. Prendete dunque il comando,  io ve ne autorizzo, 
      e sorvegliate lo sbarco;  non bisogna mai,  per la disgrazia di un 
      individuo, che gli affari ne soffrano." 
      "State tranquillo,  signore...  Si potrà almeno  vederlo  il  buon 
      Edmondo?" 
      "Vi  risponderò  in  breve.  Vado  a cercare di parlare col signor 
      Villefort ed intercedere il suo favore per il prigioniero.  Io  so 
      bene  che è di parte regia;  ma,  che diavolo,  quantunque regio e 
      procuratore del Re, è tuttavia un uomo e non lo credo cattivo." 
      "No" disse Danglars,  "ma  ho  inteso  dire  che  è  ambizioso,  e 
      l'ambizione è molto vicina al cinismo." 
      "Infine" disse Morrel con un sospiro,  "staremo a vedere, andate a 
      bordo che vi raggiungerò in breve." 
      Ed abbandonò i due amici per prendere la  strada  del  Palazzo  di 
      Giustizia. 
      "Tu  vedi"  disse  Danglars  a  Caderousse,  "il  giro  che prende 
      l'affare: hai ancora l'intenzione di andare a difendere Dantès?" 
      "No certamente.  Ciò nonostante è una cosa assai terribile che uno 
      scherzo abbia conseguenze così tristi." 
      "Diamine!  E chi lo ha fatto?  Non siamo stati né tu né io,  non è 
      vero? Fu Fernando. Tu sai che in quanto a me ho gettato il foglio, 
      anzi credevo di averlo lacerato." 
      "No,  no" disse Caderousse,  "in quanto a ciò ne sono  sicuro:  lo 
      vedo  ancora  nell'angolo  del pergolato tutto spiegazzato,  tutto 
      accartocciato, e vorrei anzi che fosse ancora là dove mi sembra di 
      vederlo." 
      "E che vuoi farci?  Fernando lo avrà raccolto,  Fernando  lo  avrà 
      copiato o fatto copiare,  o forse non si sarà preso neppure questa 
      pena.  Ora che ci penso,  mio Dio!  Egli avrà forse mandato la mia 
      lettera. Fortunatamente però avevo cambiato il carattere." 
      "Ma tu sapevi dunque che Dantès cospirava?" 
      "Io non lo sapevo affatto.  Come ti dissi,  ho creduto di fare uno 
      scherzo e niente altro. Sembra che scherzando, come fa Arlecchino, 
      io abbia detto la verità." 
      "Tant'è" soggiunse Caderousse,  "io pagherei qualsiasi cosa purché 
      la   burla  non  fosse  accaduta,   o  almeno  per  non  essermene 
      immischiato.  Vedrai che quest'affare non può che causarci qualche 
      disgrazia." 
      "Se deve portare disgrazia a qualcuno, sarà al vero colpevole e il 
      vero  colpevole è Fernando,  non noi.  Quale disgrazia vuoi che ci 
      accada? Noi non dobbiamo che starcene cheti, e non dire una parola 
      su quanto è avvenuto;  il temporale  passerà  senza  che  cada  il 
      fulmine." 
      "Amen!" disse Caderousse,  facendo un saluto di addio a Danglars e 
      dirigendosi verso  i  viali  di  Meillan,  scuotendo  la  testa  e 
      brontolando  con se stesso,  come fanno di solito le persone molto 
      preoccupate. 
      "Bene" disse Danglars,  "le cose prendono  quell'avvio  che  avevo 
      previsto.  Eccomi  capitano provvisorio,  e se questo imbecille di 
      Caderousse sa tacere,  ben presto capitano effettivo.  Vi  sarebbe 
      dunque solo il caso che la giustizia rilasciasse Dantès.  Oh,  ma" 
      soggiunse con un sorriso,  "la giustizia  è  giustizia  ed  io  mi 
      rimetto ad essa." 
      Ciò  dicendo  saltò  in  una  barca dando ordine al battelliere di 
      portarlo a bordo del  Faraone,  dove  l'armatore  gli  aveva  dato 
      appuntamento. 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 6. 
                     IL SOSTITUTO DEL PROCURATORE DEL RE. 
 
 
      Nel  Gran Corso,  dirimpetto alla fontana delle Meduse,  in una di 
      quelle  vecchie  case  che  hanno  l'architettura   aristocratica, 
      fabbricata  da Puget si celebrava pure nello stesso giorno e nella 
      stessa ora un pranzo di fidanzamento. Solamente,  invece che gente 
      del popolo,  marinai e soldati gli invitati appartenevano alla più 
      alta società di Marsiglia. 
      Erano vecchi magistrati che avevano chiesto la dimissione dai loro 
      impieghi sotto  l'usurpatore;  vecchi  ufficiali  disertati  dalle 
      nostre  file  per passare in quelle dell'armata di Condé,  giovani 
      allevati  dalle  loro  famiglie  ancor   incerte   della   propria 
      sicurezza, malgrado i molteplici scotti che essi avevano pagato in 
      odio di quell'uomo. 
      Erano  a  tavola,  e  la conversazione volgeva ardente su tutte le 
      passioni  dell'epoca;  passioni  molto  più  terribili,   vive  ed 
      accanite nel meridione. 
      L'Imperatore,  Re dell'isola d'Elba,  dopo essere stato sovrano di 
      una parte del mondo,  regnava su una popolazione di 25 mila anime, 
      e  dopo  avere  sentito gridare "Viva Napoleone" da 120 milioni di 
      sudditi,  e in dieci lingue diverse,  era là trattato come un uomo 
      perduto  per  sempre,  per la Francia e per il trono: i magistrati 
      riaccendevano le loro contese politiche,  i militari parlavano  di 
      Mosca e di Lipsia, le donne del suo divorzio da Giuseppina. 
      A  tutta  questa gente allegra e trionfante,  sembrava,  non dalla 
      caduta dell'uomo ma dall'annientamento del principe,  che la  vita 
      ricominciasse  per  loro,  e che uscissero da un sogno penoso.  Un 
      vecchio decorato della croce di San Luigi si  alzò  e  propose  ai 
      convitati di bere alla salute di Luigi Diciottesimo: questi era il 
      Marchese  di  Saint-Méran.  A  questo brindisi che ricordava ad un 
      tempo l'esiliato di Hartwel e il pacificatore  della  Francia,  un 
      gran  numero di bicchieri si alzarono all'uso inglese;  e le donne 
      staccarono  i  loro  mazzetti  di  fiori  e  li  appuntarono  alle 
      decorazioni. Fu un entusiasmo quasi poetico. 
      "Ne  converrebbero,  se  fossero  qua" disse la Marchesa di Saint- 
      Méran,  donna  dall'occhio  secco,  con  le  labbra  sottili,   il 
      portamento  aristocratico  ed  ancora  elegante,  malgrado  i suoi 
      cinquant'anni, "ne converrebbero, tutti quelli che ci cacciarono e 
      lasciammo a nostra  volta  tranquillamente  cospirare  nei  nostri 
      vecchi  castelli,  che hanno acquistato per un tozzo di pane sotto 
      il regime del Terrore;  ne converrebbero,  che il vero  entusiasmo 
      era  dalla nostra parte,  poiché noi ci attaccavamo alla monarchia 
      che crollava,  mentre  essi,  al  contrario,  salutavano  il  sole 
      nascente  che  faceva la loro fortuna perdendo la nostra;  essi ne 
      converrebbero,  che il  nostro  Re  era  per  noi  il  vero  Luigi 
      prediletto,  mentre il loro usurpatore non è stato per loro che il 
      Napoleone maledetto, non è vero, Villefort?" 
      "Che dite,  signora Marchesa?"  disse  il  giovane  al  quale  era 
      rivolta   questa  domanda.   "Perdonatemi,   io  non  badavo  alla 
      conversazione." 
      "Eh, lasciate in pace questi ragazzi, Marchesa" riprese il vecchio 
      che aveva proposto il brindisi,  "questi giovani debbono  sposarsi 
      fra  poco,  e  naturalmente  hanno  tutt'altro  da  parlare che di 
      politica." 
      "Vi chiedo perdono, madre mia" disse una bella ragazza dai capelli 
      biondi,  "io vi rendo Villefort,  che  avevo  accaparrato  per  un 
      istante. Signor Villefort, mia madre vi parla..." 
      "Ed  io  son  pronto  a rispondere alla signora,  se vuol avere la 
      bontà di rinnovarmi la domanda che io non ho bene inteso." 
      "Vi si perdona,  Renata" disse la  Marchesa,  con  un  sorriso  di 
      tenerezza  che  faceva  meraviglia veder comparire su quella secca 
      figura, ma il cuore della donna è così fatto, che per quanto arido 
      divenga al soffio dei pregiudizi o alle  esigenze  dell'etichetta, 
      ha  sempre  un  angolo  fertile  e  ridente ed è quello che Dio ha 
      consacrato all'amore materno.  "Dicevo dunque,  Villefort,  che  i 
      bonapartisti  non  avevano né la nostra convinzione,  né il nostro 
      entusiasmo, né il nostro attaccamento a tutta prova." 
      "Oh,  signora,  essi hanno almeno qualche cosa che compensa  tutto 
      ciò!  Per loro, Napoleone è il Maometto dell'Occidente; egli è per 
      questi  uomini  volgari,  ma  di  somma  ambizione,  non  solo  un 
      legislatore ed un padrone, ma anche un modello..." 
      "Di che?" esclamò la Marchesa. "Napoleone un modello! E che direte 
      dunque di Robespierre?  Mi sembra che gli rubiate il suo posto per 
      darlo al Corso, e questa mi sembra una grossa usurpazione." 
      "No,  signora,  io lascio sul suo piedistallo  Robespierre,  nella 
      piazza  di Luigi Quindicesimo,  sul suo patibolo;  Napoleone nella 
      piazza Vendome,  sulla  sua  colonna.  Ciò  però  non  vuol  dire" 
      aggiunse  Villefort,  sorridendo,  "che  tutti e due non siano due 
      infami rivoluzionari,  che il 9 termidoro e il 4 aprile  1814  non 
      siano  due  giorni  felici  per  la  Francia,  e  degni  di essere 
      ugualmente festeggiati dagli amici dell'ordine e della  monarchia; 
      ma ciò spiega ugualmente come Napoleone,  caduto per non rialzarsi 
      mai più, sia ancor ricordato. Ma che volete,  Marchesa,  Cromwell, 
      che  non  era neppure la metà di ciò che è stato Napoleone,  aveva 
      anch'egli degli amici!" 
      "Sapete che ciò che dite, Villefort,  puzza di rivoluzione lontano 
      una  lega?  Ma  vi  perdono:  è  impossibile  esser  figlio  di un 
      girondino, e non conservare qualche rispetto per il Terrore." 
      Un vivo rossore passò sulla fronte di Villefort. 
      "Mio padre era girondino,  signora" diss'egli,  "è  vero;  ma  mio 
      padre  non  ha  dato il suo voto per la morte del Re;  mio padre è 
      stato proscritto da quello  stesso  Terrore  che  proscriveva  voi 
      pure,  e poco è mancato che non portasse la sua testa sullo stesso 
      patibolo dove cadde quella di vostro padre." 
      "Sì" disse  la  Marchesa  senza  che  questo  sanguinoso  pensiero 
      portasse la minima alterazione alla sua fisonomia,  "solamente era 
      per principi diametralmente opposti che vi sarebbero saliti  tutti 
      e  due;  e  la  prova  è  che  tutta  la  sua  famiglia  è rimasta 
      affezionata  ai  principi  esiliati,  mentre  vostro  padre  si  è 
      affrettato  ad  accomodarsi col nuovo governo,  e che il cittadino 
      Noirtier,  dopo  essere  stato  girondino,  divenne  il  conte  di 
      Noirtier senatore." 
      "Madre mia,  madre mia" disse Renata, "voi sapete che fu convenuto 
      che non si sarebbe giammai parlato di questi cattivi ricordi." 
      "Signora" rispose Villefort,  "io  mi  unisco  alla  signorina  di 
      Saint-Méran per domandarvi umilmente l'oblio del passato. Con qual 
      vantaggio  recriminare  su cose davanti a cui la stessa volontà di 
      Dio è impotente? Dio può cambiare l'avvenire; egli stesso però non 
      può modificare il passato. Ciò che possiamo noi mortali è,  se non 
      rinnegarlo,  almeno gettarvi sopra un velo.  Ebbene io non solo mi 
      sono diviso dalle opinioni di mio padre,  ma anche dal  suo  nome. 
      Mio  padre  è  stato,  e  forse  è ancora bonapartista e si chiama 
      Noirtier;  io sono regio,  e mi chiamo Villefort.  Lasciate morire 
      nel  vecchio  tronco  un  relitto  rivoluzionario,  e  non badate, 
      signora, al ramo che si allontana da questo tronco,  senza potere, 
      e dirò quasi senza volere, staccarsene del tutto." 
      "Bravo Villefort" disse il Marchese,  "bravo!  Bella risposta!  Ho 
      sempre predicato alla Marchesa la dimenticanza del  passato  senza 
      averla mai potuta ottenere;  spero che voi sarete più fortunato di 
      me." 
      "Sì,  sta bene" disse la Marchesa,  "dimentichiamo il passato,  io 
      non  domando di meglio,  ciò è convenuto;  ma che almeno Villefort 
      sia inflessibile per l'avvenire. Non dimenticate,  Villefort,  che 
      noi  abbiamo garantito di voi a Sua Maestà,  e che il Re stesso ha 
      voluto dimenticare tutto,  dietro le nostre raccomandazioni,  come 
      io  dimentico  tutto  alla  vostra  preghiera."  Così  dicendo gli 
      stendeva la mano.  "Soltanto  se  vi  cade  fra  le  mani  qualche 
      cospiratore,  pensate che si hanno gli occhi aperti su voi;  tanto 
      più,  in quanto si sa che voi siete di una famiglia  che  non  può 
      essere in relazione alcuna con tal gente." 
      "Purtroppo,  signora"  disse  Villefort,  "la  mia professione,  e 
      soprattutto il tempo in cui viviamo, mi ordinano di essere severo, 
      e lo sarò.  Ho già avuto qualche accusa politica da  sostenere,  e 
      sotto questo rapporto ho dato le mie prove. Disgraziatamente però, 
      noi non siamo ancora alla fine." 
      "Voi lo credete?" disse la Marchesa. 
      "Ne  ho  timore.  Napoleone  all'isola d'Elba è troppo vicino alla 
      Francia,  la sua  presenza  quasi  in  vista  delle  nostre  coste 
      risveglia  la  speranza nei suoi partigiani.  Marsiglia è piena di 
      ufficiali a mezza paga,  che tutti i giorni sotto qualche  frivolo 
      pretesto  cercano  contesa coi regi.  Di qui duelli fra le persone 
      della classe  elevata,  di  là  gli  assassini  nella  classe  del 
      popolo." 
      "A proposito" disse il conte de Servieux,  vecchio amico di Saint- 
      Méran e ciambellano del conte Artois,  "voi sapete  che  la  Santa 
      Alleanza lo leverà di là." 
      "Sì, si è tenuto discorso su questo argomento quando siamo entrati 
      in Parigi" disse Saint-Méran. "Ma dove lo manderanno?" 
      "A Sant'Elena." 
      "A Sant'Elena? Che cosa è?" disse la Marchesa. 
      "Un'isola situata a duemila leghe da noi,  al di là dell'Equatore" 
      rispose il Conte. 
      "Alla buon'ora! E una gran follia aver lasciato un simile uomo fra 
      la Corsica, dov'è nato, e Napoli." 
      "Disgraziatamente" disse Villefort,  "noi abbiamo i  trattati  del 
      1814,  e  non  si  può  toccare  Napoleone senza infrangere questi 
      trattati..." 
      "Ebbene,  s'infrangeranno" disse de Servieux.  "Vi ha lui guardato 
      tanto  per  il sottile quando si trattò di far fucilare l'infelice 
      duca d'Enghien?" 
      "Sì" disse la Marchesa,  "è stabilito,  la Santa Alleanza libererà 
      l'Europa  da  Napoleone,  e  Villefort libererà Marsiglia dai suoi 
      partigiani. Il Re, o regna o non regna...  Se regna il suo governo 
      dev'essere  forte  e  i suoi agenti inflessibili: questo è il solo 
      mezzo per prevenire il male." 
      "Disgraziatamente,  signore" disse Villefort,  "un  sostituto  del 
      Procuratore  del  Re giunge sempre quando il male è fatto.  Allora 
      sta a lui ripararlo.  Potrei aggiungere ancora,  signora,  che noi 
      non ripariamo il male, ma soltanto lo vendichiamo." 
      "Oh, signor Villefort" disse una bella giovane figlia del conte de 
      Servieux e amica di Renata,  "cercate dunque di farci avere un bel 
      processo fino a che noi saremo a Marsiglia;  io non ho mai  veduto 
      una  seduta al tribunale e mi si dice che sia una cosa molto bella 
      e curiosa!" 
      "Curiosissima davvero,  signorina" disse il sostituto,  "perché in 
      luogo di una finta tragedia si rappresenta un dramma vero e reale; 
      in luogo di dolori rappresentati,  sono dolori sentiti. Quell'uomo 
      che si vede là,  invece di ritornare a casa  sua  dopo  calato  il 
      sipario,  di  andare  a  cena  con  la sua famiglia,  e di dormire 
      tranquillamente,  per rappresentare all'indomani la stessa  scena, 
      rientra  in  prigione  dove trova il più delle volte il carnefice. 
      Vedete bene che per le persone eccitabili che cercano emozioni non 
      vi è spettacolo che possa paragonarsi a questo;  state tranquilla, 
      signorina,  se la circostanza si presenterà, proverò la verità del 
      mio asserto." 
      "Ci fa rabbrividire... ed egli ride!" disse Renata, impallidendo. 
      "Che volete" riprese Villefort,  "questo è un duello...  Io ho già 
      ottenuto  cinque  o  sei  volte  la  pena  di  morte contro alcuni 
      accusati politici... Ebbene,  chissà quanti pugnali a quest'ora si 
      arrotano nelle tenebre o sono già diretti sopra di me!" 
      "Oh,  mio  Dio"  disse Renata,  impallidendo sempre più,  "parlate 
      seriamente, Villefort?" 
      "Non si può parlare più seriamente,  signorina" rispose il giovane 
      magistrato con un sorriso sulle labbra. "E con questi bei processi 
      che  la signorina desidera per soddisfare la sua curiosità,  e che 
      io bramo per soddisfare la mia ambizione, la situazione delle cose 
      non  farà  che  peggiorare.  Tutti  questi  soldati  di  Napoleone 
      abituati  ad  andar  come ciechi incontro alle pallottole nemiche, 
      credete voi che ci penseranno due volte a bruciare una  cartuccia, 
      o a marciare a passo di carica colla baionetta abbassata?  Credete 
      voi che ci penseranno due volte di più ad  uccidere  un  uomo  che 
      credono  loro  nemico  personale,  che  ad  uccidere un russo,  un 
      tedesco o un ungherese che essi non hanno mai  veduto?  D'altronde 
      bisogna ammetterlo,  altrimenti non vi sarebbe punto di difesa. Io 
      stesso,  quando vedo luccicare nell'occhio dell'accusato il  lampo 
      luminoso  della rabbia,  mi esalto tutto e m'incoraggio: non è più 
      un processo,  ma un combattimento;  io lotto contro di  lui,  egli 
      risponde; io raddoppio il combattimento che finisce come tutti gli 
      altri,  o  con  una vittoria o con una sconfitta.  Ecco ciò che si 
      chiama  dibattimento!  E'  il  pericolo  che  fa  l'eloquenza.  Un 
      accusato  che  sorride dopo una mia replica mi fa conoscere che ho 
      parlato male;  e ciò  che  ho  detto  è  snervato,  senza  vigore, 
      insufficiente;  immaginate  dunque  quale dev'essere la sensazione 
      d'orgoglio  di  un  procuratore  del  Re  convinto   della   reità 
      dell'accusato,  allorquando  vede  avvilirsi ed annientarsi il reo 
      sotto il peso delle prove e sotto i fulmini della  sua  eloquenza! 
      Quella testa si abbassa, dunque cadrà." 
      Renata gettò un leggero grido. 
      "Ecco ciò che si chiama saper parlare" disse uno dei convitati. 
      "Ecco  l'uomo  che  ci abbisogna in tempi come i nostri!" disse un 
      altro. 
      "Così" disse un terzo,  "nel  vostro  ultimo  affare,  voi  sarete 
      rimasto  superbo,  mio caro Villefort.  Parlo di quell'uomo che ha 
      ucciso suo padre.  Ebbene alla lettera voi lo avete  ucciso  prima 
      che il carnefice lo toccasse." 
      "Oh,  per  i parricidi" disse Renata,  "poco importa,  non vi sono 
      supplizi abbastanza grandi per tal razza di gente, ma gli infelici 
      accusati politici!..." 
      "Gli accusati politici!" esclamò la Marchesa.  "E'  ancor  peggio; 
      perché  il  Re  è  padre  della  nazione,  e  volere rovesciare od 
      uccidere il Re è lo stesso che volere  uccidere  il  padre  di  32 
      milioni di uomini." 
      "Oh,  non è lo stesso!  Villefort" disse Renata, "mi promettete di 
      avere indulgenza per quelli che vi raccomanderò?" 
      "State tranquilla" disse Villefort con un sorriso affettuoso, "noi 
      faremo assieme le nostre requisitorie." 
      "Cara mia" disse la Marchesa,  "occupatevi dei vostri  pizzi,  dei 
      vostri aghi,  dei vostri nastri, e lasciate il vostro futuro sposo 
      disimpegnare il suo ufficio. Oggigiorno le armi sono in riposo,  e 
      la toga è in credito; vi è a questo proposito un motto latino." 
      "Codant arma togo" interruppe inchinandosi Villefort. 
      "Io avrei preferito che voi foste stato un medico" rispose Renata: 
      "l'angelo  sterminatore,  per  quanto  sia  un  angelo,  fa sempre 
      paura." 
      "Buona Renata!" mormorò Villefort, accarezzando la giovane con uno 
      sguardo d'amore. 
      "Figlia mia" disse il Marchese, "Villefort sarà il medico morale e 
      politico  di  questa  provincia,  questa  è  una  bella  parte  da 
      rappresentare, credetemi." 
      "E sarà un mezzo per far dimenticare la parte che ha rappresentato 
      suo padre" soggiunse l'incorreggibile Marchesa. 
      "Signora"  riprese  Villefort,  con  un mesto sorriso,  "ho di già 
      avuto l'onore di dirvi che mio padre aveva, spero almeno, abiurati 
      gli errori del tempo passato,  che era divenuto un  amico  zelante 
      della religione e dell'ordine, migliore forse di me stesso, poiché 
      lo è stato con pentimento, ed io non lo sono che con passione." 
      E   dopo   questa   frase   ampollosa  Villefort,   per  giudicare 
      dell'effetto della sua  facondia,  girò  intorno  lo  sguardo  sui 
      convitati,  come  dopo  una  frase  equivalente  avrebbe  guardato 
      l'uditorio dal suo seggio in tribunale. 
      "Ebbene,  mio caro Villefort" disse il Conte Servieux,  "è appunto 
      ciò che io risposi l'altro giorno alle Tuileries al ministro della 
      casa  del Re,  che mi domandava conto di questa singolare alleanza 
      tra il figlio  di  un  girondino  e  la  figlia  di  un  ufficiale 
      dall'armata di Condé e il ministro l'ha inteso molto bene.  Questo 
      sistema di fusione è pur quello di Luigi Diciassettesimo.  Così il 
      Re,   che  senza  che  noi  lo  sapessimo,   ascoltava  la  nostra 
      conversazione c'interruppe dicendo: "Villefort" notate bene che il 
      Re non ha pronunziato  il  nome  Noirtier  anzi  ha  insistito  al 
      contrario  su quello di Villefort,  "Villefort" ha dunque detto il 
      Re,  "farà una bella carriera;  è un giovane già maturo e che è di 
      mio  genio.  Ho visto con piacere che il Marchese e la Marchesa di 
      Saint-Méran lo prendono  per  genero  ed  avrei  loro  consigliata 
      questa  alleanza  io  stesso,  se essi non fossero stati i primi a 
      chiedermi il permesso di contrarla"." 
      "Il Re ha detto questo?" esclamò con entusiasmo Villefort. 
      "Io ho riferito le sue stesse parole e,  se il Marchese vuol esser 
      sincero,  vi  confesserà che ciò che ho riferito in questo momento 
      combina perfettamente con quanto il Re disse  a  lui  stesso,  son 
      circa sei mesi,  quando gli parlò di un progetto di matrimonio fra 
      sua figlia e voi." 
      "Sì, è vero" disse il Marchese. 
      "Ah,  dunque io dovrò tutto a quest'ottimo  Principe!  Perciò  che 
      cosa non farò pur di servirlo bene?" 
      "Alla  buon'ora"  disse  la  Marchesa,  "ecco come io vi desidero; 
      venga ora un cospiratore e sarà il benvenuto." 
      "Ed io,  madre mia" disse Renata,  "prego  il  cielo  che  non  vi 
      ascolti;  che egli non invii a Villefort che dei ladroncelli,  dei 
      piccoli fallimenti, dei timidi scrocconi;  in questo modo soltanto 
      potrò dormire tranquilla." 
      "Sarebbe"  disse  ridendo Villefort,  "come se voi auguraste ad un 
      medico  che  gli  capitassero  soltanto  delle  emicranie,   delle 
      flussioncelle,  delle  punzecchiature  di api,  tutte cose che non 
      compromettono minimamente.  Ma se volete vedermi  procuratore  del 
      Re,  auguratemi  il  contrario:  vale  a  dire che abbia da curare 
      quelle malattie che fanno onore al medico." 
      In quel momento,  come se il destino  avesse  inteso  il  voto  di 
      Villefort  per  esaudirlo,  un cameriere entrò e gli disse qualche 
      parola all'orecchio. 
      Villefort lasciò la tavola scusandosi e ritornò dopo brevi istanti 
      col viso aperto e le  labbra  sorridenti.  Renata  lo  guardò  con 
      amore;  perché  veduto  così,  coi  suoi  begli occhi azzurri,  il 
      colorito maschio e i neri favoriti che gli contornavano  il  viso, 
      era veramente un bello ed elegante giovanotto. 
      Tutta  l'anima  della giovane sembrava dipendere dalle sue labbra, 
      aspettando che spiegasse la causa della sua momentanea assenza. 
      "Ebbene" disse Villefort, "voi desideravate,  signorina,  avere un 
      medico per marito.  Io ho coi medici questa somiglianza, che mai è 
      mia l'ora che corre,  e mi si viene a disturbare  anche  vicino  a 
      voi, anche al pranzo del fidanzamento." 
      "E  per  qual  cosa  venite  dunque  disturbato?" domandò la bella 
      giovane con una leggera inquietudine. 
      "Ahimè,  per uno che,  a quanto sembra,  se debbo credere a quello 
      che  mi  è stato detto,  si trova agli estremi;  questa volta è un 
      caso grave, e la malattia striscia vicino al patibolo." 
      "Oh, mio Dio!" esclamò Renata impallidendo. 
      "Davvero?" disse ad una voce tutta l'assemblea. 
      "Sembra  si  sia   scoperto   niente   meno   che   un   complotto 
      bonapartista." 
      "Sarebbe possibile!" esclamò la Marchesa. 
      "Ecco  la  denunzia"  e  Villefort  lesse  ad alta voce ciò che il 
      lettore conosce già, vale a dire la lettera di Danglars. 
      "Ma" disse Renata, "questa non è che una lettera anonima,  diretta 
      al Procuratore del Re e non a voi." 
      "Sì, ma il Procuratore del Re è assente, in sua assenza la lettera 
      è stata portata al suo segretario,  che è autorizzato ad aprire le 
      lettere. Egli dunque ha aperto questa, mi ha fatto cercare,  e non 
      avendomi trovato, ha dato gli ordini necessari per l'arresto." 
      "Il colpevole dunque è già stato arrestato?" disse la Marchesa. 
      "Cioè l'accusato" soggiunse Renata. 
      "Sì,  signora"  disse Villefort,  "e come avevo l'onore di dire or 
      ora alla signorina,  se  la  lettera  si  rinviene,  il  malato  è 
      compromesso gravemente." 
      "E dov'è quest'infelice?" domandò Renata. 
      "A casa mia che aspetta." 
      "Andate  dunque,  amico  mio"  disse il Marchese,  "non mancate al 
      vostro dovere per trattenervi con noi; andate,  poiché il servizio 
      del Re ve lo impone." 
      "Ah, signor Villefort, siate indulgente" disse Renata giungendo le 
      mani,   "ricordatevi   che   questo   è   il   giorno  del  vostro 
      fidanzamento." 
      Villefort fece un giro intorno alla tavola,  e  avvicinatosi  alla 
      sedia della giovane, appoggiandosi alla spalliera, disse: 
      "Per risparmiarvi un'inquietudine,  farò tutto ciò che potrò,  mia 
      cara Renata;  ma se gli inizi sono  sicuri,  e  l'accusa  è  vera, 
      bisognerà ben tagliare questa cattiva erba bonapartista." 
      Renata rabbrividì a questa parola tagliare,  poiché quell'erba che 
      si trattava di tagliare era la testa di un uomo. 
      "Eh via!" disse la Marchesa. "Non date ascolto a questa ragazzina, 
      Villefort; si abituerà." 
      E la Marchesa stese a Villefort una secca  mano  che  egli  baciò, 
      sempre guardando Renata e dicendole cogli occhi: 
      "E'  la  vostra  mano che io intendo baciare in questo momento,  o 
      almeno desidererei che fosse." 
      "Questi sono tristi auspici" mormorò Renata. 
      "In verità,  signorina" disse  la  Marchesa,  "voi  siete  di  una 
      puerilità  disperante.  Io  vi  domando che può aver a che fare il 
      destino dello Stato con le vostre fantasie sentimentali,  e con la 
      vostra sensibilità di cuore..." 
      "Oh, madre mia" mormorò Renata. 
      "Grazie signora Marchesa" disse Villefort. "Io vi prometto di fare 
      il mio mestiere di sostituto procuratore del Re coscienziosamente, 
      vale a dire di essere orribilmente severo." 
      Ma  nel medesimo tempo che il magistrato indirizzava queste parole 
      alla Marchesa,  il fidanzato gettava di nascosto uno sguardo  alla 
      sua bella, e questo sguardo diceva: 
      "State   tranquilla,   Renata,   per   il  vostro  amore  io  sarò 
      indulgente." 
      Renata corrispose a  questo  sguardo  col  più  dolce  sorriso,  e 
      Villefort se n'andò col paradiso nel cuore. 
 
 
                                 Capitolo 7. 
                              L'INTERROGATORIO. 
 
 
      Non appena Villefort fu fuori dalla sala da pranzo,  lasciò la sua 
      maschera allegra per prendere l'aria grave di un uomo chiamato  al 
      supremo ufficio di pronunciarsi sulla vita del suo simile. 
      Ora,  malgrado  la  mobilità della sua fisonomia,  mobilità che il 
      sostituto aveva studiata, come deve fare ogni abile attore, più di 
      una volta innanzi allo specchio, questa volta durò molta fatica ad 
      aggrottare le sopracciglia ed a rendere severi i suoi lineamenti. 
      Prescindendo dalle memorie di quella linea  politica  seguita  dal 
      padre  che  poteva,   se  non  se  ne  allontanava  compiutamente, 
      inceppare il  suo  avvenire,  Gherardo  Villefort  era  in  questo 
      momento tanto felice, quanto è concesso ad un uomo di esserlo. Già 
      ricco  per se stesso,  a ventisette anni occupava un posto elevato 
      nella magistratura, sposava una bella ragazza, che amava; e, oltre 
      la  bellezza,  che  era  notevole,  la  signorina  di  Saint-Méran 
      apparteneva  ad  una  delle  famiglie  più  favorite alla corte di 
      quell'epoca;  infine l'influenza del padre e della madre  di  lei, 
      non avendo figli maschi,  poteva essere consacrata tutta intera al 
      loro  genero;   lei  portava  inoltre  al  marito  una   dote   di 
      cinquantamila  scudi  che,  grazie  alle "speranze" (parola atroce 
      inventata dai sensali di matrimonio),  poteva un giorno  aumentare 
      con una eredità di mezzo milione. 
      Tutti  questi elementi riuniti componevano dunque per Villefort un 
      quadro di felicità abbagliante,  tanto che gli sembrava di  vedere 
      delle  macchie  nel  sole quando troppo lungamente guardava la sua 
      vita con lo sguardo dell'anima. 
      Alla porta trovò il commissario di polizia che lo aspettava. 
      La vista dell'uomo in nero lo fece  subito  ricadere  dall'altezza 
      del terzo cielo sulla terra dove noi camminiamo; egli ricompose il 
      suo   viso  nel  modo  che  abbiamo  indicato,   ed  avvicinandosi 
      all'ufficiale di giustizia: 
      "Eccomi, signore" disse,  "ho letto la lettera,  e voi avete fatto 
      benissimo  ad  arrestare  quest'uomo: ora datemi su di lui e sulla 
      cospirazione tutti i particolari che avete raccolto." 
      "Signore,  della  cospirazione  noi  non  sappiamo  ancora  nulla" 
      rispose il commissario,  "ma tutte le carte che sono state trovate 
      presso quest'uomo,  sono tutte poste sotto un legaccio,  e  stanno 
      sigillate sul vostro scrittoio. Quanto al prevenuto, voi lo avrete 
      visto  dalla  lettera  stessa  che  lo denunzia: si chiama Edmondo 
      Dantès,  ed è secondo a bordo  del  bastimento  a  tre  alberi  il 
      Faraone,  che  fa commercio di cotone con Alessandria e Smirne,  e 
      appartiene alla casa Morrel e Figli di Marsiglia." 
      "Prima di servire nella marina mercantile ha servito nella  marina 
      militare?" domandò Villefort. 
      "Oh no, signore, è molto giovane." 
      "Qual è la sua età?" 
      "Diciannove o venti anni al più." 
      Siccome Villefort, seguendo la strada grande era giunto all'angolo 
      della  via  dei  Consoli,  un  uomo che sembrava aspettarlo al suo 
      passaggio, gli si fece incontro. 
      Questi era Morrel. 
      "Ah,  signor Villefort"  esclamò  il  brav'uomo,  riconoscendo  il 
      sostituto.  "Immaginatevi  che  si commette lo sbaglio più strano, 
      più inaudito;  è stato arrestato il secondo  del  mio  bastimento, 
      Edmondo Dantès." 
      "Lo  so,  signore"  disse  Villefort,  "ed  io  entro  in casa per 
      interrogarlo." 
      "Ah, signore" continuò Morrel,  trasportato dalla sua amicizia per 
      il giovane, "voi non conoscete colui che viene accusato, io sì che 
      lo  conosco.  Immaginatevi  l'uomo  più probo ed oserei quasi dire 
      l'uomo  che  conosce  meglio  il  mestiere  di  tutta  la   marina 
      mercantile. Oh, signor Villefort, io ve lo raccomando caldamente e 
      con tutto il mio cuore." 
      Villefort,  come si è potuto vedere, apparteneva al partito nobile 
      della città e Morrel al partito plebeo;  il primo era  ultraregio, 
      il secondo sospetto bonapartista. 
      Villefort guardò sdegnosamente Morrel e gli rispose con freddezza: 
      "Voi  sapete  che  si  può essere dolci nella vita privata,  probi 
      nelle relazioni commerciali,  sapienti  nel  proprio  mestiere,  e 
      tuttavia  grandi  colpevoli,   politicamente  parlando...  Voi  lo 
      sapete, non è vero?" 
      E il magistrato calcò queste ultime parole come se  avesse  voluto 
      riferirle allo stesso armatore,  mentre col suo sguardo scrutatore 
      si sforzava di penetrare fino in fondo  al  cuore  di  quest'uomo, 
      ardito  abbastanza  da  intercedere  per  un altro,  quando doveva 
      sapere che aveva bisogno egli stesso d'indulgenza. 
      Morrel arrossì,  poiché non sentiva la  coscienza  netta  riguardo 
      alle  sue  opinioni politiche;  e d'altronde la confidenza che gli 
      aveva fatta Dantès del colloquio tenuto  col  gran  Maresciallo  e 
      delle poche parole che gli aveva dirette l'Imperatore, gli turbava 
      un poco lo spirito. 
      Tuttavia aggiunse con l'accento del più profondo interesse: 
      "Ve  ne  supplico,  signor  Villefort,  siate  giusto  come dovete 
      esserlo,  buono come lo siete sempre,  e rendete a noi ben  presto 
      questo povero Dantès." 
      Il  "rendete  a noi" risuonò spiacevole all'orecchio del sostituto 
      procuratore del Re. 
      "Eh!  eh!" si disse "rendete a noi"?  Questo Dantès sarebbe  forse 
      affiliato  a qualche setta di carbonari,  perché il suo protettore 
      impieghi così,  senza pensarci,  la formula collettiva?  E'  stato 
      arrestato  in  un'osteria  mi disse il commissario,  e in numerosa 
      compagnia, mi soggiunse; forse sarà stata..." 
      Poi proseguendo ad alta voce rispose: 
      "Signore,  potete stare perfettamente tranquillo,  e non vi sarete 
      appellato   inutilmente  alla  mia  giustizia,   se  l'imputato  è 
      innocente;  ma se al  contrario  è  reo,  viviamo  in  tempi  così 
      difficili  che  l'impunità sarebbe un esempio fatale;  ed io sarei 
      obbligato a fare il mio dovere." 
      E siccome era arrivato alla  porta  della  sua  casa,  attigua  al 
      Palazzo  di  Giustizia,  egli  vi  entrò maestosamente,  dopo aver 
      salutato con una  gentilezza  glaciale  l'infelice  armatore,  che 
      rimase come pietrificato sul posto ove lo lasciò Villefort. 
      L'anticamera era piena di gendarmi e di agenti di polizia. 
      In  mezzo  ad  essi,  guardato  a  vista,  circondato  da  sguardi 
      fulminanti d'odio,  stava calmo,  immobile e  ritto  in  piedi  il 
      prigioniero. 
      Villefort  traversò  l'anticamera,  diede  uno  sguardo  obliquo a 
      Dantès dopo aver preso un  plico  che  gli  venne  rimesso  da  un 
      agente, dicendo: 
      "Mi si conduca il prigioniero." 
      Per  quanto  rapido  fu  lo sguardo,  questo bastò a Villefort per 
      farsi un'idea dell'uomo che  stava  per  interrogare.  Egli  aveva 
      riconosciuto  l'intelligenza in quella fronte larga ed aperta,  il 
      coraggio nell'occhio fisso e  nel  sopracciglio  corrugato,  e  la 
      franchezza  nelle labbra grosse e semiaperte che lasciavano vedere 
      due file di denti come l'avorio;  la prima impressione  era  stata 
      dunque  favorevole  per  Dantès;  ma  Villefort  aveva inteso dire 
      spesso,  in segno di profonda politica,  che bisogna diffidare del 
      primo  impulso,  allorché  sia  favorevole,  per  cui  applicò  la 
      sentenza  all'impressione  ricevuta,   senza  tener  conto   della 
      differenza che passa fra due impressioni. 
      Egli soffocò dunque i buoni istinti che premevano il suo cuore per 
      liberare lo spirito dalla violenza, accomodò davanti allo specchio 
      il  suo  portamento  come  nei  giorni  dei grandi processi,  e si 
      sedette cupo e minaccioso dietro lo scrittoio. 
      Un istante dopo entrò Dantès. 
      Il giovane era sempre pallido, ma calmo e sorridente.  Egli salutò 
      il suo giudice con una deferenza non affettata,  poi cercò con gli 
      occhi una sedia,  come si fosse trovato nella  camera  del  signor 
      Morrel. 
      Fu  allora soltanto che incontrò lo sguardo di Villefort,  sguardo 
      particolare degli uomini di palazzo che non vogliono che si  legga 
      il loro pensiero,  e fanno del loro occhio un cristallo appannato. 
      Questo sguardo gli fece capire che  era  davanti  alla  giustizia, 
      simbolo di sinistre maniere. 
      "Chi siete voi,  e come vi chiamate?" domandò Villefort sfogliando 
      le note che l'agente gli aveva rimesse entrando,  e che da  un'ora 
      erano  divenute voluminose,  tanto la corruzione si attacca presto 
      al corpo disgraziato di colui che si definisce imputato. 
      "Signore,  mi chiamo Edmondo Dantès" rispose il giovane  con  voce 
      calma  e sonora,  "sono secondo a bordo del bastimento il Faraone, 
      che appartiene ai signori Morrel e Figli." 
      "La vostra età?" continuò Villefort. 
      "Diciannove anni" rispose Dantès. 
      "Che facevate, al momento che foste arrestato?" 
      "Assistevo al pranzo del mio fidanzamento" disse Dantès,  con  una 
      voce  leggermente commossa,  tanto era doloroso il contrasto fra i 
      momenti di gioia e la lugubre cerimonia che si compiva, e tanto il 
      viso cupo di Villefort faceva brillare di luce la raggiante figura 
      di Mercedes. 
      "Voi assistevate al pranzo  del  vostro  fidanzamento?"  disse  il 
      sostituto, rabbrividendo suo malgrado. 
      "Sì,  signore,  sono sul punto di sposare una donna che amo da tre 
      anni!" 
      Villefort,  sebbene d'ordinario impassibile,  fu colpito da questa 
      coincidenza;  e  quella  voce commossa di Dantès sorpreso in mezzo 
      alla sua felicità,  andò a svegliare una fibra simpatica nel fondo 
      della sua anima. 
      Egli  pure  si  ammogliava,  egli  pure  era  felice e si veniva a 
      disturbare la sua felicità perché contribuisse  a  distruggere  la 
      gioia di un uomo,  che,  come lui, già toccava la felicità! Questo 
      ravvicinamento filosofico,  pensò,  farà  grande  effetto  al  mio 
      ritorno nel salone del Marchese di Saint-Méran, ed egli accomodava 
      già, mentre Dantès attendeva nuove domande, le parole contrastanti 
      con  cui  gli  oratori  costruiscono  quelle  frasi  che strappano 
      applausi  e  qualche  volta  fanno  presumere  in  essi  una  vera 
      eloquenza. 
      Allorché  il  suo  piccolo dialogo interiore fu sedato,  Villefort 
      sorrise del suo effetto, e ritornato a Dantès: 
      "Continuate" disse. 
      "Che volete che continui?" domandò Dantès. 
      "Ad illuminare la giustizia." 
      "Che la giustizia mi dica su qual punto vuol  essere  rischiarata, 
      ed  io  le  dirò  tutto  quello che so.  Soltanto" aggiunse con un 
      sorriso, "la prevengo che so ben poche cose." 
      "Avete servito l'Imperatore?" 
      "Egli cadde appunto quando  stavo  per  essere  incorporato  nella 
      marina militare." 
      "Si  dice  che le vostre opinioni politiche siano esagerate" disse 
      Villefort, al quale nessuno aveva detto una parola di ciò,  ma non 
      poteva fare a meno di porre una domanda come si pone un'accusa. 
      "Le mie opinioni politiche?  Le mie,  signore?  E quasi vergognoso 
      dirlo,  ma io non ho mai avuto ciò che si chiama  un'opinione.  Ho 
      diciannove anni appena, come ebbi l'onore di dirvi: non so niente, 
      non sono destinato a rappresentare alcuna parte;  il poco che sono 
      e che sarò, se mi si accorda il posto che desidero,  lo dovrò solo 
      al  signor  Morrel.  Per tal modo tutte le mie opinioni,  non dirò 
      politiche, ma private, si limitano a questi tre sentimenti: io amo 
      mio padre,  rispetto il signor  Morrel  e  adoro  Mercedes.  Ecco, 
      signore,  tutto ciò che posso dire alla giustizia.  Voi vedete che 
      questo può interessarle ben poco." 
      A misura che Dantès parlava,  Villefort guardava il suo viso dolce 
      ad un tempo ed aperto,  e sentiva ritornare alla memoria le parole 
      di Renata,  che senza conoscere l'imputato,  gli  aveva  domandato 
      indulgenza per lui. 
      Coll'abitudine  che  aveva a trattare i delitti e i delinquenti il 
      sostituto vedeva ad ogni parola  di  Dantès  le  prove  della  sua 
      innocenza. 
      Questo  giovane,  che  si  sarebbe potuto chiamare ancora ragazzo, 
      semplice,  ingenuo,  eloquente,  di quella eloquenza del cuore che 
      non  si  trova  mai  quando si cerca,  pieno d'affezione per tutti 
      perché era felice, poiché la felicità rende buoni anche gli stessi 
      malvagi,  versava sul suo giudice  la  dolce  affabilità  del  suo 
      cuore. 
      Edmondo non aveva nello sguardo, nella voce, nel gesto, per quanto 
      rozzo  e  severo  fosse stato con lui Villefort,  che affabilità e 
      bontà per chi lo interrogava. 
      "Perbacco!" disse tra sé Villefort,  "ecco un buon giovane  ed  io 
      non  penerò  molto,  lo  spero,  a  farmi  un  merito  con Renata, 
      compiacendo la sua prima  raccomandazione.  Ciò  mi  frutterà  una 
      buona stretta di mano in presenza di tutti, ed un bacio ineffabile 
      di nascosto." 
      A  questa  doppia  speranza  la  figura  di  Villefort si abbellì, 
      dimodoché quando rivolse  gli  sguardi  dai  suoi  pensieri  sopra 
      Dantès, questi che aveva seguito tutti i movimenti della fisonomia 
      del suo giudice, sorrideva quasi al suo pensiero. 
      "Sapete di avere qualche nemico?" disse Villefort. 
      "Io  dei nemici?" rispose Dantès.  "Ho la fortuna di essere ancora 
      ben poca cosa perché la mia posizione me ne faccia.  Quanto al mio 
      carattere  forse  un  poco  troppo  vivace,  ho  sempre cercato di 
      addolcirlo verso i miei subordinati.  Ho dieci  o  dodici  marinai 
      sotto  i miei ordini;  che vengano pure interrogati,  signore,  ed 
      essi vi diranno che mi amano e  mi  rispettano,  non  come  padre, 
      perché sono troppo giovane, ma come un fratello maggiore." 
      "Bene"  continuò  Villefort,  "vediamo  ora  se  invece  di nemici 
      poteste avere qualche invidioso,  o qualche geloso.  Voi state per 
      essere  nominato  capitano  a  diciannove anni,  il che è un posto 
      elevato nella vostra condizione. Voi state per sposare una giovane 
      che vi ama il che è un bene raro in ogni circostanza.  Queste  due 
      preferenze  del  destino,   avrebbero  potuto  procurarvi  qualche 
      invidioso." 
      "Sì, avete ragione,  voi dovete conoscere gli uomini meglio di me: 
      ciò  è  possibile;  ma  se questi invidiosi dovessero essere tra i 
      miei amici,  vi confesso che preferisco non  conoscerli,  per  non 
      esser costretto a odiarli." 
      "Voi avete torto;  bisogna sempre,  per quanto è possibile,  tener 
      gli occhi aperti intorno a sé, e in verità voi mi sembrate un così 
      bravo giovane,  che per voi  contravvengo  alle  regole  ordinarie 
      della giustizia e ad illuminarvi, comunicandovi la denunzia che vi 
      conduce dinanzi a me.  Ecco il foglio accusatore,  ne conoscete il 
      carattere?" e Villefort cavò dalle sue tasche  la  lettera,  e  la 
      presentò a Dantès. 
      Dantès la guardò e la lesse. 
      Un nube oscurò la sua fronte, e disse: 
      "No,  signore,  io  non  conosco questo carattere,  che quantunque 
      alterato pure è scritto con molto vigore.  In ogni caso è una mano 
      molto  abile  che lo ha vergato.  Io sono ben fortunato" soggiunse 
      guardando con riconoscenza Villefort,  "di avere a trattare con un 
      uomo  quale  voi  siete,  poiché  il  mio  calunniatore  è un vero 
      nemico." 
      Al lampo che sfolgorò negli occhi del giovane pronunciando  queste 
      parole,  Villefort  poté  conoscere  quanta violenta energia stava 
      nascosta sotto quella apparente dolcezza. 
      "Ora" disse Villefort, "rispondetemi francamente, non come farebbe 
      un prevenuto al suo giudice,  ma come un uomo che si trovi in  una 
      falsa posizione risponde ad un altro uomo che prenda interesse per 
      lui... Che vi è di vero in questa anonima accusa?" 
      E  Villefort  gettò  con  disprezzo sullo scrittoio la lettera che 
      Dantès gli aveva restituito. 
      "Tutto,  e niente:  eccovi  la  pura  verità,  sul  mio  onore  di 
      marinaio, sul mio amore per Mercedes, sulla vita di mio padre." 
      "Parlate,  signore"  disse  ad  alta  voce  Villefort,  poi fra sé 
      soggiunse: "Se  Renata  potesse  vedermi,  io  spero  che  sarebbe 
      contenta di me, e non mi chiamerebbe più tagliatore di teste". 
      "Ebbene, lasciando Napoli, il capitano Leclerc cadde malato di una 
      febbre cerebrale;  siccome noi non avevamo medico a bordo, ed egli 
      non volle fermarsi in alcun punto della costa,  sollecito come era 
      di portarsi all'isola d'Elba, la sua malattia peggiorò in modo che 
      verso  la  fine del terzo giorno,  sentendosi vicino a morire,  mi 
      chiamò a sé: 
      "Mio caro Dantès" mi disse,  "giuratemi sul vostro onore  di  fare 
      tutto  ciò  che  vi  dirò,  trattandosi  di  affare  del  più alto 
      interesse." 
      "Ve lo giuro, capitano" risposi io. 
      "Ebbene,  siccome dopo la mia morte spetta a voi  il  comando  del 
      bastimento nella vostra qualità di secondo,  voi prenderete questo 
      comando,   e  metterete  capo  all'isola  d'Elba,   sbarcherete  a 
      Portoferraio,  cercherete  del  gran Maresciallo,  gli rimetterete 
      questa  lettera,  e  v'incaricherà  di  qualche  missione.  Questa 
      missione, che era riservata a me, voi l'eseguirete, Dantès, in mia 
      vece, e tutto l'onore sarà vostro." 
      "Lo  farò,  capitano,  ma  forse  non potrò pervenire fino al gran 
      Maresciallo tanto facilmente quanto voi credete." 
      "Eccovi un anello che vi farà giungere facilmente a lui" disse  il 
      capitano, "e che toglierà tutte le difficoltà." A queste parole mi 
      consegnò  l'anello,  e  fu  appena in tempo,  perché poco dopo gli 
      prese il delirio e l'indomani era morto." 
      "E che faceste allora?" 
      "Ciò che dovevo fare,  signore,  e che ciascun altro avrebbe fatto 
      al mio posto.  In ogni circostanza le preghiere dei moribondi sono 
      sacre, ma presso i marinai le preghiere d'un superiore sono ordini 
      che si debbono eseguire. Feci dunque vela verso l'isola d'Elba ove 
      giunsi l'indomani;  consegnai a bordo tutto  l'equipaggio,  ed  io 
      solo  discesi  a  terra.  Come avevo previsto,  mi si fecero sulle 
      prime delle difficoltà nell'introdurmi dal gran Maresciallo, ma io 
      gli inviai l'anello che doveva servirmi per farmi  riconoscere,  e 
      tutte  le  porte  si  aprirono  avanti  a  me.  Egli mi ricevette, 
      m'interrogò sulle ultime circostanze della morte  del  disgraziato 
      Leclerc;  e  come  questi  aveva  previsto mi venne consegnata una 
      lettera incaricandomi di portarla  di  persona  a  Parigi.  Glielo 
      promisi  poiché  questo  era un compiere l'estrema volontà del mio 
      capitano.  Ritornai a bordo,  feci vela per Marsiglia  ove  giunsi 
      ieri,  accomodai  rapidamente  tutti  gli affari colla Dogana e la 
      Sanità,  corsi ad abbracciare mio padre,  volai a  vedere  la  mia 
      fidanzata,  che  trovai  più  bella e più innamorata che mai.  Col 
      favore del signor  Morrel  furono  superate  tutte  le  difficoltà 
      ecclesiastiche;  e  finalmente,  signore,  assistevo,  come  vi ho 
      detto,  al pranzo del mio fidanzamento;  fra un'ora dovevo  essere 
      ammogliato, e contavo di partir domani per Parigi, allorquando per 
      questa accusa,  che sembra voi pure disprezziate quanto me, io fui 
      arrestato." 
      "Sì, sì" mormorò Villefort,  "tutto ciò mi sembra esser la verità, 
      e se voi siete colpevole lo siete soltanto d'imprudenza;  ed anche 
      questa imprudenza potrebbe essere  legittimata  dagli  ordini  che 
      riceveste  dal vostro capitano.  Rendetemi quella lettera che vi è 
      stata consegnata all'isola d'Elba, datemi la vostra parola d'onore 
      di ricomparire alla prima requisitoria,  ed andate a raggiungere i 
      vostri amici." 
      "In  tal  modo  io sono libero,  signore?" esclamò Dantès al colmo 
      della gioia. 
      "Sì, soltanto datemi quella lettera." 
      "Essa deve essere innanzi a voi,  poiché mi fu tolta con tutte  le 
      altre carte, ed io ne riconosco qualcuna sotto quel legaccio." 
      "Aspettate" disse il sostituto a Dantès,  che prendeva i guanti ed 
      il cappello, "a chi era diretta?" 
      "Al signor Noirtier, rue Héron a Parigi." 
      Se la folgore fosse caduta sopra Villefort non lo avrebbe percosso 
      con un colpo più rapido e più inatteso.  Si  lasciò  cadere  sulla 
      seggiola  dalla quale si era per metà alzato per prendere il plico 
      delle carte confiscate a Dantès, le sfogliò precipitosamente, e ne 
      cavò la lettera fatale,  sulla quale gettò uno sguardo  carico  di 
      paura. 
      "Signor Noirtier rue Héron numero 13" mormorò, impallidendo sempre 
      più. 
      "Sì, signore" rispose Dantès meravigliato, "lo conoscete?" 
      "No"  rispose  prontamente Villefort,  "un servo fedele del Re non 
      conosce i cospiratori." 
      "Si tratta dunque di una cospirazione?" domandò Dantès che  veniva 
      ripreso, dopo essersi creduto libero, da un terrore più grande del 
      primo.  "In  ogni  modo,  signore,  io  ve  l'ho  detto,  ignoravo 
      completamente il contenuto del dispaccio di cui ero portatore." 
      "Sì" riprese Villefort, con sorda voce,  "ma voi sapete il nome di 
      quello a cui era diretto?" 
      "Bisogna  bene  che  lo  sapessi  se  dovevo consegnarlo nelle sue 
      mani." 
      "E voi  non  avete  mostrato  quella  lettera  ad  alcuno?"  disse 
      Villefort  che  sempre  più  impallidiva  a  misura che leggeva la 
      lettera. 
      "A nessuno, sul mio onore." 
      "Tutti dunque ignorano che voi eravate portatore  di  una  lettera 
      che  veniva  dall'isola  d'Elba,  ed  era  indirizzata  al  signor 
      Noirtier?" 
      "Tutti lo ignorano, meno chi me l'ha consegnata." 
      "Questo è troppo, questo è ancora troppo!" mormorò Villefort. 
      La fronte di  Villefort  si  oscurava  sempre  più  man  mano  che 
      leggeva; le sue labbra bianche, le sue mani tremanti, i suoi occhi 
      ardenti  facevano  passare nello spirito di Dantès le più dolorose 
      apprensioni. 
      Dopo la lettura di questa lettera,  Villefort si lasciò cadere  la 
      testa fra le mani e rimase un istante come annientato. 
      "Oh, mio Dio! Che è dunque, signore?" domandò timidamente Dantès. 
      Villefort  non  rispose,  ma  dopo qualche istante rialzò la testa 
      pallida e scomposta e rilesse una seconda volta la lettera. 
      "E voi dite che non  sapete  nulla  di  ciò  che  contiene  questa 
      lettera?" riprese Villefort. 
      "Sul  mio  onore,  vi  ripeto  non  ne so nulla.  Ma che avete voi 
      stesso? Mio Dio!  Voi state male!  Volete che suoni il campanello? 
      Volete che chiami qualcuno?" 
      "No" disse Villefort alzandosi prontamente,  "no, non fate rumore, 
      non dite una parola;  sta a me il dare degli ordini qui  e  non  a 
      voi." 
      "Signore"  disse  Dantès  mortificato,  "era  per venire in vostro 
      soccorso; scusatemi, ve ne prego, riguardo all'intenzione." 
      "Non ho bisogno di niente;  uno sconcerto passeggero,  ecco tutto. 
      Occupatevi di voi e non di me: rispondete." 
      Dantès aspettava la domanda annunziata da quest'ultima parola,  ma 
      inutilmente.  Villefort ricadde sul  suo  seggio,  passò  la  mano 
      agghiacciata  sulla  fronte  che  grondava sudore,  e per la terza 
      volta si mise a rileggere la lettera. 
      "Oh!  se lui sa il  contenuto  di  questa  lettera"  mormorò,  "se 
      venisse  a  sapere un giorno che Noirtier è il padre di Villefort, 
      io son perduto,  perduto per  sempre!..."  e  di  tanto  in  tanto 
      guardava  Edmondo come se col suo sguardo avesse potuto infrangere 
      quella barriera invisibile che racchiude nel cuore i segreti,  che 
      dalla bocca non vengono palesati. 
      "Oh,  non esitiamo più" esclamò ad un tratto, "non vi è che questo 
      mezzo." 
      "Ma,  in nome del cielo,  signore" riprese il disgraziato giovane, 
      "se voi dubitate di me,  se avete dei sospetti,  interrogatemi, io 
      sono pronto a rispondervi." 
      Villefort fece un violento sforzo su se stesso,  e con un tono  di 
      voce che voleva rendere sicuro: 
      "Signore"  disse,  "dal  vostro  interrogatorio risultano a vostro 
      danno i sospetti più forti: non sono dunque  padrone,  come  avevo 
      poco  fa  sperato,  di  mettervi  in  libertà  in  questo medesimo 
      istante; io debbo, prima di prendere questa misura,  consultare il 
      giudice  istruttore.   Frattanto  voi  avete  veduto  come  vi  ho 
      trattato." 
      "Oh,  sì,  signore" esclamò Dantès,  "io vi ringrazio poiché siete 
      stato per me più che un giudice, un amico." 
      "Ebbene,  io vi tratterrò ancora per qualche tempo prigioniero, il 
      meno che mi sarà possibile. Il principale atto d'accusa che esiste 
      contro di voi è questa lettera, e voi vedete..." 
      Villefort si avvicinò al caminetto,  gettò la lettera sul fuoco  e 
      restò immobile fino a che fu ridotta in cenere. 
      "E voi vedete" continuò egli, "io l'ho annientata." 
      "Oh!"  esclamò Dantès,  "signore,  voi siete più che la giustizia; 
      voi siete la bontà in persona." 
      "Ma  ascoltatemi"  continuava  Villefort,   "dopo  quest'atto  voi 
      comprendete  bene  che potete avere tutta la fiducia in me,  non è 
      vero?" 
      "Ah, signore, ordinate, e io eseguirò i vostri ordini." 
      "No" disse Villefort avvicinandosi al giovane,  "non  sono  ordini 
      che voglio darvi, voi capirete, sono consigli." 
      "Dite, io mi conformerò come fossero ordini." 
      "Vi  farò  trattenere  fino a questa sera al Palazzo di Giustizia, 
      forse qualcun altro verrà ad esaminarvi.  Dite tutto ciò che avete 
      detto a me, ma non dite una parola su quella lettera." 
      "Ve lo prometto, signore." 
      Era  Villefort,   che  sembrava  supplicare;  era  l'imputato  che 
      tranquillizzava il giudice. 
      "Voi capirete" diss'egli gettando uno  sguardo  sulle  ceneri  che 
      conservavano ancora la forma della carta e venivano alzate in aria 
      ed agitate dalla fiamma, "ora che questa lettera è annientata, voi 
      ed  io  soltanto  sappiamo  che  è esistita;  essa non vi sarà più 
      ripresentata;  negatela dunque se qualcuno ve ne  parla,  negatela 
      arditamente, e con questo mezzo soltanto sarete salvo." 
      "Negherò, signore, state tranquillo" disse Dantès. 
      "Bene,  bene"  rispose  Villefort  portando la mano al cordone del 
      campanello. 
      Poi fermandosi al momento che stava per suonare: 
      "Questa era la sola lettera che avevate?" disse. 
      "La sola" rispose Dantès. 
      "Giuratelo." 
      Dantès stese la mano: 
      "Lo giuro!" 
      Il campanello suonò: il commissario di polizia entrò. 
      Villefort si avvicinò al pubblico ufficiale e  gli  disse  qualche 
      parola all'orecchio. 
      Il commissario rispose con un semplice segno di testa. 
      "Seguitelo, signore" disse Villefort a Dantès. 
      Dantès  s'inchinò,  gettò  un  ultimo  sguardo  di  riconoscenza a 
      Villefort ed uscì. 
      Appena la porta fu chiusa dietro di  lui,  le  forze  mancarono  a 
      Villefort,  che  cadde  quasi svenuto sul suo seggio.  Poi dopo un 
      istante: 
      "Oh,  mio Dio,  da che  dipende  la  vita  e  la  fortuna!  Se  il 
      Procuratore  del  Re  fosse  stato  a  Marsiglia,  se  il  giudice 
      istruttore fosse stato chiamato in mia vece,  io sarei perduto,  e 
      questo  foglio,  questo  maledetto  foglio  mi avrebbe precipitato 
      nell'abisso. Ah, padre mio, padre mio, sarete voi dunque sempre un 
      ostacolo alla mia felicità in questo  mondo  e  dovrò  io  lottare 
      eternamente col vostro passato?" 
      Poi,  tutto ad un tratto,  una luce inattesa parve passare innanzi 
      al suo spirito e rischiarò il suo  viso,  un  sorriso  si  delineò 
      sulla  sua  bocca  ancora  increspata,   i  suoi  occhi  stravolti 
      divennero fissi, e parvero soffermarsi su un pensiero. 
      "Sì" disse,  "questa lettera doveva perdermi,  farà forse  la  mia 
      fortuna. Andiamo, Villefort, all'opera!" 
      E  dopo  essersi  assicurato  che  l'imputato  non  si trovava più 
      nell'anticamera, il sostituto Procuratore del Re uscì a sua volta, 
      incamminandosi rapidamente verso la casa della sua fidanzata. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 8. 
                              IL CASTELLO D'IF. 
 
 
      Traversando l'anticamera,  il commissario di polizia fece un segno 
      a  due  gendarmi,  i  quali  si  posero  uno  a destra e l'altro a 
      sinistra di Dantès;  fu aperta una porta  che  comunicava  con  il 
      Palazzo  di Giustizia,  e continuarono per qualche tempo in uno di 
      quei lunghi corridoi che fanno  tremare  quelli  che  vi  passano, 
      anche quando non hanno alcun motivo di tremare. 
      Nello  stesso  modo che l'appartamento di Villefort comunicava col 
      Palazzo di Giustizia,  quest'edificio comunicava  colla  prigione, 
      tetro  monumento  addossato al palazzo e che guarda in modo strano 
      da tutte le sue aperture guarnite di  sbarre  il  campanile  degli 
      Accoulès che gli sorge davanti. 
      Dopo  una quantità di svolte nel corridoio che percorreva,  Dantès 
      si vide innanzi una porta col catenaccio di ferro. 
      Il commissario di polizia batté col  martello  tre  colpi  che  si 
      ripercossero  per  Dantès  come  se  gli fossero stati battuti sul 
      cuore.  La porta si aprì,  i due gendarmi spinsero leggermente  il 
      prigioniero che esitava;  Dantès oltrepassò il limitare terribile, 
      e la porta si richiuse subito con  fracasso  dietro  a  lui.  Egli 
      respirava  un'altra aria,  un'aria mefitica e pesante;  era l'aria 
      della prigione. 
      Venne  condotto  in  una  stanza   abbastanza   pulita,   ma   con 
      l'inferriata  a  catenaccio.  L'aspetto della sua nuova dimora non 
      gli cagionò  gran  timore.  D'altronde  le  parole  del  sostituto 
      procuratore  del  Re,  pronunziate con una voce che era sembrata a 
      Dantès ricolma di tanto interesse,  risuonavano  al  suo  orecchio 
      come una dolce promessa di speranza.  Erano già quattro ore da che 
      Dantès era stato introdotto in quella stanza. 
      Eravamo,  come abbiamo detto,  al primo di  marzo,  ed  il  giorno 
      declinava  presto: il prigioniero si trovò subito nella notte.  Il 
      senso dell'udito aumentava  in  lui  a  misura  che  la  vista  si 
      attenuava. 
      Al  più  piccolo  rumore  che  perveniva fino a lui,  convinto che 
      sarebbe stato messo in libertà,  si alzava velocemente e faceva un 
      passo  verso  la porta.  Ben presto il rumore andava a perdersi in 
      un'altra direzione, e Dantès ricadeva sul suo sgabello. 
      Finalmente,  verso le dieci di sera,  al  momento  in  cui  Dantès 
      cominciava  a  perdere  la  speranza,  un  nuovo  rumore  si  fece 
      intendere,  e questa  volta  gli  sembrava  avvicinarsi  alla  sua 
      stanza. 
      Infatti  dei  passi  rimbombarono  nel  corridoio  e  si fermarono 
      davanti alla sua porta. Una chiave girò due volte nella serratura, 
      i catenacci cigolarono,  la massiccia barriera di quercia si aprì, 
      lasciando penetrare ad un tratto nella stanza oscura l'abbagliante 
      luce di due torce. 
      A  questa  luce  Dantès  vide  brillare le sciabole ed i fucili di 
      quattro gendarmi.  Egli aveva fatto due passi  in  avanti;  rimase 
      immobile al suo posto vedendo quest'aumento di forza. 
      "Venite a cercar me?" domandò Dantès. 
      "Sì" rispose uno dei gendarmi. 
      "Per parte del signor sostituto procuratore del Re?" 
      "Ma... così credo." 
      "Bene" disse Dantès, "sono pronto a seguirvi." 
      La  convinzione  che  si veniva a cercarlo per parte di Villefort, 
      toglieva ogni  timore  all'infelice  giovanotto.  Egli  si  avanzò 
      dunque con spirito calmo, con andatura tranquilla, e si pose da sé 
      in mezzo alla sua scorta. 
      Una  carrozza aspettava alla porta di strada,  il cocchiere era al 
      suo posto, un brigadiere era assiso presso il cocchiere. 
      "E' dunque per me questa carrozza?" domandò Dantès. 
      "E per voi" rispose uno dei gendarmi, "salite." 
      Dantès voleva fare qualche osservazione,  ma lo sportello si aprì, 
      si sentì spingere.  Non aveva né la possibilità né l'intenzione di 
      far resistenza. 
      Si trovò in un istante nel fondo della carrozza fra due  gendarmi, 
      gli altri due sedettero nel posto davanti, e il pesante veicolo si 
      mise  in moto con sinistro rumore.  Il prigioniero volse gli occhi 
      sulle aperture,  esse erano chiuse con le griglie.  Egli non aveva 
      fatto  che  cambiar di prigione.  Soltanto,  questa correva,  e lo 
      trasportava verso una meta non conosciuta. 
      Attraverso le sbarre,  chiuse in modo da lasciarvi appena  passare 
      la  mano,  Dantès  riconobbe che si passava per la rue Caisserie e 
      che dalla rue Saint-Laurent e  dalla  rue  Tamaris  si  discendeva 
      verso lo scalo. Presto vide, attraverso le sbarre, brillare i lumi 
      della Consegna. 
      La carrozza si fermò; il brigadiere discese e si avvicinò al corpo 
      di guardia;  una dozzina di soldati uscirono e si disposero in due 
      ranghi in modo da lasciare uno stretto passaggio. Dantès vedeva al 
      chiarore dei fanali dello scalo rilucere i loro fucili. 
      "Sarebbe per me" si domandava,  "che si spiega  una  simile  forza 
      militare?" 
      Il  brigadiere,  aprendo lo sportello della carrozza che era stato 
      chiuso a chiave,  quantunque non pronunziasse una parola dette  la 
      risposta alla domanda che si era fatta Dantès,  perché vide fra le 
      due file di soldati il sentiero che era stato  preparato  per  lui 
      dalla carrozza al porto. 
      I due gendarmi che erano a sedere nel posto davanti furono i primi 
      a scendere,  quindi fu fatto scendere Dantès finalmente smontarono 
      quelli  che  gli  stavano  ai  fianchi  e  camminarono  verso  una 
      barchetta,  che  un marinaio di dogana teneva ferma allo scalo con 
      una catena. 
      I soldati osservarono Dantès passare con una stupita curiosità. In 
      un momento egli fu sistemato alla poppa del battello, sempre tra i 
      suoi quattro gendarmi, mentre il brigadiere si teneva a prua.  Una 
      scossa  violenta  staccò il battello dalla riva e quattro vigorosi 
      rematori vogarono verso il Pilone.  A un  grido  dalla  barca,  la 
      catena che chiude il porto si abbassò, e Dantès si trovò fuori nel 
      porto. 
      Il  primo impulso del prigioniero ritrovandosi all'aria aperta era 
      stato un impulso di gioia.  L'aria è quasi  la  salvezza!  Respirò 
      dunque  a  pieni  polmoni  la  brezza vivace che apporta tutti gli 
      olezzi sconosciuti della notte o del mare. 
      Subito però emise un sospiro: passava  davanti  all'osteria  della 
      Riserva  dov'era  stato così felice la mattina stessa nell'ora che 
      aveva preceduto quella del suo arresto,  e,  attraverso la  chiara 
      apertura di due finestre,  giunse fino a lui il lieto rumore di un 
      ballo. Dantès incrociò le mani, levò gli occhi al cielo e pregò. 
      La barca continuando il suo cammino,  aveva  già  oltrepassata  la 
      Testa  di  Moro,  e  si trovava in faccia all'ansa del faro.  Essa 
      andava a bordeggiare di fianco alla batteria,  e  questa  era  una 
      manovra incomprensibile per Dantès. 
      "Ma dove mi conducete?" domandò egli. 
      "Voi lo saprete ben presto." 
      "Ma pure..." 
      "Ci è proibito darvi alcuna spiegazione." 
      Dantès era per metà soldato;  fare delle domande a dei subordinati 
      ai quali era proibito di rispondere,  gli parve una cosa assurda e 
      tacque. 
      I  pensieri  più strani gli passarono per la mente.  Non si poteva 
      fare una lunga navigazione con una simile barchetta,  non  vi  era 
      alcun  bastimento  all'àncora dalla parte verso cui si dirigevano. 
      Allora pensò che sarebbe stato depositato sopra un  punto  lontano 
      della costa per dirgli che era libero: infatti non era incatenato, 
      non  era  stato fatto alcun tentativo per mettergli le manette,  e 
      ciò gli sembrava di buon augurio. 
      D'altronde il sostituto,  così umano  con  lui,  aveva  detto  che 
      qualora  non  pronunziasse  una  parola  sulla  lettera  diretta a 
      Noirtier,  egli non aveva nulla da temere!  Villefort non aveva in 
      sua presenza annientata quella pericolosa lettera, unica prova che 
      esistesse contro di lui? Egli aspettava dunque, muto e pensieroso, 
      e  cercava  di  discernere coll'occhio da marinaio esercitato alle 
      tenebre,  assuefatto allo spazio,  l'oscurità della notte.  Si era 
      lasciata  a  destra  l'isola  Ratonneau  su cui riluceva il faro e 
      sempre costeggiando si era arrivati  all'altezza  della  baia  dei 
      Calalani. Là gli sguardi del prigioniero raddoppiarono di energia; 
      era  là  che  stava Mercedes e gli sembrava ad ogni istante vedere 
      delinearsi sulla riva oscura la  forma  vaga  e  indecisa  di  una 
      donna.  Come mai un presentimento non diceva allora a Mercedes che 
      il suo adorato passava in quel momento a trecento passi da lei? 
      Un sol lume brillava ai Catalani. Studiando la posizione di questo 
      lume,  Dantès  riconobbe  che  rischiarava  la  camera  della  sua 
      fidanzata.  Mercedes  era la sola che vegliava in tutta la piccola 
      colonia.  Alzando un grido il giovane poteva essere  inteso  dalla 
      fidanzata.  Una  falsa vergogna lo trattenne,  che avrebbero detto 
      coloro che lo custodivano sentendolo gridare  come  un  insensato? 
      Restò dunque muto cogli occhi fissi su quel lume. 
      Frattanto  la  barca continuava il suo cammino;  ma il prigioniero 
      non pensava alla barca,  egli pensava a  Mercedes.  Una  duna  del 
      terreno fece sparire il lume. Dantès si voltò e allora vide che la 
      barca prendeva il largo 
      Mentre guardava il lume,  assorto nei propri pensieri,  non si era 
      accorto che ai remi erano state sostituite le  vele,  e  la  barca 
      camminava  spinta  dal vento.  Malgrado la ripugnanza a fare nuove 
      domande al gendarme, pure Dantès gli si appressò,  e stringendogli 
      la mano disse: 
      "Gendarme, in nome della vostra coscienza, e per la vostra qualità 
      di soldato, vi scongiuro di aver pietà di me, e di rispondermi. Io 
      sono  il  capitano  Dantès,  leale  e  buon  francese,  quantunque 
      accusato di non so qual tradimento. Dove mi conducete?  Ditelo,  e 
      sulla  fede  di  marinaio  io  mi  adatterò  al  mio dovere,  e mi 
      rassegnerò al mio destino." 
      Il gendarme si grattò l'orecchio, e guardò il suo camerata. Questi 
      fece un movimento,  quasi avesse voluto dire: "Mi  sembra  che  al 
      punto  in cui siamo non vi sia da temere alcun inconveniente".  Il 
      gendarme allora si rivolse verso Dantès e gli disse: 
      "Voi siete marsigliese e marinaio e domandate a me dove andiamo?" 
      "Sì, poiché sul mio onore non lo so." 
      "Non ne avete alcun sospetto?" 
      "Nessuno." 
      "E possibile?..." 
      "Io  ve  lo  giuro  per  quanto  vi  è  di  più  sacro  al  mondo. 
      Rispondetemi dunque, di grazia!" 
      "Ma la consegna?" 
      "La consegna non vi proibisce ciò che saprò fra dieci minuti,  fra 
      mezz'ora,  forse fra un'ora.  Soltanto voi mi risparmierete secoli 
      di incertezza. Ve lo chiedo come se foste un amico. Osservate, non 
      voglio né rivoltarmi,  né fuggire;  d'altronde non posso.  Suvvia, 
      dove andiamo?" 
      "A meno che non abbiate la benda agli occhi o non siate mai uscito 
      dal porto di Marsiglia, voi dovreste indovinare dove andiamo." 
      "Eppure..." 
      "Allora guardatevi attorno." 
      Dantès si alzò,  tese lo sguardo verso il  punto  a  cui  sembrava 
      dirigersi  il  battello  e vide a cento tese lontano innalzarsi la 
      nera e scoscesa roccia sulla quale sorge come una  escrescenza  di 
      silice il nero Castello d'If. 
      Questa  forma  strana,  questa  prigione sulla quale regnava un sì 
      profondo terrore, questa fortezza che faceva da trecent'anni parte 
      delle lugubri tradizioni,  comparve ad un tratto innanzi a  Dantès 
      che  non pensava punto ad essa,  e gli fece l'effetto che fa ad un 
      condannato a morte la vista del patibolo. 
      "Ah, mio Dio!" gridò, "il Castello d'If! E che andiamo a fare là?" 
      Il gendarme sorrise. 
      "Ma non mi si condurrà là per  esservi  imprigionato..."  continuò 
      Dantès.  "Il  Castello  d'If  è  una prigione di Stato,  destinata 
      soltanto ai grandi colpevoli politici.  Io non ho  commesso  alcun 
      delitto.  Ma,  ditemi:  vi sono forse dei giudici istruttori,  dei 
      magistrati qualunque al Castello d'If?" 
      "Non vi sarà, io suppongo" disse il gendarme, "che un governatore, 
      dei carcerieri,  una guarnigione e  delle  ottime  mura.  Andiamo, 
      andiamo amico,  non mi fate tanto il sorpreso, poiché in verità mi 
      farete credere che voleste ricompensare  la  mia  compiacenza  col 
      burlarvi di me." 
      Dantès  strinse  la  mano del gendarme si forte che pareva volesse 
      infrangergliela. 
      "Voi pretendete dunque che mi si  conduca  al  Castello  d'If  per 
      esservi imprigionato?" 
      "Probabilmente" disse il gendarme,  "ma in ogni modo,  camerata, è 
      inutile stringermi la mano così forte." 
      "Senz'altra formalità?" 
      "Le formalità sono compiute, l'istruttoria è fatta." 
      "Così ad onta della promessa del signor Villefort..." 
      "Io non so se  Villefort  vi  ha  fatto  una  promessa"  disse  il 
      gendarme,  "quello  che  so,  è  che noi andiamo al Castello d'If. 
      Ebbene, che fate adesso? Olà camerati, a me!" 
      Con un movimento pari al lampo,  ma che però  era  stato  previsto 
      dall'occhio   esercitato  del  gendarme,   Dantès  avrebbe  voluto 
      slanciarsi in  mare,  ma  quattro  mani  vigorose  lo  trattennero 
      nell'istante in cui i suoi piedi lasciavano il fondo del battello. 
      Egli ricadde nella barca urlando di rabbia. 
      "Bravo!" esclamò il gendarme,  mettendogli un ginocchio sul petto. 
      "Ecco come voi mantenete la vostra parola  da  marinaio!  Fidatevi 
      delle  persone  melliflue!   Ebbene  ora  mio  caro,  se  fate  un 
      movimento,  un sol movimento,  io vi pianto una  pallottola  nella 
      testa.  Ho  tradito la prima mia consegna,  ma vi assicuro che non 
      mancherò alla seconda." 
      Ed effettivamente abbassò la  carabina  verso  Dantès,  che  sentì 
      appoggiarsi  come  un  anello di gelo l'estremità della canna alla 
      tempia. 
      Per un attimo ebbe l'idea di  eseguire  il  proibito  movimento  e 
      finirla così violentemente coll'inattesa infelicità che era calata 
      sopra  di  lui  coi  suoi  artigli d'avvoltoio.  Ma appunto perché 
      questa infelicità  era  inattesa,  Dantès  pensò  che  non  poteva 
      durare. Gli tornarono al pensiero le promesse di Villefort. E poi, 
      bisogna anche dirlo,  questa morte nel fondo di un battello, dalle 
      mani di un gendarme gli parve squallida e crudele. 
      Ricadde dunque sul tavolato  della  barca,  mandando  un  urlo  di 
      rabbia, e rodendosi con furore le mani. 
      Quasi  nel medesimo istante un urto violento percosse il battello, 
      uno dei battellieri saltò sulla roccia che era stata toccata dalla 
      piccola barca,  una  corda  si  svolse  da  una  puleggia.  Dantès 
      s'accorse che erano arrivati, e che si attraccava lo scafo. 
      Infatti i guardiani,  che lo tenevano per le braccia e il colletto 
      dell'abito, lo spinsero a rialzarsi, lo costrinsero a discendere a 
      terra,  e lo trasportarono verso gli scalini  che  mettevano  alla 
      porta della cittadella,  mentre il brigadiere li seguiva armato di 
      moschetto con la baionetta innestata. 
      Dantès del resto non fece più alcuna inutile  resistenza;  la  sua 
      lentezza proveniva più da inerzia che da opposizione. Era stordito 
      e  barcollava  come  un  ubriaco.  Vide  di nuovo i soldati che si 
      schieravano sulla  rapida  china,  sentì  alcuni  scalini  che  lo 
      forzarono  ad  alzare  i  piedi,  si accorse che passava sotto una 
      porta,  e che questa porta si chiudeva dietro di lui: ma tutto ciò 
      macchinalmente  come  attraverso una densa nebbia senza distinguer 
      nulla di reale.  Egli non vedeva  neppure  più  il  mare,  cotesto 
      immenso   dolore  dei  prigionieri  che  guardano  lo  spazio  col 
      terribile sentimento d'essere impotenti a superarlo. 
      Vi fu una fermata  di  un  momento,  durante  la  quale  cercò  di 
      raccogliere i suoi sospiri. Guardò intorno a sé, era in un cortile 
      quadrato formato da quattro grandi muraglie.  Si sentivano i passi 
      lenti e regolari delle sentinelle,  e  ogni  volta  che  passavano 
      davanti  al riflesso proiettato sulle muraglie dalla luce di due o 
      tre lumi accesi all'interno del castello, si vedeva scintillare la 
      canna dei loro fucili. 
      Qui attese dieci minuti circa. 
      Certi che Dantès non  poteva  più  fuggire  lo  avevano  lasciato, 
      sembrava che aspettassero degli ordini, e questi ordini giunsero. 
      "Dov'è il prigioniero?" domandò una voce. 
      "Eccolo" risposero i gendarmi. 
      "Che mi segua: lo condurrò al suo alloggio." 
      "Andate!" dissero i gendarmi, dando una spinta a Dantès. 
      Il prigioniero seguì la sua guida,  che lo condusse effettivamente 
      in una cella quasi sotterranea, le cui muraglie nude e gocciolanti 
      sembravano impregnate dell'umidità delle lacrime. 
      Una specie di lanterna,  posata  sopra  uno  sgabello  ed  il  cui 
      lucignolo nuotava in un grasso fetido, illuminava le pareti lucide 
      di questo spaventoso antro. Dantès vide il suo carceriere, che era 
      una specie di subalterno, mal vestito e di lurido aspetto. 
      "Ecco  la  vostra  cella  per questa notte" disse.  "E' tardi e il 
      signor Governatore è andato a letto; domani quando si sarà alzato, 
      ed avrà conosciuto gli ordini che vi concernono, forse vi cambierà 
      domicilio.  Frattanto eccovi del pane.  C'è dell'acqua  in  questa 
      brocca,  della  paglia  laggiù in quel cantone.  Insomma c'è tutto 
      quello che un prigioniero può desiderare. Buona notte." 
      E prima che Dantès avesse pensato ad aprir bocca per rispondergli, 
      prima che avesse veduto dove il carceriere avesse posto  il  pane, 
      prima che si fosse reso conto del posto ove stava la brocca, prima 
      che  avesse  voltato  gli  occhi  verso  l'angolo dove l'aspettava 
      quella paglia destinata a servirgli da letto,  il carceriere aveva 
      preso  la lanterna e chiudendo la porta aveva tolto al prigioniero 
      quella luce incerta che gli aveva mostrato, come al chiarore di un 
      lampo, le umide muraglie della sua prigione.  Allora si trovò solo 
      nelle  tenebre  e nel silenzio muto e tetro quanto le volte di cui 
      egli sentiva il freddo agghiacciante abbassarsi sulla  fronte  che 
      bruciava. 
      Quando  i primi raggi del giorno ebbero ricondotto un poco di luce 
      in quest'antro,  il carceriere ritornò coll'ordine di lasciare  il 
      prigioniero dov'era. 
      Dantès non aveva cambiato posto, una mano di ferro sembrava averlo 
      inchiodato nel punto stesso in cui si era fermato entrando. Il suo 
      occhio   profondo   si  nascondeva  sotto  un  gonfiore  cagionato 
      dall'umido vapore delle sue lacrime: era immobile  e  guardava  il 
      terreno.  Aveva  passato  così  tutta  la notte,  in piedi,  senza 
      dormire un solo istante. Il carceriere si avvicinò a lui, gli girò 
      attorno,  ma Dantès non pareva vederlo;  gli batté sulla spalla  e 
      Dantès rabbrividì scuotendo la testa. 
      "Non avete dormito?" domandò il carceriere. 
      "Non lo so" rispose Dantès. 
      Il carceriere lo guardò con meraviglia. 
      "Non avete fame?" continuò. 
      "Non lo so" rispose ancora Dantès. 
      "Volete qualche cosa?" 
      "Vorrei vedere il Governatore." 
      Il carceriere alzò le spalle ed uscì. 
      Dantès  lo  seguì  cogli  occhi,  stese  le  mani  verso  la porta 
      socchiusa;  ma questa venne sbarrata.  Allora il suo petto  sembrò 
      squarciarsi in un lungo singulto. 
      Le  lacrime  che  gli  gonfiavano  le  palpebre  scorsero come due 
      ruscelli,  egli si precipitò colla fronte per terra e pregò  lungo 
      tempo,  esaminando  in  spirito  tutta  la  sua  vita  passata,  e 
      chiedendo a se stesso qual delitto aveva commesso in  questa  vita 
      ancora  così  giovane,  che  potesse  meritargli  una  tal crudele 
      punizione. 
      La giornata passò così.  Fu molto se  mangiò  qualche  boccone  di 
      pane,  bevette qualche goccia d'acqua; ora restava seduto, assorto 
      nei suoi pensieri,  ora girava intorno alla  sua  cella  come  una 
      bestia feroce chiusa in una gabbia di ferro. 
      Un  solo  pensiero lo faceva soprattutto trasecolare,  ed era che, 
      durante quella traversata,  in cui  ignorando  il  luogo  ove  era 
      condotto, era rimasto calmo e tranquillo, avrebbe potuto ben dieci 
      volte   gettarsi   in  mare,   ed  una  volta  in  acqua,   grazie 
      all'esperienza che faceva di lui uno dei più  abili  nuotatori  di 
      Marsiglia,   sparire  sott'acqua,   sfuggire  ai  suoi  guardiani, 
      guadagnare  la  costa,  salvarsi,  nascondersi  in  qualche  luogo 
      deserto,  attendere un bastimento genovese o catalano, raggiungere 
      l'Italia o la Spagna,  e di là scrivere a Mercedes che venisse  da 
      lui.  Quanto  alla  sua  vita,  in qualsiasi contrada poteva stare 
      tranquillo;  in ogni luogo i  buoni  marinai  sono  rari;  parlava 
      l'italiano  come  un  toscano,  e lo spagnolo come un figlio della 
      vecchia Castiglia. 
      Sarebbe vissuto libero, felice con Mercedes, con suo padre, perché 
      suo  padre  sarebbe  venuto  a  raggiungerlo.   Invece   ora   era 
      prigioniero,  chiuso  nel  Castello d'If,  in quella troppo sicura 
      prigione,  non sapendo cosa accadeva a suo padre,  cosa accadeva a 
      Mercedes,  e  tutto  ciò  perché  aveva  creduto  alla  parola  di 
      Villefort. 
      C'era da diventare pazzi. 
      Dantès si rotolava furioso sulla paglia fresca che  il  carceriere 
      gli  aveva  portato.   L'indomani  alla  stess'ora  il  carceriere 
      ritornò. 
      "Ebbene" gli domandò, "oggi siete più ragionevole di ieri?" 
      Dantès non rispose parola. 
      "Fatevi dunque" disse,  "un po' di coraggio...  Desiderate qualche 
      cosa che sia in mio potere? Dite." 
      "Desidero parlare al Governatore." 
      "Eh?"  disse  il  carceriere con impazienza.  "Vi ho già detto che 
      questo è impossibile..." 
      "Perché è impossibile?" 
      "Perché nei regolamenti della  prigione  c'è  scritto  che  nessun 
      prigioniero ha il permesso di domandarlo." 
      "E quali sono i permessi che qui si possono avere?" 
      "Un miglior vitto,  pagando,  la passeggiata,  e qualche volta dei 
      libri." 
      "Io non ho bisogno di libri;  non mi  curo  di  fare  passeggiate; 
      trovo  buono  il mio vitto.  In tal modo non ho bisogno che di una 
      cosa, quella cioè di parlare al Governatore..." 
      "Se mi annoiate ancora una volta  con  questa  domanda"  disse  il 
      carceriere, "non vi porterò più da mangiare." 
      "Ebbene"  disse  Dantès,  "se  tu non mi porterai più da mangiare, 
      morirò di fame, ecco tutto." 
      L'accento col quale  Dantès  pronunciò  queste  parole,  provò  al 
      carceriere che il prigioniero si sarebbe stimato felice di morire. 
      Così,  siccome  ogni prigioniero,  fatti i conti,  fruttava al suo 
      carceriere circa dieci soldi al giorno,  quello di Dantès fece  il 
      calcolo della perdita per la sua morte quindi riprese con tono più 
      addolcito: 
      "Ascoltatemi,  ciò  che  voi  desiderate  è  impossibile;  non  lo 
      domandate dunque più perché non vi è esempio che per richiesta  di 
      un  prigioniero  il Governatore sia venuto nel carcere a trovarlo; 
      soltanto coll'essere savio vi si potrà permettere la  passeggiata, 
      ed allora sarà possibile che un giorno o l'altro,  durante questa, 
      possa passare vicino a voi il Governatore,  nel qual caso,  voi lo 
      potrete interrogare; ed egli, se vuole, vi risponderà." 
      "Ma"  disse  Dantès,  "quanto  tempo  potrò io aspettare prima che 
      questo caso si presenti?" 
      "Diamine" disse il carceriere,  "un mese,  tre mesi,  sei  mesi  e 
      forse un anno." 
      "E' troppo" disse Dantès, "io voglio vederlo subito." 
      "Ah"  disse  il carceriere,  "non vi lasciate infatuare così da un 
      desiderio solo ed impossibile,  o prima  di  quindici  giorni  voi 
      diventerete pazzo." 
      "Ah, tu lo credi?" disse Dantès. 
      "Sì  pazzo,  e sempre così comincia la pazzia;  noi qui ne abbiamo 
      avuti e ne abbiamo  tuttora  degli  esempi.  Allo  scienziato  che 
      abitava  questa  cella prima di voi dette di volta il cervello per 
      essersi messo in testa di voler esser messo in  libertà,  mediante 
      un milione che incessantemente offriva al Governatore." 
      "E quanto tempo è che ha lasciato questa cella?" 
      "Due anni." 
      "E fu messo in libertà?" 
      "No, fu messo in segreta." 
      "Ascolta" disse Dantès,  "io non sono uno scienziato,  io non sono 
      un pazzo. Forse la perderò,  ma disgraziatamente in questo momento 
      ho tutta la mia ragione; voglio farti una proposta..." 
      "E quale?" 
      "Non  ti  offrirò  un milione,  non potrei dartelo,  ma ti offrirò 
      cento scudi  se,  la  prima  volta  che  andrai  a  Marsiglia,  ai 
      Catalani,  porterai  una  lettera  ad  una  giovane  che si chiama 
      Mercedes... Ma neanche una lettera, appena due righe." 
      "Se io portassi due righe,  e  fossi  scoperto,  perderei  il  mio 
      posto,  che è di mille lire l'anno, senza contare gli incerti. Voi 
      vedete  dunque  che  io  sarei  un  grande  imbecille  se  volessi 
      rischiare di perdere mille lire per guadagnarne trecento." 
      "Ebbene"  disse Dantès,  "ascolta e tieni bene a mente quel che ti 
      dico se tu  rifiuti  di  avvertire  il  Governatore  che  desidero 
      parlargli,  se  tu  ricusi  di  portare  due righe a Mercedes o di 
      avvertirla almeno che io sono qui,  un  giorno  o  l'altro  io  ti 
      aspetto  nascosto  dietro la porta,  e nel momento che tu entri ti 
      spacco la testa collo sgabello." 
      "Delle minacce!" esclamò il carceriere,  facendo un passo indietro 
      e  mettendosi sulla difesa.  "Infallibilmente la testa vi gira: lo 
      scienziato ha cominciato come voi,  e fra tre  giorni  voi  sarete 
      pazzo  come  lui.  Fortunatamente  nel Castello d'If vi sono delle 
      segrete." 
      Dantès prese lo sgabello,  e lo fece  velocemente  girare  intorno 
      alla sua testa.  "Sta bene, sta bene" disse il carceriere, "poiché 
      voi lo volete assolutamente, andrò ad avvertire il Governatore." 
      "Alla buon'ora!" disse Dantès,  posando lo  sgabello  e  sedendovi 
      sopra  con  la  testa bassa e gli occhi stravolti,  come realmente 
      diventasse pazzo. 
      Il carceriere uscì e dopo pochi minuti rientrò con quattro soldati 
      ed un caporale. 
      "Per  ordine  del  Governatore"  diss'egli,  "fate  discendere  il 
      prigioniero nel piano sotto a questo." 
      "Nella segreta dunque?" disse il caporale. 
      "Nella segreta. Bisogna mettere i pazzi coi pazzi." 
      I  quattro  soldati  s'impadronirono  di Dantès che cadendo in una 
      specie di atonia,  li seguì senza  resistenza;  gli  furono  fatti 
      scendere  quindici scalini,  dopo i quali fu aperta una segreta in 
      cui entrò mormorando: 
      "Ha ragione, bisogna mettere i pazzi coi pazzi!" 
      La porta fu chiusa,  e Dantès camminò con le mani stese innanzi  a 
      sé  fino  a  che  urtò nel muro;  allora si sedette in un angolo e 
      restò immobile, mentre i suoi occhi, abituandosi un poco per volta 
      all'oscurità cominciarono a distinguere gli oggetti. 
      Il carceriere  aveva  ragione,  mancava  ben  poco  a  Dantès  per 
      diventare pazzo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 9. 
                          LA SERA DEL FIDANZAMENTO. 
 
 
      Villefort,  come  abbiamo  detto,  aveva  ripreso  la strada della 
      piazza del Gran Corso e rientrando  nella  casa  del  Marchese  di 
      Saint-Méran,  trovò  i convitati che avevano lasciata la tavola ed 
      erano passati nella sala di conversazione  a  prendere  il  caffè. 
      Renata  lo attendeva con impazienza,  condivisa da tutti.  Così fu 
      accolto da una esclamazione generale. 
      "Ebbene, tagliateste,  sostegno dello Stato,  Bruto regio" esclamò 
      uno, "che abbiamo di nuovo? Sentiamo." 
      "Siamo  minacciati  nuovamente dal regime del Terrore?" domandò un 
      altro. 
      "Il lupo della Corsica è uscito  dalla  sua  caverna?"  chiese  un 
      terzo. 
      "Signora   Marchesa"  disse  Villefort  accostandosi  alla  futura 
      suocera, "vi prego di volermi perdonare se fui costretto lasciarvi 
      così... Signor Marchese, posso aver l'onore di dirvi due parole in 
      disparte?" 
      "Ah,  dunque si tratta di un affare grave" constatò  la  Marchesa, 
      osservando la nube che oscurava la fronte di Villefort. 
      "Tanto grave,  che sono costretto a prendere un congedo di qualche 
      giorno da voi. Così" continuò voltandosi a Renata, "potrete capire 
      che si tratta di un affare serio!" 
      "Voi partite" esclamò Renata,  incapace di  nascondere  l'emozione 
      che le cagionava questa inattesa novella. 
      "Ahimè,    si,   signorina!"   rispose   Villefort,   "e   ciò   è 
      indispensabile." 
      "E dove andate dunque?" domandò la Marchesa. 
      "Questo è un segreto della giustizia,  signora.  Ciò nonostante se 
      qualcuno di questi signori ha delle commissioni per Parigi,  ho un 
      amico che parte questa sera e che se ne incaricherà volentieri." 
      Tutti lo guardarono con sorpresa. 
      "Voi mi  avete  domandato  un  colloquio  particolare?"  disse  il 
      Marchese. 
      "Sì, passiamo nel vostro studio, se permettete." 
      Il Marchese prese il braccio di Villefort, e uscì con lui. 
      "Ebbene?"   domandò  entrando  nello  studio.   "Che  è  avvenuto? 
      Parlate!" 
      "Cose credo della più alta importanza, e che necessitano che parta 
      all'istante   per    Parigi.    Frattanto,    Marchese,    scusate 
      l'indiscretezza della domanda, avete delle rendite di Stato?" 
      "Tutta   la   mia   fortuna  è  in  cartelle  dello  Stato,   sei- 
      settecentomila franchi circa." 
      "Ebbene vendete, Marchese, o siete rovinato!" 
      "Ma, come volete che io possa vendere qui?" 
      "Voi avete un banchiere?" 
      "Sì." 
      "Datemi una lettera per lui,  e che egli venda  senza  perdere  un 
      minuto!  Senza perdere un secondo!  Forse anch'io non arriverò che 
      troppo tardi!" 
      "Diavolo!" disse il Marchese. "Non perdiamo dunque tempo." 
      E si mise a tavolino, scrisse una lettera al suo agente di cambio, 
      al quale ordinava di vendere ad ogni costo. 
      "Ora che possiedo questa lettera" disse Villefort, chiudendola con 
      ogni cura nel suo portafogli, "me ne abbisogna un'altra." 
      "Per chi?" 
      "Per il Re." 
      "Per il Re?" 
      "Sì." 
      "Ma io non oso prendermi l'ardire di scrivere così a Sua Maestà." 
      "Perciò non è a voi che la domando,  ma v'incarico di chiederla al 
      Conte  Servieux.  Bisogna  che egli mi dia una lettera,  per mezzo 
      della quale io possa giungere fino a Sua Maestà." 
      "Ma,  non avete voi il Guardasigilli,  che ha facile entrata  alle 
      Tuileries  e  per  mezzo  del  quale potete giungere fino al Re di 
      giorno e di notte?" 
      "Sì,  senza dubbio,  ma è inutile che io divida con  un  altro  il 
      merito  della  notizia  che  porto.  Capite?  Il  Guardasigilli mi 
      porrebbe  naturalmente  in  secondo  piano  e  mi  toglierebbe  il 
      beneficio del mio viaggio. Vi dico una cosa sola, Marchese, la mia 
      carriera  è  assicurata  se  per il primo giugno potrò essere alle 
      Tuileries,  per rendere al Re un  favore  che  non  gli  sarà  più 
      permesso dimenticare." 
      "In  questo caso,  mio caro,  andate a fare la vostra valigia,  io 
      chiamo Servieux,  e  gli  faccio  scrivere  la  lettera  che  deve 
      servirvi da lasciapassare." 
      "Bene,  non perdete tempo,  perché fra un quarto d'ora bisogna che 
      io sia su una carrozza." 
      "Farete fermare la vostra carrozza alla porta della mia casa?" 
      "Senza dubbio voi farete le  mie  scuse  alla  Marchesa,  ed  alla 
      signorina  di  Saint-Méran,  che io lascio in un simile giorno col 
      più profondo dispiacere." 
      "Voi le troverete entrambe nel mio studio,  e potrete far  loro  i 
      vostri addii." 
      "Mille grazie; occupatevi della mia lettera." 
      Il Marchese suonò, un servo comparve. 
      "Dite al conte de Servieux che lo aspetto" disse il Marchese. "Ora 
      andate" continuò, indirizzandosi a Villefort, "siete libero." 
      "Sta bene, non faccio che andare e tornare." 
      Villefort  uscì  correndo;  ma  giunto  alla  porta  pensò  che un 
      sostituto procuratore del Re se fosse stato  visto  camminare  con 
      passo  precipitato,  correva rischio di turbare il riposo di tutta 
      la città;  riprese dunque il suo modo ordinario di andare che  era 
      in tutto da magistrato. 
      Alla porta intravide nell'oscurità una persona che, come un bianco 
      fantasma,  lo aspettava ritto ed immobile.  Era la bella catalana, 
      che non avendo avuto notizie di Edmondo era fuggita dal  Faro  sul 
      cominciar  della  notte  per  venir  a  sapere di persona la causa 
      dell'arresto del suo fidanzato. 
      All'avvicinarsi di Villefort,  si staccò dal muro contro  cui  era 
      appoggiata, e venne a sbarrargli il cammino. 
      Dantès aveva parlato della fidanzata al sostituto,  e Mercedes non 
      ebbe bisogno di nominarsi,  per esser riconosciuta  da  Villefort. 
      Egli  fu sorpreso della bellezza di questa donna,  ed allorché lei 
      gli domandò che cos'era avvenuto del suo  innamorato,  gli  sembrò 
      d'esser lui l'accusato, e lei il giudice. 
      "L'uomo di cui mi parlate" disse bruscamente Villefort, "è un gran 
      colpevole, io non posso far niente per lui." 
      Mercedes  si  lasciò  sfuggire  un  singulto,  e siccome Villefort 
      cercava di passare oltre, lo fermò una seconda volta. 
      "Ma almeno dov'è?" domandò la giovane, "che io possa informarmi se 
      è vivo o morto." 
      "Io non lo so, egli non mi appartiene più!" rispose Villefort. 
      E imbarazzato da quello  sguardo  fisso  e  da  quella  attitudine 
      supplichevole,  respinse  Mercedes,  ed  entrò  chiudendo forte la 
      porta,   come  per  lasciar  fuori  quel  dolore  che  gli  veniva 
      cagionato. Ma il dolore non si lascia respingere in tal modo: come 
      la  freccia mortale di cui parla Virgilio,  l'uomo ferito lo porta 
      con sé. Villefort rientrò,  chiuse la porta,  ma giunto nella sala 
      le  gambe  gli  vennero  meno,  mandò  un  sospiro  che  sembrò un 
      singulto, e si lasciò cadere sopra un divano. 
      Allora nel fondo di quel cuore malato nacque  il  primo  germe  di 
      un'ulcera  mortale:  quest'uomo  che  egli  sacrificava  alla  sua 
      ambizione,  quest'innocente che scontava  la  pena  di  suo  padre 
      colpevole, gli apparve pallido e minaccioso dando la mano alla sua 
      fidanzata,  pallida  anch'essa  come  lui,  trascinando  dietro  i 
      rimorsi,  non quelli che fanno vacillare il malato come  le  Furie 
      dell'antica  fatalità,  ma  quel tintinnio sordo e doloroso che in 
      certi momenti colpisce diritto al cuore e lo lacera col ricordo di 
      un'azione passata; lacerazione, i cui vivi dolori corrodono, male, 
      che si approfondisce sempre più fino al giorno della morte. Allora 
      ebbe nell'anima un momento di esitazione. 
      Già parecchie volte lo aveva provato,  e ciò senza altra  emozione 
      che  quella  lotta  tra il giudice e l'accusato.  La pena di morte 
      contro  gli  imputati  e  la  memoria   di   questi   disgraziati, 
      giustiziati dalla sua fulminante eloquenza, che aveva abbagliato i 
      giudici o i giurati, non aveva neppure lasciato una nube sulla sua 
      fronte,  perché  gli  imputati  erano rei o tali almeno li credeva 
      Villefort. Ma questa volta era ben altra cosa: la pena del carcere 
      perpetuo era stata inflitta ad un innocente,  che era sul punto di 
      essere  felice  e  del  quale egli non solo distruggeva la pace ma 
      anche la felicità. 
      Questa volta non era più un giudice, era un carnefice! 
      Pensando a tutto  ciò,  sentì  quel  battito  sordo,  che  abbiamo 
      descritto,  e  che gli era sconosciuto fino allora,  ripercuotersi 
      nel fondo  del  suo  cuore  e  riempire  il  suo  petto  di  vaghe 
      apprensioni. 
      Così, per un violento soffrire istintivo, il ferito è avvertito di 
      non avvicinare mai,  senza tremare, il dito alla sua ferita aperta 
      e grondante sangue, prima che questa ferita non sia cicatrizzata. 
      Ma la ferita che aveva ricevuto Villefort era di quelle che non si 
      chiudono  mai,  o  se  si  chiudono,  è  solo  per  riaprirsi  più 
      sanguinose e più dolorose di prima.  Se in questo momento la dolce 
      voce di Renata avesse risuonato al suo  orecchio  per  domandargli 
      grazia, se la bella Mercedes fosse entrata e gli avesse detto: "In 
      nome  di  quel  Dio  che  ci  guarda  e  che  sarà nostro giudice, 
      rendetemi il mio fidanzato!",  sì,  questa fronte per metà piegata 
      sotto la necessità, si sarebbe piegata del tutto, e colle sue mani 
      ghiacciate  avrebbe  senza dubbio,  anche col rischio di tutto ciò 
      che poteva avvenirgli, segnato l'ordine che fosse messo in libertà 
      Dantès.  Ma nessuna voce mormorò nel silenzio,  e la porta non  si 
      aprì  che  per  dare adito ad un cameriere di Villefort,  il quale 
      veniva ad annunziare che i cavalli di posta erano  attaccati  alla 
      carrozza da viaggio. 
      Villefort  si  alzò  o piuttosto balzò come un uomo che trionfa di 
      un'interna lotta;  corse al suo scrigno,  versò nelle bische tutto 
      l'oro  che  vi si trovava,  girò un istante smarrito per la stanza 
      con la mano sulla  fronte  e  articolando  parole  sconnesse;  poi 
      finalmente  sentendo  che  il suo cameriere gli aveva posato sulle 
      spalle il mantello, uscì, si slanciò nella carrozza,  e ordinò con 
      voce  sorda  di passare per il Gran Corso e di fermarsi alla porta 
      del Marchese di Saint-Méran.  Villefort trovò  la  Marchesa  e  la 
      figlia nello studio. 
      Vedendo Renata, il sostituto rabbrividì, perché ebbe timore che la 
      giovane  gli  domandasse  un'altra volta la libertà di Dantès.  Ma 
      purtroppo,  bisogna dirlo,  la giovane non era preoccupata che  da 
      una  cosa:  della  partenza  di  Villefort.  Lei  amava Villefort; 
      Villefort partiva nel momento  che  doveva  divenire  suo  marito, 
      Villefort non poteva dire quando sarebbe ritornato.  Renata invece 
      di perorare per Dantès,  malediceva l'uomo che per il suo  delitto 
      la separava dal fidanzato. 
      E Mercedes? 
      Che  doveva  dunque  dire  Mercedes  che  aveva ritrovato Fernando 
      all'angolo della strada della Loggia  dove  l'aveva  seguita?  Era 
      rientrata ai Catalani,  e per il dolore,  moribonda e disperata si 
      era gettata sul suo letto. 
      Fernando si era messo in ginocchio e stringendo la gelida mano  di 
      Mercedes che non pensava a ritirarla,  la copriva di ardenti baci, 
      che Mercedes non sentiva. 
      Ella passò la notte così;  la lampada si spense quando non  vi  fu 
      più olio e lei non vide l'oscurità,  come non aveva visto la luce. 
      Il giorno ritornò senza che se ne accorgesse. 
      Il dolore aveva  posto  innanzi  agli  occhi  una  benda  che  non 
      lasciava vedere che Edmondo. 
      "Ah, voi siete qui?" disse finalmente, voltandosi verso Fernando. 
      "Da  ieri  sera  non  vi  ho  più  lasciata" disse Fernando con un 
      doloroso sospiro. 
      In quanto a Morrel non si era dato per  vinto.  Aveva  saputo  che 
      Dantès   dopo  il  primo  interrogatorio  era  stato  tradotto  in 
      prigione; allora corse da tutti i suoi amici. 
      Si era presentato a tutte quelle persone di Marsiglia che potevano 
      avere qualche influenza sul procuratore.  Ma già correva voce  che 
      il  giovane  era  stato arrestato sotto l'imputazione di essere un 
      agente  bonapartista;   e  siccome  a  quell'epoca  i  più  audaci 
      credevano  un  sogno  insensato  ogni  tentativo  di Napoleone per 
      ritornare sul trono,  così Morrel  in  ogni  luogo  aveva  trovato 
      freddezza,  timore,  rifiuto,  ed  era  tornato  a casa disperato, 
      convenendo che la posizione era grave,  e che nessuno poteva farci 
      niente. 
      Caderousse da parte sua era molto inquieto e tormentato. 
      Invece  di  uscire  come  aveva  fatto  Morrel,  invece di tentare 
      qualche cosa in favore di Dantès,  per  il  quale  d'altronde  non 
      poteva  far  niente,  si  era  rinchiuso  nella sua camera con due 
      bottiglie di vino di Cassis ed aveva cercato di  annegare  la  sua 
      inquietudine nell'ubriachezza. Ma nello stato di spirito in cui si 
      trovava due bottiglie erano poca cosa per assopire la sua ragione. 
      Era  troppo  ubriaco  per poter andare a cercare altro vino;  poco 
      ubriaco perché l'ubriachezza potesse estinguere la sua memoria. 
      Appoggiato coi gomiti ad una tavola di legno,  in faccia alle  due 
      bottiglie  vuote,  vedeva  ronzare  al  riflesso  della  candela a 
      lucignolo tutti quegli spettri che Hoffmann  ha  sparsi  nei  suoi 
      manoscritti  inumiditi  dai  "punch",  come  una  polvere  nera  e 
      fantastica. 
      Danglars solo non era né tormentato né inquieto. Danglars era anzi 
      allegro, poiché si era vendicato di un nemico, ed aveva assicurato 
      a bordo del Faraone la carica che temeva di perdere.  Danglars era 
      uno  di  quegli uomini di calcolo che nascono con una penna dietro 
      l'orecchio e un calamaio al posto del  cuore;  per  lui  a  questo 
      mondo  tutto  era  sottrazione e moltiplicazione,  e una cifra gli 
      sembrava molto più preziosa di un uomo, quando questa cifra poteva 
      aumentare il totale dei suoi vantaggi.  Danglars era dunque andato 
      a letto come sempre, e dormiva tranquillamente. 
      Villefort,  dopo  aver  ricevuto dal conte de Servieux una lettera 
      diretta al conte de Blacas,  baciò la mano alla signora di  Saint- 
      Méran,  strinse  quella del Marchese e corse la posta sulla strada 
      d'Aix. 
      Il padre di Dantès moriva dal dolore e d'inquietudine. 
      Di Edmondo abbiamo già veduto ciò che accadde. 
 
 
                                 Capitolo 10. 
                        IL GABINETTO DELLE TUILERIES. 
 
 
      Lasciamo Villefort sulla via di Parigi,  dove grazie al triplicare 
      delle mance divorava la strada,  e penetriamo attraverso due o tre 
      saloni nel piccolo gabinetto delle Tuileries,  ben noto per essere 
      stato il gabinetto favorito di Napoleone e di Luigi Diciottesimo. 
      Là in quel gabinetto,  davanti ad una tavola di noce che era stata 
      trasportata da Hartwel,  e alla quale,  per uno di  quei  capricci 
      familiari  ai  gran  personaggi,   egli  portava  una  particolare 
      affezione,  Re Luigi Diciottesimo ascoltava con poca attenzione un 
      uomo  dai  cinquanta ai cinquantadue anni,  coi capelli grigi,  di 
      figura nobile e severa,  facendo delle postille sul margine di  un 
      volume  di  Orazio,  in  edizione  del Gryphius,  molto scorretta, 
      quantunque  stimata,   e  che  si  prestava  molto   alle   sagaci 
      osservazioni filosofiche di Sua Maestà. 
      "Voi dicevate dunque, signore?" disse il Re. 
      "Che  io sono grandemente inquieto,  da non poterlo essere di più, 
      Sire." 
      "Davvero? Avete visto in sogno sette vacche grasse, e sette vacche 
      magre?" 
      "No,  Sire,  perché ciò non ci annunzierebbe  che  sette  anni  di 
      fertilità o sette anni di carestia,  e, con un Re previdente, come 
      Vostra Maestà, la carestia non sarebbe da temersi." 
      "Di quale altro flagello si tratta dunque mio caro Blacas?" 
      "Sire, temo qualche tentativo disperato." 
      "E per parte di chi?" 
      "Per parte del Bonaparte o almeno dei suoi partigiani." 
      "Mio caro Blacas" disse il Re,  "coi vostri terrori m'impedite  di 
      lavorare." 
      "Vostra  Maestà  mi  ordina  forse  di  non  insistere  su  questo 
      argomento?" 
      "No,  caro conte.  Ma allungate la mano,  laggiù,  a sinistra: voi 
      dovete  trovarvi  il  rapporto  del Ministro di polizia in data di 
      ieri...  Ma osservate,  eccolo...  Non è vero  che  annunziate  il 
      Ministro  di  polizia?"  interruppe  Luigi Diciottesimo voltandosi 
      all'usciere. "Entrate,  barone,  e raccontate al conte ciò che voi 
      sapete di più recente sul conto del Bonaparte.  Non ci dissimulate 
      niente della situazione,  per quanto  grave  essa  sia.  Sentiamo: 
      l'isola  d'Elba  è un vulcano,  e stiamo noi per vederne uscire la 
      guerra tutta fiammeggiante, bella, orridamente bella?" 
      "Vostra Maestà" disse il Ministro, "avrà consultato il rapporto di 
      ieri." 
      "Sì,  sì,  ma dite al conte,  che non ha potuto trovarlo,  ciò che 
      contiene  questo  rapporto,  spiegategli  ciò  che fa l'usurpatore 
      nella sua isola." 
      "Signore" disse il barone al conte,  "tutti i buoni  servitori  di 
      Sua  Maestà non hanno che da rallegrarsi delle recenti notizie che 
      ci giungono dall'isola d'Elba.  Bonaparte si  annoia  mortalmente; 
      passa  delle  intere  giornate  a  vedere lavorare alle miniere di 
      Porto Longone.  Vi è di più: noi siamo quasi sicuri che  fra  poco 
      tempo l'usurpatore diventerà pazzo." 
      "Pazzo?" 
      "Pazzo  da  legare.  La sua testa s'indebolisce.  Ora piange calde 
      lacrime ora ride a gola aperta; altre volte passa delle ore intere 
      sulla riva a gettar sassi nell'acqua e quando il  sasso  ha  fatto 
      cinque  o  sei  balzi,  sembra  così contento come se avesse vinto 
      un'altra Marengo, o una nuova Austerlitz. Ecco, voi ne converrete, 
      questi son segni di pazzia." 
      "O di saggezza, signor barone,  o di saggezza" disse ridendo Luigi 
      Diciottesimo.  "I  grandi  capitani  dell'antichità si divertivano 
      anche a gettare sassi in  mare.  Vedete  Plutarco  nella  vita  di 
      Scipione  Africano.  Ebbene Blacas,  che ne pensate voi?" disse il 
      Re,  sospendendo un istante  di  consultare  il  voluminoso  libro 
      scolastico che teneva aperto innanzi a sé. 
      "Dico,  Sire,  che  il  Ministro di polizia o io ci sbagliamo.  Ma 
      siccome e impossibile che sia il Ministro di polizia, poiché ha in 
      custodia l'onore e la salute di Vostra Maestà, è probabile che sia 
      io in errore. Ciononostante Sire, al posto di Vostra Maestà vorrei 
      interrogare la persona cui ordina;  di vigilare  la  contrada  del 
      sud,  e che giunse per la posta a dirmi: un gran pericolo minaccia 
      il Re.  Ecco perché bramerei  che  Vostra  Maestà  facesse  questo 
      onore." 
      "Volentieri,  conte,  sotto i vostri auspici riceverò chi vorrete: 
      ma voglio riceverlo colle armi alla mano.  Signor ministro,  avete 
      un rapporto più recente di questo? Perché questo porta la data del 
      20 febbraio e noi siano al 4 di marzo." 
      "No,  Sire,  ma io ne attendo uno da un'ora all'altra. Sono uscito 
      da questa mattina e in mia assenza può esser giunto..." 
      "Andate alla prefettura,  e se ce n'è uno portatelo,  se  poi  non 
      c'è..." 
      "Ebbene?" 
      "Ebbene" continuò ridendo Luigi Diciottesimo,  "se non c'è, fatene 
      uno. Non è forse così che si pratica?" 
      "Oh, Sire" disse il ministro,  "grazie a Dio sotto questo rapporto 
      non  c'è  bisogno d'inventare niente.  Ogni giorno i nostri uffici 
      sono ingombri di una  quantità  di  denunzie  circostanziate,  che 
      pervengono  da  una folla di poveri diavoli che sperano un poco di 
      riconoscenza per i servizi che essi non rendono, ma che vorrebbero 
      rendere.  Essi giocano d'azzardo,  e  sperano  che  un  giorno  un 
      qualche  inatteso  avvenimento  venga  a dare una specie di realtà 
      alle loro predizioni." 
      "Va bene,  andate,  signore" disse Luigi Diciottesimo,  "e pensate 
      che io vi aspetto." 
      "Non faccio che andare e tornare,  Sire,  fra dieci minuti sarò ai 
      vostri comandi." 
      "Ed io, Sire" disse Blacas,  "vado a cercare il mio messaggero che 
      ha fatto 220 leghe in 3 giorni." 
      "E'  bene prendersi della fatica e dell'incomodo,  mio caro conte, 
      quando abbiamo i telegrafi che c'impiegano tre o  quattro  ore,  e 
      ciò senza che il proprio fiato ne soffra minimamente...?" 
      "Ah,  Sire,  voi  ricompensate  ben male questo povero giovane che 
      giunge così di lontano e con tanto  ardore  per  recare  un  utile 
      avviso a Vostra Maestà! Non fosse che per il conte de Servieux che 
      me lo raccomanda, vi supplico di riceverlo bene." 
      "De Servieux, il ciambellano di mio fratello?" 
      "Egli stesso, che ora si trova a Marsiglia." 
      "Ed è di là che mi scrive?" 
      "Sì, Maestà." 
      "Vi parla anche lui di questa cospirazione?" 
      "No,   ma   mi   raccomanda   il  signor  Villefort  e  m'incarica 
      d'introdurlo presso Vostra Maestà." 
      "Villefort!" esclamò il Re,  "e  perché  non  me  lo  avete  detto 
      subito"  soggiunse  lasciando  scorgere  sul suo viso un principio 
      d'inquietudine. 
      "Sire, credevo che questo nome fosse sconosciuto a Vostra Maestà." 
      "No,  no davvero,  mio caro Blacas,  egli  è  uno  spirito  serio, 
      elevato, e soprattutto ambizioso. Eh, perbacco! Voi conoscerete il 
      nome di suo padre, Noirtier." 
      "Noirtier, il girondino? Noirtier il senatore?" 
      "Precisamente." 
      "E Vostra Maestà ha impiegato il figlio di un tal uomo?" 
      "Mio caro conte,  vi ho già detto che Villefort è ambizioso e, per 
      innalzarsi, Villefort sacrificherà tutto... anche suo padre." 
      "Allora, Sire, debbo dunque farlo entrare?" 
      "Sull'istante, conte. Dov'è?" 
      "Mi aspetta giù nella mia carrozza." 
      Il conte uscì con la vivacità di un giovanotto;  l'ardore  sincero 
      per la causa regia gli dava la sveltezza dei vent'anni. 
      Luigi Diciottesimo restò solo, riportando gli occhi sul suo Orazio 
      mezzo aperto e mormorando "Justum et tenacem propositi virum". 
      Blacas  rimontò  con  la  stessa velocità con cui era disceso.  Ma 
      nell'anticamera fu costretto a invocare l'autorità del Re. L'abito 
      polveroso di Villefort,  il suo costume per niente  conforme  alla 
      tenuta  di  corte  aveva eccitato la suscettibilità del maestro di 
      cerimonie, che fu ben meravigliato di trovare in questo giovane la 
      pretesa di presentarsi al  Re  vestito  in  quel  modo.  Il  conte 
      appianò  le  difficoltà  con  le  semplici  parole: "Ordine di Sua 
      Maestà" e malgrado le osservazioni che continuò a fare il  maestro 
      di cerimonie per l'onore del Principe, Villefort fu introdotto. 
      Il Re era nello stesso posto in cui lo aveva lasciato il conte. 
      Aprendo la porta Villefort si trovò precisamente in faccia a lui e 
      il primo movimento del giovane magistrato fu di fermarsi. 
      "Entrate, signor Villefort" disse il Re, "entrate." 
      Villefort salutò,  fece qualche passo in avanti, aspettando che il 
      Re lo interrogasse. 
      "Signor Villefort" continuò Luigi Diciottesimo,  "ecco il Conte de 
      Blacas, che pretende abbiate qualche cosa di importante da dirci." 
      "Sire,  il  signor conte ha ragione,  e spero che Vostra Maestà lo 
      riconoscerà." 
      "Per prima cosa, il male è così grande, a vostro avviso, quanto mi 
      si vuole far credere?" 
      "Sire, lo credo pressante,  ma,  grazie alla mia diligenza,  spero 
      non sia irreparabile." 
      "Parlate  quanto  volete" disse il Re,  che cominciava a lasciarsi 
      prender dall'emozione che aveva alterato il  viso  del  signor  de 
      Blacas e che alterava la voce di Villefort. "Parlate e soprattutto 
      cominciate dal principio; io amo l'ordine in tutte le cose." 
      "Sire"  disse  Villefort,  "io  farò  a  Vostra Maestà un rapporto 
      fedele,  ma  prego  frattanto  di  volermi  scusare  se,   per  la 
      confusione in cui mi trovo, dovessi mettere qualche oscurità nelle 
      mie parole." 
      Un'occhiata gettata sul Re dopo questo esordio insinuante assicurò 
      Villefort della benevolenza del suo augusto uditore, e continuò: 
      "Sire,  io  sono  giunto il più rapidamente possibile a Parigi per 
      annunziare a Vostra Maestà che ho scoperto,  con le risorse  delle 
      mie  funzioni,  non  già  uno  di  quei  complotti volgari e senza 
      conseguenza,  come se ne tramano ogni  giorno  fra  i  ranghi  del 
      popolo e dell'esercito, ma una vera cospirazione, una tempesta che 
      minaccia  il trono di Vostra Maestà.  Sire,  l'usurpatore arma tre 
      vascelli,  egli  medita  qualche  progetto,  forse  insensato,  ma 
      fors'anche terribile per quanto insensato.  A quest'ora dev'essere 
      partito dall'isola d'Elba per andare,  dove non  so,  ma  a  colpo 
      sicuro  per tentare una discesa,  o a Napoli,  o sulle coste della 
      Toscana,  o anche nella stessa  Francia.  Come  certamente  Vostra 
      Maestà  saprà,  il  sovrano  dell'isola d'Elba ha conservato delle 
      relazioni con l'Italia e con la Francia." 
      "Sì,  signore,  lo so" disse il Re molto commosso,  "e ultimamente 
      ancora  si  ebbero  degli  avvisi  che  si tenevano delle riunioni 
      bonapartiste in rue Saint-Jacques.  Ma continuate vi  prego:  come 
      avete avute queste informazioni?" 
      "Sire,  esse  risultano dall'interrogatorio che ho fatto subire ad 
      un uomo di Marsiglia,  che da molto tempo facevo sorvegliare e che 
      ho fatto arrestare il giorno della partenza.  Quest'uomo, marinaio 
      turbolento e d'un  bonapartismo  sospetto,  è  stato  segretamente 
      all'isola  d'Elba.  Egli ha veduto il gran Maresciallo,  che lo ho 
      incaricato di una commissione verbale per un bonapartista,  di cui 
      non  mi è riuscito di fargli dire il nome;  ma questa missione era 
      di preparare gli spiriti ad un ritorno. Noti Vostra Maestà,  che è 
      l'interrogato che parla.  Un ritorno che non può mancare di essere 
      vicino." 
      "E dov'è quest'uomo?" disse Luigi Diciottesimo. 
      "In prigione, Sire." 
      "E la cosa vi è sembrata grave?" 
      "Tanto grave,  Sire,  che questo avvenimento avendomi sorpreso  in 
      mezzo  ad  una  festa  di  famiglia,  il  giorno  stesso  del  mio 
      fidanzamento  ho  tutto  lasciato,  fidanzata,   e  amici,   tutto 
      differito  ad  altro tempo,  per venire a depositare,  ai piedi di 
      Vostra Maestà,  i timori da cui ero preso e le assicurazioni della 
      mia devozione." 
      "E'  vero"  disse  Luigi  Diciottesimo,  "non  c'era  contratto di 
      matrimonio fra voi e la signorina di Saint-Méran?" 
      "La figlia di uno dei più fedeli servitori di Vostra Maestà." 
      "Sì, sì, ma ritorniamo al complotto." 
      "Sire,  temo che non  sia  più  un  complotto,  ma  piuttosto  una 
      cospirazione." 
      "Una  cospirazione  in  questi  tempi"  disse  Luigi  Diciottesimo 
      sorridendo, "è cosa facile a pensarsi, ma ben difficile a condursi 
      a termine. Ristabilito da ieri sul trono dei nostri antenati,  noi 
      abbiamo  gli  occhi  aperti  allo  stesso  tempo sul passato,  sul 
      presente  e  sull'avvenire.   Da  dieci  mesi  i   miei   ministri 
      raddoppiano  la  sorveglianza  perché il litorale del Mediterraneo 
      sia ben guardato.  Se Bonaparte discende a Napoli,  la  coalizione 
      tutta intera sarà in piedi,  prima che egli giunga a Piombino;  se 
      scende in Toscana, metterà il piede in un paese nemico;  se scende 
      in  Francia  lo  farà  con  un  pugno  d'uomini,  e  noi ne avremo 
      facilmente   ragione,   esecrato   come   è   dalla   popolazione. 
      Rassicuratevi  dunque,  signore,  ma  non  contate però meno sulla 
      nostra reale riconoscenza." 
      "Ah, ecco qui il Ministro di polizia" esclamò il conte de Blacas. 
      In quel momento infatti  il  Ministro  di  polizia  apparve  sulla 
      soglia  della  porta  pallido,  tremante e coll'occhio vacillante, 
      come se fosse stato colpito da vivissima luce. 
      Villefort fece un passo per ritirarsi,  ma de Blacas lo  trattenne 
      per la mano. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 11. 
                             IL LUPO DI CORSICA. 
 
 
      Luigi  Diciottesimo  all'aspetto  di  quel viso scomposto,  spinse 
      violentemente innanzi a sé la tavola presso cui sedeva. 
      "Che avete dunque,  signor barone?" esclamò.  "Mi  sembrate  molto 
      preoccupato;  queste  esitazioni hanno rapporto con ciò che diceva 
      de Blacas, e con ciò che mi vien confermato da Villefort?" 
      De Blacas si accostava al barone,  ma il rispetto  del  cortigiano 
      impediva di trionfare dell'orgoglio dell'uomo di stato; infatti in 
      simile  circostanza  era assai meglio essere umiliato dal Prefetto 
      di polizia, che vedersi umiliato su questo argomento. 
      "Sire..." balbettò il barone. 
      "Ebbene, sentiamo" disse Luigi Diciottesimo. 
      "Oh  Sire,   quale  spaventosa  disgrazia!   Sono  abbastanza   da 
      compiangere. Non me ne consolerò mai..." 
      "Signore" disse Luigi Diciottesimo, "vi ordino di parlare." 
      "Ebbene,  Sire,  l'usurpatore  ha  lasciato  l'isola  d'Elba il 26 
      febbraio ed è sbarcato il primo marzo." 
      "E dove mai? In Italia?" domandò impazientemente il Re. 
      "In Francia,  Sire,  in un piccolo porto presso Antibes nel  golfo 
      Juan." 
      "L'usurpatore  è sbarcato in Francia vicino ad Antibes,  nel golfo 
      Juan, a duecentocinquanta leghe da Parigi,  il primo marzo,  e voi 
      sapete  questa  notizia  soltanto  oggi,   quattro  marzo!...  Eh, 
      signore,  ciò che mi dite è impossibile;  vi sarà stato  fatto  un 
      falso rapporto." 
      "Ahimè, Sire, ciò che vi annunzio è purtroppo vero!" 
      Luigi  Diciottesimo  ebbe  un  gesto di collera e di spavento,  si 
      drizzò in piedi,  come se un colpo imprevisto lo  avesse  percosso 
      nello stesso tempo nel cuore e nel viso. 
      "In  Francia!" esclamò.  "L'usurpatore in Francia!  Non era dunque 
      sorvegliato quest'uomo?  Ovvero,  chissà!,  si era  d'accordo  con 
      lui?" 
      "Oh,  Sire"  esclamò  il  conte de Blacas,  "non è un uomo come il 
      Ministro di polizia quello che può essere accusato di  tradimento. 
      Sire,  noi  eravamo tutti ciechi ed il barone subiva l'accecamento 
      generale, ecco tutto." 
      "Ma..." disse Villefort. 
      Poi arrestandosi d'un tratto: "Ah, perdono,  perdono,  Sire" disse 
      inchinandosi,  "il  mio zelo mi trasportava;  che Vostra Maestà si 
      degni scusarmi." 
      "Parlate signore,  parlate con ardire" disse  Luigi  Diciottesimo, 
      "voi solo ci avete prevenuti del male, aiutateci a porvi rimedio." 
      "Sire"  disse  Villefort,  "l'usurpatore  è  detestato in tutto il 
      meridione, e mi sembra che se si azzarda in qualche tentativo,  si 
      può  facilmente  sollevare  contro  di  lui  la  Provenza,   e  la 
      Linguadoca." 
      "Sì,  senza dubbio" disse il ministro,  "ma avanza dalla parte  di 
      Gap e Sisteron." 
      "Come  avanza?"  disse  Luigi  Diciottesimo.  "Marcia dunque verso 
      Parigi?" 
      Il Ministro di polizia tacque,  il suo silenzio equivaleva ad  una 
      conferma. 
      "E il Delfinato,  signore" domandò il Re, "credete che possa esser 
      sollevato come la Provenza?" 
      "Sire,  sono dolente di dover dire  a  Vostra  Maestà  una  verità 
      crudele:  lo  spirito  del  Delfinato  è ben lungi da quello della 
      Provenza  e  della  Linguadoca.  Sire,   tutti  i  montanari  sono 
      bonapartisti." 
      "Ecco" mormorò Luigi Diciottesimo,  "Napoleone era bene informato. 
      E quanti uomini ha con sé?" 
      "Sire, non lo so" disse il Ministro di polizia. 
      "Come non lo sapete!  Voi avete dimenticato d'informarvi di questa 
      circostanza?  E' vero, è di poco interesse" soggiunse il Re con un 
      sorriso opprimente. 
      "Sire,  il dispaccio porta semplicemente l'annunzio dello sbarco e 
      la strada che ha preso l'usurpatore." 
      "E come dunque vi è giunto questo dispaccio?" domandò il Re. 
      Il  Ministro  abbassò la testa,  e un vivo rossore si sparse sulla 
      sua fronte. 
      "Dal telegrafo, Sire." 
      Luigi Diciottesimo fece un passo avanti ed incrociò le braccia sul 
      petto come avrebbe fatto Napoleone. 
      "E così" disse impallidendo di collera, "sette eserciti coalizzati 
      hanno rovesciato quest'uomo,  un miracolo del cielo mi ha  rimesso 
      sul trono dei miei padri dopo venticinque anni d'esilio, io ho per 
      venticinque anni studiato,  esplorato,  analizzato gli uomini e le 
      cose di questa Francia che mi era stata  promessa,  perché  giunto 
      poi  alla meta di tutti i miei voti,  una forza che tenevo stretta 
      fra le mani, scoppi ad un tratto e mi stritoli!" 
      "Sire,  è una fatalità" mormorò il ministro,  accorgendosi che  un 
      simile peso,  leggero in apparenza,  era sufficiente a schiacciare 
      un uomo. 
      "Cadere!" continuò Luigi Diciottesimo, che al primo colpo d'occhio 
      aveva  esplorato  il  precipizio  sull'orlo  del  quale  stava  la 
      monarchia. "Cadere, ed essere avvisati dal telegrafo della propria 
      caduta!  Oh,  quanto  preferirei  salire  sul  patibolo  di  Luigi 
      Sedicesimo,  che discendere le scale delle Tuileries scacciato dal 
      ridicolo.  Il  ridicolo,  signore,  voi  non  sapete che cosa è in 
      Francia!" 
      "Sire! Sire!" mormorò il ministro, "per pietà!" 
      "Avvicinatevi,  signor Villefort" continuò il  Re,  volgendosi  al 
      giovane  che,   ritto,   immobile  un  po'  indietro,  considerava 
      l'andamento di quella conversazione,  ove si agitavano  i  perduti 
      destini di un regno,  "avvicinatevi, e dite al signor ministro che 
      si poteva saper molto tempo prima, tutto ciò che non ha saputo." 
      "Sire,  era materialmente impossibile  indovinare  i  progetti  di 
      quest'uomo, nascosti a tutti" balbettò il ministro. 
      "Materialmente  impossibile!  Ecco là,  signore,  una gran parola. 
      Disgraziatamente vi sono  dei  grand'uomini  come  vi  sono  delle 
      grandi parole,  io li ho misurati. Materialmente impossibile ad un 
      ministro che ha un dicastero,  degli uffici,  degli agenti  ed  un 
      milione  e  mezzo  di franchi per i fondi delle spese segrete,  di 
      sapere ciò che succede a sessanta leghe dalle  coste  di  Francia! 
      Ebbene,  ecco  qui  questo  signore che non aveva alcuna di queste 
      risorse a sua disposizione, semplice magistrato, che ne sapeva più 
      di voi con tutta la vostra polizia e che  mi  avrebbe  salvata  la 
      corona,  se  avesse avuto,  come voi,  il diritto di fare agire un 
      telegrafo." 
      Lo sguardo del Ministro di polizia si voltò con una espressione di 
      profondo  rispetto  su  Villefort,  che  abbassò  la  testa  colla 
      modestia del trionfo. 
      "Io  non  dico  ciò  per voi,  mio caro de Blacas" continuò il Re, 
      "poiché se non avete scoperto niente,  avete avuto almeno il  buon 
      senso  di conservarvi nel vostro sospetto.  Un altro forse avrebbe 
      considerata  la  relazione  di  Villefort  come  insignificante  o 
      benanche  suggerita  da  un'ambizione  venale,  e avrebbe atteso i 
      segni del telegrafo!..." 
      Queste parole facevano allusione a ciò che il Ministro di  polizia 
      aveva pronunciato con tanta sicurezza un'ora prima. 
      Villefort comprese lo stato d'animo del Re. 
      Un altro forse si sarebbe lasciato trasportare dall'ebbrezza delle 
      lodi,  ma  egli  temeva di farsi un nemico mortale nel Ministro di 
      polizia,   quantunque  vedesse  che  questi  era  irrevocabilmente 
      perduto. 
      Infatti  il ministro,  che nella pienezza del suo potere non aveva 
      saputo  indovinare  il  segreto   di   Napoleone,   poteva   nelle 
      convulsioni  della  sua  agonia penetrare il segreto di Villefort? 
      Per far ciò non gli  sarebbe  abbisognato  altro  che  interrogare 
      Dantès. 
      Egli  dunque venne in soccorso del ministro,  invece di aggravarne 
      la posizione. 
      "Sire" disse Villefort, "la rapidità dell'evento deve provare alla 
      Maestà Vostra che il cielo solo poteva  impedirlo,  suscitando  un 
      burrasca.  Ciò  che  Vostra  Maestà  crede  in me l'effetto di una 
      profonda perspicacia è dovuto ad un puro e semplice  caso.  Ne  ho 
      approfittato  di questo caso come un servo fedele,  ed ecco tutto. 
      Non mi attribuite più di quel che  merito,  per  non  aver  mai  a 
      pentirvi della prima idea che avete concepito di me." 
      Il  Ministro  di  polizia  ringraziò  il  giovane  con uno sguardo 
      eloquente,  e  Villefort  capì  di  essere  riuscito  nel  proprio 
      disegno:  vale a dire che,  senza perder niente della riconoscenza 
      del Re,  si era procurato un amico sul quale poteva  contare  alla 
      circostanza. 
      "Sta bene" disse il Re, "e frattanto, signori" voltandosi verso de 
      Blacas  ed  il  ministro,  "io non ho più bisogno di voi;  ciò che 
      resta da fare, spetta al Ministro della guerra." 
      "Fortunatamente,  Sire" disse de  Blacas,  "noi  possiamo  contare 
      sull'esercito;  Vostra  Maestà  sa  come  tutti  i  rapporti ce lo 
      dipingono devoto al vostro governo." 
      "Non mi parlate di rapporti,  conte,  ora so la fiducia che si può 
      avere in essi.  E,  a proposito di rapporti,  signor barone,  cosa 
      avete saputo sull'affare di rue Saint-Jacques?" 
      "Sull'affare di rue Saint-Jacques!" esclamò Villefort, senza poter 
      trattenere un'esclamazione. 
      Ma fermandosi ad un tratto: 
      "Perdono,  Sire" disse,  "la mia devozione a Vostra Maestà  mi  fa 
      incessantemente  dimenticare,  non  il  rispetto  che ho per essa, 
      perché questo è troppo profondamente scolpito nel mio cuore, ma le 
      regole dell'etichetta." 
      "Dite e fate,  signore" soggiunse Luigi  Diciottesimo,  "voi  oggi 
      avete acquistato il diritto d'interrogare." 
      "Sire"   intervenne   il   Ministro   di  polizia,   "oggi  venivo 
      precisamente per dare a Vostra Maestà le ultime notizie  che  sono 
      state  raccolte  su  questo avvenimento,  allorché l'attenzione di 
      Vostra Maestà si è rivolta alla  terribile  catastrofe  del  golfo 
      Juan.  Ora  queste  informazioni non avranno forse alcun interesse 
      per il Re." 
      "Al contrario,  signore,  al contrario" disse Luigi  Diciottesimo, 
      "questo  affare mi sembra avere un rapporto diretto con quello che 
      ci occupa,  e la morte del generale Epinay ci metterà forse  sulla 
      strada di un gran complotto interno." 
      Al nome del generale Epinay, Villefort rabbrividì. 
      "Effettivamente,  Sire" riprese il Ministro di polizia,  "tutto ci 
      condurrebbe a credere che questa morte non fosse il  risultato  di 
      un suicidio, come si era creduto dapprima, bensì di un assassinio. 
      Il  generale  Epinay  usciva,  a  ciò che sembra,  da una riunione 
      bonapartista, quando disparve. Un uomo sconosciuto era stato nella 
      stessa  mattina  a  cercarlo  in  casa  sua,   e  gli  aveva  dato 
      appuntamento in rue Saint-Jacques.  Per disgrazia il cameriere che 
      lo pedinava  al  momento  in  cui  questo  sconosciuto  era  stato 
      introdotto nel salotto, ha bene inteso nominare rue Saint-Jacques, 
      ma non si è ricordato bene il numero." 
      A misura che il Ministro di polizia dava al Re queste informazioni 
      Villefort,  che  sembrava  pendere  dalle sue labbra,  arrossiva e 
      impallidiva. 
      Il Re si voltò a lui: 
      "Non pensate al pari di me,  signor  Villefort,  che  il  generale 
      Epinay,  che si faceva credere del partito dell'usurpatore, ma che 
      realmente era tutto a me devoto,  sia perito vittima di un'insidia 
      bonapartista?" 
      "E' probabile, Sire" rispose Villefort. "Ma non se ne sa altro?" 
      "Si sta sulle sue tracce?" chiese il Re. 
      "Sì, il cameriere ne ha dati i connotati. E' un uomo dai cinquanta 
      ai  cinquantadue  anni,  bruno,  cogli occhi neri coperti da folte 
      sopracciglia,  porta le basette,  veste con un soprabito  turchino 
      abbottonato,  ed  ha sulla bottoniera il nastro di ufficiale della 
      Legion d'Onore.  Ieri fu seguito  un  individuo  i  cui  connotati 
      corrispondono  perfettamente  a  quelli  che ho detto,  ma è stato 
      perduto di vista all'angolo di rue Juspine con rue Héron." 
      Villefort si era appoggiato allo schienale di una sedia, poiché, a 
      misura che il Ministro di polizia parlava,  sentiva le  sue  gambe 
      venirgli  meno;  ma  quando  sentì che lo sconosciuto era sfuggito 
      alle ricerche dell'agente che lo seguiva, respirò. 
      "Voi farete tutte le ricerche possibili di quest'uomo" disse il Re 
      al Ministro di polizia, "perché, se come ogni cosa fa credere,  il 
      generale  Epinay,  che  in  questo  momento ci sarebbe stato tanto 
      utile,  è caduto vittima di  un  assassinio,  bonapartista  o  no, 
      voglio che i suoi assassini siano crudelmente puniti." 
      Villefort  ebbe  bisogno  di  tutto  il  suo sangue freddo per non 
      tradire  il  terrore   che   gli   veniva   ispirato   da   questa 
      raccomandazione del Re. 
      "Cosa strana" continuò il Re,  con buonumore, "la polizia crede di 
      aver  detto  tutto   quando   ha   detto:   "E'   stata   commessa 
      un'uccisione",  e tutto fatto quando soggiunge: "Si è sulle tracce 
      dei colpevoli"." 
      "Sire,  Vostra Maestà,  io spero,  su questo  punto  almeno,  sarà 
      soddisfatta." 
      "Va  bene,  vedremo.  Io non vi trattengo di più,  barone.  Signor 
      Villefort,  voi dovete essere  stanco  di  questo  lungo  viaggio, 
      andate  a riposarvi.  Senza dubbio avrete preso alloggio da vostro 
      padre?" 
      Un lampo passò innanzi agli occhi di Villefort. 
      "No,  Sire"  diss'egli,   "sono  sceso  all'albergo  Madrid,   rue 
      Tournon." 
      "Ma avete veduto il signor Noirtier?" 
      "Io  mi  sono  fatto  condurre  sull'istante  presso  il  Conte de 
      Blacas." 
      "Ma voi lo vedrete almeno?" 
      "Non lo penso, Sire." 
      "Ah,  è giusto" disse Luigi Diciottesimo sorridendo,  in  modo  da 
      provare  che  tutte queste reiterate domande non erano state fatte 
      senza un perché.  "Dimenticavo che voi  siete  freddo  col  signor 
      Noirtier,  e  siccome  questo  è un nuovo sacrificio che fate alla 
      causa reale, fa d'uopo ch'io vi compensi." 
      "Sire,  la bontà che mi dimostra la Maestà Vostra è una ricompensa 
      che sorpassa tanto i miei desideri,  che non mi resta più nulla da 
      chiedere al Re." 
      "Non  importa,   signore,   noi  non  vi   dimenticheremo,   state 
      tranquillo." 
      E  così  dicendo  il  Re staccò la croce della Legione d'Onore che 
      portava d'ordinario sul suo abito vicino alla croce di San Luigi e 
      la diede a Villefort. 
      "Nel frattempo" disse, "portate sempre questa croce." 
      "Sire" disse Villefort,  "Vostra Maestà s'inganna,  questa croce è 
      quella di ufficiale." 
      "In fede mia,  signore" disse il Re,  "prendetela tale quale è, io 
      non ho il tempo di  farne  richiedere  un'altra.  De  Blacas,  voi 
      sorveglierete affinché sia spedito il brevetto a Villefort." 
      Gli occhi di Villefort si bagnarono di una orgogliosa gioia,  egli 
      prese la croce e la baciò. 
      "Ora quali sono gli ordini che mi fa l'onore di  darmi  la  Maestà 
      Vostra?" 
      "Prendete  il  riposo  che  vi è necessario,  e pensate che se non 
      potete giovarmi a Parigi,  tuttavia potrete essermi di grandissima 
      utilità a Marsiglia." 
      "Sire" rispose Villefort inchinandosi, "fra un'ora sarò partito da 
      Parigi." 
      "Andate" disse il Re, "e se un giorno vi dimenticassi, non abbiate 
      alcun  riguardo  a  richiamarvi al mio pensiero...  Signor barone, 
      date ordine perché si vada a cercare il Ministro della guerra." 
      "Ah,  signore" disse il Ministro di polizia a  Villefort,  uscendo 
      dalle  Tuileries,  "voi  entrate  per  la  porta buona,  la vostra 
      fortuna è fatta!" 
      "Durerà a lungo?" mormorò Villefort, salutando il ministro, la cui 
      carriera era finita,  e cercando  cogli  occhi  una  carrozza  per 
      ritornare all albergo. 
      Una  vettura  passava sulla strada,  Villefort vi si gettò dentro, 
      lasciandosi trasportare dai suoi sogni d'ambizione. 
      Dieci minuti dopo Villefort era rientrato all'albergo. 
      Dispose che i cavalli da posta fossero in ordine dopo  due  ore  e 
      frattanto gli si servisse la colazione. 
      Stava per mettersi a tavola,  quando il suono del campanello vibrò 
      agitato da una mano franca e ferma. Il cameriere andò ad aprire, e 
      Villefort intese pronunciare il suo nome. 
      "Chi può già sapere ch'io sono qui?" si domandava il giovane. 
      In quel mentre entrava il cameriere. 
      "Ebbene?" disse Villefort. "Che c'è? Chi ha suonato? Chi chiede di 
      me?" 
      "Uno straniero che non ha voluto dire il suo nome." 
      "E quali apparenze ha questo straniero?" 
      "Ma... è un uomo di una cinquantina di anni." 
      "Grande? piccolo?" 
      "Press'a poco della vostra statura, signore,  bruno,  molto bruno, 
      capelli neri, occhi neri, sopracciglia nere e basette nere." 
      "Com'e vestito?" domandò agitato Villefort. 
      "Con un gran soprabito turchino abbottonato dall'alto al basso,  e 
      fregiato della decorazione della Legion d'Onore." 
      "E' lui!" mormorò Villefort impallidendo. 
      "Eh,  perbacco" disse comparendo sulla porta l'uomo di cui abbiamo 
      dato i connotati,  "ci vogliono dunque molte cerimonie!  C'è forse 
      il costume a Marsiglia che i figli  facciano  fare  anticamera  al 
      padre?" 
      "Mio  padre"  esclamò  Villefort.  "Non  mi  ero dunque sbagliato, 
      sospettavo foste voi." 
      "Allora se tu sospettavi che fossi io" riprese il nuovo  arrivato, 
      deponendo  il  bastone  in  un  angolo e il cappello su una sedia, 
      "permettimi di dirti, mio caro Gherardo,  che non è una bella cosa 
      farmi aspettare in tal modo." 
      "Lasciateci, Germano" disse Villefort. 
      Il cameriere uscì, dando segni visibili di meraviglia. 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 12. 
                               PADRE E FIGLIO. 
 
 
      Noirtier,  poiché  infatti  era  lui stesso,  seguì cogli occhi il 
      domestico fino a che fu chiusa la porta; poi, temendo senza dubbio 
      che stesse ad ascoltare nell'anticamera,  andò a  riaprirla  ed  a 
      guardare:  la  precauzione  non  era stata inutile,  e la rapidità 
      colla quale Germano si ritirò,  provava ch'egli non era esente dal 
      peccato che perdette i nostri primi padri. 
      Noirtier  si prese allora la pena di andare egli stesso a chiudere 
      la porta dell'anticamera,  rinchiuse quella in cui erano,  e stese 
      la mano a Villefort,  che aveva seguito tutti questi movimenti con 
      un sorpresa da cui non si era ancora rimesso. 
      "Sai tu,  mio caro Gherardo" disse il  padre  guardandolo  con  un 
      sorriso  di cui era difficile definire l'espressione,  "che non mi 
      sembri molto contento di rivedermi?" 
      "Al contrario,  padre mio,  ne sono incantato;  soltanto ero  così 
      lontano,  ve lo confesso, dall'attendere una vostra visita ch'essa 
      mi ha in qualche modo meravigliato." 
      "Mio caro" rispose Noirtier sedendosi,  "mi sembra che  io  potrei 
      dirti altrettanto. Come! Tu m'hai annunziato il tuo fidanzamento a 
      Marsiglia per il giorno 28 febbraio, e il 4 marzo sei a Parigi?" 
      "Se  io  vi  sono,  padre  mio"  disse  Gherardo  avvicinandosi  a 
      Noirtier,  "non ve ne lamentate;  perché è per voi che son  venuto 
      qui, e il mio viaggio forse vi salverà." 
      "Ah,  davvero!"  disse  Noirtier allungandosi con noncuranza nella 
      sedia sulla quale si  era  assiso.  "Davvero!?  Raccontami  dunque 
      com'è, signor magistrato? Dev'essere una cosa curiosa!" 
      "Padre  mio,   dovete  certamente  avere  sentito  parlare  di  un 
      complotto bonapartista che tiene le sue  riunioni  in  rue  Saint- 
      Jacques?" 
      "Numero 35, sì, io ne sono il vice-presidente." 
      "Padre mio, il vostro sangue freddo mi fa fremere." 
      "Che  vuoi mio caro,  quand'uno è stato proscritto da quelli della 
      Montagna,  quando è uscito da Parigi  in  un  carretta  di  fieno, 
      quando è stato attorniato nelle lande di Bordeaux dagli sgherri di 
      Robespierre, ciò agguerrisce a ben molte cose. Ma continua dunque. 
      Ebbene, cosa è accaduto in questa riunione di rue Saint-Jacques?" 
      "E'  accaduto  che  vi  si  fece  venire il generale Epinay,  e il 
      generale Epinay,  uscito  alle  nove  di  sera  da  casa  sua,  fu 
      ritrovato l'indomani nella Senna." 
      "E chi ti ha raccontato questa bella storia?" 
      "Il Re stesso, signore!" 
      "Ebbene, in compenso della tua storia ti darò una notizia." 
      "Padre mio, credo già di saper ciò che volete dirmi." 
      "Ah, tu sai dello sbarco di Sua Maestà l'Imperatore!" 
      "Silenzio,  padre mio,  vi prego,  prima per voi e poi per me; si, 
      sapevo questa notizia,  e la sapevo ancora prima di voi,  poiché è 
      da  tre giorni che volo sulla strada da Marsiglia a Parigi,  colla 
      rabbia di non poter lanciare a duecento  leghe  innanzi  a  me  il 
      pensiero che mi brucia cervello." 
      "Sono tre giorni! Ma sei pazzo? Tre giorni fa l'Imperatore non era 
      ancora sbarcato." 
      "Non importa; sapevo il suo progetto." 
      "E come?" 
      "Per  mezzo di una lettera che vi era stata indirizzata dall'isola 
      d'Elba,  e che ho sorpresa nel portafoglio di  un  messaggero.  Se 
      questa  lettera fosse andata nelle mani di un altro,  a quest'ora, 
      padre mio, forse sareste fu stato fucilato." 
      Il padre di Villefort si mise a ridere. 
      "Andiamo,  andiamo" disse,  "sembra  che  la  Restaurazione  abbia 
      appreso  dall'Impero il modo di risolvere gli affari...  Fucilato! 
      Caro mio,  e come potevi crederlo?  E  questa  lettera  dov'è?  Ti 
      conosco troppo per credere che tu l'abbia lasciata perdere." 
      "L'ho  bruciata  per  timore  che  ne  rimanesse un sol frammento; 
      perché quella lettera era la vostra condanna." 
      "E la perdita dell'avvenire" rispose freddamente Noirtier. "Sì, lo 
      capisco;  ma ora io non ho  più  nulla  a  temere,  purché  tu  mi 
      protegga." 
      "Io faccio anche più di questo. Vi salvo." 
      "Oh diavolo! Ciò diventa più drammatico: spiegati." 
      "Signore,  ritorno  sull'argomento  delle  riunioni  in rue Saint- 
      Jacques." 
      "Sembra che queste riunioni stiano a cuore  alla  polizia.  Perché 
      non le hanno cercate meglio? Le avrebbero trovate." 
      "Essi non le hanno trovate, ma ne sono sulla traccia." 
      "Questa  è  la parola d'uso,  lo so bene: quando la polizia non sa 
      niente,  dice che essa è  sulle  tracce,  ed  il  Governo  aspetta 
      tranquillamente il giorno in cui essa venga a dire, colle orecchie 
      basse, che queste tracce sono perdute." 
      "Sì, ma fu ritrovato un cadavere: il generale è stato ammazzato, e 
      in tutti i paesi del mondo questo si chiama un assassinio." 
      "Un assassinio,  dici!  Andiamo, via, niente prova che il generale 
      sia stato vittima di un assassinio;  tutti  i  giorni  si  ritrova 
      gente  nella  Senna  che  vi  si  getta per disperazione,  o vi si 
      annega, non sapendo nuotare." 
      "Padre mio, voi sapete benissimo che il generale non si è annegato 
      per disperazione,  e che non si va a fare un bagno nella Senna nel 
      mese di gennaio.  No,  no,  non vi illudete,  questa morte è stata 
      qualificata come un assassinio." 
      "E chi l'ha qualificata in tal modo?" 
      "Il Re stesso." 
      "Il Re! Vuoi sapere come sono andate le cose? Ebbene,  te lo dirò. 
      Si  credeva  di poter contare sul generale Epinay che ci era stato 
      raccomandato di laggiù.  Uno dei nostri va da  lui  invitandolo  a 
      intervenire  a  un'assemblea  di amici in rue Saint-Jacques.  Egli 
      viene,  e là gli si spiega tutto il piano;  la partenza dall'isola 
      d'Elba,  lo sbarco progettato.  Poi quando ha udito tutto,  inteso 
      tutto,  e non gli resta più  niente  da  sapere,  dichiara  che  è 
      realista.  Allora ciascuno si mette in guardia, gli si fa prestare 
      giuramento;  egli lo presta,  ma di malavoglia.  Ebbene,  malgrado 
      tutto  ciò  il  generale fu lasciato uscire libero,  perfettamente 
      libero. Non è tornato a casa sua. Che vuoi? Mio caro, si allontanò 
      da noi vivo. Avrà sbagliato strada, ecco tutto. Un assassinio!  In 
      verità,  Villefort,  tu  sostituto  procuratore  del  Re imbastire 
      un'accusa su prove così meschine!  Ho  io  forse  mai  pensato  di 
      dirti,  quando  esercitavi  il tuo mestiere di realista,  e facevi 
      tagliar la testa a uno dei miei:  "Figlio  mio,  hai  commesso  un 
      assassinio!"?  No,  io  ho detto: "Benissimo!  Oggi hai combattuto 
      vittoriosamente; a domani la rivincita". 
      "Padre  mio,  state  in  guardia,  perché  questa  rivincita  sarà 
      terribile quando la prenderemo noi." 
      "Non ti comprendo." 
      "Voi contate sul ritorno dell'usurpatore?" 
      "Lo confesso." 
      "V'ingannate,  padre  mio,  egli non farà dieci leghe nell'interno 
      della Francia, senza essere perseguitato, circondato, e preso come 
      una bestia feroce." 
      "Mio caro,  in questo momento è sulla strada di Grenoble.  Il 10 o 
      il 12 sarà a Lione, e il 20 o il 25 a Parigi." 
      "Le popolazioni si muoveranno" 
      "Per andare a incontrarlo." 
      "Egli non può aver con sé che pochi uomini, e gli verranno inviati 
      contro degli eserciti..." 
      "Che  gli  serviranno  di  scorta  per entrare nella capitale.  In 
      verità, mio caro Gherardo,  non sei che un ragazzo.  Ti credi bene 
      informato  perché  il telegrafo ha detto tre o quattro giorni dopo 
      lo sbarco: "L'usurpatore è sbarcato a Cannes con pochi uomini;  si 
      sta isolandolo.  Ma dov'è?  Che fa? Non si sa niente. Lo si isola, 
      ecco tutto ciò che si sa; ebbene, sarà in tal guisa isolato fino a 
      Parigi, senza bruciare una cartuccia." 
      "Grenoble e Lione  sono  due  città  fedeli,  gli  opporranno  una 
      barriera insuperabile." 
      "Grenoble gli aprirà le sue porte con entusiasmo, e la popolazione 
      di Lione tutta intera uscirà per andargli incontro.  Credimi,  noi 
      siamo tanto bene informati quanto voi,  e la  nostra  polizia  val 
      molto più della vostra.  Ne vuoi una prova?  Essa sa che tu volevi 
      nascondermi il tuo viaggio e io ho saputo del tuo arrivo  mezz'ora 
      dopo  che  avevi passato la barriera.  Non hai dato l'indirizzo ad 
      alcun altro che  al  tuo  postiglione;  ebbene  io  ho  conosciuto 
      l'indirizzo  e la prova è che giungo appunto nel momento in cui ti 
      metti a tavola.  Suona dunque  ed  ordina  che  portino  un  altro 
      coperto, pranzeremo insieme." 
      "Infatti"  rispose  Villefort,  guardando  suo  padre con stupore, 
      "infatti mi sembrate bene informato." 
      "Eh,  mio Dio,  la cosa è semplicissima:  voi  realisti  avete  il 
      potere, non avete che quei mezzi che può fornire il denaro, ma noi 
      che lo aspettiamo,  abbiamo quelli che ci somministra la devozione 
      e l'attaccamento." 
      "La devozione?" disse Villefort ridendo. 
      "Sì,  la devozione: è in tal modo  che  in  termini  onesti  viene 
      chiamata un'ambizione che spera." 
      Così  dicendo  il padre di Villefort stese la mano sul cordone del 
      campanello per chiamare il servitore,  che non veniva chiamato  da 
      suo figlio. 
      Villefort gli trattenne il braccio. 
      "Aspettate, padre mio" disse il giovane, "una parola ancora..." 
      "Di'..." 
      "Per quanto sia mal organizzata la polizia realista,  tuttavia, sa 
      una cosa terribile." 
      "Quale?" 
      "I connotati dell'uomo che la mattina del giorno in cui  scomparve 
      il generale Epinay si era presentato in casa sua." 
      "Ah, sa questa buona polizia? E questi connotati quali sono?" 
      "Colorito bruno,  capelli, baffi ed occhi neri, soprabito turchino 
      abbottonato fino al mento, nastro d'ufficiale della Legion d'Onore 
      attaccato alla bottoniera,  cappello a larga tesa,  e  bastone  di 
      giunco." 
      "Ah,  ah,  essa sa tutto ciò" disse Noirtier, "e perché dunque non 
      ha messo la mano su quest'uomo?" 
      "Perché ieri l'altro l'ha perduto di vista presso  l'angolo  della 
      via Héron." 
      "Dicevo bene, quando asserivo che la vostra polizia è stupida!" 
      "Non ne dissento, ma da un momento all'altro può ritrovarlo." 
      "Sì" disse Noirtier,  gettando uno sguardo di noncuranza intorno a 
      sé, "sì, se quest'uomo non fosse stato avvertito, ma egli lo è, e" 
      continuò ridendo, "cambierà di viso e di costume." 
      A queste parole,  si alzò,  e levatosi il soprabito e la cravatta, 
      andò  verso  la  tavola  sulla quale erano preparate tutte le cose 
      necessarie alla toilette di suo figlio. Preso un rasoio,  insaponò 
      il  viso  e con un polso perfettamente fermo tagliò quei baffi che 
      lo  compromettevano,  dando  alla  polizia  un  indizio  prezioso. 
      Villefort  lo  guardava  con  un timore non esente da ammirazione. 
      Tagliati i baffi, Noirtier diede un'altra piega ai capelli, prese, 
      invece della cravatta nera,  la prima cravatta di colore che trovò 
      nel  baule  aperto  di  suo  figlio,  indossò,  al  posto  del suo 
      soprabito turchino e abbottonato,  un abito di  suo  figlio  color 
      marrone  e  di  taglio  aperto,  si provò davanti allo specchio il 
      cappello ad ali ristrette del giovane,  e parendo soddisfatto  del 
      modo con cui gli andava, lasciò il bastone di giunco nel canto del 
      caminetto  ove  l'aveva  deposto  e  fece  sibilare nella sua mano 
      nervosa  una  piccola  mazza  di  bambù  colla  quale   l'elegante 
      sostituto  dava  al  suo modo di camminare la disinvoltura che era 
      una delle sue principali qualità. 
      "Ebbene" disse,  voltandosi verso il figlio stupefatto  di  questo 
      cambiamento  quasi  a vista,  "ebbene,  credi che la polizia potrà 
      riconoscermi?" 
      "No, padre" balbettò Villefort, "o almeno lo spero." 
      "Ora mio caro  Gherardo"  continuò  Noirtier,  "rimetto  alla  tua 
      prudenza  fare  sparire  tutti  gli  oggetti,  che  ti  lascio  in 
      custodia." 
      "Oh, state tranquillo, padre" disse Villefort. 
      "Sì,  sì,  ora credo che tu abbia ragione,  e possa dire di avermi 
      effettivamente  salvato  la vita.  Ma stai tranquillo,  ti renderò 
      questo servizio quanto prima." 
      Villefort scosse la testa. 
      "Non ne sei convinto?" 
      "Spero almeno che vi sbagliate." 
      "Rivedrai il Re?" 
      "Forse!" 
      "Vuoi passare ai suoi occhi per un profeta?" 
      "I profeti delle disgrazie sono sempre malvisti a corte." 
      "Sì, ma un giorno o l'altro viene loro resa giustizia: supponi una 
      seconda Restaurazione,  allora passerai per un uomo ben più grande 
      di Talleyrand del quale tutti conoscono la sagacia politica." 
      "Infine che dovrei dire al Re?" 
      "Questo solo: "Sire,  voi siete ingannato sulle disposizioni della 
      Francia,  sull'opinione della città,  sullo spirito dell'esercito. 
      Quello  che  voi  chiamate a Parigi il lupo della Corsica,  che si 
      chiama ancora l'usurpatore a Nevers,  si chiama  già  Bonaparte  a 
      Lione,  e  imperatore  a  Grenoble.  Voi  lo  credete  circondato, 
      perseguitato,  in fuga,  ed egli cammina rapido come l'aquila  che 
      porta; i suoi soldati che voi credete morti di fame, stanchi dalla 
      fatica  e  vicini  a  disertare,  aumentano  come le falde di neve 
      intorno alla valanga che precipita. Sire, partite,  abbandonate la 
      Francia  al  suo  vero  padrone,  a  quello  che l'ha conquistata, 
      partite,  Sire.  Non che voi corriate alcun  pericolo:  il  vostro 
      rivale è abbastanza forte per farvi grazia, perché è umiliante per 
      un  nipote  di  San  Luigi  dovere  la vita all'eroe d'Arcole,  di 
      Marengo e d'Austerlitz".  Digli tutto ciò Gherardo.  O  piuttosto, 
      non dirgli niente, dissimula il viaggio, non ti vantare di ciò che 
      sei  venuto  a fare a Parigi;  riprendi la posta,  e se hai volato 
      sulla strada per venire,  divora lo spazio per tornare;  rientra a 
      Marsiglia  di notte,  vai in casa dalla porta di dietro e resta là 
      ben  tranquillo,  ben  umile,  ben  segreto,   e  soprattutto  ben 
      inoffensivo,  perché  questa  volta,  io lo giuro,  noi agiremo da 
      persone rigorose,  che conoscono i loro nemici.  Va'  figlio  mio, 
      caro  Gherardo,  e mediante questa obbedienza agli ordini paterni, 
      o, se preferisci, questa deferenza per i consigli di un amico, noi 
      ti  lasceremo  al  tuo  posto.   Ciò  sarà"   soggiunse   Noirtier 
      sorridendo,  "il  mezzo  per  salvarmi  una  seconda volta,  se la 
      bilancia politica un giorno rimetterà te in alto,  e me in  basso. 
      Addio,  mio  caro Gherardo,  al prossimo ritorno alloggerai a casa 
      mia." 
      E Noirtier uscì con la tranquillità che non lo  aveva  abbandonato 
      un istante durante questa difficile conversazione. 
      Villefort,  pallido  e  agitato,  corse alla finestra,  ne alzò la 
      tenda, e lo vide passare calmo ed impassibile in mezzo a due o tre 
      uomini di cattivo aspetto, imboscati agli angoli della strada, che 
      erano forse là per arrestare l'uomo dai baffi neri,  dal soprabito 
      turchino e dal cappello a larghe tese. 
      Villefort  restò  così  in  piedi ed anelante fino a che suo padre 
      disparve alla crociera Bussy.  Allora si lanciò sugli  oggetti  da 
      lui lasciati: pose nel fondo del suo baule la cravatta nera,  e il 
      soprabito turchino,  contorse il  cappello  che  cacciò  sotto  un 
      armadio,  ruppe  il  bastone  di giunco in tre pezzi che gettò sul 
      fuoco, lacerò una berretta da viaggio, chiamò il suo cameriere,  e 
      con  uno  sguardo  gli  proibì  le mille domande che avrebbe avuto 
      volontà  di  fargli,  saldò  il  conto  dell'albergo,  salì  nella 
      carrozza che l'aspettava.  Seppe a Lione che Bonaparte era entrato 
      a Grenoble,  e in mezzo all'agitazione che regnava lungo tutta  la 
      strada, giunse a Marsiglia, in preda a tutti i terrori che entrano 
      nel cuore dell'uomo ambizioso che riceve i primi onori. 
                                 Capitolo 13. 
                               I CENTO GIORNI. 
 
 
      Noirtier  era un buon profeta,  e le cose andarono ben presto come 
      aveva detto. 
      Ciascuno conosce il ritorno  dall'isola  d'Elba.  Ritorno  strano, 
      miracoloso,   senza  esempio  nel  passato,   probabilmente  senza 
      imitazione nell'avvenire. 
      Luigi Diciottesimo tentò assai debolmente di riparare a  un  colpo 
      così  forte.  La  sua poca confidenza negli uomini gli toglieva la 
      confidenza negli avvenimenti.  Il regno,  o piuttosto la monarchia 
      riconosciuta in lui, tremò sulla sua base ancora incerta. 
      Villefort non ebbe dunque dal suo Re che una riconoscenza non solo 
      inutile per il momento, ma ben anche pericolosa, e quella croce di 
      ufficiale  della Legion d'Onore ottenuta,  ebbe la prudenza di non 
      mostrarla,  quantunque de Blacas,  come gli aveva raccomandato  il 
      Re, ne avesse fatto spedire sollecitamente il brevetto. 
      Napoleone   certamente   avrebbe  destituito  Villefort  senza  la 
      protezione di Noirtier, divenuto onnipossente alla corte dei cento 
      giorni, sia per i pericoli che aveva affrontato, sia per i servizi 
      che aveva resi. 
      Come gli era stato promesso,  il girondino del '93 e  il  senatore 
      del  1806  protesse colui che lo aveva protetto il giorno innanzi. 
      Tutta la potenza di Villefort si  limitò  dunque,  durante  questa 
      breve evocazione dell'Impero di cui fu facile prevedere la seconda 
      caduta,  a nascondere il segreto che Dantès era stato sul punto di 
      divulgare.  Il solo Procuratore  del  Re  fu  destituito,  essendo 
      sospetto di freddezza in bonapartismo. 
      Il  potere  imperiale  fu ristabilito appena l'Imperatore abitò le 
      Tuileries abbandonate da  Luigi  Diciottesimo,  ed  ebbe  lanciati 
      innumerevoli  ordini  da  quel  piccolo  gabinetto ove noi abbiamo 
      introdotto i nostri lettori con Villefort,  e dove sul tavolino di 
      noce,  a metà aperta e ancora piena,  fu trovata la tabacchiera di 
      Luigi Diciottesimo. 
      Marsiglia,  malgrado l'attitudine dei suoi magistrati,  cominciò a 
      sentir  fermentare nel suo seno i germi della guerra civile sempre 
      male spenti nel mezzogiorno. Poco mancò allora che le rappresaglie 
      non andassero al di là di  qualche  schiamazzata,  da  cui  furono 
      assediati  i  realisti  chiusi  nelle  loro  case,  o  di pubblici 
      affronti a coloro che si azzardarono ad uscire.  Per una  naturale 
      virata di bordo, il degno armatore, che già abbiamo designato come 
      appartenente alla fazione popolare, si trovò a sua volta, non dirò 
      onnipossente,  perché  Morrel  era  un uomo prudente e leggermente 
      timido,  come tutti quelli che hanno fatto una  faticosa  e  lenta 
      fortuna commerciale, ma avvantaggiato. 
      Egli  era  in  grado,  dunque,  di  fare intendere i suoi reclami. 
      Questi reclami,  come s'indovinerà facilmente,  erano in favore di 
      Dantès. 
      Villefort  era  rimasto  in  piedi  ad  onta  della caduta del suo 
      superiore, e il suo matrimonio, quantunque rimanesse deciso,  pure 
      venne rimandato a tempi più felici. 
      Se l'Imperatore si conservava in trono,  era un'altra alleanza che 
      occorreva a Gherardo,  e suo padre  sarebbe  stato  incaricato  di 
      trovarla.   Se   una   seconda   Restaurazione  riconduceva  Luigi 
      Diciottesimo in Francia,  l'influenza di Saint-Méran  raddoppiava, 
      unitamente  alla  sua,   e  la  progettata  unione  ritornava  più 
      convenevole di prima. 
      Il sostituto procuratore del  Re  era  dunque  momentaneamente  il 
      primo  magistrato  di  Marsiglia,  allorché  una  mattina la porta 
      s'aprì e gli venne annunziato il signor Morrel. 
      Un altro sarebbe andato sollecito incontro all'armatore, e con tal 
      sollecitudine avrebbe tradita la sua debolezza. 
      Villefort era un uomo superiore che  aveva,  se  non  la  pratica, 
      almeno l'istinto di tutte le cose. 
      Egli  fece fare anticamera a Morrel,  come se fosse stato sotto la 
      Restaurazione. 
      Morrel invece di trovare Villefort abbattuto,  lo ritrovò come  lo 
      aveva  veduto  sei settimane prima,  cioè calmo,  fermo e pieno di 
      quella fredda  gentilezza,  la  più  insormontabile  di  tutte  le 
      barriere, che separa l'uomo elevato dall'uomo volgare. 
      Era penetrato nello studio di Villefort convinto che il magistrato 
      avrebbe tremato alla sua vista, e fu lui invece che si trovò tutto 
      tremante e commosso davanti a questo inquisitore, che lo aspettava 
      col gomito sullo scrittoio e il mento appoggiato alla mano. 
      Egli si fermò sulla porta. 
      Villefort  lo  guardò  come  se  avesse avuto qualche difficoltà a 
      riconoscerlo. 
      Finalmente,  dopo qualche secondo di esame e di silenzio,  durante 
      cui il degno armatore girava il suo cappello fra le mani: 
      "Il signor Morrel, credo?" disse Villefort. 
      "Sì, signore, in persona" disse l'armatore. 
      "Avvicinatevi dunque" continuò il magistrato,  facendo con la mano 
      un segno di  protezione,  "e  ditemi  a  quale  circostanza  debbo 
      l'onore di una vostra visita." 
      "Non ve lo immaginate, signore?" domandò Morrel. 
      "No, non saprei affatto. Ciò però non impedisce ch'io sia disposto 
      ad esservi favorevole se la cosa è in mio potere." 
      "Questa dipende interamente da voi, signore" disse Morrel. 
      "Allora spiegatevi." 
      "Signore"  continuò  l'armatore  riprendendo  la sua sicurezza man 
      mano che parlava,  e incoraggiato d'altronde dalla giustizia della 
      sua causa e dalla chiarezza della sua posizione, "vi ricordate che 
      qualche  giorno  prima  che  si sapesse dello sbarco di Sua Maestà 
      l'Imperatore,  ero venuto a reclamare la vostra indulgenza per  un 
      disgraziato giovane,  un marinaio,  secondo a bordo del mio brick. 
      Fu accusato,  se vi ricordate,  di relazioni con  l'isola  d'Elba. 
      Queste  relazioni,  che  erano  delitti in quell'epoca,  oggi sono 
      titoli di favore.  Voi servivate Luigi Diciottesimo allora,  e non 
      gli usaste nessun riguardo,  signore,  ed era vostro dovere;  oggi 
      servite Napoleone e  dovete  proteggerlo,  questo  pure  è  vostro 
      dovere. Vengo dunque a domandarvi che cosa avvenne di lui?" 
      Villefort fece uno sforzo violento sopra se stesso. 
      "E  il  nome  di  quest'uomo?"  domandò.   "Abbiate  la  bontà  di 
      dirmelo..." 
      "Edmondo Dantès." 
      Evidentemente Villefort sarebbe stato più contento di misurare  la 
      pallottola di un avversario in un duello, che sentirsi pronunciare 
      questo  nome a così poca distanza;  ciononostante non mosse tratto 
      del viso. 
      In questo modo,  diceva a se stesso,  non  potrò  essere  accusato 
      nell'arresto di quest'uomo di affare personale. 
      "Dantès" ripeté forte, "Edmondo Dantès, diceste?" 
      "Sì,  signore."  Villefort aprì allora un grosso registro posto in 
      un cassetto e scorso un indice trovò la  pagina  indicata,  quindi 
      rivolgendosi  all'armatore:  "Siete  ben sicuro di non sbagliarvi, 
      signore?" disse nel modo più naturale. 
      Se Morrel fosse stato un uomo più furbo  o  meglio  illuminato  su 
      questo  affare,  avrebbe  trovato  cosa  bizzarra che il sostituto 
      procuratore del Re si fosse degnato rispondergli  in  tal  maniera 
      sopra  materie  estranee  al  suo ufficio,  e si sarebbe domandato 
      perché  Villefort  non  lo  mandava  piuttosto  ai  registri   dei 
      detenuti,  al  governatore  delle  prigioni,  o  al  prefetto  del 
      dipartimento. 
      Ma Morrel cercando invano la causa del timore in Villefort non  vi 
      osservò null'altro che un tratto di premurosa condiscendenza. 
      Villefort aveva colto nel segno. 
      "No,  signore"  disse  Morrel,  "io  non  mi sbaglio.  D'altronde, 
      conosco il povero giovane da dieci anni, ed è impiegato da quattro 
      anni sotto di me. Io venni, ve ne ricordate?,  circa sei settimane 
      fa  a  pregarvi  di  esser  giusto.  Voi  mi riceveste molto male, 
      rispondendomi seccato...  Ah,  allora i regi erano ben severi  coi 
      bonapartisti!" 
      "Signore"  disse Villefort con la presenza di spirito ed il sangue 
      freddo ordinario,  "io ero regio allora,  perché credevo i Borboni 
      non  solamente gli eredi legittimi del trono,  ma gli eletti della 
      nazione.  Il ritorno di cui siamo stati testimoni mi ha  sorpreso, 
      il genio di Napoleone ha vinto." 
      "Alla   buon'ora"   esclamò  Morrel  con  la  sua  buona  e  rozza 
      franchezza,  "mi fa piacere sentirvi parlare in tal modo,  e io ne 
      auguro bene per la sorte di Edmondo." 
      "Aspettate   dunque"   riprese  Villefort,   sfogliando  un  altro 
      registro, "l'ho trovato...  Un marinaio,  non è così,  che sposava 
      una  catalana?  Sì,  sì,  ora me ne ricordo.  Ma la cosa era molto 
      grave." 
      "Come?" 
      "Voi sapete che uscendo dal mio appartamento venne  condotto  alle 
      prigioni del Palazzo di Giustizia?" 
      "Sì, ebbene?" 
      "Ebbene,  feci  il mio rapporto a Parigi,  mandai le carte trovate 
      presso di lui, questo era mio dovere, che volete...  e otto giorni 
      dopo il suo arresto fu portato via." 
      "Portato  via!"  esclamò  Morrel.  "Ma cosa avranno potuto fare di 
      questo giovanotto?" 
      "Oh,  state tranquillo,  sarà stato trasportato a  Fenestrelle,  a 
      Pinerolo,  o  alle  isole  di Santa Margherita.  Ciò che si chiama 
      trasferito,  in  termini  di  ufficio.  E  una  bella  mattina  lo 
      rivedrete tornare a prendere il comando del vostro bastimento." 
      "Che venga quando vuole,  il suo posto gli sarà sempre conservato. 
      Ma come mai non è ancora ritornato?  Mi sembra che la  prima  cura 
      della giustizia avrebbe dovuto essere quella di mettere in libertà 
      coloro che erano stati incarcerati dalla giustizia realista." 
      "Non accusate temerariamente,  mio caro Morrel" rispose Villefort, 
      "in tutte le cose bisogna procedere legalmente. L'ordine d'arresto 
      venne dall'alto;  bisogna che dall'alto pure venga l'ordine  della 
      libertà.  Ora  Napoleone  è  rientrato  che  sono  appena quindici 
      giorni, e le lettere di abolizione non possono ancora essere state 
      spedite." 
      "Ma" domandò Morrel,  "non vi sarebbe modo di passar sopra a tutte 
      le formalità?  Ora che trionfiamo io godo di qualche influenza,  e 
      posso ottener l'ordine di annullare il decreto." 
      "Non ha avuto luogo nessun decreto." 
      "Dell'ordine d'arresto, allora." 
      "Il  sistema  penitenziario  in  vigore  sotto  Luigi   Sedicesimo 
      continua  pure  oggigiorno,  eccetto  la  Bastiglia,  che  per  un 
      incidente fu spianata.  L'Imperatore è sempre stato  più  rigoroso 
      per  il  regolamento  delle  sue prigioni,  di quello che non lo è 
      stato lo stesso gran Re,  e il numero dei carcerati di cui non  si 
      conserva nessuna traccia sui registri è incalcolabile." 
      Tanta  benevolenza avrebbe messo fuor di dubbio delle certezze,  e 
      Morrel non aveva neppure dei sospetti. 
      "Ma, infine, signor Villefort" diss'egli, "qual consiglio potreste 
      darmi per affrettare il ritorno di Dantès?" 
      "Uno  solo,   signore,   fate  una  petizione  al  Ministro  della 
      giustizia." 
      "Oh  signore,  noi sappiamo ciò che sono le petizioni: il ministro 
      riceve 200 petizioni al giorno." 
      "Sì" rispose Villefort,  "ma egli leggerà una petizione inviatagli 
      da me, postillata da me, indirizzata direttamente da me." 
      "E voi v'incarichereste di far giungere questa petizione?" 
      "Col  più  grande  piacere del mondo.  Dantès poteva essere allora 
      colpevole, ma oggi è innocente, ed è mio dovere rendere la libertà 
      a colui che fu mio dovere far mettere in prigione." 
      Villefort preveniva in tal modo il pericolo di  una  ricerca  poco 
      probabile, ma possibile, che lo avrebbe perduto senza risorse. 
      "Ma come scrivere al ministro?" 
      "Mettevi  là,  signor Morrel" disse Villefort cedendo il suo posto 
      all'armatore, "io vi detterò.  Non perdiamo tempo,  ne abbiamo già 
      perduto abbastanza." 
      "Sì,  signore,  pensiamo  che  il povero Dantès aspetta,  soffre e 
      forse si dispera." 
      Villefort  rabbrividì   all'idea   che   questo   prigioniero   lo 
      maledicesse  nell'oscurità  e  nel  silenzio;  ma  egli era troppo 
      compromesso per potere  tornare  indietro:  Dantès  doveva  essere 
      stritolato fra gli scogli della sua ambizione. Villefort dettò una 
      domanda   in   cui,   per  uno  scopo  eccellente,   esagerava  il 
      patriottismo di Dantès,  e  i  servizi  da  lui  resi  alla  causa 
      bonapartista. In questa petizione, Dantès compariva come uno degli 
      agenti  più  attivi per il ritorno di Napoleone.  Era evidente che 
      vedendo una  tal  supplica,  il  ministro  doveva  fare  giustizia 
      all'istante, se giustizia non era ancora fatta. 
      Finita la petizione, Villefort la rilesse ad alta voce. 
      "E fatto" disse, "ora contate tranquillamente su di me." 
      "E la petizione partirà presto, signore?" 
      "Oggi stesso." 
      "E voi vi farete delle postille?" 
      "La  postilla  ch'io  posso  mettervi  è quella di certificare per 
      verità tutto ciò che voi dite nella petizione." 
      Villefort a sua volta si sedette,  e sopra un lato della petizione 
      estese il suo certificato. 
      "Ora che resta da fare, signore?" domandò Morrel. 
      "Aspettare"  riprese  Villefort,  "io  rispondo  di tutto." Questa 
      assicurazione rese la speranza a Morrel.  Egli lasciò il sostituto 
      procuratore  incantato,  ed andò ad annunciare al vecchio padre di 
      Dantès che non avrebbe tardato molto a rivedere suo figlio. 
      Quanto a Villefort, invece d'inviarla a Parigi, conservò nelle sue 
      mani questa petizione,  che per salvare  Dantès  nel  presente  lo 
      comprometteva orribilmente per l'avvenire, supponendo una cosa che 
      l'aspetto  d'Europa  e la piega degli avvenimenti permettevano già 
      di supporre, cioè una seconda Restaurazione. 
      Dantès rimase dunque prigioniero.  Perduto nel profondo della  sua 
      segreta,  non  intese il rumore formidabile della caduta del trono 
      di Luigi Diciottesimo né quel rumore più spaventevole  ancora  del 
      crollo dell'Impero. Ma Villefort aveva tutto seguito con un occhio 
      vigilante,  aveva tutto ascoltato con orecchio attento. Due volte, 
      durante questa breve apparizione imperiale che fu chiamata  "cento 
      giorni",  Morrel era tornato alla carica, insistendo sempre per la 
      liberazione di Dantès,  e ogni volta,  Villefort lo aveva  calmato 
      con promesse e con speranze. 
      Giunse finalmente la battaglia di Waterloo. 
      Morrel non ricomparve più da Villefort. L'armatore aveva fatto per 
      il  suo  giovane amico tutto ciò che era stato possibile.  Provare 
      nuovi  tentativi   sotto   la   seconda   Restaurazione   era   un 
      compromettersi inutilmente. 
      Luigi Diciottesimo rimontò sul trono, Villefort, per cui Marsiglia 
      era  piena di tristi memorie divenute rimorsi,  domandò ed ottenne 
      il posto vacante di procuratore del Re a Tolosa. 
      Quindici giorni dopo la sua installazione  nella  nuova  residenza 
      egli  sposò  la  signorina  Renata di Saint-Méran il cui padre era 
      favorito a corte più che mai.  Ecco come Dantès,  durante i  cento 
      giorni  e  dopo  la battaglia di Waterloo,  restò sotto catenaccio 
      dimenticato dagli uomini, se non da Dio. 
      Danglars comprese tutto il valore del colpo con cui aveva percosso 
      Dantès,  vedendo ritornare Napoleone in Francia.  La sua  denunzia 
      aveva  colpito  giusto  e,  come  tutti  gli  uomini con una certa 
      attitudine al delitto,  c di  mezzana  intelligenza  per  la  vita 
      ordinaria,  chiamò  questa  bizzarra coincidenza "un decreto della 
      Provvidenza". Ma quando Napoleone ritornò a Parigi,  e la sua voce 
      rintronò  nuovamente imperiosa e potente,  Danglars ebbe paura.  A 
      ogni istante si aspettava  di  veder  ricomparire  Dantès;  Dantès 
      informato  su  tutto,  Dantès  minaccioso  e  terribile  nelle sue 
      vendette. 
      Allora manifestò a Morrel il desiderio di lasciare il servizio  di 
      mare,  e si fece raccomandare ad un negoziante spagnolo, presso il 
      quale entrò come commesso d'ordine alla fine di marzo, vale a dire 
      dieci o  dodici  giorni  dopo  la  ricomparsa  di  Napoleone  alle 
      Tuileries.  Partì dunque per Madrid, e non s'intese più parlare di 
      lui. 
      Fernando non capì niente.  Dantès era rimasto assente,  c ciò  era 
      quanto  gli  interessava.  Che  era accaduto di lui?  Non cercò di 
      saperlo. Durante tutto il tempo di questa assenza,  si ingegnò ora 
      ad ingannare Mercedes sui motivi dell'assenza,  ora a meditare dei 
      piani di emigrazione e di ratto. 
      Ogni tanto,  nelle ore tetre della sua vita,  si sedeva alla punta 
      del capo Faro,  e da questo luogo donde si distingueva ad un tempo 
      Marsiglia  ed  il  villaggio  dei  Catalani,  guardava  triste  ed 
      immobile  come  un  uccello da preda se avesse veduto,  per una di 
      queste strade, il giovane dal passo sciolto e dalla testa alta che 
      per lui pure poteva essere messaggero di una cruda vendetta. 
      Il disegno di Fernando era fissato: spaccare la  testa  di  Dantès 
      con  un  colpo di fucile,  e dopo uccidersi.  E ciò lo diceva a se 
      stesso per colorire il suo delitto. 
      Ma Fernando s'ingannava; non si sarebbe mai ucciso, poiché sperava 
      sempre. 
      Frattanto, in mezzo a tante fluttuazioni dolorose, l'Impero chiamò 
      un ultimo bando di soldati,  e tutti gli uomini che erano in grado 
      di  portare  le  armi si slanciarono fuori della Francia alla voce 
      formidabile  dell'Imperatore.   Fernando  partì  come  gli  altri, 
      lasciando  la  sua  capanna  a  Mercedes,  rodendosi col terribile 
      pensiero che dietro a  lui  forse  sarebbe  tornato  il  rivale  a 
      sposare colei che amava. 
      In  quanto alla ragazza,  la pietà ch'egli sembrava provare per la 
      sua infelicità,  la cura che prendeva di  prevenire  anche  i  più 
      piccoli  suoi  desideri,  aveva  prodotto  l'effetto che producono 
      sempre su cuori generosi le apparenze di affetto a tutta prova. 
      Mercedes aveva  sempre  amato  Fernando  con  amicizia,  alla  sua 
      amicizia   si   aggiunse   un   nuovo  sentimento,   quello  della 
      riconoscenza. 
      "Fratello mio" disse nell'adattare il  sacco  da  coscritto  sulle 
      spalle del catalano,  "fratello mio,  mio solo amico,  non vi fate 
      uccidere, non mi lasciate in questo mondo ove piango,  e dove sarò 
      sola quando voi non ci sarete più!" 
      Queste  parole,  dette  al momento della partenza,  resero qualche 
      speranza a Fernando. 
      Se Dantès non ritornava,  Mercedes poteva dunque un  giorno  esser 
      sua.  Mercedes  restò  sola  su questa nuda terra,  che non le era 
      sembrata mai così arida, e col mare immenso per orizzonte. 
      Tutta bagnata di lacrime come quella pazza di cui si  racconta  la 
      dolorosa  storia,  la  si vedeva incessantemente vagare intorno al 
      piccolo villaggio dei  Catalani,  ora  fermandosi  sotto  il  sole 
      ardente del mezzogiorno,  ritta,  immobile, muta come una statua e 
      guardando Marsiglia,  ora assisa  sulla  spiaggia,  ascoltando  il 
      mormorio del mare, eterno come il suo dolore, e domandandosi senza 
      posa,   se  era  meglio  gettarsi  in  avanti,  lasciarsi  cadere, 
      lanciarsi  nell'abisso  per  esserne  inghiottita,  piuttosto  che 
      soffrire  in  tal  modo  tutte  queste alternative di un attendere 
      senza speranza.  Non fu il  coraggio  che  mancò  a  Mercedes  per 
      compiere  il  suo  progetto,  ma  fu la religione che venne in suo 
      aiuto, e la salvò dal suicidio. 
      Caderousse, come Fernando,  venne pure chiamato nella coscrizione; 
      e  siccome aveva otto anni più del catalano ed era maritato,  così 
      fece parte del terzo bando e fu inviato sulle  coste.  Il  vecchio 
      Dantès,  che  non  era più sostenuto dalla speranza,  la perse del 
      tutto alla caduta dell'Imperatore. Cinque mesi dopo,  nella stessa 
      giornata  in  cui  era  stato  separato dal figlio,  e quasi nella 
      stessa ora in cui venne arrestato,  rese l'ultimo sospiro  fra  le 
      braccia di Mercedes. 
      Morrel provvide a tutte le spese della sepoltura, e pagò i piccoli 
      debiti  che  il  vecchio  aveva  fatto  durante  la  sua malattia. 
      Nell'agire in tal modo vi era, più che beneficenza, coraggio. 
      Le province del mezzogiorno erano in fuoco ed il soccorrere, anche 
      al letto di morte,  il padre di un  bonapartista  così  pericoloso 
      come Dantès, era un delitto. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 14. 
                              I DUE PRIGIONIERI. 
 
 
      Circa  un  anno  dopo  il  ritorno di Luigi Sedicesimo,  vi fu una 
      visita dell'ispettore generale delle prigioni. 
      Questo Ispettore si chiamava signor de Boville. 
      Dantès intese girare e stridere chiavi,  sbattere  porte,  ascoltò 
      dal  fondo  della  sua  segreta  tutti  quei preparativi.  In alto 
      facevano molto  fracasso,  ma  in  basso  sarebbero  stati  rumori 
      impercettibili   per   tutt'altre   orecchie   che  quelle  di  un 
      prigioniero avvezzo a discernere nel silenzio della notte il ragno 
      che tesse la sua tela, e la caduta periodica della goccia d'acqua, 
      che impiega un'ora a formarsi sotto  il  soffitto  della  segreta. 
      Indovinò  che  fra  i vivi accadeva qualche cosa di straordinario. 
      Egli che  da  sì  lungo  tempo  abitava  una  tomba,  poteva  bene 
      considerarsi come un morto. 
      Infatti,  l'Ispettore visitava,  una dopo l'altra, stanze, celle e 
      segrete. Molti prigionieri furono interrogati, ed erano quelli che 
      per  la  loro  stupidità  si   raccomandavano   alla   benevolenza 
      dell'amministrazione:  l'Ispettore  domandava  ad  essi come erano 
      nutriti e  quali  erano  i  reclami  che  avevano  da  fare.  Essi 
      risposero  unanimemente  che il nutrimento era detestabile,  e che 
      reclamavano la loro libertà. 
      L'Ispettore domandò  se  avevano  altra  cosa  da  chiedere.  Essi 
      scossero  la  testa:  qual  altro  bene  oltre  la libera aria può 
      reclamare un prigioniero? 
      Il signor de Boville si voltò sorridendo, e disse al Governatore: 
      "Non so perché ci facciano fare questi inutili giri;  chi vede una 
      prigione,  ne  vede  cento;  chi ascolta un prigioniero ne ascolta 
      mille.  E' sempre la stessa cosa: mal nutriti ed innocenti.  Ve ne 
      sono altri?" 
      "Sì,  abbiamo  prigionieri  pericolosi  o  pazzi  che  teniamo  in 
      segreta." 
      "Vediamo" disse l'Ispettore,  con un'aria di profonda  stanchezza, 
      "facciamo  il  nostro mestiere fino al termine,  discendiamo nelle 
      segrete." 
      "Aspettate"  disse  il  Governatore,  "che  si  mandino  almeno  a 
      prendere due uomini.  I prigionieri commettono qualche volta,  non 
      fosse che per il disgusto della vita e farsi condannare  a  morte, 
      degli  atti d'inutile disperazione.  Potreste cader vittima di uno 
      di questi eccessi." 
      "Prendete dunque le vostre precauzioni" soggiunse l'Ispettore. 
      Si mandarono a chiamare due soldati,  e si cominciò  a  discendere 
      per una scala così umida, così infetta, così ammuffita, che niente 
      quanto   il   passaggio   in   un   simile  luogo  offendeva  così 
      sgradevolmente ad un tempo la vista, l'odorato e la respirazione. 
      "Oh!" fece l'Ispettore fermandosi a metà della scala. "Chi diavolo 
      può alloggiare qui?" 
      "Un cospiratore dei più pericolosi,  e  ci  è  stato  raccomandato 
      particolarmente come un uomo capace di tutto." 
      "E' solo?" 
      "Certamente." 
      "Da quanto tempo?" 
      "Da circa un anno." 
      "E fu messo qui fin dal suo entrare?" 
      "No, signore, ma soltanto dopo aver tentato di uccidere il custode 
      incaricato  di  portargli  il nutrimento;  quello stesso che ci fa 
      lume. Non è vero, Antonio?" 
      "Cercò di uccidere me" rispose il custode. 
      "Ah, è dunque pazzo quest'uomo." 
      "E anche peggio..." disse il custode, "è un demonio." 
      "Volete  che  si   faccia   querela?"   domandò   l'Ispettore   al 
      Governatore. 
      "E' inutile,  signore;  è abbastanza punito così: d'altronde tocca 
      ormai quasi la follia e, secondo l'esperienza, prima che compia un 
      altr'anno, sarà completamente pazzo." 
      "In fede mia, tanto meglio per lui" disse l'Ispettore,  "una volta 
      pazzo del tutto, soffrirà di meno." 
      Come  si vede bene l'Ispettore era un uomo pieno d'umanità,  e ben 
      degno delle funzioni filantropiche che esercitava. 
      "Avete ragione,  signore"  disse  il  Governatore,  "e  la  vostra 
      riflessione  prova  che  avete  profondamente studiato la materia. 
      Abbiamo,  in una segreta che è lontana da questa una  trentina  di 
      passi,  e  nella quale si discende per un'altra scala,  un vecchio 
      scienziato,  antico capo di partito in Italia,  che è qui fin  dal 
      1811,  ed  al quale ha dato di volta il cervello verso la fine del 
      1814, per cui da quell'epoca, non è più fisicamente riconoscibile: 
      piange, ride, dimagrisce, ingrassa. Volete veder quello, piuttosto 
      che questo? La sua pazzia è divertente e non v'attristerà." 
      "Vedrò l'uno e l'altro"  rispose  l'Ispettore,  "bisogna  fare  il 
      proprio dovere coscienziosamente.". 
      L'Ispettore  faceva allora il suo primo giro e voleva lasciare una 
      buona idea della propria autorità. 
      "Entriamo dunque prima qui..." soggiunse. 
      "Volentieri" rispose il Governatore. 
      Allo stridere delle massicce serrature,  al cigolare dei catenacci 
      arrugginiti,  Dantès  accovacciato in un angolo della sua segreta, 
      ove riceveva con gioia indicibile il tenuissimo raggio di luce che 
      filtrava attraverso gli stretti  spiragli  della  sua  inferriata, 
      rialzò la testa. 
      Alla  vista  di  un  uomo sconosciuto,  illuminato dalle torce che 
      portavano i due custodi,  accompagnato da due soldati,  e al quale 
      il  Governatore  parlava col cappello in mano,  Dantès indovinò di 
      chi si trattava,  e vedendo finalmente presentarsi  una  occasione 
      per  implorare un'autorità superiore,  balzò in avanti con le mani 
      giunte. 
      I soldati abbassarono subito la baionetta perché credettero che il 
      prigioniero si lanciasse vero l'Ispettore con cattiva  intenzione, 
      e de Boville stesso fece un passo indietro. 
      Dantès s'accorse che era stato descritto come un uomo da temersi. 
      Riunì  dunque nel suo sguardo tutto ciò che il cuore dell'uomo può 
      contenere di mansuetudine e di umiltà,  ed  esprimendosi  con  una 
      specie  di eloquenza pietosa che meravigliò gli astanti,  cercò di 
      toccare l'anima del suo visitatore. 
      L'Ispettore ascoltò il discorso di  Dantès  sino  alla  fine,  poi 
      volgendosi verso il Governatore: 
      "Si piegherà alla devozione" disse a mezza voce, "è già disposto a 
      sentimenti più dolci.  Vedete,  la paura fa il suo effetto su lui; 
      ha indietreggiato in faccia alle baionette.  Ora un pazzo  non  si 
      ritrae davanti a niente. A questo proposito ho fatto delle curiose 
      osservazioni a Charenton." 
      Poi volto verso il prigioniero: 
      "In succinto" disse, "che volete?" 
      "Io chiedo quale delitto ho commesso! Domando che mi sia istituito 
      un  processo!  Domando  infine  di  essere fucilato se reo,  ma di 
      essere messo in libertà se innocente!" 
      "Siete ben nutrito?" domandò l'Ispettore. 
      "Sì, credo...  Non ne so niente...  Ma ciò poco m'importa.  Quello 
      che  deve importare,  non solo a me disgraziato prigioniero,  ma a 
      tutti i  funzionari  che  amministrano  la  giustizia,  è  che  un 
      innocente  non  sia  vittima  di un'infame denunzia e non muoia in 
      catene maledicendo i suoi carnefici." 
      "Voi siete molto umile oggi" disse il Governatore, "però non siete 
      stato sempre così. Parlavate altrimenti, mio caro amico, il giorno 
      che tentaste di uccidere il vostro custode." 
      "E' vero, signore" disse Dantès, "e ne domando umilmente perdono a 
      quest'uomo, che è sempre stato buono con me... Ma che volete?  Ero 
      pazzo... ero furioso..." 
      "E ora non lo siete più?" 
      "No,  signore,  perché  la  prigionia  mi  ha  piegato,  umiliato, 
      annichilito; è così lungo il tempo qui dentro..." 
      "Lungo  tempo?   Ed  in  quale  epoca  foste   arrestato?"   disse 
      l'Ispettore. 
      "Il 28 febbraio 1815, alle due dopo mezzogiorno." 
      L'Ispettore calcolò. 
      "Noi  siamo  al  30  luglio  1816.  Che dite dunque?  Non sono che 
      diciassette mesi che siete prigioniero." 
      "Come diciassette mesi?" riprese Dantès.  "Ah,  signore,  voi  non 
      sapete  cosa sono diciassette mesi di prigionia!  Sono diciassette 
      anni,  diciassette secoli,  particolarmente per un uomo che,  come 
      me,  era vicino a toccare la sua felicità,  per un uomo che,  come 
      me,  era sul punto di sposare una donna amata;  per  un  uomo  che 
      vedeva  davanti  a  lui  aprirsi una carriera onorevole e al quale 
      tutto mancò in un istante;  che dal mezzo  del  giorno  più  bello 
      cadde  nella  notte  più  profonda;   che  vede  la  sua  carriera 
      distrutta,  e che ignora se colei ch'egli ama lo ami  sempre,  che 
      ignora  se  il  suo  vecchio  padre  è  morto  o  vivo!   Signore, 
      diciassette mesi di prigione per un uomo abituato all'aria marina, 
      all'indipendenza  del  marinaio,   allo   spazio,   all'immensità, 
      all'infinito... diciassette mesi di prigione, ripeto, sono più che 
      non  meritino  tutti i delitti che vengono menzionati dalla lingua 
      umana coi più odiosi nomi! Abbiate dunque pietà di me, signore,  e 
      domandate per me non l'indulgenza ma il rigore, non una grazia, ma 
      una  sentenza!  Dei  giudici,  signore!  Io  non  domando  che dei 
      giudici... Non si possono negare i giudici ad un accusato." 
      "Va bene" disse l'Ispettore, "si vedrà." 
      Poi volgendosi verso il Governatore disse: 
      "Questo povero diavolo mi fa pena.  Ritornando di sopra mi  farete 
      vedere il registro degli arrestati." 
      "Sì,  certo" disse il Governatore, "ma credo che ritroverete delle 
      annotazioni terribili sul conto suo." 
      "Signore" continuò Dantès, "so bene che non potete farmi uscire di 
      qui con la vostra autorità,  ma  voi  potete  trasmettere  la  mia 
      domanda  agli  uffici competenti,  potete promuovere un'inchiesta, 
      potete farmi sottomettere ad un giudizio...  Un processo,  è tutto 
      ciò che domando: che io sappia quale delitto ho commesso,  a quale 
      pena sono condannato, poiché l'incertezza è il peggiore di tutti i 
      supplizi." 
      "M'informerò..." disse l'Ispettore. 
      "Signore" esclamò Dantès,  "comprendo dal suono della vostra  voce 
      che siete commosso... Signore, ditemi che posso sperare?" 
      "Io  non posso dirvi questo" rispose l'Ispettore,  "posso soltanto 
      promettervi di esaminare il vostro registro e ciò  che  vi  sta  a 
      carico." 
      "Oh, allora, signore, sono salvo!" 
      "Chi vi fece arrestare?" domandò l'Ispettore. 
      "Il signor Villefort. Vedetelo, e parlate con lui." 
      "E' già un anno che il signor Villefort non è più a Marsiglia,  ma 
      a Nimes." 
      "Ah,  ciò non mi sorprende  più,  il  mio  solo  protettore  si  è 
      allontanato." 
      "Il  signor Villefort aveva qualche motivo di odio contro di voi?" 
      domandò l'Ispettore. 
      "Nessuno, signore, anzi era molto benevolo con me." 
      "Mi potrò dunque fidare delle  note  che  ha  lasciato  sul  conto 
      vostro, o che possa trasmettermi?" 
      "Interamente." 
      "Sta bene, aspettate." 
      Dantès  cadde  in  ginocchio,  levando  le  mani  verso il cielo e 
      mormorando  una  preghiera,   nella  quale  raccomandava   a   Dio 
      quest'uomo sceso nella sua prigione. 
      La  porta si rinchiuse,  ma la speranza scesa con de Boville,  era 
      rimasta nella segreta di Dantès. 
      "Volete  vedere  il  registro  di  consegna  subito"  domandò   il 
      Governatore, "o passare alla segreta dello scienziato?" 
      "Finiamola   prima  con  le  segrete"  rispose  l'Ispettore,   "se 
      ritornassi ove fa giorno,  forse non  avrei  più  il  coraggio  di 
      tornare a scendere qui per compiere la mia triste missione." 
      "Oh,  quest'altro  non  è  un  prigioniero come quello che abbiamo 
      lasciato, e la sua pazzia rattrista meno che la ragionevolezza del 
      suo vicino." 
      "E qual è la sua pazzia?" 
      "Oh, una pazzia strana.  Si crede possessore di un immenso tesoro. 
      Il primo anno della sua prigionia,  ha fatto offrire al Governo un 
      milione, se il Governo voleva metterlo in libertà; il secondo anno 
      due milioni,  il terzo tre milioni,  e così  via...  Ora,  al  suo 
      quinto  anno  di  prigionia,  chiederà  di parlarvi in segreto per 
      offrire cinque milioni." 
      "Ah!  ah!  è curiosa infatti..." disse  l'Ispettore,  "e  come  si 
      chiama questo milionario?" 
      "Faria." 
      "Il  numero 27?" domandò l'Ispettore,  leggendo questa cifra sopra 
      una porta. 
      "Precisamente... Antonio, aprite." 
      Il  custode  obbedì,  e  de  Boville  entrò  nella  segreta  dello 
      scienziato pazzo come veniva generalmente chiamato il prigioniero. 
      In mezzo alla stanza, in un cerchio tracciato sul pavimento con un 
      pezzo  d'intonaco  staccato  al  muro,  era sdraiato un uomo quasi 
      nudo, tanto le sue vesti erano lacerate.  Egli disegnava in questo 
      cerchio  delle linee geometriche diritte e parallele,  e pareva in 
      tal modo occupato a risolvere il suo problema,  come Archimede nel 
      momento che fu ucciso da un soldato di Marcello. 
      Non si mosse al rumore che fece la porta nell'aprirsi e non sembrò 
      svegliarsi  che  allorché  la luce delle torce illuminò d'un forte 
      chiarore l'umido suolo su cui lavorava. 
      Allora si voltò e vide con sorpresa la gente che era scesa nel suo 
      carcere. Si alzò prese una coperta gettata sul miserabile letto, e 
      si coperse subito per comparire in stato più decente agli occhi di 
      quegli estranei. 
      "Non chiedete niente?" disse l'Ispettore senza variare la formula. 
      "Io, signore" disse Faria con sorpresa, "io non domando niente." 
      "Non mi capite" disse l'Ispettore,  "io sono un messo del Governo, 
      ed  ho  la  commissione  di  scendere  in  tutte le prigioni,  per 
      ascoltare i reclami dei prigionieri." 
      "Oh, allora, signore,  è un altra cosa" esclamò vivacemente Faria, 
      "e spero che ce la intenderemo." 
      "Vedete" disse a bassa voce il Governatore,  "non comincia come vi 
      avevo detto?" 
      "Signore" continuò il prigioniero,  "io sono Faria,  nato in  Roma 
      nel  1768.  Sono  stato  venti  anni  segretario  del conte Spada, 
      l'ultimo dei principi di questo nome. Sono stato arrestato,  e non 
      so il perché, verso il principio dell'anno 1808. Dopo questo tempo 
      ho  sempre  reclamato  la  mia  libertà  dalle autorità italiane e 
      francesi..." 
      "Perché dalle autorità italiane?" domandò il Governatore. 
      "Perché sono stato arrestato  a  Piombino,  e  presumo  che,  come 
      Firenze,  Piombino  sia divenuto capoluogo di qualche dipartimento 
      francese." 
      L'Ispettore ed il Governatore si guardarono ridendo. 
      "Diavolo,   mio  caro"  disse  l'Ispettore,   "le  vostre  notizie 
      sull'Italia non sono di fresca data." 
      "Portano  la  data  del  giorno  in  cui sono stato trasportato da 
      Fenestrelle a qui,  signore" disse Faria.  "Era il 1811 e,  avendo 
      l'Imperatore dato il nome di re di Roma al figlio che il cielo gli 
      aveva  concesso,  presumevo  che,  continuando  il corso delle sue 
      conquiste,  vagheggiasse il  sogno  di  Machiavelli  e  di  Cesare 
      Borgia." 
      "Signore"  disse  l'Ispettore,  "la  Provvidenza ha fortunatamente 
      arrecato tali cambiamenti nella penisola  che  quello  rimarrà  un 
      sogno." 
      "Sarà.  Ma  quante  cose  non sono possibili sulla terra?" rispose 
      Faria. 
      "Sì, ma non già i sogni" riprese l'Ispettore,  "né sono venuto qui 
      per  intavolare  con voi un discorso di politica ultramontana,  ma 
      soltanto per domandarvi,  come ho già fatto,  se voi avete qualche 
      reclamo  da  indirizzarmi  sul  modo  col  quale  siete nutrito ed 
      alloggiato." 
      "Il nutrimento" disse Faria, "è cattivissimo. Quanto all'alloggio, 
      come vedete,  è umido e malsano,  ma ciò nonostante è  conveniente 
      abbastanza  per  una segreta.  Ora non è di ciò che si tratta,  ma 
      bensì di rivelazioni della più alta importanza e  del  più  grande 
      interesse, che ho da fare al Governo." 
      "Eccoci..." disse a bassa voce il Governatore a de Boville. 
      "Questo è il motivo per cui sono fortunato di vedervi,  quantunque 
      mi abbiate distratto  da  un  calcolo  molto  importante  che,  se 
      riesce,  cambierà forse del tutto il sistema planetario di Newton. 
      Potete accordarmi il favore di un colloquio particolare?" 
      "Eh, che vi dicevo?" fece il Governatore all'Ispettore. 
      "Voi conoscete bene la persona..." rispose questi, sorridendo. 
      Poi volgendosi a Faria: 
      "Signore" disse, "ciò che mi chiedete è impossibile." 
      "Ciò nonostante" riprese Faria,  "si potrebbe anche dare una somma 
      enorme, una somma, per esempio, di cinque milioni!" 
      "In fede mia" disse l'Ispettore, volgendosi al Governatore, "avete 
      predetto perfino la cifra." 
      "Vediamo"  riprese  Faria,  accorgendosi che l'Ispettore faceva un 
      movimento per ritirarsi,  "non è poi assolutamente necessario  che 
      noi  siamo  soli:  il signor Governatore potrà assistere al nostro 
      colloquio." 
      "Disgraziatamente,   mio  caro  signore"  disse  il   Governatore, 
      "sappiamo  già  a  memoria quello che volete dirci.  Si tratta dei 
      vostri tesori, non è vero?" 
      Faria  guardò  quest'uomo  con  occhi  su   cui   un   osservatore 
      disinteressato  avrebbe  certamente  veduto  risplendere  il lampo 
      della ragione e della verità. 
      "Senza dubbio" disse. "Di che volete che vi parli, se non di ciò?" 
      "Signor Ispettore" continuò il Governatore,  "vi posso  raccontare 
      questa  storia  tanto  bene  quanto  Faria,  essendo già quattro o 
      cinque anni che me la sento risuonare alle orecchie." 
      "Ciò prova,  signor Governatore" disse Faria,  "che voi  siete  di 
      quella gente di cui parla la Scrittura,  i quali hanno gli occhi e 
      non vedono, hanno le orecchie e non sentono." 
      "Mio caro signore" disse  l'Ispettore,  "il  Governo  è  ricco,  e 
      grazie  a  Dio  non  ha  bisogno dei vostri milioni.  Conservateli 
      dunque per il giorno in cui uscirete di prigione." 
      L'occhio di Faria si dilatò.  Afferrò  la  mano  dell'Ispettore  e 
      aggiunse: 
      "Ma se io non esco di prigione,  se mi si tiene in questa segreta, 
      se vi debbo morire senza aver lasciato il mio segreto  ad  alcuno, 
      questo  tesoro  andrà dunque perduto?  Io darò sino a sei milioni, 
      signore... si,  lascerò sei milioni,  e mi accontenterò del resto, 
      se mi si vorrà rendere la libertà." 
      "Sulla  mia  parola"  disse  l'Ispettore a mezza voce,  "se non si 
      sapesse che quest'uomo è pazzo,  parla con tanta  convinzione,  da 
      far credere alla verità del suo dire." 
      "Io non sono un pazzo,  signore, e dico precisamente la verità..." 
      disse Faria che,  con quella finezza di udito che è particolare ai 
      prigionieri,   non   aveva   perduto   una   sola   delle   parole 
      dell'Ispettore.  "Il tesoro di cui vi parlo  esiste  realmente,  e 
      sono  pronto  a  firmare  un contratto,  in virtù del quale voi mi 
      condurrete al luogo che verrà da me indicato;  si scaverà la terra 
      sotto  i  nostri  occhi,  e  se  io mento,  se non viene ritrovato 
      niente, se sono un pazzo come voi dite, ebbene, mi ricondurrete in 
      questo medesimo carcere ove io resterò eternamente,  e dove morirò 
      senza domandar più niente né a voi, né a nessuno." 
      Il Governatore si mise a ridere. 
      "E' lontano questo vostro tesoro?" domandò. 
      "A cento leghe di qui circa" disse Faria. 
      "La cosa non è male immaginata" disse il Governatore.  "Se tutti i 
      prigionieri volessero divertirsi a farsi una passeggiata coi  loro 
      gendarmi  per  100 leghe,  o se i guardiani acconsentissero a fare 
      una simile passeggiata,  questo sarebbe un eccellente pretesto per 
      prendere  la  via  dei campi alla prima occasione,  e,  durante un 
      simile   viaggio,   l'occasione   si   presenterebbe   certamente. 
      Disgraziatamente  però  questo  è  un  pretesto troppo conosciuto" 
      disse de Boville,  "ed il signor Faria non ha  neppure  il  merito 
      dell'invenzione." 
      Poi volgendosi allo scienziato disse: 
      "Vi ho chiesto se siete ben nutrito." 
      "Signore" rispose Faria,  "giuratemi sul vostro onore di liberarmi 
      se dico la verità, e vi indicherò il luogo preciso dove è nascosto 
      il tesoro." 
      "Siete contento del nutrimento?" ripeté l'Ispettore. 
      "Signore, così non correte alcun rischio,  e vedete bene che non è 
      per procurarmi un'eventualità di fuga. Io resterò prigioniero fino 
      a che abbiate fatto il viaggio..." 
      "Voi  non  rispondete  alla  mia  domanda"  disse  con  impazienza 
      l'Ispettore. 
      "Né voi alla mia" esclamò  Faria.  "Siate  dunque  maledetto  come 
      tutti gli altri insensati che non mi hanno voluto credere. Voi non 
      volete il mio oro,  io lo custodirò,  voi ricusate d'aiutarmi, Dio 
      mi aiuterà. Andate, non ho più nulla da dirvi." 
      E  Faria,   gettando  la  sua  coperta,   raccolse  il  suo  pezzo 
      d'intonaco,  ed  andò  a sedersi di nuovo in mezzo al cerchio dove 
      continuò le sue linee e i suoi numeri. 
      "Che fa là?" disse l'Ispettore ritirandosi. 
      "Conta i suoi tesori" rispose il Governatore. 
      Faria rispose a questo sarcasmo con un'occhiata  del  più  supremo 
      disprezzo. 
      Essi uscirono. Il carceriere chiuse la porta dietro loro. 
      "Avrà  forse realmente posseduto qualche tesoro" disse l'Ispettore 
      rimontando la scala. 
      "O avrà sognato di possederlo" disse il Governatore,  "e il giorno 
      dopo si sarà svegliato pazzo." 
      Così terminò la vicenda per lo scienziato Faria. 
      Rimase  prigioniero,  e  dopo  questa visita la sua reputazione di 
      pazzo furioso aumentò sempre più. In quanto a Dantès,  l'Ispettore 
      mantenne la parola. 
      Rimontando  nell'ufficio  del  Governatore  si  fece  mostrare  il 
      registro di consegna. Una nota era scritta dirimpetto al suo nome. 
      EDMONDO DANTÉS. Bonapartista arrabbiato,  ha preso parte attiva al 
      ritorno dall'isola d'Elba.  Da tenersi in segreta,  e sotto la più 
      stretta sorveglianza. 
 
      Questa nota era di un altro carattere,  e di un inchiostro diverso 
      dal rimanente del registro; ciò provava ch'era stata aggiunta dopo 
      l'incarcerazione di Dantès. 
      L'accusa   era   troppo   positiva  per  tentare  di  combatterla. 
      L'Ispettore dunque scrisse a margine: "Vista  la  nota  a  fronte, 
      niente si può fare". 
      Questa visita aveva per così dire ravvivato Dantès.  Da quando era 
      entrato in prigione aveva dimenticato  di  contare  i  giorni,  ma 
      l'Ispettore l'aveva fornito di una nuova data, ed egli non l'aveva 
      dimenticata. 
      Scrisse  sul muro,  con un pezzo di gesso staccato dalla volta: 30 
      luglio 1816;  e da  quel  momento  faceva  ogni  giorno  un  segno 
      affinché la misura del tempo non gli sfuggisse più. 
      I giorni passarono, poi le settimane, quindi i mesi. 
      Dantès  aspettava  sempre.  Aveva  cominciato  col  fissare la sua 
      liberazione  a  quindici  giorni.   Impiegando  soltanto  la  metà 
      dell'interesse  che  aveva  dimostrato,  l'Ispettore doveva averne 
      abbastanza di quindici giorni. 
      Passati questi quindici giorni,  si disse che era un'assurdità  il 
      credere  che  l'Ispettore si sarebbe occupato di lui prima del suo 
      ritorno a Parigi.  Il suo ritorno a Parigi non poteva  aver  luogo 
      che  quando il suo giro fosse finito,  e il suo giro poteva durare 
      un mese o due: fissò dunque tre  mesi  invece  di  sedici  giorni. 
      Compiuti i tre mesi, un altro ragionamento venne in suo aiuto, che 
      gli  fece  concedere  sei  mesi,  ma finiti anche questi sei mesi, 
      mettendo i giorni uno dopo  l'altro  si  ritrovò  che  egli  aveva 
      aspettato dieci mesi e mezzo. 
      Durante  questi dieci mesi e mezzo,  niente fu cambiato nel regime 
      della sua prigione;  e non era giunta alcuna  notizia  consolante. 
      Interrogato  il  carceriere,  questi  fu  muto  secondo il solito. 
      Dantès cominciò a dubitare dei suoi sensi,  a credere che ciò  che 
      prendeva per un ricordo della sua memoria,  non fosse niente altro 
      che una allucinazione,  e che  quell'angelo  consolatore,  apparso 
      nella sua prigione, non vi fosse disceso se non sopra le ali di un 
      sogno. 
      In capo a un anno il Governatore fu cambiato. 
      Egli aveva ottenuto la direzione del forte di Ham; condusse con sé 
      molti  dei  suoi  subordinati,  e  fra  gli altri il carceriere di 
      Dantès. 
      Un nuovo Governatore giunse.  Sarebbe stato troppo lungo  per  lui 
      imparare a memoria il nome di tutti i suoi prigionieri,  e si fece 
      presentare soltanto i loro numeri. 
      Questo orribile carcere si componeva di 59 celle. 
      I loro  abitanti  furono  chiamati  col  numero  della  cella  che 
      abitavano,  e  il  disgraziato  giovane  cessò  di essere chiamato 
      ancora col nome di Edmondo o col cognome di Dantès,  ma si  chiamò 
      il numero 34. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 15. 
                         IL NUMERO 34 E IL NUMERO 27. 
 
 
      Dantès  passò  per  tutti  i  gradi  d'infelicità  che subiscono i 
      prigionieri dimenticati in una prigione. 
      Cominciò dall'orgoglio, che è una conseguenza della speranza e una 
      coscienza dell'innocenza; poi venne al dubbio della sua innocenza; 
      ciò che giustificava le idee del Governatore sulla sua alienazione 
      mentale;  finalmente cadde dall'alto del suo orgoglio,  non  pregò 
      Dio  ancora,   ma  gli  uomini,   Dio  è  l'ultima  risorsa  ;  il 
      disgraziato,  che dovrebbe cominciare dal Signore,  non  giunge  a 
      sperare in lui che dopo avere esaurite tutte le altre disgrazie. 
      Dantès  dunque pregò affinché lo togliessero da quel carcere,  per 
      metterlo in un altro,  fosse anche  stato  il  più  nero,  il  più 
      profondo;  un  cambiamento,  quantunque  peggiore,  era  sempre un 
      cambiamento c  avrebbe  procurato  a  Dantès  una  distrazione  di 
      qualche  giorno.  Pregò che gli venisse accordata una passeggiata, 
      dell'aria,  dei libri,  degli strumenti.  Niente di tutto ciò  gli 
      venne accordato; ma non importa, domandava sempre. 
      Egli  si era avvezzato a parlare col nuovo carceriere,  quantunque 
      questi fosse, se si può dire, più muto del primo, ma parlare ad un 
      uomo, per quanto muto,  era ancora un piacere.  Dantès parlava per 
      sentire la propria voce,  si era provato quand'era solo, ma allora 
      gli faceva paura. 
      Spesso prima di essere fatto prigioniero,  Dantès si era fatto uno 
      spauracchio di quelle prigioni, composte di vagabondi, di banditi, 
      e di assassini fra i quali un'ignobile solidarietà fa nascere orge 
      inintelligibili  e  amicizie  spaventose.  Giunse  a desiderare di 
      esser messo in uno di questi penitenziari per poter vedere qualche 
      altro viso oltre quello del carceriere impassibile che non  voleva 
      parlare. Egli desiderava la galera, col suo vestito infamante, con 
      la  sua catena al piede,  col suo marchio sulla spalla.  I forzati 
      almeno godevano la società dei loro  simili,  respiravano  l'aria, 
      vedevano il cielo: i forzati per Dantès erano esseri fortunati. 
      Supplicò  un giorno il carceriere di domandare per lui un compagno 
      qualunque,  fosse pur anche stato lo scienziato pazzo di cui aveva 
      inteso  parlare.  Sotto  la  scorza  di  carceriere per quanto sia 
      rozza, resta sempre qualche cosa dell'uomo. Questi,  quantunque il 
      suo viso non dicesse niente,  aveva spesso nel fondo del suo cuore 
      compianto questo disgraziato giovane,  il  cui  carcere  era  così 
      duro.  Passò  dunque  la domanda del numero 34 al Governatore,  ma 
      questi,  prudente come un uomo  politico,  s'immaginò  che  Dantès 
      volesse  ammutinare  i  prigionieri,  tramare  qualche  complotto, 
      aiutarsi con qualche amico per tentare una evasione e ricusò. 
      Dantès aveva esaurito il cerchio delle risorse umane. Come dicemmo 
      ciò doveva accadere.  Si rivolse  allora  a  Dio.  Tutte  le  idee 
      pietose sparse nel mondo,  che vengono raccolte dagli infelici che 
      sono curvati sotto  il  peso  della  sventura,  vennero  allora  a 
      rappresentarsi  al  suo  spirito:  si ricordò le preghiere che gli 
      aveva insegnato sua madre, e ritrovò in esse dei sensi fino allora 
      ignorati; perché per l'uomo felice, la preghiera rimane un assieme 
      monotono e vuoto di senso,  finché il giorno del  dolore  viene  a 
      spiegare  all'infelice questo linguaggio per mezzo del quale parla 
      a Dio. 
      Pregò  dunque  con  fervore;  e  pregando  ad  alta  voce  non  si 
      spaventava  più  delle sue parole.  Allora cadeva in una specie di 
      estasi: vedeva Dio risplendere a ciascuna parola che  pronunciava. 
      Tutte  le azioni della sua vita umile e perduta le rapportava alla 
      volontà di questo Dio onnipossente, proponendosi degli obblighi da 
      adempiere. 
      Malgrado queste preghiere  ferventi,  Dantès  rimase  prigioniero. 
      Allora il suo spirito si fece tetro, una nube s'addensò davanti ai 
      suoi  occhi.  Dantès  era un uomo semplice e senza educazione;  il 
      passato era rimasto per lui coperto da quel  velo  denso,  che  la 
      sola  scienza  solleva.  Non  poteva  nella  solitudine  della sua 
      segreta e  nel  deserto  del  suo  pensiero,  rianimare  i  popoli 
      estinti,  rifabbricare  le  antiche città che l'immaginazione e la 
      poesia  ingrandiscono,   e  che  passano   davanti   agli   occhi, 
      giganteschi  ed  illuminati  dal  fuoco  del cielo,  come i quadri 
      babilonici di Martino. Non aveva che il suo passato così breve, il 
      suo presente così triste, il suo avvenire così incerto: diciannove 
      anni di luce da meditarsi forse in una eterna notte! 
      Nessuna distrazione poteva  venirgli  in  aiuto:  il  suo  spirito 
      energico,  che  forse  non  avrebbe  amato che di prendere il volo 
      attraverso le età, era forzato a restar prigioniero come un'aquila 
      nella gabbia.  Egli si aggrappava ad una sola idea,  quella  della 
      sua  felicità,  distrutta  senza una causa apparente,  e,  per una 
      fatalità inaudita,  si  attaccava  a  quest'idea,  la  girava,  la 
      rigirava sotto tutti i rapporti, divorandola per così dire a denti 
      aguzzi  come nell'Inferno di Dante l'implacabile Ugolino divora il 
      cranio dell'arcivescovo Ruggieri. 
      Dantès non aveva avuto che una fede passeggera;  la perdette  come 
      altri la perdono nei felici eventi. 
      La rabbia successe all'ateismo. 
      Edmondo  emetteva  delle bestemmie che inorridivano il carceriere, 
      feriva il suo corpo contro i  muri  della  prigione,  s'inferociva 
      contro  tutto  ciò  che  lo  circondava,  e  sopra tutto contro se 
      stesso, alla minima contrarietà.  Quella lettera denunziatrice che 
      aveva veduto, che gli aveva mostrato Villefort, che aveva toccato, 
      gli  ritornava  al pensiero;  ciascuna linea fiammeggiava sul muro 
      come il "Mane,  Tekel,  Phares" di Baldassarre.  Egli diceva a  se 
      stesso  che  era l'odio degli uomini e non la giustizia di Dio che 
      lo aveva immerso nell'abisso in  cui  si  trovava.  Imprecava  per 
      questi  uomini  sconosciuti tutti i supplizi di cui la sua ardente 
      immaginazione poteva farsi un'idea,  e trovava che i più terribili 
      erano ancora troppo deboli,  e troppo brevi per loro;  perché dopo 
      il supplizio veniva la morte e nella morte era,  se non il riposo, 
      almeno l'insensibilità del corpo che a quello somiglia. 
      A  forza  di  dire a se stesso,  a proposito dei suoi nemici,  che 
      nella morte  vi  era  la  calma  e  che  colui  che  vuole  punire 
      crudelmente  i  suoi  nemici deve servirsi di tutt'altro mezzo che 
      della morte,  cadde  nell'immobilità  della  sciagurata  idea  del 
      suicidio: disgraziato colui che,  sul declivio dell'infelicità, si 
      ferma a questa triste idea! 
      E' uno di quei mari morti che si estendono  come  l'azzurro  delle 
      onde pure,  ma nelle quali il nuotatore sente lentamente legarsi i 
      piedi, in una terra bituminosa che lo attrae a sé, lo assorbe,  lo 
      inghiotte.  Una volta preso in tal modo, se il soccorso divino non 
      lo aiuta, tutto è finito,  e qualunque sforzo tenti affonda sempre 
      di più. 
      Questo  stato di morale agonia è meno terribile dei pentimenti che 
      lo hanno preceduto e del castigo  forse  che  lo  seguirà:  è  una 
      specie di consolazione vertiginosa che ci mostra il precipizio, ma 
      nel fondo del precipizio, il niente. 
      Arrivato  a  questo  punto,  Edmondo trovò qualche consolazione in 
      questa idea: tutti i suoi dolori, tutte le sue sofferenze,  questo 
      corteggio di spettri che dietro si trascinavano, parvero involarsi 
      dalla prigione ove l'angelo della morte poteva posare il suo piede 
      silenzioso. 
      Dantès  guardò  con calma la sua vita passata,  con terrore la sua 
      vita futura,  e scelse questo punto di mezzo che gli sembrò essere 
      un luogo d'asilo. 
      "Qualche  volta"  diceva  a  se  stesso,  "quando nei miei lontani 
      viaggi allorché ero ancora un uomo,  e quando quest'uomo libero  e 
      possente dava ad altri uomini dei comandi,  che erano eseguiti, ho 
      veduto il cielo coprirsi,  il mare fremere e mormorare,  l'uragano 
      nascere da un punto del cielo, e come un'aquila gigantesca battere 
      colle  sue  ali  i  due  orizzonti  e allora io sentivo che il mio 
      vascello non era che un rifugio impotente poiché, leggero come una 
      piuma nella mano del gigante,  tremava e rabbrividiva.  Ben presto 
      al  rumore  del  vento  fischiante,  delle montagne d'acqua che si 
      rovesciano sulla mia testa,  il rumore  spaventevole  delle  onde, 
      l'aspetto  degli  scogli  mi annunziavano la morte,  e la morte mi 
      spaventava, ed io facevo tutti gli sforzi per sfuggirla, e riunivo 
      tutte le forze dell'uomo e tutta l'intelligenza del  marinaio  per 
      lottare contro il cielo ed il mare!...  Ciò accadeva perché allora 
      ero felice,  perché ritornare alla vita,  era  un  ritornare  alla 
      felicità, avveniva perché non avevo invocato la morte, non l'avevo 
      scelta, avveniva perché il sonno mi sembrava duro sopra quel letto 
      di alghe e di sassi; avveniva finalmente perché io, che mi credevo 
      una creatura fatta ad immagine di Dio mi sdegnavo di dover servire 
      dopo la mia morte di pasto alle foche ed agli avvoltoi.  Ma oggi è 
      un'altra cosa.  Ho perduto tutto ciò che  poteva  farmi  amare  la 
      vita.  Oggi la morte mi sorride come una nutrice al bambino che va 
      cullando oggi muoio a modo mio e mi addormento stanco ed affranto, 
      come mi addormenterei dopo una di quelle sere di disperazione e di 
      rabbia  nelle  quali  ho  contato  3000  giri  intorno  alla   mia 
      cameretta, cioè 30.000 passi, vale a dire circa dieci leghe." 
      Dacché  questo pensiero era germogliato nello spirito del giovane, 
      gli si fece più dolce e più  ilare;  si  accomodò  meglio  al  suo 
      letto, al suo pane nero; mangiò meno, non dormì più, e trovò quasi 
      sopportabile  questo  avanzo  di  esistenza che era certo di poter 
      lasciare quando avesse voluto, come si lascia un vestito logoro. 
      Aveva due mezzi per morire: uno era semplice, bastava attaccare il 
      fazzoletto  alla  sbarra  della  finestra  e  impiccarsi;  l'altro 
      consisteva nel fingere di mangiare e lasciarsi morire di fame.  Il 
      primo ripugnava molto a Dantès. Era stato allevato nell'orrore per 
      i pirati appesi ai pennoni dei bastimenti. 
      L'impiccarsi dunque era per lui una specie di supplizio  infamante 
      che  non  voleva  applicare a se stesso.  Adottò il secondo,  e ne 
      cominciò l'esecuzione nel secondo giorno. 
      Circa quattro anni erano passati nelle traversie che  raccontiamo. 
      Alla  fine del secondo,  Dantès aveva cessato di contare i giorni, 
      ed era ricaduto nell'ignoranza del tempo,  dalla quale  era  stato 
      una volta liberato dall'Ispettore. 
      Dantès  aveva  detto:  Io  voglio  morire,  e si era scelto il suo 
      genere di  morte.  Lo  aveva  bene  esaminato,  e  per  timore  di 
      retrocedere  dalla  sua  decisione,  aveva  fatto  giuramento a se 
      stesso di morir così. 
      "Quando mi verrà portato il pasto della mattina ed il pasto  della 
      sera"  aveva pensato,  "getterò il cibo dalla finestra,  e fingerò 
      d'averlo mangiato. 
      Esegui quanto aveva promesso di fare. Due volte al giorno,  per la 
      piccola apertura sprangata che non gli lasciava scorgere il cielo, 
      egli  gettava i suoi viveri;  sul principio con allegria,  poi con 
      riflessione, quindi con dispiacere. Gli abbisognò di ricordarsi il 
      giuramento,  per avere la forza di  continuare  il  suo  terribile 
      disegno. 
      Questi  alimenti,  che  altre  volte gli ripugnavano,  la fame dai 
      denti aguzzi glieli faceva comparire  appetitosi  allo  sguardo  e 
      squisiti  all'odorato.  Qualche  volta teneva per più di un'ora il 
      piatto, con occhio fisso sopra quel pezzo di carne putrida o sopra 
      quel pesce infetto, o sopra quel pane nero ed ammuffito. Erano gli 
      ultimi istinti della vita,  che lottavano ancora in lui e che  per 
      un attimo minavano la sua risoluzione. 
      Allora  il  suo  carcere  gli sembrava meno disperante: era ancora 
      giovane,  poteva avere venticinque o ventisei anni,  gli restavano 
      forse ancora cinquant'anni.  Durante questo tempo immenso,  quanti 
      avvenimenti potevano atterrare le porte,  rovesciare le  mura  del 
      Castello d'If, e rendergli la libertà! 
      Allora  avvicinava  i  denti  al  cibo  che,  Tantalo  volontario, 
      allontanava dalla sua bocca.  Ma la  memoria  del  giuramento  gli 
      tornava,  e quella natura generosa aveva troppo timore di avvilire 
      se stessa per mancare al giuramento.  Consumò dunque,  rigoroso ed 
      implacabile,  il  poco  d'esistenza  che  gli restava,  e venne il 
      giorno che non ebbe più  la  forza  di  alzarsi  per  gettare  dal 
      finestrino della prigione la colazione che gli era stata portata. 
      Il  giorno dopo non ci vedeva più,  sentiva appena.  Il carceriere 
      sospettò una grave malattia. 
      Edmondo sperava in una morte vicina. 
      La giornata passò così. 
      Edmondo sentiva un vago stordimento, che non era privo di un certo 
      benessere, vincerlo a poco a poco. Lo spasmo nervoso dello stomaco 
      si era assopito, gli ardori della sete si erano calmati;  allorché 
      chiudeva  gli  occhi,  vedeva  brillare  intorno  una  quantità di 
      fiammelle uguali a quei fuochi fatui  che  corrono  la  notte  sui 
      terreni  paludosi: era il crepuscolo di quel paese sconosciuto che 
      si chiama morte. 
      D'un tratto,  una sera verso le nove,  intese un sordo rumore alla 
      parete del muro contro la quale era steso. 
      Tanti  animali  immondi erano venuti in quella cella,  che un poco 
      alla volta Edmondo aveva assuefatto il suo sonno  a  non  turbarsi 
      per  così  poco.  Ma questa volta sia che i sensi fossero esaltati 
      dall'astinenza,  sia che realmente il rumore fosse più  forte  che 
      d'ordinario,  sia  che  in  quest'ultimo  e  supremo momento tutto 
      acquisti importanza,  Edmondo si agitò per questo rumore e sollevò 
      la testa per meglio ascoltarlo. Era un graffiare che sembrava d'un 
      unghia enorme,  o d'un dente possente,  o l'uso d'uno strumento su 
      delle pietre. 
      Benché indebolito,  il cervello del giovane fu colpito  da  quella 
      vaga  idea  costantemente fissa nello spirito del prigioniero,  la 
      liberazione.  Questo rumore giungeva così precisamente al  momento 
      in cui ogni altro rumore andava a cessare per lui,  che gli sembrò 
      che Iddio si mostrasse alla fine placato delle sue  sofferenze,  e 
      gli  inviasse  quel  rumore  per  avvertirlo di fermarsi sull'orlo 
      della tomba, su cui già vacillava il suo piede. 
      Chi poteva sapere se uno dei suoi  amici,  uno  di  quegli  esseri 
      prediletti ai quali aveva pensato spesso,  non si occupasse di lui 
      in quel momento e non cercasse di accorciare la  distanza  che  li 
      separava?  Ma  no,  Edmondo senza dubbio si sbagliava: non era che 
      una aberrazione che fluttuava alla porta della morte. 
      Però Edmondo sentiva sempre questo rumore. 
      Durò circa tre ore, poi Edmondo intese una specie di crollo,  dopo 
      il quale, il rumore cessò. 
      Qualche ora dopo riprese più forte e più vicino. 
      Edmondo  già  prendeva  interesse  a  questo lavoro che gli faceva 
      compagnia: d'un tratto il carceriere entrò. 
      Da otto giorni aveva preso la risoluzione di  morire,  da  quattro 
      giorni  aveva  cominciato  a  metterla in esecuzione.  Edmondo non 
      aveva più indirizzato la parola a quest'uomo,  non  rispondendogli 
      nemmeno  quando  questi  gli domandava di qual malattia si credeva 
      affetto,  e si voltava dalla parte  del  muro  quando  credeva  di 
      essere osservato troppo attentamente. Ma oggi il carceriere poteva 
      intendere   il  sordo  rumore,   allarmarsene,   mettervi  fine  e 
      disturbare così forse quella speranza,  la cui sola idea lusingava 
      gli ultimi momenti di Dantès. 
      Il  carceriere  portava  la  colazione.  Dantès si sollevò dal suo 
      letto ed alzando quanto più poteva la voce si mise  a  parlare  di 
      tutti  gli  argomenti possibili,  sulla cattiva qualità dei viveri 
      che gli portavano,  sul freddo che si soffriva in quella  segreta, 
      mormorando e brontolando per aver diritto di gridare più forte,  e 
      stancando la pazienza del carceriere che precisamente quel  giorno 
      aveva  ottenuto  per  il prigioniero malato un brodo più sano e un 
      pane più fresco, e che gli portava quel brodo e quel pane. 
      Fortunatamente credette che  Dantès  delirasse.  Depose  i  viveri 
      sulla  tavola ove era abituato a depositarli e si ritirò.  Edmondo 
      allora si rimise ad ascoltare con gioia. 
      Il rumore diveniva così distinto che ora il giovane lo udiva senza 
      sforzo. 
      "Non ci sono più dubbi" disse a se stesso,  "poiché questo  rumore 
      continua anche di giorno,  è qualche prigioniero che lavora per la 
      liberazione. Oh, fossi vicino a lui, come lo aiuterei!" 
      D'un tratto una tetra nube passò sopra quell'aurora di speranza in 
      quel cervello abituato alla malasorte, e che non poteva attaccarsi 
      che con somma difficoltà alle gioie umane: sorgeva l'idea  che  il 
      rumore  poteva essere causato dal lavoro di qualche operaio che il 
      governo impiegava alle riparazioni di una prigione vicina. 
      Era facile assicurarsene.  Ma come arrischiare  una  domanda?  Era 
      cosa  semplicissima  aspettare  l'arrivo  del  carceriere,  fargli 
      ascoltare  questo  rumore,  e  vedere  come  avrebbe  reagito;  ma 
      prendersi  una  simile certezza non era tradire interessi preziosi 
      per una soddisfazione incerta? 
      La testa di Edmondo,  campana vuota,  era assordata dal ronzio  di 
      un'idea,  era  così  debole  che  il suo spirito fluttuava come un 
      vapore e non poteva condensarsi attorno ad un pensiero. 
      Edmondo non vide che un  mezzo  per  rendere  chiarezza  alla  sua 
      riflessione  e  lucidità  al  suo giudizio: guardò il brodo ancora 
      fumante che il carceriere aveva deposto  sulla  tavola,  si  alzò, 
      andò  barcollando  fino  a quella,  prese la tazza,  la portò alle 
      labbra,  ed  inghiotti  il  beveraggio  che  conteneva,   con  una 
      sensazione indicibile di benessere. 
      Ebbe  anche l'accortezza di fermarsi: aveva inteso dire che alcuni 
      naufraghi, raccolti,  estenuati dalla fame,  erano morti per avere 
      divorato un nutrimento troppo sostanzioso.  Depose sulla tavola il 
      pane che teneva già vicino alla bocca,  e andò  a  rimettersi  sul 
      letto. Edmondo non voleva più morire. 
      Ben presto sentì che la vita rientrava nel suo cervello,  tutte le 
      idee vaghe  ed  incerte  riprendevano  il  loro  posto  in  questa 
      macchina  meravigliosa.  Egli  poté pensare,  e fortificare il suo 
      pensiero col ragionamento. 
      Allora disse: 
      "Bisogna tentar la prova,  ma senza compromettere  alcuno.  Se  il 
      lavoratore è un operaio ordinario, non dovrò che battere contro il 
      mio  muro  allora  egli  cesserà  subito di lavorare,  per cercare 
      d'indovinare chi è che batte e con quale scopo.  Ma siccome il suo 
      lavoro  sarà non solamente lecito ma comandato,  lo riprenderà ben 
      presto. Se, al contrario, è un prigioniero, il rumore che farò, lo 
      spaventerà;  temerà di essere scoperto tralascerà il lavoro e  non 
      lo  riprenderà  che  questa  sera  quando crederà che ognuno sia a 
      letto e addormentato." 
      Edmondo si alzò di nuovo. 
      Questa volta,  le sue gambe non vacillavano più,  i suoi occhi non 
      erano più abbagliati.  Andò verso un angolo della prigione, staccò 
      una pietruzza isolata dall'umidità,  e ritornò a battere tre colpi 
      contro  il muro nella stessa direzione in cui l'interno rumore era 
      più sensibile. 
      Dopo il primo colpo il rumore cessò come per incanto. 
      Edmondo ascoltò con tutta l'anima sua. Passò un'ora,  ne passarono 
      due e nessun nuovo rumore si fece intendere. 
      Edmondo  aveva  fatto  nascere  dall'altra parte della muraglia un 
      assoluto silenzio.  Pieno di speranza,  mangiò qualche boccone del 
      suo pane,  bevette un po' d'acqua e grazie alla forte costituzione 
      di cui era dotato ritrovò ben presto l'energia perduta. 
      Passò la giornata, il silenzio durava sempre. 
      Venne la notte senza che ricominciasse il rumore. 
      "E' un prigioniero" disse Edmondo con una gioia indicibile. 
      Da quel momento la sua testa s'infervorò la vita ritornò  violenta 
      e  attiva.  La  notte  passò senza che il minimo rumore si facesse 
      sentire. 
      Edmondo non chiuse occhio tutta la notte. 
      Ritornò il giorno; il carceriere rientrò portando gli alimenti. 
      Edmondo aveva già divorato quelli del giorno innanzi,  divorò pure 
      questi.  Ascoltava  attentamente,  temendo  che  il  rumore  fosse 
      cessato per sempre,  camminava avanti e indietro nella sua  cella, 
      scuoteva  per  ore  intere  le  sbarre di ferro del suo spiraglio, 
      rendeva l'elasticità ed il vigore alle  membra  con  un  esercizio 
      tralasciato  da lungo tempo,  disponendosi a lottare corpo a corpo 
      col suo destino, come fa stendendo le braccia e spargendo il corpo 
      d'olio il gladiatore che sta per entrare nell'arena. 
      Quindi,  negli  intervalli  di  questa  febbrile  attività,   egli 
      ascoltava   se  il  rumore  si  rinnovava,   s'impazientiva  della 
      previdenza di questo prigioniero che non indovinava che era  stato 
      distratto  dalla  sua  opera  da  un  altro prigioniero che aveva, 
      perlomeno al pari di lui, la stessa fretta di essere liberato. 
      Tre giorni passarono, settantadue ore mortali,  contate minuto per 
      minuto! 
      Finalmente  una  sera,  dopo  che il carceriere aveva fatto la sua 
      visita,  e dopo che per la centesima volta Dantès aveva  attaccato 
      l'orecchio al muro,  gli sembrò che uno scroscio impercettibile si 
      ripercuotesse sordamente nella sua testa,  messa a contatto con le 
      pietre silenziose. 
      Dantès  indietreggiò  per ben raccogliere il suo pensiero agitato, 
      fece qualche passo nella camera,  e rimise l'orecchio nella stessa 
      direzione. 
      Non  c'era  dubbio,  si lavorava dall'altra parte.  Il prigioniero 
      aveva riconosciuto il  pericolo  della  sua  manovra  e  ne  aveva 
      adottato  certamente  un'altra,  e per continuare la sua opera con 
      maggior sicurezza, aveva sostituito allo scalpello la leva. 
      Fatto ardito da questa scoperta,  Edmondo  risolse  di  venire  in 
      aiuto all'infaticabile operatore. 
      Cominciò  con  lo  spostare  il  suo  letto,  dietro  il quale gli 
      sembrava che l'opera di liberazione  si  compisse  e  cercò  cogli 
      occhi  un  oggetto  con  cui intaccare la muraglia,  far cadere il 
      cemento  umido  e  spostare  finalmente  una  pietra.   Niente  si 
      presentava  al  suo  sguardo,  egli  non  aveva  né  coltello.  né 
      strumenti taglienti. Del ferro non ve n'era che alle sbarre. Ma le 
      sbarre erano troppo bene assicurate,  erano troppo  solide  e  non 
      valeva neppure la pena di provare a spostarle. 
      Unici  mobili  della sua prigione erano il letto,  una sedia,  una 
      tavola, un secchio ed una brocca. 
      Il letto aveva le traverse di ferro; ma erano incastrate nel legno 
      e fermate con delle viti. Sarebbe occorso un cacciavite per levare 
      queste viti e prendere le traverse.  Alla  tavola  ed  alla  sedia 
      niente.  Il secchio una volta aveva il manico, ma questo era stato 
      tolto. 
      Non restava più a Dantès che una risorsa,  quella cioè di  rompere 
      la brocca, e coi pezzi di coccio mettersi al lavoro. Lasciò cadere 
      la brocca sul pavimento, e la brocca andò in pezzi. 
      Dantès  scelse  due  o  tre  pezzi  acuti,   li  nascose  nel  suo 
      pagliericcio, lasciò gli altri per terra. La rottura di una brocca 
      era troppo naturale perché potesse destare sospetti. 
      Edmondo  aveva  vegliato  tutta  la   notte   per   lavorare,   ma 
      nell'oscurità  l'affare  andava male,  poiché bisognava lavorare a 
      tastoni,  e sentì ben  presto  che  smussava  l'informe  strumento 
      contro  una  materia più dura di quello.  Risospinse dunque il suo 
      letto,  e aspettò il giorno.  Con la speranza gli era  tornata  la 
      pazienza. 
      Tutta  la  notte  ascoltò,  e  capì  che  lo  sconosciuto minatore 
      continuava la sua opera sotterranea. 
      Venne il giorno, entrò il carceriere. 
      Dantès disse che il giorno innanzi nel bere gli era sfuggita dalle 
      mani la brocca, che si era rotta cadendo. 
      Il carceriere andò brontolando a cercare una brocca  nuova,  senza 
      neppure  prendersi l'incomodo di portar via i cocci della vecchia. 
      Ritornò  dopo  un  istante,   raccomandò  maggior  precauzione  al 
      prigioniero, ed uscì. 
      Egli ascoltò con una gioia indicibile lo stridere della serratura, 
      che prima ogni volta che si chiudeva gli serrava il cuore. Ascoltò 
      l'allontanarsi del rumore dei passi.  Poi, quando questo rumore fu 
      spento,  balzò dalla sua cuccetta che spostò,  e al debole  raggio 
      del giorno che penetrava nella sua cella,  poté vedere gli inutili 
      tentativi fatti nella notte precedente  contro  il  corpo  di  una 
      pietra, invece di lavorare sul cemento che la circondava. 
      L'umidità aveva reso il cemento friabile.  Dantès,  con un battito 
      di allegrezza nel cuore,  s'accorse che questo cemento si staccava 
      a  pezzetti.   Questi  pezzetti  erano  minuscoli,   è  vero;   ma 
      ciononostante,  in capo ad una mezz'ora,  Dantès ne aveva staccato 
      un bel pugno. 
      Un  matematico  avrebbe potuto calcolare che con due anni circa di 
      questo lavoro,  supponendo che non si fosse incontrato alcun pezzo 
      di macigno, si poteva scavare un passaggio di due piedi quadrati e 
      di 27 piedi di profondità. 
      Il  prigioniero  si  rimproverò  allora  di non avere impiegato in 
      quest'opera le lunghe ore trascorse,  e che  aveva  perdute  nella 
      speranza, nella preghiera e nella disperazione. 
      Dopo  sei  anni  circa,  dacché  era chiuso in quel carcere,  qual 
      lavoro, per quanto fosse lento non avrebbe potuto compiere? 
      Questa idea gli infuse un nuovo ardore. 
      In tre giorni giunse, in mezzo ad inaudite precauzioni, a togliere 
      tutto il cemento e a mettere allo scoperto il macigno: il muro era 
      formato di frantumi di pietra in mezzo ai quali per  aumentare  la 
      solidità  era,  di tratto in tratto,  posto un macigno.  Fu uno di 
      questi macigni,  scoperto in tutto il suo  contorno,  che  ora  si 
      trattava di togliere dal suo alveolo. 
      Dantès  dapprima  provò  con  le  unghie,  ma  le sue unghie erano 
      insufficienti.   I  frantumi  della   brocca,   introdotti   nelle 
      connessure,  si  rompevano  allorché Dantès voleva servirsene come 
      leva. 
      Dopo  un'ora  di  inutili  tentativi,   si   rialzò   col   sudore 
      dell'angoscia sulla fronte. 
      Stava forse per fermarsi sul principio, ovvero bisognava aspettare 
      inerte  ed inutile il suo vicino,  che forse si sarebbe anche egli 
      stancato, prima di avere compiuto l'opera? 
      Allora gli venne un'idea.  Rimase  in  piedi  sorridendo:  la  sua 
      fronte, umida per il sudore, si seccò. 
      Il  carceriere portava tutti i giorni la minestra di Dantès in una 
      casseruola di latta; questa casseruola conteneva la sua minestra e 
      quella di un altro prigioniero.  Dantès aveva  notato  che  questa 
      casseruola era sempre o interamente piena o piena a metà,  secondo 
      che il carceriere cominciava la distribuzione dei viveri da lui  o 
      dal suo compagno. 
      Questa casseruola aveva un manico di ferro.  Era questo manico che 
      Dantès anelava di avere,  e che egli avrebbe pagato,  se gli fosse 
      stato chiesto, dieci anni della sua vita. Il carceriere versava il 
      contenuto  di  questa  casseruola nel piatto di Dantès.  Dopo aver 
      mangiato la sua minestra con un cucchiaio di legno,  Dantès lavava 
      questo piatto, che serviva così ogni giorno. 
      La  sera Dantès pose il suo piatto per terra a mezza strada fra la 
      porta e la tavola; il carceriere entrando mise il piede sul piatto 
      e lo ruppe in mille pezzi. 
      Questa volta non vi era niente da dire contro Dantès.  Aveva fatto 
      male a lasciare il suo piatto per terra,  è vero, ma il carceriere 
      aveva il torto di non aver guardato dove metteva i piedi. 
      Il carceriere si contentò dunque di brontolare, poi guardò intorno 
      a sé dove poteva mettere la minestra: il  servizio  da  tavola  di 
      Dantès si limitava a quel solo piatto. 
      "Lasciate  la  casseruola"  disse Dantès,  "la riprenderete domani 
      quando mi porterete la colazione." 
      Questo consiglio andava d'accordo con la pigrizia del  carceriere, 
      che  per  tal  modo  non aveva bisogno di rimontare,  riscendere e 
      tornare a rimontare. 
      Lasciò la casseruola. 
      Dantès trasalì di gioia.  Questa volta  mangiò  sollecitamente  la 
      minestra e la carne, che secondo l'uso delle prigioni, viene messa 
      in mezzo alla minestra. Poi, dopo avere aspettato un'ora per esser 
      certo  che  il  carceriere  non  si sarebbe pentito,  allontanò il 
      letto, prese la casseruola,  introdusse l'estremità del manico nel 
      cemento,  fra il macigno ed i rottami di pietra vicini, e cominciò 
      a farlo agire da leva. 
      Una leggera oscillazione assicurò Dantès che  il  lavoro  prendeva 
      buona piega. 
      Infatti  in  capo  a  un'ora  la  pietra era tolta dal muro,  dove 
      lasciava una buca del diametro di un piede e mezzo. 
      Dantès raccolse con molta cura il calcinaccio  e  lo  portò  negli 
      angoli  della  cella,  grattò la terra grigiastra con un frammento 
      della sua brocca e ricoperse il calcinaccio di terra. Poi, volendo 
      mettere a profitto questa notte,  in cui lo stratagemma che  aveva 
      immaginato  gli  dava  fra  le  mani  un  utensile  così prezioso, 
      continuò a scavare con tutta l'energia. 
      All'alba ripose la pietra nel suo foro,  respinse il letto  contro 
      il muro e si coricò. 
      La  colazione consisteva in un pezzo di pane: il carceriere entrò, 
      e posò questo pezzo di pane sulla tavola. 
      "Ebbene, non mi portate un altro piatto?" domandò Dantès. 
      "No" disse il carceriere,  "siete un rompitutto.  Avete  rotto  la 
      brocca,  e rotto il piatto. Se tutti i prigionieri facessero tanti 
      malanni quanto voi il Governo a causa vostra andrebbe  in  malora. 
      Vi  si  lascia la casseruola dentro cui d'ora in avanti si verserà 
      la vostra minestra,  ed in  tal  modo  forse,  non  romperete  più 
      utensili." 
      Dantès levò gli occhi al cielo,  e giunse le mani al disotto della 
      coperta. 
      Questo pezzo di ferro di cui restava padrone, fece nascere nel suo 
      cuore uno slancio di riconoscenza verso il cielo, come mai gli era 
      accaduto nel  tempo  della  passata  vita  per  tutti  i  benefici 
      ottenuti.  Soltanto  aveva  notato  che  dal  momento in cui aveva 
      cominciato a lavorare, l'altro prigioniero non lavorava più. 
      Non importa;  non era una ragione per smettere.  Se il vicino  non 
      progrediva verso di lui,  lui sarebbe andato tuttavia verso il suo 
      vicino. 
      In tutta la giornata Dantès lavorò senza sosta; la sera, grazie al 
      nuovo strumento,  aveva levato dal muro  più  di  dieci  pugni  di 
      calcinaccio, rottami e cemento. 
      Quando giunse l'ora della visita,  raddrizzò alla meglio il manico 
      della casseruola che aveva storto, e rimise il recipiente al posto 
      consueto. 
      Il carceriere versò l'ordinaria razione di  minestra  e  carne,  o 
      piuttosto  di  minestra  e  pesce,  perché quello era un giorno di 
      magro,  e  tre  volte  la  settimana  facevano  far  di  magro  ai 
      prigionieri. 
      Avrebbe  potuto  essere ancora un mezzo per misurare il tempo,  se 
      Dantès non avesse da molto abbandonato questo calcolo. 
      Versata la minestra, il carceriere si ritirò. 
      Questa volta Dantès volle assicurarsi  se  il  suo  vicino  avesse 
      cessato  realmente  di lavorare;  e si mise in ascolto.  Tutto era 
      silenzioso come in quei tre giorni  nei  quali  fu  interrotto  il 
      lavoro. 
      Dantès  sospirò;  era  evidente che il suo vicino non si fidava di 
      lui.  Ciò nonostante non si perdette di  coraggio,  e  continuò  a 
      lavorare tutta la notte. Ma dopo due o tre ore di lavoro, incontrò 
      un  ostacolo:  il suo ferro non intaccava più e scorreva sopra una 
      superficie piana. 
      Dantès toccò  l'ostacolo  con  la  mano,  e  s'accorse  che  aveva 
      raggiunto  una  trave.   Questa  trave  attraversava  o  piuttosto 
      sbarrava del tutto il foro incominciato da Dantès.  Ora  bisognava 
      scavare dal sotto in su. 
      Il disgraziato giovane non aveva pensato a un simile ostacolo. 
      "Oh, mio Dio" esclamò, "avevo tanto pregato, che speravo mi aveste 
      ascoltato...!  Mio  Dio,  dopo  aver  perduto la libertà della mia 
      vita... mio Dio,  dopo avere smarrito la calma della mente...  mio 
      Dio,  dopo  avermi  richiamato all'esistenza...  mio Dio,  abbiate 
      pietà di me, non mi lasciate morir disperato!..." 
      "Chi parla di Dio e di disperazione nello stesso tempo?"  articolò 
      una  voce  che  sembrava  venire  di  sottoterra e che,  attenuata 
      dall'opacità, giungeva a Edmondo con accento sepolcrale. 
      Edmondo  sentì  drizzarsi  i  capelli  sulla  testa,  indietreggiò 
      cadendo in ginocchio. 
      "Ah" mormorò, "finalmente sento parlare un uomo!" 
      Erano  già  quattro  o  cinque  anni che non aveva sentito parlare 
      altri che il suo carceriere,  ed il carceriere non  è  considerato 
      uomo  dal  prigioniero  ma  una  porta viva aggiunta alla porta di 
      quercia,  o una sbarra di carne e d'ossa aggiunta alle  sbarre  di 
      ferro. 
      "In  nome  del  cielo"  gridò  Dantès,  "voi  che  avete  parlato, 
      continuate  a  parlare,   quantunque  la  vostra  voce  mi   abbia 
      spaventato. Chi siete?" 
      "Chi siete voi piuttosto?" domandò la voce. 
      "Un  disgraziato  prigioniero..."  rispose  Dantès,  che non aveva 
      alcuna difficoltà a farsi conoscere. 
      "Di quale paese?" 
      "Francese." 
      "Il vostro nome?" 
      "Edmondo Dantès." 
      "La vostra professione?" 
      "Marinaio." 
      "Da quanto tempo siete qui?" 
      "Dal 1  marzo 1815." 
      "Il vostro delitto?" 
      "Io sono innocente." 
      "Ma di qual delitto siete accusato?" 
      "Di aver cospirato per il ritorno dell'Imperatore." 
      "Come!  per il ritorno dell'Imperatore?  L'Imperatore non è dunque 
      più sul trono?" 
      "Egli  ha  abdicato  a  Fontainebleau nel 1814 ed è stato relegato 
      all'isola d'Elba.  Ma voi che ignorate  tutto  questo,  da  quanto 
      tempo siete qui?" 
      "Dal  1811."  Dantès rabbrividì;  quest'uomo aveva quattro anni di 
      prigionia più di lui. 
      "Sta bene,  non scavate più" disse la voce,  parlando  in  fretta, 
      "soltanto ditemi a quale altezza si trova lo scavo che fate." 
      "Rasente terra." 
      "Da che cosa è nascosto?" 
      "Dal mio letto." 
      "Hanno smosso mai il vostro letto da che siete in prigione?" 
      "Mai." 
      "Dove immette la vostra cella?" 
      "Ad un corridoio." 
      "E il corridoio?" 
      "Mette capo ad un cortile." 
      "Ahimè!" mormorò la voce. 
      "Oh, mio Dio che cosa avete?" gridò Dantès. 
      "C'è  che ho sbagliato,  che l'imperfezione dei miei disegni mi ha 
      ingannato,  che la mancanza di un compasso mi ha perduto,  che una 
      linea  sbagliata sul mio piano ha equivalso a quindici piedi e che 
      io ho preso il muro che voi scavate per quello della cittadella." 
      "Ma allora voi sareste uscito sul mare." 
      "Era ciò che volevo!" 
      "E se foste riuscito?" 
      "Mi sarei gettato a nuoto,  sarei approdato a una delle isole  che 
      circondano il Castello d'If,  sia l'isola di Daume, sia l'isola di 
      Tiboulen, o ancora la spiaggia, ed allora sarei stato salvo." 
      "E avreste potuto nuotare fin là?" 
      "Dio me ne avrebbe dato la forza. Ma ora tutto è perduto!" 
      "Tutto?" 
      "Sì, richiudete il vostro foro con precauzione,  non lavorate più, 
      non vi occupate di mente, e aspettate mie notizie." 
      "Ma almeno ditemi chi siete..." 
      "Sono... io sono il numero 27." 
      "Voi dunque non vi fidate di me?" domandò Dantès. Edmondo credette 
      intendere  un amaro sorriso penetrare per la volta e giungere fino 
      a lui. 
      "Oh,  io sono un buon cristiano" esclamò,  indovinando per istinto 
      che  quell'uomo pensava di abbandonarlo.  "Vi giuro per quanto c'è 
      di più sacro,  che mi farò piuttosto uccidere che far scoprire  ai 
      vostri  carnefici  ed  ai  miei l'ombra della verità.  In nome del 
      cielo, non mi private della vostra presenza,  non mi private della 
      vostra  voce,  o,  ve lo giuro,  perché sono all'estremo delle mie 
      forze,  mi romperò la testa contro le muraglie,  e  voi  avrete  a 
      rimproverarvi la mia morte." 
      "Quanti anni avete?" riprese l'incognito interlocutore. "La vostra 
      voce sembra quella di un giovane" 
      "Non  so  quant'anni  abbia perché non ho misurato il tempo dacché 
      sono qui. So che il primo marzo 1815, quando fui arrestato,  avevo 
      circa 19 anni." 
      "Non  ancora  26 anni!" mormorò la voce.  "A questa età non si può 
      essere un traditore." 
      "Oh, no, no... ve lo giuro" ripeté Dantès.  "Ve l'ho già detto,  e 
      ve lo ridico: mi farei tagliare a pezzi piuttosto che tradirvi." 
      "Avete fatto bene a parlarmi, avete fatto bene a pregarmi" riprese 
      la voce, "perché avrei pensato un altro piano, e mi sarei separato 
      da  voi.  Ma  la  vostra  età  mi  tranquillizza;  vi raggiungerò, 
      aspettatemi." 
      "E quando?" 
      "Bisogna che  io  calcoli  i  pericoli,  lasciatemi,  vi  farò  un 
      segnale." 
      "Ma non mi abbandonerete,  non mi lascerete solo, verrete da me, o 
      mi permetterete di venire da voi? Noi fuggiremo assieme e,  se non 
      potremo fuggire, almeno parleremo, voi delle persone che amate, io 
      di quelle che amo. Amate qualcuno?" 
      "Io sono solo al mondo." 
      "Allora amerete me...  Se siete giovane,  sarò vostro compagno, se 
      siete vecchio, sarò vostro figlio... Ho un padre che deve avere 70 
      anni se vive ancora;  non amavo che lui,  ed una  ragazza  che  si 
      chiamava  Mercedes.  Mio  padre non mi avrà certo dimenticato,  ne 
      sono sicuro, ma lei, Dio sa, se lei pensa ancora a me...  Vi amerò 
      come amavo mio padre..." 
      "Sta bene" disse il prigioniero; "addio, a domani." 
      Queste  poche  parole  furono  dette  con  un accento che convinse 
      Dantès.  Non chiese di più,  si alzò,  prese le solite precauzioni 
      per i rottami tolti dal muro,  e rimise il letto al suo posto.  Da 
      quel momento Dantès si abbandonò  del  tutto  alla  sua  felicità, 
      pensando  che  non  sarebbe stato certamente più solo,  fors'anche 
      sarebbe stato libero. Al peggio fosse rimasto prigioniero, avrebbe 
      avuto un compagno. La prigionia divisa non è che un mezzo castigo. 
      I lamenti che si emettono in comune sono  quasi  preghiere,  e  le 
      preghiere che si fanno in due sono atti di ringraziamento. 
      Per  tutta  la  giornata  Dantès  passeggiò nella sua prigione: il 
      cuore gli batteva di gioia. 
      Di tanto in tanto questa gioia lo soffocava.  Si sedeva sul  letto 
      premendosi  con  una  mano  il  petto.  Al  più piccolo rumore che 
      sentiva nel corridoio, balzava alla porta. 
      Una volta o due,  il timore che lo avessero separato da quell'uomo 
      che non conosceva, e che già amava come un amico, gli passò per il 
      cervello.  Allora  era deciso: al momento che il carceriere avesse 
      scostato il suo  letto  ed  abbassata  la  schiena  per  esaminare 
      l'apertura,  gli  avrebbe  fracassato  la  testa  su quello stesso 
      pavimento dove aveva rotto la brocca. 
      Sarebbe stato condannato a morte,  lo sapeva,  ma non stava  forse 
      per  morire  di  noia  e  di disperazione al momento in cui questo 
      rumore miracoloso lo aveva reso alla vita? 
      La sera venne il carceriere.  Dantès  era  steso  sul  letto;  gli 
      pareva che così avrebbe meglio fatto la guardia alla sua buca. 
      Senza  dubbio guardava il suo visitatore importuno con uno sguardo 
      stravagante, perché questi gli disse: 
      "Oh, vediamo! State per tornar pazzo?" 
      Dantès non rispose parola, ebbe paura che l'emozione della voce lo 
      tradisse. 
      Il carceriere si ritirò scuotendo la testa. 
      Giunta  la  notte,   Dantès  pensò  che  il  suo  vicino   avrebbe 
      approfittato  del  silenzio  e  dell'oscurità  per  riprendere  il 
      dialogo, ma s'ingannò. 
      La notte  passò  senza  che  alcun  rumore  rispondesse  alla  sua 
      febbrile aspettativa. Ma l'indomani, dopo la visita del mattino, e 
      mentre aveva allontanato il suo letto dal muro,  sentì battere tre 
      colpi distinti ad intervalli uguali. Si precipitò in ginocchio. 
      "Siete voi? disse. "Eccomi." 
      "Il vostro carceriere se n'è andato?" domandò la voce. 
      "Sì" rispose Dantès,  "non ritornerà che  questa  sera...  Abbiamo 
      dodici ore di libertà!" 
      "Posso dunque agire?" disse la voce. 
      "Sì! sì! sì! senza indugio, sull'istante, ve ne supplico!" 
      La  porzione  di  terra  sulla  quale Dantès,  per metà introdotto 
      nell'apertura,  appoggiava  le  mani,  sembrò  cedere.   Si  gettò 
      indietro  mentre  un  ammasso  di terra e di rottami precipitò nel 
      foro che veniva ad aprirsi sotto lo scavo da  lui  fatto.  Allora, 
      dal  fondo di questo foro oscuro,  e di cui non si poteva misurare 
      la  profondità,  vide  apparire  una  testa,   poi  due  spalle  e 
      finalmente un uomo tutto intero che uscì con molta agilità. 
 
 
 
                                 Capitolo 16. 
                                LO SCIENZIATO. 
 
 
      Dantès  ricevette fra le braccia il nuovo amico aspettato da tanto 
      e con tanta impazienza, e lo tirò verso la finestra, affinché quel 
      poco di luce che penetrava nel carcere potesse illuminarlo. 
      Era un personaggio di  piccola  statura,  coi  capelli  incanutiti 
      piuttosto  dai  pensieri  che  dall'età,  cogli  occhi penetranti, 
      nascosti sotto folti sopraccigli grigi, colla barba ancor nera che 
      gli discendeva fino a  metà  del  petto:  la  magrezza  del  viso, 
      solcato  da  profonde  rughe,  le forti linee della sua fisonomia, 
      svelavano un uomo più atto ad esercitare le sue facoltà morali che 
      le forze fisiche.  La fronte era coperta di  sudore.  Quanto  alle 
      vesti  era  impossibile  distinguerne  la  forma  primitiva poiché 
      cadevano a brandelli. 
      Sembrava avere sessantacinque anni almeno,  quantunque  una  certa 
      vigoria  nei  movimenti  tradisse  un'età  minore  di  quella  che 
      denunciava la lunga prigionia. 
      Accolse con molto piacere l'entusiasmo del giovane.  La sua  anima 
      di  ghiaccio sembrò un istante riscaldarsi e dilatarsi al contatto 
      di quell'anima ardente.  Lo ringraziò della sua cordialità con  un 
      certo  calore,   quantunque  il  disinganno  fosse  stato  grande; 
      ritrovare un'altra cella laddove credeva di trovare la libertà. 
      "Prima di tutto" disse, "vediamo se c'è mezzo di fare sparire alla 
      vista dei nostri carcerieri le tracce del mio passaggio.  Tutta la 
      nostra tranquillità futura dipende dalla loro ignoranza di ciò che 
      abbiamo fatto." 
      Allora s'inchinò verso l'apertura, sollevò facilmente la pietra ad 
      onta del suo peso, e la mise davanti al foro. 
      "Questa  pietra  è  stata  spostata  con  molto  negligenza" disse 
      scuotendo la testa. "Voi dunque non avete utensili?" 
      "E voi?" domandò Dantès con sorpresa, "ne avete voi?" 
      "Me ne sono fabbricato qualcuno.  Eccetto una lima,  ho tutto  ciò 
      che mi abbisogna: scalpello, coltello e leva." 
      "Oh,  sarei  ben  curioso  di  vedere questi prodotti della vostra 
      pazienza e della vostra industria" disse Dantès. 
      "Prendete, ecco lo scalpello." 
      Gli presentò una lama forte ed aguzza  adattata  ad  un  pezzo  di 
      legno arrotondato. 
      "E con che l'avete fatto?" disse Dantès. 
      "Con una delle traverse del mio letto;  è con questo strumento che 
      mi sono scavato tutto il sentiero che mi ha portato fin qui: circa 
      50 piedi." 
      "Cinquanta piedi!" esclamò Dantès, con una specie di terrore. 
      "Parlate a bassa  voce,  ragazzo,  parlate  più  piano"  disse  lo 
      sconosciuto  guardandosi  intorno.  "Spesso  accade che alle porte 
      delle prigioni si stia in ascolto." 
      "Ma si sa che io son solo." 
      "Non m'importa!" 
      "E dite che avete scavato 50 piedi per giunger qui?" 
      "Sì,  questa è circa la distanza che separa  la  mia  cella  dalla 
      vostra.  Soltanto  ho  mal  calcolato  la  curva,  per mancanza di 
      strumenti di geometria,  per potere fare una scala di proporzioni: 
      in luogo di quaranta piedi di ellissi, ne ho incontrati cinquanta. 
      Credevo,  come  vi  dissi  ieri,  di  giungere  sino  all'esterno, 
      traforare questo muro, e gettarmi a mare.  Ho seguito la lunghezza 
      del  corridoio  che  mette  nella  vostra cella invece di passarvi 
      sotto.  Tutto il mio lavoro è perduto,  poiché questo corridoio dà 
      in un cortile pieno di guardie." 
      "E' vero" disse Dantès, "ma questo corridoio non segue che un lato 
      della mia cella che ne ha quattro." 
      "Sì,  senza dubbio. Ma uno è formato dallo scoglio: occorrerebbero 
      dieci anni di  lavoro  o  dieci  minatori  forniti  di  tutti  gli 
      utensili   per  traforare  la  roccia.   Quest'altro  deve  essere 
      addossato  ai  fondamenti   dell'appartamento   del   Governatore: 
      usciremmo  nelle  cantine  che certamente sono chiuse a chiave,  e 
      saremmo presi.  L'altro  lato  dà...  aspettate...  e  dove  mette 
      quest'altro lato?" 
      Era  il  lato  in  cui  era  scavata  la feritoia,  attraverso cui 
      penetrava la luce. Questa feritoia, che andava restringendosi fino 
      al punto in cui dava passaggio al giorno,  e per  cui  nemmeno  un 
      bambino  avrebbe  potuto  passare,  era  per di più fornita di tre 
      sbarre  di  ferro  che  potevano  rassicurare  il  carceriere  più 
      sospettoso sul timore di una evasione. 
      Tuttavia  il nuovo arrivato,  facendo questa domanda,  trascinò la 
      tavola sotto la finestra. 
      "Salite sopra questa tavola" disse a Dantès. 
      Dantès obbedì,  salì sulla tavola,  e indovinando il pensiero  del 
      suo compagno, appoggiò il dorso al muro e gli presentò le due mani 
      incrociate.  Il compagno montò allora più lestamente di quello che 
      avrebbe potuto far credere la sua età,  e con un'agilità da gatto, 
      balzò sulla tavola,  poi dalla tavola sulle mani di Dantès, quindi 
      dalle mani sulle sue spalle. Così curvato in due,  perché la volta 
      del carcere gli impediva di drizzarsi,  introdusse la testa tra le 
      sbarre e poté allora fissare il suo sguardo dall'alto in basso. Un 
      istante dopo, ritirò rapido la testa. 
      "Oh! oh!" disse, "ne dubitavo." 
      E si lasciò andare lungo il corpo di Dantès sulla tavola  e  dalla 
      tavola balzò a terra. 
      "E  di che cosa dubitavate?" domandò Edmondo saltando dalla tavola 
      dopo di lui. 
      Il vecchio prigioniero meditava. 
      "Sì" disse, "è così: il quarto lato della vostra cella mette sopra 
      una galleria esterna, una specie di strada di perlustrazione,  per 
      la quale passano le pattuglie dove sono poste le sentinelle." 
      "Ne siete ben sicuro?" 
      "Ho  visto il cappello del soldato e la punta della sua baionetta, 
      e non per altro mi sono ritirato così in fretta." 
      "E così?" disse Dantès. 
      "E così,  voi vedete bene,  che è impossibile  fuggire  da  questo 
      carcere." 
      "Allora?"   continuò   il   giovanotto   con   un   mesto  accento 
      interrogatore. 
      "Allora" disse il vecchio prigioniero,  "sia fatta la  volontà  di 
      Dio!" 
      Ed  un'aria  di  profonda  rassegnazione  indurì  i lineamenti del 
      vecchio. 
      Dantès guardò quest'uomo che rinunciava in tal modo  e  con  tanta 
      filosofia  ad  una  speranza  nutrita  per  lungo  tempo,  con una 
      sorpresa mista ad ammirazione. 
      "Volete dirmi chi siete?" domandò Dantès. 
      "Oh, mio Dio, sì, se ciò vi può interessare, ora che non posso più 
      esservi utile." 
      "Voi potete consolarmi e sostenermi,  poiché mi sembrate forte  in 
      mezzo ai forti." 
      Lo scienziato sorrise tristemente. 
      "Io  sono  Faria"  disse,  "prigioniero  fino  dal 1811,  come voi 
      sapete,  in questo Castello d'If;  ma erano già tre anni che mi si 
      teneva  rinchiuso  nella  fortezza  di  Fenestrelle.  Nel 1811 fui 
      trasportato dal Piemonte in Francia.  Allora seppi che il  destino 
      in  quell'epoca  sorridente  a  Napoleone,  gli  aveva concesso un 
      figlio al quale era stato dato il titolo di Re di  Roma.  Ero  ben 
      lontano dal dubitare allora ciò che mi avete detto ieri;  cioè che 
      quattr'anni dopo, questo gran colosso sarebbe stato rovesciato.  E 
      chi regna adesso in Francia? forse Napoleone Secondo?" 
      "No è Luigi Diciottesimo." 
      "Luigi  Diciottesimo!  Il fratello di Luigi Sedicesimo?  I decreti 
      del cielo sono ben reconditi e misteriosi!  Qual è dunque la mente 
      della  Provvidenza,  quando abbassa l'uomo che aveva esaltato,  ed 
      esalta quello che aveva abbassato?" 
      Dantès seguiva  con  lo  sguardo  quest'uomo  che  dimenticava  un 
      istante il proprio destino,  per preoccuparsi così dei destini del 
      mondo. 
      "Sì,  sì" continuò,  "è come in  Inghilterra:  dopo  Carlo  Primo, 
      Cromwell,  dopo  Cromwell  Carlo  Secondo,  e  forse  dopo Giacomo 
      Secondo,   un  principe  d'Orange...   I  segreti  di   Dio   sono 
      imperscrutabili, e la serie delle umane vicende imprevedibile. Voi 
      siete ancor giovane, e potrete vedere..." 
      "Sì, se esco di qui." 
      "Ah,  è giusto" disse Faria, "noi siamo prigionieri; qualche volta 
      lo dimentico,  perché i miei occhi penetrano al di fuori di queste 
      muraglie, ed io mi credo libero." 
      "Ma voi, perché siete in prigione?" 
      "Perché  ho  sognato nel 1807 il progetto che Napoleone ha tentato 
      di realizzare nel 1811." 
      E il vecchio abbassò la testa. 
      Dantès non capiva come un uomo poteva arrischiare la sua vita  per 
      simili interessi. E vero però che, se egli conosceva Napoleone per 
      avergli  parlato una volta,  non sapeva quali fossero stati i suoi 
      progetti. 
      "Non  siete  voi...  malato?"  domandò  Dantès  che  cominciava  a 
      partecipare  dell'opinione  generale  che  si  aveva  di  lui  nel 
      Castello d'If. 
      "Malato?  Pazzo vorrete dire,  che come tale son tenuto in  questo 
      luogo..." 
      "Non osavo dirlo" disse Dantès sorridendo. 
      "Sì,  sì"  continuò  Faria  con amaro sorriso,  "sono io che tutti 
      dicono pazzo;  sono io che diverto da lungo tempo  gli  ospiti  di 
      questa  prigione,  e  che  rallegrerei  i  bambini,  se vi fossero 
      bambini nel soggiorno del dolore senza speranza." 
      Dantès rimase un istante immobile e muto. 
      "Così ora rinunciate alla fuga?" disse. 
      "Credo che la fuga  sia  impossibile,  un  rivoltarsi  contro  Dio 
      tentando ciò che Dio non vuole si compia." 
      "Perché scoraggiarvi? Sarebbe troppo domandare alla Provvidenza di 
      riuscire  al primo tentativo!  Non potete ricominciare da un'altra 
      parte ciò che avete fatto da questa?" 
      "Ma  sapete  ciò  che  ho  fatto,  per  parlare  in  tal  modo  di 
      ricominciare?   Sapete  che  mi  sono  occorsi  quattro  anni  per 
      fabbricare gli utensili che possiedo?  Che da due anni io  gratto, 
      raspo  e  foro una terra dura come il granito?  Sapete che è stato 
      necessario rompere delle pietre tali  che  mai  avrei  creduto  di 
      essere atto a muovere?  Che giornate intere sono passate in questo 
      lavoro gigantesco,  e certe sere mi ritenevo felice solo per  aver 
      potuto  levare  un pollice di vecchio cemento divenuto duro quanto 
      la pietra stessa? Sapete che per riporre tutta questa terra, tutti 
      questi  rottami,  e  queste  pietre  che  spostavo,  dovetti  fare 
      un'apertura sotto la volta di una scala, nel cui vuoto ho nascosto 
      tutto  quanto scavavo dal foro,  ed ora questo vuoto è pieno e non 
      saprei più dove mettere un pugno di  polvere?  Sapete  finalmente, 
      che  credevo di toccare la fine d'un lavoro per cui sentivo appena 
      le forze per compierlo, ed ecco che Dio non solo ha allontanato la 
      meta, ma l'ha spostata non so dove? Ve l'ho detto, e ve lo ripeto, 
      d'ora innanzi non farò più niente per tentare di  riacquistare  la 
      libertà,  poiché vedo chiaro che la volontà di Dio è ch'io rimanga 
      qui per sempre." 
      Edmondo abbassò la testa per non confessare a  quest'uomo  che  la 
      gioia  di  avere  un  compagno,  gli impediva di prendere la parte 
      dovuta al dolore del prigioniero per non essersi potuto salvare. 
      Faria si lasciò andare sul letto di Edmondo,  e Edmondo  restò  in 
      piedi. 
      Il giovane non aveva mai pensato alla fuga. Vi sono di quelle cose 
      che sembrano talmente impossibili, che non si ha neppure l'idea di 
      tentarle e si evitano come per istinto. 
      Scavare  50  piedi sotto terra,  consacrare a questa operazione un 
      lavoro di due anni per giungere, riuscendo,  sopra un precipizio a 
      picco sul mare;  precipitarsi da 50,  60,100 piedi d'altezza,  per 
      infrangersi forse sopra uno  scoglio,  se  la  pallottola  di  una 
      sentinella  non vi ha colto prima;  essere obbligato,  giungendo a 
      superare tutti questi pericoli,  a fare una lega  nuotando,  tutto 
      ciò era troppo, perché uno non si rassegnasse, e noi abbiamo visto 
      che Dantès aveva già spinto questa rassegnazione fino alla morte. 
      Ma ora che il giovane aveva veduto un vecchio attaccarsi alla vita 
      con  tanta energia e dargli l'esempio delle risoluzioni disperate, 
      egli si mise a riflettere e a misurare il suo coraggio. 
      Un altro aveva tentato ciò che egli non aveva avuto neppure l'idea 
      di pensare, un altro meno giovane, meno forte, meno destro di lui, 
      si era procurato a forza di  criterio  e  di  pazienza  tutti  gli 
      strumenti di cui abbisognava per questa incredibile operazione che 
      era  andata a vuoto solo per una misura mal presa;  un altro aveva 
      fatto tutto ciò, niente dunque doveva essere impossibile a Dantès. 
      Faria aveva traforato per 50 piedi,  egli ne traforerebbe per 100; 
      Faria a cinquant'anni aveva impiegato due anni al suo lavoro, egli 
      che  non  aveva  la  metà  degli  anni di Faria,  ne impiegherebbe 
      quattro;  Faria scienziato,  uomo di studi,  non aveva  timore  di 
      arrischiare la traversata dal Castello d'If all'isola di Daume, di 
      Ratonneau  o  di  Lemaire;   Edmondo  marinaio,  Dantès,  l'ardito 
      nuotatore che era stato tante volte a cercare  corallo  nel  fondo 
      del mare, esiterebbe dunque a fare una lega nuotando? Quanto tempo 
      occorre per fare una lega nuotando?  Un'ora. Ebbene, non era stato 
      tante volte ore intere in mare senza toccar riva? No,  no,  Dantès 
      non aveva bisogno che di essere incoraggiato dall'esempio;  Dantès 
      avrebbe fatto tutto ciò che un altro aveva fatto, o avrebbe potuto 
      fare. 
      Edmondo rifletté un istante. 
      "Io ho trovato ciò che voi cercate..." disse al vecchio. 
      Faria rabbrividì. 
      "Voi?" disse,  rialzando la testa in modo che faceva  capire  che, 
      Dantès  diceva  la verità,  lo scoraggiamento del suo compagno non 
      sarebbe stato di lunga durata.  "Voi?  Vediamo dunque,  cosa avete 
      trovato." 
      "Il  corridoio  che  avete  fiancheggiato  per venire dalla vostra 
      prigione fin qui, si estende nella stessa direzione della galleria 
      esterna, non è vero?" 
      "Sì." 
      "Non deve dunque esserne lontano che una quindicina di passi?" 
      "A dir molto." 
      "Ebbene,  verso la metà del corridoio noi faremo un cammino che lo 
      attraversi a guisa di croce. Questa volta voi prenderete meglio le 
      vostre  misure e noi metteremo capo nella galleria,  uccideremo la 
      sentinella,  e ce ne andremo.  Perché questo piano riesca  non  ci 
      vuole  che  coraggio,  e  voi ne avete;  che vigore,  ed io non ne 
      manco; di pazienza non parlo,  voi avete dato le vostre prove,  io 
      darò le mie." 
      "Un momento" rispose Faria, "voi non sapete, mio caro compagno, di 
      qual  genere  è  il mio coraggio e qual uso io conti di fare della 
      mia  forza;  quanto  alla  pazienza,  io  credo  di  essere  stato 
      abbastanza  paziente  ricominciando ogni mattina il lavoro di ogni 
      notte, ed ogni notte il lavoro del giorno. Ma allora,  ascoltatemi 
      bene,  ragazzo  mio,  era perché mi sembrava che avrei servito Dio 
      liberando una delle sue creature, che essendo innocente, non aveva 
      potuto essere condannata." 
      "Ebbene" domandò Dantès, "la cosa è allo stesso punto. Vi ritenete 
      forse colpevole da che mi avete incontrato? Ditelo..." 
      "No, ma non voglio diventarlo. Fin qui credevo di avere a che fare 
      con le cose, ora mi proponete di avere che fare con gli uomini. Ho 
      potuto traforare un muro e distruggere una scala,  ma  non  potrei 
      trafiggere un petto, né estinguere un'esistenza." 
      Dantès fece un leggero moto di sorpresa. 
      "Come"  disse,  "potendo diventar libero,  ve ne asterreste per un 
      simile scrupolo?" 
      "E voi" disse Faria,  "perché non  avete  una  sera  accoppato  il 
      carceriere con un piede del vostro tavolino,  e rivestito dei suoi 
      abiti non avete tentato di fuggire?" 
      "Perché non me n'è venuta l'idea" disse Dantès. 
      "E' perché voi sentite  per  un  simile  delitto  un  tale  orrore 
      istintivo,  che  non ci avete nemmeno pensato" rispose il vecchio, 
      "perché nelle cose semplici e permesse i nostri  naturali  istinti 
      ci  avvertono  che  non usciamo dalla linea del nostro dovere.  La 
      tigre che versa il sangue per natura,  non ha bisogno che  di  una 
      cosa  ed  è  che  il suo odorato l'avverta che vi è preda alla sua 
      portata,  si lancia verso questa  preda,  vi  piomba  sopra  e  la 
      sbrana: questo è il suo istinto,  lei obbedisce... Ma all'uomo, al 
      contrario,   ripugna  il  sangue:  non  solo  le   leggi   sociali 
      proscrivono l'omicidio, sono le leggi naturali che lo rigettano." 
      Dantès  rimase  confuso.  Ciò  spiegava  perfettamente  quanto era 
      passato nella sua anima a sua insaputa. 
      "E poi"  continuò  Faria,  "da  dodici  anni  circa  che  sono  in 
      prigione,  ho  riesaminato  tutte  le  più  celebri  evasioni;  le 
      violente non  sono  riuscite  che  molto  raramente.  Le  evasioni 
      fortunate,  le  evasioni  coronate da pieno successo,  sono quelle 
      meditate con giudizio e preparate con lentezza.  Fu  così  che  il 
      Duca  di  Beaufort  fuggì dal castello di Vincennes,  Duboquoi dal 
      forte l'Evêque,  e Latude dalla  Bastiglia.  Vi  sono  quelle  che 
      possono  essere  offerte  dal  caso;   queste  sono  le  migliori. 
      Aspettiamo un'occasione,  credetemi,  e  se  questa  occasione  si 
      presenta, approfittiamone." 
      "Voi  avete  potuto  aspettare"  disse Dantès sospirando.  "Questo 
      lungo lavoro vi teneva occupato in tutti gli istanti, e quando voi 
      non avevate lavoro per distrarvi,  avevate le vostre speranze  per 
      consolarvi." 
      "E'  vero" disse Faria sorridendo,  "poi d'altronde avevo un'altra 
      occupazione." 
      "Che facevate dunque?" 
      "Studiavo o scrivevo." 
      "Vi davano dunque carta, penne e inchiostro?" 
      "No, ma li facevo." 
      "Voi  facevate  carta,   penne  e  inchiostro?"  esclamò   Dantès, 
      incredulo. 
      "Sì." 
      Dantès  guardò  quest'uomo con ammirazione;  ma stentava a credere 
      ciò che diceva. Faria si accorse di questo dubbio. 
      "Quando voi verrete  a  trovarmi"  disse,  "vi  mostrerò  un'opera 
      intera, risultato dei pensieri, delle ricerche e delle riflessioni 
      di  tutta  la  mia  vita,  opera  che avevo meditato all'ombra del 
      Colosseo di Roma,  ai piedi della colonna di San Marco a  Venezia, 
      sulle rive dell'Arno a Firenze, e non avrei mai pensato che i miei 
      carcerieri mi avrebbero un giorno lasciato eseguire fra le quattro 
      mura  del Castello d'If.  E' un'opera eminentemente filosofica che 
      formerà un grosso volume in quarto." 
      "E voi l'avete scritta?..." 
      "Sopra due camicie.  Ho inventato un liquido  che  rende  la  tela 
      liscia come la pergamena." 
      "Siete chimico?" 
      "Un poco. Ho conosciuto Lavoisier e sono stato amico di Cabanis." 
      "Ma  per  una simile opera avreste dovuto consultare molti autori. 
      Avevate dunque dei libri?" 
      "A Roma avevo quasi cinquemila volumi nella mia biblioteca,  ed  a 
      furia   di   leggere   e   di  rileggere,   ho  scoperto  che  con 
      centocinquanta opere  ben  scelte  si  ha,  se  non  il  riassunto 
      compiuto  delle  umane  cognizioni,  almeno  tutto ciò che è utile 
      all'uomo a sapersi.  Ho consacrato  tre  anni  della  mia  vita  a 
      leggere  e rileggere questi centocinquanta volumi,  di modo che li 
      sapevo a memoria quando fui arrestato.  Con un leggero sforzo,  me 
      li  sono richiamati tutti alla mente ed ora potrei quasi recitarvi 
      alla lettera Senofonte,  Plutarco,  Tito  Livio,  Tacito,  Strada, 
      Dante,  Montaigne,  Shakespeare, Spinoza, Machiavelli e Bossuet, e 
      non vi cito che i più importanti." 
      "Dunque conoscete diverse lingue?" 
      "Parlo cinque lingue viventi: il tedesco, il francese, l'italiano, 
      l'inglese e lo spagnolo; coll'aiuto del greco antico, intendo bene 
      il greco moderno; solo lo parlo male, ma lo studio adesso." 
      "Lo studiate?" disse Dantès. 
      "Sì,  mi sono fatto un dizionario delle parole che sapevo;  le  ho 
      distribuite, combinate, girate e rigirate in modo che esse possano 
      bastare per esprimere il mio pensiero. Conosco circa mille parole; 
      a tutto rigore sono abbastanza,  quantunque ve ne siano centomila, 
      credo,  nel dizionario.  Non sarei eloquente,  ma mi farei  capire 
      benissimo, e ciò mi basta." 
      Edmondo,  sempre  più  meravigliato,  cominciava  quasi  a trovare 
      soprannaturali le facoltà  di  quest'uomo  straordinario.  Volendo 
      sperimentarlo sopra un punto qualunque, continuò: 
      "Ma  se  non vi hanno dato delle penne" disse,  "come avete potuto 
      scrivere un'opera così voluminosa?" 
      "Ne ho fatte di eccellenti,  che sarebbero  preferite  alle  penne 
      ordinarie,   quando  fosse  nota  la  materia  che  uso,  cioè  le 
      cartilagini delle teste di quei grossi merluzzi che qualche  volta 
      ci  danno nei giorni di magro.  Io vedevo giungere i mercoledì,  i 
      venerdì e i sabati con grandissimo piacere,  perché essi mi davano 
      la speranza d'aumentare la mia provvista di penne; e i miei lavori 
      filosofici,  ve  lo  confesso,  sono  la mia più cara occupazione. 
      Pensando all'ideale,  dimentico il presente,  e  camminando  nella 
      filosofia, dimentico di esser prigioniero." 
      "Ma l'inchiostro?" disse Dantès. "Con cosa facevate l'inchiostro?" 
      "Nella mia cella c'era un tempo un caminetto murato poco prima del 
      mio  arrivo  in prigione.  Per molti anni vi si è dovuto far fuoco 
      per tutto l'inverno,  per cui è tutto tappezzato di fuliggine.  Io 
      faccio  sciogliere  questa  fuliggine in una porzione di quel vino 
      che ci danno la domenica e ciò mi serve da  eccellente  inchiostro 
      per tutta la settimana. Per le note particolari, che hanno bisogno 
      di essere distinte e scorte subito,  mi pungo le dita e scrivo col 
      mio sangue." 
      "E quando potrò vedere tutto questo...?" domandò Dantès. 
      "Quando vorrete..." rispose Faria. 
      "Oh, subito! subito!" esclamò il giovane. 
      "Seguitemi dunque..." disse Faria. 
      Egli s'introdusse nel corridoio sotterraneo,  entro cui  disparve; 
      Dantès lo seguì. 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 17. 
                          LA CELLA DELLO SCIENZIATO. 
 
 
      Dopo essere passato,  curvandosi,  ma con abbastanza facilità, per 
      il passaggio sotterraneo,  Dantès giunse all'estremità opposta del 
      corridoio che immetteva nella camera di Faria.  Là il passaggio si 
      restringeva,  e presentava appena lo spazio sufficiente perché  un 
      uomo potesse strisciare aggrappandosi. 
      La  cella  del  nuovo  amico  aveva il pavimento formato di pietre 
      quadrate,  e sollevando una di queste pietre in un angolo,  il più 
      oscuro  della  stanza,  si vedeva dove Faria aveva incominciato la 
      laboriosa fatica, di cui Dantès aveva veduto la fine. 
      Rimessa la pietra al suo posto,  Faria vi stendeva sopra un  pezzo 
      di  vecchia stuoia e questa precauzione bastava a nasconderla agli 
      occhi dei carcerieri. 
      Appena entrato ed  in  piedi,  il  giovane  esaminò  questa  cella 
      misteriosa con la più grande attenzione. 
      Al primo aspetto, la stanza non presentava niente di particolare. 
      "Bene" disse Faria, "non è che mezzogiorno e un quarto, ed abbiamo 
      ancora qualche ora per noi." 
      Dantès guardò intorno cercando a quale orologio Faria aveva potuto 
      legger l'ora in un modo così preciso. 
      "Vedete  questo raggio di luce che viene dalla mia finestra" disse 
      Faria,  "guardate sul muro le linee che vi ho tracciate.  Grazie a 
      queste linee,  che sono combinate col doppio movimento della terra 
      e l'ellissi  che  descrive  intorno  al  sole,  io  so  l'ora  più 
      esattamente  che  se  avessi  un orologio,  poiché un orologio può 
      guastarsi, mentre la terra e il sole non si guastano mai." 
      Dantès non riusciva a capire questa spiegazione.  Vedendo il  sole 
      alzarsi  dietro  le  montagne  e tuffarsi nel Mediterraneo,  aveva 
      sempre creduto che fosse quello che camminasse,  e non  la  terra. 
      Questo doppio movimento del globo da lui abitato,  e di cui non si 
      accorgeva, gli sembrava quasi impossibile.  In ciascuna parola del 
      suo  interlocutore  vedeva  misteri  di scienza così ammirabili ed 
      approfonditi,  quanto quelle miniere d'oro e di diamanti che aveva 
      visitate in un viaggio fatto,  mentre era ancora quasi bambino,  a 
      Guzerat e a Golgonda. 
      "Vediamo" disse a Faria, "ho smania di esaminare i vostri tesori." 
      Faria andò verso il caminetto,  e  con  lo  scalpello  che  teneva 
      sempre  in  mano,  spostò  la  pietra  che  altre volte formava il 
      focolare e che  nascondeva  una  cavità  abbastanza  profonda;  in 
      questa  cavità  stavano  rinchiusi  tutti gli oggetti di cui aveva 
      parlato a Dantès. 
      "Che volete vedere per primo?" domandò. 
      "Mostratemi la vostra grande opera filosofica." 
      Faria cavò dal prezioso armadio  tre  o  quattro  rotoli  di  tela 
      ravvolti come fogli di papiro;  erano strisce larghe circa quattro 
      pollici, e lunghe circa diciotto. Queste strisce, numerate,  erano 
      coperte  da  una  scrittura  che  Dantès  poté  leggere perché era 
      scritta nella lingua materna di Faria,  vale a dire  in  italiano, 
      idioma  che  Dantès comprendeva perfettamente nella sua qualità di 
      provenzale. 
      "Vedete" disse, "tutto è qui: sono circa tre giorni che ho scritto 
      la parola fine  nella  sessantottesima  striscia.  Due  delle  mie 
      camicie e tutti i miei fazzoletti vi sono impiegati;  se un giorno 
      tornassi libero e potessi trovare in  Italia  uno  stampatore  per 
      pubblicarla la mia reputazione sarebbe fatta." 
      "Sì" rispose Dantès,  "lo vedo bene.  Ora mostratemi, ve ne prego, 
      le penne con cui avete scritto quest'opera." 
      "Eccole..." disse Faria. 
      E mostrò un bastoncello lungo sei pollici, grosso quanto un manico 
      di pennello,  e attorno ad una delle estremità era legata  con  un 
      filo una di quelle cartilagini,  ancora macchiata d'inchiostro, di 
      cui Faria aveva parlato a Dantès,  tagliata a  becco,  e  spaccata 
      come una penna ordinaria. 
      Dantès  l'esaminò,  cercando con lo sguardo lo strumento col quale 
      era stata tagliata in un modo così preciso. 
      "Ah,  sì" disse Faria,  "il temperino,  non  è  vero?  E'  il  mio 
      capolavoro;   l'ho   fatto  come  questo  coltello,   col  vecchio 
      candeliere di ferro." 
      Il temperino tagliava come un rasoio.  Quanto al coltello aveva il 
      doppio  vantaggio  di  poter  servire  ad un tempo,  a seconda del 
      bisogno, da coltello e da pugnale. 
      Dantès esaminò questi differenti oggetti con la stessa  attenzione 
      che  avrebbe  usata  in  una bottega di chincaglierie a Marsiglia. 
      Aveva esaminato altre volte eguali strumenti eseguiti da  selvaggi 
      e portati dal Mare del Sud dai capitani di lungo corso. 
      "In  quanto  all'inchiostro"  disse  Faria,  "sapete  quale metodo 
      impiego, lo faccio quando ne ho bisogno." 
      "Ciò di cui mi meraviglio è" disse Dantès, "che vi siano bastati i 
      giorni per questi lavori." 
      "Ma avevo le notti" rispose Faria. 
      "Le notti!  Siete dunque della natura dei gatti e ci vedete chiaro 
      anche la notte?" 
      "No,  ma Iddio ha dato all'uomo l'intelligenza per venire in aiuto 
      alla povertà dei suoi sensi: mi sono procurato della luce." 
      "E come?" 
      "Dalla carne che ci portano separai il grasso,  lo feci fondere  e 
      ne  cavai una specie di olio compatto.  Guardate,  ecco qua la mia 
      bugia." E Faria mostrò a Dantès una specie di  lanterna  uguale  a 
      quelle che si adoperavano nelle pubbliche illuminazioni. 
      "Ma il fuoco?" 
      "Ecco delle pietruzze e della tela bruciata." 
      "Ma gli zolfanelli?" 
      "Ho  finto  di  avere  una malattia cutanea,  e ho domandato dello 
      zolfo che mi è stato accordato." 
      Dantès depose sulla tavola gli  oggetti  che  teneva  in  mano,  e 
      abbassò la testa, avvilito davanti alla perseveranza ed alla forza 
      di quello spirito. 
      "Questo  non è tutto" continuò Faria,  "poiché non bisogna mettere 
      tutti i tesori in un solo nascondiglio; chiudiamo ora questi." 
      Riposta la pietra al suo posto,  Faria vi sparse sopra un poco  di 
      terra,  vi strisciò il piede per fare sparire ogni traccia, avanzò 
      verso il suo letto e lo spostò. Dietro al capezzale,  nascosto con 
      una pietra che lo chiudeva quasi ermeticamente,  c'era un foro, ed 
      in questo foro una scala a corda lunga da 25 a  30  piedi.  Dantès 
      l'esaminò, era di una solidità a tutta prova. 
      "Chi   vi   ha   fornito   la   corda   necessaria  a  quest'opera 
      meravigliosa?" domandò Dantès. 
      "Dapprima qualche camicia,  poi qualche  lenzuolo  del  mio  letto 
      sfilato nei tre anni di prigionia a Fenestrelle. Quando sono stato 
      trasportato al Castello d'If ho trovato il mezzo di portare questo 
      filo; e ho continuato il mio lavoro." 
      "Ma non si accorgevano che le vostre lenzuola erano senz'orlo?" 
      "Le ricucivo." 
      "Con che?" 
      "Con quest'ago." 
      E  Faria alzando una falda del suo abito,  mostrò una spina lunga, 
      acuta e ancora affilata che vi portava attaccata. 
      "Sì" continuò Faria,  "dapprima avevo pensato di  smussare  queste 
      sbarre,  e fuggire dalla finestra, un poco più larga della vostra, 
      come voi vedete,  e che avrei allargata di più  all'istante  della 
      mia evasione; ma mi accorsi che questa finestra dava in un cortile 
      interno, e rinunziai a questo progetto essendo troppo incerto. Ciò 
      nonostante  conservai  la  scala  per  una  di  quelle circostanze 
      impreviste,  per una di quelle evasioni di cui vi ho parlato e che 
      solo il caso qualche volta procura." 
      Dantès,  mentre  sembrava  che  esaminasse  la  scala,  pensava  a 
      tutt'altra cosa;  un'idea gli  si  era  affacciata  allo  spirito. 
      Quest'uomo  così  intelligente,   così  ingegnoso,  così  profondo 
      avrebbe potuto forse chiarire la causa della sua infelicità, nella 
      quale egli non aveva mai potuto scorgere nulla. 
      "A  che  pensate  voi?"  domandò  Faria  ridendo  e  prendendo  la 
      distrazione di Dantès per un atto di ammirazione. 
      "Pensavo ad una cosa,  alla quantità enorme d'intelletto che avete 
      dovuto impiegare per giungere al punto a cui siete  arrivato.  Che 
      avreste dunque fatto se foste stato libero?" 
      "Forse  niente.  Il  mio cervello è troppo pieno,  e forse sarebbe 
      evaporato in cose futili;  occorre  disgrazia  per  scavare  certe 
      miniere  misteriose  nascoste  nell'umano  intelletto;  occorre la 
      pressione per far scoppiare la polvere...  La prigionia ha riunito 
      in  un sol punto tutte le mie facoltà fluttuanti ed urtandosi esse 
      in un angusto spazio,  come nello scontro  delle  nuvole,  provoca 
      l'elettricità, dall'elettricità il lampo, dal lampo la luce." 
      "No,  io  non  so  niente"  disse  Dantès  avvilito  dalla propria 
      ignoranza,  "una quantità delle vostre parole per me sono vuote di 
      senso, voi siete ben felice di essere in tal modo istruito!" 
      Faria sorrise. 
      "Voi  pensavate  a due cose,  mi diceste poco fa?  Ma non mi avete 
      fatto conoscere che la prima; qual è la seconda?" 
      "Che voi mi avete raccontata la vostra  vita,  ed  io  non  vi  ho 
      raccontato la mia." 
      "La  vostra  vita,  caro  ragazzo,  è  tanto  breve  che  non  può 
      racchiudere avvenimenti di grand'importanza." 
      "Essa racchiude una immensa disgrazia,  una maledizione che io non 
      ho  meritato.  Vorrei potermela prendere con gli uomini per la mia 
      infelicità." 
      "Allora vi ritenete innocente del fatto che vi viene imputato?" 
      "Innocente del tutto!  Lo giuro sulla testa dei due esseri che  mi 
      sono cari, sulla testa di mio padre e di Mercedes." 
      "Vediamo"  disse Faria chiudendo il suo nascondiglio e respingendo 
      il letto al suo posto, "raccontatemi la vostra storia." 
      Dantès allora raccontò ciò che egli chiamava sua storia,  e che si 
      limitava  ad  un  viaggio  nell'India,  e  a  due  o tre viaggi in 
      Levante.  Finalmente arrivò all'ultima traversata alla  morte  del 
      capitano  Leclerc  al  plico  destinato  al  gran Maresciallo,  al 
      colloquio avuto con lui,  alla  lettera  ricevuta  per  il  signor 
      Noirtier e infine narrò l'arrivo a Marsiglia,  la visita al padre, 
      i suoi amori con Mercedes, il pranzo del fidanzamento,  l'arresto, 
      l'interrogatorio,   la   prigionia   provvisoria  nel  Palazzo  di 
      Giustizia, e la prigionia definitiva al Castello d'If. 
      Giunto a questo punto,  Dantès non sapeva più niente,  neppure  il 
      tempo da che era prigioniero. 
      Terminato il racconto Faria rifletté profondamente. 
      "C'è"  disse  dopo  un  istante,  "un assioma in diritto di grande 
      profondità,  e che coincide con ciò che vi dicevo,  che il cattivo 
      pensiero non nasce da una buona indole.  Alla natura umana ripugna 
      il delitto. Tuttavia la civiltà ci ha dato dei vizi,  dei bisogni, 
      degli  appetiti  fittizi,  che  qualche  volta hanno l'influsso di 
      soffocare i nostri buoni istinti e di condurci al male.  Quindi ne 
      nasce  questa  massima:  "Se  voi  volete  scoprire  il colpevole, 
      cercate prima colui al quale  può  essere  utile  il  delitto.  La 
      vostra sparizione a chi poteva essere utile?" 
      "A nessuno, mio Dio! Ero così poca cosa." 
      "Non  rispondete  così,  perché  la  risposta manca ad un tempo di 
      logica e di filosofia.  Tutto è relativo,  mio caro amico.  Dal re 
      che  ostacola  il  suo  successore,  fino all'ultimo impiegato che 
      intralcia l'apprendista, ciascuno infastidisce colui che vien dopo 
      o gli cammina a lato.  Se il re muore,  il suo successore  eredita 
      una  corona,  se  l'impiegato  muore  l'apprendista eredita il suo 
      impiego e lo stipendio di duecento lire.  Queste duecento lire  di 
      stipendio  sono  per  lui  la sua identità civile e gli sono tanto 
      necessarie  per  vivere,  quanto  i  milioni  di  un  re.  Ciascun 
      individuo,  dal  più  basso al più alto grado della scala sociale, 
      riunisce intorno a sé un piccolo mondo d'interessi,  avendo i suoi 
      turbini ed i suoi atomi come i mondi di Descartes. Soltanto questi 
      mondi vanno sempre più allargandosi a misura che si monta.  E' una 
      scala a chiocciola rovesciata,  che si tiene ritta alla punta  per 
      forza d'equilibrio. Ritorniamo dunque al vostro mondo. Voi eravate 
      sul punto di essere nominato capitano a bordo del Faraone?" 
      "Sì." 
      "Eravate sul punto di sposare una bella ragazza?" 
      "Sì." 
      "Esisteva  qualcuno  che  avesse  interesse  perché non diventaste 
      capitano del Faraone?  Qualcuno che avesse  interesse  perché  non 
      sposaste Mercedes? Rispondete intanto alla prima domanda, l'ordine 
      è  la chiave di tutti i problemi.  Ripeto dunque,  c'era nessuno a 
      cui potesse interessare che voi non foste  nominato  capitano  del 
      Faraone?" 
      "No,  ero  molto  amato  a  bordo.  Se  i  marinai avessero potuto 
      eleggere un capo, son certo che sarei stato l'eletto. Un solo uomo 
      poteva in qualche modo esser inquieto, perché tre mesi prima avevo 
      avuto con  lui  contesa,  e  gli  avevo  proposto  un  duello  che 
      rifiutò." 
      "Avanti dunque!... Come si chiama quell'uomo?" 
      "Danglars." 
      "Che cosa era a bordo?" 
      "Scrivano computista." 
      "Se  voi  foste  divenuto  capitano  l'avreste  conservato  al suo 
      posto?" 
      "No,  se la cosa fosse dipesa da me,  perché mi  era  sembrato  di 
      scorgere qualche infedeltà nei suoi conti." 
      "Bene.  Ora,  chi  ha  assistito  al  vostro  ultimo colloquio col 
      capitano Leclerc?" 
      "Nessuno, eravamo soli." 
      "Ma qualcuno poteva sentire la vostra conversazione?" 
      "Sì, perché la porta era socchiusa, e anzi... aspettate... Sì, sì, 
      Danglars è passato precisamente nel momento  in  cui  il  capitano 
      Leclerc mi rimetteva il plico per il gran Maresciallo." 
      "Bene,  noi  siamo  sulla strada.  Avete condotto con voi nessuno, 
      quando siete disceso a terra all'isola d'Elba?" 
      "Nessuno." 
      "Vi fu rimessa una lettera?" 
      "Sì, dal gran Maresciallo." 
      "Che avete fatto voi di questa lettera?" 
      "L'ho riposta nel mio portafogli." 
      "Avevate dunque indosso un portafogli.  Come mai un portafogli che 
      doveva  contenere una lettera ufficiale,  poteva stare nella tasca 
      di un marinaio?" 
      Avete ragione, il mio portafogli era a bordo." 
      "Fu dunque a bordo che voi chiudeste la lettera nel portafogli?" 
      "Sì." 
      "Da Portoferraio al battello, dove riponeste la lettera?" 
      "L'ho tenuta in mano." 
      "Dunque quando voi siete rimontato a bordo del Faraone tutti hanno 
      potuto vedere che  avevate  una  lettera,  Danglars  e  tutti  gli 
      altri...  Ora ascoltate bene,  riunite tutta la vostra memoria: vi 
      ricordate in quali termini era formulata la denunzia?" 
      "Oh! sì,  l'ho riletta tre volte e mi è rimasta nella mente parola 
      per parola." "Ripetetemela dunque." 
      Dantès si raccolse un istante. "Eccola" disse, "parola per parola: 
 
      "Il  Signor  Procuratore del Re è avvisato da un amico del trono e 
      della religione,  che il  nominato  Edmondo  Dantès,  secondo  sul 
      bastimento  il Faraone,  giunto questa mattina da Smirne dopo aver 
      toccato Napoli e Portoferraio,  è stato incaricato da Marat di una 
      lettera per Napoleone,  e da questo di una lettera per il comitato 
      bonapartista  di  Parigi.   Si  avrà   prova   del   suo   delitto 
      arrestandolo, poiché si troverà questa lettera o nelle sue tasche, 
      o presso suo padre, o nella sua cabina a bordo del Faraone." 
 
      Faria alzò le spalle. 
      "Ciò è chiaro come la luce del giorno" disse,  "e bisogna ben dire 
      che voi abbiate avuto il cuore molto buono e  molto  ingenuo,  per 
      non indovinare la cosa al primo momento." 
      "Voi credete?" esclamò Dantès. "Ah, questa sarebbe un'infamia." 
      "Com'era il carattere ordinario di Danglars?" 
      "Un bel corsivo." 
      "Qual era il carattere della lettera anonima?" 
      "Un carattere rovesciato." 
      Faria sorrise. 
      "Contraffatto, non è vero?" 
      "Ma molto franco per essere contraffatto." 
      "Aspettate!"  disse  Faria.  E  presa  la  penna,  o  ciò che così 
      chiamava,  la bagnò nell'inchiostro e scrisse con la mano sinistra 
      sopra  un pezzo di tela preparato,  le prime due o tre righe della 
      denunzia. 
      Dantès fece un balzo e guardò Faria quasi con timore. 
      "Oh!  è  meraviglioso,  è  sorprendente"  esclamò,   "come  questa 
      scrittura assomiglia a quella." 
      "Perché  la  denunzia  fu  scritta con la mano sinistra;  ed io ho 
      osservato una cosa, che tutti i caratteri fatti con la mano destra 
      sono diversi,  ma quelli che sono fatti con la  mano  sinistra  si 
      assomigliano." 
      "Voi avete dunque veduto tutto, osservato tutto?" 
      "Continuiamo... passiamo alla seconda domanda. C'era nessuno a cui 
      potesse interessare che voi non sposaste Mercedes?" 
      "Sì, un giovane che l'amava..." 
      "Il suo nome?" 
      "Fernando." 
      "Questo è un nome spagnolo." 
      "Era catalano." 
      "Credete che sia stato capace di scrivere la lettera?" 
      "No, era piuttosto capace di piantarmi un coltello nel cuore." 
      "Bene,  questo  è nella natura spagnola;  un assassinio,  sì,  una 
      viltà, no." 
      "D'altronde"  continuò  Dantès,   "ignorava  tutti  i  particolari 
      riportati nella denunzia." 
      "Non li avevate raccontati a nessuno?" 
      "A nessuno." 
      "Neppure alla vostra amica?" 
      "Neppure alla mia fidanzata." 
      "Fu Danglars!" 
      "Oh, adesso ne sono sicuro." 
      "Ma aspettate... Danglars conosceva Fernando?" 
      "No... si, cioè... ora mi ricordo..." 
      "Che cosa?" 
      "La vigilia del mio fidanzamento li ho visti assieme ad una tavola 
      sotto  il  pergolato  di  papà Panfilo.  Danglars era amichevole e 
      scherzoso, Fernando era pallido e sconvolto." 
      "Erano soli?" 
      "No,  c'era con loro un terzo uomo,  che senza  dubbio  era  stato 
      quello che li aveva fatti conoscere,  un sarto di nome Caderousse; 
      ma questi era già ubriaco. Aspettate... aspettate..." 
      "Cosa c'è?" 
      "Come mai non me  ne  sono  ricordato  prima?  Sulla  tavola  dove 
      bevevano c'era un calamaio, della carta, e delle penne!" 
      Dantès, battendosi con la mano la fronte, esclamò: 
      "Oh,  è  così,  fu  là che scrisse quella lettera.  Oh infami!  oh 
      infami!" 
      "Volete sapere qualche altra cosa?" disse sorridendo Faria. 
      "Sì,  sì,  poiché voi approfondite tutto,  poiché vedete chiaro in 
      ogni cosa. Vorrei sapere perché non sono stato interrogato che una 
      sola  volta,  perché  non  ho  avuto i giudici e in qual modo sono 
      stato condannato senza una sentenza." 
      "Oh,  questo" disse Faria,  "è un affare un  poco  più  grave.  La 
      giustizia  qualche  volta  ha  delle procedure che sembrano cupe e 
      misteriose.  Ciò che noi abbiamo intuito fin qui per i vostri  due 
      nemici è un gioco da ragazzi,  ora occorrono maggiori schiarimenti 
      per questo argomento." 
      "Vediamo,  interrogatemi,  perché voi vedete nella  mia  vita  più 
      chiaro di me." 
      "Chi vi ha interrogato?  Fu il Procuratore del Re, il sostituto, o 
      il giudice istruttore?" 
      "Il sostituto." 
      "Giovane o vecchio?" 
      "Giovane, tra i 27 e i 28 anni." 
      "Bene, non ancora corrotto, ma ambizioso.  Quali furono i modi che 
      usò con voi?" 
      "Amichevoli piuttosto che severi." 
      "Gli avete raccontato tutto?" 
      "Tutto." 
      "E i suoi modi cambiarono mai durante l'interrogatorio?" 
      "Un  istante  si  sono  alterati,  quando  lesse la lettera che mi 
      comprometteva. Sembrò oppresso dalla mia disgrazia." 
      "Dalla vostra disgrazia?" 
      "Sì." 
      "Siete ben sicuro che si affliggeva per la vostra disgrazia?" 
      "Per lo meno mi ha dato la più gran prova di simpatia." 
      "E quale?" 
      "Ha  bruciato  quel   solo   documento   che   poteva   certamente 
      compromettermi." 
      "Quale documento? La denunzia?" 
      "No, la lettera." 
      "Ne siete ben sicuro?" 
      "Lo fece sotto i miei occhi." 
      "Ora è un altro affare,  quest'uomo potrebbe essere uno scellerato 
      maggiore di quello che avevo creduto." 
      "Sul mio onore,  voi mi fate  fremere"  disse  Dantès.  "Il  mondo 
      dunque è popolato di tigri e di coccodrilli?" 
      "Sì  con  questa  differenza,  che  le tigri e i coccodrilli a due 
      gambe sono più pericolosi degli altri.  Dunque,  mi  dicevate,  ha 
      bruciato quella lettera?" 
      "Sì, dicendomi: "Voi vedete, non esiste che questa prova contro di 
      voi, ed io l'anniento." 
      "Questa condotta è troppo sublime per essere naturale." 
      "Credete?" 
      "Ne sono sicuro. A chi era diretta quella lettera?" 
      "Al signor Noirtier, via Héron, numero 13, Parigi." 
      "Potete presumere che il vostro sostituto avesse qualche interesse 
      a far sparire quel foglio?" 
      "Forse,  perché mi ha fatto promettere due o tre volte, diceva nel 
      mio interesse, di non parlare ad alcuno di quella lettera: anzi mi 
      ha fatto giurare di non pronunciare mai a chicchessia il nome  che 
      stava scritto sull'indirizzo." 
      "Noirtier!" disse Faria. "Noirtier! Ho conosciuto un Noirtier alla 
      corte  della  vecchia  duchessa di Toscana,  un Noirtier che nella 
      rivoluzione era stato girondino. Come si chiamava il sostituto?" 
      "Villefort." 
      Faria scoppiò in una risata. 
      Dantès lo guardò con stupore. 
      "Che avete?" domandò. 
      "Vedete questo raggio di sole?" chiese Faria. 
      "Sì." 
      "Bene,  tutto adesso è più chiaro di questo raggio  trasparente  e 
      luminoso.  Povero giovane!  E questo magistrato era buono con voi? 
      Ha bruciato,  annientato la lettera?  Vi ha fatto giurare  di  non 
      pronunciare mai il nome di Noirtier?" 
      "Sì." 
      "Noirtier,   povero  cieco  che  siete,   sapete  chi  era  questo 
      Noirtier?... Era suo padre!" 
      Un fulmine caduto ai piedi di Dantès, che gli avesse spalancato un 
      abisso in fondo a cui  si  fosse  aperto  l'inferno,  non  avrebbe 
      prodotto un effetto così pronto,  così elettrico,  così opprimente 
      quanto queste inattese parole. Si alzò,  afferrandosi la testa fra 
      le mani quasi avesse voluto impedire che scoppiasse. 
      "Suo padre!... Suo padre!..." esclamò. 
      "Sì,  suo  padre...  che  si  chiama Noirtier Villefort" soggiunse 
      Faria. 
      Allora una luce folgorante passò per  la  mente  del  prigioniero: 
      tutto  ciò  che  gli  era  rimasto  oscuro venne illuminato da una 
      chiarezza risplendente.  Le tergiversazioni di  Villefort  durante 
      l'interrogatorio,  la lettera distrutta,  il giuramento richiesto, 
      la  voce  quasi  supplicante  del  magistrato,  che  in  luogo  di 
      minacciare  sembrava  implorare,   tutto,  tutto  gli  ritornò  al 
      pensiero. 
      Gettò  un  grido,  traballò  come  un  ubriaco,  poi  slanciandosi 
      all'apertura che metteva dalla cella di Faria alla sua: 
      "Oh" disse, "devo star solo, per poter pensare a tutto ciò." 
      E arrivando nella sua cella cadde sul letto, dove il carceriere lo 
      ritrovò  la  sera  seduto  con  gli  occhi  fissi,   i  lineamenti 
      contratti, immobile e muto come una statua. 
      Nelle ore di meditazione,  che per lui erano passate  come  minuti 
      secondi,   aveva  preso  una  terribile  risoluzione  e  fatto  un 
      formidabile giuramento.  Per mantenere questo giuramento e mandare 
      ad  effetto  questa  risoluzione  bisognava supporre che un giorno 
      sarebbe stato libero! 
      Una voce venne a togliere Dantès da questa estasi,  era quella  di 
      Faria che dopo la visita del carceriere, veniva ad invitare Dantès 
      a   cena  con  lui.   La  sua  riconosciuta  qualità  di  pazzo  e 
      particolarmente  di  pazzo  divertente,   procurava   al   vecchio 
      prigioniero  qualche  privilegio,  come  avere il pane un poco più 
      bianco,  ed una piccola bottiglia di vino alla domenica.  Ora  era 
      precisamente  una  domenica,  e  Faria  veniva  ad invitare il suo 
      giovane compagno a far parte del vino e del pane. 
      Dantès lo seguì: tutte le linee del suo viso si erano  ricomposte, 
      ma con una durezza e fermezza che manifestavano una risoluzione. 
      Faria lo guardò fissamente. 
      "Sono  mortificato  di  avervi  aiutato nelle vostre ricerche e di 
      avervi detto ciò che vi ho detto." 
      "Perché?" domandò Dantès. 
      "Perché vi ho inoculato nel cuore  un  sentimento  che  prima  non 
      c'era: la vendetta." 
      Dantès sorrise. 
      "Parliamo d'altro" disse. 
      Faria  lo  guardò ancora un istante e scosse rammaricato la testa; 
      quindi, come aveva pregato Dantès, parlò di altre cose. 
      Il  vecchio  prigioniero  era  uno  di  quegli   uomini   la   cui 
      conversazione,  come  quella  di  coloro che hanno molto sofferto, 
      contiene molti insegnamenti, e racchiude un interesse continuo; ma 
      non era  egoista,  questo  infelice  non  parlava  mai  delle  sue 
      disgrazie. 
      Dantès ascoltava ciascuna delle sue parole con ammirazione: alcune 
      corrispondevano  alle  idee che già aveva,  ed alle conoscenze del 
      suo  stato  di  marinaio;   altre  appartenevano  a  cose  a   lui 
      sconosciute, e come le aurore boreali che rischiarano i navigatori 
      australi,  parlavano  al  giovane  di paesi sconosciuti e di nuovi 
      orizzonti  illuminati  da  luci  fantastiche.  Dantès  concepì  la 
      felicità  di  cui  doveva  godere  un  uomo intelligente a seguire 
      questo spirito elevato sulle vette morali,  filosofiche e sociali, 
      cui d'abitudine perveniva. 
      "Voi  dovreste  insegnarmi un poco di quanto sapete" disse Dantès, 
      "non fosse altro che per non  annoiarvi  con  me.  Mi  sembra  che 
      dobbiate preferire la solitudine ad un compagno senza educazione e 
      senza  cultura come sono io.  Se acconsentite,  vi prometto di non 
      parlarvi più di fuga." 
      Faria sorrise. 
      "Ahimè, figlio mio" disse,  "la scienza umana è molto limitata,  e 
      quando vi avessi insegnato le matematiche,  la fisica, la storia e 
      le tre o quattro lingue vive che io parlo, voi sapreste quello che 
      so io.  Tutta questa scienza potrei farla passare dal mio  spirito 
      nel vostro in due anni." 
      "Due  anni!"  disse  Dantès.  "Credete che io possa imparare tutte 
      queste cose in due anni?" 
      "Nella loro applicazione no; nei loro principi sì.  L'imparare non 
      è  lo stesso che sapere: vi sono gli eruditi e gli scienziati,  la 
      memoria forma i primi, la filosofia i secondi." 
      "Ma la filosofia non si può imparare?" 
      "La filosofia non s'impara,  la  filosofia  è  la  riunione  delle 
      scienze imparate nel genio che le applica." 
      "Vediamo"  disse  Dantès.  "Che  cosa m'insegnerete per primo?  Ho 
      smania di cominciare, ho sete di scienza." 
      "Tutto!" disse Faria. 
      Fin da quella sera i due  prigionieri  stabilirono  un  piano  che 
      cominciò ad essere messo in esecuzione il giorno dopo. 
      Dantès  aveva  una  memoria  prodigiosa,  una  estrema facilità di 
      concetto;  la disposizione matematica del suo spirito  lo  rendeva 
      atto  a  comprender tutto per mezzo del calcolo,  mentre la poesia 
      del marinaio correggeva tutto  quanto  poteva  esservi  di  troppo 
      materiale  nella  dimostrazione  ridotta all'aridità delle cifre e 
      alla precisione delle linee. 
      D'altronde sapeva già l'italiano  e  un  poco  l'arabo  che  aveva 
      imparato  viaggiando in Oriente.  Con queste due lingue imparò ben 
      presto il meccanismo di tutte le altre,  e  in  capo  a  sei  mesi 
      cominciò a parlare l'inglese ed il tedesco. 
      Come  aveva  detto  a  Faria,  sia che la distrazione procuratagli 
      dallo studio gli paresse già libertà, sia che fosse,  come abbiamo 
      già veduto rigido osservatore della sua parola, Dantès non parlava 
      più  di  fuggire,  e  le  giornate  per  lui  passavano  rapide ed 
      istruttive. 
      In capo a un anno era già un altro uomo. 
      Quanto a Faria,  Edmondo osservava che,  malgrado  la  distrazione 
      arrecatagli  dalla sua presenza,  diventava ogni giorno più tetro; 
      un pensiero incessante ed eterno sembrava occupare il suo spirito; 
      era  preso  da  profonde  distrazioni,   si  alzava  d'un  tratto, 
      incrociava le braccia e passeggiava nella cella meditando. 
      Un  giorno  si fermò d'un tratto nel mezzo di uno dei cerchi cento 
      volte ripetuti e descritti, ed esclamò: 
      "Ah, se non ci fosse la sentinella." 
      "Non ci sarà sentinella quando non la vorrete"  disse  Dantès  che 
      aveva  seguito  il  suo  pensiero come attraverso una bottiglia di 
      cristallo. 
      "Ah, io ve l'ho detto: ho ripugnanza all'idea d'un omicidio." 
      "Questo omicidio,  se venisse commesso,  sarebbe  per  istinto  di 
      conservazione, per difesa personale." 
      "Non importa... io non saprei..." 
      "Ciò nonostante voi ci pensate?" 
      "Senza posa, senza posa" mormorò Faria. 
      "E avete trovato un mezzo, non è vero?" domandò Dantès. 
      "Sì, se mettessero di guardia una sentinella sorda e cieca." 
      "Sarà cieca,  sarà sorda" gridò il giovane con un accento risoluto 
      che spaventò Faria. 
      "No, no" esclamò, "è impossibile." 
      Dantès volle trattenerlo sopra questo argomento,  ma Faria  scosse 
      la testa, e ricusò di continuare a rispondere. 
      Dopo ciò passarono altri tre mesi. 
      "Siete forte?" domandò un giorno Faria a Dantès. 
      Dantès  senza  rispondere prese lo scalpello,  lo piegò a ferro di 
      cavallo, e lo raddrizzò. 
      "Vi impegnereste a non uccidere  la  sentinella  che  in  caso  di 
      estrema necessità?" 
      "Sì, sul mio onore." 
      "Allora" disse Faria, "noi potremo eseguire il nostro progetto." 
      "E quanto tempo ci vorrà per eseguirlo?" 
      "Almeno un anno." 
      "Dobbiamo dunque metterci al lavoro?" 
      "Subito." 
      "Oh, vedete dunque, abbiamo perduto un anno." 
      "Credete che quest'anno sia stato perduto?" 
      "Oh, perdono, perdono!" esclamò Edmondo arrossendo. 
      "Zitto!"  disse  Faria.  "L'uomo  non  è che un uomo,  e voi siete 
      ancora uno dei migliori che abbia conosciuto.  Prendete,  questo è 
      il mio piano." 
      Faria  mostrò  allora a Dantès un disegno che aveva tracciato: era 
      la pianta della sua cella,  di quella di Dantès,  e del  corridoio 
      che  le  univa  l'una  all'altra.  Nel  mezzo  di questo corridoio 
      stabiliva un condotto uguale  a  quello  che  si  pratica  per  le 
      miniere.  Questo  condotto avrebbe portato i due prigionieri sotto 
      la galleria ove passeggiava la sentinella.  Una volta  giunti  là, 
      avrebbero  scavato  di  nuovo,  avrebbero  tolto  una delle pietre 
      quadrate  che  formano  il  soffitto  della  galleria;  la  pietra 
      l'avrebbero  fatta sprofondare sotto il soldato che sarebbe caduto 
      nel buco.  Dantès si sarebbe precipitato sopra di lui nel  momento 
      in  cui,  ancora  stordito  per  la  caduta,  non  avrebbe  potuto 
      difendersi,  lo avrebbe legato,  gli avrebbe turato la  bocca,  ed 
      allora  tutti  e  due passando da una finestra di questa galleria, 
      sarebbero discesi lungo la muraglia esterna coll'aiuto della scala 
      di corde, e si sarebbero salvati. 
      Dantès batté le mani, e i suoi occhi sfavillarono di gioia; questo 
      piano era così semplice, che era impossibile non riuscisse. 
      Nel medesimo giorno i due minatori si misero all'opera  e  con  un 
      ardore  tanto più grande,  in quanto questo lavoro cominciava dopo 
      un lungo riposo, e non faceva,  secondo tutte le probabilità,  che 
      secondare il pensiero intimo e segreto d'entrambi. 
      Niente  l'interrompeva,  se  non  l'ora  nella  quale ciascuno era 
      obbligato a rientrare nella propria stanza, per ricevere la visita 
      del  carceriere.   D'altronde,   avevano  preso   l'abitudine   di 
      distinguere così facilmente il rumore impercettibile dei passi, al 
      momento in cui quest'uomo discendeva,  che mai né l'uno né l'altro 
      fu preso alla sprovvista.  La terra estratta dalla nuova galleria, 
      sufficiente per riempire l'antico corridoio, veniva gettata a poco 
      a  poco,  e  con  inaudite precauzioni dall'una o dall'altra delle 
      finestre della cella di Dantès o di Faria,  polverizzata con  ogni 
      cura,  e  il  vento  della  notte  la  disperdeva  senza lasciarne 
      traccia. 
      Più d'un anno passò in questo lavoro che venne  eseguito  con  uno 
      scalpello, un coltello ed una leva di legno. 
      Durante  quest'anno e mentre lavoravano Faria continuò ad istruire 
      Dantès,   parlandogli  ora  in  una  lingua,   ora  in   un'altra; 
      insegnandogli la storia delle nazioni,  e di quei grand'uomini che 
      di tempo in tempo lasciano dietro a  sé  una  di  quelle  luminose 
      tracce, che si chiama gloria. 
      Faria uomo di mondo,  e di gran mondo, aveva nelle sue maniere una 
      specie  di  maestà  malinconica,   da  cui  Dantès   per   spirito 
      d'imitazione  seppe  trarre  profitto,  e ricavarne quell'elegante 
      tratto di cui mancava e quei modi aristocratici  che  generalmente 
      non  si  acquistano  che  conversando  con classi elevate o uomini 
      superiori. 
      Dopo quindici mesi, il foro era finito, lo scavo sotto la galleria 
      fatto.  Si sentiva passare e ripassare  la  sentinella,  e  i  due 
      operai,  obbligati  ad aspettare una notte oscura e senza luna per 
      rendere più sicura la loro evasione,  non avevano che  un  timore, 
      che  la  botola  sprofondasse  sotto  i  piedi del soldato.  Venne 
      ovviato a questo inconveniente mettendo a puntello una  specie  di 
      travicello che avevano trovato negli scavi. 
      Dantès  era  occupato a sistemarlo quando sentì Faria,  rimasto in 
      cella a preparare cavicchi per fissare la scala di corda,  che  lo 
      chiamava con accento di disperazione. 
      Dantès  rientrò  sollecitamente,  e vide Faria ritto in mezzo alla 
      stanza, pallido, col sudore alla fronte, e le mani intirizzite. 
      "Oh, mio Dio!" gridò Dantès, "che c'è? che cosa avete?" 
      "Presto, presto" disse Faria, "ascoltatemi." 
      Dantès guardò il viso livido di Faria, i suoi occhi con un cerchio 
      azzurrognolo, le labbra bianche, i capelli irti,  e dallo spavento 
      lasciò cadere a terra lo scalpello che teneva in mano. 
      "Che c'è dunque?" gridò Edmondo. 
      "Sono perduto" disse Faria,  "ascoltatemi.  Un male terribile,  un 
      male forse mortale  mi  prende  in  questo  momento.  L'attacco  è 
      cominciato,  lo  sento.  Ne fui già colpito l'anno prima della mia 
      carcerazione. A questo male non c'è che un rimedio. Correte presto 
      nella mia cella, togliete un piede al letto,  questo piede è cavo: 
      vi  troverete  dentro  una piccola boccetta di cristallo piena per 
      metà d'un liquido rosso;  portatemela,  o piuttosto...  no,  no... 
      potrei  essere  sorpreso  qui...  aiutatemi  a rientrare nella mia 
      cella fino a che mi  resta  qualche  forza.  Chissà  ciò  che  può 
      accadere, e quanto tempo durerà l'attacco." 
      Dantès  senza  molto  agitarsi,  quantunque  la  disgrazia  che lo 
      colpiva  fosse  immensa,   discese  nel  corridoio,   e   trascinò 
      l'infelice  compagno  conducendolo  con  pena  infinita  sino alla 
      cella, dove lo coricò sul letto 
      "Grazie" disse Faria, tremando come uscisse dall'acqua ghiacciata, 
      "ecco il male che cresce,  sto per cadere in una crisi epilettica. 
      Forse non farò un movimento, forse non manderò un gemito, ma forse 
      mi contorcerò,  griderò,  sputerò bava. Fate in modo che non siano 
      intese le mie grida, questo soprattutto importa, perché potrebbero 
      cambiarmi la cella e noi saremmo divisi per sempre.  Quando voi mi 
      vedrete  immobile  freddo  e morto,  allora soltanto schiudetemi i 
      denti col coltello, fate colare nella mia bocca otto o dieci gocce 
      di quel liquore, e forse mi rimetterò." 
      "Forse?" esclamò dolorosamente Dantès. 
      "A me, a me!" gridò Faria, "io mi... mi... mi..." 
      L'attacco  fu  così  rapido  e  violento,   che   il   disgraziato 
      prigioniero  non  poté  finire la parola: una nube passò sulla sua 
      fronte contratta e tetra come  le  tempeste  del  mare.  La  crisi 
      dilatò  gli  occhi,  contorse  la bocca,  imporporò le guance.  Si 
      agitò,  ruggì;  ma come aveva  raccomandato  egli  stesso,  Dantès 
      soffocò queste grida sotto la coperta. Tutto ciò durò due ore. Poi 
      più  inerte  d'un masso,  più pallido e più freddo del marmo,  più 
      avvizzito di una rosa calpestata, cadde,  si contorse in un'ultima 
      convulsione e divenne livido. 
      Edmondo  aspettò che questa morte apparente avesse investito tutto 
      il corpo,  e  lo  ghiacciasse  fino  al  cuore,  allora  prese  il 
      coltello,  introdusse  la lama fra i denti,  disserrò con una pena 
      infinita le rigide mascelle, e,  contate una dopo l'altra le dieci 
      gocce del rosso liquore, aspettò. 
      Passò   un'ora  senza  che  il  vecchio  facesse  il  più  piccolo 
      movimento.  Dantès temeva di avere aspettato troppo e lo  guardava 
      con  le  mani nei capelli.  Finalmente un leggero colorito apparve 
      sulle sue guance;  i suoi occhi,  costantemente rimasti  aperti  e 
      attoniti,  ripresero il consueto sguardo, un debole sospiro sfuggì 
      dalla sua bocca; fece un piccolo movimento. 
      "E' salvo! E' salvo!" gridò Dantès. 
      Il malato non poteva ancora parlare,  ma stese con ansia  visibile 
      la mano verso la porta. 
      Dantès  ascoltò  e  intese i passi del carceriere.  Erano quasi le 
      sette: Dantès non aveva avuto modo di misurare il tempo. 
      Il giovane si lanciò verso l'apertura, vi si precipitò,  rimise la 
      pietra al di sopra della testa e rientrò nella sua stanza. 
      Un  istante  dopo la sua porta si aprì,  ed il carceriere ritrovò, 
      secondo il solito, il prigioniero sul letto. 
      Appena ebbe voltate le spalle,  appena il rumore dei suoi passi si 
      perse  nel corridoio,  Dantès,  divorato dall'inquietudine,  senza 
      pensare a mangiare,  riprese il cammino sotterraneo e,  sollevando 
      la pietra, rientrò nella stanza di Faria. 
      Questi  aveva  ripreso  conoscenza,  ma  era  sempre steso sul suo 
      letto, inerte e senza forze. 
      "Non contavo più di rivedervi" disse a Dantès. 
      "E perché?" domandò Edmondo. "Contavate dunque di morire?" 
      "No,  ma tutto è in ordine per la fuga,  ed ero certo che  sareste 
      fuggito." 
      L'indignazione colorò le guance di Dantès. 
      "Senza di voi!" gridò. "Mi avete veramente creduto capace di ciò?" 
      "Adesso  m'accorgo  che  mi sono ingannato" disse il malato.  "Ah, 
      sono molto debole, molto abbattuto." 
      "Coraggio,  le vostre forze ritorneranno" disse Dantès,  sedendosi 
      vicino al letto di Faria e prendendogli le mani. 
      Faria tentennò la testa. 
      "L'ultima volta" disse, "l'attacco non durò che una mezz'ora, dopo 
      la  quale  ebbi  fame  e mi rialzai.  Oggi non posso muovere né la 
      gamba, né il braccio destro; la mia testa è oppressa,  e ciò prova 
      che  c'è  stato  un  versamento  nel  cervello;  al  terzo resterò 
      completamente paralizzato o morirò sul colpo." 
      "No,  no,  tranquillizzatevi,  voi non morirete.  Se questo  terzo 
      attacco deve colpirvi vi troverà libero; io vi salverò come questa 
      volta, e meglio ancora, perché avremo tutti i necessari soccorsi." 
      "Amico mio" disse il vecchio,  "non vi lusingate. La crisi passata 
      mi ha condannato ad un carcere perpetuo. Per fuggire bisogna poter 
      camminare." 
      "Ebbene,  noi aspetteremo  otto  giorni,  un  mese,  due  mesi  se 
      occorre;  le  vostre  forze  ritorneranno.  Tutto  è pronto per la 
      nostra fuga,  e abbiamo la libertà di scegliere a  nostro  piacere 
      l'ora e il momento. Il giorno in cui vi sentirete abbastanza forza 
      per  nuotare,  quel  giorno  metteremo  in  esecuzione  il  nostro 
      progetto." 
      "Non nuoterò più" disse Faria,  "questo braccio è paralizzato  non 
      per  un  giorno,  ma per sempre;  sollevatelo voi stesso e sentite 
      quanto è pesante." 
      Il giovane sollevò il braccio, che ricadde morto ed insensibile. 
      Dantès mandò un profondo sospiro. 
      "Ora  sarete  convinto,   non  è  vero  Edmondo?"   disse   Faria. 
      "Credetemi,  so  quello che dico.  Dopo il primo accesso di questo 
      male,  non ho mai cessato di studiarvi  e  riflettervi  sopra:  lo 
      aspettavo  perché è una eredità di famiglia.  Mio padre è morto al 
      terzo attacco,  mio nonno ugualmente;  il medico  che  mi  compose 
      questo  liquore,  che  non  fu  altri  che il celebre Cabanis,  mi 
      predisse la stessa sorte." 
      "Il medico si  sbaglia"  gridò  Dantès.  "In  quanto  alla  vostra 
      paralisi,  essa  non  mi  sgomenta: vi prenderò sulle mie spalle e 
      nuoterò sostenendovi." 
      "Amico mio" disse Faria,  "voi siete  marinaio,  siete  nuotatore; 
      dovete  per  conseguenza  sapere che un uomo caricato di un simile 
      fardello non potrebbe fare  cinquanta  braccia  in  mare.  Cessate 
      d'illudervi, non lasciatevi ingannare dall'ottimo vostro cuore. Io 
      resterò qui fino a che suoni l'ora della mia liberazione,  che non 
      può più essere che quella della morte.  In quanto a voi,  partite, 
      fuggite. Siete giovane e forte, non vi occupate di me, io vi rendo 
      la vostra parola." 
      "Sta bene" disse Dantès, "allora..." 
      "Ebbene, allora?" 
      "Io pure resterò." 
      Poi levandosi e stendendo una mano sul vecchio: 
      "Per  quanto  vi  è di più sacro,  giuro di non lasciarvi che alla 
      vostra morte." 
      Faria considerò questo giovane così nobile, semplice e elevato,  e 
      lesse  sui  tratti animati dalla devozione più pura,  la sincerità 
      della sua affermazione, e la lealtà del suo giuramento. 
      "Andiamo..." disse il malato. "Io accetto, e vi ringrazio." 
      Poi stendendogli la mano: 
      "Forse sarete ricompensato di questo attaccamento  disinteressato" 
      gli  disse.  "Poiché  non  posso  e  voi  non  volete  partire,  è 
      necessario che interriamo il sotterraneo  sotto  la  galleria.  Il 
      soldato   che  cammina  può  scoprire  la  sonorità  dello  scavo, 
      richiamare l'attenzione di un ispettore, e allora saremmo scoperti 
      e  separati.   Andate  a  fare   questa   faccenda   nella   quale 
      disgraziatamente non posso aiutarvi; impiegatevi tutta la notte se 
      abbisogna,  e non ritornate da me che domattina dopo la visita del 
      carceriere. Avrò qualche cosa di somma importanza da comunicarvi." 
      Dantès prese la mano di Faria che lo rassicurò con  un  sorriso  e 
      uscì  con  quell'obbedienza e quel rispetto che sentiva per il suo 
      vecchio amico. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 18. 
                                  IL TESORO. 
 
 
      Allorché l'indomani mattina Dantès rientrò  nella  cella  del  suo 
      compagno  di  prigionia,  trovò Faria seduto,  col viso calmo.  Un 
      raggio penetrava attraverso la stretta finestra della cella. 
      Faria teneva aperto nella mano sinistra,  la sola di cui  gli  era 
      rimasto l'uso,  un pezzo di carta che,  per l'abitudine di restare 
      avvolto sempre nello stesso modo,  aveva  preso  la  forma  di  un 
      rotolo. 
      Mostrò a Dantès la carta senza dire una parola. 
      "Cos'è?" domandò questi. 
      "Guardate bene..." disse Faria sorridendo. 
      "Guardo  con  tutta  l'attenzione possibile" disse Dantès,  "e non 
      vedo altro che un pezzo di carta mezza bruciata e sulla quale sono 
      tracciati dei caratteri gotici con un inchiostro particolare." 
      "Questa carta, amico mio" disse Faria, "ora ve lo posso confessare 
      perché vi ho conosciuto meglio,  questa carta è il mio tesoro,  di 
      cui, da questo momento, la metà è vostra!" 
      Un freddo sudore passò sulla fronte di Dantès. 
      Fino a quel giorno,  e per uno spazio lungo di tempo, aveva sempre 
      evitato di parlare a Faria di questo tesoro,  origine  dell'accusa 
      di pazzia che gravava sul povero amico. 
      Con  la  sua  istintiva  delicatezza,  Edmondo aveva preferito non 
      toccare questa corda dolorosa, e Faria aveva taciuto. Dantès aveva 
      preso il silenzio del vecchio per un ritorno alla ragione. 
      "Il vostro tesoro?" balbettò Dantès. 
      Faria sorrise. 
      "Sì" disse, "in ogni occasione voi siete un nobile cuore, Edmondo, 
      e dal vostro pallore e dal vostro fremito comprendo ciò che  passa 
      per la vostra mente in questo istante.  No,  state tranquillo, non 
      sono pazzo.  Questo tesoro esiste,  Dantès,  e se non mi  è  stato 
      concesso  di  possederlo,  voi  lo possederete per me.  Nessuno ha 
      voluto ascoltarmi, né credermi, fui giudicato pazzo. Ma voi dovete 
      sapere che non lo sono: ascoltatemi, e dopo credetemi se volete." 
      "Ahimè" mormorò Edmondo fra sé,  "il  malato  ricade.  Mi  mancava 
      questa disgrazia..." 
      Quindi alzando la voce: 
      "Amico mio" disse a Faria,  "il vostro attacco vi ha stancato: non 
      volete prendere un poco  di  riposo.  Domani,  se  lo  desiderate, 
      sentirò  la vostra storia,  ma oggi dovete curarvi,  dovete avervi 
      dei riguardi; d'altronde" continuò sorridendo, "un tesoro non deve 
      ora gran che interessarci." 
      "Deve  interessarci  moltissimo,   Edmondo"  rispose  il  vecchio, 
      "chissà  che  domani  o  dopo  domani non giunga il terzo attacco; 
      allora tutto sarebbe  finito...  Sì,  è  vero,  qualche  volta  ho 
      pensato  con  amaro  piacere  a  queste ricchezze che farebbero la 
      fortuna di dieci famiglie,  fortune  perdute  per  coloro  che  mi 
      perseguitano. Quest'idea mi serviva di vendetta ed io l'assaporavo 
      lentamente  nell'oscurità  della  mia segreta e nella disperazione 
      della mia prigionia;  ma ora  che  vi  vedo  giovane  e  pieno  di 
      speranza,  ora che penso a tutto ciò che può venirne di felicità a 
      voi in conseguenza della mia rivelazione, io fremo per il ritardo, 
      e tremo di non potere assicurare un proprietario degno quanto  voi 
      siete a queste immense ricchezze nascoste." 
      Edmondo voltò altrove la testa sospirando. 
      "Voi persistete nella vostra incredulità, Edmondo" continuò Faria, 
      "la  mia  voce  non vi ha convinto.  Vedo che vi abbisognano delle 
      prove. Ebbene leggete questo foglio che io non ho fatto vedere mai 
      ad alcuno." 
      "Domani,  amico mio" disse Edmondo,  dispiacendogli assecondare la 
      follia  del vecchio.  "Credevo fosse già stabilito fra noi che non 
      ne avremmo parlato che domani..." 
      "Ebbene, ne parleremo domani, ma oggi leggete questo foglio." 
      "Non l'irritiamo di più..." pensò Edmondo. 
      E prendendo la carta di cui mancava metà consunta dal fuoco,  egli 
      lesse. 
      "Ebbene?" disse Faria, quando il giovane ebbe finito la lettura. 
      "Ma"  rispose  Dantès,  "non  leggo che righe tronche,  che parole 
      senza senso;  i caratteri sono interrotti dall'azione del fuoco  e 
      restano inintelligibili." 
      "Per voi, amico mio, che li leggete per la prima volta, ma non per 
      me  che vi ho impallidito sopra per molte notti,  e ho ricostruito 
      ogni frase, e completato ogni pensiero." 
      "E voi credete di aver ritrovato questo senso nascosto?" 
      "Ne sono sicuro; ne giudicherete voi stesso. Ma prima ascoltate la 
      storia di questa carta." 
      "Silenzio!" esclamò Dantès. "Dei passi! Qualcuno si avvicina... io 
      vado... addio!" 
      E Dantès,  lieto di poter evitare la storia e la  spiegazione  che 
      non   gli   avrebbero   che   maggiormente  confermato  l'infelice 
      condizione del suo amico,  fuggi per  lo  stretto  andito,  mentre 
      Faria  acquistando  una specie di energia dalla paura,  spinse col 
      piede la pietra che ricopri con la stuoia. 
      Era il Governatore,  che avvisato dal carceriere dell'incidente di 
      Faria, veniva ad assicurarsi della sua gravità. 
      Faria  lo  ricevette  seduto,  evitò  qualunque  gesto che potesse 
      comprometterlo,  e riuscì a nascondere al  Governatore  di  essere 
      stato  colpito da una paralisi,  che gli aveva bloccato metà della 
      persona. 
      Il suo timore era che il Governatore, mosso a pietà, volesse farlo 
      trasportare in una prigione più sana e lo separasse  in  tal  modo 
      dal   suo  giovane  compagno:  fortunatamente  non  fu  così.   Il 
      Governatore si ritirò convinto che il povero pazzo,  per il  quale 
      sentiva  nel  fondo del cuore un po' d'affezione,  non era affetto 
      che da una leggera indisposizione. 
      Intanto Edmondo,  seduto sul letto e con la  testa  fra  le  mani, 
      cercava  di  riordinare  le  idee.  Dacché conosceva Faria,  aveva 
      sempre scorto in lui tanta ragione e tanta logica,  che non poteva 
      comprendere come questa suprema saggezza su tutti i punti, potesse 
      poi collegarsi all'alienazione sopra un sol punto. Era Faria che s 
      ingannava sul suo tesoro, o erano gli uomini che s'ingannavano sul 
      conto di Faria? 
      Dantès restò nella sua cella tutto il giorno, non osando ritornare 
      a visitare l'amico.  Cercava di allontanare così il momento in cui 
      avrebbe acquistato la certezza che il suo compagno  era  pazzo;  e 
      questa convinzione lo intimoriva molto. 
      Ma  verso  sera,  dopo  l'ora  dell'ordinaria visita,  Faria,  non 
      vedendo più tornare il giovane, tentò di superare lo spazio che lo 
      divideva da lui. 
      Edmondo rabbrividì sentendo gli  sforzi  dolorosi  che  faceva  il 
      vecchio  per  trascinarsi:  la  sua  gamba era inerte e non poteva 
      aiutarsi che con un sol braccio. 
      Edmondo fu obbligato a tirarlo a sé,  poiché da solo  non  sarebbe 
      riuscito  ad  uscire  per  la stretta apertura che immetteva nella 
      stanza di Dantès. 
      "Eccomi implacabilmente a perseguitarvi" disse con un  sorriso  di 
      benevolenza.   "Avete   creduto   di   potere  sfuggire  alla  mia 
      munificenza,  ma ciò  non  vi  è  servito  a  niente.  Ascoltatemi 
      dunque..." 
      Edmondo  vedendo  che  non  poteva  più  evitarlo,  fece sedere il 
      vecchio sul letto e si pose vicino a lui sullo sgabello. 
      "Voi  sapete"  disse  Faria,   "che  io  ero  il  segretario,   il 
      famigliare,  l'amico  del  conte  Spada,  l'ultimo dei principi di 
      questo nome.  Devo a questo degno personaggio  tutto  ciò  che  ho 
      provato di felicità in questa vita.  Egli non era ricco, benché le 
      ricchezze della sua famiglia fossero proverbiali,  e abbia  spesso 
      inteso  dire:  "ricco  come  uno Spada".  Egli viveva sotto questa 
      reputazione di opulenza: il suo palazzo fu il mio Eden.  Educai  i 
      suoi  nipoti,  che morirono,  e allora dedicandomi con devozione a 
      tutte le sue volontà,  cercai di rendergli  tutto  ciò  che  aveva 
      fatto per me. Avevo sovente visto lo Spada scartabellare dei libri 
      antichi di famiglia tutti ricoperti di polvere.  Un giorno che gli 
      rimproveravo  queste  inutili  veglie,  e  l'abbattimento  che  le 
      seguiva,  mi guardò sorridendo amaramente, e mi aprì un libro: era 
      la storia d'Italia. Al ventesimo capitolo stava scritto: 
 
      "Cesare Borgia  prese  d'assalto  Senigallia,  che  apparteneva  a 
      Francesco  Maria  della Rovere;  il giorno della vittoria chiamò a 
      palazzo tutti i condottieri del  suo  esercito  ed  a  misura  che 
      entravano nella sala del convito, non avendo più bisogno di loro e 
      temendo  qualche  lega che potesse inceppare le sue vittorie nella 
      Romagna,  fece a tutti l'un dopo  l'altro  tagliar  la  testa  sul 
      limitar della porta. Così morì Vitellozzo Vitelli signore di città 
      di Castello,  Oliverotto,  signore di Bermo, Paolo Orsini, duca di 
      Gravina, Francesco di Todi, Guido Spada ecc. 
 
      "Dopo questa lettura, egli mi riferì così: 
      "Guido Spada non aveva potuto disimpegnarsi dal collegare  le  sue 
      bande con quelle di Cesare Borgia,  quando si portò ad invadere la 
      Romagna,  temendo che un rifiuto non solo gli  potesse  costar  la 
      vita,  ma  la  perdita  di quegli immensi beni di cui era ritenuto 
      possessore,  e che conservava gelosamente per trasmetterli  ad  un 
      nipote che amava qual figlio. 
      "Quando  Guido  Spada,  dopo la vittoria di Senigallia,  ricevette 
      l'invito a pranzo del Borgia,  sospettò il tradimento  che  veniva 
      ordito,  ed  accorgendosi che anche se non fosse andato al convito 
      la sua vita sarebbe rimasta sempre in balia del Borgia,  si limitò 
      a  spedire un messaggio al nipote in Roma per avvertirlo del luogo 
      ove teneva il suo testamento. 
      "Il messaggero,  la cui partenza era stata spiata,  fu  ucciso  in 
      cammino,  ma  non gli fu ritrovato altro foglio se non uno scritto 
      dello Spada in cui diceva: 
 
      "Lascio al mio nipote amatissimo le mie stoviglie ed i miei libri, 
      fra i quali la mia bibbia ad angoli d'oro, desiderando che egli la 
      conservi quale ricordo del suo affezionatissimo zio." 
 
      "Gli eredi cercarono in ogni luogo,  ammirarono la Bibbia,  fecero 
      man bassa sui mobili, e si meravigliarono che Spada, l'uomo ricco, 
      non  fosse effettivamente che il più miserabile degli zii.  Nessun 
      tesoro fu rinvenuto,  se pure si vuole chiamare tesori le  scienze 
      racchiuse nella biblioteca e nel laboratorio chimico. 
      "Il messaggero assassinato durante il viaggio, ebbe il tempo prima 
      di morire,  di dire ad un sacerdote, che gli aveva somministrato i 
      conforti della religione davanti alla chiesetta presso la quale fu 
      aggredito,  che facesse sapere al nipote di Guido Spada  in  tutta 
      segretezza,  che fra le carte dello zio avrebbe certamente trovato 
      il suo testamento. 
      "Il sacerdote eseguì questo estremo desiderio del morente;  e dopo 
      questo  annunzio si raddoppiarono ancora le ricerche;  ma tutto fu 
      invano. Non restarono al nipote che due palazzi,  una villa dietro 
      al  Palatino,  ed  un  migliaio  circa di scudi in argenteria,  ed 
      altrettanto in moneta contante. 
      "La famiglia Spada non riprese più il lustro  di  prima  e  rimase 
      dubbia la loro fortuna. Un mistero eterno pesò sopra questo affare 
      e la pubblica fama fece credere che Cesare Borgia avesse trovato i 
      tesori  della famiglia Spada nella tenda di Guido sotto le mura di 
      Senigallia. 
      "Fin qui" s'interruppe Faria  sorridendo,  "non  vi  sembrerà  che 
      questo racconto sia privo di senno." 
      "Oh, amico mio" disse Dantès, "mi sembra, al contrario, di leggere 
      una cronaca piena d'interesse. Continuate." 
      "Continuo.  La  famiglia  si  adattò  a questa oscurità;  gli anni 
      trascorsero.  Fra i  discendenti,  alcuni  furono  soldati,  altri 
      diplomatici;  alcuni furono ecclesiastici, altri banchieri; alcuni 
      si arricchirono, altri finirono per rovinarsi. 
      "Ma veniamo  all'ultimo  della  famiglia,  a  quello  di  cui  fui 
      segretario, al conte Spada. 
      "Io lo avevo spesso sentito lamentarsi della sproposizione del suo 
      rango con la sua fortuna,  per cui lo avevo consigliato di porre i 
      pochi beni che gli restavano in rendita vitalizia: ascoltò il  mio 
      consiglio, e in tal modo raddoppiò le sue entrate. 
      "La  famosa Bibbia dagli angoli d'oro era rimasta in famiglia,  ed 
      era il conte Spada quello che la possedeva: fu conservata di padre 
      in figlio,  perché la clausola bizzarra  del  solo  testamento  ne 
      aveva  formata  una  vera  reliquia,  custodita con venerazione in 
      famiglia.  Era un libro illustrato da magnifiche miniature gotiche 
      e così pesanti d'oro, che ci voleva un leggìo per poterla usare. 
      "Alla  vista  delle  carte  di  ogni  specie,  titoli,  contratti, 
      pergamene,  che venivano custodite negli archivi della famiglia  e 
      che  derivavano  da Guido Spada,  mi misi a mia volta,  come venti 
      servitori,  venti intendenti e  venti  segretari  che  mi  avevano 
      preceduto, ad esaminare queste filze di scartafacci. 
      "Ad  onta  dell'attività e della precisione delle mie instancabili 
      ricerche, non trovai assolutamente niente. 
      "Frattanto avevo letto ed anche scritto una  storia  esatta  delle 
      genealogie della famiglia Borgia,  al solo scopo di assicurarmi se 
      fosse stata aggiunta alla famiglia di questi Principi qualche gran 
      fortuna dopo la morte di Guido Spada,  e non potei notare altro se 
      non   l'addizione   dei  beni  degli  altri  condottieri  con  lui 
      decapitati,  che  furono  ben  presto  esauriti  nelle  guerre  di 
      Romagna. 
      "Ero  dunque  sicuro  che né Cesare Borgia,  né la sua famiglia si 
      erano impadroniti  delle  immense  fortune  di  cui  si  credevano 
      possessori gli Spada,  ma che queste, se esistevano, erano rimaste 
      senza padrone, come quei tesori delle favole arabe che dormono nel 
      seno della terra, sotto la custodia di un genio. 
      "Sfogliai,  contai,  calcolai mille e mille volte le rendite e  le 
      spese della famiglia da trecento anni in poi,  e tutto fu inutile. 
      Confrontai  questi  calcoli  con  le   spese   e   rendite   prima 
      dell'avvenimento  di  Guido,   e  vi  ritrovai  una  incalcolabile 
      differenza.  Ciò nonostante tutto riuscì inutile,  io restai nella 
      mia ignoranza, ed il conte Spada nella sua miseria. 
      "Il mio padrone morì. 
      "Dal suo contratto vitalizio non aveva escluso che le sue carte di 
      famiglia, la sua biblioteca composta di cinquemila volumi e la sua 
      famosa Bibbia;  mi lasciò legatario di tutto questo, unitamente ad 
      un migliaio di scudi romani che possedeva in denaro contante,  con 
      la  condizione  di fargli dire delle messe nell'anniversario della 
      sua morte,  di formare un albero genealogico della sua famiglia  e 
      di   scrivere   una  storia  della  medesima,   il  che  ho  fatto 
      esattamente..." 
      E qui siccome  Dantès  faceva  qualche  moto  d'impazienza,  Faria 
      s'interruppe dicendo: 
      "Tranquillizzatevi, Edmondo, noi ci accostiamo alla fine. 
      "Nel 1807,  un mese prima del mio arresto,  e quindici giorni dopo 
      la morte del conte Spada,  era il 25 di dicembre,  e  vedrete  fra 
      poco  in qual modo questa data memorabile mi sia rimasta in mente, 
      rileggevo per la centesima  volta  queste  carte  che  mettevo  in 
      ordine perché, appartenendo oramai il palazzo ad uno straniero, io 
      stavo per lasciare Roma e stabilirmi a Firenze portando con me una 
      quantità  di  libri,  la  mia  biblioteca  e la mia famosa Bibbia, 
      allorché stanco di questo continuo studio,  e  indisposto  per  un 
      pranzo  indigesto,   abbandonai  la  testa  sopra  le  mani  e  mi 
      addormentai. 
      "Erano le tre dopo mezzogiorno. Mi svegliai che l'orologio batteva 
      le sei.  Alzai la testa e mi ritrovai nella più profonda oscurità. 
      Suonai perché mi si portasse il lume: non venne alcuno. Mi risolsi 
      allora  a  servirmi  da  me;  quest'era d'altronde un'abitudine da 
      filosofo che avevo adottato.  Presi con una mano la bugia che  era 
      sul tavolo,  coll'altra,  non trovando zolfanelli, cercai un pezzo 
      di  carta  che  pensai  d'accendere  ad  un  resto  di  fuoco  nel 
      caminetto;   ma  nell'oscurità,  temendo  di  prendere  una  carta 
      preziosa,  invece  di  un  foglio  inutile,   esitai;   allora  mi 
      risovvenni  di  aver  veduto  nella  famosa  Bibbia  che era sulla 
      tavola,  vicino a me,  un  vecchio  foglio  tutto  ingiallito  che 
      sembrava  fosse  servito  di  segno  nella  pagina  ove cessava la 
      lettura,  e che aveva traversato i secoli,  mantenuto al suo posto 
      dalla venerazione degli eredi. 
      "Cercai a tastoni quest'inutile foglio, lo trovai, lo contorsi, lo 
      accostai alla fiamma moribonda e lo accesi;  ma sotto le mie dita, 
      come per magia,  a misura che il fuoco avanzava vidi dei caratteri 
      giallastri  uscire dalla carta ed apparire sul foglio.  Allora fui 
      preso dal terrore; serrai tra le mani il foglio,  spensi il fuoco, 
      accesi  la  bugia  alla brace;  riaprii con indicibile emozione il 
      foglio ripiegato, e capii che un inchiostro misterioso e simpatico 
      aveva tracciato quelle lettere apparse soltanto  al  contatto  del 
      vivo  calore:  poco più di un terzo del foglio era stato consumato 
      dalla fiamma. Leggetelo, Dantès, poi quando lo avrete riletto,  vi 
      completerò le frasi interrotte e il senso incompiuto." 
      E  Faria,  trionfante,  offrì  il foglio a Dantès che questa volta 
      lesse avidamente le parole seguenti,  tracciate con un  inchiostro 
      color ruggine. 
 
      "Oggi 28 marzo 1492, 
      essendo costretto per lo mio me... 
      di seguire in un con le... 
      gia nella guerra di Romagna, e... 
      parato a qualunque tradimento p... 
      cipe, dichiaro a mio nipote... 
      erede universale, che ho... 
      per aver visitato con me... 
      isola di Monte Cristo tutto quanto... 
      preziose diamanti, argenterie... 
      per il valore circa di due... 
      troverà passando la ventesima... 
      dell'Est in linea retta. Due aper... 
      in queste grotte: il tesoro sta nell'angolo... 
      qual tesoro lascio a lui e cedo... 
      solo erede. 
      28 marzo 1492, GUID... 
 
      "Ora"  riprese  Faria,  "leggete  quest'altra carta." E presentò a 
      Dantès un altro foglio, con altri frammenti di righe. 
      "Adesso" disse,  dopo aver  visto  che  Dantès  aveva  letto  fino 
      all'ultima riga, "avvicinate i due frammenti, e giudicate." 
      Dantès  obbedì;  avvicinati  i  due  frammenti  davano il seguente 
      assieme. 
 
      "Oggi 28 marzo 1492, 
      essendo costretto per lo mio meglio 
      di seguire in un con le mie genti Cesare Bor- 
      gia nella guerra di Romagna, e dovendo essere pre- 
      parato a qualunque tradimento per parte di questo prin- 
      cipe, dichiaro a mio nipote Giulio Spada, mio 
      erede universale,  che ho  nascosto  in  una  direzione  che  egli 
      conosce 
      per aver visitato con me, cioè nella 
      isola di Monte Cristo tutto quanto io posseggo in pietre 
      preziose, diamanti, argenterie, che solo io conosco questo tesoro 
      per il valore di due milioni di scudi romani e che egli 
      troverà  passando  la ventesima pietra della roccia a partirsi dal 
      seno 
      dell'Est in linea retta. Due aperture sono state praticate 
      in queste grotte: il tesoro  sta  nell'angolo  più  lontano  della 
      seconda, il 
      qual tesoro lascio a lui e cedo in tutto come mio 
      solo erede. 
      28 marzo 1492, GUIDO SPADA" 
 
      "Ebbene, capite finalmente?" disse Faria. 
      "E'  la  dichiarazione  di  Guido  Spada,  è  il testamento che fu 
      cercato per tanto tempo" disse Edmondo ancora incredulo. 
      "Sì, mille volte sì." 
      "E chi l'ha ricostruito in tal modo?" 
      "Io, che coll'aiuto del frammento rimasto,  ho indovinato il resto 
      misurando  la  lunghezza  delle  linee  con  quella  della carta e 
      penetrando nel senso nascosto col mezzo del senso  visibile,  come 
      uno  si  guida  in  un  sotterraneo con un residuo di luce che gli 
      venga dall'alto." 
      "E  che  faceste  quando  avete  creduto  di   acquistare   questa 
      cognizione?" 
      "Volevo  partire  subito ed anzi sono partito sul momento portando 
      con me il  principio  della  mia  grand'opera  filosofica,  ma  la 
      polizia  imperiale  che  conosceva  le  mie  idee teneva gli occhi 
      aperti su di me.  La mia partenza  precipitosa,  della  quale  non 
      poteva  conoscere  la causa,  svegliò dei sospetti e al momento in 
      cui  stavo  per  imbarcarmi  a  Piombino,  venni  arrestato.  Ora" 
      continuò  Faria guardando Dantès con un'espressione quasi paterna, 
      "ora,  amico mio,  voi ne sapete quanto me.  Se  noi  ci  salviamo 
      assieme la metà del mio tesoro è vostra, se io muoio qui, e voi vi 
      salvate solo, vi appartiene in totalità." 
      "Ma"  domandò  Dantès  con  esitazione,  "questo tesoro non ha nel 
      mondo possessori più legittimi di noi?" 
      "No,  no,  rassicuratevi.  La vera famiglia Spada  è  estinta  del 
      tutto.  D'altronde,  l'ultimo dei conti Spada mi ha dichiarato suo 
      erede,  e nel lasciarmi per legato questa Bibbia simbolica,  mi ha 
      pur lasciato tutto ciò che conteneva.  No,  no, tranquillizzatevi, 
      se un giorno potremo metter le mani  su  questa  fortuna,  potremo 
      goderne senza rimorso." 
      "E dite che questo tesoro ammonta...?" 
      "A  due milioni di scudi romani,  circa tredici milioni di lire di 
      Francia." 
      "Impossibile!" disse Dantès colpito dall'enormità della somma. 
      "Impossibile,  e perché?" rispose il vecchio.  "La famiglia  Spada 
      era  una  delle  più  antiche  e  delle  più  possenti  del secolo 
      Quindicesimo.  D'altronde in quei tempi,  in cui era sospesa  ogni 
      speculazione  ed ogni industria,  non erano rari questi ammassi di 
      oro e di pietre;  anche oggigiorno in Roma vi sono delle  famiglie 
      che  muoiono  di fame,  e che hanno quasi un milione in diamanti e 
      pietre preziose trasmesse per maggiorasco,  che non possono essere 
      alienate." 
      Edmondo che credeva di sognare,  ondeggiava fra l'incredulità e la 
      gioia. 
      "Non ho custodito per si lungo tempo tal segreto con voi" continuò 
      Faria,  "se non perché prima vi volevo  conoscere  meglio,  e  poi 
      volevo  farvi  una  sorpresa.  Se  noi fossimo evasi prima del mio 
      attacco di  epilessia,  vi  avrei  condotto  a  Montecristo;  ora" 
      aggiunse  con  un sospiro,  "siete voi che mi condurrete.  Ebbene, 
      Dantès, non mi ringraziate?" 
      "Questo tesoro è vostro,  amico mio" disse Dantès;  "appartiene  a 
      voi solo, e io non vi ho alcun diritto; io non sono neppure vostro 
      parente." 
      "Siete  mio  figlio,  Dantès!"  esclamò il vecchio.  "Voi siete il 
      figlio della mia prigionia. Dedito interamente agli studi,  Dio vi 
      ha  inviato a me per consolare l'uomo,  che non è stato padre,  il 
      prigioniero, che non poteva essere libero." 
      E Faria tese il braccio che gli restava al giovane,  che si  gettò 
      al suo collo piangendo. 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 19. 
                              IL TERZO ATTACCO. 
 
 
      Ora  che questo tesoro,  per lungo tempo oggetto delle meditazioni 
      di  Faria,  poteva  assicurare  la  felicità  di  colui  che  egli 
      veramente amava come suo figlio,  questo tesoro era raddoppiato di 
      valore ai suoi occhi: tutti i giorni si  divertiva  a  ricontarlo, 
      spiegando a Dantès tutto ciò che poteva fare di bene ai suoi amici 
      quell'uomo che ai nostri giorni possedesse una fortuna di tredici- 
      quattordici  milioni.  Allora  il  viso di Dantès si faceva tetro, 
      perché il giuramento di vendetta che aveva fatto si presentava  al 
      suo pensiero,  e rifletteva quanto male poteva fare ai suoi nemici 
      un  uomo  che  ai  nostri  giorni  possedesse  tredici-quattordici 
      milioni. 
      Faria   non  conosceva  l'isola  di  Montecristo,   ma  Dantès  la 
      conosceva; vi era spesso passato davanti. 
      Quest'isola è posta a venticinque miglia da Pianosa fra la Corsica 
      e l'Elba,  ed una volta vi aveva preso  anche  terra.  Quest'isola 
      era,  è  stata  sempre,  ed è ancora completamente deserta;  è una 
      roccia di forma quasi conica che sembra essere stata  sospinta  da 
      qualche cataclisma vulcanico dal fondo dell'abisso alla superficie 
      del mare. 
      Dantès  faceva  il  piano  dell'isola  a  Faria,  e Faria dava dei 
      consigli a Dantès sui modi per ritrovare il tesoro. 
      Ma Dantès era ben  lontano  dall'essere  così  entusiasta  e  così 
      fiducioso quanto lo era il vecchio.  Certamente era ben sicuro che 
      Faria non era pazzo,  ed il modo con cui era giunto alla  scoperta 
      che aveva fatto credere alla sua follia, raddoppiava ancora la sua 
      ammirazione  per lui,  ma non poteva ugualmente credere che questo 
      deposito, dato che un giorno fosse esistito,  esistesse ancora,  e 
      quando  non  guardava questo tesoro come una chimera,  lo guardava 
      come molto lontano. 
      Frattanto,   come  se  il  destino  avesse  voluto   togliere   ai 
      prigionieri  l'ultima  speranza,  e  far  credere  loro  che erano 
      condannati ad un perpetuo carcere,  una nuova  disgrazia  venne  a 
      colpirli. 
      La  galleria che dava sul mare,  minacciando ruina da lungo tempo, 
      era stata ricostruita,  furono sostituiti ai soffitti e  ai  travi 
      degli  enormi  dadi  di  roccia sul foro già per metà interrato da 
      Dantès. Senza questa precauzione,  che fu suggerita dal vecchio al 
      giovane,  il loro infortunio sarebbe stato ancora maggiore, perché 
      si sarebbe scoperto il tentativo di  evasione  e  sarebbero  stati 
      senz'altro  divisi.  Una  nuova  porta più forte e più inesorabile 
      delle altre si era chiusa ancora una volta sopra di loro. 
      "Vedete bene" diceva Dantès con una dolce tristezza a Faria,  "che 
      Dio  vuol  togliermi  fino  il  merito  di  ciò  che  chiamate mia 
      devozione per voi.  Vi ho promesso di restare eternamente con voi, 
      ed  ora  non  sono più libero di non mantenere la mia parola.  Non 
      avrò più di voi il tesoro e noi non usciremo di qui  né  l'uno  né 
      l'altro.  Del  resto,  il  mio  vero tesoro siete voi,  amico mio, 
      quello che mi attendeva sotto le tetre volte  di  questa  prigione 
      siete voi,  è la vostra presenza, il nostro convivere cinque o sei 
      ore  del  giorno  assieme  eludendo  la   vigilanza   dei   nostri 
      carcerieri. Sono questi raggi d'intelligenza che voi avete versato 
      nel  mio  intelletto,  queste  lingue che avete confitto nella mia 
      memoria,  con tutte  le  loro  ramificazioni  filosofiche.  Queste 
      scienze  diverse  che  mi  avete  rese sì facili con la profondità 
      della conoscenza che me ne avete data,  e  con  la  chiarezza  dei 
      principi a cui le riduceste.  Ecco il mio tesoro,  amico,  ecco in 
      che modo mi avete fatto ricco e felice.  Credetemi e  consolatevi: 
      ciò  per  me  val  molto  più  delle verghe d'oro e delle casse di 
      diamanti, quand'anche non fossero così problematiche, come le nubi 
      che si vedono la mattina galleggiare sul mare, che si prendono per 
      terra ferma e che svaporano, volatizzano,  svaniscono a misura che 
      uno  si  avvicina.  Vedervi  vicino  a  me  per il più lungo tempo 
      possibile,  ascoltare la vostra  voce  eloquente,  ornare  il  mio 
      spirito, ritemprare l'anima mia, rendere tutto me stesso capace di 
      grandi e terribili cose, se mai un giorno sarò libero, darmi aiuto 
      così  bene  che  la  disperazione  alla  quale  ero  sul  punto di 
      abbandonarmi quando vi conobbi, non ritrova più posto;  ecco tutta 
      la  mia  fortuna: questa non è chimerica,  io la debbo realmente a 
      voi,  e tutti i sovrani della  terra,  fossero  essi  anche  tanti 
      Cesari Borgia, non riuscirebbero a togliermela." 
      Così  i  giorni  seguenti,  se  non furono giorni felici per i due 
      prigionieri,  passarono però molto  in  fretta.  Faria  che  aveva 
      custodito  il  segreto  del  suo  tesoro  per tanto tempo,  ora ne 
      parlava a ogni circostanza. 
      Come aveva previsto,  restò paralizzato dal lato  destro  ed  egli 
      stesso perse ogni speranza di potersene servire. Ma pensava sempre 
      al suo compagno, ad una liberazione o ad una evasione, e ne godeva 
      per  lui.  Per  timore che la lettera potesse un giorno perdersi o 
      cancellarsi aveva obbligato  Dantès  ad  impararla  a  memoria,  e 
      Dantès  la sapeva dalla prima all'ultima parola.  Allora distrusse 
      la seconda parte,  certo che poteva  essere  ritrovata  la  prima, 
      senza che ne fosse indovinato il vero senso. 
      Qualche  volta  passava  delle  ore  intere  nel dare istruzioni a 
      Dantès,  istruzioni che dovevano servirgli nei  giorni  della  sua 
      libertà. 
      Una volta libero, dal giorno, dall'ora, dal momento in cui sarebbe 
      stato libero,  non doveva più avere che un solo ed unico pensiero, 
      quello di arrivare a Montecristo in qualunque modo,  restarvi solo 
      con un pretesto che non desse sospetto,  e una volta là, una volta 
      solo,  cercare di ritrovare le grotte  meravigliose,  scavare  nel 
      luogo indicato, nell'interno della seconda grotta. 
      Aspettando in tal modo,  le ore passavano,  se non rapide,  almeno 
      sopportabili.  Faria,  come dicemmo,  senza aver recuperato  l'uso 
      della mano e del piede,  aveva recuperata tutta la chiarezza della 
      sua intelligenza e aveva insegnato al suo giovane compagno un poco 
      alla volta,  oltre le  cognizioni  morali,  di  cui  si  disse  in 
      dettaglio,  quell'arte  sapiente e sublime del prigioniero che dal 
      niente sa trarre qualsiasi cosa. 
      Faria per timore di vedersi invecchiare,  Dantès per il timore  di 
      ricordarsi  il  suo passato quasi estinto,  e che non era presente 
      più nel fondo della sua memoria,  come perduto nella notte:  tutto 
      camminava  come in quelle esistenze dove l'infelicità non ha nulla 
      scomposto, e che passano macchinalmente e con calma sotto l'occhio 
      della Provvidenza.  Ma sotto questa calma superficiale  esistevano 
      nel  cuore  del  giovane,  e fors'anche del vecchio,  molti slanci 
      trattenuti,  molti sospiri soffocati,  che Faria faceva quando era 
      solo, Edmondo quando rientrava nel suo carcere. 
      Una notte Edmondo si svegliò,  come scosso, credendo di aver udito 
      chiamare; aprì gli occhi e tentò di squarciare la spessa oscurità. 
      Il suo nome,  o  piuttosto  una  voce  lamentosa  che  tentava  di 
      articolare il suo nome,  giunse fino a lui.  Si alzò sul letto, il 
      sudore dell'angoscia gli batteva la fronte, ed ascoltò. 
      Non c'era alcun dubbio: il lamento  veniva  dalla  cella  del  suo 
      compagno. 
      "Gran Dio" esclamò Dantès, "sarebbe forse..." 
      Spostò  il  suo  letto,  levò  la  pietra,  si  lanciò  nella  via 
      sotterranea,  giunse all'opposta estremità,  la pietra era alzata. 
      Alla  luce  incerta  e vacillante di quella lampada di cui abbiamo 
      altre volte parlato, Edmondo vide il vecchio,  che pallido e ancor 
      ritto,  si aggrappava al legno del letto.  I suoi lineamenti erano 
      sconvolti da quegli orribili sintomi  che  già  conosceva,  e  che 
      tanto lo spaventarono la prima volta. 
      "Ebbene,  amico mio" disse Faria rassegnato,  "comprendete voi? Io 
      non ho più bisogno d'insegnarvi altro." 
      Edmondo gettò un grido doloroso,  e del tutto smarrito  si  lanciò 
      verso la porta gridando: 
      "Soccorso, soccorso!" 
      Faria ebbe ancora la forza di fermarlo per un braccio. 
      "Silenzio"  disse,  "o siete perduto!  Non pensiamo più che a voi, 
      caro amico, a rendere la vostra prigionia sopportabile o la vostra 
      fuga possibile.  Vi abbisognerebbero molti anni per rifare da solo 
      tutto   ciò  che  io  ho  fatto  qui,   e  che  sarebbe  distrutto 
      sull'istante se  i  nostri  sorveglianti  sapessero  della  nostra 
      amicizia.  D'altronde state tranquillo,  amico mio, il carcere che 
      abbandono non resterà lungamente vuoto: un altro disgraziato verrà 
      a prendere il mio posto.  A quest'altro voi  comparirete  come  un 
      angelo salvatore.  Quest'altro sarà forse giovane, forte, paziente 
      come voi. Quest'altro potrà aiutarvi nella vostra fuga,  mentre io 
      non  ero  ormai  altro  che  un impaccio.  Non avrete più un mezzo 
      cadavere  d'ostacolo  ai  vostri  movimenti.  Decisamente  Dio  fa 
      finalmente  qualche  cosa per vostro bene: vi dà più di ciò che vi 
      toglie, ed è ben giusto ora ch'io muoia." 
      Edmondo non poté far altro che unire le mani ed esclamare: 
      "Oh, amico mio, amico mio, tacete." 
      Quindi riprendendo la sua forza,  un  istante  perduta  dal  colpo 
      imprevisto, e il suo coraggio piegato dalle parole del vecchio: 
      "Oh" disse, "vi ho salvato una volta, vi salverò la seconda." 
      E sollevando il piede del letto ne cavò la boccettina in cui c'era 
      ancora un terzo del liquore rosso. 
      "Ecco"  disse,  "di  questa  bevanda  salutare ve ne resta ancora. 
      Presto,  presto,  ditemi ciò che devo fare.  Questa volta vi  sono 
      nuove istruzioni da aggiungere? Parlate, amico mio, vi ascolto." 
      "Non c'è alcuna speranza" rispose Faria,  scuotendo la testa,  "ma 
      non importa.  Dio vuole che l'uomo da lui creato e nel  cuore  del 
      quale  ha profondamente scolpito l'amore della vita,  faccia tutto 
      ciò che può per conservare questa esistenza,  spesse volte penosa, 
      ma sempre cara." 
      "Oh, sì, sì" rispose Dantès, "vi salverò, ve lo dico io." 
      "Ebbene,  dunque,  tentate,  il freddo mi prende,  sento il sangue 
      affluire al cervello;  quest'orribile tremito  che  fa  battere  i 
      denti  e  sembra disgiungere le ossa,  comincia ad invadere il mio 
      corpo.  Tra cinque minuti la crisi scoppierà,  fra un quarto d'ora 
      non vi sarà altro di me che un cadavere." 
      "Ah!" esclamò Dantès, col cuore lacerato dal dolore. 
      "Voi  farete  come  l'altra  volta,  soltanto non aspetterete così 
      lungo tempo.  A quest'ora tutte  le  molle  della  mia  vita  sono 
      consunte,  e  la  morte non avrà più..." mostrando il braccio e la 
      gamba paralizzata,  "...non avrà più che la metà del suo lavoro da 
      fare.  Se,  dopo  avermi versato dodici gocce in bocca,  invece di 
      dieci,  voi vedete  che  io  non  rinvengo,  allora  verserete  il 
      rimanente.  Frattanto  portatemi  sul  letto  perché non posso più 
      tenermi in piedi." 
      Edmondo prese il vecchio nelle sue braccia e lo stese sul letto. 
      "Ora,  amico" disse Faria,  "sola consolazione  della  mia  misera 
      vita,  voi,  che il cielo mi dette un po' tardi,  ma pure mi dette 
      qual dono inapprezzabile di cui lo ringrazio,  nell'istante in cui 
      sono  per  separarmi  per  sempre da voi,  vi auguro tutti i beni, 
      tutte le felicità che meritate. Figlio mio, vi benedico!" 
      Dantès si gettò in ginocchio,  appoggiando la testa sopra il letto 
      del vecchio. 
      "Ma  prima  di ogni altra cosa,  ascoltate bene ciò che vi dico in 
      questo istante supremo: il tesoro di Spada  esiste,  Dio  permette 
      che non vi sia più per me né distanza né ostacolo.  Io lo vedo nel 
      fondo della seconda grotta,  i miei occhi penetrano la  profondità 
      della  terra  e  restano  abbagliati da tante ricchezze...  Se voi 
      giungete a fuggire,  ricordatevi che  il  povero  Faria  da  tutti 
      creduto  pazzo,  non lo era.  Correte a Montecristo,  approfittate 
      della   fortuna,   approfittatene,   voi,   che   avete   sofferto 
      abbastanza..." 
      Una scossa violenta interruppe il vecchio,  Dantès rialzò la testa 
      e vide che i suoi occhi s'iniettavano di rosso, come se un'onda di 
      sangue fosse salita dal petto alla fronte. 
      "Addio,  addio!" mormorò il vecchio,  stringendo convulsamente  la 
      mano al giovane, "addio!..." 
      "Oh,  non ancora, non ancora" esclamò questi. "Non mi abbandonate. 
      Oh, mio Dio! Soccorretelo... aiuto... aiuto!..." 
      "Silenzio, silenzio!" mormorò il moribondo,  "che non ci separino, 
      se volete salvarmi." 
      "Avete ragione. Oh, sì, state tranquillo, vi salverò... Quantunque 
      soffriate molto, sembrate soffrir meno della prima volta..." 
      "Oh,  disingannatevi,  io soffro meno perché ho minor forza.  Alla 
      vostra età si ha fede nella vita,  è il privilegio della  gioventù 
      di  credere  e  sperare;  ma  la vecchiaia vede più chiaramente la 
      morte. Oh! eccola...  viene...  tutto è finito...  la mia vista si 
      perde...  la  mia  ragione  svanisce...  la  vostra mano Dantès... 
      addio!..." 
      E riunendo tutte le sue forze e le  sue  facoltà  fece  un  ultimo 
      sforzo per rialzarsi dicendo: 
      "Montecristo... non dimenticate Montecristo..." 
      E ricadde sul letto. 
      La crisi fu terribile: membra contorte,  pupille gonfiate, schiuma 
      sanguinolenta,  un corpo senza movimento,  ecco ciò che  restò  su 
      quel  letto  di dolore,  nel posto dove un momento prima era stato 
      disteso un essere intelligente. 
      Dantès prese la lampada,  la posò al capezzale del letto sopra una 
      pietra sporgente, da dove la sua luce tremante rischiarava con uno 
      strano  e fantastico riflesso questo viso scomposto e questo corpo 
      inerte e rigido.  Là cogli  occhi  fissi,  aspettò  intrepidamente 
      l'istante per amministrare il salutare rimedio. 
      Quando credette giunto il momento,  prese il coltello,  disserrò i 
      denti che offrivano meno resistenza della prima volta,  contò  una 
      dopo l'altra le dodici gocce,  e aspettò.  La boccettina conteneva 
      ancora il doppio circa di ciò che  aveva  versato.  Aspettò  dieci 
      minuti,  un  quarto d'ora,  una mezz'ora,  niente.  Tremante,  coi 
      capelli irti,  la fronte ghiacciata di sudore,  contava i  secondi 
      coi battiti del cuore. 
      Allora  pensò che era tempo di tentare l'ultima prova: avvicinò la 
      boccettina alle labbra paonazze di Faria,  e senza aver bisogno di 
      scostare  le  mascelle,  rimaste  aperte,  versò  il rimanente del 
      liquore che conteneva.  Il rimedio produsse un effetto  galvanico, 
      un violento tremore scosse le membra del vecchio,  i suoi occhi si 
      riaprirono,  spaventosi a vedersi,  gettò un sospiro che sembrò un 
      grido,  quindi  questo  corpo tremante si calmò a poco a poco sino 
      all'immobilità; i soli occhi rimasero aperti. 
      Una mezz'ora un'ora,  un'ora e mezza passarono Durante quest'ora e 
      mezza  d'angoscia,  Edmondo curvo sull'amico,  con la mano sul suo 
      petto sentì successivamente questo corpo  raffreddarsi,  e  questo 
      cuore spegnere il suo battito sempre più sordo e profondo. 
      Finalmente  sopraggiunse  l'ultimo  fremito  del cuore,  la faccia 
      divenne livida,  gli occhi rimasero aperti,  lo  sguardo  si  fece 
      vitreo. 
      Erano le sei del mattino,  il giorno cominciava a sorgere,  il suo 
      raggio malinconico entrava nella cella  e  faceva  impallidire  la 
      luce  della lampada vicina a spegnersi.  Riflessi strani passavano 
      sul viso del cadavere dandogli di  tempo  in  tempo  apparenze  di 
      vita. 
      Fino  a  che durò questa lotta,  tra il giorno e la notte,  Dantès 
      poté ancora dubitare, ma da che il giorno vinse, fu certo d'essere 
      in compagnia  di  un  cadavere.  Allora  un  terrore  profondo  ed 
      invincibile  s'impadronì di lui: non osò più stringere quella mano 
      che pendeva fuori dal letto,  non osò più fissare i suoi occhi  su 
      quelli  immobili  e  bianchi,  che  tentò inutilmente più volte di 
      chiudere,  e che sempre  si  riaprivano.  Spense  la  lampada,  la 
      nascose con ogni cura,  fuggì, rimettendo alla meglio la pietra al 
      di sopra della sua testa. Era già tempo, il carceriere poteva star 
      poco a venire. 
      Questa volta il carceriere  cominciò  la  sua  visita  da  Dantès: 
      uscendo da questa cella,  egli passava in quella di Faria al quale 
      portava la colazione e la  biancheria.  Niente  faceva  capire  in 
      quest'uomo, che fosse a conoscenza dell'accaduto. 
      Quando  lui  uscì,  Dantès fu preso da un'indicibile impazienza di 
      sapere ciò che sarebbe accaduto nella cella  del  suo  disgraziato 
      amico: rientrò dunque nel passaggio sotterraneo, e giunse in tempo 
      per sentire le esclamazioni del carceriere che chiamava aiuto. Ben 
      presto entrarono altri carcerieri, poi s'intese quel passo pesante 
      e  regolare,  comune  ai  soldati anche quando sono fuori del loro 
      servizio. 
      Dietro i soldati, giunse il Governatore. 
      Edmondo sentì il rumore del  letto  sul  quale  veniva  smosso  il 
      cadavere  intese la voce del Governatore che ordinava di gettargli 
      acqua sul viso, e che poi, visto inutile ogni tentativo, mandava a 
      chiamare il medico, d'urgenza. 
      Il Governatore uscì,  e giunsero alle orecchie  di  Dantès  alcune 
      parole di compassione, miste a risa e facezie dei carcerieri. 
      "Andiamo,  andiamo"  diceva  uno  di questi,  "il pazzo è andato a 
      raggiungere i suoi tesori: buon viaggio." 
      "Non avrà, con tutti i suoi milioni,  di che pagare la sua coperta 
      da morto" diceva l'altro. 
      "Oh" faceva eco un terzo,  "le coperte dei morti del Castello d'If 
      non costano molto." 
      "Può essere che,  essendo una persona eminente nella scienza,  gli 
      vorranno usare qualche riguardo." 
      "Allora avrà l'onore del sacco." 
      Edmondo ascoltava,  non perdeva una parola,  ma non capiva bene il 
      significato delle loro frasi. 
      Ben presto le  voci  cessarono  e  gli  sembrò  che  i  carcerieri 
      lasciassero  la  stanza.  Ciononostante,  egli  non  osò entrarvi, 
      potevano aver lasciato qualche carceriere a guardare il morto. 
      Dopo un'ora circa,  il silenzio si animò debolmente,  quindi  andò 
      crescendo il rumore.  Era il Governatore che tornava seguito da un 
      medico e da diversi ufficiali. 
      Si rinnovò per un momento il silenzio: era evidente che il  medico 
      si accostava al letto ed esaminava il cadavere. 
      Ben  presto  il  dialogo ricominciò: il medico analizzò il male di 
      cui era stato vittima il prigioniero,  e dichiarò che  era  morto. 
      Domande  e  risposte  si  facevano  con una noncuranza che indignò 
      Dantès. 
      Gli sembrava che tutti avrebbero  dovuto  sentire  per  il  povero 
      Faria una parte dell'affetto che gli portava. 
      "Sono dispiaciuto per ciò che mi annunziate" disse il Governatore, 
      alla  certezza  dal  medico  che il vecchio fosse realmente morto; 
      "era un prigioniero docile,  inoffensivo,  divertente con  la  sua 
      follia, e soprattutto facile a sorvegliarsi." 
      "Oh"  riprese  il  carceriere,   "si  sarebbe  potuta  risparmiare 
      qualunque sorveglianza.  Garantisco che sarebbe potuto restar  qui 
      cinquant'anni,   senza   provare   il  più  piccolo  tentativo  di 
      evasione." 
      "Frattanto" riprese il  Governatore,  "non  che  io  dubiti  della 
      vostra  scienza,  ma  è  necessario,  per  la  mia responsabilità, 
      assicurarci che il prigioniero sia realmente morto." 
      Si fece un nuovo silenzio,  e Dantès sempre in ascolto suppose che 
      il medico esaminasse e palpasse una seconda volta il cadavere. 
      "Potete  restare  tranquillo"  disse il medico,  "è effettivamente 
      morto, ed io ne prendo la responsabilità." 
      "Voi sapete, signore" riprese il Governatore insistendo,  "che noi 
      non ci contentiamo, in casi simili a questo, di un semplice esame. 
      Perciò  malgrado  le  apparenze  vi  prego di adempiere a tutte le 
      formalità di legge." 
      "Che si faccia arroventare un  ferro"  disse  il  medico,  "ma  in 
      verità, questa è una precauzione inutile." 
      Quest'ordine di arroventare un ferro fece fremere Dantès. 
      S'intesero dei passi frettolosi,  il cigolio della porta, l'andare 
      e venire interno,  e dopo  pochi  istanti  un  carceriere  rientrò 
      dicendo: 
      "Ecco un braciere con un ferro." 
      Si  rinnovò  il  silenzio per un momento,  poi s'intese il frizzio 
      delle carni che bruciavano e  il  cui  odore  nauseabondo  penetrò 
      perfino dietro il nascondiglio di Dantès che lo sentì con orrore. 
      A  quest'odore  di  carne  carbonizzata,  il  sudore scaturì dalla 
      fronte del giovane che per un istante credette di svenire. 
      "Voi vedete" disse il  medico,  "che  è  veramente  morto.  Questa 
      bruciatura al tallone è decisiva,  il povero pazzo è guarito dalla 
      sua follia e liberato dalla sua prigionia." 
      "Non  si  chiamava  Faria?"  domandò  uno  degli   ufficiali   che 
      accompagnavano il Governatore. 
      "Sì"  rispose  questi,  "e  pretendeva  che  questo  fosse un nome 
      antico.  Però era molto dotto e molto ragionevole su tutti i punti 
      che non avevano relazione con il suo tesoro, ma su questo, bisogna 
      convenire, era intrattabile." 
      "E l'affezione che noi chiamiamo monomania" disse il medico. 
      "Non  avete  mai  avuto  di  che  lamentarvi  di  lui?" domandò il 
      Governatore  a  quel  carceriere  incaricato   di   portargli   il 
      nutrimento. 
      "Mai,   signor   Governatore"   rispose   il   carceriere,   "mai, 
      assolutamente. A volte anzi mi divertiva molto raccontandomi delle 
      storie,  e un giorno che mia moglie  era  malata  mi  scrisse  una 
      ricetta che la guarì." 
      "Ah,  ah"  fece  il  medico,  "ignoravo  di aver a che fare con un 
      collega.  Spero,   signor  Governatore"  aggiunse  ridendo,   "che 
      riguardo a questo, lo tratterete con considerazione." 
      "Sì, sì, state tranquillo, sarà decentemente sepolto nel sacco più 
      nuovo che si potrà trovare: siete contento?" 
      "Dobbiamo adempiere a quest'ultima formalità alla vostra presenza, 
      signor Governatore?" domandò un carceriere. 
      "Senza dubbio,  ma sbrigatevi;  non posso restare in questa stanza 
      tutta la giornata." 
      Si fece intendere un nuovo andare e venire:  un  istante  dopo  il 
      rumore  di  una  tela  giunse  alle  orecchie  di Dantès: il letto 
      s'incurvò sulle traverse,  un passo come  di  chi  porta  un  peso 
      gravitò sulla pietra sotto cui stava Dantès, quindi il letto tornò 
      a piegarsi sotto il peso. 
      "A questa sera" disse il Governatore. 
      "La messa vi sarà?" domandò un ufficiale. 
      "Impossibile"  disse  il Governatore.  "Il cappellano del Castello 
      venne ieri a chiedermi un permesso di  otto  giorni  per  fare  un 
      piccolo  viaggio  a  Thiers.  Gli  ho garantiti i miei prigionieri 
      durante l'assenza; il povero Faria non doveva aver tanta fretta se 
      voleva il suo requiem." 
      Intanto si compiva l'operazione per la sepoltura. 
      "A questa sera" disse il Governatore, quando fu finita. 
      "A che ora?" domandò il carceriere. 
      "Fra le dieci e le undici." 
      "Si deve vegliare il morto?" 
      "E perché? Si chiuda la cella, come se fosse vivo, e nient'altro." 
      Allora i passi si allontanarono,  le voci gradatamente  cessarono, 
      si fece sentire il cigolio dei cardini della porta che si chiudeva 
      e lo stridere della serratura. 
      Un  silenzio  più  tetro  di quello della solitudine,  il silenzio 
      della   morte,   si   sparse   dappertutto,   perfino   nell'anima 
      agghiacciata  del  giovane.  Allora  sollevò  lentamente la pietra 
      sulla sua testa,  e gettò uno sguardo investigatore nella  stanza: 
      la stanza era vuota. 
      Dantès uscì dal suo nascondiglio. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 20. 
                        IL CIMITERO DEL CASTELLO D'IF. 
 
 
      Sul   letto,   steso  in  tutta  la  sua  lunghezza  e  debolmente 
      rischiarato da un giorno  nebbioso  che  penetrava  attraverso  la 
      finestra,  si  vedeva  un  sacco  di tela grossissima sotto le cui 
      larghe pieghe  si  distingueva  confusamente  una  forma  lunga  e 
      irrigidita:  questo  era  l'involto funebre di Faria quell'involto 
      che costava così poco al dire degli stessi carcerieri. 
      Così tutto era finito.  Una materiale separazione esisteva di  già 
      fra  Dantès  e il vecchio amico: egli non poteva vedere più i suoi 
      occhi rimasti aperti per guardare al di là della morte; non poteva 
      più stringere quella mano industriosa che aveva sollevato il  velo 
      che copriva tante cose nascoste.  Faria, l'utile, il buon compagno 
      al quale si era unito con tanto interesse,  non esisteva  più  che 
      nella  sua  memoria!  Allora  si  sedette  ai  piedi di quel letto 
      terribile e s'immerse in una cupa ed amara melanconia. 
      Solo, era rimasto solo! 
      Era ricaduto nel silenzio, si ritrovava in faccia al niente! 
      Solo,  non più la vista,  non più la voce dell'unico essere  umano 
      che ancora lo teneva attaccato alla terra!  Non era meglio morire, 
      anche col rischio di passare per la lugubre porta dei patimenti? 
      L'idea di un suicidio, scacciata dal suo amico,  allontanata dalla 
      sua presenza, ritornava allora a drizzarsi come un fantasma vicino 
      al letto di Faria. 
      "Se potessi morire" disse,  "andrei dove è andato lui.  Ma come si 
      fa a morire? E' ben facile" riprese ridendo. "Resto qui,  mi getto 
      sul primo che entra, lo strangolo e sarò ghigliottinato." 
      Ma siccome accade che tanto nei grandi dolori, quanto nelle grandi 
      tempeste  l'abisso  si  trova fra le due sommità dei flutti,  così 
      Dantès  indietreggiò  all'idea  di  questa   morte   infamante   e 
      precipitosamente  discese  da  questa  disperazione  ad  una  sete 
      ardente di vita e di libertà. 
      "Morire!  Oh,  no!" esclamò.  "Non vale la pena  di  aver  vissuto 
      tanto,  di aver tanto sofferto,  per morire così. Morire era bene, 
      quando avevo preso la risoluzione l'altra volta, tanti anni fa, ma 
      ora sarebbe veramente troppo. No, io voglio vivere, voglio lottare 
      fino all'ultimo,  voglio riconquistare quella felicità che  mi  fu 
      tolta.  Prima  di  morire,  dimenticavo che ho i miei carnefici da 
      punire e forse anche  qualche  amico  da  ricompensare.  Ora  sarò 
      dimenticato  qui,  e  non  uscirò dal mio carcere che nello stesso 
      modo di Faria." 
      A questa parola Edmondo restò immobile,  cogli occhi  fissi,  come 
      colui  che  viene  colpito  da una repentina idea,  da un'idea che 
      spaventa.  D'un tratto si alzò,  portò la mano  alla  fronte  come 
      avesse  le vertigini,  fece due o tre giri intorno alla stanza,  e 
      tornò a fermarsi davanti al letto. 
      "Oh, oh, chi m'invia questo pensiero? Sei tu, o mio Dio?  Poiché i 
      soli  morti  escono  liberamente  da  qui,  prendiamo il posto dei 
      morti." 
      E senza aspettare il tempo di pentirsi di questa decisione,  senza 
      pensarci   oltre   per  timore  di  distruggere  questa  disperata 
      risoluzione, si chinò sopra il macabro sacco,  l'aprì col coltello 
      fatto  da  Faria,  levò  il cadavere dal sacco,  lo trascinò nella 
      propria cella,  lo depose sul suo letto,  gli pose  in  capo  quel 
      pezzo di tela di cui usava coprirsi,  baciò un'ultima volta quella 
      fronte agghiacciata,  provò nuovamente  a  chiudere  quegli  occhi 
      ribelli  che continuavano a rimanere aperti,  voltò la testa dalla 
      parte del muro,  affinché il carceriere,  portando il  cibo  della 
      sera, potesse credere che dormisse, cosa che non di rado accadeva, 
      rientrò  nel  sotterraneo,  tirò a sé il letto contro la muraglia, 
      giunse nell'altra stanza,  prese dal nascondiglio l'ago e il filo, 
      si  levò  i  suoi cenci affinché sotto la tela sentissero le carni 
      nude,  si adattò dentro al sacco,  si pose nella stessa situazione 
      in  cui era il cadavere,  e richiuse il sacco con una cucitura per 
      di dentro. Si sarebbe potuto sentire il battito del suo cuore,  se 
      per disgrazia in quel momento fosse entrato qualcuno. 
      Dantès  avrebbe  potuto  aspettare  la visita della sera,  ma egli 
      temeva che il Governatore avesse potuto cambiare decisione,  e che 
      avessero trasportato il cadavere qualche tempo prima. 
      Allora la sua ultima speranza si sarebbe perduta. 
      Il suo piano era stabilito, ecco ciò che egli contava di fare: 
      Se durante il tragitto i becchini si fossero accorti di portare un 
      vivo invece di un morto. Dantès non avrebbe lasciato loro il tempo 
      di  verificarlo:  con un vigoroso colpo di coltello avrebbe aperto 
      il sacco,  approfittando del loro terrore,  e sarebbe fuggito.  Se 
      avessero voluto fermarlo si sarebbe battuto col coltello. 
      Se lo avessero condotto al cimitero e depositato in una fossa,  si 
      sarebbe lasciato coprire di terra; quindi essendo notte,  appena i 
      becchini  avessero  voltato  le  spalle,   si  sarebbe  aperto  un 
      passaggio attraverso  la  terra  molle  e  sarebbe  fuggito.  Egli 
      sperava  che il peso della terra non sarebbe stato tanto grande da 
      non poterlo sollevare. Se poi s'ingannava, se al contrario il peso 
      della terra fosse stato così forte  da  morirne  soffocato,  tanto 
      meglio: tutto sarebbe finito! 
      Dantès  non aveva mangiato dal giorno innanzi.  Ma nella mattinata 
      non aveva pensato alla fame, e non vi pensava neppure allora. 
      La sua posizione era troppo  precaria  per  lasciargli  l'agio  di 
      fermare il suo pensiero su altre idee. 
      Il  primo  pericolo  che  correva  Dantès,  era che il carceriere, 
      portando  il  vitto  delle   sette,   si   fosse   accorto   della 
      sostituzione. 
      Fortunatamente,  più di venti volte, tanto per misantropia che per 
      stanchezza,  Dantès aveva ricevuto il carceriere addormentato e in 
      questi  casi,  d'ordinario,  quest'uomo  deponeva  il  pane  e  la 
      minestra sulla tavola e partiva senza dir parola. 
      Ma questa volta il carceriere poteva derogare dalle sue  abitudini 
      di mutismo,  interrogare Dantès, e vedendo che non gli rispondeva, 
      avvicinarsi al letto e scoprir tutto. 
      Allorché si avvicinarono le sette, cominciarono le vere angosce di 
      Dantès. 
      Si sforzava di comprimere colla  mano  il  petto  per  moderare  i 
      palpiti  del  cuore,  mentre coll'altra si asciugava il sudore che 
      scorreva lungo le tempie, dei brividi agitavano tutto il corpo,  e 
      di  tratto  in  tratto  gli  stringevano il cuore,  come una morsa 
      ghiacciata. Allora credeva di morire. 
      Le ore passarono senza alcun movimento nel Castello  e  Dantès  si 
      persuase  che  aveva  evitato  il primo pericolo.  Ciò era di buon 
      augurio. 
      Finalmente, verso l'ora stabilita dal Governatore,  cominciarono a 
      sentirsi dei passi su per la scala. Edmondo capì che era giunto il 
      momento. 
      Si armò di tutto il suo coraggio,  trattenne il respiro, e sarebbe 
      stato pienamente contento se avesse potuto  trattenere  ugualmente 
      le pulsazioni delle arterie. 
      Udì un rumore alla porta, il passo era doppio. 
      Dantès  sospettò  che  fossero  i  due  becchini  che  venivano  a 
      prenderlo.  Questo sospetto si cambiò in certezza quando intese il 
      rumore che fecero nel deporre il cataletto. 
      La  porta  s'aprì,  una  luce  giunse  fino  agli occhi di Dantès. 
      Attraverso  la  tela  che  lo  copriva,  vide  due  ombre  che  si 
      avvicinavano  al letto.  Una terza restava alla porta,  tenendo in 
      mano un lanternone. 
      I due uomini che si erano accostati al letto afferrarono il  sacco 
      alle due estremità. 
      "Perbacco,  per  essere  un  vecchio magro,  è ben pesante!" disse 
      quello che lo sollevava dalla testa. 
      "Si dice che ogni anno le ossa  diventino  più  pesanti  di  mezza 
      libra..." disse l'altro, che lo prendeva per i piedi. 
      "Hai fatto bene il nodo?" domandò il primo. 
      "Sarebbe  da  bestia  il  caricarci di un peso inutile" rispose il 
      secondo, "lo farò quando siamo giù." 
      "Hai ragione; andiamo, dunque." 
      "Perché questo nodo?" si domandò Dantès. 
      Il preteso morto fu trasportato dal letto alla bara. 
      Edmondo s'irrigidiva per meglio rappresentare la parte di defunto. 
      Fu posto sul cataletto,  e l'esiguo corteo,  rischiarato dall'uomo 
      che portava il lanternone, e che camminava avanti, montò la scala. 
      D'un tratto avverti l'aria fresca ed aperta della notte. 
      Dantès  riconobbe il maestrale.  Questa sensazione così istantanea 
      fu per lui di delizia ad un tempo e d'angoscia. I portatori fecero 
      una ventina di passi,  poi si fermarono e  deposero  al  suolo  la 
      bara. 
      Uno dei portatori si allontanò,  e Dantès intese gli stivali sulle 
      pietre. 
      "Dove sono adesso?" si chiese Dantès. 
      "Sai che non è leggero affatto?" disse quello  che  era  vicino  a 
      Dantès sedendosi sull'orlo del cataletto. 
      Il  primo  impulso  di  Dantès  fu  quello  di  disfarsi  di  lui; 
      fortunatamente si trattenne. 
      "Fammi lume,  animale" disse  quello  dei  portatori  che  si  era 
      allontanato, "o non troverò ciò che cerco." 
      L'uomo col lanternone obbedì, quantunque l'ingiunzione fosse stata 
      fatta poco convenientemente. 
      "E che cosa cerca?" si domandò nuovamente Dantès.  "Una pala senza 
      dubbio." 
      Un'esclamazione di soddisfazione  indicò  che  il  becchino  aveva 
      trovato ciò che cercava. 
      "Finalmente!" disse l'altro. "Ce n'è voluto..." 
      "Sì" rispose il primo, "ma non avrà perduto niente ad aspettare." 
      A queste parole si avvicinò ad Edmondo, che sentì deporre vicino a 
      lui  un  corpo  pesante  e  sonoro: nel medesimo istante una corda 
      circondò suoi piedi con una viva e dolorosa compressione. 
      "Ebbene, è fatto il nodo?" domandò quel becchino rimasto inattivo. 
      "Ed è fatto bene" disse l'altro, "ne garantisco." 
      "In questo caso, avanti." 
      E sollevato il cataletto, si rimisero in cammino. 
      Fecero una cinquantina di passi circa, poi si fermarono per aprire 
      una porta,  quindi ripresero il moto: il  rumore  delle  onde  che 
      s'infrangevano  contro  la  roccia  sulla  quale era fabbricato il 
      Castello giungeva sempre più distintamente all'orecchio di  Dantès 
      a misura che avanzavano. 
      "Cattivo  tempo!"  disse  uno dei becchini,  "Non è una bella cosa 
      trovarsi in mare con questa nottata." 
      "Sì" disse l'altro, "il sapiente corre gran pericolo di bagnarsi." 
      Ed entrambi scoppiarono in una risata. 
      Dantès non comprese bene la forza dello scherzo, ciononostante gli 
      si drizzarono i capelli sulla testa. 
      "Va bene, eccoci arrivati..." riprese il primo. 
      "Più avanti, più avanti" disse l'altro,  "tu sai bene che l'ultimo 
      rimase  infranto sopra uno scoglio,  e che il Governatore ci disse 
      l'indomani che non eravamo buoni a niente." 
      Furono fatti ancora cinque o  sei  passi  sempre  salendo,  quindi 
      Dantès  sentì  che veniva preso per la testa e per i piedi,  e che 
      tutto il suo corpo veniva fatto dondolare. 
      "Uno" dissero i becchini, "due, e tre!..." 
      E nello stesso tempo  si  sentì  slanciato  in  un  enorme  vuoto, 
      traversando  lo spazio come un uccello ferito,  e cadendo,  sempre 
      con uno spavento che gli agghiacciava il cuore. 
      Quantunque  tirato  in  basso  da  qualche  cosa  di  pesante  che 
      precipitava  ancora più il suo rapido volo,  gli sembrò che questa 
      caduta durasse un secolo. 
      Finalmente con  un  tonfo  spaventoso,  entrò  come  un  dardo  in 
      un'acqua  gelida,  che  gli  fece gettare un grido,  soffocato nel 
      medesimo istante dell'immersione.  Dantès era  stato  lanciato  in 
      mare e veniva affondato da una grossa pietra attaccata ai piedi. 
      Il mare è il cimitero del Castello d'If. 
                                 Capitolo 21. 
                             L'ISOLA DI TIBOULEN. 
 
 
      Dantès,  stordito, quasi soffocato, ebbe la presenza di spirito di 
      trattenere il respiro,  e siccome aveva la mano dritta  armata  di 
      coltello,  pronta a qualunque evento,  come si disse, così sventrò 
      rapidamente il sacco, cavò il braccio, quindi la testa. Ma allora, 
      malgrado tutti gli sforzi per  sollevare  la  pietra,  continuò  a 
      sentirsi tirare in basso,  si curvò,  cercò la corda che legava le 
      sue gambe,  e  con  uno  sforzo  supremo  la  troncò  precisamente 
      nell'istante che stava per soffocare. 
      Allora,  dando  un  vigoroso  colpo di piede,  rimontò libero alla 
      superficie  dell'acqua,   mentre  la  pietra  trascinava  nel  più 
      profondo  del  mare  quel  grossolano tessuto che per poco non era 
      divenuto il suo sudario sepolcrale. 
      Dantès non prese che il  tempo  per  respirare,  e  s'immerse  una 
      seconda  volta,  perché  la prima precauzione che doveva prendere, 
      era quella di evitare l'attenzione delle guardie. 
      Quando  ricomparve  una  seconda  volta,   era  già  lontano   una 
      cinquantina  di passi dal luogo della sua caduta: vide al di sopra 
      della sua testa un cielo nero e  tempestoso  alla  superficie  del 
      quale il vento faceva scorrere rapidamente le nuvole, scoprendo ad 
      intervalli  qualche  piccolo  punto  azzurro,  illuminato  da  una 
      stella. 
      Davanti a lui si presentava la tetra e muggente pianura delle onde 
      che cominciavano ad accavallarsi come segno  di  vicina  tempesta, 
      mentre dietro, più nero del mare, più nero del cielo, si innalzava 
      come un fantasma minaccioso, il gigante di granito di cui la tetra 
      punta sembrava un braccio steso per riafferrare la sua preda. 
      Sullo  scoglio  più  alto  vide  un lanternone che rischiarava due 
      ombre.  Gli sembrava che queste due ombre fossero chinate sul mare 
      con  inquietudine,  Infatti,  questi  due strani becchini dovevano 
      avere inteso il grido che aveva emesso nel traversare  lo  spazio. 
      Dantès si immerse di nuovo e fece un lungo tragitto sott'acqua. 
      Questa manovra gli era familiare, e nel mare del Faro gli attirava 
      d'ordinario molti ammiratori, che lo avevano sovente proclamato il 
      più abile nuotatore di Marsiglia. 
      Allorché ritornò alla superficie, il lanternone era scomparso. 
      Occorreva orizzontarsi. 
      Fra  le isole che circondano il Castello d'If,  le più vicine sono 
      Ratonneau e Pomègue;  ma Ratonneau e Pomègue  sono  abitate,  come 
      pure  la  piccola  isola  di Daume.  L'isola più sicura era dunque 
      quella di Tiboulen o quella di Lemaire.  Le isole di Tiboulen e di 
      Lemaire  sono distanti una lega dal Castello d'If.  Non per questo 
      Dantès si astenne dal voler raggiungere una di queste due. Ma come 
      ritrovare queste isole in  mezzo  ad  una  notte  che  s'imbruniva 
      sempre più intorno a lui? 
      In  quel momento vide brillare come una stella il faro di Planier. 
      Dirigendosi in linea retta  a  questo  faro  lasciava  l'isola  di 
      Tiboulen  un poco a sinistra;  tenendosi dunque verso quella parte 
      doveva incontrare  cammin  facendo  quest'isola.  Ma,  lo  abbiamo 
      detto, vi era una lega almeno dal Castello d'If all'isola. 
      Faria, nella sua prigione, aveva spesse volte ripetuto al giovane, 
      vedendolo  afflitto  ed ozioso: "Dantès,  non vi lasciate andare a 
      questa mollezza,  annegherete se tenterete di fuggire e le  vostre 
      forze non saranno state esercitate...". 
      Sotto  l'onda  pesante  ed  amara,  queste  parole  erano venute a 
      risuonare alle orecchie di Dantès;  si  era  affrettato  allora  a 
      rimontare  e  a fendere le onde per vedere se effettivamente aveva 
      perduto le forze.  Si accorse  con  gioia  che  la  sua  obbligata 
      inazione nulla aveva tolto al suo vigore e alla sua agilità,  e si 
      convinse che era ancor padrone di quell'elemento  di  cui  si  era 
      fatto gioco fin dall'infanzia. D'altronde, la paura, questa rapida 
      persecutrice, raddoppiava il vigore di Dantès. 
      Egli ascoltava,  sospeso sulla cima dei flutti,  se qualche rumore 
      giungeva al suo orecchio. Ogni volta che s'innalzava sull'apice di 
      un'onda,  il suo rapido sguardo percorreva il visibile orizzonte e 
      tentava di fendere la spessa oscurità. 
      Ogni  onda  più  alta  delle  altre  gli  pareva  una barca che lo 
      perseguitasse;  e  allora  raddoppiava  i  suoi  sforzi,   che  lo 
      allontanavano,  è  vero,  ma  dovevano ben presto estenuare le sue 
      forze. 
      Ciononostante nuotava,  e già il terribile castello si perdeva nel 
      vapore notturno. Non lo distingueva più, ma lo sentiva sempre. 
      Passò  un'ora  nella  quale  Dantès,  esaltato  dal  sentimento di 
      libertà che padroneggiava tutta la sua persona, continuò a fendere 
      i flutti nella direzione stabilita. 
      "Vediamo" diceva tra sé, "è un'ora che nuoto;  ma siccome il vento 
      è contrario, ho dovuto perdere rapidità. Frattanto, a meno che non 
      abbia   sbagliato  direzione  non  devo  esser  molto  lontano  da 
      Tiboulen. Ma se mi fossi sbagliato?" 
      Un fremito passò per tutto il corpo del nuotatore.  Tentò di  fare 
      un  poco  il  morto,  per  riposarsi,  ma il mare aumentava la sua 
      forza, e comprese ben presto che questo sollievo,  sul quale aveva 
      calcolato, diveniva impossibile. 
      "Ebbene" disse, "nuoterò sino alla fine, sino a che le mie braccia 
      si stanchino, sino a che le mie gambe si irrigidiscano, sino a che 
      i crampi investano tutto il mio corpo, e poi andrò a fondo!" 
      Si rimise a nuotare colla forza e l'impulso del disperato. 
      D'un tratto gli sembrò che il cielo, già tetro, si oscurasse ancor 
      di più, che una nube fitta, pesante, compatta, si abbassasse verso 
      di lui; nel medesimo istante sentì un forte dolore al ginocchio. 
      L'immaginazione,  colla sua incalcolabile prontezza, gli disse che 
      quello era l'urto  di  una  pallottola  e  immediatamente  avrebbe 
      sentito  l'esplosione  del  colpo  di fucile,  ma l'esplosione non 
      rintronò.  Dantès allungo la  mano,  e  sentì  resistenza.  Ritirò 
      l'altra  gamba,  e toccò terra.  Vide allora che cos'era l'oggetto 
      creduto una nube. 
      A venti passi da lui s'innalzava un  ammasso  di  scogli  a  forma 
      bizzarra,   che   si   sarebbero  presi  per  fiamme  pietrificate 
      all'istante della loro più ardente  combustione.  Era  l'isola  di 
      Tiboulen. 
      Dantès  si  rialzò,  fece  qualche  passo  in avanti,  e si stese, 
      ringraziando Dio, sopra quelle punte di granito che gli sembrarono 
      più morbide del più soffice letto. 
      Quindi, ad onta del vento,  ad onta della tempesta,  ad onta della 
      pioggia  che  cominciava  a cadere,  stanco e affaticato come era, 
      s'addormentò di quel delizioso  sonno  dell'uomo  in  cui  l'anima 
      veglia nella coscienza di una gioia inattesa. 
      Di  lì  ad  un'ora,  Edmondo  si svegliò all'immenso fragore di un 
      tuono;  la tempesta si era scatenata nello spazio e batteva l'aere 
      col suo volo rumoreggiante. 
      Di  tratto  in  tratto,  un  lampo  discendeva  dal  cielo come un 
      serpente di fuoco,  e illuminava  i  flutti  e  le  onde,  che  si 
      accavallavano come i vortici di un immenso caos. 
      Dantès,  coll'occhio  esperto del marinaio,  non si era ingannato: 
      aveva approdato alla prima delle due isole, che effettivamente era 
      quella di Tiboulen;  la sapeva  nuda,  scoperta  e  senza  il  più 
      piccolo  asilo.  Ma  quando  la tempesta sarebbe cessata,  egli si 
      sarebbe rimesso  in  mare  per  raggiungere  nuotando  l'isola  di 
      Lemaire,  ugualmente  arida,  ma  più  larga  e di conseguenza più 
      ospitale. 
      Una roccia alquanto sporgente offrì un momentaneo asilo  a  Dantès 
      egli  vi  si  rifugiò,  e  quasi  nel medesimo istante la tempesta 
      scoppiò in tutto il suo furore. 
      Edmondo sentiva tremare la roccia sotto la quale si era  messo  al 
      coperto, e i flutti, infrangendosi contro la base della gigantesca 
      piramide,  arrivavano a spruzzarlo. Per quanto fosse al sicuro, in 
      mezzo a quel profondo fracasso, ed a quei folgoranti bagliori, era 
      preso da  una  specie  di  vertigine.  Gli  sembrava  che  l'isola 
      tremasse sotto di lui e da un momento all'altro andasse,  come uno 
      straordinario vascello all'ancora, a spezzare il fondo o ad essere 
      inghiottito nella immensa voragine. 
      Si ricordò allora che non  aveva  mangiato  da  ventiquatt'ore,  e 
      aveva fame e sete. Stese le mani e la testa, e bevve l'acqua della 
      tempesta che colava a rivoli dallo scoglio. 
      Quando si rialzò, un baleno che sembrava squarciasse il cielo fino 
      al trono abbagliante di Dio, illuminò lo spazio. 
      Alla  luce  del  lampo,  Dantès,  fra l'isola di Lemaire e il capo 
      Croisselle, a un quarto di lega, vide, come uno spettro, scivolare 
      dall'alto  di  un  flutto  al  fondo  di  un  abisso   una   barca 
      peschereccia trasportata ad un tempo dall'uragano e dall'onda. 
      Dopo  un  minuto  il  fantasma  ricomparve  sulla cima di un altro 
      flutto avvicinandosi con una celerità spaventevole.  Dantès  volle 
      gridare,  cercò  qualche straccio di tela da agitare nell'aria per 
      far capire che stavano per perdersi; ma lo vedevano da se stessi. 
      Al chiarore di un altro  lampo  il  giovane  vide  quattro  uomini 
      aggrappati all'albero ed alle funi;  un quinto si teneva attaccato 
      al manubrio del timone già rotto. 
      Questi uomini  lo  videro  anch'essi  poiché  grida  disperate,  e 
      trasportate  dalla fischiante bufera giunsero al suo orecchio.  Al 
      di sopra dell'albero, troncato come un ramoscello, si agitavano, a 
      colpi ripetuti e frequenti, gli avanzi di una vela in pezzi. Ad un 
      tratto le funi che ancora la trattenevano,  si ruppero e disparve, 
      trasportata  sotto  la  cupa  profondità del cielo al modo di quei 
      grandi uccelli bianchi sotto le nere nubi. 
      Nello stesso tempo uno scroscio orribile,  e le  grida  di  agonia 
      giunsero fino a Dantès. 
      Aggrappato  come  una  sfinge  al  suo  scoglio  di  dove guardava 
      l'abisso,  un nuovo lampo gli  mostrò  il  piccolo  bastimento  in 
      pezzi,  e,  fra gli avanzi,  delle teste col viso disperato, delle 
      braccia stese verso il cielo. 
      Quindi tutto ritornò nella notte. 
      Il terribile spettacolo durò quanto un lampo. 
      Dantès si precipitò sul  pendio  sdrucciolevole  delle  rocce  col 
      pericolo di rotolare egli stesso in mare. 
      Guardò, ascoltò ma non intese né vide più niente. 
      Non  più  grida,  non più sforzi umani,  la sola tempesta,  questo 
      grande spettacolo della natura, continuava a ruggire coi venti,  a 
      spumeggiare coi flutti. 
      Un  poco  per  volta il vento si acquietò,  il cielo voltolò verso 
      occidente dei grossi nuvoloni grigi,  e,  per così dire,  staccati 
      dall'uragano;  il cielo ricomparve con le stelle più brillanti che 
      mai; ben presto verso l'est,  una lunga striscia rossastra disegnò 
      sull'orizzonte  delle  ondulazioni di un azzurro nero,  le onde si 
      commossero,  una subìta luce corse sulle loro cime,  e  cangiò  le 
      loro vette spumeggianti in criniere dorate. 
      Era il giorno. 
      Dantès  restò  immobile  e  muto davanti a così grande spettacolo, 
      come se fosse la prima volta che lo vedeva;  lo aveva  dimenticato 
      nel  lungo  tempo  trascorso  nel  Castello d'If.  Si rivolse alla 
      fortezza, interrogando con un lungo sguardo la terra ed il mare. 
      Il  tetro  fabbricato  usciva  dal  seno  delle  onde  con  quella 
      imponente   maestà   propria  delle  cose  immobili  che  sembrano 
      comandare e sorvegliare. Potevano essere le cinque del mattino; il 
      mare continuava a calmarsi. 
      "Fra due o tre ore" rifletteva Edmondo,  "il carceriere  rientrerà 
      nella  mia  camera,  mi  cercherà invano,  darà l'allarme,  allora 
      scopriranno  il  foro  ed  il  passaggio   sotterraneo;   verranno 
      interrogati  quelli  che  mi  buttarono  in mare e che devono aver 
      inteso il grido che gettai.  Subito dopo tutte le barche  riempite 
      di soldati armati,  correranno dietro il disgraziato fuggitivo che 
      sapranno bene non poter essere lontano, il cannone avvertirà tutta 
      la costa che è proibito dare  asilo  ad  un  uomo  errante,  nudo, 
      affamato.  Le  spie  e gli sbirri di Marsiglia saranno avvertiti e 
      percorreranno la costa,  mentre il governatore del  Castello  d'If 
      farà   percorrere   il   mare.   Allora  perseguitato  nell'acqua, 
      circondato sulla terra, che accadrà di me? Ho fame,  ho freddo,  e 
      ho  perfino  abbandonato  il  coltello  salvatore  d'impaccio  per 
      nuotare.  Sono all'arbitrio del primo paesano che vorrà guadagnare 
      una  somma  per  consegnarmi;  non  ho più né forza,  né idee,  né 
      volontà. Oh, mio Dio, voi sapete se ho sofferto,  e voi potete far 
      più per me, di quello che non ho potuto fare io stesso!" 
      Nel  momento  in  cui Edmondo,  in una specie di delirio cagionato 
      dallo spossamento delle forze,  e  dal  vuoto  del  suo  cervello, 
      ansiosamente  rivolto  verso il Castello d'If,  pronunciava questa 
      ardente  preghiera,  vide  comparire  sulla  punta  dell'isola  di 
      Pomègue spiegando la sua vela latina,  un piccolo bastimento,  che 
      soltanto l'occhio di un marinaio poteva  discernere,  una  tartana 
      genovese, sulla linea ancora mezzo oscura del mare. 
      Veniva  dal  porto  di  Marsiglia  e guadagnava il largo cacciando 
      innanzi all'acuta prua una scintillante  schiuma  che  apriva  una 
      strada facile ai suoi rotondi fianchi. 
      "Oh"  gridò  Edmondo,  "in  una  mezz'ora  potrei raggiungere quel 
      naviglio se non temessi di essere interrogato, riconosciuto per un 
      fuggitivo e ricondotto a Marsiglia! Che fare?  che dir loro?  qual 
      favola  inventare da cui possano rimanere ingannati?  Quei marinai 
      sono tutti contrabbandieri, sono semipirati e con la scusa di fare 
      cabotaggio corseggiano le coste.  Preferiranno vendermi  piuttosto 
      che fare una sterile e buona azione.  Aspettiamo... Ma aspettare è 
      cosa impossibile.  Morrò di fame fra qualche ora la poca forza che 
      mi   rimane  sarà  svanita;   d'altronde  l'ora  della  visita  si 
      avvicina...  L'allarme non è ancora sparso,  forse non dubiteranno 
      di  niente,  posso farmi credere uno dei marinai di questo piccolo 
      legno che si è infranto la scorsa notte;  questa favola non  manca 
      di  verosimiglianza,  e nessuno tornerà a contraddirmi: sono tutti 
      annegati." 
      Dicendo queste parole,  Dantès guardò  nella  direzione  dove  era 
      naufragato il naviglio e rabbrividì. 
      Sulla  cresta di uno scoglio era rimasto il berretto frigio di uno 
      dei naufraghi,  e vicino a quello  fluttuavano  gli  avanzi  della 
      carena,  frantumi inerti che il mare batteva e ribatteva contro la 
      base dell'isola che percuotevano come imponenti arieti. 
      In un istante la risoluzione di Dantès  fu  presa:  si  rimise  in 
      mare,  nuotò  verso il berretto,  afferrò un pezzo di trave,  e si 
      diresse per tagliar la linea che doveva percorrere il bastimento. 
      "Ora sono salvo" mormorò. 
      Questa convinzione gli rese le forze. 
      Ben presto s'accorse che la tartana,  avendo il  vento  quasi  per 
      diritto  correva  di  bordo  fra  il  Castello  d'If e la torre di 
      Planier. 
      Dantès temette per  un  istante  che  invece  di  costeggiare,  il 
      piccolo  bastimento  non  guadagnasse il largo come avrebbe dovuto 
      fare se la sua destinazione fosse stata la Corsica o la  Sardegna, 
      ma  secondo il modo con cui manovrava,  il nuotatore riconobbe ben 
      presto che il naviglio,  come è d'uso di chi fa vela per l'Italia, 
      cercava di passare fra l'isola di Jaros, e quella di Calaseraigne. 
      Frattanto  il  naviglio  ed il nuotatore si avvicinavano l'uno all 
      altro;  anzi,  in una bordata,  il piccolo bastimento venne ad  un 
      quarto  di  lega circa verso Dantès.  Egli si sollevò ancora sulle 
      onde agitando il suo berretto in segno di  disgrazia,  ma  nessuno 
      del  bastimento  lo vide,  che anzi girò di bordo e ricominciò una 
      nuova bordata: Dantès pensò di chiamare.  Ma misurando coll'occhio 
      la distanza, capì che la sua voce non poteva giungere al naviglio, 
      trasportata  e coperta come era dalla brezza del mare e dal rumore 
      delle onde. 
      Allora si consolò della precauzione di aver preso quel trave. 
      Indebolito come era,  forse non avrebbe potuto sostenersi sul mare 
      fino  a  raggiungere  la  tartana,  e  a  colpo  sicuro,  come era 
      possibile, se la tartana passava senza vederlo, non avrebbe potuto 
      riguadagnare  la  costa.  Dantès,  quantunque  quasi  certo  della 
      direzione  che  seguiva  il  bastimento,  lo  accompagnava  con lo 
      sguardo ansioso fino al momento in cui gli parve che ritornasse  a 
      lui. 
      Allora  avanzò ad incontrarlo;  ma prima che si fossero raggiunti, 
      il bastimento ritornò a girar di bordo. 
      Subito Dantès,  con un estremo sforzo,  si  alzò  quasi  in  piedi 
      sull'acqua,  agitando  il  berretto  e  mandando uno di quei gridi 
      lamentosi che emettono i marinai agli estremi,  e che sembrano  il 
      lamento di qualche genio marittimo. 
      Questa volta fu veduto e inteso. 
      La tartana interruppe la sua manovra,  e voltò alla sua parte; nel 
      medesimo tempo vide che si preparava a mettere  una  scialuppa  in 
      mare.  Un  istante  dopo  la  scialuppa montata da due uomini,  si 
      dirigeva verso di lui battendo il mare a quattro remi. 
      Dantès allora lasciò sfuggire il trave di cui credeva non aver più 
      bisogno e nuotò  vigorosamente  per  risparmiare  metà  cammino  a 
      coloro che venivano a lui. 
      Il nuotatore però aveva calcolato forze che non possedeva;  allora 
      comprese di quanta utilità gli sarebbe ancora stato quel pezzo  di 
      legno  che  già  galleggiava  a  cento  passi  da lui.  Le braccia 
      cominciarono  a  irrigidirsi,   le  gambe   avevano   perduto   la 
      flessibilità,  i  movimenti  divenivano forzati e lenti,  il petto 
      anelante. 
      Gettò un secondo grido.  I due rematori raddoppiarono d'energia  e 
      uno di essi gli gridò in italiano: "Coraggio!". 
      La  parola  gli  giunse  al momento in cui un'onda,  che non aveva 
      avuto la forza di sormontare,  passava sopra la  sua  testa  e  lo 
      copriva di schiuma. 
      Egli   ricomparve  battendo  il  mare  coi  movimenti  ineguali  e 
      disperati di un uomo che sta per annegare;  mandò un terzo grido e 
      si sentì affondare nel mare,  come se avesse avuto ancora ai piedi 
      la pietra mortale.  L'acqua gli passò al  disopra  della  testa  e 
      attraverso di quella vide il cielo livido con delle macchie nere. 
      Uno  sforzo  violento  lo  ricondusse alla superficie.  Gli sembrò 
      allora di esser preso per i capelli, poi non vide più cosa alcuna, 
      non intese più niente; era svenuto. 
      Quando riaprì gli occhi, Dantès si ritrovò sul ponte della tartana 
      che continuava il suo cammino.  Il suo primo sguardo fu per vedere 
      quale  direzione  teneva:  continuava ad allontanarsi dal Castello 
      d'If. 
      Dantès era talmente spossato,  che fu  preso  per  un  sospiro  di 
      dolore l'esclamazione di gioia che fece. 
      Come  si  disse,  era steso sul ponte: un marinaio gli sfregava le 
      membra con una coperta di lana, un altro, che riconobbe per quello 
      che gli aveva fatto coraggio, gli introduceva in bocca il becco di 
      una zucca marina che faceva le veci di fiasco;  un terzo,  vecchio 
      marinaio, ad un tempo pilota e padrone, lo guardava col sentimento 
      di  pietà  egoista  che  provano  in  generale  gli uomini per una 
      disgrazia che essi hanno sfuggita, e che può all'indomani colpirli 
      di nuovo. 
      Qualche goccia di rhum della zucca rianimò il cuore indebolito del 
      giovane, mentre le frizioni che il marinaio prostrato continuava a 
      fare con la lana, ridavano elasticità alle sue membra. 
      "Chi siete?" domandò in cattivo francese il padrone. 
      "Sono" rispose Dantès in pessimo italiano,  "un marinaio  maltese. 
      Venivamo  da  Siracusa  carichi di vino e di tele.  La tempesta di 
      questa notte ci ha sorpresi al capo Morgiou,  e  siamo  andati  ad 
      infrangerci contro le rocce che vedete laggiù." 
      "Da dove venite?" 
      "Da quelle rocce,  dove ho avuto la fortuna di aggrapparmi, mentre 
      il nostro povero capitano vi batteva la testa.  Tre altri compagni 
      si  sono  annegati.  Credo  di  essere  il  solo rimasto vivo.  Ho 
      scoperto  il  vostro  naviglio  e  temendo  di  dovere   aspettare 
      lungamente  su  quell'isola  deserta,  mi  sono azzardato sopra un 
      frammento del  nostro  bastimento  per  tentare  di  raggiungervi. 
      Grazie"  continuò  Dantès,  "voi  mi  avete  salvato la vita.  Ero 
      perduto quando uno dei  vostri  marinai  mi  ha  afferrato  per  i 
      capelli." 
      "Sono  io" disse un marinaio dalla figura franca ed aperta,  ed un 
      viso con lunghe basette nere,  "ed era tempo,  perché  calavate  a 
      fondo." 
      "Sì"  disse  Dantès  stendendogli  la  mano,  "si,  amico mio,  vi 
      ringrazio una seconda volta." 
      "In fede mia" disse il marinaio,  "ho quasi esitato...  Con quella 
      barba lunga sei pollici,  e quei capelli lunghi un piede,  avevate 
      piuttosto l'aspetto d un brigante che d'un galantuomo." 
      Dantès si ricordò effettivamente che dal momento che  era  entrato 
      nel  Castello  d'If non aveva più tagliato i capelli,  e non aveva 
      fatto più la barba. 
      "Sì" disse,  "è un voto fatto alla Madonna di Piedigrotta,  in  un 
      momento di pericolo: stare dieci anni senza tagliarmi né barba, né 
      capelli.  Oggi  si  compie  l'espiazione  del  mio voto,  e poco è 
      mancato che non annegassi." 
      "Ma ora che faremo di voi?" domandò il padrone. 
      "Ahimè" rispose Dantès,  "ciò che vorrete.  La feluca si è perduta 
      il  capitano  è  morto.  Come vedete,  sono sfuggito alla medesima 
      sorte,  fortunatamente sono abbastanza buon  marinaio.  Lasciatemi 
      nel primo posto in cui prenderete terra, e ritroverò impiego sopra 
      qualche bastimento mercantile." 
      "Conoscete il Mediterraneo?" 
      "Vi navigo fino dalla mia infanzia." 
      "Sapete dove sono i buoni ancoraggi?" 
      "Vi  sono pochi porti,  anche dei più difficili,  nei quali io non 
      possa entrare e uscire ad occhi bendati." 
      "Ebbene dite  dunque,  padrone"  domandò  il  marinaio  che  aveva 
      salvato Dantès,  "se il compagno dice il vero,  cosa impedisce che 
      resti con noi?" 
      "Sì se dice il vero" rispose il padrone con  aria  incredula,  "ma 
      nello  stato  in  cui  si  trova questo povero diavolo si promette 
      molto, e si mantiene poco." 
      "Manterrò più di quello che vi ho promesso" disse Dantès. 
      "Oh oh!" fece il padrone ridendo. "Vedremo." 
      "Quando vorrete" riprese Dantès alzandosi. "Dove andate?" 
      "A Livorno." 
      "Allora,  invece di correre delle bordate che vi fanno perdere  un 
      tempo  prezioso,  perché  non  serrate  semplicemente  il vento da 
      presso?" 
      "Perché andremmo a dar dritto sull'isola di Rion." 
      "Vi passerete a più di venti braccia di distanza." 
      "Prendete dunque il timone" disse il padrone,  "e noi giudicheremo 
      della vostra maestria." 
      Il  giovane  si  mise  al  timone,  si  assicurò,  con una leggera 
      pressione,  che il bastimento fosse  obbediente,  e  vedendo  che, 
      senza essere di prima finezza, non si rifiutava, gridò: 
      "Alle braccia e alle boline." 
      I  quattro  marinai  che  formavano  l'equipaggio  corsero al loro 
      posto, mentre il padrone li guardava fare. 
      "Tirate" continuò Dantès. 
      I marinai obbedirono con molta precisione. 
      "Ora annodate bene." 
      Quest'ordine  fu  eseguito  come  i  due  primi,   e  il   piccolo 
      bastimento, invece di continuare a correre delle bordate, cominciò 
      a  dirigersi  verso  l'isola  di Rion,  presso la quale passò come 
      aveva predetto Dantès lasciandola a diritta  per  una  ventina  di 
      braccia. 
      "Bravo!" disse il padrone. 
      "Bravo!" ripeterono i marinai. 
      E  tutti  guardarono  meravigliati quest'uomo il cui sguardo aveva 
      ripreso un'intelligenza,  e il corpo  un  vigore,  che  erano  ben 
      lontani dal supporre in lui. 
      "Vedete"  disse Dantès lasciando il timone,  "che io potrò esservi 
      di qualche utilità,  almeno durante la  traversata.  Se  giunti  a 
      Livorno non mi vorrete più,  ebbene, mi lascerete, e ai primi mesi 
      di soldo vi rimborserò il  nutrimento  e  gli  abiti  che  vorrete 
      prestarmi." 
      "Sta  bene,  sta  bene" disse il padrone,  "potremo accomodarci se 
      sarete ragionevole." 
      "Un uomo vale  un  altr'uomo"  disse  Dantès,  "ciò  che  date  ai 
      compagni lo darete anche a me, e tutto è a posto." 
      "Non è giusto" disse il marinaio che aveva salvato Dantès, "perché 
      voi ne sapete più di noi." 
      "Ciò non riguarda te, Jacopo" disse il padrone, "ciascuno è libero 
      d'impegnarsi per quella somma che più gli conviene." 
      "Giusto" disse Jacopo, "non facevo che una semplice osservazione." 
      "Farai  meglio ancora a prestare a questo bravo giovane un paio di 
      pantaloni e una giacchetta, se li hai in più." 
      "No" disse Jacopo, "ma ho un paio di pantaloni ed una camicia." 
      "E quanto mi abbisogna" disse Dantès, "grazie amico mio." 
      Jacopo si lasciò scivolare giù dal boccaporto e rimontò un momento 
      dopo coi due capi di vestiario,  che Dantès indossò con una  gioia 
      indicibile. 
      "Vi occorre altro?" chiese il padrone. 
      "Un  tozzo  di pane ed un altro sorso di quell'eccellente rhum che 
      ho assaggiato, essendo gran tempo che non ho preso cibo." 
      Infatti, erano circa quarant'ore che non aveva mangiato. 
      Fu portato a Dantès un pezzo di pane,  e Jacopo  gli  presentò  la 
      zucca. 
      "Timone  a  basso-bordo"  gridò  il capitano,  volgendosi verso il 
      timoniere. 
      Dantès volse lo sguardo alla stessa parte portandosi la zucca alla 
      bocca ma la zucca rimase a mezz'aria. 
      "Osserva" domandò il padrone, "che accade nel Castello d'If?" 
      Di  fatto,  una  piccola  nube  bianca,  nube  che  aveva  fermato 
      l'attenzione di Dantès, sembrava coronare il ciglione del baluardo 
      a sud del Castello d'If. 
      Dopo  un  secondo,  il  rumore  d'una  lontana esplosione venne ad 
      estinguersi a bordo della tartana. 
      I marinai alzarono la testa guardandosi l'un l'altro. 
      "E che vuol dire questo?" domandò il padrone. 
      "Questa notte sarà evaso qualche prigioniero dal  Castello"  disse 
      Dantès, "ed ora sparano il cannone per dare l'allarme." 
      Il  padrone fissò lo sguardo sul giovane che dicendo queste parole 
      si era portata la zucca alla  bocca;  ma  lo  vide  assaporare  il 
      liquore  con  tanta  calma  e  soddisfazione,  che se pure ebbe un 
      qualche sospetto, questo sospetto non fece che attraversare il suo 
      spirito, e subito si estinse. 
      "Ecco  un  rhum  che  è   diabolicamente   forte"   disse   Dantès 
      asciugandosi  con  la  manica della camicia la fronte che grondava 
      sudore. 
      "In ogni caso" mormorò  il  padrone  guardandolo,  "tanto  meglio, 
      perché così avrò fatto acquisto di un brav'uomo." 
      Sotto  il  pretesto  di  essere  stanco,  Dantès  chiese allora di 
      sedersi al timone. 
      Il timoniere, ben contento di essere sollevato dalle sue funzioni, 
      consultò coll'occhio il padrone,  che gli fece segno  colla  testa 
      che poteva rimettere nelle mani del suo nuovo compagno la barra. 
      Dantès  poté restare cogli occhi fissamente rivolti dalla parte di 
      Marsiglia. 
      "Oggi quanti ne abbiamo del mese?" domandò Dantès a Jacopo che era 
      venuto a sedere vicino  a  lui  dopo  aver  perduto  di  vista  il 
      Castello d'If. 
      "Il 28 febbraio" rispose questi. 
      "Di che anno?" domandò ancora Dantès. 
      "Come di che anno?... Voi domandate di che anno?" 
      "Sì" rispose il giovane, "vi domando di che anno." 
      "Avete dimenticato in che anno siamo?" 
      "Che volete?  E' stata così grande la paura di questa notte" disse 
      ridendo Dantès,  "in cui poco è mancato che non perdessi la  vita, 
      che  la  mia  memoria ne è rimasta sconvolta: vi domando dunque di 
      quale anno siamo noi ai 28 di febbraio..." 
      "Dell'anno 1829" disse Jacopo. 
      Erano 14 anni precisi,  giorno dopo giorno,  che Dantès era  stato 
      arrestato.  Era entrato nel Castello d'If a 19 anni, e ne usciva a 
      33. 
      Un doloroso sorriso passò sulle sue labbra.  Si chiedeva cosa  era 
      avvenuto di Mercedes durante questo tempo,  in cui lo aveva dovuto 
      credere morto. 
      Quindi un lampo d'ira s'accese nei suoi occhi pensando a quei  tre 
      uomini ai quali doveva una lunga e penosa carcerazione,  e rinnovò 
      contro   Danglars,    Fernando   e   Villefort   quel   giuramento 
      d'implacabile   vendetta  che  aveva  già  pronunciato  nella  sua 
      prigione,  e questo giuramento non  era  più  una  vana  minaccia, 
      poiché a quell'ora, il più abile veleggiatore del Mediterraneo non 
      avrebbe certo potuto raggiungere la piccola tartana che navigava a 
      gonfie vele alla volta di Livorno. 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 22. 
                              I CONTRABBANDIERI. 
 
 
      Dantès non aveva passato ancora un giorno intero a bordo,  che già 
      sapeva con chi aveva a che fare. 
      Senza essere stato alla scuola del vecchio Faria, il degno padrone 
      della Giovane Amelia  (il  nome  della  tartana  genovese)  sapeva 
      press'a  poco  tutte  le  lingue che si parlavano intorno a questo 
      gran lago,  chiamato Mediterraneo,  dall'arabo fino al provenzale; 
      perciò  senza  aver  bisogno  d'interpreti,  persone qualche volta 
      noiose,  qualche altra indiscrete,  questa conoscenza delle lingue 
      gli  offriva  grandi  facilitazioni  per  conferire,   sia  con  i 
      bastimenti che incontrava in mare,  sia colle piccole  barche  che 
      rilevava  lungo  le  coste,  sia finalmente con quella gente senza 
      nome, senza patria, senza stato apparente,  di cui c'è sempre gran 
      numero sulle rive vicine ai porti di mare,  e che vivono di quelle 
      misteriose  e  celate  risorse,   che  bisogna   credere   vengano 
      dall'alto,  poiché  non hanno alcun mezzo di esistenza visibile ad 
      occhio nudo. 
      S'indovinerà facilmente che Dantès era a bordo di un bastimento di 
      contrabbandieri.  Per questo il padrone sulle prime aveva ricevuto 
      a  bordo Dantès con una certa diffidenza.  Era molto conosciuto da 
      tutti i doganieri della costa, e siccome esisteva fra lui e questi 
      signori un perfetto gioco di furberie,  così aveva per un  momento 
      pensato  che  Dantès  fosse  un  emissario  della  gabella,  e che 
      impiegasse quest'ingegnoso mezzo per scoprire qualcuno dei segreti 
      del mestiere.  Ma il modo brillante con cui Dantès si  era  tratto 
      d'impaccio  nel dirigere il battello,  l'aveva del tutto convinto. 
      Poi,  quando aveva visto quella nube  bianca  che  ondeggiava  sul 
      bastione del Castello d'If,  ed aveva udito la lontana esplosione, 
      ebbe un istante l'idea di aver ricevuto a bordo  colui  al  quale, 
      come  per  entrata  e uscita del re da una città,  viene accordato 
      l'onore dello sparo del cannone.  Però ciò lo  avrebbe  inquietato 
      meno  che  se il nuovo arrivato fosse appartenuto alla dogana;  ma 
      anche questa supposizione si era dissolta come la prima alla vista 
      della perfetta tranquillità della sua recluta. 
      Edmondo aveva dunque il vantaggio di  conoscere  il  suo  padrone, 
      mentre questi non sapeva chi fosse. 
      Da  chiunque  venissero  le  domande,  dal  suo padrone o dai suoi 
      compagni, egli tenne fermo,  e non fece alcuna rivelazione.  Dando 
      moltissimi  indizi su Napoli e su Malta,  che conosceva al pari di 
      Marsiglia,  sostenne sempre con precisione la  sua  narrazione  in 
      modo da fare onore alla sua memoria. 
      I genovesi,  per quanto accorti, si lasciarono gabbare da Edmondo, 
      in favore del quale parlavano la sua affabilità, la sua esperienza 
      nautica,  e soprattutto la sua saggia dissimulazione.  Forse anche 
      quei genovesi erano uguali a quelle persone di mondo che non sanno 
      mai  altro  che quello che devono sapere,  e non credono mai altro 
      che quello che hanno interesse di credere. 
      Fu in questa reciproca fiducia che giunsero a Livorno. 
      Edmondo doveva tentare una  prima  prova:  sapere  se  si  sarebbe 
      riconosciuto  dopo  quattordici  anni  che  non  vedeva il proprio 
      volto.  Conservata un'idea abbastanza precisa di ciò  che  era  da 
      ragazzo, voleva vedere cosa era divenuto da uomo. 
      Aveva già preso terra più di venti volte a Livorno, e conosceva un 
      barbiere nella via Ferdinanda,  entrò da quello per farsi tagliare 
      barba e capelli. 
      Il barbiere guardò con meraviglia quest'uomo dalla barba  folta  e 
      nera  e  dai  lunghi capelli,  che assomigliava ad una delle belle 
      teste del Tiziano. 
      A quell'epoca non era ancora venuta la moda  di  barba  e  capelli 
      così  lunghi;  oggi  un  barbiere  si  meraviglierebbe se qualcuno 
      dotato di questi vantaggi naturali acconsentisse a privarsene. 
      Il  barbiere  livornese  però  si  mise   all'opera   senza   fare 
      osservazioni. 
      Allorché  l'operazione  fu  compiuta,  quando Edmondo sentì il suo 
      mento perfettamente raso,  quando i suoi  capelli  furono  ridotti 
      alla ordinaria lunghezza, domandò uno specchio e si guardò. 
      Come  si  disse,  egli  aveva  allora  trentatré  anni,  ed i suoi 
      quattordici anni di prigionia avevano apportato, per dir così,  un 
      gran  cambiamento  morale nella sua fisonomia.  Dantès era entrato 
      nel Castello d'If con quel viso rotondo,  ridente,  aperto,  che è 
      proprio  del  giovane felice al quale i primi anni della vita sono 
      stati benigni e che calcola sull'avvenire  come  su  una  naturale 
      prosecuzione del passato. 
      Tutto ciò era molto mutato. 
      L'ovale del viso si era allungato di molto, la bocca ridente aveva 
      assunto  linee  decise  e  serrate che indicavano risoluzione,  le 
      sopracciglia si erano inarcate,  sotto una ruga unica  e  pesante, 
      gli  occhi si erano abituati ad una profonda tristezza,  dal fondo 
      della  quale  trasparivano  ad  intervalli  i  cupi  baleni  della 
      misantropia  e  dell'odio:  la sua carnagione priva da lungo tempo 
      della luce del giorno e dei raggi del sole, aveva preso quel color 
      pallido che fa,  quando il viso è circondato da capelli e  basette 
      nere,  la  bellezza  aristocratica  degli  abitanti  del Nord.  La 
      scienza profonda che  aveva  acquistato  lo  aveva  ornato  di  un 
      intelligente sicurezza. Inoltre, quantunque di statura molto alta, 
      aveva acquistato quel vigore membruto di un corpo avvezzo sempre a 
      concentrare le forze su di sé. 
      All'eleganza  delle  forme  nervose  e  gracili  era  succeduta la 
      solidità delle forme arrotondate e muscolari. Quanto alla voce, le 
      preghiere,  i singhiozzi e le imprecazioni l'avevano  cambiata  in 
      modo  tale,  che ora aveva un suono di strana dolcezza,  ed ora un 
      accento rozzo e quasi rauco. 
      Inoltre i suoi occhi, mantenuti costantemente nell'oscurità,  o in 
      una  debole  luce,  avevano  acquistato  la facoltà di distinguere 
      nella notte gli oggetti come la iena e il  lupo.  Edmondo  sorrise 
      nel  vedersi:  era  impossibile che il miglior amico,  se pure gli 
      restava un amico, lo avesse riconosciuto,  perché non conosceva se 
      stesso. 
      Il  padrone  della  Giovane  Amelia,  che  aveva molto interesse a 
      mantenere fra i suoi un uomo del  merito  di  Edmondo,  gli  aveva 
      proposto un anticipo sui futuri guadagni. Edmondo aveva accettato. 
      Sua  prima  cura  uscendo  dal  barbiere  che aveva operato questa 
      metamorfosi,  fu di entrare in un magazzino e comprarsi un vestito 
      completo da marinaio. 
      Questo  vestito,  come ognuno sa,  è molto semplice: si compone di 
      calzoncini bianchi, camicia a righe, e berretto rosso. 
      In questo costume,  riportando a Jacopo la camicia ed  i  calzoni, 
      egli  si  presentò  nuovamente  al padrone della Giovane Amelia al 
      quale fu costretto a ripetere la sua storia. Il padrone non voleva 
      riconoscere in questo marinaio elegante l'uomo dalla folta  barba, 
      dai capelli e dal corpo bagnato d'acqua di mare che aveva raccolto 
      nudo e semivivo sul ponte del suo battello. 
      Soddisfatto  del  suo  buon  aspetto,  rinnovò  dunque a Dantès le 
      proposte d'ingaggio; ma Dantès che aveva i suoi progetti non volle 
      accettarle che per tre mesi. 
      Del resto l'equipaggio della  Giovane  Amelia  era  molto  attivo, 
      sottoposto  agli ordini di un capitano che aveva preso l'abitudine 
      di non perdere il suo tempo. 
      Non era da otto giorni giunto a Livorno,  che già i capaci fianchi 
      del  naviglio  erano  riempiti  di  mussoline colorate,  di cotoni 
      proibiti, di polvere inglese e di tabacco,  su cui la dogana aveva 
      dimenticato di porre il bollo. Si trattava di far uscire tutto ciò 
      da Livorno,  porto franco e per conseguenza esente da visita,  per 
      sbarcarlo  sulle  rive  della  Corsica,  dove  alcuni  speculatori 
      s'incaricavano di passare il carico in Francia. 
      Si partì. 
      Edmondo solcò di nuovo codesto mare azzurro, primo orizzonte della 
      sua  gioventù  che aveva riveduto tanto spesso nei sogni della sua 
      prigione.  Lasciò  alla  sua  destra  la  Gorgona,  alla  sinistra 
      Pianosa, e avanzò verso la patria di Paoli e di Napoleone. 
      L'indomani, montando sul ponte, ciò che faceva sempre di buon'ora, 
      il  padrone  ritrovò Dantès appoggiato al parapetto del bastimento 
      che con una strana espressione guardava un ammasso  di  scogli  di 
      granito  che  ll  sole  nascente  coloriva di una tinta rosea: era 
      l'isola di Montecristo. 
      La Giovane Amelia la lasciò a tre quarti di miglio sulla sinistra, 
      continuò il suo viaggio verso la Corsica. 
      Dantès pensava nel passare lungo questa isola,  che per lui  aveva 
      un  nome  tanto  sonoro:  "Non  avrei  che  balzare in mare,  e in 
      mezz'ora sarei su  quella  terra  promessa".  Ma  giunto  là,  che 
      avrebbe fatto senza gli utensili necessari per scoprire il tesoro, 
      senza  armi  per  difenderlo?  D'altronde  cosa  avrebbero detto i 
      marinai? e il padrone? 
      Bisognava aspettare. 
      Aveva aspettato la libertà quattordici anni, poteva bene aspettare 
      ora che era libero, sei mesi ed anche un anno,  le ricchezze.  Non 
      avrebbe  accettato  la  libertà  senza le ricchezze,  se gli fosse 
      stata proposta?  D'altronde questa ricchezza non era ancora  tutta 
      chimerica?  Nata  nel  cervello  malato del povero Faria,  non era 
      fors'anche morta con lui?  E' vero che  quella  lettera  di  Guido 
      Spada  era  stranamente  precisa,  e  Dantès  ripeteva  da un capo 
      all'altro la lettera di cui non aveva dimenticato una parola. 
      Giunse la sera,  Edmondo vide l'isola passare per tutte le tinte e 
      gradazioni  di  colori  del  crepuscolo e perdersi del tutto nelle 
      tenebre. Ma non per lui che aveva lo sguardo abituato all'oscurità 
      del carcere senza dubbio continuò a scorgerla,  perché fu l'ultimo 
      a discendere dal ponte. 
      All'indomani si svegliarono all'altezza d'Aleria. 
      Bordeggiarono  tutta la giornata;  nella sera si videro dei fuochi 
      sulla costa.  Alla disposizione di questi  fuochi  compresero  che 
      senza  dubbio si sarebbe sbarcato,  perché un fanale salì al posto 
      della bandiera alla cima del piccolo bastimento,  che si accostò a 
      tiro di fucile dalla riva. 
      Dantès  si  accorse  che  il  padrone  della  Giovane Amelia aveva 
      portato sopra il ponte,  nell'eseguire la manovra per accostarsi a 
      terra, alcune colubrine, simili ai fucili da cavalletto, che senza 
      far  gran  rumore  potevano colpire alla distanza di un miglio una 
      palla dalle quattro alle dodici once.  Questa precauzione però  fu 
      inutile: per quella sera si compì tutta l'operazione pulitamente e 
      tranquillamente. 
      Quattro  scialuppe  si  accostarono  con  poco  rumore  al piccolo 
      bastimento,  che,  certamente per far loro onore,  mise in mare la 
      propria;  e  queste cinque scialuppe si portarono tanto bene,  che 
      allo spuntar del giorno tutto il carico,  dal bordo della  tartana 
      genovese, era passato in terra ferma. 
      Il padrone della Giovane Amelia era un uomo di tale scrupolo nelle 
      sue cose,  che nella stessa notte fu fatto il riparto dei guadagni 
      del primo scarico: ciascun marinaio ebbe cento lire toscane,  cioè 
      ottantaquattro lire di Francia. 
      Ma  la  spedizione non era finita,  venne voltata la prua verso la 
      Sardegna: si trattava di tornare a caricare il  bastimento  appena 
      scaricato. 
      La  seconda  operazione si fece tanto felicemente quanto la prima: 
      la Giovane Amelia era secondata dalla fortuna. 
      Il nuovo carico fu per il ducato di Lucca. 
      Si componeva quasi esclusivamente di  sigari  d'Avana  e  di  vino 
      Xeres  e  di  Malaga.  Là  però  ebbero  a battersi con la dogana, 
      l'eterna nemica del padrone della  Giovane  Amelia.  Un  doganiere 
      rimase sul terreno, e due marinai furono feriti. 
      Dantès  era  uno  dei  due: una pallottola gli aveva trapassato la 
      spalla sinistra. 
      Dantès era felice per questa scaramuccia e  quasi  contento  della 
      sua  ferita:  questa esperienza gli aveva fatto capire come sapeva 
      guardare  il  pericolo,  e  con  qual  cuore  sapeva  tollerare  i 
      patimenti. 
      Aveva  guardato  il  pericolo ridendo,  e ricevendo il colpo aveva 
      detto come il filosofo  greco:  "Dolore,  tu  non  sei  un  male". 
      Inoltre,  guardando il doganiere ferito a morte,  fosse calore del 
      sangue nell'azione, o fosse freddezza di umani sentimenti,  questa 
      vista non gli aveva prodotto che una leggerissima impressione. 
      Dantès  era  sulla strada che voleva percorrere e che tendeva alla 
      meta cui voleva arrivare: cioè pietrificarsi il cuore in petto. 
      Del resto Jacopo, che vedendolo cadere lo aveva creduto morto,  si 
      era  precipitato  su  di  lui,  lo  aveva  rialzato,  e  gli aveva 
      impartite tutte quelle cure che sono di un buon compagno. 
      Questa gente non era dunque così  buona  come  avrebbe  voluto  il 
      dottore  Langloss,  e  non  era  così cattiva come avrebbe creduto 
      Dantès.  Quest'uomo,  che null'altro  poteva  aspettarsi  dal  suo 
      compagno  che  di ereditare la sua parte di guadagno,  provava una 
      viva afflizione nel crederlo ucciso. Fortunatamente però,  come si 
      disse, Dantès non era che ferito. 
      Grazie  ad  alcune erbe,  raccolte e vendute ai contrabbandieri da 
      certe vecchie sarde la ferita si cicatrizzò ben presto. 
      Edmondo allora volle tentare  Jacopo,  offrendogli  in  ricompensa 
      delle  sue cure una porzione della sua paga;  ma Jacopo la rifiutò 
      con indignazione. 
      Questo era il risultato di una  specie  di  devozione  che  Jacopo 
      aveva  consacrata  ad  Edmondo  fin dal primo momento che lo aveva 
      veduto, e di una certa affezione che Edmondo portava a Jacopo.  Ma 
      Jacopo  non  voleva  di  più;  aveva  indovinato istintivamente in 
      Edmondo una personalità superiore alla sua ed  il  bravo  marinaio 
      era contento di quel poco di affezione che gli concedeva. 
      Così  nella  lunghe  giornate  che  passavano  a bordo,  quando il 
      naviglio correva con sicurezza  sull'azzurro  mare,  e  non  aveva 
      bisogno,  grazie al vento che spirava,  che del solo timoniere per 
      dirigerlo,  Edmondo si faceva istruttore di Jacopo con  una  carta 
      geografica alla mano, come Faria aveva fatto con lui. Gli mostrava 
      la  sporgenza  delle  coste,  le  variazioni  della  bussola,  gli 
      insegnava a leggere in quel libro aperto al di sopra delle  nostre 
      teste,  che  si  chiama  cielo,  e  dove  Dio  ha  scritto  la sua 
      onnipotenza con lettere brillanti. 
      E quando Jacopo gli domandava: 
      "A che serve imparare tutte queste cose ad un povero marinaio come 
      sono io?" 
      Edmondo rispondeva: 
      "Chi lo sa?  Forse  un  giorno  potresti  essere  capitano  di  un 
      bastimento. Il tuo compatriota Bonaparte non divenne imperatore?" 
      Dimenticammo di dire che Jacopo era corso. 
      Due mesi e mezzo erano già passati in questi traghetti successivi. 
      Edmondo era bravo contrabbandiere, come era stato ardito marinaio. 
      Aveva  fatto  conoscenza  con tutti i contrabbandieri della costa, 
      aveva imparato tutti quei segni massonici,  per  mezzo  dei  quali 
      questi semipirati si riconoscono fra loro. 
      Era  passato  e  ripassato  venti  volte davanti alla sua isola di 
      Montecristo,  ma in tutte  queste  volte  non  aveva  mai  trovato 
      l'occasione di potervi sbarcare. 
      Aveva  perciò preso una risoluzione,  che terminato il suo impegno 
      col padrone della Giovane Amelia avrebbe  noleggiato  una  piccola 
      barca  per proprio conto,  avendo già economizzato un centinaio di 
      piastre nei suoi viaggi,  e  con  un  pretesto  qualunque  sarebbe 
      sbarcato all'isola di Montecristo. 
      Là  avrebbe  fatto  le sue ricerche in tutta libertà.  Non sarebbe 
      stato in tutta  libertà  perché  le  sue  azioni  sarebbero  state 
      osservate da chi conduceva con sé, ma in questo mondo qualche cosa 
      bisogna arrischiare. 
      La prigione aveva reso Edmondo prudente,  ed avrebbe voluto essere 
      obbligato ad arrischiare.  Ma aveva  un  bel  cercare,  nella  sua 
      immaginazione,  per  quanto  fervida,  non  poteva ritrovare altro 
      mezzo  per  giungere  all'isola  di  Montecristo   che   facendosi 
      trasportare. 
      Dantès ristava in questa esitazione, allorché il padrone che aveva 
      in lui molta fiducia, e che aveva gran volontà di conservarselo lo 
      prese  una  sera per il braccio e lo condusse in un'osteria in via 
      dell'Olio,  nella quale erano soliti radunarsi contrabbandieri  di 
      Livorno.  Era  là  che  di  solito  si trattavano gli affari della 
      costa. 
      Dantès era già entrato altre due  o  tre  volte  in  questa  borsa 
      marittima,  e  vedendo  quegli  arditi  corsari venuti da tutto il 
      litorale,  si chiedeva  di  qual  forza  avrebbe  potuto  disporre 
      quell'uomo  che  fosse giunto a dare l'impulso della sua volontà a 
      tutta quella gente dai diversi interessi. 
      Questa volta si trattava di un affare di grande importanza,  di un 
      bastimento  carico  di drappi turchi,  di stoffe di levante,  e di 
      cachemire.  Bisognava trovare un terreno neutro,  dove si  potesse 
      operare il cambio,  per tentare di introdurre quegli oggetti sulle 
      coste di Francia. 
      Il premio era enorme se vi fossero riusciti: fra le cinquanta e le 
      sessanta piastre per ciascuno. 
      Il padrone della Giovane Amelia  propose  l'isola  di  Montecristo 
      come riva di sbarco, che essendo deserta, e non avendo né soldati, 
      né  doganieri,  sembra posta in mezzo al mare,  fino dai tempi dei 
      pagani, da Mercurio,  il dio dei commercianti e dei ladri,  classi 
      che  noi abbiamo separate se non distinte,  ma che l'antichità,  a 
      ciò che sembra, metteva nella stessa categoria. 
      Al nome di Montecristo,  Dantès fremette di gioia.  Si  alzò,  per 
      nascondere  la  propria  emozione,   e  fece  un  giro  in  quella 
      affumicata taverna dove tutti gli  idiomi  conosciuti  venivano  a 
      fondersi nella lingua franca. 
      Quando ritornò ad avvicinarsi ai due interlocutori, era già deciso 
      che  si  sarebbe  preso  terra all'isola di Montecristo,  e che si 
      sarebbe partiti per questa spedizione nella successiva notte. 
      Edmondo,  consultato,  fu d'avviso che l'isola  offriva  tutte  le 
      sicurezze  possibili,  e  che le grandi imprese,  per riuscir bene 
      dovevano essere eseguite rapidamente. 
      Non fu dunque cambiato nulla al programma. Rimase convenuto che si 
      sarebbero fatti i necessari preparativi per l'indomani sera, e che 
      se il mare era  buono  ed  il  vento  favorevole,  ognuno  avrebbe 
      cercato di essere la sera dopo nelle acque dell'isola neutra. 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 23. 
                           L'ISOLA DI MONTECRISTO. 
 
 
      Finalmente,  per una di quelle inattese fortune, che qualche volta 
      giungono a coloro che il destino è stanco di perseguitare,  Dantès 
      stava  per giungere alla meta con un mezzo semplice e naturale,  e 
      mettere piede su quell'isola senza destare sospetto. 
      Una  notte  lo  separava  ancora  dalla  partenza  così  a   lungo 
      desiderata ed attesa. 
      Questa  fu  una  delle  notti  più febbrili passate da Dantès.  Si 
      presentarono al suo spirito tutte le possibilità buone e  cattive: 
      se  chiudeva gli occhi vedeva la lettera di Guido Spada scritta in 
      caratteri sfolgoranti sul muro.  Se dormiva un istante i sogni più 
      strani  venivano  a  tumultuare  nel  suo  cervello: discendeva le 
      grotte che avevano il pavimento di smeraldi,  le pareti di rubini, 
      le  stalattiti  di  diamanti;  le perle cadevano come quelle gocce 
      d'acqua   che   filtrano   nei   sotterranei.    Edmondo   rapito, 
      meravigliato,  riempiva  le tasche di pietre preziose;  poi veniva 
      fuori alla luce del giorno,  e questi gioielli si convertivano  in 
      semplici  sassolini.  Allora tentava di rientrare in quelle grotte 
      meravigliose che intravedeva soltanto, ma il cammino si contorceva 
      in infiniti  spiragli;  l'ingresso  era  ritornato  invisibile,  e 
      cercava  inutilmente  di  richiamarsi  alla  stanca memoria quelle 
      misteriose e magiche parole che in altri tempi aprivano  all'arabo 
      pescatore le splendide caverne di Alì Babà.  Tutto era inutile: lo 
      sparso tesoro era tornato in proprietà dei geni  della  terra,  ai 
      quali aveva avuto per un istante la speranza di poterlo togliere. 
      Seguì  il  giorno  quasi  con  la  stessa  febbre della notte;  ma 
      ricondusse la logica in aiuto  all'immaginazione  di  Dantès,  che 
      poté stabilire un piano fino allora incerto e dubbioso. 
      Venne la sera, e con essa i preparativi della partenza. 
      Questi  preparativi  erano  per Edmondo un mezzo per nascondere la 
      propria agitazione.  Un poco alla volta aveva preso l'abitudine di 
      comandare i compagni,  come fosse stato il padrone del bastimento; 
      e siccome i suoi ordini erano sempre chiari,  precisi e facili  da 
      eseguirsi,  i compagni non solo l'obbedivano con prontezza, ma con 
      piacere. 
      Il  vecchio  padrone  lo  lasciava  fare:  aveva  riconosciuto  la 
      superiorità  di Dantès non solo sopra i suoi compagni;  vedeva nel 
      giovane il successore naturale,  ed era dolente di non  avere  una 
      figlia per stringere questa bella alleanza. 
      Alle  sette  di  sera  tutto  fu in ordine,  alle sette e dieci la 
      tartana girava intorno al faro, proprio nell'istante in cui veniva 
      acceso. 
      Il mare era calmo, con un fresco venticello che veniva da sud-est. 
      Si navigava  sotto  un  cielo  chiaro,  in  cui  Dio  pure  faceva 
      risplendere  successivamente i suoi fari,  ciascuno dei quali è un 
      mondo. 
      Dantès disse che tutti  potevano  andare  a  dormire,  ch'egli  si 
      incaricava  del  timone.  Quando il maltese,  così veniva chiamato 
      Dantès a bordo.  faceva una simile proposta,  bastava,  e ciascuno 
      andava a riposare tranquillamente. Ciò era accaduto altre volte. 
      Dantès  evaso  dalla  solitudine del mondo,  provava qualche volta 
      l'imperioso bisogno di restar  solo.  Ora,  quale  solitudine  più 
      immensa ad un tempo e più poetica,  di quella di un bastimento che 
      nell'oscurità  della  notte  ondeggia  sul   mare   nel   silenzio 
      dell'immensità e sotto lo sguardo del Signore? 
      Quella notte però la solitudine fu popolata dai suoi pensieri,  la 
      notte illuminata dalle sue illusioni,  il silenzio  animato  dalle 
      sue promesse. 
      Quando  il  padrone  si  risvegliò,  la  navicella  correva a vele 
      gonfie,  non esisteva un lembo di vela che non fosse gonfiato  dal 
      vento: facevano più di due leghe e mezzo l'ora. 
      L'isola di Montecristo s ingrandiva all'orizzonte. 
      Edmondo  rese  il  timore  al padrone e andò a stendersi sulla sua 
      branda. Ma non poté chiudere un istante gli occhi. 
      Due ore dopo rimontò sul ponte;  il bastimento era  sul  punto  di 
      sorpassare l'isola d'Elba;  si trovava all'altezza di Marciana,  e 
      al di sotto dell'isola piana e verde di  Pianosa.  Si  vedeva  fra 
      l'azzurro   del   cielo   la   sommità   raggiante  dell'isola  di 
      Montecristo. 
      Dantès ordinò al timoniere di voltare il  timone  a  sinistra  per 
      lasciare  Pianosa  a  destra:  aveva  calcolato che questa manovra 
      doveva abbreviare la strada di due o tre nodi. 
      Alle cinque di sera ebbero la vista dell'isola, se ne scorgevano i 
      più piccoli dettagli,  grazie alla limpida  atmosfera,  alla  luce 
      completa degli ultimi raggi del sole al tramonto. 
      Edmondo divorò con gli occhi questa massa di scogli che sembravano 
      tinti  di  tutti  i colori del crepuscolo,  dal rosso vivo fino al 
      turchino cupo,  di tanto in  tanto  gli  salivano  al  viso  delle 
      vampate  ardenti:  la  sua  fronte  diveniva di porpora,  una nube 
      rossastra passava davanti ai suoi occhi. 
      Giammai giocatore,  la cui fortuna è tutta messa sopra una  carta, 
      provò,  al volgerne una,  tanta angoscia quanta ne sentiva Edmondo 
      nei suoi parossismi di speranza. 
      Ritornò la notte. 
      Alle dieci della sera si approdò.  La Giovane Amelia era la  prima 
      all'appuntamento. 
      Dantès, malgrado il dominio su se stesso, non poté contenersi; per 
      primo  saltò  sulla riva.  Se avesse osato,  avrebbe,  come Bruto, 
      baciato la terra. 
      Faceva notte oscura,  ma alle undici la luna  sorse  di  mezzo  al 
      mare,  inargentò ogni crespa, quindi i suoi raggi, a misura che si 
      alzava, cominciavano a screziarsi in bianche cascate di luce sugli 
      scogli ammassati di quest'altro Pelione. 
      L'isola era familiare all'equipaggio della Giovane Amelia, era una 
      delle sue tappe ordinarie.  Quanto a Dantès,  l'aveva  veduta,  in 
      ciascuno dei suoi viaggi in levante, ma non vi era mai sbarcato. 
      Egli interrogò Jacopo. 
      "Dove passiamo la notte?" 
      "A bordo della tartana" rispose Jacopo. 
      "Non staremmo meglio nelle grotte?" 
      "E in quali grotte?" 
      "Nelle grotte dell'isola." 
      "Io non conosco grotte..." disse Jacopo. 
      Un freddo sudore passò sulla fronte di Dantès. 
      "Non vi sono grotte a Montecristo?" domandò. 
      "No." 
      Dantès rimase per un istante stordito, poi pensò che queste grotte 
      potevano  essersi  ricoperte  per  un qualche accidente,  o essere 
      state chiuse per maggior precauzione dallo stesso Spada. 
      In questo caso tutto stava nel ritrovare la perduta apertura. 
      Era inutile cercarla nella notte,  Dantès  rimise  dunque  le  sue 
      ricerche al domani,  d'altronde un segnale inalberato a mezza lega 
      in mare,  ed al quale rispondeva con uno simile la Giovane Amelia, 
      indicò che era giunto il momento di accingersi all'operazione. 
      Il  bastimento  che  aveva ritardato,  rassicurato dal segnale che 
      doveva far capire che c'era sicurezza attorno  all'isola,  apparve 
      ben presto bianco e silenzioso come un fantasma, e venne a gettare 
      l'ancora presso la riva. 
      Il trasbordo delle merci cominciò nel medesimo istante. 
      Dantès,  mentre lavorava,  pensava all'hurrà! di gioia che con una 
      sola parola poteva provocare in tutti quegli uomini,  se diceva ad 
      alta  voce l'incessante pensiero che rumoreggiava al suo orecchio, 
      e turbava il suo cuore;  ma lungi dal rivelare  il  suo  magnifico 
      segreto,  temeva  già d'aver detto troppo,  e di avere risvegliato 
      dei sospetti col suo andare e venire, con le sue ripetute domande, 
      con le sue minuziose osservazioni, e la sua preoccupazione. 
      Nessuno però dubitava di niente; e allorché l'indomani,  prendendo 
      un  fucile,  dei  pallini,  e  della polvere,  Dantès manifestò il 
      desiderio di andare a tirare a qualcuna di quelle  numerose  capre 
      selvagge  che  si  vedevano  saltare  di roccia in roccia,  non si 
      attribuì questa escursione di Dantès che all'amore per la  caccia, 
      ed al desiderio di solitudine. 
      Non vi fu che Jacopo che insistette per seguirlo. 
      Dantès  non volle opporsi,  temendo d'ispirar sospetti se spingeva 
      tropp'oltre la sua ritrosia  ad  essere  accompagnato.  Ma  appena 
      fatto  un  quarto  di  lega,  essendosi  presentata l'occasione di 
      tirare ed  uccidere  un  capriolo,  inviò  Jacopo  a  portarlo  ai 
      compagni, invitandoli a cuocerlo, e dargli il segnale quando fosse 
      cotto, per venirlo a mangiare, tirando un colpo di fucile. Qualche 
      frutto  secco,  ed  un  fiasco  di  vino di Montepulciano dovevano 
      completare il pranzo.  Dantès continuò il suo  cammino  voltandosi 
      ogni tanto. 
      Giunto  alla sommità di una roccia,  vide a mille piedi al disotto 
      di lui i suoi compagni che raggiunti da Jacopo,  già si occupavano 
      attivamente dei preparativi del pranzo. 
      Edmondo li guardò un istante con quel triste e dolce sorriso delle 
      persone superiori. 
      "Fra due ore partiranno ricchi di cinquanta piastre,  per andare a 
      cercar di guadagnarne altre cinquanta col rischio della loro vita: 
      poi ritorneranno ricchi di seicento lire, per andare a dilapidarle 
      in  una  città  qualsiasi  con  l'orgoglio  dei  sultani,   e   la 
      magnificenza dei nababbi.  Oggi la speranza fa che io disprezzi la 
      loro ricchezza,  che mi pare profonda  miseria,  domani  forse  il 
      disinganno  mi  obbligherà a guardare questa profonda miseria come 
      la maggiore delle fortune... Oh, no" esclamò Edmondo,  "questo non 
      sarà.  Il sapiente,  l'infallibile Faria non può essersi ingannato 
      su questo sol punto.  D'altronde è meglio morire che continuare  a 
      condurre questa vita miserabile e vile." 
      Così Dantès, che tre mesi prima non desiderava che la libertà, non 
      era più contento della sola libertà, ma voleva anche le ricchezze. 
      Il  difetto  non  era  di Dantès,  ma della nostra natura che crea 
      desideri infiniti. 
      Per una strada che si perdeva fra due muraglie di scogli, lungo il 
      cammino che percorreva il torrente, e che secondo ogni probabilità 
      non era stato mal calcato da piede umano,  Dantès si avvicinava al 
      luogo in cui supponeva dovessero essere le grotte. 
      Seguendo  la  spiaggia  del  mare,  e  esaminando  i  più  piccoli 
      particolari con seria attenzione,  gli parve di scorgere su alcune 
      rocce degli incavi operati dalla mano dell'uomo. 
      Il  tempo  che  copre  tutte le cose fisiche col manto dell'oblio, 
      sembrava avere rispettato questi segni,  tracciati con  una  certa 
      regolarità  e  allo  scopo  probabilmente  di guida.  Di tratto in 
      tratto,  questi segni sparivano sotto i cespugli di mirto  che  si 
      univano  in  grossi  mazzi  carichi  di  fiori,  o sotto i licheni 
      parassiti.  Bisognava allora che Dantès allontanasse  i  massi,  o 
      sollevasse  il  musco per ritrovare le tracce che lo guidavano per 
      questo labirinto. 
      Questi segni avevano dato una buona speranza ad Edmondo. 
      Perché non poteva essere stato  lo  Spada  a  tracciarli  affinché 
      potessero,  in  caso  di  catastrofe,  servir  di guida al nipote? 
      Questo luogo solitario era quello che conveniva  ad  un  uomo  che 
      voleva seppellire un tesoro. 
      Soltanto,  questi  segni  visibili  avrebbero  potuto  attirare lo 
      sguardo di qualche  altro,  oltre  quelli  per  cui  erano  fatti: 
      l'isola  dalle  tetre  muraglie aveva conservato fedelmente il suo 
      segreto? 
      A cinquanta passi dal porto sembrò ad Edmondo,  sempre celato agli 
      sguardi  dei  suoi  compagni,  che i segni cessassero,  senza però 
      metter capo a nessuna grotta. 
      Una grossa roccia tonda,  posta sopra una solida base era la  sola 
      meta  a  cui  sembravano guidare.  Edmondo pensò allora che invece 
      d'essere giunto al termine poteva benissimo  non  essere  arrivato 
      che  al  principio,  di  conseguenza  si  girò  e ritornò indietro 
      calcando la stessa via. 
      Intanto  i  suoi  compagni  preparavano  il  pranzo,  andavano  ad 
      attingere acqua alla sorgente, trasportavano il pane e la frutta a 
      terra e facevano cuocere il capriolo. 
      Nel momento in cui lo toglievano dallo spiedo,  scopersero Edmondo 
      che leggero e ardito come uno scoiattolo,  saltava  di  roccia  in 
      roccia; tirarono un colpo per avvertirlo. 
      Il cacciatore cambiò subito direzione, e ritornò correndo. 
      Mentre tutti lo seguivano con lo sguardo, nella specie di voli che 
      faceva  tacciando  di  temerità  la  sua  sveltezza,  come per dar 
      ragione ai  loro  timori,  gli  venne  meno  un  piede,  fu  visto 
      oscillare sulla vetta di uno scoglio, gettare un grido, e sparire. 
      Tutti  balzarono  in un sol slancio,  perché tutti amavano Edmondo 
      malgrado  la  sua  superiorità;   Jacopo  però  fu  il   primo   a 
      raggiungerlo. Egli trovò Dantès steso, insanguinato, e quasi privo 
      di sensi: era rotolato da un'altezza di dieci o dodici piedi.  Gli 
      fu introdotta nella bocca qualche sorsata di rhum e questo rimedio 
      che altra volta era stato di tanta efficacia, produsse il medesimo 
      effetto. 
      Edmondo riaperse gli occhi,  e si lagnò di soffrire un vivo dolore 
      al ginocchio,  un gran peso alla testa, e un gran spasimo ai reni. 
      Lo volevano  trasportare  fino  a  riva;  ma  quando  fu  toccato, 
      quantunque   fosse   Jacopo  che  dirigeva  l'operazione,   disse, 
      lamentandosi,  che non  si  sentiva  la  forza  di  sopportare  il 
      trasporto. 
      S'intende che di pranzo per Edmondo non si parlò neppure, ma volle 
      che  i  suoi  compagni  non  avendo le sue stesse ragioni per fare 
      digiuno,  ritornassero al loro posto.  Quanto a lui pretendeva  di 
      non  aver  bisogno d'altro che di un po' di riposo,  e che al loro 
      ritorno essi lo avrebbero trovato assai meglio. 
      I marinai non si fecero molto pregare: avevano fame,  l'odore  del 
      capriolo  giungeva  fino  a  loro,  e fra lupi di mare non vi sono 
      molte cerimonie. 
      Ritornarono un ora dopo. 
      Tutto ciò che Edmondo aveva potuto fare era stato  di  trascinarsi 
      per  una dozzina di passi per andare ad appoggiarsi sopra un sasso 
      coperto di musco.  Ma lungi  dal  calmarsi,  i  dolori  di  Dantès 
      sembrava che fossero aumentati d'intensità. 
      Il  vecchio  padrone che era costretto a partire nella mattina per 
      depositare il suo carico sulle  frontiere  del  Piemonte  e  della 
      Francia fra Nizza e Fréjus,  insistette perché Dantès si sforzasse 
      di alzarsi. 
      Dantès fece degli sforzi sovrumani per arrendersi a questo invito; 
      ma a ciascuno sforzo ricadde lamentandosi ed impallidendo. 
      "Ha rotto i reni" disse a bassa voce il padrone.  "Non importa,  è 
      un   buon  compagno,   non  bisogna  abbandonarlo;   cerchiamo  di 
      trasportarlo fino alla tartana." 
      Ma Dantès dichiarò che preferiva morire dove si trovava, piuttosto 
      che sopportare i dolori di un qualsiasi movimento. 
      "Ebbene" disse il padrone,  "avvenga ciò che vuole,  non sarà  mai 
      detto  che  noi lasciamo un bravo compagno senza aiuti.  Partiremo 
      soltanto questa sera." 
      Questa proposta fece molta meraviglia ai marinai quantunque non vi 
      fosse  chi  facesse  obiezione.  Il  padrone  era  un  uomo  molto 
      rigoroso,  ed  era  la  prima volta che lo si vedeva rinunciare ad 
      un'impresa, o anche soltanto ritardarla. 
      Dantès non volle che si facesse in suo favore una infrazione  alle 
      regole di disciplina stabilite a bordo. 
      "No" disse,  "io fui incauto ed io debbo portare la pena della mia 
      poca destrezza. Lasciatemi una piccola provvigione di biscotti, un 
      fucile,  della  polvere  e  delle  pallottole  per  ammazzare  dei 
      capretti ed anche per difendermi,  ed una zappa per costruirmi una 
      specie di casetta,  in caso  che  tardaste  molto  a  ritornare  a 
      prendermi." 
      "Ma tu morrai di fame" disse il padrone. 
      "Meglio questo" replicò Edmondo, "che soffrire gli inauditi dolori 
      che mi fa provare il più piccolo movimento." 
      Il  padrone  guardò  il  suo  bastimento che dondolava nel piccolo 
      porto, e su cui cominciavano i primi preparativi per la partenza. 
      "Che vuoi dunque che facciamo?" disse.  "Non possiamo abbandonarti 
      così, e neppure aspettare lungamente." 
      "Partite, partite" esclamò Dantès. 
      "Noi  staremo assenti almeno otto giorni,  e bisognerà che deviamo 
      dalla nostra via per venirti a prendere." 
      "Ascoltate"   disse   Dantès,   "se   incontrate   qualche   barca 
      peschereccia  che  fra  due  o tre giorni venga in questi paraggi, 
      raccomandatemi al padrone,  io pagherò venticinque piastre per  il 
      mio ritorno a Livorno; e se non ne troverete, tornate." 
      "Ascoltate, padron Baldi, vi è un mezzo per conciliar tutto" disse 
      Jacopo, "partite; io resterò alla cura del ferito." 
      "E tu rinuncerai alla spartizione" disse Edmondo, "per restare con 
      me?" 
      "Sì, e senza dispiacere" rispose Jacopo. 
      "Tu sei un brav'uomo" disse Edmondo,  "e Dio ti ricompenserà della 
      tua buona volontà.  Ma io non  ho  bisogno  d'alcuno,  grazie.  Un 
      giorno  o  due  di riposo mi rimetteranno,  e spero di trovare fra 
      questi scogli alcune erbe eccellenti per le contusioni..." 
      Uno strano sorriso passò sulle labbra di Dantès; strinse la mano a 
      Jacopo con effusione,  ma rimase irremovibile nella risoluzione di 
      rimanere solo. 
      I contrabbandieri lasciarono ad Edmondo ciò che aveva domandato, e 
      lo abbandonarono non senza voltarsi molte volte, e facendogli ogni 
      volta  gran  cenni  di  saluto ai quali Edmondo rispondeva con una 
      sola mano, come se non potesse muovere il resto del corpo. 
      Poi quando furono spariti: 
      "E' strano" mormorò Dantès ridendo,  "che sia fra  uomini  di  tal 
      fatta, che si trovino e si riscontrino tali prove di amicizia e di 
      attaccamento." 
      Poco  dopo  si  trascinò  con precauzione fino alla sommità di una 
      roccia che non gli nascondeva la vista del mare,  e di là vide  la 
      tartana  compiere  i  suoi preparativi,  levar l'ancora,  librarsi 
      graziosamente come una lodola che sta  per  spiccare  il  volo,  e 
      partire.  In  capo  ad un'ora era sparita del tutto,  o almeno era 
      impossibile vederla dal luogo dove era rimasto il ferito. 
      Allora Dantès si alzò più lesto e più leggero di un capriolo fra i 
      mirti e i lentischi di quelle rocce selvagge,  prese il suo fucile 
      con una mano,  con l'altra la zappa e corse a quella roccia presso 
      la quale finivano i segni che aveva osservato. 
      "Ed ora" esclamò,  ricordandosi la storia dell'arabo pescatore che 
      gli aveva raccontato Faria, "ora apriti, oh Sesamo!" 
 
 
                                 Capitolo 24. 
                               L'ABBAGLIAMENTO. 
 
 
      Il sole era pervenuto a circa un terzo del suo corso, i suoi raggi 
      di  maggio  cadevano  caldi  e  vivificanti  su  quelle  rocce che 
      sembravano esse stesse sensibili a questo calore. 
      Migliaia di cicale invisibili fra i cespugli facevano  sentire  il 
      loro  mormorio  monotono  e continuo.  Le foglie dei mirti e degli 
      ulivi si agitavano tremanti e mandavano un rumore quasi metallico. 
      A ciascun  passo  di  Edmondo  dal  riscaldato  granito  fuggivano 
      mosconi che sembravano smeraldi.  Si vedevano balzare,  sul pendio 
      inclinato dell'isola, le capre selvagge che attirano qualche volta 
      i cacciatori. In una parola l'isola era abitata, vivente, animata, 
      e tuttavia Edmondo si sentiva solo, sotto la mano di Dio. 
      Egli provava un'emozione, molto somigliante alla paura. Era quella 
      diffidenza del pieno giorno,  che fa supporre,  anche nel deserto, 
      che vi possono essere degli occhi inquisitori ad osservarci. 
      Questo  sentimento fu così forte,  che al momento di cominciare il 
      suo lavoro,  Edmondo si fermò,  depose la zappa,  riprese  il  suo 
      fucile, montò un'ultima volta sulla roccia più elevata dell'isola, 
      e  di  là  girò  lo  sguardo  attentamente  su  tutto  ciò  che lo 
      circondava.  Ma,  noi  dobbiamo  dirlo,  ciò  che  attirò  la  sua 
      attenzione  non  fu  la poetica Corsica di cui egli poteva perfino 
      distinguere le case, non fu la Sardegna,  a lui quasi sconosciuta, 
      non fu l'isola d'Elba dai giganteschi ricordi, e finalmente non fu 
      quella  linea impercettibile che si estende all'orizzonte,  e che, 
      all'occhio  esercitato  del  marinaio,  rivela  il  profilo  della 
      superba  Genova,  e  della  commerciale  Livorno: fu il brigantino 
      ch'era partito alla punta del giorno,  e  la  tartana  partita  da 
      poco. 
      Il  primo  stava  per sparire nello stretto di Bonifacio;  l'altra 
      seguendo  la   strada   opposta   costeggiava   la   Corsica   per 
      oltrepassarla. 
      Questa vista rassicurò Edmondo: ricondusse allora lo sguardo sugli 
      oggetti  che  lo circondavano: si vide sul punto più elevato della 
      conica  isola,  piccola  statua  di  questo  immenso  piedistallo: 
      intorno  a  lui  non  un  uomo,  non  una  barca: niente altro che 
      l'azzurro mare che veniva  a  percuotere  la  base  dell'isola,  e 
      percuotendola la ornava di una eterna frangia d'argento. 
      Allora discese con passo rapido,  ma prudente; temeva troppo in un 
      simile momento un  incidente  eguale  a  quello  che  aveva  tanto 
      abilmente e felicemente simulato. 
      Dantès,  come abbiamo detto,  aveva ripercorso il cammino, guidato 
      dai segni scavati sulle rocce,  ed aveva veduto che  questa  linea 
      conduceva  ad  una  piccola rada nascosta come un bagno di antiche 
      ninfe. 
      Questa rada era abbastanza  profonda  nel  suo  centro  perché  un 
      piccolo bastimento del genere delle speroniere potesse entrarvi, e 
      rimanervi nascosto.  Allora seguendo il filo delle induzioni, quel 
      filo che fra le mani di Faria aveva veduto guidare in una  maniera 
      così  ingegnosa,  pensò  che  Guido Spada fosse approdato a questa 
      rada,  avesse nascosto il suo piccolo naviglio,  seguita la  linea 
      indicata  dalle  intaccature,  e  nella  estremità di questa linea 
      sepolto il suo tesoro. 
      Fu questa supposizione che  ricondusse  Dantès  presso  la  roccia 
      circolare. 
      Una  cosa soltanto inquietava Edmondo,  e sconvolgeva tutte le sue 
      idee: come si era potuto,  senza  impiegare  forze  considerevoli, 
      innalzare questa roccia, che pesava forse cinque o sei migliaia di 
      libbre, sulla base su cui era posta? 
      Ad un tratto fu colpito da un'idea. 
      "Invece di farla salire" disse tra sé, "l'avranno fatta scendere." 
      Ed egli stesso si arrampicò al di sopra della roccia,  per cercare 
      il posto della  primitiva  base.  Vide  ben  presto  ch'era  stata 
      praticata  una  leggera  inclinazione,  la roccia aveva strisciato 
      sulla sua vecchia base,  ed era venuta a  fermarsi  a  ridosso  di 
      un'altra roccia,  grossa come una pietra da taglio ordinaria,  che 
      era servita da nuova base. 
      Erano stati impiegati  dei  sassolini  e  delle  pietre  per  fare 
      sparire  ogni traccia: questo piccolo lavoro da muratore era stato 
      ricoperto di terra e di vegetazione,  vi era nata  l'erba,  ed  il 
      musco  si  era  esteso,  alcuni  semi di mirto e di lentisco erano 
      germogliati,  ed il vecchio pezzo di roccia sembrava attaccato  al 
      suolo. 
      Dantès sollevò con precauzione la terra e riconobbe, o credette di 
      scoprire   questo   ingegnoso  artificio.   Allora  si  accinse  a 
      distruggere colla zappa questo muro intermediario,  cementato  dal 
      tempo.  Dopo un lavoro di dieci minuti,  il muro cedette,  e restò 
      aperto un foro nel quale si poteva introdurre un braccio. 
      Dantès andò a troncare l'olivo più grosso,  lo  spogliò  dei  suoi 
      rami, lo introdusse nel foro, e ne fece una leva. Ma la roccia era 
      troppo  pesante  e  incastrata  troppo  solidamente  sulla  roccia 
      inferiore; la forza umana non era bastante a smuoverla,  fosse pur 
      stata quella d'Ercole. 
      Dantès  rifletté  allora  che  era  la roccia stessa che bisognava 
      attaccare: ma con qual mezzo? 
      Girò lo sguardo intorno, come fanno gli uomini imbarazzati, e vide 
      il corno di un bufalo pieno di  polvere  che  gli  aveva  lasciato 
      Jacopo.  Sorrise:  l'invenzione  infernale avrebbe compiuta la sua 
      opera. 
      Con l'aiuto della zappa,  Dantès scavò,  fra la roccia superiore e 
      quella su cui era posta,  un condotto di mina, uguale a quello che 
      fanno  i  guastatori  quando  vogliono  risparmiare  alle  braccia 
      dell'uomo una troppo lunga fatica. Quindi lo riempì di polvere ben 
      compressa,  e  sfilando  il  suo  fazzoletto  e immergendolo nella 
      polvere, ne fece una miccia. 
      Messo il fuoco a questa miccia Dantès si allontanò. 
      L'esplosione non si fece attendere: la  roccia  superiore  per  un 
      istante  fu  sollevata dall'incalcolabile forza,  quella inferiore 
      andò in pezzi. 
      Dalla piccola apertura,  che all'inizio  Dantès  aveva  praticata, 
      sfuggì  una  folla  d'insetti  frementi  ed  un  enorme  serpente, 
      guardiano di questo cammino misterioso,  che strisciando disparve. 
      Dantès  si  avvicinò.  La  roccia  superiore,  rimasta ormai senza 
      appoggio pendeva sull'abisso. 
      L'intrepido  cercatore  vi  girò  attorno,  scelse  il  punto  più 
      vacillante  appoggiò  la  sua  leva fra gli intacchi e come Sisifo 
      s'incurvò con tutta la sua forza contro la roccia. 
      La roccia già spostata dall'esplosione, traballò: Dantès raddoppiò 
      gli sforzi. Si sarebbe detto che era un nuovo Titano che sradicava 
      le montagne per far la guerra al padre degli Dei. 
      Finalmente la roccia cedette, rotolò,  balzò,  precipitò,  e sparì 
      immergendosi nel mare.  Così lasciò scoperto un vano circolare che 
      metteva in vista un anello di ferro impiombato nel  mezzo  di  una 
      pietra quadrata. 
      Dantès gettò un grido di gioia e di stupore. Giammai più magnifico 
      risultato aveva coronato un primo tentativo. 
      Volle  continuare,  ma le sue gambe tremavano così fortemente,  il 
      suo cuore batteva con  tanta  violenza,  una  nube  passava  tanto 
      bruciante davanti ai suoi occhi, che fu costretto a fermarsi. 
      Questo momento di esitazione però durò un lampo. 
      Edmondo  passò  la  leva nell'anello,  l'alzò vigorosamente,  e la 
      pietra spostata si aprì,  scoprendo il rapido pendio di una specie 
      di scala che andava ad infossarsi nell'ombra di una grotta oscura. 
      Un  altro  vi  si  sarebbe  precipitato,  avrebbe gettato grida di 
      esultanza e di gioia: Dantès si fermò, impallidì, dubitò. 
      "Vediamo" disse,  "siamo uomini.  Avvezzi  all'avversità,  non  ci 
      lasciamo abbattere da un disinganno.  Il cuore si rompe,  allorché 
      dopo essere stato dilatato oltre misura dalla speranza, ritorna su 
      se stesso e si riadatta alla fredda realtà.  Faria non fece che un 
      sogno;  Guido  Spada  non  ha  seppellito niente in questa grotta, 
      forse anche non vi è mai venuto,  o,  se vi venne,  Cesare Borgia, 
      l'intrepido  avventuriero,  l'infaticabile  capo ladrone,  vi sarà 
      approdato dopo di lui,  avrà  seguiti  i  medesimi  segni  che  ho 
      seguiti io, avrà come me sollevata questa pietra, e, disceso prima 
      di  me,  non avrà lasciato niente da prendere a chi veniva dopo di 
      lui." 
      Dantès restò un momento immobile,  pensieroso,  cogli occhi  fissi 
      sopra quest'apertura tenebrosa e continua. 
      "Sì,  sì, questa è una avventura da trovar posto nella vita, mista 
      di oscurità e di luce, di quel principe criminale. In quel tessuto 
      di strani casi che compose la trama torbida della  sua  esistenza, 
      questo  favoloso avvenimento ha dovuto incatenarsi invincibilmente 
      ad altri fatti. Sì, Borgia è venuto una notte qui,  tenendo in una 
      mano una fiaccola,  nell'altra una spada.  Mentre a venti passi da 
      lui forse ai piedi di quello scoglio,  stavano cupi  e  minacciosi 
      due sgherri spiando la terra,  l'aria ed il mare,  il loro padrone 
      entrava,  come sto per  fare  io,  in  quest'antro,  scuotendo  le 
      tenebre  col  suo formidabile e fiammeggiante braccio.  Sì,  ma di 
      quegli sgherri ai quali avrà dovuto comunicare il suo segreto, che 
      ne avrà fatto Borgia?" si domandò  Dantès.  "Ciò  che  fecero"  si 
      rispose  sorridendo,   "dei  becchini  di  Alarico,   che  vennero 
      sotterrati col cadavere del re.  Ora che non conto più su  niente, 
      ora  che  mi  son  detto  che  sarebbe da pazzi conservare qualche 
      speranza,  questa avventura non è più per me che una cosa di  mera 
      curiosità." 
      E restò ancora per qualche tempo immobile e pensieroso. 
      "Però  se vi fosse venuto" riprese Dantès,  "se avesse ritrovato o 
      portato il tesoro,  Borgia,  l'uomo che paragonava l'Italia ad  un 
      carciofo e che la mangiava foglia per foglia, Borgia sapeva troppo 
      bene  far uso del tempo per non perderne a rimettere questa roccia 
      sulla sua base... Scendiamo." 
      Allora discese.  Il sorriso del dubbio sfiorava le sue labbra  che 
      mormoravano quest'ultima parola dell'umana saggezza: 
      "Può darsi..." 
      Ma  invece  delle  tenebre che si aspettava di trovare,  invece di 
      un'atmosfera  opaca  e  triste,  Dantès  non  vide  che  una  luce 
      decomposta   in  un  chiarore  azzurrognolo;   l'aria  e  la  luce 
      filtravano, non solo dall'apertura che era stata da lui praticata, 
      ma dalle screpolature invisibili fra le rocce, e attraverso cui si 
      vedeva il colore turchino del cielo, e ove si congiungevano i rami 
      tremolanti dei verdi cespugli o i legamenti  spinosi  e  parassiti 
      dei rovi. 
      Dopo  qualche secondo di sosta in questa grotta,  la cui atmosfera 
      piuttosto tiepida che umida,  piuttosto odorosa che fetida,  stava 
      alla  temperatura dell'isola come l'ombra del sole,  lo sguardo di 
      Dantès, abituato, come si disse, alle tenebre,  poté esplorare gli 
      angoli più reconditi della caverna: era di granito,  e le faccette 
      sparse di pagliole risplendevano come diamanti. 
      "Ahimè" esclamò Dantès sorridendo,  "ecco senza fallo i tesori che 
      avrà lasciato lo Spada,  e il buon Faria,  vedendo in sogno questi 
      muri risplendenti, si sarà illuso di ricche speranze!" 
      Ma Dantès si ricordò  delle  precise  parole  del  testamento  che 
      sapeva a memoria: "Nell'angolo più lontano della seconda apertura" 
      diceva questo testamento. 
      Ora Dantès era penetrato solo nella prima grotta, bisognava dunque 
      cercare l'entrata della seconda. 
      Si orizzontò. 
      Questa  seconda  grotta  doveva  naturalmente  internarsi verso il 
      centro dell'isola.  Esaminò gli  strati  delle  pietre  e  andò  a 
      battere  contro  una  delle  pareti,  quella  dove  doveva  essere 
      l'apertura, nascosta senza dubbio per maggior precauzione.  Con la 
      zappa  percosse  le  pareti  ad intervalli cavando dalla roccia un 
      rumore così sordo e debole che la fronte di Dantès si rabbuiò: 
      Finalmente sembrò al perseverante minatore che una parte del  muro 
      di  granito  risuonasse,  e rispondesse con un'eco più sorda e più 
      profonda. 
      Avvicinò lo sguardo ardente al muro  e  riscontrò,  col  tatto  da 
      prigioniero,  ciò che nessun altro avrebbe forse scoperto,  che là 
      vi doveva  essere  un'apertura.  Però,  per  non  fare  un  lavoro 
      inutile,  Dantès che, come Cesare Borgia, aveva imparato il valore 
      del tempo,  esplorò le altre pareti con la zappa,  batté il  suolo 
      con il calcio del suo fucile, smosse la sabbia nei luoghi sospetti 
      e  non avendo trovato né riconosciuto niente,  tornò alla parte di 
      muro che dava quel suono consolatore. 
      La percosse di nuovo con maggior forza. 
      Allora vide una cosa singolare: sotto i colpi dello strumento, una 
      specie d'intonaco,  uguale a quello che si applica  sui  muri  per 
      dipingervi  a fresco,  si sollevava e cadeva in croste,  scoprendo 
      una pietra  biancastra  granulosa  come  le  ordinarie  pietre  da 
      taglio. 
      L'apertura della roccia era stata chiusa con pietre d'altra natura 
      quindi   avevano   steso   sopra   queste  pietre  l'intonaco,   e 
      sull'intonaco,  era stata imitata la tinta e la  cristallizzazione 
      del  granito.  Dantès percosse allora con la parte tagliente della 
      zappa, e questa penetrò per un pollice nella porta a muro. 
      Era là che bisognava lavorare. 
      Per uno strano mistero dell'umana psiche, più si realizzavano e si 
      accumulavano le prove che Faria non  s'era  ingannato,  e  più  il 
      cuore di Dantès indebolito e stanco si lasciava andare al dubbio e 
      quasi allo scoraggiamento. 
      Questa  nuova  esperienza che avrebbe dovuto infondergli una forza 
      novella, gli tolse al contrario quella che gli rimaneva.  La zappa 
      scendendo  gli sfuggiva quasi dalle mani,  la depose al suolo,  si 
      asciugò la fronte e rimontò la scala,  col pretesto di  vedere  se 
      qualcuno lo spiava, ma in realtà perché sul punto di svenire. 
      L'isola  era  deserta,  e il sole allo zenit sembrava coprirla col 
      suo occhio di fuoco;  lontano alcune  piccole  barche  pescherecce 
      spiegavano le loro vele su un mare azzurro come zaffiro. 
      Dantès non aveva ancora mangiato nulla; ma in quel momento era ben 
      lontano dall'aver volontà di mangiare;  tracannò un poco di rhum e 
      rientrò nella grotta col cuore serrato.  La  zappa,  che  gli  era 
      sembrata  così  pesante,  era  tornata  leggera,  la  sollevò come 
      avrebbe fatto con una piuma, e si rimise vigorosamente al lavoro. 
      Dopo qualche colpo,  si accorse che le pietre non erano cementate, 
      ma  soltanto le une sulle altre,  e ricoperte da quell'intonaco di 
      cui abbiamo parlato.  Introdusse in una  fessura  la  punta  dello 
      strumento,  gravitò  col  corpo  sul  manico,  e vide con gioia la 
      pietra girare come sopra i cardini, e cadere ai suoi piedi. 
      Dantès non ebbe più che tirare a sé ogni pietra  col  ferro  della 
      zappa,  e  ogni  pietra  rotolò vicino alla prima.  Dantès sarebbe 
      potuto entrare,  ma ritardando di qualche minuto aveva  prolungato 
      la  certezza,  aggrappandosi alla speranza.  Finalmente,  dopo una 
      nuova esitazione, Dantès passò nella seconda grotta. 
      Questa seconda grotta era più bassa, più oscura,  e di aspetto più 
      spaventoso  della  prima.  L'aria,  che  non  vi era penetrata che 
      dall'apertura appena fatta,  conservava quell'odore  mefitico  che 
      Dantès  si  era meravigliato di non ritrovare nella prima.  Dantès 
      fece entrare l'aria esterna per ravvivare questa morta  atmosfera, 
      quindi entrò.  A sinistra dell'apertura c'era un angolo profondo e 
      oscuro;  ma,  noi l'abbiamo detto,  per  l'occhio  di  Dantès  non 
      esistevano  tenebre.  Scandagliò con lo sguardo la seconda grotta: 
      era vuota come la prima. 
      Il tesoro se esisteva,  era  seppellito  in  quell'angolo  oscuro. 
      L'ora  dell'angoscia era giunta: due piedi di terra da scavare era 
      tutto ciò che restava a Dantès fra il sommo della gioia e il sommo 
      della disperazione.  Avanzò  verso  l'angolo,  e,  come  preso  da 
      un'istantanea  risoluzione,  attaccò  a  zappare  arditamente.  Al 
      quinto o sesto colpo di zappa, il ferro risuonò sopra altro ferro. 
      Mai tocco funebre di campana né suono a stormo produsse un  simile 
      effetto  su  colui che l'udì.  Niente avrebbe potuto far diventare 
      più pallido Dantès. 
      Egli osservò i lati del posto già esplorato, colpì con la zappa, e 
      ritrovò lo stesso suono. 
      "E un baule di legno cerchiato di ferro" disse. 
      In quell'istante un'ombra rapida  passò,  intercettando  la  luce, 
      Dantès  lasciò  cadere  la zappa,  afferrò il fucile,  ripassò per 
      l'apertura, e si lanciò all'aperto. 
      Era una capra selvaggia che era saltata  al  disopra  della  prima 
      entrata  della  grotta,  e  mangiava  a qualche passo di distanza. 
      Sarebbe stata una bella occasione per assicurarsi  il  pranzo;  ma 
      Dantès ebbe timore che la detonazione richiamasse qualcuno. 
      Rifletté un istante,  tagliò i rami di un albero resinoso, andò ad 
      accenderli al fuoco ancor fumante dove i  contrabbandieri  avevano 
      cotto  il  loro  pranzo  e  ritornò con questa torcia.  Non voleva 
      perdere alcun dettaglio di ciò che stava per vedere. 
      Avvicinò la torcia alla buca informe e non compiuta,  e  riconobbe 
      che  non  si era ingannato;  i suoi colpi avevano alternativamente 
      colpito sul ferro e su legno.  Piantò la sua torcia in terra e  si 
      rimise all'opera. 
      In un istante fu scavata una fossa di tre piedi di lunghezza e due 
      di  larghezza,  e  Dantès  poté  riconoscere  un baule di legno di 
      quercia con cerchi di ferro cesellato. 
      Nel mezzo del coperchio risplendeva,  sopra una  placca  d'argento 
      che  la terra non aveva potuto arrugginire,  l'arma della famiglia 
      Spada, una spada messa di piatto sopra uno scudo ovale,  come sono 
      gli scudi italiani.  Dantès la riconobbe facilmente,  perché Faria 
      l'aveva più volte disegnata. 
      Da quel  momento  non  vi  era  più  dubbio:  il  tesoro  esisteva 
      realmente;  non avrebbero preso tante precauzioni per rimettere in 
      quel posto un baule vuoto. 
      Tutti i lati del baule o forziere furono  messi  allo  scoperto  e 
      Dantès vide,  poco alla volta,  comparire la serratura,  posta fra 
      due cinte di ferro,  e le maniglie alle parti laterali: tutto  era 
      cesellato,  come  si  usava  in  quell'epoca in cui l'arte rendeva 
      preziosi anche i più vili metalli. 
      Dantès prese il baule per le maniglie e si provò a sollevarlo: era 
      cosa impossibile. 
      Allora tentò di aprirlo: la serratura e le cinte lo  tenevano  ben 
      chiuso: questi fedeli custodi sembravano non voler rendere il loro 
      tesoro:  Dantès  introdusse  la parte tagliente della zappa tra il 
      fondo ed il coperchio,  gravitò con tutto il suo  corpo  sopra  il 
      manico  di  quella,  ed il coperchio,  dopo aver prodotto un forte 
      rumore, andò in pezzi. 
      Una larga apertura dell'asse rendeva i ferramenti inutili, caddero 
      anch'essi,  stringendo tuttavia con le loro unghie tenaci i  pezzi 
      del coperchio caduti con essi, ed il baule fu aperto. 
      Una febbre vertiginosa s'impadronì di Dantès; prese il suo fucile, 
      lo montò e se lo pose vicino. Dapprima chiuse gli occhi come fanno 
      i bambini, per scorgere nella notte sfavillante dell'immaginazione 
      più stelle che in cielo, quindi li riaprì e rimase abbagliato. 
      Il  baule  era diviso in tre parti: nella prima brillavano fulgidi 
      scudi d'oro,  dai gialli riflessi;  nella seconda verghe d'oro non 
      brunite  ma  disposte in buon ordine;  nella terza,  piena a metà, 
      Edmondo rimosse ed alzò a manciate  i  diamanti,  le  perle  ed  i 
      rubini  che,  qual  cascata sfavillante,  facevano nel ricadere il 
      rumore della grandine sui vetri. 
      Dopo aver toccato,  palpato,  immerse le mani tremanti nell'oro  e 
      nelle  pietre,  Edmondo  si rialzò e prese una corsa attraverso la 
      caverna con la  fremente  esaltazione  di  un  uomo  che  sta  per 
      diventare pazzo. 
      Saltò  sopra  una roccia da cui poteva vedere il mare,  e non vide 
      niente era solo,  solissimo con  quelle  ricchezze  incalcolabili, 
      inaudite, favolose che gli appartenevano. 
      Ma  sognava  o  era sveglio?  Faceva un sogno sfuggente o era alle 
      prese con la realtà? 
      Aveva bisogno di rivedere il suo oro e nello stesso tempo  sentiva 
      che  non  aveva  la  forza di sostenerne la vista.  Per un momento 
      compresse le mani sulla testa,  come per impedire alla ragione  di 
      fuggire;  poi si lanciò tra le rocce dell'isola senza seguire, non 
      dirò un sentiero, perché nell'isola di Montecristo non ve ne sono, 
      ma una direzione stabilita,  faceva fuggire le  capre  selvagge  e 
      spaventava gli uccelli marini con le sue grida e i suoi gesti. 
      Quindi  ritornò,  dubitando  ancora;  e precipitandosi dalla prima 
      grotta alla seconda, e trovandosi al cospetto di questa cava d'oro 
      e di diamanti,  cadde in ginocchio,  comprimendosi con le  mani  i 
      moti convulsi del cuore,  e mormorando una preghiera intelligibile 
      a Dio soltanto. 
      Poco dopo,  si sentì più calmo,  e perciò più  felice;  poiché  in 
      quell'ora soltanto cominciò a credere alla sua felicità. 
      Si  mise  a  contare  la  sua fortuna: vi erano circa mille verghe 
      d'oro che pesavano ciascuna dalle  due  alle  tre  libbre,  quindi 
      ammonticchiò  venticinquemila  scudi  d'oro  che potevano avere il 
      valore ciascuno di ottanta franchi,  moneta di Francia,  tutti con 
      l'effigie  del  Papa  Alessandro VI e dei suoi predecessori,  e si 
      accorse che il comparto non era vuotato  che  a  metà;  finalmente 
      misurò  dieci volte la capacità delle sue mani in perle,  pietre e 
      diamanti,  molti dei quali,  lavorati dai migliori gioiellieri  di 
      quell'epoca,  di  un  valore  rimarchevole,  prescindendo dal loro 
      valore intrinseco. 
      Dantès vide la luce abbassarsi ed estinguersi a poco a poco. 
      Temette di esser sorpreso se restava nella grotta,  e ne uscì  col 
      fucile  alla  mano.  Un pezzo di biscotto e qualche goccia di vino 
      furono la sua cena. 
      Quindi rimise la pietra, vi si sdraiò sopra e dormì appena qualche 
      ora, coprendo col suo corpo l'ingresso della grotta. 
      Quella  fu  una  di  quelle  notti  terribili  e  deliziose,  come 
      quest'uomo  dalle  grandi  emozioni ne aveva già passate due o tre 
      nella sua vita. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 25. 
                               LO SCONOSCIUTO. 
 
 
      Si fece giorno: Dantès l'aspettava da lungo tempo ad occhi aperti. 
      Ai primi albori si alzò,  salì,  come la sera,  sulla  roccia  più 
      elevata dell'isola per esplorarne i dintorni. 
      Come la sera innanzi, tutto era deserto. 
      Edmondo  levò la pietra,  discese,  riempì le sue tasche di pietre 
      preziose,  rimise meglio che poté  le  assi  ed  i  ferramenti  al 
      coperchio  del  baule,  lo ricoprì di terra,  vi gettò sopra della 
      sabbia, uscì dalla grotta, rimise la pietra, ammassò su questa dei 
      sassi di differente grossezza,  riempi gli  interstizi  con  della 
      terra,  piantò  in  questi  dei mirti e delle eriche,  cosparse di 
      terra queste piante novelle affinché sembrassero vecchie, cancellò 
      le impronte dei suoi passi intorno a questo luogo,  e  attese  con 
      impazienza il ritorno dei suoi compagni. 
      Non si trattava più ora di passare il tempo a guardare quest'oro e 
      questi  diamanti,  e  di  restare  a  Montecristo  come un drago a 
      sorvegliare il tesoro. Ora bisognava ritornare alla vita,  fra gli 
      uomini e prendere nella società il rango, l'influenza ed il potere 
      che in questo mondo danno le ricchezze. che sono la prima e la più 
      grande delle forze di cui possa disporre la creatura umana. 
      I contrabbandieri ritornarono il sesto giorno. 
      Dantès  riconobbe  da  lontano l'andamento e il moto della Giovane 
      Amelia;  si trascinò fino al porto come  il  Filottete  ferito,  e 
      quando  i  suoi  compagni  approdarono  annunciò loro,  lagnandosi 
      ancora,  di avere avuto un sensibile miglioramento;  quindi a  sua 
      volta ascoltò il racconto degli avventurieri. 
      Essi erano usciti di nuovo,  è vero,  ma appena avevano deposto il 
      loro carico,  erano stati avvertiti che un brick di sorveglianza a 
      Tolone,  usciva  dal  porto  e si dirigeva alla loro volta: allora 
      erano fuggiti a freccia,  rammaricandosi che  Dantès,  che  sapeva 
      dare  una  velocità  maggiore al bastimento,  non fosse stato là a 
      dirigerlo. 
      Si  erano  accorti  ben  presto  del  bastimento  cacciatore   che 
      inseguiva  ma con l'aiuto della notte e passando la punta del capo 
      Corso erano riusciti a fuggire. 
      In sostanza  questo  viaggio  non  era  stato  cattivo,  e  tutti, 
      particolarmente Jacopo, erano spiacenti che Dantès non fosse stato 
      con  loro  per ottenere la propria parte di utili che essi avevano 
      riportati, parte che ammontava a cinquanta piastre. 
      Edmondo rimase impassibile e non sorrise nemmeno alla enumerazione 
      dei  vantaggi  di  cui  avrebbe  potuto  aver  parte   se   avesse 
      abbandonata l'isola;  e siccome la Giovane Amelia non era venuta a 
      Montecristo che per prenderlo,  egli s'imbarcò  subito  la  stessa 
      sera,  e seguì il suo padrone a Livorno. Appena giunto, andò da un 
      ebreo a vendere per venticinque mila franchi ciascuno, quattro dei 
      suoi più piccoli diamanti.  L'ebreo avrebbe potuto informarsi come 
      un  pescatore fosse possessore di simili oggetti,  ma se ne guardò 
      bene, perché guadagnava mille franchi sopra ciascuno. 
      L'indomani Dantès comprò una barca  nuova  che  regalò  a  Jacopo, 
      aggiungendo a questo dono cento piastre perché potesse provvedersi 
      dell'equipaggio  e ciò a condizione che Jacopo andasse a Marsiglia 
      a chieder  notizia  di  un  vecchio  chiamato  Luigi  Dantès,  che 
      dimorava  nei viali di Meillan,  e di una giovinetta dimorante nel 
      villaggio dei Catalani che si chiamava Mercedes. 
      Allora fu Jacopo che credette di sognare. 
      Ma Edmondo  gli  raccontò  che  si  era  fatto  marinaio  per  una 
      bizzarria,  e  perché  la  sua  famiglia non gli voleva passare il 
      denaro necessario per le sue spese minute,  ma giungendo a Livorno 
      era entrato in possesso della eredità di un suo zio,  che lo aveva 
      fatto erede universale. 
      L'educazione di Dantès dava a questa storia una tale  impronta  di 
      verità,  che  Jacopo  non  dubitò  un  momento  che  il suo antico 
      compagno gli dicesse il vero. 
      D'altra parte,  essendo terminato l'impegno di Edmondo col padrone 
      della  Giovane  Amelia,  prese  congedo dal vecchio marinaio,  che 
      dapprima tentò di trattenerlo,  ma,  ascoltata da Jacopo la storia 
      dell'eredità,  rinunciò  perfino  alla  speranza  di  opporsi alla 
      decisione del suo antico compagno. 
      L'indomani Jacopo mise la vela per Marsiglia; doveva poi ritrovare 
      Edmondo a Montecristo.  Lo stesso giorno Dantès partì  senza  dire 
      dove  andava,  prendendo  congedo  dall'equipaggio  della  Giovane 
      Amelia,   donando  una  splendida   gratifica,   e   dal   padrone 
      promettendogli di fargli avere un giorno o l'altro sue notizie. 
      Dantès andò a Genova. 
      Nel  momento  in  cui  arrivava  veniva  armato  un  piccolo yacht 
      ordinato da un inglese, che, avendo inteso dire i genovesi erano i 
      migliori costruttori del  mediterraneo,  aveva  voluto  avere  uno 
      yacht  costruito  a  Genova.  L'inglese aveva offerto il prezzo di 
      quarantamila franchi: Dantès ne offrì sessantamila,  a  condizione 
      che  il  bastimento  gli  sarebbe  stato  consegnato  nello stesso 
      giorno. 
      L'inglese era andato a fare un giro in Svizzera aspettando che  il 
      suo  bastimento  fosse  terminato;  non doveva tornare che fra tre 
      settimane o un mese,  ed il costruttore pensò che avrebbe avuto il 
      tempo di rimetterne un altro in cantiere. 
      Dantès  condusse  il costruttore da un ebreo,  passò con lui nello 
      stanzino dietro la bottega,  e l'ebreo contò sessantamila  franchi 
      al  costruttore;  questi  offerse  a  Dantès  i  suoi  servigi per 
      fornirgli un equipaggio,  ma Dantès lo  ringraziò  dicendogli  che 
      aveva  l'abitudine  di  navigar  solo  e  che  la  sola  cosa  che 
      desiderava era che nella cabina,  a capo del letto,  vi  fosse  un 
      armadio  segreto con tre scomparti pure segreti: dette le misure e 
      tutto fu eseguito all'indomani. 
      Due ore dopo,  Dantès uscì dal porto  di  Genova,  scortato  dagli 
      sguardi  di  una  folla  di curiosi che volevano vedere il signore 
      spagnolo che aveva l'abitudine di navigar solo. 
      Dantès se la cavò a meraviglia: con l'aiuto del timone  fece  fare 
      al suo bastimento tutte le evoluzioni necessarie; si sarebbe detto 
      un  essere intelligente pronto ad obbedire al più piccolo impulso, 
      e Dantès convenne che i  genovesi  meritavano  la  reputazione  di 
      primi  costruttori  navali  del mondo.  I curiosi seguirono con lo 
      sguardo il piccolo bastimento,  fino a  che  l'ebbero  perduto  di 
      vista,  ed  allora cominciarono le discussioni per sapere dove era 
      diretto: alcuni dicevano in Corsica, altri all'isola d'Elba, altri 
      ancora proponevano scommesse sulla Spagna, e altri sostenevano che 
      andava in Africa... Nessuno pensò all'isola di Montecristo. 
      Era all'isola di Montecristo che andava Dantès.  Vi  giunse  sulla 
      fine   del   secondo   giorno.   Il  naviglio  era  un  eccellente 
      veleggiatore, e aveva percorsa la distanza in trentacinque ore. 
      Dantès aveva perfettamente riconosciuto il  profilo  della  costa: 
      invece  di  approdare  al  consueto  porto,  gettò  l'ancora nella 
      piccola rada. 
      L'isola era deserta;  non sembrava che qualcuno vi fosse approdato 
      dopo la partenza di Dantès. 
      Egli  tornò  al  tesoro:  tutto  era  nello  stato in cui lo aveva 
      lasciato. 
      L'indomani sera,  l'immensa fortuna era stata trasportata a  bordo 
      dello yacht, e racchiusa nell'armadio a compartimenti segreti. 
      Dantès  aspettò  ancora  otto  giorni.  In questi otto giorni fece 
      manovrare il suo yacht attorno l'isola,  scandagliandola come  uno 
      scudiero studia un cavallo. 
      Dopo questo tempo egli sapeva tutte le qualità e i difetti del suo 
      bastimento,  e  si riprometteva di aumentare le une e di rimediare 
      agli altri. 
      Nell'ottavo giorno vide un piccolo  bastimento  che  veniva  verso 
      l'isola  a  vele  gonfie  e riconobbe la barca di Jacopo.  Fece un 
      segnale al quale Jacopo rispose,  e due  ore  dopo  la  barca  era 
      vicina allo yacht. 
      Jacopo  aveva  una  triste  risposta  a ciascuna delle due domande 
      fatte da Edmondo:  il  vecchio  Dantès  era  morto;  Mercedes  era 
      sparita. 
      Edmondo  ascoltò  queste  due  notizie con viso calmo;  ma discese 
      subito a terra proibendo che alcuno lo seguisse. 
      Due ore dopo ritornò;  due uomini della barca di Jacopo  passarono 
      sul suo yacht per aiutarlo a manovrare; ordinò di mettere la rotta 
      su Marsiglia. 
      Prevedeva  la  morte  di  suo  padre.  Ma  di  Mercedes che ne era 
      avvenuto? 
      Senza divulgare il suo segreto, Edmondo non poteva dare istruzioni 
      sufficienti  ad  un  agente;   d'altronde  voleva  prendere  altre 
      informazioni,  e non poteva fidarsi che di se stesso.  Lo specchio 
      lo aveva rassicurato a Livorno:  non  correva  alcun  pericolo  di 
      essere   riconosciuto;   d'altronde   aveva   tutti  i  mezzi  per 
      camuffarsi. 
      Una mattina dunque, lo yacht,  seguito dalla piccola barca,  entrò 
      bravamente nel porto di Marsiglia e si fermò appunto dirimpetto al 
      luogo  dove  era  stato  imbarcato Dantès,  la sera che lo avevano 
      portato al Castello d'If. 
      Non fu certamente senza una specie  di  fremito  che  vide,  nella 
      lancia della Sanità, venire un gendarme. Ma Dantès con la perfetta 
      sicurezza acquistata,  gli presentò un passaporto inglese,  di cui 
      si  era  provveduto  a  Livorno,   e  mediante  il   lasciapassare 
      straniero,   molto  più  rispettato  in  Francia,   discese  senza 
      difficoltà a terra. 
      La  prima  persona  che  Dantès  vide,  mettendo  il  piede  sulla 
      piattaforma dello scalo, fu uno degli antichi marinai del Faraone. 
      Quest'uomo  aveva  servito  sotto  i  suoi ordini,  e non c'era di 
      meglio per assicurare Dantès sul proprio cambiamento. 
      Andò diritto a  quest'uomo,  e  gli  fece  molte  domande.  Questi 
      rispondeva  senza  neppure  lasciar  supporre,  né dalle parole né 
      dalla fisonomia che ricordasse di averlo mai veduto. 
      Dantès regalò al marinaio una moneta per  ringraziarlo  delle  sue 
      informazioni; un momento dopo il bravo uomo gli correva dietro. 
      Dantès si voltò. 
      "Scusi,   signore"   disse  il  marinaio,   "vi  siete  certamente 
      sbagliato,  avete creduto di darmi un pezzo da quaranta soldi e mi 
      avete dato un napoleone doppio." 
      "Infatti,  amico mio" disse Dantès,  "mi ero sbagliato; ma siccome 
      la vostra onestà merita una ricompensa,  così eccovene  un  altro, 
      che  vi  prego  di  accettare  per bere alla mia salute coi vostri 
      compagni." 
      Questi fu talmente stordito dal regalo,  che non pensò  nemmeno  a 
      ringraziare  colui  che  glielo  faceva,  lo guardò e si allontanò 
      dicendo: 
      "E' un qualche nababbo che viene dalle Indie!" 
      Dantès continuò la sua strada;  ciascun  passo  opprimeva  il  suo 
      cuore  con  una  nuova emozione.  Tutti i suoi ricordi d'infanzia, 
      ricordi indelebili, eternamente presenti al suo pensiero, erano là 
      su ogni piazza, ad ogni angolo di strada, ad ogni crocicchio. 
      Giungendo all'estremità della rue Noailles,  nel vedere i viali di 
      Meillan  sentì  le  ginocchia piegarglisi e poco mancò non cadesse 
      sotto le ruote di una carrozza. Giunse alla casa che aveva abitata 
      suo padre. 
      I nasturzi e le clematidi erano spariti  dalla  pergola,  dove  la 
      mano tremante del vecchio li trapiantava con cura. 
      Dantès  si  appoggiò  ad  un  albero  e  per  qualche  tempo restò 
      pensieroso guardando l'ultimo piano di quell'umile e povera  casa; 
      poi  avanzò  verso  la porta,  ne superò la soglia e domandò se vi 
      fosse un alloggio vacante,  e tanto  insistette  per  visitare  il 
      quinto piano,  che, quantunque fosse occupato, il portinaio salì e 
      domandò il permesso di vedere le due stanze di cui si componeva. 
      Occupavano questo piccolo appartamento  due  giovani  maritati  da 
      otto giorni soltanto. 
      Vedendo questi sposi, Dantès mandò un profondo sospiro. 
      Nulla  più richiamava alla memoria di Dantès l'appartamento di suo 
      padre: non c'era più la stessa carta alle pareti,  non c'erano più 
      quei  vecchi mobili,  quegli amici dell'infanzia di Edmondo,  vivi 
      nel  suo  pensiero  nei  loro  più  piccoli  dettagli:  tutto  era 
      cambiato. Solo le mura erano le stesse. 
      Dantès si volse dalla parte del letto,  che era nello stesso posto 
      in cui lo teneva l'antico pigionale.  Suo malgrado,  gli occhi  di 
      Edmondo  si  bagnarono  di lacrime: era quel luogo dove il vecchio 
      aveva reso l'ultimo sospiro invocando il figlio!... 
      I due giovani guardarono con meraviglia  quest'uomo  dalla  fronte 
      severa,  sulle  cui guance scorrevano due grosse lacrime senza che 
      il viso si movesse.  Ma,  siccome ogni dolore porta con sé la  sua 
      religione,  i  giovani non fecero alcuna domanda allo sconosciuto; 
      solo si ritirarono per lasciarlo piangere a suo agio. Quando uscì, 
      lo accompagnarono dicendogli che poteva ritornare quando voleva, e 
      che la loro povera casa gli sarebbe stata sempre aperta. 
      Passando al piano di sotto,  Edmondo si fermò davanti ad  un'altra 
      porta,   e   domandò  se  abitava  sempre  lì  un  sarto  chiamato 
      Caderousse,  ma il portinaio gli rispose che l'uomo di cui parlava 
      avendo fatti cattivi affari, era andato ad abitare sulla strada da 
      Bellegarde a Beaucaire, ove conduceva l'albergo del Ponte di Gard. 
      Dantès  discese,  domandò  l'indirizzo del proprietario della casa 
      sui viali di Meillan,  andò da lui,  si fece annunciare  sotto  il 
      nome  di  lord  Wilmore  (erano  il  nome ed il titolo che stavano 
      scritti sul passaporto), e comprò quella piccola casa per la somma 
      di venticinquemila franchi, almeno diecimila franchi più di quello 
      che valeva, ma Dantès,  se gli avessero chiesto mezzo milione,  lo 
      avrebbe pagato. 
      Nello  stesso  giorno,  i  giovani  che  abitavano il quinto piano 
      furono avvertiti dal notaio che aveva stipulato il contratto,  che 
      il  nuovo  proprietario  li  invitava  alla  scelta  di  un  altro 
      appartamento della casa, senza aumentare in alcun modo la pigione, 
      a condizione che cedessero le due camere che occupavano. 
      Questa strana proposta fu materia di  discorsi  per  più  di  otto 
      giorni  a  quanti  erano soliti frequentare i viali di Meillan,  e 
      fece fare mille congetture, di cui neppure una esatta. 
      Ma ciò che più di tutto imbrogliò i cervelli,  e turbò  tutti  gli 
      spiriti,  fu vedere quella stessa sera quel medesimo uomo,  che la 
      mattina era stato veduto entrare nella casa dei viali di  Meillan, 
      passeggiare  nel  piccolo  villaggio dei Catalani e entrare in una 
      povera casa di pescatori,  dove restò più di due  ore  a  domandar 
      notizie d'individui che parte erano morti e parte spariti da molti 
      anni. 
      L'indomani  le  persone presso le quali era entrato per fare tutte 
      quelle  domande,   ricevettero  in  regalo  una  nuovissima  barca 
      catalana,  guarnita  di  due scarticarie e di altre reti da pesca. 
      Questa  brava  gente  avrebbe  voluto  ringraziare   il   generoso 
      sconosciuto, ma l'avevano visto dopo aver dato alcuni ordini ad un 
      marinaio,  montare a cavallo e uscire da Marsiglia per la porta di 
      Aix. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 26. 
                         L'ALBERGO DEL PONTE DI GARD. 
 
 
      Coloro che hanno percorso a piedi il  mezzogiorno  della  Francia, 
      avranno potuto rimarcare fra Bellegarde e Beaucaire, circa a mezza 
      strada dal villaggio alla città, ma un poco più presso a Beaucaire 
      che  a  Bellegarde,  un  piccolo  albergo,  sulla cui facciata sta 
      appesa una tabella che stride al più piccolo vento,  e  su  cui  è 
      grottescamente dipinto il Ponte di Gard. 
      Questo  piccolo  albergo,  prendendo  per  il corso del Rodano,  è 
      situato dalla parte sinistra della strada,  voltando le spalle  al 
      fiume.  Ha anche ciò che nella Linguadoca viene chiamato giardino, 
      vale a dire,  che il lato opposto a quello  che  tiene  aperta  la 
      porta  ai  viaggiatori  dà  su  un  recinto in cui vegetano alcuni 
      ulivi,  qualche fico selvaggio,  colle  foglie  inargentate  dalla 
      polvere della strada,  e vi crescono, al posto dei legumi, il pepe 
      d'India,  le cipolline,  e lo zafferano;  e infine  in  uno  degli 
      angoli,  come una sentinella dimenticata, cresce un gran girasole, 
      lanciando in alto  il  suo  fusto  malinconico  e  flessibile,  ed 
      aprendo a ventaglio la sua cima. 
      Tutti  questi  alberi grandi e piccoli,  sono tutti piegati per il 
      maestrale,  uno dei tre flagelli della Provenza.  (Gli altri  due, 
      come si sa, o come non si sa, erano la Durance e il Parlamento.) 
      Qui  e  là  nella circostante pianura,  che rassomiglia ad un gran 
      lago di polvere,  vegetano alcune  spighe  di  frumento,  che  gli 
      ortolani  del  paese  coltivano  senza  dubbio  per  curiosità,  e 
      ciascuna  delle  quali  serve  di  ricovero  ad  una  cicala   che 
      perseguita  col suo canto agro e monotono il viaggiatore perdutosi 
      in quella Tebaide. 
      Da sette o otto anni circa, questo piccolo albergo era condotto da 
      un uomo e  da  una  donna  che  avevano  per  soli  domestici  una 
      cameriera  chiamata  Trinette  ed  uno stalliere che rispondeva al 
      nome di Pacaud,  doppia cooperazione,  che del resto era  più  che 
      sufficiente ai bisogni del servizio,  poiché un canale scavato fra 
      Beaucaire e Aiguesmortes aveva fatto sostituire vittoriosamente  i 
      battelli ai barrocci e le barche alle diligenze. 
      Questo  canale,  come  per  rendere  più  vivi  i  dispiaceri  dei 
      disgraziati albergatori che rovinava,  passa fra il Rodano che  lo 
      alimenta  e  la  strada  che  lo  dissecca,  a  cento  passi circa 
      dall'albergo di cui abbiamo data una corta ma fedele  descrizione. 
      Non dimentichiamo un cane,  vecchio guardiano per la notte,  e che 
      abbaiava contro i passanti così di giorno che nelle tenebre, tanto 
      aveva perduto, poco alla volta, l'abitudine di vedere viaggiatori. 
      Il  conduttore  di  questo  piccolo  albergo  era  un   uomo   sui 
      quarant'anni,  alto,  secco  e  nerboruto,  vero tipo meridionale, 
      cogli occhi infossati e vivaci,  col naso a  becco  d'aquila  e  i 
      denti bianchi come quelli di un animale carnivoro.  I suoi capelli 
      che,  malgrado i primi soffi dell'età,  non sembravano decidersi a 
      diventar bianchi,  erano, come la barba che portava lunga e ad uso 
      di collare, fitti,  crespi e appena sparsi di qualche pelo grigio: 
      il suo colorito,  naturalmente scuro,  era ricoperto da una patina 
      nerastra,  presa dall'abitudine che aveva di stare  dalla  mattina 
      alla  sera  sul  limitare della porta,  per vedere se a piedi o in 
      carrozza,  giungesse  qualche  avventore,  aspettativa  che  quasi 
      sempre  andava  perduta.  e  durante  la quale non opponeva riparo 
      all'azione dei raggi divoratori del  sole  sul  viso,  fuorché  un 
      fazzoletto  rosso  annodato  sulla  testa,  secondo il costume dei 
      mulattieri spagnoli. 
      Quest'uomo è una nostra vecchia conoscenza, Gaspare Caderousse. 
      Sua moglie,  che da nubile si chiamava Maddalena Radelle,  era una 
      donna pallida,  magra e malaticcia. Nata nei dintorni d'Arles, pur 
      conservando tutte le tracce della bellezza tradizionale delle  sue 
      compatriote,  aveva il viso scomposto dagli accessi quasi continui 
      di una di quelle  febbri  sorde,  tanto  comuni  alle  popolazioni 
      vicine agli stagni di Aiguesmortes ed alle paludi della Camargo. 
      Se  ne  stava  quasi  sempre seduta e tremante nel fondo della sua 
      camera situata al primo piano, o stesa sopra un sofà, o appoggiata 
      contro il letto,  mentre suo marito montava  la  guardia  consueta 
      alla  porta  della  casa,  fazione  che  egli prolungava tanto più 
      volentieri,  in quanto ogni volta che si accostava alla  sua  egra 
      metà,  questa lo perseguitava con eterne lagnanze contro la sorte, 
      lagnanze alle quali suo marito non rispondeva d'ordinario che  con 
      queste filosofiche parole: 
      "Taci là, Carconta! E' Dio che vuole così!" 
      Questo soprannome era dato a Maddalena Radelle perché era nata nel 
      piccolo  villaggio  della  Carconta,  posto  fra  Salon e Lambèse. 
      Secondo un costume del paese,  le  persone  vengono  quasi  sempre 
      chiamate con un soprannome invece che per nome, e suo marito aveva 
      sostituito  questo vocabolo alla parola Maddalena troppo dolce,  e 
      forse poco sonora per il suo rozzo linguaggio. 
      Però,  malgrado questa  pretesa  rassegnazione  ai  decreti  della 
      Provvidenza,  non  si creda che il nostro albergatore non sentisse 
      profondamente lo stato deplorabile in cui lo  aveva  ridotto  quel 
      miserabile  canale  di  Beaucaire  e  che fosse invulnerabile alle 
      incessanti lamentele con cui lo perseguitava la moglie. 
      Era,  come tutti i meridionali,  un uomo moderato e  senza  grandi 
      bisogni, ma pieno di vanità per tutte le cose esteriori. 
      Nei  tempi  della sua prosperità,  non lasciava mai passare né una 
      festa di villaggio,  né una processione senza andarci con  la  sua 
      Carconta;   l'uno   col   costume   pittoresco  degli  uomini  del 
      mezzogiorno, ad un tempo catalano e andaluso, l'altra col grazioso 
      abito delle donne d'Arles,  che sembra per metà greco e  per  metà 
      arabo.  Ma un poco per volta, catene da orologio, collane, cinture 
      a  mille  colori,  giubbe  gallonate,  vesti  di  velluto,   calze 
      ricamate,  ghette  variopinte,  scarpe  con fibbie d'argento erano 
      sparite,   e  Gaspare  Caderousse,   non  potendo  più   mostrarsi 
      all'altezza  del passato splendore,  aveva rinunciato per sé e per 
      la moglie a tutte quelle pompe mondane di cui  sentiva,  rodendosi 
      sordamente  il  cuore,  i  festevoli  rumori  fin sulla soglia del 
      povero albergo,  che continuava a conservare più come ricovero che 
      come fonte di reddito. 
      Caderousse,  secondo  la  sua abitudine,  aveva sostato gran parte 
      della mattina davanti alla porta,  girando lo sguardo  malinconico 
      da  una  piccola zolla,  intorno a cui razzolavano alcune galline, 
      alle due estremità della strada deserta che si perdevano,  una  al 
      mezzogiorno  e  l'altra al nord.  Tutto ad un tratto la voce acida 
      della moglie lo costrinse ad abbandonare il posto. 
      Rientrò brontolando e salì al primo piano,  lasciando però  sempre 
      aperta  e  spalancata la porta,  come per invitare i viaggiatori a 
      non dimenticarlo, passando. 
      Nel momento che  Caderousse  entrava,  la  grande  strada  di  cui 
      abbiamo parlato,  e che veniva percorsa dai suoi sguardi, era così 
      nuda  e  così  solitaria  quanto  il  deserto   dalla   parte   di 
      mezzogiorno:  si stendeva bianca ed infinita fra due file d'alberi 
      sottili,  e si  comprenderà  facilmente  che  nessun  viaggiatore, 
      libero   di   scegliere  un'altra  ora  del  giorno,   si  sarebbe 
      avventurato in questo spaventevole Sahara. 
      Però,  contro tutte le probabilità se Caderousse fosse rimasto  al 
      suo  posto,  avrebbe  potuto scorgere dalla parte di Bellegarde un 
      cavaliere ed un cavallo sopraggiungere con quell'andatura  sciolta 
      ed  amichevole  che  indica  le  migliori  relazioni  fra l'uomo e 
      l'animale: il cavallo era di razza ungherese, e andava comodamente 
      al trotto,  il cavaliere era un prete  vestito  di  nero  col  suo 
      cappello  a  tre  angoli.  Malgrado  l'eccessivo  calore d'un sole 
      ardente nell'ora del mezzogiorno,  non andavano tutti e due che di 
      un trotto molto regolato. 
      Giunti dinanzi alla porta si fermarono. 
      Sarebbe  stato  difficile  decidere  se  fu  l'uomo  che  fermò il 
      cavallo, o il cavallo che fermò l'uomo. In ogni modo, il cavaliere 
      mise piede a terra,  e tirando l'animale per  le  redini  andò  ad 
      attaccarlo  all'arpione  di uno sportello rovinato che non reggeva 
      più se non sopra un cardine, quindi avanzandosi verso la porta,  e 
      asciugandosi  la  fronte  grondante di sudore con un fazzoletto di 
      cotone rosso,  batté tre colpi sul limitare,  col puntale di ferro 
      della canna che teneva in mano. 
      Subito il gran cane nero si alzò e fece qualche passo, abbaiando e 
      mostrando  i denti bianchi ed acuti;  doppia dimostrazione ostile, 
      che  provava  la   poca   abitudine   che   aveva   alle   visite. 
      Immediatamente  dopo,  un  passo  grave  rumoreggiò sulla scala di 
      legno che si arrampicava lungo il muro,  e ne discese,  curvandosi 
      all'indietro, l'oste della meschina taverna. 
      "Eccomi" diceva Caderousse meravigliato.  "Eccomi! Vuoi star zitto 
      Margotin!  Non  abbiate  paura,  signore,  abbaia  ma  non  morde. 
      Desiderate del vino, non è vero?, perché c'è un sole tremendo. Ah, 
      mi  scusi"  interruppe  Caderousse,  vedendo  con  quale specie di 
      viandante parlava,  "mi scusi,  non sapevo chi  avevo  l'onore  di 
      ricevere...  Che desiderate?  che domandate, signor abate? Sono ai 
      vostri ordini." 
      Il prete guardò quest'uomo per due o tre secondi con un'attenzione 
      straordinaria,   e  sembrò  cercasse  di  attirare  sopra  di   sé 
      l'attenzione  dell'albergatore;  ma  vedendo  che  i lineamenti di 
      costui non esprimevano altro sentimento che  la  sorpresa  di  non 
      avere una risposta,  giudicò fosse tempo di finirla e disse con un 
      accento italiano ben pronunziato: 
      "Non siete il signor Caderousse?" 
      "Sì,  signore" disse l'oste,  forse stupito più della domanda  che 
      non  del  silenzio,  "sono effettivamente Gaspare Caderousse,  per 
      servirvi." 
      "Gaspare  Caderousse?...   Sì...,   credo  siano  questi  nome   e 
      cognome...  Voi dimoravate in altri tempi sui viali di Meillan, al 
      quarto piano, non è vero?" 
      "Precisamente." 
      "Ed esercitavate la professione di sarto?" 
      "Sì,  ma la mia professione andò male,  fa tanto caldo  in  quella 
      maledetta  Marsiglia,  che  andrà  a finire che nessuno si vestirà 
      più.  Ma a proposito di calore,  non volete prender  qualcosa  per 
      rinfrescarvi, signor abate?" 
      "Sia pure.  Datemi una bottiglia del miglior vino che avete, e poi 
      riprenderemo la conversazione, se non vi dispiace, al punto in cui 
      la lasciamo." 
      "Come vi farà più piacere, signor abate" disse Caderousse, e,  per 
      non  perdere  l'occasione di vendere una delle ultime bottiglie di 
      vino di Cahors che gli restavano, si affrettò ad alzare una botola 
      che copriva un'apertura fatta nel pavimento della  camera  a  pian 
      terreno, che serviva ad un tempo da sala e da cucina. 
      Allorché,  in  capo a cinque minuti,  ricomparve,  ritrovò l'abate 
      seduto su uno sgabello col gomito appoggiato a una  lunga  tavola, 
      mentre  Margotin,  sembrando  aver  fatto  pace con Caderousse,  e 
      aspettando  che,   diversamente  dal  solito,   questo   singolare 
      viaggiatore  ordinasse  qualche cosa,  allungava il collo scarno e 
      l'occhio languente. 
      "Siete solo?" domandò l'abate all'oste,  mentre questi gli metteva 
      davanti la bottiglia. 
      "Oh,  mio Dio,  sì, solo, o circa, poiché ho una moglie che non mi 
      può aiutare in cosa  alcuna,  essendo  la  povera  Carconta  quasi 
      sempre malata." 
      "Ah,   voi   siete  ammogliato?"  disse  l'abate  con  una  specie 
      d'interesse, girando intorno uno sguardo,  che sembrava stimare il 
      tenue valore delle meschine suppellettili della stanza. 
      "Vi  accorgete  che non sono ricco,  non è vero?" disse sospirando 
      Caderousse.  "Ma per esser fortunati in questo  mondo,  non  basta 
      sempre essere onest'uomo." 
      L'abate fissò uno sguardo indagatore su di lui. 
      "Sì,   un  onesto  uomo,  di  ciò  posso  vantarmi"  disse  l'oste 
      sostenendo lo sguardo dell'abate, con una mano sul petto e alzando 
      la  testa,   "e  nella  nostra  epoca  non  tutti   possono   dire 
      altrettanto." 
      "Tanto meglio, se è vero ciò di cui vi vantate; poiché ho la ferma 
      convinzione che presto o tardi l'uomo onesto viene ricompensato ed 
      il perverso punito." 
      "E' il vostro stato che vi fa dir così,  signor abate, è il vostro 
      stato  che  vi  fa  dir  così"  ripeté  Caderousse,  con  un'amara 
      espressione.  "La realtà però ci mostra spesso il contrario di ciò 
      che dite." 
      "Avete torto di parlar così"  disse  l'abate,  "perché  forse  fra 
      qualche istante io sarò per voi una prova di ciò che asserisco." 
      "Che volete dire?" domandò Caderousse con meraviglia. 
      "Voglio  dire  che prima di tutto bisogna che mi assicuri se siete 
      realmente quello col quale devo avere a che fare." 
      "Quali prove volete che vi dia?" 
      "Avete conosciuto nel 1814 o 1815  un  marinaio  che  si  chiamava 
      Dantès?" 
      "Dantès?  Se ho conosciuto il povero Edmondo?  Lo credo bene!  Era 
      uno dei miei migliori amici!" esclamò Caderousse,  il cui volto si 
      era  fatto di porpora,  mentre l'occhio chiaro e sicuro dell'abate 
      sembrava dilatarsi per scoprire interamente colui che interrogava. 
      "Sì, credo infatti che si chiamasse Edmondo." 
      "Se si chiamava Edmondo quel ragazzo? Lo credo bene! Tanto è vero, 
      quanto mi chiamo Gaspare Caderousse!  E che è  avvenuto,  signore, 
      del povero Edmondo?" continuò il taverniere.  "L'avete conosciuto? 
      dov'è adesso? è felice?" 
      "E' morto prigioniero,  più disperato e più miserabile dei forzati 
      che trascinano la loro catena ai lavori forzati di Tolone." 
      Un pallore mortale si sostituì al rossore sul viso di Caderousse. 
      Si voltò e l'abate lo vide asciugarsi una lacrima con un lembo del 
      fazzoletto che gli serviva di berretto. 
      "Povero  ragazzo" mormorò Caderousse.  "Ebbene ecco un'altra prova 
      di quel  che  vi  dicevo:  il  destino,  in  questa  vita,  non  è 
      favorevole che ai più malvagi.  Ah" continuò Caderousse,  con quel 
      linguaggio animato delle genti del mezzogiorno,  "questo mondo  va 
      di  male  in peggio.  Che piova dunque una volta dal cielo per due 
      giorni polvere da cannone, e poi subito dopo un'ora di fuoco, così 
      sarà tutto finito!" 
      "Sembra che amaste di cuore questo giovane?" domandò l'abate. 
      "Sì,   lo  amavo  molto"  disse  Caderousse,   "quantunque   debba 
      rimproverarmi  di  avere per un istante invidiata la sua felicità. 
      Ma dopo, ve lo giuro, parola di Caderousse, ho pianto molto la sua 
      sorte infelice!" 
      Si fece un istante di silenzio,  durante il quale lo sguardo fisso 
      dell'abate  non  cessò  un momento di studiare la fisonomia mobile 
      dell'albergatore. 
      "E voi lo avete conosciuto il  povero  giovane?"  continuò  allora 
      Caderousse. 
      "Fui  chiamato  al  suo  letto  di morte per prestargli gli ultimi 
      uffici" rispose l'abate. 
      "E di che male è morto?" domandò Caderousse con voce soffocata. 
      "Di qual male si muore in prigione, all'età di trent'anni,  se non 
      è la prigione stessa che uccide?" 
      Caderousse asciugò il sudore dalla sua fronte. 
      "Ciò  che  c'è di strano in tutto questo" rispose l'abate,  "è che 
      Dantès,  sul letto di morte,  mi ha giurato di non sapere la  vera 
      causa della sua prigionia." 
      "E'  vero,  è vero" mormorò Caderousse,  "non poteva saperlo,  no, 
      signor abate, il povero giovane non mentiva." 
      "Ed è perciò appunto,  che mi ha incaricato di porre in chiaro ciò 
      che  non  aveva  mai  potuto  rischiarare  da  se  stesso,   e  di 
      riabilitare la sua memoria,  se  questa  memoria  avesse  ricevuta 
      qualche macchia." 
      Lo  sguardo  dell'abate,   divenendo  sempre  più  fisso,   divorò 
      l'espressione quasi tetra che apparve sul viso di Caderousse. 
      "Un ricco inglese" continuò  l'abate,  "che  fu  suo  compagno  di 
      prigione  e  che  venne  liberato alla seconda Restaurazione,  era 
      possessore di un diamante di gran  valore.  Uscendo  di  prigione, 
      siccome  Dantès  lo  aveva assistito come un fratello in una lunga 
      malattia che aveva sofferto,  volle lasciargli  una  testimonianza 
      della  sua  riconoscenza,  e  gli  regalò questo diamante.  Dantès 
      invece di servirsene per sedurre i suoi carcerieri che  d'altronde 
      potevano  prenderlo e poi tradirlo,  lo custodì sempre gelosamente 
      per il caso uscisse dalla prigione; se fosse uscito la sua fortuna 
      era assicurata colla vendita di quel diamante." 
      "Era dunque,  come voi  dicevate"  domandò  Caderousse  con  occhi 
      ardenti, "un diamante di sommo valore?" 
      "Tutto  è  relativo"  rispose  l'abate,  "era  di  gran valore per 
      Edmondo; questo diamante è stato stimato cinquantamila franchi." 
      "Cinquantamila franchi!" esclamò Caderousse.  "Sarà  stato  grosso 
      come una noce?" 
      "No,  niente affatto" disse l'abate.  "Ma ne potrete giudicare voi 
      stesso, avendolo qui con me." 
      Caderousse sembrò cercare con gli occhi sotto le vesti  dell'abate 
      il gioiello di cui parlava. 
      L'abate  cavò  dalla  sua tasca una scatolina di marrocchino nero, 
      l'aprì e fece brillare innanzi agli occhi abbagliati di Caderousse 
      la sfavillante meraviglia,  legata sopra un anello  di  ammirabile 
      lavorazione. 
      "E   questo   vale   cinquantamila  franchi?"  domandò  avidamente 
      Caderousse. 
      "Senza la legatura, che è anche essa di un certo valore." 
      Chiuse la scatoletta,  rimise nella sua  tasca  il  diamante,  che 
      continuava a sfavillare in fondo all'immaginazione di Caderousse. 
      "Ma  come  vi  trovate  possessore  di  questo  diamante?" domandò 
      Caderousse. "Edmondo vi ha dunque costituito suo erede?" 
      "No, ma suo esecutore testamentario.  "Io avevo tre buoni amici ed 
      una  fidanzata"  mi disse,  "e tutti e quattro,  ne son certo,  mi 
      compiangono amaramente;  uno di questi miei buoni amici si  chiama 
      Caderousse." 
      Caderousse fremette. 
      "L'altro"  continuò  l'abate  senza  mostrare  di  essersi accorto 
      dell'emozione di Caderousse,  "l'altro si  chiamava  Danglars;  il 
      terzo" soggiunse, "benché mio rivale, mi amava ugualmente..." 
      Un sorriso diabolico illuminò la fisonomia di Caderousse, che fece 
      un movimento per interrompere l'abate. 
      "Aspettate" disse l'abate, "lasciatemi finire, e se avrete qualche 
      osservazione da farmi,  la farete fra breve. "L'altro, sebbene mio 
      rivale mi amava ugualmente, e si chiamava Fernando; in quanto alla 
      mia fidanzata,  il suo nome era..." Non mi  ricordo  più  il  nome 
      della fidanzata" disse l'abate. 
      "Mercedes" soggiunse Caderousse. 
      "Ah  sì,  è  questo"  riprese  l'abate  con  un sorriso soffocato, 
      "Mercedes..." 
      "Ebbene?" domandò Caderousse. 
      "Datemi una bottiglia d'acqua" disse l'abate. 
      Caderousse si affrettò ad obbedire. 
      L'abate empì il bicchiere e ne bevette qualche sorsata. 
      "Dove  eravamo?"  domandò  questi  deponendo  il  bicchiere  sulla 
      tavola.  "La fidanzata si chiamava Mercedes;  sì,  è questa.  "Voi 
      andrete da Mercedes"... E' Dantès che parla, capite bene?" 
      "Perfettamente." 
      "Venderete  questo  diamante,   ne  farete  cinque  parti,   e  le 
      dividerete fra questi miei buoni amici, i soli esseri che mi hanno 
      amato su questa terra!" 
      "In  che  modo  cinque  parti?"  disse  Caderousse.  "Non mi avete 
      nominate che quattro persone." 
      "Perché la quinta è morta, da quanto mi è stato detto... la quinta 
      era il padre di Dantès." 
      "Purtroppo è vero!" disse Caderousse commosso dalle  passioni  che 
      contrastavano  nel  suo  cuore,  "purtroppo  sì,  il  pover'uomo è 
      morto!" 
      "Ho  saputo  quest'avvenimento  a   Marsiglia"   rispose   l'abate 
      sforzandosi  di  comparire  indifferente,  "ma è tanto tempo che è 
      avvenuta questa  morte,  che  non  ho  potuto  raccogliere  nessun 
      particolare... Sapreste dirmi qualche cosa di quel vecchio?" 
      "Eh" disse Caderousse, "chi lo può sapere meglio di me?... Abitavo 
      porta a porta col buon uomo... Oh mio Dio, sì, un anno appena dopo 
      la sparizione di suo figlio il povero vecchio morì!" 
      "Ma di che morì?" 
      "I medici nominarono la sua malattia gastroenterite, credo, quelli 
      che lo conoscevano,  dicevano che era morto di dolore... e io, che 
      l'ho quasi veduto morire, dico che è morto..." 
      Caderousse si fermò. 
      "Morto di che?" riprese con ansietà l'abate. 
      "Morto di fame." 
      "Di  fame!"  esclamò  l'abate  scuotendosi  sullo  sgabello,   "di 
      fame!...  Il più vile degli animali non muore di fame;  i cani che 
      vanno errando per le contrade trovano una mano compassionevole che 
      getta un tozzo di pane! E un uomo,  un cristiano,  è morto di fame 
      in  mezzo  ad  altri  uomini  che si dicono cristiani come lui!... 
      Impossibile! oh, questo è impossibile!" 
      "Vi dico che è così" riprese Caderousse. 
      "Tu hai torto" disse una voce dalle scale. 
      "Di che t'immischi tu?" I due uomini si voltarono e videro tra  le 
      sbarre della scala la testa malaticcia della Carconta. 
      Si  era  trascinata  fin  là e ascoltava la conversazione,  assisa 
      sull'ultimo scalino, con la testa appoggiata sulle ginocchia. 
      "Di che vieni tu a mischiarti,  moglie" disse Caderousse.  "Questo 
      signore  domanda delle informazioni,  la cortesia vuole che gli si 
      diano." 
      "Ma la prudenza vuole,  che tu  taccia.  Chi  ti  dice  con  quali 
      intenzioni ti si vuol far parlare, imbecille!" 
      "Con una intenzione eccellente,  ve ne rispondo io" disse l'abate. 
      "Vostro marito dunque non ha nulla da temere,  purché mi  risponda 
      francamente." 
      "Nulla da temere...  Sì, sì comincia con delle belle promesse, uno 
      si contenta di dire che non c'è nulla da temere,  quindi se ne va, 
      senza  tenere  per  sé  niente di ciò che è stato detto,  e un bel 
      mattino cade la disgrazia sopra una povera famiglia  senza  sapere 
      da che parte viene." 
      "State tranquilla buona donna" rispose l'abate,  "la disgrazia non 
      vi verrà da parte mia, ve lo garantisco." 
      La Carconta brontolò qualche parola che non si poté  interpretare, 
      lasciò ricadere sulle ginocchia la testa per un istante sollevata, 
      e continuò a tremare per la febbre,  lasciando il marito libero di 
      continuare la conversazione,  ma  in  modo  da  non  perderne  una 
      parola. 
      Frattanto  l'abate  aveva  bevuto  qualche  sorso d'acqua e si era 
      calmato. 
      "Ma" riprese,  "questo disgraziato  vecchio  era  dunque  talmente 
      abbandonato da tutti che dovette perire di una tal morte?" 
      "Oh,  signore"  riprese  Caderousse,  "Mercedes  la catalana ed il 
      signor Morrel non lo avevano abbandonato.  Ma  il  povero  vecchio 
      aveva  presa  una profonda antipatia per Fernando,  quello stesso" 
      continuò Caderousse con un sorriso ironico,  "che Dantès vi  disse 
      essere uno dei suoi amici." 
      "Dunque non lo era?" domandò l'abate. 
      "Gaspare,  Gaspare"  mormorò la donna dall'alto della scala,  "fa' 
      bene attenzione a ciò che stai per dire." 
      Caderousse fece un movimento  d'impazienza  e  senza  dare  alcuna 
      risposta a quella che lo interrompeva: 
      "Si  può  mai  essere  amico di quello a cui si vuol portar via la 
      fidanzata?" rispose all'abate.  "Dantès che aveva il cuore  d'oro, 
      chiamava tutti suoi amici... Povero Edmondo... Eppure è meglio che 
      non abbia saputo niente; avrebbe fatto troppa fatica a perdonargli 
      in  punto  di morte...,  quantunque,  checché se ne dica" continuò 
      Caderousse col suo linguaggio,  che non mancava di una  specie  di 
      rozza poesia,  "io abbia più paura della maledizione dei morti che 
      dell'odio dei vivi." 
      "Imbecille!" disse Carconta. 
      "Sapete dunque" continuò l'abate,  "ciò  che  questo  Fernando  ha 
      fatto contro Dantès?" 
      "Se lo so? Lo credo bene!" 
      "Parlate allora." 
      "Gaspare,  fa'  ciò che vuoi,  tu sei il padrone" disse la moglie, 
      "ma se mi dai retta, tu non dirai niente." 
      "Questa volta,  moglie mia,  credo che  tu  abbia  ragione"  disse 
      Caderousse. 
      "Così non volete dir niente?" riprese l'abate. 
      "E a che serve?" disse Caderousse.  "Se Edmondo fosse vivo,  e una 
      volta per tutte venisse da me per conoscere tutti i suoi  amici  e 
      nemici, parlerei; ma ora è sotto terra, per quanto mi avete detto, 
      non può più avere odi, non può più vendicarsi. Dimentichiamo tutto 
      questo..." 
      "Volete allora" disse l'abate,  "che dia a questi individui che mi 
      dite indegni e falsi amici una ricompensa destinata alla fedeltà!" 
      "E' vero,  avete ragione" disse Caderousse.  "D'altronde ora a che 
      servirebbe  il  legato  del  povero  Edmondo?  Sarebbe  una goccia 
      d'acqua caduta in mare." 
      "Senza calcolare che quella gente può schiacciarti con  un  gesto" 
      disse la moglie. 
      "Ed in qual modo? Costoro sono divenuti ricchi e potenti?" 
      "Voi dunque non sapete la loro storia?" 
      "No, raccontatemela." 
      Caderousse parve riflettere un istante. 
      "No, in verità" disse, "sarebbe troppo lunga." 
      "Siete  libero  di tacere,  amico mio" disse l'abate con l'accento 
      della più grande indifferenza,  "e  rispetto  i  vostri  scrupoli; 
      d'altronde il vostro modo di condurvi è veramente da uomo dabbene; 
      non  ne  parliamo dunque più.  Di che cosa ero incaricato?  Di una 
      semplice formalità. Venderò dunque questo diamante." 
      E cavò il diamante dalla tasca e  lo  fece  brillare  una  seconda 
      volta dinanzi agli occhi di Caderousse. 
      "Vieni  dunque  a  vedere,  moglie mia..." disse questi,  con voce 
      rauca. 
      "Un diamante!" disse la Carconta  levandosi  e  scendendo  con  un 
      passo abbastanza fermo la scala. "E che cosa è questo diamante?" 
      "Ah, dunque non hai inteso?" disse Caderousse. "E' un diamante che 
      il  giovane  ci  ha lasciato in legato: prima a suo padre,  poi ai 
      suoi  tre  amici  Fernando,  Danglars  e  me,  e  a  Mercedes  sua 
      fidanzata, questo diamante costa cinquantamila franchi." 
      "Oh, il bel gioiello!" disse lei. 
      "Il  quinto  allora  di  questa  somma  appartiene  a  noi?" disse 
      Caderousse. 
      "Sì" rispose l'abate,  "e più la parte  del  padre  che  mi  credo 
      autorizzato a ripartire su voi quattro." 
      "E perché su noi quattro?" domandò la Carconta. 
      "Perché voi siete i quattro amici d'Edmondo." 
      "Non  sono  amici  coloro  che  tradiscono!"  mormorò sottovoce la 
      donna. 
      "Sì, sì..." disse Caderousse, "ed era ciò che dicevo. E' quasi una 
      profanazione;   quasi  un  sacrilegio,   dare  una  ricompensa  al 
      tradimento e fors'anche al delitto." 
      "Siete   voi  che  lo  volete"  rispose  tranquillamente  l'abate, 
      rimettendo il diamante nella tasca della sua sottana.  "Ora datemi 
      l'indirizzo degli amici di Edmondo, affinché possa eseguire le sue 
      ultime volontà." 
      Il  sudore colava a grosse gocce dalla fronte di Caderousse;  vide 
      l'abate  alzarsi,  e  dirigersi  verso  la  porta  come  per  dare 
      un'occhiata al suo cavallo e tornare. 
      Caderousse   e   sua   moglie  si  guardarono  con  un'espressione 
      indicibile. 
      "Il diamante sarebbe tutto nostro!" disse Caderousse. 
      "Lo credi?" disse la donna. 
      "Un uomo come quello non vorrà ingannarci." 
      "Fa' come vuoi" disse la donna,  "in quanto a me,  io  non  me  ne 
      immischio." 
      E  tutta  tremante,  riprese  la  via  della  scala;  i suoi denti 
      battevano, malgrado facesse un caldo ardente. 
      Sull'ultimo scalino si fermò un istante. 
      "Riflettici bene, Gaspare..." disse. 
      "Sono deciso" rispose Caderousse. 
      La Carconta rientrò  sospirando  nella  sua  camera;  l'impiantito 
      s'intese stridere sotto i suoi passi finché ebbe raggiunto il sofà 
      sul quale cadde di peso. 
      "Vi siete deciso?" domandò l'abate. 
      "Vi dirò tutto... Credo sia la cosa migliore da farsi." 
      "Non  che  io abbia interesse a saper cose che vorreste nascondere 
      ma,  se potete aiutarmi a distribuire i legati secondo i voti  del 
      testatore sarà assai meglio." 
      "Lo  spero..."  disse  Caderousse  con  le  guance  infiammate  di 
      speranza e di cupidigia. 
      "Vi ascolto..." disse l'abate. 
      "Aspettate" rispose Caderousse,  "potremmo essere  interrotti  nel 
      punto più interessante,  sarebbe sgradevole,  d'altronde è inutile 
      si sappia che siete venuto qui." 
      Andò  alla  porta  del  suo  albergo  e  la  chiuse,  per  maggior 
      precauzione vi mise la sbarra della notte. 
      L'abate  scelse  il  posto  per  ascoltare con tutto suo agio e si 
      accomodò in un angolo in modo da rimanere  nell'ombra,  mentre  la 
      luce  sarebbe  ricaduta pienamente sul viso del suo interlocutore. 
      In quanto a  lui,  con  la  testa  inclinata,  le  mani  giunte  o 
      piuttosto serrate, si preparava ad ascoltare attentamente. 
      Caderousse avvicinò uno sgabello e si sedette in faccia all'abate. 
      "Ricordati  che  io  non  ti  ho spinto a niente..." disse la voce 
      tremolante della Carconta,  come se attraverso il pavimento avesse 
      potuto vedere la scena. 
      "Sta  bene,  sta  bene"  disse  Caderousse,  "non ne parliamo più; 
      prendo tutto su di me." 
      Ed incomiciò. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 27. 
                                 IL RACCONTO. 
 
 
      "Prima di tutto" disse Caderousse,  "debbo pregarvi di promettermi 
      una cosa." 
      "E quale?" domandò l'abate. 
      "Che  non  si  saprà mai che io vi ho dato questi particolari,  in 
      caso che aveste bisogno di farne qualche uso; perché quelli di cui 
      sto per parlarvi sono ricchi e potenti,  e se avessero a  toccarmi 
      colla sola punta di un dito mi stritolerebbero come vetro." 
      "State tranquillo,  mio buono amico, vi assicuro sul mio onore che 
      le vostre parole moriranno nel  mio  cuore.  Ricordatevi  che  non 
      abbiamo  altro  scopo che di eseguire degnamente le ultime volontà 
      del  nostro  amico.   Parlate  dunque  senza  riguardi   e   senza 
      prevenzione;  dite la verità tutta intera. Io non conosco, e forse 
      non conoscerò mai le persone di cui state  per  parlarmi;  d'altra 
      parte  sono  italiano  e  non francese,  e dopo compiute le ultime 
      volontà di un moribondo, ritornerò dritto in patria." 
      Questa positiva promessa parve rassicurare del tutto Caderousse. 
      "Ebbene, in questo caso" disse Caderousse,  "voglio dirvi anche di 
      più,  io  devo  disingannarvi sulle amicizie che il povero Edmondo 
      credeva sincere e affettuose." 
      "Cominciamo da suo padre, se vi piace. Edmondo mi ha parlato molto 
      di questo vecchio, per il quale nutriva un grandissimo amore." 
      "La storia è triste" disse Caderousse, tentennando la testa. "Voi, 
      probabilmente, ne conoscerete il principio." 
      "Sì,  Edmondo mi ha raccontato le cose fino al momento in  cui  fu 
      arrestato, in una piccola osteria vicino a Marsiglia." 
      "Alla  Riserva...  Oh,  mio  Dio,  sì,  vedo  ancora  la cosa come 
      accadesse ora." 
      "Non fu al pranzo del suo fidanzamento?" 
      "Sì,  a quel pranzo che ebbe un allegro  principio  e  una  triste 
      fine. Un commissario di polizia seguito da quattro fucilieri entrò 
      e Dantès fu arrestato." 
      "Ecco fin dove giunge quello che so" disse l'abate. "Dantès stesso 
      non sapeva altro,  poiché non ha più riveduto nessuna delle cinque 
      persone che ho nominato, né ha più inteso parlare di loro." 
      "Dopo che Dantès fu arrestato,  il signor  Morrel  corse  via  per 
      prendere informazioni;  esse furono tristissime. Il vecchio Dantès 
      ritornò solo a casa sua, piegò gli abiti di nozze piangendo, passò 
      tutta la giornata camminando nella  sua  camera,  e  la  sera  non 
      dormì.  Io,  che abitavo sotto di lui,  lo sentii in moto tutta la 
      notte.  Io stesso,  debbo dirlo,  non dormii: il dolore di  questo 
      povero  padre mi faceva molto male e ciascuno dei suoi passi mi si 
      ripercuoteva nel cuore, come avessi i piedi sul petto.  L'indomani 
      Mercedes  venne a Marsiglia per implorare la protezione del signor 
      Villefort; ma non ottenne nulla;  dopo andò subito a far visita al 
      vecchio.  Quando lo vide così triste ed abbattuto,  vide che aveva 
      passata tutta la notte senza riposare,  e non aveva  mangiato  dal 
      giorno  innanzi,  volle condurlo con sé per prenderne cura;  ma il 
      vecchio non ha mai voluto acconsentirvi. "No" diceva, "non lascerò 
      mai questa casa, perché sono certo che il mio povero figlio mi ama 
      sopra ogni altra cosa, e se esce di prigione correrà a visitare me 
      per primo.  Che direbbe  se  non  fossi  qui  ad  aspettarlo?"  Io 
      ascoltavo  tutto  dal  pianerottolo,  perché  avrei desiderato che 
      Mercedes  avesse  persuaso  il  vecchio  a  seguirla;  quei  passi 
      ripetuti  giorno e notte sulla mia testa,  non mi lasciavano avere 
      un momento di riposo." 
      "E voi non salivate mai a consolarlo?" 
      "Ah,  signor abate,  non si giunge mai a consolare che coloro  che 
      vogliono  esser  consolati,  ed  egli non voleva esserlo.  D'altra 
      parte,  non so perché,  sembrava che avesse ripugnanza a  vedermi. 
      Una  notte  però,  che  intesi  i  suoi singhiozzi,  non potei più 
      resistere e salii: ma quando giunsi alla  porta  non  singhiozzava 
      più;  pregava.  Egli  ritrovava  parole eloquentissime,  suppliche 
      pietose che ora non saprei ripetere;  era più che pietà,  era  più 
      che dolore,  ed io, che non sono bigotto dicevo a me stesso: "Sono 
      ben felice d'esser solo e di non  avere  figli,  perché  se  fossi 
      padre  e soffrissi un dolore come quello di questo povero vecchio, 
      non potendo ritrovare nella mia memoria,  né nel mio  cuore  tutto 
      ciò che egli dice al buon Dio,  me ne andrei dritto a precipitarmi 
      in mare per non soffrire più." 
      "Povero padre!" mormorò l'abate. 
      "Di giorno in giorno egli viveva più solo e più isolato. Spesso il 
      signor Morrel o Mercedes venivano per vederlo, ma la sua porta era 
      chiusa e quantunque fosse certamente in  casa  non  rispondeva  ad 
      alcuno.  Un  giorno,  contro  il  solito,  ricevette Mercedes e la 
      povera ragazza, quantunque disperata, cercò di confortarlo: 
      "Credimi, figlia mia" disse il vecchio, "Edmondo è morto, e invece 
      di aspettar lui, egli aspetta noi... Io sono ben fortunato, perché 
      essendo più vecchio,  sarò il primo a rivederlo." Per  quanto  uno 
      sia  buono,  si  stanca  ben  presto  di  vedere le persone che lo 
      attristano: il vecchio Dantès finì per rimanere affatto  solo.  Io 
      non  vidi  più  salire  da  lui  alcuno,  se  non ogni tanto certi 
      sconosciuti che discendevano poi con degli involti  mal  nascosti. 
      Seppi in seguito che cosa erano quegl'involti: egli vendeva a poco 
      a  poco  tutto  ciò  che  aveva,  per vivere.  Infine il buon uomo 
      terminò i suoi poveri  arredi...  Era  debitore  di  tre  rate  di 
      pigione: fu minacciato di esser cacciato; domandò una dilazione di 
      otto  giorni  che  gli  venne accordata.  Io so questi particolari 
      perché l'esattore entrò da me,  uscendo  da  lui.  Nei  primi  tre 
      giorni  lo  intesi  camminare  come  d'ordinario ma nel quarto non 
      sentii più nulla.  Mi arrischiai a salire,  la porta  era  chiusa; 
      guardai  attraverso  la  serratura,  e  lo  vidi  tanto pallido ed 
      estenuato, che,  comprendendo quanto fosse malato,  feci avvertire 
      il signor Morrel e corsi da Mercedes.  Tutti e due si affrettarono 
      a venire.  Morrel condusse un medico,  che osservando in  lui  una 
      gastroenterite ordinò la dieta.  Io ero presente,  signore,  e non 
      dimenticherò mai il sorriso del vecchio a questa  raccomandazione. 
      Da  quel momento aveva una scusa per non mangiar più...  Il medico 
      aveva ordinato la dieta." 
      L'abate mandò una specie di gemito. 
      "Questa  storia  desta  in  voi  tanto  interesse?"   s'interruppe 
      Caderousse. 
      "Sì" rispose l'abate, "è commovente." 
      "Mercedes  ritornò:  lo  trovò  così  cambiato che,  come la prima 
      volta,  lo voleva far trasportare nella sua  baracca.  Questo  era 
      pure  il parere di Morrel;  ma il vecchio gridò tanto,  che ebbero 
      paura. Mercedes restò al capezzale del letto;  Morrel si allontanò 
      facendo  segno alla catalana che lasciava una borsa sul caminetto. 
      Ma,  forte  dell'ordine  del  medico,  non  volle  prender  nulla. 
      Finalmente,  dopo  nove giorni di disperazione e di astinenza,  il 
      vecchio spirò,  maledicendo quelli che erano stati causa della sua 
      disgrazia,  e  dicendo  a  Mercedes.  "Se un giorno vedrete il mio 
      Edmondo, ditegli che io muoio benedicendolo."" 
      L'abate si alzò,  fece due giri per la  stanza  portando  la  mano 
      tremante all'arida gola. 
      "E voi credete che egli sia morto?..." 
      "Di fame,  signore" disse Caderousse.  "Ne rispondo, quanto è vero 
      che siamo qui." 
      L'abate prese con mano convulsa il bicchiere d'acqua ancor pieno a 
      metà,  lo vuotò d'un fiato,  e si rimise a sedere  con  gli  occhi 
      rossi e le guance pallide. 
      "Certo fu una gran disgrazia..." disse con voce rauca. 
      "E tanto più grande, perché causata da finta amicizia." 
      "Passiamo  dunque  a  questi uomini" disse l'abate.  "Ma pensateci 
      bene" continuò con un tono quasi minaccioso, "vi siete impegnato a 
      dirmi tutto...  Sentiamo dunque,  chi son quelli che  hanno  fatto 
      morire il figlio di disperazione, ed il padre di fame." 
      "Fernando e Danglars, due uomini gelosi di Edmondo, uno per amore, 
      l'altro per ambizione." 
      "E in qual modo si manifestò questa loro gelosia?" 
      "Essi denunziarono Edmondo come messo bonapartista." 
      "Ma chi dei due lo denunziò? Chi dei due fu il vero colpevole?" 
      "Tutti  e  due:  l'uno  scrisse la lettera,  l'altro la portò alla 
      posta." 
      "Questa lettera dove fu scritta?" 
      "All'osteria  stessa  della   Riserva,   il   giorno   prima   del 
      fidanzamento." 
      "Sta bene..." mormorò l'abate.  "Oh,  Faria, Faria, come conoscevi 
      bene gli uomini e le cose!" 
      "Che dite, signore?" domandò Caderousse. 
      "Niente! Continuate..." 
      "Danglars scrisse la denuncia con la  mano  sinistra,  perché  non 
      fosse riconosciuto il carattere, e Fernando l'inviò." 
      "Ma" gridò d'improvviso l'abate, "voi eravate là?" 
      "Io?"  disse  Caderousse  meravigliato.  "E  chi  vi  ha detto che 
      c'ero?" 
      L'abate s'accorse che si era lasciato troppo trasportare. 
      "Nessuno" disse, "ma per essere così ben informato di tutti questi 
      particolari, bisogna essere stato presente." 
      "E' vero..." disse Caderousse con voce soffocata, "io c'ero." 
      "E non vi siete opposto a questa  infamia?"  disse  l'abate.  "Voi 
      dunque siete loro complice." 
      "Signore,  essi  mi  avevano  fatto  tanto  bere,  che quasi avevo 
      perduto la ragione: non vedevo che attraverso  una  nebbia.  Dissi 
      quanto  poteva dire un uomo in quello stato,  ma essi mi risposero 
      essere stato uno scherzo  che  avevano  voluto  fare,  e  che  non 
      avrebbe avuto alcuna conseguenza." 
      "Va  bene"  disse  l'abate,  "voi avete parlato con franchezza   e 
      l'accusarsi in tal modo è un meritare il perdono." 
      "Disgraziatamente Edmondo è morto, e non mi ha perdonato." 
      "Egli ignorava tutto ciò." 
      "Ma ora forse lo saprà... Si dice che i morti sappiano tutto." 
      Si  fece  un  momento  di  silenzio:  l'abate  si  era  alzato   e 
      passeggiava  pensieroso.  Ritornò  al  suo  posto  e si sedette di 
      nuovo. 
      "Mi avete nominato due o tre volte un certo signor Morrel"  disse. 
      "Chi era quest'uomo?" 
      "Era l'armatore del Faraone, il padrone e protettore di Dantès." 
      "E qual parte ha sostenuta in tutta questa triste faccenda?" 
      "La parte dell'uomo onesto,  coraggioso e affezionato. Venti volte 
      fu  ad  intercedere  per  Edmondo.  Quando  ritornò  l'Imperatore, 
      scrisse,   pregò,  minacciò,  e  tanto  fece  che,  nella  seconda 
      Restaurazione,  fu  grandemente  perseguitato  come  bonapartista. 
      Dieci  volte,  come vi ho detto,  è venuto dal padre di Dantès per 
      ricoverarlo in casa sua,  e il giorno prima della sua morte  aveva 
      lasciato  sul  caminetto  una  borsa  colla  quale furono pagati i 
      debiti del buon uomo e le spese dei  funerali...  Povero  vecchio, 
      poté  almeno  morire  come  aveva  vissuto  senza essere di peso a 
      nessuno. Ho ancora quella borsa, una borsa di cordonetto rosso." 
      "E questo signor Morrel vive ancora?" 
      "Sì..." disse Caderousse. 
      "E  in  questo  caso  dev'essere  un  uomo  benedetto  dal  cielo, 
      dev'essere ricco... felice..." 
      Caderousse sorrise amaramente. 
      "Sì, felice come lo sono io..." disse. 
      "Come! Morrel sarebbe rovinato?" gridò l'abate. 
      "E' vicino alla miseria, e peggio ancora è vicino al disonore." 
      "E come?" 
      "Sì" rispose Caderousse,  "dopo vent'anni di fatiche, dopo essersi 
      acquistato il posto più  onorevole  nel  commercio  di  Marsiglia, 
      Morrel  è rovinato da cima a fondo.  In due anni ha perduto cinque 
      bastimenti,  sofferto tre fallimenti terribili,  ed ora non ha più 
      altre  speranze  che quello stesso Faraone,  che era comandato dal 
      povero Dantès,  e che deve ritornare dalle Indie con un carico  di 
      cocciniglia  e  di indaco.  Se questo bastimento si perde come gli 
      altri, è rovinato del tutto." 
      "E il disgraziato ha moglie, figli?" 
      "Sì,  ha una moglie che in tutte queste avversità  si  è  condotta 
      come una santa;  ha una figlia che stava per sposare l'uomo da lei 
      amato, e la famiglia del quale si è opposta ad un matrimonio colla 
      figlia  di  un   uomo   fallito,   ha   un   figlio   sottotenente 
      nell'esercito.  Ma,  voi  lo  capirete bene,  tutto ciò non fa che 
      raddoppiare il dolore del povero uomo.  Se fosse  stato  solo,  si 
      sarebbe bruciate le cervella, e tutto sarebbe finito." 
      "Ciò è spaventoso!" mormorò l'abate. 
      "Ecco  come  in  questa  vita  viene  ricompensata la virtù" disse 
      Caderousse. "Osservate, io che non ho mai fatto una cattiva azione 
      a nessuno,  meno quella che vi ho raccontato,  sono nella miseria; 
      dopo  che  avrò veduto morire la povera mia moglie di febbre senza 
      poter far nulla per lei,  morirò di fame come è morto il padre  di 
      Dantès, mentre Fernando e Danglars nuotano nell'oro." 
      "E come è possibile?" 
      "Perché  ad  essi  ogni cosa gira bene,  mentre ai galantuomini va 
      tutto male. 
      "Che è divenuto questo Danglars, il più colpevole, l'istigatore?" 
      "Che è divenuto?  Abbandonò Marsiglia con una  raccomandazione  di 
      Morrel,  che  ignorava  il  suo  delitto,  e poté entrare commesso 
      presso un banchiere spagnolo.  All'epoca della guerra  di  Spagna, 
      s'incaricò di una parte delle forniture dell'esercito francese,  e 
      fece fortuna.  Con questo primo denaro speculò sui fondi pubblici, 
      e  ha  triplicato e quadruplicato i suoi capitali e,  vedovo della 
      figlia  del  suo  banchiere,  sposò  una  vedova,  la  signora  di 
      Nargonne,  figlia di de Servieux ciambellano del Re attuale, e che 
      gode dei più grandi favori a Corte.  Divenuto milionario lo  hanno 
      creato Conte,  ed ora è il conte Danglars che ha un palazzo in rue 
      MontBlanc, dieci cavalli nelle scuderie, sei lacchè in anticamera, 
      e non so quanti milioni in cassa." 
      "Ah" disse l'abate con un'espressione singolare. "Ed è felice?" 
      "Felice?  Chi può dir questo?  La felicità e l'infelicità sono  il 
      segreto delle mura, le mura hanno orecchie ma non lingua; se uno è 
      felice con una grande fortuna, Danglars è felice." 
      "E Fernando?" 
      "Fernando è tutt'altra cosa." 
      "Come  mai  un  povero  pescatore  catalano  senza risorse e senza 
      educazione  ha  potuto  far  fortuna?  Ciò  mi  sorprende,  ve  lo 
      confesso." 
      "E  ciò  sorprende  tutti.  Nella  sua vita ci deve essere qualche 
      strano segreto che nessuno sa." 
      "Ma per quali gradini  visibili  ha  potuto  salire  a  quest'alta 
      fortuna, o a quest'alta posizione?" 
      "Ad entrambe,  signore,  ad entrambe;  egli ha, insieme, fortuna e 
      posizione." 
      "Ma è una favola che mi raccontate?" 
      "Ne ha tutte le sembianze,  ma  è  una  cosa  reale.  Ascoltate  e 
      giudicate  voi  stesso.  Pochi giorni prima che ritornasse Dantès, 
      Fernando  era  stato  chiamato  come  coscritto.   I  Borboni   lo 
      lasciarono  tranquillo ai Catalani,  ma al ritorno di Napoleone fu 
      ordinata  una  leva  straordinaria,  e  Fernando  fu  costretto  a 
      partire.  Io pure partii,  ma essendo più vecchio di Fernando,  ed 
      avendo da poco sposata la mia povera moglie fui  inviato  soltanto 
      sulle  coste.  Fernando,  incorporato nelle schiere attive,  venne 
      mandato col suo reggimento  al  ponte,  e  in  battaglia.  Era  di 
      piantone alla porta di un generale che aveva segrete relazioni col 
      nemico e che quella notte stessa doveva riunirsi agli inglesi.  Il 
      generale gli propose di accompagnarlo, Fernando accettò, abbandonò 
      il posto e seguì il generale.  Ciò che lo avrebbe potuto  condurre 
      davanti  a  un tribunale di guerra,  gli servì da raccomandazione. 
      Rientrò in Francia con la spallina di sottotenente,  e siccome non 
      gli  mancava  la  protezione  del suo generale,  che allora godeva 
      molto favore,  divenne capitano nel 1823,  all'epoca  della  prima 
      guerra di Spagna, vale a dire al tempo in cui Danglars arrischiava 
      le sue speculazioni.  Siccome Fernando si poteva considerare quasi 
      spagnolo,  fu inviato a Madrid per esplorarvi  le  intenzioni  dei 
      suoi compatrioti. Là ritrovò Danglars, discorsero insieme, promise 
      al  suo  generale  l'appoggio  dei  regi  della capitale,  e delle 
      province, e ricevette delle promesse,  assunse sul suo conto degli 
      impegni. Guidò il reggimento francese per sentieri solo a lui noti 
      fra  le  gole  guardate  dai  regi,  e  finalmente in questa breve 
      campagna rese servigi tali,  che dopo la presa del Trocadero venne 
      nominato  colonnello,  e  ricevette  la  croce  di ufficiale della 
      Legion d'Onore unitamente al titolo di barone." 
      "Destino, destino!" mormorò l'abate. 
      "Sì,  ma ascoltate,  che non è ancor tutto.  Finita la  guerra  di 
      Spagna,  la  carriera di Fernando si trovava messa a rischio dalla 
      lunga pace che doveva regnare in Europa: la  Grecia  soltanto  era 
      sollevata  contro  la  Turchia,  e  cominciava la guerra della sua 
      indipendenza; tutti gli occhi erano puntati su Atene;  era di moda 
      compiangere  e  sostenere i greci.  Fernando domandò ed ottenne il 
      permesso di andare al servizio della Grecia  continuando  però  ad 
      essere iscritto sui registri dell'esercito.  Qualche tempo dopo si 
      seppe che il barone di Morcerf, tale era il nome che portava,  era 
      entrato   al  servizio  di  Alì-Pascià,   col  grado  di  generale 
      istruttore.  Alì-Pascià fu ucciso come sapete;  ma prima di morire 
      ricompensò   i   servigi  di  Fernando,   lasciandogli  una  somma 
      considerevole,  colla quale  tornò  in  Francia,  dove  gli  venne 
      confermato il grado di luogotenente." 
      "E oggi?" domandò l'abate. 
      "Oggi"  proseguì  Caderousse,  "è  barone e deputato,  possiede un 
      palazzo magnifico a Parigi, in rue Helder, 27." 
      L'abate aprì la bocca,  rimase un momento come un uomo  che  esita 
      quindi facendo uno sforzo su se stesso: 
      "E Mercedes?" disse. "Venni assicurato che scomparve." 
      "Disparve" disse Caderousse,  "come sparisce il sole per rialzarsi 
      l'indomani più splendente." 
      "Lei pure ha  fatto  fortuna?"  domandò  l'abate  con  un  sorriso 
      ironico. 
      "Mercedes  a  quest'ora  è  una  delle  più grandi dame di Parigi" 
      riprese Caderousse. 
      "Continuate" disse l'abate, "mi sembra di ascoltare il racconto di 
      un Sogno.  Ma io stesso ho veduto cose  sì  straordinarie  che  mi 
      sorprendono poco quelle che mi dite." 
      "Mercedes  dapprima fu disperata per il colpo che gli tolse il suo 
      Edmondo. Vi ho detto le sue istanze verso il signor Villefort e la 
      sua  devozione  per  il  padre  di  Dantès.   In  mezzo  alla  sua 
      disperazione,  un altro dolore venne a colpirla,  e fu la partenza 
      di Fernando di cui ignorava il delitto,  e  che  considerava  come 
      fratello.  Fernando  partì,  e  Mercedes  rimase  sola.  Tre  mesi 
      passarono in lacrime;  nessuna  notizia  di  Fernando:  null'altro 
      avanti  agli  occhi che un vecchio moribondo disperato.  Una sera, 
      dopo essere rimasta tutto il giorno,  seduta come  sua  abitudine, 
      presso  l'angolo  delle  due  strade  che dai Catalani conducono a 
      Marsiglia,  ritornò nella baracca,  triste più  del  consueto:  né 
      l'innamorato, né l'amico ritornavano da una di quelle due strade e 
      non riceveva notizie né dell'uno, né dell'altro. 
      "D'improvviso  le  sembrò udire un passo conosciuto,  si volse con 
      ansietà, la porta si aprì, e vide comparire Fernando coll'uniforme 
      di sottotenente.  Non era la metà di ciò che piangeva,  ma era una 
      parte della sua vita passata che ritornava a lei. Mercedes strinse 
      le mani di Fernando con trasporto tale,  che questi credette fosse 
      amore per lui,  mentre non era che la gioia di non essere più sola 
      al  mondo,  e  di vedere un amico dopo quelle lunghe ore di triste 
      solitudine. E poi,  bisogna pur dirlo,  Fernando non era mai stato 
      odiato,  egli  non  era  amato,  ecco  tutto.  Un  altro  occupava 
      interamente il cuore di Mercedes,  quest'altro era assente...  era 
      sparito... forse morto... 
      "A  quest'ultima  idea suggerita da Fernando,  Mercedes scoppiò in 
      singhiozzi, e si contorse le braccia per il dolore. Ma quest'idea, 
      che aveva respinto tante volte,  quando  le  veniva  suggerita  da 
      altri, ora le veniva spontaneamente allo spirito. D'altra parte il 
      vecchio  Dantès  non cessava di dirle: "Il nostro Edmondo è morto; 
      se non fosse morto ritornerebbe". Il vecchio morì,  come vi dissi. 
      Se  fosse  vissuto,  Mercedes  forse  non sarebbe diventata mai la 
      moglie di un altro, perché il buon vecchio sarebbe sempre stato là 
      a rimproverarle la sua infedeltà.  Fernando lo capì e non  ritornò 
      che  quando seppe la morte del vecchio.  Questa volta era tenente. 
      Nel primo viaggio non aveva detto una parola d'amore  a  Mercedes; 
      nel  secondo  le ricordò che l'amava sempre.  Mercedes domandò sei 
      mesi ancora per aspettare e piangere Edmondo." 
      "Gran cosa!" disse l'abate con un sorriso amaro.  "Non  erano  che 
      diciotto  mesi  in  tutto.  Che  può domandare di più l'amante più 
      adorato?" Poi mormorò queste parole del poeta  inglese:  "Frailty, 
      thy name is woman", - Fragilità il tuo nome è donna!". 
      "Sei  mesi  dopo"  riprese Caderousse,  "si effettuò il matrimonio 
      nella chiesa degli Accoulès." 
      "Era la  medesima  chiesa  ove  doveva  sposare  Edmondo"  mormorò 
      l'abate, "il marito solo era cambiato, ecco tutto." 
      "Mercedes  dunque  si  maritò" continuò Caderousse,  "e quantunque 
      agli occhi di tutti sembrasse  tranquilla,  però  svenne  passando 
      davanti alla Riserva,  ove diciotto mesi prima era stato celebrato 
      il fidanzamento con colui che avrebbe capito di amare tuttora,  se 
      avesse osato guardare nel fondo del cuore. Fernando più felice, ma 
      non più tranquillo, perché io l'ho allora veduto, temeva sempre il 
      ritorno  di  Edmondo,  Fernando si occupò subito di espatriare con 
      sua moglie,  di esiliarsi con lei.  Vi  erano  molti  pericoli  da 
      temere,  e  nello  stesso  tempo  troppi  ricordi  da  combattere, 
      restando ai Catalani. Otto giorni dopo le nozze, partirono." 
      "Rivedeste più Mercedes?" domandò l'abate. 
      "Sì, nel momento della guerra di Spagna a Perpignano, ove Fernando 
      l'aveva lasciata; si occupava dell'educazione di suo figlio." 
      L'abate rabbrividì. 
      "Di suo figlio?" disse 
      "Sì" rispose Caderousse, "del piccolo Alberto." 
      "Ma per istruire questo figlio" continuò l'abate,  "avrà  ricevuto 
      anch'essa un'educazione? Mi sembra di avere inteso dire da Edmondo 
      che era figlia di un semplice pescatore, bella, ma non istruita." 
      "Oh!"  disse  Caderousse.  "Conosceva  dunque  così  male  la  sua 
      fidanzata!  Mercedes avrebbe potuto divenire regina,  se la corona 
      dovesse  essere  posata  soltanto  sulle  teste  più  belle,   più 
      intelligenti. La sua fortuna ingrandiva da sé, lei diveniva grande 
      con la sua fortuna: imparava il disegno, la musica, tutto. D'altra 
      parte io credo,  sia detto fra noi,  che non facesse tutto ciò che 
      per distrarsi,  per dimenticare,  e che non mettesse tante cose in 
      testa, che per combattere quelle che aveva in cuore.  Ma,  ora che 
      tutto  deve  dirsi"  continuò Caderousse,  "la fortuna e gli onori 
      l'hanno senza dubbio consolata.  Ella  è  ricca,  è  baronessa,  e 
      tuttavia..." 
      Caderousse si fermò. 
      "Tuttavia, che cosa?" domandò l'abate. 
      "Tuttavia, sono sicuro che non è felice." 
      "E che cosa ve lo fa credere?" 
      "Ebbene, quando io stesso mi sono ritrovato troppo disgraziato, ho 
      pensato  che  i miei antichi amici mi avrebbero aiutato in qualche 
      cosa. Mi sono presentato a Danglars,  che non mi ha voluto neppure 
      ricevere.  Sono  stato  da  Fernando,  e mi ha fatto passare cento 
      franchi per le mani del cameriere." 
      "Così non li vedeste, né l'uno né l'altra." 
      "No, ma mi vide la signora di Morcerf." 
      "E come?" 
      "Quando sono uscito,  una borsa cadde  ai  miei  piedi,  conteneva 
      venticinque luigi.  Alzai la testa e vidi Mercedes che chiudeva il 
      balcone." 
      "E Villefort?" domandò l'abate. 
      "Oh, egli non era mio amico,  non lo conoscevo,  non avevo nulla a 
      domandargli." 
      "Ma non sapete che ne sia accaduto,  e qual parte abbia presa alla 
      disgrazia di Edmondo?" 
      "No,  so soltanto che qualche tempo dopo averlo  fatto  arrestare, 
      sposò la signorina di Saint-Méran,  e ben presto lasciò Marsiglia. 
      Senza dubbio la fortuna gli avrà sorriso come  agli  altri,  senza 
      dubbio  sarà  ricco come Danglars,  considerato come Fernando.  Io 
      solo, sono rimasto povero, miserabile, e dimenticato da tutti." 
      "V'ingannate,  amico  mio"  disse  l'abate,   "qualche  volta  può 
      sembrare  che  Dio  dimentichi qualcuno;  ma viene il giorno della 
      giustizia,  viene il giorno in cui si  ricorda,  ed  eccovene  una 
      prova." 
      A  queste parole l'abate cavò il diamante dalla tasca porgendolo a 
      Caderousse: 
      "Prendete" gli disse,  "prendete questo diamante,  poiché è  tutto 
      vostro." 
      "Come,  a me solo?" gridò Caderousse.  "Ah! signore, vi burlate di 
      me!" 
      "Questo diamante doveva essere diviso fra gli amici di Edmondo; ma 
      lui non aveva che un  solo  amico,  la  divisione  diventa  dunque 
      inutile. Prendete questo diamante, e vendetelo; vale cinquantamila 
      franchi,  ve  lo  ripeto,  e  spero  che  questa somma basterà per 
      togliervi dalla miseria." 
      "Oh,  signore" disse Caderousse,  avanzando timidamente una  mano, 
      mentre  con  l'altra si asciugava il sudore che gli stillava dalla 
      fronte.   "Oh,   non  vi  fate  gioco  della  felicità,   o  della 
      disperazione di un uomo!" 
      "Io so ciò che è la felicità,  e ciò che è la disperazione,  e non 
      mi prenderei mai gioco  di  questi  sentimenti"  riprese  l'abate. 
      "Prendete dunque, ma in cambio..." 
      Caderousse che già toccava il diamante, ritirò la mano. 
      L'abate sorrise. 
      "In  cambio" continuò,  "regalatemi quella borsa di seta rossa che 
      il signor Morrel aveva lasciata sul caminetto del vecchio  Dantès, 
      e che mi avete detto essere nelle vostre mani." 
      Caderousse, sempre meravigliato, aprì un grand'armadio di quercia, 
      e dette all'abate una lunga borsa di seta di un rosso scolorato, e 
      intorno alla quale scorrevano due anelli in altro tempo dorati. 
      L'abate la prese, e dette il diamante a Caderousse. 
      "Oh,  voi  siete  un  uomo  di Dio!" gridò Caderousse.  "Perché in 
      verità nessuno sapeva che Edmondo vi avesse dato questo  diamante, 
      ed avreste potuto conservarlo per voi." 
      "Bene" pensò l'abate fra sé, "tu l'avresti fatto, mi sembra." 
      Quindi si alzò, prese il cappello ed i guanti e domandò: 
      "Soprattutto,  quanto  mi  avete  detto  è  del tutto vero?  posso 
      credervi su tutti i punti?" 
      "Vi giuro sul mio onore, e per quanto vi è di più sacro che non vi 
      ho detto una parola che non sia vera." 
      "Basta così" disse l'abate convinto, "sta bene;  che questo danaro 
      possa esservi di profitto.  Addio, io ritorno lontano dagli uomini 
      che fanno tanto male ai loro simili." 
      E  l'abate,   liberandosi  a  gran  fatica   dalle   entusiastiche 
      dimostrazioni  di  Caderousse  levò  la sbarra della porta,  uscì, 
      risalì a cavallo,  salutò un'ultima volta l'oste che si confondeva 
      in addii clamorosi, e partì seguendo la stessa direzione che aveva 
      tenuta nel venire. 
      Quando  Caderousse  si  volse,  vide  dietro  a sé la Carconta più 
      pallida e più tremante che mai: 
      "E' vero ciò che ho sentito?" disse. 
      "Che cosa?  Che ci ha  dato  il  diamante  per  noi  soli?"  disse 
      Caderousse quasi pazzo dalla gioia. 
      "Sì." 
      "Non vi è nulla di più vero, eccolo qua." 
      La donna lo guardò un momento, poi riprese con voce rauca: 
      "E se fosse falso?" 
      Caderousse impallidì e si scosse: 
      "Falso"  mormorò,  "falso...  E  perché  quest'uomo avrebbe dovuto 
      regalarmi un diamante falso?" 
      "Per avere il tuo segreto senza pagarlo." 
      Caderousse rimase un momento stordito  sotto  il  peso  di  questa 
      supposizione. 
      "Oh" disse,  dopo breve silenzio, e prendendo il cappello che mise 
      sul fazzoletto che teneva annodato intorno alla testa, "lo sapremo 
      ben presto." 
      "E in qual modo?" 
      "Oggi c'è la fiera a Beaucaire: vi sono dei gioiellieri di Parigi: 
      vado a farlo vedere.  Tu guarda la  casa,  fra  due  ore  sarò  di 
      ritorno." 
      E  Caderousse  si  lanciò fuori di casa prendendo a tutta corsa la 
      strada opposta a quella tenuta dallo sconosciuto. 
      "Cinquantamila franchi!" mormorò la  Carconta  rimasta  sola.  "E' 
      molto danaro sì..., ma non è una grande fortuna." 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 28. 
                          I REGISTRI DELLE PRIGIONI. 
 
 
      L'indomani  del  giorno  in  cui  accadde  la  scena  che  abbiamo 
      descritta,   un  uomo  sui  trenta-trentadue  anni  vestito   d'un 
      soprabito  blu,  coi pantaloni di nankin,  ed il giubbetto bianco, 
      con l'andatura e l'accento britannico,  si presentò al Sindaco  di 
      Marsiglia. 
      "Signore" gli disse, "io sono il primo commesso della casa Thomson 
      e French di Roma.  Noi siamo da dieci anni in relazione colla casa 
      Morrel e Figlio di Marsiglia,  abbiamo impiegati  circa  centomila 
      franchi  in  questa  relazione,  e  non  siamo senza inquietudine, 
      poiché ci vien fatto credere che questa casa minacci rovina: vengo 
      dunque espressamente da Roma per  domandarvi  le  informazioni  su 
      questa casa." 
      "Signore" rispose il Sindaco, "io so effettivamente che da quattro 
      cinque  anni  la  disgrazia  sembra perseguitare il signor Morrel: 
      egli ha  successivamente  perduto  quattro  o  cinque  bastimenti, 
      sofferti tre o quattro fallimenti.  Ma non spetta a me, quantunque 
      io stesso suo creditore per una dozzina di  migliaia  di  franchi, 
      dare informazioni sul suo stato,  e sulla sua fortuna. Domandatemi 
      come sindaco ciò che penso del signor Morrel,  e vi risponderò che 
      è  un  uomo  rigorosamente  probo,  e  che  fino ad oggi ha sempre 
      adempito ai suoi impegni con esattezza.  Ecco tutto ciò che  posso 
      dirvi;  se  volete  saperne  di  più,  indirizzatevi  al signor de 
      Boville, ispettore delle prigioni, rue Noailles numero 15... Credo 
      che egli abbia duecentomila franchi impiegati sulla casa Morrel, e 
      se vi è  realmente  cosa  a  temersi,  lo  ritroverete  molto  più 
      informato  di  me,  giacché la sua somma è molto più considerevole 
      della mia." 
      L'inglese parve apprezzare questa grande delicatezza, salutò, uscì 
      e s'incamminò col passo proprio dei figli di Gran  Bretagna  verso 
      la strada indicata. 
      Il signor de Boville era nel suo ufficio. 
      L'inglese  vedendolo  fece  un  movimento di sorpresa che sembrava 
      indicare non esser  quella  la  prima  volta  che  si  trovava  al 
      cospetto di colui al quale faceva visita. 
      In  quanto  a de Boville,  la sua disperazione lasciava facilmente 
      scorgere, che tutte le facoltà dello spirito, assorte nel pensiero 
      che l'occupava in quel momento,  non lasciava né alla sua memoria, 
      né alla sua immaginazione il piacere di divagarsi nel passato. 
      L'inglese,  colla flemma propria della sua razza,  gli presentò la 
      questione,  circa nei medesimi termini che aveva usati col Sindaco 
      di Marsiglia. 
      "Oh,  signore" gridò de Boville, "i vostri timori disgraziatamente 
      non possono essere più fondati,  e voi avete innanzi agli occhi un 
      uomo  disperato.  Avevo  investiti duecentomila franchi sulla casa 
      Morrel: erano la dote di  mia  figlia  che  contavo  maritare  fra 
      quindici  giorni:  dovevano  essere  rimborsati centomila il 15 di 
      questo mese,  e centomila il 15 del venturo.  Avevo dato avviso  a 
      Morrel  del  desiderio di essere rimborsato esattamente,  ed ecco, 
      non è mezz'ora,  è venuto da me Morrel per dirmi  che  se  il  suo 
      bastimento  il Faraone non rientra in porto prima del 15,  egli si 
      trova nell'impossibilità di fare il pagamento." 
      "Ma questa" disse l'inglese, "è una specie di dilazione." 
      "Dite piuttosto, signore, che questo assomiglia ad un fallimento!" 
      gridò de Boville disperato. 
      L'inglese parve riflettere un momento, poi disse: 
      "Questo credito v'ispira dei timori?" 
      "Lo considero come perduto." 
      "Ebbene, io lo compro." 
      "Voi?" 
      "Sì, io." 
      "Ma con un enorme ribasso, senza dubbio?" 
      "No,  mediante duecentomila franchi...  La nostra casa"  soggiunse 
      l'inglese ridendo, "non fa simili affari." 
      "E voi pagate?..." 
      "Denaro contante." 
      E  l'inglese  cavò  di  tasca un involto di biglietti di banca che 
      potevano formare il doppio della somma che il  signor  de  Boville 
      temeva di perdere. 
      Un  lampo  di  gioia passò sul viso di de Boville;  ciò nonostante 
      fece uno sforzo per contenersi. 
      "Signore,  debbo prevenirvi che secondo tutte le probabilità,  non 
      ricaverete il sei per cento di questa somma." 
      "Ciò  non  mi  riguarda"  rispose l'inglese,  "ma riguarda la casa 
      Thomson e French,  in nome della quale io opero.  Forse  essa  può 
      avere  qualche  interesse  a  sollecitare  la  rovina  di una Casa 
      rivale.  Ma so che sono pronto a contarvi questa somma,  contro la 
      girata  che  mi  farete  dietro  le cambiali: soltanto chiederò un 
      diritto di senseria." 
      "Signore,  è giustissimo" gridò  de  Boville.  "La  commissione  è 
      ordinariamente  il  mezzo  per  cento;  volete il due?  Il cinque? 
      Ancora di più? Non avete che a parlare." 
      "Signore!" soggiunse ridendo l'inglese. "Io sono come la mia Casa, 
      non faccio di questa specie di  affari.  No,  la  mia  senseria  è 
      d'un'altra natura." 
      "Parlate dunque, vi ascolto." 
      "Voi siete ispettore delle prigioni?" 
      "Da quattordici anni e più." 
      "Terrete dunque il registro di entrata ed uscita?" 
      "Senza dubbio." 
      "A  questi  registri  devono  essere  unite delle note relative ai 
      prigionieri." 
      "Ciascun prigioniero ha la sua." 
      "Ebbene,  signore,  io sono stato allevato a Roma da un  tale  che 
      scomparve  d'improvviso.  Seppi  poi  che  era  stato detenuto nel 
      Castello d'If, e vorrei avere alcuni particolari sulla sua morte." 
      "Come lo chiamavate?" 
      "Lo scienziato Faria." 
      "Oh,  me ne ricordo perfettamente" esclamò de Boville,  "egli  era 
      pazzo." 
      "Si diceva." 
      "Oh, lo era certamente." 
      "E' possibile! E quale era il suo genere di pazzia?" 
      "Pretendeva  sapere  dove  stava  nascosto  un immenso tesoro,  ed 
      offriva delle somme considerevoli se avessero voluto  metterlo  in 
      libertà." 
      "Povero diavolo! Ed è morto?" 
      "Sì, son cinque, o sei mesi al più, nel febbraio scorso." 
      "Avete una felice memoria, per ricordarvi così le date." 
      "Mi  ricordo  questa,  perché  la  morte  del  povero  diavolo  fu 
      accompagnata da un singolare incidente." 
      "Si potrebbe conoscere questo accidente?"  domandò  l'inglese  con 
      una espressione di curiosità, che un freddo osservatore si sarebbe 
      meravigliato di trovare sul suo viso flemmatico. 
      "Oh   senza   difficoltà.   La   cella   di   Faria   era  lontana 
      quarantacinque-cinquanta  piedi  circa  da  quella  di  un   certo 
      bonapartista,  uno  di quelli che avevano più di tutti contribuito 
      al ritorno dell'Imperatore nel 1815, uomo molto risoluto." 
      "Veramente?" disse l'inglese. 
      "Sì" rispose de Boville,  "ho avuto occasione di vedere quest'uomo 
      nel  1816  o  1817.  Non  si  scendeva nella sua cella senza esser 
      scortati da un picchetto di soldati.  Quest'uomo mi ha  fatta  una 
      profonda impressione, e non dimenticherò mai il suo viso." 
      L'inglese fece un impercettibile sorriso. 
      "Dicevate dunque che le due celle..." 
      "Erano  separate  da  una distanza di cinquanta piedi" continuò de 
      Boville, "ma sembra che questo..." 
      "Quest'uomo pericoloso si chiamava?..." 
      "Edmondo Dantès, sì,  signore...  Sembra che questo Edmondo Dantès 
      si fosse procurato degli utensili,  o ne avesse costruiti... Fatto 
      sta che fu ritrovato un corridoio sotterraneo per mezzo del  quale 
      i due prigionieri comunicavano." 
      "Questo  corridoio  sarà  stato  fatto  senza  dubbio  a  scopo di 
      evasione." 
      "Certamente, ma per disgrazia dei prigionieri, Faria fu colpito da 
      una paralisi, e morì." 
      "Capisco che ciò dovette sospendere il piano di evasione." 
      "Per il morto,  sì" rispose de Boville,  "ma non  per  il  vivo... 
      Questo  Dantès  al contrario trovò il mezzo di accelerare la fuga. 
      Senza dubbio  pensava  che  i  morti  del  Castello  d'If  fossero 
      seppelliti  in  un ordinario cimitero;  trasportò il defunto nella 
      sua cella,  prese posto nel sacco entro cui era  stato  cucito  il 
      cadavere, e aspettò il momento che lo avrebbero seppellito." 
      "Era  un  espediente  rischioso  e  che esigeva non poco coraggio" 
      riprese l'inglese. 
      "Oh, vi ho detto che era un uomo molto pericoloso;  fortunatamente 
      però egli stesso ha liberato il governo dai timori che aveva della 
      sua persona..." 
      "E in qual modo?" 
      "Come! Non lo immaginate?" 
      "No." 
      "Il  Castello  d'If  non  ha  cimitero,  ed  i  morti  si  gettano 
      semplicemente in mare,  dopo avere attaccato  ai  loro  piedi  una 
      grossa pietra." 
      "Ebbene?" disse l'inglese come se avesse difficoltà a capire. 
      "Ebbene,  gli  fu  attaccata una pietra ai piedi,  e fu gettato in 
      mare." 
      "Davvero?" gridò l'inglese. 
      "Sì, signore" continuò l'ispettore.  "Capirete quale sarà stata la 
      costernazione   del   fuggitivo   allorché  si  sentì  precipitare 
      dall'alto del Castello. Avrei voluto vederlo in quel momento." 
      "Sarebbe stato difficile." 
      "Non importa" disse de Boville,  che la certezza di  rimborso  dei 
      suoi duecentomila franchi metteva di buon umore, "me lo figuro." 
      E dette in uno scoppio di risa. 
      "Ed  io  pure" disse l'inglese,  e si mise a ridere anche lui,  ma 
      come fanno gli inglesi, vale a dire sulla punta dei denti. "In tal 
      modo" continuò, "in tal modo il fuggitivo fu annegato?" 
      "Nel modo più assoluto." 
      "Di maniera che il Governatore  del  Castello  fu  liberato  nello 
      stesso tempo di un furioso e di un pazzo?" 
      "Precisamente!" 
      "Ma  sarà  stato  legalizzato in qualche atto questo avvenimento?" 
      domandò l'inglese. 
      "Sì,  sì,  l'atto mortuario.  Capirete bene,  i parenti di  questo 
      Dantès,  se  egli  ne  ha,  potrebbero  aver qualche interesse per 
      assicurarsi se è vivo, o morto." 
      "Di modo che essi possano essere tranquilli, se hanno ereditato da 
      lui. Egli è morto. E morto davvero?" 
      "Oh,  mio Dio,  sì,  e ne verrà  rilasciato  il  certificato  ogni 
      qualvolta lo vorranno." 
      "Così sia..." disse l'inglese. "Ma ritorniamo ai registri..." 
      "E' vero, questa storia ci aveva divagati: scusate." 
      "Scusare  che?  per la storia?  Al contrario,  mi è sembrata molto 
      curiosa." 
      "E lo è.  Ma voi  non  desideravate  conoscere  tutto  ciò  che  è 
      relativo al vostro povero precettore, che era dolcissimo nella sua 
      pazzia?" 
      "Ciò mi farà un vero piacere." 
      "Passiamo nel mio ufficio, e vi mostrerò le carte." 
      Ed entrambi passarono nello studio del signor de Boville. 
      Tutto   era   effettivamente  nell'ordine  più  perfetto:  ciascun 
      registro era al suo numero, ciascuna nota nella sua casella. 
      L'ispettore fece  sedere  l'inglese  in  una  poltrona,  e  depose 
      davanti  a  lui  il  registro  e le note relative al Castello d'If 
      dandogli tutto il comodo di sfogliarle, mentre egli,  seduto in un 
      angolo, si metteva a leggere un giornale. 
      L'inglese  trovò  finalmente  la  nota  relativa al suo istitutore 
      Faria,  ma sembrò che la storia raccontatagli da de Boville avesse 
      in  lui  destato  grande  interesse,   perché,   dopo  aver  preso 
      conoscenza di queste prime carte,  continuò a sfogliare fino a che 
      ritrovò quella che riguardava Edmondo Dantès. 
      Ritrovò ogni cosa: denuncia,  interrogatorio, petizione di Morrel, 
      postille di Villefort.  Piegò chetamente la denunzia e se la  pose 
      in tasca, lesse l'interrogatorio, e vide che non era stato segnato 
      il  nome  di  Noirtier  percorse  la domanda in data del 10 aprile 
      1815,  nella quale Morrel,  dietro il  consiglio  del  sostituito, 
      esagerava   con   eccellente  intenzione  (poiché  allora  regnava 
      Napoleone) i servigi che Dantès aveva resi alla  causa  imperiale, 
      servigi che il certificato di Villefort rendeva incontestabili. 
      Allora capì tutto. 
      Questa domanda a Napoleone trattenuta da Villefort,  era diventata 
      sotto la seconda Restaurazione un'arma terribile  nelle  mani  del 
      Procuratore del Re. 
      Non si stupì dunque più,  sfogliando il registro,  di ritrovare in 
      nota al suo nome quanto segue: 
      EDMONDO DANTÉS. Bonapartista arrabbiato;  ha preso parte attiva al 
      ritorno dall'isola d'Elba.  Da tenersi in segreta,  e sotto la più 
      stretta sorveglianza. 
      Al di sotto di queste linee stava scritto in altro carattere: 
      "Vista la nota qui sopra, nulla a farsi." 
      Soltanto confrontando il carattere del  registro  con  quello  del 
      certificato posto ai piedi della domanda di Morrel,  egli acquistò 
      la certezza che la nota del registro era  dello  stesso  carattere 
      del certificato, cioè scritta dalla mano di Villefort. 
      In quanto alla nota che l'accompagnava,  l'inglese capì che doveva 
      essere  stata  scritta  da  qualche  ispettore  che  aveva   preso 
      interesse  momentaneo  alla  situazione di Dantès,  ma che i passi 
      citati avevano messo nell'impossibilità di darvi corso. 
      Come si disse,  l'ispettore,  per discrezione e per non incomodare 
      nelle  sue  ricerche  l'allievo  di Faria,  si era allontanato,  e 
      leggeva "Il bianco vessillo". 
      Dunque non vide l'inglese piegare e mettersi in tasca la  denunzia 
      scritta  da  Danglars  sotto  il  pergolato  della Riserva,  e che 
      portava il bollo della posta di Marsiglia, 28 febbraio. 
      Ma bisogna dirlo, anche se lo avesse veduto,  avrebbe annesso poca 
      importanza a questa carta, e troppa ai suoi duecento mila franchi, 
      per  opporsi  a  ciò  che  faceva  l'inglese,   per  quanto  fosse 
      irregolare. 
      "Grazie!" disse questi,  chiudendo con  rumore  il  registro.  "Ho 
      visto  quanto  mi  abbisognava.  Ora  sta  a  me  mantenere la mia 
      promessa:  fatemi  una  semplice  girata   del   vostro   credito; 
      dichiarate  in  essa  di aver ricevuto il contante,  ed io vi pago 
      subito questa somma." 
      Lasciò il posto al signor de  Boville  che  si  sedette,  e  senza 
      complimenti si affrettò a fare la girata, mentre l'inglese contava 
      i biglietti di banca all'angolo della tavola. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 29. 
                               LA CASA MORREL. 
 
 
      Colui che avesse lasciato Marsiglia qualche anno prima, conoscendo 
      l'interno della casa di Morrel,  e vi fosse rientrato all'epoca in 
      cui siamo arrivati, vi avrebbe notato un grandissimo cambiamento. 
      Invece di quell'aura di vita,  di agi e di felicità,  che per così 
      dire emana da una casa che sia benedetta dalla fortuna;  invece di 
      quelle allegre figure che si fanno vedere dietro le  finestre,  di 
      quei  commessi  affaccendati  che  attraversano i corridoi con una 
      penna cacciata dietro l'orecchio;  invece di quel cortile ingombro 
      di  merci,  rimbombante  di  grida  e  risa dei facchini,  avrebbe 
      trovato fin dal primo sguardo,  un non so che di  tristezza  e  di 
      morte in corridoi deserti e in un vuoto cortile. 
      Dei  tanti  impiegati  che in altri tempi popolavano gli scrittoi, 
      appena due ne rimanevano;  uno era Emanuele  Raymond,  giovane  di 
      ventitré anni,  innamorato della figlia di Morrel, che era rimasto 
      nel banco,  quantunque i suoi parenti avessero fatto di tutto  per 
      toglierlo;  l'altro  era  un  vecchio cassiere,  chiamato Coclite, 
      soprannome che gli era stato dato dai giovani che in  altro  tempo 
      popolavano   questo   alveare   fervido  e  gioioso,   oggi  quasi 
      disabitato,  che aveva così bene e così perfettamente  dimenticato 
      il  suo  vero  nome,  per  cui,  secondo ogni probabilità,  non si 
      sarebbe neppure voltato,  se non lo avessero chiamato  con  questo 
      soprannome. 
      Egli  era  rimasto  al  servizio di Morrel,  e nella situazione di 
      questo bravo uomo si era operato uno  strano  cambiamento:  mentre 
      era salito al grado di cassiere, era contemporaneamente disceso al 
      rango di domestico. 
      Ciò non gl'impediva di essere lo stesso Coclite,  buono, paziente, 
      affezionato ma  inflessibile  nei  conti  e  in  aritmetica,  solo 
      argomento  sul  quale  avrebbe  resistito  contro il mondo intero, 
      compreso il signor Morrel,  non avendo a cultura che la sua tavola 
      pitagorica  nota  fin  sulla  punta  delle  dita,  qualunque fosse 
      l'errore nel quale avessero tentato di farlo cadere. 
      In mezzo alla tristezza generale che aveva invaso la casa  Morrel, 
      Coclite era il solo che fosse rimasto impassibile. 
      Ora,  che nessuno s'inganni, questa impassibilità non proveniva da 
      mancanza  di  affezione,  ma  al  contrario  da  una  inalterabile 
      convinzione.  Come i topi che,  si dice, abbandonino a poco a poco 
      un bastimento da qualche tempo condannato dal destino a perire  in 
      mare,  così  tutta  quella  folla  di  commessi  e d'impiegati che 
      traevano la loro sussistenza dalla casa dell'armatore,  avevano un 
      poco per volta resi deserti scrittoi e magazzini. Coclite li aveva 
      visti andarsene, senza neppure rendersi conto della loro partenza. 
      Tutto,  come  abbiamo  detto,  si  riduceva,  per  Coclite,  a una 
      questione di cifre,  e da venti anni che era  in  casa  di  Morrel 
      aveva sempre veduto effettuarsi i pagamenti a cassa aperta con una 
      tale  regolarità  da  fargli  credere  che  questa non avrebbe mai 
      potuto variare ed  i  pagamenti  sospendersi,  più  di  quanto  un 
      mugnaio  che  possiede  un  mulino  messo  in  moto  da  un canale 
      abbondante di acqua,  può credere che un giorno o  l'altro  questa 
      acqua possa venir meno. 
      Infatti  fin  allora,  nulla  era  ancora sopraggiunto a mutare la 
      convinzione di Coclite.  Gli ultimi giorni dello scorso mese erano 
      passati  con  una  rigorosa  puntualità.  Coclite  aveva notato un 
      errore di settanta centesimi commesso da Morrel in suo sfavore,  e 
      lo  stesso giorno aveva riportati i quattordici soldi di eccedenza 
      a Morrel, che con un sorriso malinconico li aveva presi e lasciati 
      cadere in un cassetto quasi vuoto, dicendo: 
      "Coclite, voi siete la perla dei cassieri." 
      E Coclite si era ritirato soddisfatto in modo che non  si  sarebbe 
      potuto esserlo di più, perché un elogio di Morrel, di questa perla 
      degli uomini onesti di Marsiglia,  lusingava Coclite molto più che 
      una gratificazione di cinquanta scudi.  Ma dopo la  fine  di  quel 
      mese  vittoriosamente superato,  Morrel aveva passato ore crudeli. 
      Per fare fronte agli impegni di quel mese aveva riunite  tutte  le 
      sue  risorse  e,  temendo  che  l'eco  delle  sue  ristrettezze si 
      spandesse in Marsiglia, vedendolo ricorrere a simili estremi,  era 
      andato  a  fare  un  viaggio  alla  fiera di Beaucaire per vendere 
      qualche gioiello che apparteneva a sua figlia,  nonché  una  parte 
      della   sua  argenteria:  con  tal  sacrificio  tutto  era  ancora 
      superato, ad onore della casa Morrel. 
      Però la cassa era rimasta vuota.  I finanziatori,  allarmati dalle 
      voci che circolavano,  si erano eclissati,  come succede in questi 
      casi, per egoismo umano; e, per far fronte a cento mila franchi da 
      pagarsi il 15 di quel mese al signor de  Boville,  e  altri  cento 
      mila che scadevano il 15 del successivo mese,  Morrel non aveva in 
      realtà altra speranza che  il  ritorno  del  Faraone,  di  cui  un 
      bastimento  che aveva levata l'àncora con esso,  e già arrivato in 
      porto, aveva annunciato la partenza. Ma questo battello che veniva 
      da Calcutta come il Faraone,  era già arrivato da quindici giorni, 
      mentre del Faraone non si aveva alcuna notizia. 
      In  questo  stato  di  cose,  l'indomani  del  giorno in cui aveva 
      concluso l'affare con de Boville, da noi raccontato,  l'incaricato 
      della  casa Thomson e French di Roma si presentò al signor Morrel. 
      Lo ricevette Emanuele. 
      Il giovane che si spaventava all'entrata  di  ogni  nuova  persona 
      perché   poteva   annunciare  un  nuovo  creditore  che  veniva  a 
      importunare il capo della casa,  volle risparmiare al  padrone  la 
      noia  di  questa  visita:  interrogò  il nuovo arrivato,  il quale 
      dichiarò che non aveva cosa alcuna da dire,  ma che voleva parlare 
      a Morrel in persona. 
      Emanuele sospirando chiamò Coclite;  e questi comparve e ricevette 
      l'ordine di condurre  lo  straniero  dal  signor  Morrel.  Coclite 
      camminò  avanti e lo straniero lo seguì.  Sulla scala incontrarono 
      una bella ragazza di diciassette anni che guardò lo straniero  con 
      inquietudine  Coclite non notò questa espressione del viso di lei, 
      che però non sfuggì al forestiero. 
      "Il signor Morrel  è  nel  suo  ufficio,  non  è  vero,  signorina 
      Giulia?" domandò il cassiere. 
      "Sì,  almeno  credo  di  sì..."  disse  la giovane con esitazione. 
      "Guardate prima,  Coclite,  e se  mio  padre  c'è,  annunciate  il 
      signore." 
      "E' inutile annunciarmi,  signorina" rispose l'inglese, "il signor 
      Morrel non conosce il mio nome.  Questo bravo uomo  ha  da  dirgli 
      soltanto che io sono il primo commesso della casa Thomson e French 
      di Roma, colla quale la casa di vostro padre è in relazione." 
      La  ragazza  impallidì e continuò a scendere,  mentre Coclite e lo 
      straniero riprendevano a salire. 
      Lei entrò nella stanza dove era lo scrittoio  d'Emanuele,  Coclite 
      invece  aprì una porta del secondo piano,  introdusse lo straniero 
      in un'anticamera, aprì una seconda porta che richiuse dietro a sé, 
      e dopo aver lasciato solo per un momento l'inviato  di  Thomson  e 
      French, ricomparve, facendogli segno che poteva entrare. 
      L'inglese entrando trovò il signor Morrel dietro il suo scrittoio, 
      preoccupato  delle  colonne  spaventose  dei registri su cui stava 
      scritto il suo passivo. 
      Vedendo lo straniero, Morrel chiuse i registri, si alzò, offrì una 
      sedia, e quando lo vide a suo agio, egli pure sedette. 
      Quattordici  anni  avevano  cambiato  assai   la   fisonomia   del 
      negoziante,  il  quale,  di  trentasei anni al principio di questa 
      storia,   stava  per  compiere  i  cinquanta.   I  capelli   erano 
      incanutiti,  la  fronte  era  solcata da due profonde rughe,  e lo 
      sguardo, in altri tempi così fermo e sicuro, era diventato vago ed 
      irresoluto,  e sembrava dovesse sempre temere di fissarsi sopra un 
      uomo  o  sopra una idea.  L'inglese lo guardò con un sentimento di 
      curiosità misto ad interesse. 
      "Signore" disse Morrel, a cui questo esame sembrava raddoppiare il 
      malessere, "desideravate parlarmi?" 
      "Sì, signore... Sapete da quale parte vengo, non è vero?" 
      "A quanto mi ha detto il cassiere,  da parte della casa Thomson  e 
      French." 
      "Vi  ha  detto  la  verità.  La  casa  Thomson  e  French  ha tre- 
      quattrocento mila franchi da pagare in  Francia,  parte  nel  mese 
      corrente  e  parte  nel prossimo,  e conoscendo la vostra rigorosa 
      esattezza ha riunito tutte le cambiali che ha potuto  trovare  con 
      la vostra firma, e mi ha incaricato, a seconda che queste scadono, 
      di ritirare i fondi da voi e d'impiegarli." 
      Morrel mandò un profondo sospiro,  e si passò la mano sulla fronte 
      coperta di sudore. 
      "Voi  dunque,  signore"  domandò  Morrel,  "avete  delle  cambiali 
      firmate da me?" 
      "Sì signore, e per una somma abbastanza considerevole." 
      "Per quale somma?" domandò Morrel,  con voce che invano cercava di 
      render sicura. 
      "Ecco qui" disse l'inglese,  levandosi di  tasca  un  plico:  "per 
      prima  cosa  due  girate  di  duecento  mila franchi del signor de 
      Boville, l'ispettore delle prigioni.  Convenite di dovergli quella 
      somma?" 
      "Sì, signore, è un investimento che egli ha fatto nel mio banco al 
      quattro e mezzo per cento, saranno presto cinque anni." 
      "E che voi dovete rimborsare?..." 
      "Metà  al  15  di  questo  mese,  l'altra  metà al 15 del prossimo 
      venturo." 
      "Bene,  ora ecco trentaduemila e cinquecento franchi per  la  fine 
      del  corrente:  queste  sono  cambiali firmate da voi e passate al 
      nostro ordine da terzi giratari." 
      "Le riconosco..." disse Morrel, al quale saliva al viso il rossore 
      della vergogna,  pensando che per la prima volta in vita  sua  non 
      avrebbe potuto far onore alla sua firma. "Sta tutto qui?..." 
      "No,  signore,  io  ho  ancora per la fine del mese venturo queste 
      altre cambiali che sono passate dalla casa Pascal alla casa Wild e 
      Turner di Marsiglia, cinquantacinque mila franchi circa.  In tutto 
      sono duecento ottantasette mila cinquecento franchi." 
      Ciò  che  soffriva lo sfortunato Morrel in questa enumerazione,  è 
      impossibile poterlo descrivere. 
      "Duecento   ottantasette   mila   cinquecento   franchi!"   ripeté 
      macchinalmente. 
      "Sì" disse l'inglese, e continuò dopo un momento di silenzio: "Non 
      vi  nasconderò,  signor  Morrel,  che mentre tutti fanno gli elogi 
      della vostra probità senza macchia fino  al  presente,  corre  una 
      sorda voce per Marsiglia, che voi non siate in grado di far fronte 
      ai vostri affari". 
      A   questa   introduzione,   quasi   brutale,   Morrel   impallidì 
      spaventevolmente. 
      "Signore"  disse,   "fino  a  questo  momento,   e  sono  più   di 
      ventiquattro anni che ho ricevuto la casa da mio padre,  che a sua 
      volta l'aveva  diretta  per  trentaquattro  anni,  fino  a  questo 
      momento una cambiale firmata da Morrel e Figli,  non fu presentata 
      alla cassa senza essere pagata." 
      "Sì,  lo so" rispose l'inglese,  "ma,  da  uomo  d'onore,  parlate 
      francamente: pagherete tal somma con la stessa esattezza?" 
      Morrel rabbrividì,  e guardò colui che gli parlava in tal modo con 
      una maggior attenzione di quello che non aveva ancor fatto. 
      "A una domanda fatta con tanta franchezza"  disse,  "bisogna  dare 
      una risposta ugualmente franca.  Sì, signore, io pagherò, se, come 
      spero il mio bastimento giunge a buon porto,  poiché il suo arrivo 
      mi renderà quel credito che mi fu tolto dagli incidenti successivi 
      di cui sono stato vittima.  Ma se per disgrazia il Faraone, ultima 
      risorsa sulla quale io conto, mi mancasse..." 
      Le lacrime sgorgarono dagli occhi del povero armatore. 
      "Ebbene?" domandò l'interlocutore.  "Se questa ultima  risorsa  vi 
      mancasse?" 
      "Ebbene,  se  questa  ultima risorsa mi mancasse" continuò Morrel, 
      "quantunque sia cosa crudele a  dire...  ma  abituato  ormai  alla 
      sventura  bisogna che mi abitui all'onta...  Ebbene,  allora credo 
      che sarei obbligato a sospendere i pagamenti." 
      "E non avete amici che possano aiutarvi in simile congiuntura?" 
      Morrel sorrise tristemente. 
      "In commercio, signore, non si hanno che corrispondenti." 
      "É vero..." mormorò l'inglese. "Per tal modo non avete più che una 
      sola speranza?" 
      "Una sola, ed ultima..." 
      "E se questa fallisce..." 
      "Sono perduto, signore, interamente perduto!" 
      "Quando sono venuto da voi, un bastimento entrava nel porto." 
      "Lo so, signore.  Un giovane che è rimasto fedele alla mia cattiva 
      fortuna  passa  una  parte del suo tempo su una terrazza della mia 
      casa,  nella speranza di venire per primo ad annunziarmi una buona 
      notizia.   Da   lui   ho  saputo  l'entrata  in  porto  di  questo 
      bastimento." 
      "E non è il vostro?" 
      "No, è un naviglio bordolese,  la Gironda;  viene dalle Indie,  ma 
      non è quello che aspetto." 
      "Forse avrà notizie del Faraone." 
      "E'  necessario che ve lo dica?  Io temo tanto di chiedere notizie 
      del mio bastimento, quanto di restare nell'incertezza,  la quale è 
      pure una speranza." 
      Quindi Morrel aggiunse con voce commossa: 
      "Questo  ritardo  non è naturale: il Faraone è partito da Calcutta 
      il 5 febbraio, e dovrebbe essere in porto già da un mese." 
      "Ma che è questo?" disse l'inglese tendendo l'orecchio.  "Che vuol 
      dire questo rumore?" 
      "Oh,  mio  Dio,  mio  Dio!"  gridò Morrel impallidendo.  "Che vi è 
      ancora di nuovo?" 
      Infatti si fece sentire sulle scale un gran rumore,  un  andare  e 
      venire, e s'intese perfino un grido di dolore. 
      Morrel  si  alzò  per  andare ad aprire la porta,  ma le forze gli 
      vennero meno e ricadde sulla  sedia.  I  due  uomini  rimasero  in 
      faccia l'un dell'altro. Morrel era scosso da tremiti; lo straniero 
      lo guardava con un'espressione di profonda pietà. 
      Il rumore era cessato,  ciò nonostante si sarebbe detto che Morrel 
      aspettasse qualche cosa;  questo rumore  aveva  dovuto  avere  una 
      causa, e doveva avere una conclusione. 
      Sembrò allo straniero che qualcuno salisse pian piano la scala,  e 
      molte persone si fossero fermate sul pianerottolo. 
      Una chiave venne introdotta nella serratura della prima  porta,  e 
      questa cigolò sui cardini. 
      "Non  vi sono che due persone che hanno la chiave di questa porta" 
      mormorò Morrel: "Coclite e Giulia." 
      Nello stesso istante la porta si  aprì,  e  comparve  la  ragazza, 
      pallida e colle guance bagnate di lacrime. 
      Morrel  si  alzò  tutto  tremante,  e si appoggiò ai braccioli del 
      seggiolone, perché non avrebbe avuto la forza di tenersi in piedi. 
      La sua voce voleva interrogare, ma non aveva più voce. 
      "Oh,  padre mio" disse la giovane giungendo le mani,  "perdonatemi 
      di essere messaggera di una triste notizia." 
      Morrel  si ricoprì di un pallore mortale;  Giulia venne a gettarsi 
      fra le sue braccia. 
      "Oh, padre mio" disse, "coraggio!" 
      "E così il Faraone è perduto?" domandò Morrel con voce soffocata. 
      La ragazza non rispose,  ma fece un segno affermativo con la testa 
      appoggiata al petto del padre. 
      "E l'equipaggio?" domandò Morrel. 
      "Salvato"  disse  la  ragazza,  "salvato  da  quello della Gironda 
      entrata or ora nel porto." 
      Morrel alzò  le  mani  al  cielo  con  un'espressione  di  sublime 
      rassegnazione e riconoscenza. 
      "Grazie,  grazie,  mio Dio!" disse Morrel. "Almeno non colpite che 
      me solo." 
      Per quanto flemmatico fosse l'inglese,  una lacrima gli  bagnò  le 
      palpebre. 
      "Entrate" disse Morrel, "entrate, perché suppongo che sarete tutti 
      alla porta." 
      Infatti,  aveva  appena pronunciate queste parole,  che la signora 
      Morrel  entrò  singhiozzando.  Emanuele  la  seguiva;   nel  fondo 
      dell'anticamera  si  vedevano  le  rozze  figure  di  sette o otto 
      marinai seminudi. 
      Alla vista di quegli uomini l'inglese rabbrividì,  fece  un  passo 
      per  andare  loro incontro,  ma si contenne,  ed invece si nascose 
      nell'angolo più oscuro ed appartato dell'ufficio. 
      La signora Morrel andò a sedersi presso il marito,  prese  fra  le 
      sue  le mani di lui,  mentre Giulia restava in piedi appoggiata al 
      petto del padre.  Emanuele era  rimasto  a  metà  della  stanza  e 
      sembrava  il  legame  fra  il  gruppo  della famiglia Morrel,  e i 
      marinai che stavano fermi sulla porta. 
      "Come avvenne questo infortunio?" domandò Morrel. 
      "Avvicinatevi Penelon" disse il giovane, "e raccontate il caso." 
      Un vecchio marinaio, abbronzato dal sole dell'equatore,  si avanzò 
      ravvolgendo fra le mani gli avanzi di un cappello. 
      "Buon  giorno,  signor  Morrel"  disse,  come  se  avesse lasciato 
      Marsiglia il giorno precedente o giungesse da Tolone, o da Aix. 
      "Buon giorno, amico mio" disse l'armatore, non potendo fare a meno 
      di sorridere in mezzo alle lacrime. "Ma dov'è il capitano?" 
      "Il capitano è rimasto malato a Palma;  ma a Dio piacendo,  è cosa 
      da nulla, e voi lo vedrete giungere fra qualche giorno, tanto bene 
      in salute quanto voi e me." 
      "Sta bene... ora parlate, Penelon" disse Morrel. 
      Penelon fece passare da una parte all'altra della bocca il tabacco 
      che   masticava,   quindi   ponendo   la   mano  davanti,   lanciò 
      nell'anticamera un getto di saliva nerastra,  avanzò il piede e si 
      equilibrò sulle anche narrando quanto appresso: 
      "Noi eravamo circa,  qualche cosa più o meno, fra il capo Bianco e 
      il capo Boyador camminando con una buona brezza di sud-ovest, dopo 
      essere stati senza muoverci otto giorni per la bonaccia, quando il 
      capitano Gaumard mi si avvicina: bisogna che sappiate  che  allora 
      io ero al timone, e mi dice: 
      "Papà  Penelon,  che  pensate  di quelle nubi che si levano laggiù 
      all'orizzonte." 
      Le guardavo proprio in quel momento. 
      "Che ne penso io, capitano? Penso che vengano su un po' più presto 
      di quello che vorremmo,  e che sono più  nere  di  quello  che  si 
      convenga a nuvole che non abbiano cattive intenzioni." 
      "Questo è pure il mio parere" disse il capitano,  "e vado subito a 
      prendere le necessarie cautele.  Abbiamo le vele  troppo  spiegate 
      per il vento che farà...  Olà,  eh! Preparatevi a serrare le vele, 
      ed a mandare sotto quella di trinchetto..." 
      Era tempo; fu appena eseguito l'ordine,  che il vento infuriava su 
      noi e il bastimento dava di banda. 
      "Bene!" disse il capitano. "Abbiamo ancora troppa tela: accomoda e 
      serra la gran vela." 
      Cinque  minuti  dopo,  la gran vela era chiusa,  e noi camminavamo 
      colla mezzana, colla vela di gabbia e i parrocchetti. 
      "Ebbene! Papà Penelon!" disse il capitano. "Che avete? scuotete la 
      testa?" 
      "E' perché,  al vostro posto,  vedete,  non resterei  in  un  così 
      brutto impiccio." 
      "Credo che tu abbia ragione,  vecchio" disse, "noi avremo fra poco 
      un colpo di vento..." 
      "Ah,  capitano" gli rispondo io,  "chi volesse riscattare  con  un 
      colpo  di  vento  ciò che si prepara laggiù,  guadagnerebbe assai; 
      questa è una  buona  e  bella  tempesta  dove  io  non  mi  vorrei 
      trovare..." 
      Vale  a dire che si vedeva venire il vento come si vede la polvere 
      a Montredon: fortunatamente avevamo a che fare con un uomo che  lo 
      conosceva. 
      "Attenti a prendere tre terzaruoli nelle gabbie!" gridò.  "Allarga 
      le boline, braccio al vento, giù i pennoni!" 
      "Ciò non era abbastanza in quei paraggi" interruppe l'inglese, "io 
      avrei  preso  quattro  terzaruoli,  e  mi  sarei  spacciato  della 
      mezzana." 
      Questa voce ferma, sonora ed inattesa fece scuotere tutti. 
      Penelon mise la mano sugli occhi e guardò colui che correggeva con 
      tanta avvedutezza la manovra del suo capitano. 
      "Noi facemmo ancor meglio,  signore" disse il vecchio con un certo 
      rispetto,  "perché caricammo a orza la brigantina,  e mettemmo  le 
      barre al vento per correre avanti alla tempesta. Dieci minuti dopo 
      caricammo le gabbie e ce ne andammo senza vele." 
      L'inglese scosse la testa: 
      "Il bastimento era troppo vecchio per arrischiar questo" disse. 
      "E' vero! è detto giustamente! Questo fu quello che ci perdette... 
      In  capo a dodici ore eravamo trabalzati come se il diavolo avesse 
      preso l'armi, e si aperse una falla d'acqua. 
      "Penelon" mi disse il capitano, "credo che coliamo a fondo;  dammi 
      la barra del timone, e discendi nella stiva." 
      Gli  do  la  barra,  e  scendo;  vi  erano già tre piedi di acqua. 
      Risalgo gridando: 
      "Alle pompe! alle pompe!" 
      Ebbene sì! Era troppo tardi. 
      Tutti ci mettemmo all'opera  e  io  credo  che  quanta  più  acqua 
      cavavamo più ne entrava. 
      "Ah,  in  fede  mia" dissi,  dopo quattro ore di lavoro,  "giacché 
      affondiamo, lasciamoci affondare; non si muore che una volta." 
      "E' così che dai l'esempio,  Penelon?" disse il capitano.  "Ebbene 
      aspetta, aspetta!" e andò in cabina a prendere un paio di pistole. 
      "Il primo che lascia la pompa" disse, "gli brucio le cervella!" 
      "Bravo!" disse l'inglese. 
      "Non c'è nulla che infonda tanto coraggio quanto le buone ragioni" 
      continuò il marinaio,  "tanto più che il tempo si era rischiarato, 
      e il vento cominciava a indebolire.  Non è meno vero  che  l'acqua 
      saliva  sempre;  non  molto  ma  circa due pollici l'ora,  vedete, 
      sembra che non sia niente,  ma in  dodici  ore  non  sono  men  di 
      ventiquattro pollici, che fan due piedi; e tre che ne avevamo già, 
      fanno  cinque;  ciò  vuol  dire che quando un bastimento ha cinque 
      piedi d'acqua nel ventre, può già passare per idropico. 
      "Andiamo" disse il capitano, "basta così,  ed il signor Morrel non 
      avrà  nulla  a  rimproverarci:  abbiamo  fatto  tutto ciò che si è 
      potuto fare per salvare il  bastimento;  bisogna  ora  cercare  di 
      salvare gli uomini.  Alla scialuppa,  giovanotti, e più presto che 
      si può!' 
      Ascoltate signor Morrel" continuò Penelon,  "noi amavamo molto  il 
      Faraone;  ma  per  grande che sia l'amore che i marinai portano al 
      loro bastimento, essi però amano sempre di più la loro pelle. Così 
      non ce  lo  facemmo  ripetere  due  volte,  mentre  il  bastimento 
      aprendosi sembrava dirci: 
      "Andatevene dunque! ma andatevene dunque!" 
      E non mentiva il povero Faraone; noi lo sentivamo abbassarsi sotto 
      i nostri piedi.  Tanto fu: con un giro di mano la scialuppa era in 
      mare,  e in un batter d'occhio gli otto marinai erano  dentro.  Il 
      capitano fu l'ultimo a scendere...  o piuttosto no, non scese, non 
      voleva  abbandonare   il   battello,   fui   io   che   lo   presi 
      abbracciandogli  il  corpo  e  lo  gettai  ai compagni dopo di che 
      saltai io pure. Ed era tempo. Appena ebbi fatto il salto, il ponte 
      si spaccò con un rumore tale,  che si sarebbe detta una bordata di 
      vascello da quarantotto.  Dieci minuti dopo affondò in avanti, poi 
      indietro,  quindi si mise a girare su se stesso,  come un cane che 
      corre dietro la propria coda, e infine, buona sera alla compagnia, 
      brrrru!  tutto finito,  il Faraone non c'era più! In quanto a noi, 
      siamo stati tre giorni senza bere e senza mangiare, ed era tale la 
      nostra fame che già si cominciava a parlare di fare  a  sorte  per 
      sapere  chi  sacrificare,  come  cannibali,  quando  scoprimmo  la 
      Gironda, le facemmo dei segnali... Ci vide, volse la prua verso di 
      noi ci spedì la sua scialuppa e ci raccolse.  Ecco come è  andata, 
      signor Morrel parola d'onore!  sulla fede di marinaio! Non è vero, 
      compagni?" 
      Un  mormorio  generale  indicò  che  il  narratore   aveva   avuto 
      l'approvazione   di  tutti  per  la  verità  del  racconto  ed  il 
      pittoresco dei particolari. 
      "Bene,  amici miei" disse Morrel,  "siete della brava  gente;  già 
      sapevo che nella disgrazia che mi sarebbe toccata, nessuno avrebbe 
      avuto colpa fuorché il destino: questa è la volontà di Dio,  e non 
      colpa degli uomini.  Chiniamoci alla volontà di  Dio.  Ora  ditemi 
      quanto vi debbo per il vostro soldo?" 
      "Oh, bah, non parliamo di questo, signor Morrel..." 
      "Al contrario, parliamone" disse l'armatore con un triste sorriso. 
      "Ebbene, dobbiamo avere tre mesi di soldo" disse Penelon. 
      "Coclite,  pagate  duecento  franchi  a  ciascuno  di questi bravi 
      uomini.  In altri tempi,  amici  miei,  avrei  detto:  date  cento 
      franchi a ciascuno di gratificazione, ma i tempi sono disgraziati, 
      cari amici, e il poco denaro che mi resta non è più mio; scusatemi 
      dunque, e non per questo cessate dall'amarmi." 
      Penelon  fece  un  gestaccio  di tenerezza,  si volse ai compagni, 
      scambiò con loro qualche parola e replicò: 
      "Per quello che riguarda  ciò,  signor  Morrel"  disse  masticando 
      tabacco,  e  lanciando  nell'anticamera un secondo getto di saliva 
      che andò a tener compagnia al  primo,  "per  quello  che  riguarda 
      ciò..." 
      "Ciò, cosa?" 
      "Il denaro..." 
      "Ebbene?" 
      "Ebbene,  signor Morrel, i compagni dicono che per il momento sono 
      sufficienti cinquanta franchi per ciascuno,  e che  per  il  resto 
      aspetteranno." 
      "Grazie, amici miei, grazie!" gridò il signor Morrel commosso fino 
      al cuore.  "Siete tutti brava gente,  ma prendete!  prendete! e se 
      trovate un buon servizio, entrateci pure." 
      Questa ultima parte della frase produsse un effetto prodigioso  su 
      quei  degni  marinai,  si  guardarono  gli  uni e gli altri con la 
      faccia smarrita. Penelon,  a cui mancava il fiato,  poco mancò non 
      inghiottisse la boccata di tabacco. 
      "Come,  signor  Morrel"  disse con voce soffocata,  "come,  voi ci 
      licenziate, siete dunque malcontento di noi?" 
      "No figli miei" disse l'armatore,  "no,  non sono  malcontento  di 
      voi,  tutto al contrario,  no,  io non vi licenzio.  Ma che volete 
      farci, non ho più bisogno di marinai." 
      "Come, non avete più bastimenti?" disse Penelon. "Ebbene ne farete 
      costruire degli altri! Aspetteremo.  Grazie a Dio noi sappiamo ciò 
      che vuol dire..." 
      "Io  non  ho  più  denari  per  far  costruire  bastimenti"  disse 
      l'armatore con triste sorriso.  "Quindi  non  posso  accettare  la 
      vostra offerta, per quanto sia cortese." 
      "Ebbene,  se  non  avete  più  denari,  allora non dovete pagarci; 
      faremo come ha fatto il povero Faraone,  correremo in secco,  ecco 
      tutto." 
      "Basta,  basta,  amici miei" disse Morrel soffocato dall'emozione, 
      "basta,  ve ne prego,  ci rivedremo in tempi  migliori.  Emanuele, 
      accompagnateli   e   vigilate   affinché  siano  compiuti  i  miei 
      desideri." 
      "Almeno a rivederci non è vero, signor Morrel?" disse Penelon. 
      "Sì, amici miei, almeno lo spero. Andate." 
      E fece segno a Coclite che camminò avanti,  e i marinai  seguirono 
      il cassiere. Emanuele tenne loro dietro. 
      "Ora"  disse l'armatore a sua moglie ed a sua figlia,  "lasciatemi 
      solo un momento, poiché debbo parlare con questo signore." 
      E indicò con gli occhi il mandatario della casa Thomson  e  French 
      che  era  rimasto  in piedi ed immobile in un angolo durante tutta 
      questa scena,  alla quale egli non aveva  presa  altra  parte  che 
      quella delle poche parole che abbiamo riportate. 
      Le  due  donne  alzarono  gli  occhi sullo straniero completamente 
      dimenticato, e si ritirarono; ma nel ritirarsi la giovane lanciò a 
      quest'uomo uno sguardo di sublime preghiera  cui  egli  corrispose 
      con  un  sorriso,  che un freddo osservatore si sarebbe stupito di 
      vedere spuntare su quel viso di ghiaccio. 
      I due uomini rimasero soli. 
      "Ebbene,  signore"  disse  Morrel  lasciandosi  ricadere  sul  suo 
      seggio,  "avete  tutto  veduto  ed  inteso,  non  ho  più altro da 
      aggiungere." 
      "Ho visto" disse l'inglese,  "che  vi  è  sopraggiunta  una  nuova 
      disgrazia,  immeritata  come le altre,  e ciò mi ha confermato nel 
      desiderio di esservi utile." 
      "Oh signore!" disse Morrel. 
      "Vediamo" continuò lo straniero,  "sono uno dei vostri  principali 
      creditori, non è vero?" 
      "Siete  almeno  quello  che  possiede  le  cambiali  a  più  corta 
      scadenza." 
      "Desiderate una dilazione per pagarmi?" 
      "Una dilazione potrebbe salvarmi l'onore"  disse  Morrel,  "e  per 
      conseguenza la vita." 
      "Quanto tempo desiderate?" 
      Morrel esitò. 
      "Due mesi" disse. 
      "Bene" fece lo straniero, "ve ne darò tre..." 
      "Ma, credete che la casa Thomson e French?..." 
      "State  tranquillo,  prendo  tutto  sopra  di me.  Oggi siamo al 5 
      giugno?" 
      "Sì." 
      "Ebbene rinnovatemi tutti questi biglietti e al 5  settembre  alle 
      undici del mattino mi presenterò a voi." 
      L'orologio in quel momento segnava appunto le 11 precise. 
      "Vi aspetterò, signore, e sarete pagato, o io sarò morto." 
      Queste  ultime  parole  furono  pronunciate a sì bassa voce che lo 
      straniero non poté intenderle. 
      Le cambiali furono rinnovate;  vennero stracciate le antiche ed il 
      povero  armatore  si  trovò  almeno  ad  avere  tre mesi per poter 
      riunire le sue ultime risorse. 
      L'inglese ricevette i suoi ringraziamenti colla flemma particolare 
      alla sua gente,  e prese congedo  da  Morrel,  che  lo  ricondusse 
      benedicendolo fino alla porta. 
      Sulle scale incontrò Giulia: la ragazza sembrava discendere, ma in 
      realtà lo aspettava. 
      "Oh, signore!" disse giungendo le mani. 
      "Signorina"  disse  lo  straniero,  "voi  un giorno riceverete una 
      lettera firmata... Sindbad il marinaio.  Fate appuntino ciò che vi 
      dirà   la   lettera   per  quanto  strana  vi  possa  sembrare  la 
      raccomandazione." 
      "Sì, signore" rispose Giulia. 
      "Mi promettete di farlo?" 
      "Ve lo giuro." 
      "Basta così: addio signorina,  siate sempre  buona  e  savia  come 
      siete ed ho fiducia che Iddio vi ricompenserà,  dandovi per marito 
      Emanuele." 
      Giulia mandò un piccolo grido, divenne rossa come una ciliegia,  e 
      si tenne al cordone delle scale per non cadere. 
      Lo straniero continuò il cammino, facendole un gesto di addio. Nel 
      cortile  incontrò Penelon che teneva un rotolo di cento franchi in 
      ciascuna mano,  e che sembrava non potersi  risolvere  a  portarli 
      via. 
      "Venite, amico mio" gli disse, "ho bisogno di parlarvi." 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 30. 
                               IL 5 SETTEMBRE. 
 
 
      Questa  dilazione  accordata  dal  mandatario della casa Thomson e 
      French al momento in cui Morrel meno se  lo  aspettava,  parve  al 
      povero  armatore  uno  di quei ritorni di benessere che annunziano 
      all'uomo la sorte essersi alfine stancata di perseguitarlo. 
      Lo stesso giorno raccontò a sua figlia e ad Emanuele ciò  che  gli 
      era  accaduto;  e  un  poco  di speranza,  se non di tranquillità, 
      rientrò nella famiglia.  Disgraziatamente però  Morrel  non  aveva 
      affari  soltanto  con la casa Thomson e French che si era mostrata 
      tanto facile  ad  un  accomodamento;  com'egli  aveva  detto,  nel 
      commercio si hanno corrispondenti, e non amici. 
      Allorché  vi  pensava  profondamente,  non  comprendeva neppure la 
      condotta generosa della casa Thomson e French verso di lui,  e non 
      la  spiegava  che con questa riflessione superlativamente egoista, 
      che questa Casa doveva aver detto: val meglio sostenere quest'uomo 
      che ci deve quasi trecentomila franchi,  e avere questa  somma  in 
      capo  a  tre  mesi,  che sollecitarne la rovina,  e avere il sei o 
      l'otto per cento del capitale. Disgraziatamente, fosse odio, fosse 
      accecamento, tutti i corrispondenti di Morrel non fecero la stessa 
      riflessione. 
      Le cambiali sottoscritte da Morrel furono  presentate  alla  cassa 
      con  uno  scrupoloso  rigore,  e  grazie  alla dilazione accordata 
      dall'inglese furono pagate pronta cassa da Coclite, che continuò a 
      rimanere tranquillo.  Il solo Morrel  vide  con  terrore,  che  se 
      avesse  dovuto rimborsare al 15 i centomila franchi di de Boville, 
      e al 30 i trentaduemilacinquecento franchi  di  cambiali,  per  le 
      quali,  come  per  quelle  dell'ispettore  delle  prigioni,  aveva 
      ottenuta una dilazione,  sarebbe stato fin da quel  mese  un  uomo 
      perduto. 
      L'opinione  di  tutti i negozianti di Marsiglia era che Morrel non 
      avrebbe  potuto  sostenere  tutti   i   rovesci   successivi   che 
      l'opprimevano.  Fu  dunque  grande la meraviglia quando lo si vide 
      compiere i pagamenti di fine mese coll'ordinaria esattezza. 
      Ma non per questo ritornò la  fiducia  negli  animi,  e  in  molti 
      predissero   che   alla  fine  del  mese  seguente  sarebbe  stato 
      depositato il bilancio del disgraziato armatore. 
      Tutto il mese passò in sforzi inauditi  da  parte  di  Morrel  per 
      riunire  tutte  le  sue risorse.  In altri tempi le sue cedole,  a 
      qualunque data,  erano prese con fiducia,  ed  anzi  richieste  da 
      tutti.  Morrel  tentò  di negoziare delle cedole colla scadenza di 
      novanta giorni, e trovò tutti i banchi chiusi. 
      Fortunatamente, aveva qualche incasso sul quale contare,  e questo 
      fu fatto: così si trovò ancora in condizione di far fronte ai suoi 
      obblighi  quando  giunse  la  fine  di luglio.  D'altra parte,  il 
      mandatario della casa Thomson e French non era più stato  visto  a 
      Marsiglia. 
      L'indomani  della  sua  visita  a  Morrel  era sparito: siccome in 
      Marsiglia  non  aveva  avuto   a   trattare   che   col   sindaco, 
      coll'ispettore delle prigioni, e con Morrel, così il suo passaggio 
      non  aveva  lasciata  altra  traccia  che i ricordi diversi che ne 
      conservavano queste tre persone.  In quanto ai marinai del Faraone 
      sembrava  che  avessero ritrovato da impiegarsi,  poiché essi pure 
      erano spariti. Il capitano Gaumard rimessosi dalla malattia che lo 
      aveva trattenuto a Palma ritornò egli pure: esitò a presentarsi al 
      signor Morrel;  ma questi saputo il suo arrivo,  andò in persona a 
      trovarlo.  Il  degno  armatore  sapeva già dal racconto di Penelon 
      della coraggiosa condotta tenuta dal  capitano  durante  tutto  il 
      naufragio,  e  si sforzò di consolarlo.  Gli portò l'ammontare del 
      suo soldo,  che il capitano Gaumard non avrebbe  certamente  osato 
      andare a riscuotere. 
      Quando Morrel discese la scala incontrò Penelon che saliva: aveva, 
      a  quanto  sembrava,  fatto  un  buon  uso del denaro,  poiché era 
      vestito tutto di nuovo.  Riconoscendo il suo  armatore,  il  degno 
      timoniere  parve  molto  impacciato;  si  ritirò  nell'angolo  più 
      lontano del pianerottolo,  masticando il  tabacco  e  girando  due 
      grossi occhi spaventati,  non rispose che con una timida pressione 
      alla stretta di mano che gli offerse Morrel  colla  sua  ordinaria 
      cordialità. 
      Morrel  attribuì  l'impaccio  di Penelon all'eleganza del vestito: 
      era evidente che non era entrato di tasca propria in tanto  lusso; 
      e chiaramente doveva essere già impiegato a bordo di qualche altro 
      bastimento,  e  la vergogna gli veniva dal non avere,  se è lecito 
      esprimersi così,  portato per  un  tempo  maggiore  il  lutto  del 
      Faraone. 
      Forse  si  recava  dal capitano Gaumard per metterlo a parte della 
      sua fortuna,  e per  fargli  delle  offerte  da  parte  del  nuovo 
      padrone. 
      "Brava gente!" disse Morrel allontanandosi. "Possa il vostro nuovo 
      padrone amarvi come vi amavo io, ed essere più felici di me!..." 
      Passò  il  mese  di  agosto in tentativi,  senza posa rinnovati da 
      Morrel, per rialzare il suo credito, o per aprirsene uno nuovo. 
      Il 20 agosto si seppe a Marsiglia che Morrel  aveva  prenotato  un 
      posto nella Valigia postale;  allora tutti opinarono che alla fine 
      del mese si sarebbe depositato  il  bilancio,  e  che  Morrel  era 
      partito  prima  per non assistere a quest'atto crudele,  delegando 
      senza dubbio  il  suo  primo  commesso  Emanuele,  e  il  cassiere 
      Coclite.  Ma  contro ogni previsione allorché giunse il 31 agosto, 
      la cassa si aprì secondo il solito. 
      Coclite apparve dietro l'inferriata,  tranquillo come il giusto di 
      Orazio,  esaminò colla stessa attenzione le cedole che gli vennero 
      presentate,  e pagò le tratte dalla prima all'ultima colla  stessa 
      esattezza. 
      Vennero  anche  presentati  due  rimborsi  previsti  da Morrel,  e 
      Coclite li pagò con la puntualità propria  dell'armatore.  Nessuno 
      ne  capiva  niente,  ed  i  profeti  di  cattive notizie,  con una 
      particolare ostinazione,  rinviavano il fallimento  alla  fine  di 
      settembre. 
      Giunse  il primo del mese.  Morrel era atteso da tutta la famiglia 
      colla più grande ansietà,  mentre  contavano  sull'esito  del  suo 
      viaggio a Parigi come sull'ultima via di salute. 
      Morrel aveva pensato a Danglars, divenuto milionario, ed un giorno 
      suo  sottoposto,  perché  era stata la raccomandazione di Morrel a 
      far entrare Danglars al servizio del banchiere spagnolo, presso il 
      quale aveva cominciata la  sua  immensa  fortuna.  Si  diceva  che 
      Danglars  era  possessore di sei-otto milioni,  e che godeva di un 
      credito illimitato. 
      Danglars senza levarsi uno scudo di tasca poteva  salvare  Morrel: 
      non aveva che garantire un prestito, e Morrel era salvo. Morrel da 
      lungo tempo aveva pensato a Danglars;  ma vi sono alcune istintive 
      repulsioni che non sappiamo superare.  Aveva aspettato fino a  che 
      gli era stato possibile,  prima di ricorrere a quest'ultimo mezzo. 
      E   ne   aveva   avuta   ragione,    poiché   ritornava   oppresso 
      dall'umiliazione e dal rifiuto. 
      Al  ritorno  non  manifestò  alcun  lamento,  non  proferì  alcuna 
      recriminazione; aveva stesa la mano amichevolmente ad Emanuele, si 
      era chiuso nel suo ufficio del secondo piano,  ed aveva chiesto di 
      Coclite. Le due donne dissero ad Emanuele: 
      "Siamo perdute." 
      Quindi  in  un breve conciliabolo tenuto fra loro,  convennero che 
      Giulia avrebbe scritto al fratello,  in guarnigione  a  Nimes,  di 
      venire sul momento.  Le povere donne sentivano di avere bisogno di 
      tutte le loro forze per sostenere  il  colpo  che  le  minacciava; 
      d'altra parte Massimiliano Morrel, quantunque nell'età di ventidue 
      anni, aveva già una grande influenza su suo padre. 
      Era un giovane deciso e abile. 
      Al  momento  di  decidersi  per  la carriera,  suo padre non aveva 
      voluto  imporgli  una  scelta  ma  aveva  consultato  il   giovane 
      Massimiliano. 
      Questi  aveva  detto  di voler seguire la carriera militare: aveva 
      per conseguenza fatti degli  eccellenti  studi,  era  entrato  per 
      concorso nella scuola politecnica,  e n'era uscito sottotenente al 
      53  di linea. 
      Dopo un anno che occupava questo posto,  aveva già la promessa che 
      alla prima occasione l'avrebbero nominato tenente. Nel reggimento, 
      Massimiliano  Morrel era citato come il più rigido osservatore non 
      solo di tutti gli obblighi imposti al soldato, ma anche di tutti i 
      doveri propri all'uomo, e non veniva chiamato con altro nome,  che 
      con quello di stoico. 
      Inutile  dire che la maggior parte di coloro che lo chiamavano con 
      tal soprannome,  lo ripetevano per  averlo  inteso  dire,  ma  non 
      sapevano che cosa volesse significare. 
      La  madre  e  la  sorella  lo  chiamavano  in  loro  soccorso  per 
      sostenerle nella grave situazione che presagivano.  Non  si  erano 
      ingannate  sulla gravità di questi presentimenti perché un momento 
      dopo che Morrel era entrato nel suo ufficio  con  Coclite,  Giulia 
      vide uscire quest'ultimo pallido, tremante e col viso sconvolto. 
      Volle  interrogarlo  quando  le  passò  accanto,  ma  il brav'uomo 
      continuò a scendere la scala con una precipitazione  che  non  gli 
      era solita, e si contentò di gridare alzando le braccia al cielo: 
      "Oh  signorina,   signorina!   Quale  orribile  disgrazia,  e  chi 
      l'avrebbe mai creduto!" 
      Poco dopo,  Giulia lo vide risalire  portando  due  o  tre  grossi 
      registri, e un rotolo di monete. 
      Morrel consultò i registri,  aprì il portafogli,  contò le monete. 
      Tutte le sue risorse ascendevano a sei o otto mila franchi; i suoi 
      crediti,  realizzabili fino al giorno 5,  a quattro o cinque mila; 
      ciò  che  formava  in  contante,   a  dir  molto,   un  attivo  di 
      quattordicimila  franchi,  per  far  fronte  ad  una  cambiale  di 
      duecentottantasettemilacinquecento franchi. Non era neppure lecito 
      offrire una simile somma in acconto. 
      Però quando Morrel scese per pranzare,  sembrava assai tranquillo: 
      il che spaventò le due donne assai più di un  sommo  abbattimento. 
      Dopo pranzo Morrel aveva l'abitudine di uscire;  andava a prendere 
      il caffè al circolo dei Phocéens, o a leggere il "Sémaphore": quel 
      giorno non  uscì,  risalì  nel  suo  ufficio.  Quanto  a  Coclite, 
      sembrava completamente ebete. 
      Durante una parte del giorno si era trattenuto in cortile,  seduto 
      sopra una pietra, con la testa nuda sotto un sole di trenta gradi. 
      Emanuele  cercava  di  tranquillizzare  le  donne,  ma  non  aveva 
      sufficiente  eloquenza.  Il  giovane  era troppo al corrente degli 
      affari per non sapere che  una  grande  catastrofe  era  imminente 
      sulla famiglia Morrel. 
      Venne la notte;  le due donne vegliarono nella speranza che Morrel 
      scendendo dall'ufficio sarebbe passato da  loro;  ma  lo  intesero 
      passare  dalla loro porta,  camminando sulla punta dei piedi,  per 
      timore forse di esser chiamato: tesero le orecchie,  e udirono che 
      entrò in camera sua, e si chiuse dal di dentro. 
      La  signora  Morrel mandò sua figlia a dormire;  quindi,  mezz'ora 
      dopo che Giulia si era ritirata,  si alzò,  si  tolse  le  scarpe, 
      entrò  nel corridoio per vedere dalla serratura ciò che faceva suo 
      marito; s'accorse allora d'un'ombra che si ritirava. 
      Era Giulia che, inquieta anch'essa, aveva preceduta sua madre. 
      La ragazza le andò incontro dicendole: 
      "Scrive." 
      Le due donne avevano avuto  lo  stesso  pensiero  senza  esserselo 
      comunicato. La signora Morrel guardò per il buco della serratura. 
      Infatti Morrel scriveva: ma ciò che non aveva visto la figlia,  lo 
      notò la madre;  Morrel scriveva sopra una carta bollata.  Le venne 
      la terribile idea che facesse il suo testamento;  rabbrividì e non 
      ebbe forza di dire una parola. 
      Il giorno dopo Morrel sembrava perfettamente tranquillo,  si fermò 
      allo  scrittoio  come d'ordinario e discese a far colazione.  Solo 
      dopo pranzo fece sedere la figlia vicino,  cinse  la  testa  della 
      ragazza col suo braccio, e la tenne lungamente contro il petto. 
      La  sera  Giulia  disse  a  sua  madre che per quanto in apparenza 
      sembrasse tranquillo,  aveva notato che  il  cuore  di  suo  padre 
      batteva  violentemente.  Nello stesso modo passarono gli altri due 
      giorni. 
      Il 4 settembre verso sera,  Morrel chiese a sua figlia  la  chiave 
      del suo ufficio. Giulia rabbrividì a questa domanda che gli sembrò 
      di cattivo augurio. 
      Perché  dunque suo padre voleva questa chiave che lei aveva sempre 
      custodito,  e che non le era mai stata tolta,  meno  nell'infanzia 
      nei giorni in cui la si voleva castigare? 
      La ragazza guardò Morrel. 
      "Che  ho fatto di male,  padre mio" disse,  "perché mi riprendiate 
      questa chiave?" 
      "Niente,  figlia mia" rispose lo sventurato Morrel  a  cui  questa 
      semplice domanda fece sgorgare dagli occhi il pianto, "nulla; solo 
      ne ho bisogno." 
      Giulia finse di cercare la chiave. 
      "L'avrò lasciata in camera mia" mentì. 
      Uscì,  ma  invece  di  andare nella sua camera,  discese e corse a 
      consigliarsi con Emanuele. 
      "Non restituite  la  chiave  a  vostro  padre"  disse  questi,  "e 
      domattina, se è possibile, non lo lasciate solo un momento." 
      Lei  cercò  invano  di interrogare Emanuele,  ma questi non sapeva 
      altro, o non volle dire di più. 
      Durante tutta la notte dal 4 al  5  settembre  la  signora  Morrel 
      restò coll'orecchio contro la bussola,  fino alle tre del mattino; 
      intese suo marito camminare con agitazione nella camera; solo dopo 
      le tre si gettò sul letto. 
      Le due donne passarono insieme il resto  della  notte.  Fin  dalla 
      sera antecedente aspettavano Massimiliano. 
      Alle otto Morrel entrò nella loro camera: egli era tranquillo,  ma 
      gli si leggeva sul viso pallido e smunto l'agitazione della notte. 
      Le donne non osarono chiedergli se aveva riposato bene.  Morrel fu 
      affabile con sua moglie, più tenero con sua figlia di quel che non 
      fosse  mai  stato:  non  si stancava di guardare ed abbracciare la 
      povera ragazza. 
      Giulia  si  ricordò  la  raccomandazione  di  Emanuele,   e  volle 
      accompagnare  il  padre  quando  uscì,  ma  questi la respinse con 
      dolcezza, dicendole: 
      "Resta con tua madre." 
      Giulia volle insistere. 
      "Lo voglio" disse Morrel. 
      Era la prima volta che diceva a sua figlia: "Lo  voglio!".  Ma  lo 
      disse  con  tale  accento di paterna dolcezza,  che Giulia non osò 
      opporsi. Rimase al suo posto, ritta, muta ed immobile. 
      Pochi momenti dopo la porta si aprì, ed ella sentì due braccia che 
      la stringevano ed un bacio sulla fronte.  Alzò gli occhi,  e mandò 
      un'esclamazione di gioia. 
      "Massimiliano, fratello mio!" gridò. 
      A  queste  grida  la  signora  Morrel  accorse,  e si gettò fra le 
      braccia del figlio. 
      "Madre mia" disse il giovane guardando alternativamente la madre e 
      la sorella, "che accade? La vostra lettera mi ha spaventato!" 
      "Giulia" disse la signora Morrel facendo un segno al figlio,  "va' 
      a dire a tuo padre che è giunto Massimiliano." 
      La ragazza si lanciò fuori dell'appartamento; ma sul primo gradino 
      della scala incontrò un uomo che teneva una lettera in mano 
      "Non  siete  voi la signorina Giulia Morrel?" disse quest'uomo con 
      accento italiano. 
      "Sì" rispose Giulia balbettando, "ma che volete? Non vi conosco." 
      "Leggete questa lettera" disse l'uomo presentandole il biglietto. 
      Giulia esitava. 
      "Ne va della salute di vostro padre!" disse il messaggero. 
      La ragazza gli tolse il biglietto dalle mani,  poi l'aprì e  lesse 
      con ansietà: 
 
      "Portatevi  in questo medesimo punto ai viali di Meillan,  entrate 
      nella casa n.  15,  domandate al portinaio la chiave della  camera 
      del quinto piano;  entrate; prendete dall'angolo del caminetto una 
      borsa di cordonetto di seta  rossa  e  recatela  subito  a  vostro 
      padre.  E'  indispensabile che l'abbia prima delle undici.  Voi mi 
      avete promesso di obbedirmi ciecamente; invoco la vostra promessa. 
      Sindbad il marinaio." 
 
      La ragazza gettò un grido di gioia,  volle interrogare l'uomo  che 
      le aveva rimesso il biglietto, ma era già sparito. 
      Riportò  allora  gli  occhi sul biglietto per leggerlo una seconda 
      volta, si accorse che c'era un Post-scriptum. e lo lesse. 
 
      "E' importante che adempiate questa missione in persona,  e  sola; 
      se  verrete  in  compagnia  o  altri  verranno in vece vostra,  il 
      portinaio vi risponderà che non sa ciò che volete dire." 
 
      Questo post-scriptum fece una forte impressione alla giovane. 
      Doveva temere qualche cosa?  Poteva esser questo una trappola  che 
      le si tendeva?  La sua innocenza non le permetteva di sapere quale 
      erano i pericoli che poteva correre una ragazza della sua età.  Ma 
      non  c'è  bisogno  di  conoscere  i pericoli per temerli;  anzi si 
      temono precisamente di più i pericoli che non si conoscono. 
      Giulia esitò; risolvette di domandar consiglio,  ma per uno strano 
      sentimento  non  lo  chiese,  né  a  sua  madre né a suo fratello, 
      ricorse ad Emanuele. Ridiscese,  raccontò l'accaduto nel giorno in 
      cui  il mandatario della Casa Thomson e French venne da suo padre, 
      la scena della scala, ripeté la promessa che aveva fatta, e mostrò 
      la lettera. 
      "Bisogna andare signorina" disse Emanuele. 
      "Andare?" mormorò Giulia. 
      "Sì, vi accompagnerò." 
      "Ma non avete letto che debbo andare sola?" 
      "Sarete ugualmente sola,  vi aspetterò all'angolo della strada del 
      Museo  e  se tardate in modo da farmi nascere qualche inquietudine 
      verrò a raggiungervi, e, ve l'assicuro,  disgraziati coloro di cui 
      avrete a lamentarvi!" 
      "In  tal modo,  Emanuele" riprese esitando la ragazza,  "il vostro 
      consiglio è che io accetti questo invito?" 
      "Sì...  Il messaggero non vi ha detto che si tratta della salvezza 
      di vostro padre?" 
      "Ma che pericolo corre mio padre?" domandò la ragazza. 
      Emanuele  esitò  un  momento,   ma  il  desiderio  che  Giulia  si 
      risolvesse sul momento e senza ritardo la vinse. 
      "Ascoltate" disse, "non è oggi il 5 settembre?" 
      "Sì." 
      "Oggi alle undici vostro  padre  deve  pagare  circa  trecentomila 
      franchi." 
      "Sì, lo sappiamo." 
      "Ebbene"  disse Emanuele,  "egli non ne ha neppure quindicimila in 
      cassa." 
      "E allora che avverrà?" 
      "Avverrà che se prima delle undici  non  trova  qualcuno  che  gli 
      venga  in  aiuto,  vostro  padre  sarà  obbligato  a  mezzodì,  di 
      dichiararsi fallito." 
      "Ah, venite" gridò la ragazza, trascinando Emanuele. 
      In quel mentre la signora Morrel aveva detto tutto a  suo  figlio. 
      Il  giovane  sapeva  bene  che  in  conseguenza  delle  successive 
      disgrazie capitate a  suo  padre,  erano  state  introdotte  molto 
      modifiche  nelle spese di casa;  ma non sapeva che le cose fossero 
      giunte a tal punto. Rimase annichilito;  ma subito si lanciò fuori 
      dall'appartamento,   salì   rapidamente  le  scale,   credendo  di 
      ritrovare il padre in ufficio; ma bussò invano. 
      Mentre era alla  porta,  sentì  che  quella  dell'appartamento  si 
      apriva, si volse e vide suo padre. Invece di risalire direttamente 
      al suo ufficio, Morrel era rientrato nella sua camera, e ne usciva 
      allora  soltanto;  egli  mandò  un  grido  di  sorpresa  scorgendo 
      Massimiliano, poiché ne ignorava l'arrivo. 
      Rimase immobile al suo posto,  strinse  col  braccio  sinistro  un 
      oggetto  che  teneva  nascosto  sotto l'abito.  Massimiliano scese 
      sollecitamente la scala e si gettò  al  collo  di  suo  padre;  ma 
      d'improvviso si ritrasse,  lasciando soltanto la destra appoggiata 
      al petto di Morrel. 
      "Padre mio" disse, diventando pallido come la morte, "perché avete 
      un paio di pistole sotto l'abito?" 
      "Oh, ecco ciò che io temevo" disse Morrel. 
      "Padre mio... padre mio! In nome del cielo" gridò il giovane, "che 
      volete fare di queste armi?" 
      "Massimiliano" rispose Morrel tenendo lo sguardo fisso sul figlio, 
      "tu sei un uomo, ed un uomo d'onore, vieni, te lo dirò." 
      E Morrel salì  con  passo  sicuro  fino  al  suo  ufficio,  mentre 
      Massimiliano lo seguiva barcollando: aprì la porta, e la rinchiuse 
      dopo  che  fu  passato  il  figlio,  quindi traversò l'anticamera, 
      s'avvicinò allo scrittoio,  depose le  pistole  sull'angolo  della 
      tavola,  e  mostrò  a  suo figlio colla punta del dito un registro 
      aperto,  su esso era fedelmente trascritto lo stato  esatto  della 
      situazione:      Morrel     doveva     pagare     fra     mezz'ora 
      duecentottantasettemilacinquecento  franchi   ed   in   tutto   ne 
      possedeva quindicimiladuecentocinquantasette. 
      "Leggi!" disse Morrel. 
      Il giovane lesse e rimase un momento annientato. 
      Morrel non diceva una parola: che avrebbe potuto dire o aggiungere 
      all'inesorabile decreto delle cifre? 
      "E  voi  padre  mio,  avete fatto tutto il possibile per prevenire 
      questa disgrazia?" disse dopo breve silenzio il giovane. 
      "Sì" rispose Morrel. 
      "Non contate su alcun rimborso?" 
      "No." 
      "Avete esaurite tutte le risorse?" 
      "Tutte." 
      "E fra mezz'ora..." aggiunse con voce cupa,  "il nostro nome  sarà 
      disonorato?" 
      "Il sangue lava il disonore" disse Morrel. 
      "Avete ragione, padre mio, ora vi comprendo." 
      Quindi stese la mano verso le pistole. 
      "Ve n'è una per voi e un'altra per me" disse. "Grazie!" 
      Morrel gli fermò la mano. 
      "E tua madre... e tua sorella... chi le nutrirà?" 
      Un fremito corse per tutte le membra del giovane. 
      "Padre" disse, "pensate che con ciò che mi dite io possa vivere?" 
      "Si,  te lo dico" riprese Morrel,  "perché questo è il tuo dovere; 
      tu hai lo spirito tranquillo e forte,  Massimiliano...  tu non  se 
      uno dei soliti uomini.  Nulla ti comando, nulla ti ordino; ti dico 
      soltanto: Esamina la situazione come se tu vi  fossi  estraneo,  e 
      giudicala da te stesso." 
      Il  giovane  rifletté  un momento,  quindi l'espressione della più 
      sublime rassegnazione passò nei suoi occhi;  solo si tolse con  un 
      movimento triste e lento la spallina e la mozzetta, distintivi del 
      suo grado. 
      "Sta bene" disse tenendo la mano a Morrel,  "morite in pace, padre 
      mio, io vivrò." 
      Morrel fece un movimento per gettarsi alle ginocchia del figlio. 
      Massimiliano lo accolse fra le braccia,  e per un  momento  questi 
      due nobili cuori batterono l'un contro l'altro. 
      "Tu sai che non è per mia colpa?" disse Morrel. 
      Massimiliano sorrise. 
      "So,  padre  mio,  che  siete  l'uomo  più  onesto  che  abbia mai 
      conosciuto." 
      "Sta bene,  è detto tutto: ora ritorna  da  tua  madre  e  da  tua 
      sorella." 
      "Padre mio" disse il giovane piegando un ginocchio, "beneditemi!" 
      Morrel prese la testa di suo figlio fra le mani,  l'avvicinò a sé, 
      e v'impresse molti baci dicendo: 
      "Oh, sì, sì, ti benedico nel mio nome, nel nome di tre generazioni 
      di uomini irreprensibili.  Ascolta dunque ciò che essi  ti  dicono 
      colla  mia  voce:  l'edificio  che  la sventura ha distrutto,  può 
      essere riedificato dalla divina Provvidenza.  Sapendomi  morto  in 
      questo  modo,  i  più inesorabili avranno pietà di me;  a te forse 
      sarà accordata una dilazione che a me sarebbe stata negata. Allora 
      fa' che la parola infame non sia pronunziata;  mettiti  all'opera, 
      lavora, ragazzo! lotta ardentemente e con coraggio! Vivete tu, tua 
      madre,  e  tua  sorella  del puro necessario,  affinché giorno per 
      giorno i beni di coloro che amo aumentino e fruttifichino  fra  le 
      tue mani.  Pensa che sarà un bel giorno, un gran giorno, un giorno 
      solenne quello della riabilitazione,  il giorno in cui,  da questo 
      stesso  scrittoio  tu  potrai  dire: "Mio padre è morto perché non 
      poteva fare ciò che ho fatto io,  ma è  morto  tranquillo,  perché 
      morendo sapeva che io lo avrei fatto." 
      "Oh,  padre mio,  padre mio" esclamò il giovane,  "se pure poteste 
      vivere!..." 
      "Se io vivo tutto è perduto;  se io vivo,  la premura si cambia in 
      dubbio,  la pietà in accanimento;  se io vivo, non sono più che un 
      uomo che ha mancato  alla  sua  parola,  che  ha  fallito  i  suoi 
      impegni,  non  ho  più  infine  che  la bancarotta.  Se muoio,  al 
      contrario, pensaci bene,  Massimiliano il mio cadavere è quello di 
      un   onest'uomo   disgraziato.   Vivo,   i   miei  migliori  amici 
      eviterebbero la mia  casa;  morto,  Marsiglia  intera  mi  seguirà 
      piangendo  fino all'ultima mia dimora.  Vivo,  tu avresti onta del 
      mio nome morto, puoi alzare la testa e dire ad alta voce: "Sono il 
      figlio di colui che si è ucciso,  perché costretto  per  la  prima 
      volta a mancare alla sua parola." 
      Il  giovane mandò un gemito,  ma parve rassegnato.  Era la seconda 
      volta che la necessità era accettata dal suo cuore,  ma non  dallo 
      spirito. 
      "Ora"  disse  Morrel,  "lasciami  solo  e  cerca di allontanare le 
      donne." 
      "Non volete rivedere mia sorella?" domandò Massimiliano. 
      Un'ultima e sorda  speranza  il  giovane  la  riponeva  in  questo 
      incontro, ecco perché lo proponeva. 
      Morrel scosse la testa. 
      "L'ho veduta questa mattina" disse, "e le ho detto addio." 
      "Non  avete  alcuna  raccomandazione  particolare da farmi,  padre 
      mio?" domandò Massimiliano con voce alterata. 
      "Sì, figlio mio, una raccomandazione sacra." 
      "Dite, padre mio." 
      "La casa Thomson e French è la sola che per umanità,  o forse  per 
      egoismo  (ma  non  sta a me leggere nel cuore degli uomini),  è la 
      sola che abbia avuto pietà di me.  Il suo mandatario,  quello  che 
      fra  dieci  minuti  si  presenterà  per  riscuotere  una tratta di 
      duecentottantasettemilacinquecento  franchi,  non  dirò  mi  abbia 
      accordata, ma mi ha offerta una dilazione di tre mesi; questa Casa 
      sia  rimborsata  per  prima,  figlio  mio,  che  quest'uomo ti sia 
      sacro." 
      "Sì, padre mio" disse Massimiliano. 
      "Ed ora,  ancora una volta,  addio" disse Morrel,  "va',  va';  ho 
      bisogno  di restar solo.  Troverai il mio testamento nello scrigno 
      della camera da letto." 
      Il giovane rimase in piedi ed inerte,  senza avere  che  la  forza 
      della volontà, ma non quella dell'azione. 
      "Ascolta,  Massimiliano"  disse suo padre,  "supponi che io sia un 
      soldato come te,  che abbia ricevuto l'ordine di dar la scalata ad 
      un bastione, e che tu sapessi che vado incontro ad una certa morte 
      nell'assalirlo, non mi diresti tu come mi dicevi poco fa: "Andate, 
      padre mio, perché vi disonorereste restando, e val meglio la morte 
      che l'onta?" 
      "Sì,  sì" disse il giovane,  "sì" e stringendo convulsivamente tra 
      le braccia il padre,  "coraggio padre mio!"  disse.  E  si  lanciò 
      verso l'ufficio. 
      Quando  il  figlio  fu  uscito,  Morrel rimase un momento in piedi 
      cogli occhi fissi alla porta,  quindi tese la mano,  tirò la corda 
      del campanello e suonò. 
      Di lì a poco comparve Coclite. Non era più l'uomo di prima, questi 
      giorni di consapevolezza lo avevano atterrato.  Il pensiero che la 
      Casa Morrel sospendeva i pagamenti lo curvava  al  suolo  più  che 
      altri vent'anni accumulati sul suo capo. 
      "Mio  buon  Coclite"  disse  Morrel  con un accento di cui sarebbe 
      difficile dire l'espressione, "tu resterai nell'anticamera. Quando 
      verrà quel signore che venne già tre mesi fa... lo conosci?...  il 
      mandatario della casa Thomson e French, verrai ad annunziarmelo." 
      Coclite non rispose; fece un segno affermativo colla testa, andò a 
      sedersi nell'anticamera ed aspettò. 
      Morrel ricadde sulla sedia, gli occhi si volsero verso l'orologio: 
      gli rimanevano ancora sette minuti in tutto. La lancetta camminava 
      con una rapidità incredibile; gli sembrava vederla andare. 
      Ciò  che  in  quel  momento passò nello spirito di quest'uomo che, 
      giovane  ancora,   in  conseguenza  di  un   ragionamento   falso, 
      quantunque tale non sembrasse, stava per lasciare tutto ciò che di 
      più caro aveva al mondo, e per abbandonare una vita piena di tutte 
      le  dolcezze  della  famiglia,  è  impossibile  poterlo  spiegare; 
      sarebbe stato necessario essere presenti per averne un idea. 
      La fronte era ricoperta di sudore,  e ciò  nonostante  rassegnata, 
      gli occhi bagnati di lacrime, ma pur rivolti al cielo. 
      La lancetta camminava sempre: le pistole erano cariche; allungò la 
      mano,  ne prese una e mormorò il nome di sua figlia: depose l'arma 
      mortale,  prese la penna e scrisse alcune parole.  Gli sembrava di 
      non   avere   ancora   detto  abbastanza  addio  a  questa  figlia 
      prediletta.  Ritornò a guardar l'orologio: egli non contava più  i 
      minuti,  ma i secondi. Riprese l'arma colla bocca semiaperta e gli 
      occhi fissi all'orologio: poi rabbrividì al rumore che faceva  nel 
      caricare l'acciarino. 
      In  quel  momento  un  sudore  più  freddo gli passò sulla fronte, 
      un'ansia più mortale gli strinse il cuore;  intese la porta  delle 
      scale  cigolare  sui  cardini,  aprirsi  quella  del  suo ufficio: 
      l'orologio stava per battere le undici. 
      Morrel non si volse,  aspettava che Coclite pronunciasse le fatali 
      parole:  "Il mandatario della casa Thomson e French...".  Avvicinò 
      l'arma alla bocca...  D'improvviso,  invece della voce di  Coclite 
      intese  un  grido...  Era  la  voce  di  sua figlia...  Si volse e 
      riconobbe Giulia... La pistola gli sfuggì di mano. 
      "Padre mio!" gridò la ragazza ansante,  e quasi morente di  gioia. 
      "Salvo! siete salvo!" 
      E gli si gettò tra le braccia, alzando in alto colla mano la borsa 
      di cordonetto di seta rossa. 
      "Salvo? Figlia mia, che vuoi dire?" 
      "Sì, salvo!... Guardate, guardate..." disse la ragazza. 
      Morrel prese la borsa e rabbrividì, perché una lontana rimembranza 
      gli   ricordava   che   quell'oggetto   gli  era  in  altro  tempo 
      appartenuto.    Da   una   parte    c'era    la    cambiale    dei 
      duecentottantasette   mila  cinquecento  franchi  già  quitanzata; 
      dall'altra vi era un diamante della grossezza di una nocciola  con 
      queste  tre  parole  scritte sopra un pezzo di pergamena: "Dote di 
      Giulia". 
      Morrel si passò la mano sulla fronte: credeva di sognare. 
      Nel medesimo istante l'orologio batté le undici. Il martello batté 
      per lui come se ciascun colpo venisse ripercosso sul suo cuore. 
      "Raccontami, figlia mia" disse, "spiegati.  Dove ritrovasti questa 
      borsa?" 
      "Nella  casa  numero  15  dei  viali  di  Meillan  sull'angolo del 
      caminetto di una meschina cameretta del quinto piano." 
      "Ma..." gridò Morrel, "questa borsa non è tua." 
      Giulia presentò allora a suo padre la lettera che  aveva  ricevuta 
      la mattina. 
      "E  sei  andata  sola  in  quella  casa?" disse Morrel dopo averla 
      letta. 
      "Emanuele mi ha accompagnata.  Doveva aspettarmi all'angolo  della 
      strada del Museo, ma, cosa strana, al mio ritorno non c'era più." 
      "Signor Morrel!" gridò una voce dalle scale. "Signor Morrel!" 
      "Questa è la sua voce..." disse Giulia. 
      Nel medesimo tempo entrò Emanuele col viso sconvolto dalla gioia e 
      dall'emozione. 
      "Il Faraone!" gridò, "il Faraone!" 
      "Ebbene che Faraone? Siete pazzo, Emanuele? Sapete bene che colò a 
      fondo." 
      "Il Faraone!  signore,  il faro ha dato il segnale del Faraone! Il 
      Faraone entra in questo momento nel porto." 
      Morrel ricadde  sulla  sedia;  le  forze  gli  mancarono.  La  sua 
      intelligenza   non   era   capace  ad  ordinare  questa  serie  di 
      avvenimenti incredibili,  inauditi e favolosi.  Suo figlio entrò a 
      sua volta. 
      "Padre  mio"  gridò  Massimiliano,  "che  dicevate  dunque  che il 
      Faraone era perduto? Il faro lo ha segnalato, ed entra in porto in 
      questo momento." 
      "Amici miei" disse Morrel, "se ciò fosse,  bisognerebbe credere ad 
      un miracolo! Ma è impossibile! impossibile!" 
      Tutto  ciò,  quantunque sembrasse incredibile,  era vero: la borsa 
      che teneva in  mano,  la  cambiale  quitanzata,  ed  il  magnifico 
      diamante. 
      "Ah,  signore"  disse Coclite a sua volta,  "e che vuol dir questo 
      'il Faraone!'?" 
      "Andiamo,  figli miei" disse Morrel alzandosi,  "andiamo a vedere, 
      che  il  cielo  abbia  pietà di noi!,  se questa non sia una falsa 
      nuova." 
      Scesero tutti: a metà delle scale li aspettava la signora  Morrel; 
      la  poveretta  non  aveva avuto coraggio di salire.  In un momento 
      furono alla Canebière. Una gran folla era sul porto.  Tutta quella 
      folla  si  divise  per  lasciar  libero il passaggio alla famiglia 
      Morrel. 
      "Il Faraone! il Faraone!" si diceva da ogni lato, da ogni bocca. 
      Infatti, cosa meravigliosa, inaudita, dirimpetto alla torre di San 
      Giovanni un bastimento portava sulla poppa queste parole scritte a 
      grandi lettere bianche: 
 
      FARAONE: MORREL E FIGLI DI MARSIGLIA. 
 
      Questo bastimento era assolutamente della stessa portata  e  della 
      stessa forma dell'altro Faraone, ed era carico ugualmente d'indaco 
      e di cocciniglia.  Gettò l'àncora,  ammainò le vele.  Sul ponte il 
      capitano Gaumard dava gli  ordini,  e  Penelon  faceva  segnali  a 
      Morrel. 
      Non c'era più dubbio,  era la testimonianza dei sensi, e quella di 
      diecimila  e  più  persone.   Mentre  Morrel  e  suo   figlio   si 
      abbracciavano  fra  gli  applausi di tutta la città,  testimone di 
      questo prodigio, un uomo,  il cui viso era per metà coperto da una 
      barba  nera,   nascosto  dietro  il  casotto  di  una  sentinella, 
      contemplava questa scena, mormorando queste parole: 
      "Nobile cuore, sii felice,  sii benedetto per tutto ciò che ancora 
      farai,  e  la  mia  riconoscenza  resti  nell'oscurità come il tuo 
      beneficio!" 
      E con un sorriso di gioia e di felicità,  abbandonò il luogo  dove 
      si era nascosto,  e senza essere osservato da alcuno,  tanto erano 
      tutti occupati dall'avvenimento della  giornata,  discese  una  di 
      quelle piccole gradinate che servono di scalo, e chiamò: 
      "Jacopo! Jacopo! Jacopo!" 
      Allora un battello venne,  lo ricevette a bordo, e lo trasportò ad 
      uno yacht riccamente addobbato,  sul ponte del quale  balzò  colla 
      leggerezza  d'un  marinaio;  di là guardò ancora una volta Morrel, 
      che piangendo di gioia distribuiva amichevoli strette  di  mano  a 
      tutta  quella  folla,   ringraziando  con  uno  sguardo  singolare 
      l'invisibile benefattore che gli sembrava dover cercare in cielo. 
      "Ora" disse l'uomo sconosciuto, "addio bontà, addio umanità, addio 
      riconoscenza... addio a tutti quei sentimenti che inteneriscono il 
      cuore!" 
      A queste parole fece un segnale,  e come se non avesse atteso  che 
      ciò per partire, lo yacht prese immediatamente il mare. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 31. 
                       L'ITALIA E SINDBAD IL MARINAIO. 
 
 
      Verso il principio del 1838 si trovavano a Firenze due giovani che 
      appartenevano  alla  società  più  elegante  di Parigi: uno era il 
      visconte Alberto de Morcerf, l'altro il barone Franz d'Epinay. 
      Avevano stabilito fra loro che  sarebbero  andati  a  passar  quel 
      carnevale  a  Roma,  ove  Franz,  che  abitava  l'Italia da più di 
      quattro anni, avrebbe fatto da cicerone ad Alberto. 
      Ora,  siccome non è piccola cosa l'andare  di  carnevale  a  Roma, 
      particolarmente quando non si vuole andare a dormire in piazza del 
      Popolo,  o al Foro Romano,  essi scrissero a Pastrini proprietario 
      dell'albergo Londra in piazza di Spagna  per  pregarlo  di  serbar 
      loro un comodo appartamento. 
      Pastrini  rispose che non aveva più che due camere ed un locale al 
      secondo piano,  che lo offriva loro mediante la modica spesa di un 
      luigi al giorno. 
      I  due  giovani  accettarono.  Quindi  Alberto,  volendo mettere a 
      profitto il tempo che gli rimaneva, partì per Napoli. 
      Franz rimase a Firenze. Dopo aver goduto qualche tempo dei piaceri 
      che procura la città dei Medici,  dopo aver lungamente passeggiato 
      in  quell'Eden  che  vien  chiamato le Cascine,  dopo essere stato 
      ricevuto da quegli  ospiti  magnifici  che  si  chiamano  Corsini, 
      Montfort,  Poniatowski,  gli  prese fantasia,  essendo già stato a 
      visitare la Corsica,  culla  di  Bonaparte,  di  andare  a  vedere 
      l'isola d'Elba, questo luogo della forzata sosta di Napoleone. 
      Una  sera  dunque  staccò  una  barchetta dall'anello di ferro che 
      l'attraccava al porto di Livorno,  vi si sdraiò in fondo,  avvolto 
      nel suo mantello, e disse ai marinai queste sole parole: 
      "All'isola d'Elba!" 
      La  barca  lasciò  il  porto  come  un  uccello lascia il nido,  e 
      l'indomani Franz era a Portoferraio.  Traversò  l'isola  imperiale 
      seguendo  tutte  quelle  tracce  che vi hanno lasciato i passi del 
      gigante, e andò ad imbarcarsi a Marciana. 
      Due ore dopo aver lasciata la terra,  la riguadagnò di  nuovo  per 
      sbarcare  alla Pianosa,  ove veniva assicurato che avrebbe trovato 
      una quantità di pernici rosse. 
      La caccia fu cattiva;  Franz ammazzò a stento poche pernici magre, 
      e  come  fanno tutti i cacciatori che si sono stancati senza alcun 
      pro, risalì nella barca di assai cattivo umore. 
      "Se Vostra Eccellenza volesse" gli disse il padrone  della  barca, 
      "potrebbe fare una bella caccia." 
      "E dove?" 
      "Vedete quell'isola?" continuò il marinaio stendendo il dito verso 
      mezzogiorno,  indicando una massa conica che usciva dal mare tinta 
      di un bellissimo color indaco. 
      "Ebbene, che cos'è quell'isola?" domandò Franz. 
      "E' l'isola di Montecristo" rispose il livornese. 
      "Ma io non ho licenza d'andare a caccia in quell'isola." 
      "Vostra Eccellenza non ne ha bisogno; l'isola è deserta." 
      "Oh, per Bacco,  un'isola deserta in mezzo al Mediterraneo,  è una 
      cosa curiosa." 
      "E naturale, Eccellenza. Quest'isola è un ammasso di scogli, ed in 
      tutta  la  sua  estensione  non  vi  è  forse  un palmo di terreno 
      coltivabile." 
      "E a chi appartiene?" 
      "Alla Toscana." 
      "E qual selvaggina vi si trova?" 
      "Migliaia di capre selvagge." 
      "Che vivono leccando delle pietre?" disse  Franz  con  un  sorriso 
      d'incredulità. 
      "No,  ma  sfrondando  le  macchie,  i mirti,  e gli alti pruni che 
      nascono tra i massi." 
      "Ma dove dormirò?" 
      "O a terra,  o  nelle  grotte,  o  a  bordo,  avvolto  nel  vostro 
      mantello. D'altra parte, se Vostra Eccellenza lo desidera, potremo 
      partir  subito  dopo  la  caccia:  sa  che noi navighiamo tanto di 
      giorno quanto di  notte,  e  che  quando  non  lavorano  le  vele, 
      lavoriamo coi remi." 
      Rimanendogli ancora del tempo prima di raggiungere il compagno,  e 
      non avendo più inquietudini per l'alloggio in Roma,  Franz accettò 
      la proposta di rifarsi della sua prima caccia. 
      Alla risposta affermativa,  i marinai si scambiarono alcune parole 
      a voce bassa. 
      "Ebbene,  che abbiamo di nuovo?"  domandò.  "Sarebbe  sopraggiunta 
      qualche difficoltà?" 
      "No"  rispose  il padrone,  "ma dobbiamo avvertirvi che l'isola di 
      Montecristo è in contumacia." 
      "E che significa questo?" 
      "Vuol dire,  siccome Montecristo è  disabitata,  e  qualche  volta 
      serve  di  fermata  a  contrabbandieri  e pirati che vengono dalla 
      Corsica  e  dall'Africa,  se  qualche  segno  denuncia  il  nostro 
      soggiorno  nell'isola,  saremo  costretti  al  nostro  ritorno  in 
      Livorno, a fare una quarantena di sei giorni." 
      "Diavolo! Questo cambia tutto: sei giorni! Sarebbe troppo." 
      "Ma chi dirà che Vostra Eccellenza è stata a Montecristo?" 
      "Oh, questo non importa." 
      "Oh, ma non sarò io certamente..." grido Gaetano. 
      "E neppure noi!" dissero i marinai. 
      "In questo caso, andiamo a Montecristo." 
      Il padrone comandò la manovra,  volse la  prua  sull'isola,  e  la 
      barca si avviò da quella parte. 
      Franz  lasciò  compiere l'operazione,  e quando ormai si era nella 
      nuova rotta,  quando la vela fu gonfia dalla brezza,  e i  quattro 
      marinai ebbero preso il loro posto,  tre davanti ed uno al timone, 
      riannodò la conversazione. 
      "Mio caro Gaetano" disse al padrone, "voi mi diceste,  credo,  che 
      l'isola  di  Montecristo  serve  da  rifugio  a  contrabbandieri e 
      pirati,   e  ciò  mi  pare  ben  altra  selvaggina  che  le  capre 
      selvatiche." 
      "Sì, Eccellenza, questa è la verità." 
      "Sapevo esservi dei contrabbandieri,  ma credevo che dopo la presa 
      di  Algeri,  e  la  distruzione  della  reggenza,   i  pirati  non 
      esistessero più che nei romanzi di Cooper e del capitano Marryat." 
      "Ebbene,  Vostra Eccellenza sbaglia.  Accade dei pirati come degli 
      assassini,   che  quantunque  siano   creduti   sterminati,   pure 
      aggrediscono tutti i giorni i viaggiatori fin sotto le porte delle 
      città.  E' successo presso Velletri,  saranno appena sei mesi.  Se 
      Vostra  Eccellenza  abitasse  a  Livorno,   come   facciamo   noi, 
      sentirebbe  dire,  di  tempo  in tempo,  che un piccolo bastimento 
      carico di mercanzie,  o un bel yacht inglese che era  aspettato  a 
      Bastia,  a Portoferraio o a Civitavecchia,  non è più arrivato,  e 
      non si sa che  ne  sia  avvenuto;  e  che  senza  dubbio  si  sarà 
      sfracellato   contro  qualche  scoglio.   Ma  lo  scoglio  che  ha 
      incontrato è una barca bassa e stretta,  montata  da  sei  o  otto 
      uomini  che lo hanno sorpreso e saccheggiato in una notte oscura e 
      tempestosa,  nei dintorni  di  un  qualche  isolotto  selvaggio  e 
      disabitato,  non  diversamente  dagli  assassini  che  arrestano e 
      spogliano una carrozza di posta all'angolo di un bosco." 
      "Ma infine" riprese Franz sempre steso nella barca, "perché quelli 
      ai quali accadono simili disgrazie non  fanno  le  loro  denunzie? 
      perché  non  richiamano  su questi pirati la vigilanza del governo 
      francese, sardo o toscano?" 
      "Perché?" disse ridendo Gaetano. 
      "Sì perché?" 
      "Perché prima si trasporta dal  bastimento  o  dallo  yacht  sulla 
      barca tutto ciò che vi è di meglio da prendersi;  quindi si legano 
      mani e piedi a tutto  l'equipaggio,  e  si  attacca  al  collo  di 
      ciascuno  una palla da ventiquattro,  poi si fa un bel foro,  come 
      quello di un barile,  nella chiglia del bastimento  catturato,  si 
      risale sul ponte, si chiude il boccaporto, e si passa sulla barca. 
      In  capo  a  dieci  minuti il bastimento comincia a lamentarsi,  e 
      gemere.  Un poco alla volta affonda.  Dapprima cala una delle  sue 
      parti  poi la rialza,  quindi s'immerge di nuovo affondando sempre 
      più.  D'improvviso scoppia  un  rumore  simile  a  quello  di  una 
      cannonata:  è l'acqua che infrange il ponte.  Allora il bastimento 
      si dibatte come  chi  sta  per  annegarsi,  divenendo  sempre  più 
      pesante.  Ben  presto  l'acqua,  troppo  compressa  nelle  cavità, 
      prorompe da tutte le aperture,  simile alle  colonne  liquide  che 
      soffiano  dalle narici le gigantesche balene.  Finalmente manda un 
      ultimo strepito,  fa un giro su se  stesso,  ed  affonda  scavando 
      nell'abisso  una  vasta  tromba  che per un momento si aggira,  si 
      ricolma a poco a poco, e finisce per cancellarsi del tutto,  tanto 
      bene  che  in capo a cinque minuti non c'è che l'occhio di Dio che 
      possa andare  a  discernere  nel  fondo  del  mare  il  bastimento 
      sparito.  Comprenderete ora in qual modo il bastimento non ritorna 
      in porto, e perché l'equipaggio non fa le sue querele?" 
      Se  Gaetano  avesse  raccontata  la  cosa  prima  di  proporre  la 
      spedizione,  è  probabile  che  Franz vi avrebbe pensato due volte 
      prima  d'intraprenderla,   ma  la  barca  vogava  nella  direzione 
      dell'isola,  e  gli  sembrò  che sarebbe stata una viltà ritornare 
      indietro. 
      Franz era uno di quegli uomini che non  corrono  mai  incontro  al 
      pericolo,  ma che, se il pericolo viene innanzi a loro, conservano 
      una prontezza d'animo inalterabile per  combatterlo;  era  uno  di 
      quegli  uomini  di volontà fredda,  che guardano un pericolo nella 
      vita  come  un  avversario  in  un  duello,  che  ne  calcolano  i 
      movimenti, che ne studiano la forza, che indietreggiano spesso per 
      prender fiato, e per non comparir vili, infine che, conoscendo con 
      un  solo  sguardo  tutti  i  loro vantaggi,  ammazzano con un solo 
      colpo. 
      "Bah" disse, "ho traversato la Sicilia e la Calabria,  ho navigato 
      due  mesi  nell'arcipelago,  e  non  ho  veduto  mai l'ombra di un 
      bandito o di un pirata." 
      "Non  ho  raccontato  tutto  questo  a  Vostra  Eccellenza"  disse 
      Gaetano,  "per  farla  rinunciare  al progetto;  mi ha fatto delle 
      domande, ed io ho risposto." 
      "Sì,  mio caro Gaetano,  la vostra conversazione  è  attraente;  e 
      siccome voglio goderne il più lungamente possibile, così andiamo a 
      Montecristo." 
      Frattanto  si accostavano rapidamente al termine del loro viaggio, 
      il vento era favorevole,  e la barca faceva sei miglia l'ora.  Man 
      mano che si avvicinavano,  l'isola sembrava sorgere gigantesca dal 
      seno del mare e, attraverso l'atmosfera limpida degli ultimi raggi 
      del giorno,  si distinguevano come le palle ammonticchiate  in  un 
      arsenale,  gli scogli messi a piramide l'un sopra l'altro, e negli 
      interstizi  di  quelli  si  vedevano  rosseggiare  le  macchie   e 
      verdeggiare   gli  alberi.   In  quanto  ai  marinai,   quantunque 
      sembrassero  perfettamente  tranquilli,   era  però  evidente  che 
      stavano  all'erta,  e  che  i  loro  sguardi  scrutavano  il vasto 
      specchio su cui navigavano,  e l'orizzonte,  soltanto popolato  da 
      qualche barca peschereccia, le cui vele bianche si libravano, come 
      allodole, sulla cima dei flutti. 
      Erano  distanti  soltanto una quindicina di miglia da Montecristo, 
      quando  il  sole  declinò  dietro  la  Corsica,  le  cui  montagne 
      comparivano  a  destra,  delineando  nel  cielo il loro irregolare 
      profilo, e mostrando ancora illuminata l'estremità di quella massa 
      di pietre,  che pari al gigante Adamastor,  s'innalzavano  davanti 
      alla barca. 
      Poco per volta l'ombra salì dal mare, e sembrò scacciare dinanzi a 
      sé  gli  ultimi  riflessi del giorno che stava per finire;  poi il 
      raggio luminoso fu spinto fino alla cima del cono, ove si fermò un 
      momento,  come il pennacchio infiammato di un vulcano;  finalmente 
      l'ombra  sempre  crescente invase progressivamente la sommità come 
      aveva invaso la base,  e l'isola non apparve più che una  montagna 
      grigia  che andava sempre più oscurandosi: mezz'ora dopo era notte 
      perfetta. 
      Fortunatamente i  marinai  erano  nei  loro  abituali  paraggi,  e 
      conoscevano  fin  l'ultimo  degli  scogli dell'arcipelago toscano; 
      poiché in mezzo all'oscurità profonda nella quale era  involta  la 
      barca, Franz non sarebbe stato del tutto senza inquietudine. 
      La  Corsica era interamente sparita,  e l'isola di Montecristo era 
      divenuta invisibile; ma i marinai sembravano avere, come le linci, 
      la facoltà di vedere fra le tenebre,  e il pilota che regolava  il 
      timone non mostrava il più piccolo dubbio. 
      Era  passata circa un'ora dopo il tramonto del sole,  quando Franz 
      credette scorgere ad un quarto di  miglio  a  sinistra  una  massa 
      nera,  ma  era  tanto  impossibile distinguere ciò che fosse,  che 
      temendo di muovere a riso i marinai,  scambiando una nube  per  la 
      terra ferma, stette zitto. 
      D'improvviso  apparve una gran luce,  la terra poteva assomigliare 
      ad una nube, ma quel fuoco non poteva credersi una meteora. 
      "Che cosa è quella luce?" domandò Franz. 
      "Zitto!" disse Gaetano. "E' un fuoco." 
      "Ma non diceste che l'isola è disabitata?" 
      "Dissi che non aveva una popolazione  fissa,  ma  dissi  pure  che 
      questo luogo è rifugio dei contrabbandieri." 
      "E dei pirati?" 
      "E dei pirati" continuò Gaetano, ripetendo le parole di Franz, "ed 
      è perciò che ho dato ordine di passare oltre, poiché, come vedete, 
      ora il fuoco è dietro a noi." 
      "Ma  questo fuoco" continuò Franz,  "mi sembra piuttosto un motivo 
      di sicurezza che  d'inquietudine:  gente  che  temesse  di  essere 
      veduta non accenderebbe il fuoco." 
      "Oh,  questo  non  vuol  dir  niente" rispose.  "Se voi in mezzo a 
      questa oscurità  poteste  giudicare  della  posizione  dell'isola, 
      vedreste che questo fuoco in quel punto, non può essere scorto, né 
      dalla Corsica, né dalla Pianosa, ma soltanto in alto mare." 
      "Credete che annunci cattiva compagnia?" 
      "Questo è da stabilire!" rispose Gaetano, tenendo sempre gli occhi 
      fissi sull'isola. 
      "E come volete assicurarvene?" 
      "State a vedere." 
      A queste parole,  Gaetano tenne un breve consiglio coi compagni, e 
      dopo cinque minuti venne eseguita nel più gran silenzio una virata 
      di bordo allora si riprese il cammino già fatto, e qualche secondo 
      dopo questo cambiamento di direzione il  fuoco  disparve  nascosto 
      dietro  un  picco  roccioso.  Allora  il  pilota  dette al piccolo 
      bastimento,  con una girata di timone,  una nuova direzione,  e si 
      avvicinarono   visibilmente  all'isola  distante  circa  cinquanta 
      passi. 
      Gaetano tolse la vela, e la barca rimase quieta sull'onda. 
      Tutto ciò fu fatto nel più gran silenzio;  dopo il cambiamento  di 
      rotta non era stata pronunciata una parola a bordo.  Gaetano,  che 
      aveva proposta la spedizione,  ne aveva presa sopra di sé tutta la 
      responsabilità. 
      Gli altri tre marinai mentre preparavano i remi,  e stavano pronti 
      a fuggire remando,  non toglievano lo sguardo da lui per  eseguire 
      qualsiasi manovra che lor venisse ordinata da un gesto,  e che per 
      l'oscurità si sarebbe potuta eseguire molto facilmente. 
      Franz visitava le armi colla prontezza d'animo che abbiamo in  lui 
      riconosciuta.  Aveva  due  fucili a due canne ed una carabina,  li 
      caricò, si assicurò degli acciarini, e aspettò. 
      Durante questo tempo Gaetano s'era tolto il cappotto e la camicia, 
      aveva assicurati i calzoni intorno ai fianchi e  siccome  aveva  i 
      piedi nudi, si risparmiò la pena di levarsi le calze e le scarpe. 
      Così  abbigliato,  si mise l'indice della mano davanti alle labbra 
      per ordinare il più profondo silenzio,  e si lasciò  immergere  in 
      mare.   Nuotò   verso   l'isola  con  tale  cautela  che  riusciva 
      impossibile discernere il più piccolo rumore.  Si poteva  soltanto 
      seguire  collo  sguardo  la  traccia  del  suo  nuotare dalla scia 
      fosforescente lasciata dai suoi movimenti. 
      Questa scia ben presto disparve: era segno  evidente  che  Gaetano 
      aveva preso terra.  Sul piccolo bastimento rimasero tutti immobili 
      per una mezz'ora,  trascorsa la quale,  si vide ricomparire  dalla 
      riva alla barca la scia luminosa. 
      In pochi momenti Gaetano aveva raggiunta la barca. 
      "Ebbene?" fecero ad un tempo Franz ed i tre marinai. 
      "Ebbene" disse,  "sono contrabbandieri spagnoli;  e hanno con loro 
      due banditi corsi." 
      "E che fanno questi contrabbandieri spagnoli?" 
      "Eh,  mio Dio,  Eccellenza" rispose Gaetano con un accento di vivo 
      amore del prossimo,  "bisogna bene aiutarsi gli uni con gli altri. 
      Spesse volte i banditi vengono un  poco  troppo  inquietati  sulla 
      terra;  allora  ritrovano una barca,  ed in essa dei buoni diavoli 
      come noi;  vengono a domandarci  l'ospitalità  nella  nostra  casa 
      galleggiante.  Non  si  può fare a meno di prestare soccorso ad un 
      povero diavolo perseguitato;  noi li  riceviamo  a  bordo,  e  per 
      maggior sicurezza prendiamo il largo. Ciò non costa nulla, e salva 
      per  lo  meno  la  vita  a  qualcuno dei nostri simili,  il quale, 
      all'occasione,   sa  essere  riconoscente   del   servizio   reso, 
      indicandoci  un  buon luogo ove sbarcare le nostre mercanzie senza 
      essere incomodati dai curiosi." 
      "Va bene" disse Franz. "Anche voi, mio caro Gaetano,  siete dunque 
      un po' contrabbandiere?" 
      "Eh,  che volete" disse, con un sorriso impossibile a descriversi, 
      "si fa un po' di tutto; bisogna pur vivere." 
      "Allora voi siete  con  amici  quando  vi  trovate  cogli  attuali 
      abitatori dell'isola di Montecristo." 
      "Pressappoco...    Noi    marinai   abbiamo   alcuni   segni   per 
      riconoscerci." 
      "E credete che non avremo nulla a temere sbarcando anche noi?" 
      "Assolutamente nulla! I contrabbandieri non sono ladri!" 
      "Ma questi due banditi corsi..." riprese Franz,  calcolando  prima 
      tutte le eventualità del pericolo. 
      "Eh, mio Dio" disse Gaetano, "non è colpa loro se sono banditi, ma 
      colpa altrui." 
      "In che modo?" 
      "Senza dubbio,  essi sono perseguitati non per altro, che per aver 
      fatta la pelle a qualcuno,  mossi da spirito di vendetta (del  che 
      non li lodo), ma pure accade così." 
      "Che  intendete  col  fare  la pelle?  Avere assassinato un uomo?" 
      disse Franz. 
      "Intendo avere ucciso un nemico!" rispose il  pilota.  "Il  che  è 
      molto diverso." 
      "Ebbene" disse il giovane,  "andiamo dunque a domandare ospitalità 
      ai contrabbandieri ed ai banditi. Credete che ci verrà accordata?" 
      "Senza alcun dubbio." 
      "Quanti sono?" 
      "Tre contrabbandieri e due banditi." 
      "Va bene,  sono appunto in numero pari al  nostro:  noi  siamo  in 
      forza  uguale,  nel  caso  che  questi signori mostrassero cattive 
      intenzioni,  e per conseguenza in grado di poter  contenerli.  Per 
      l'ultima volta dunque: andiamo a Montecristo." 
      "Sì,  Eccellenza...  Ma  ci  permette  ancora  di prendere qualche 
      cautela?" 
      "E in qual modo, mio caro?  Siete saggio come Nestore,  e prudente 
      come Ulisse. Intanto faccio ancor più che permettervelo, perché ve 
      ne prego." 
      "Ebbene, silenzio allora!" disse Gaetano. 
      Tutti tacquero. 
      Per  un  uomo come Franz che osservava tutte le cose nel loro vero 
      punto di vista,  la situazione,  senza essere pericolosa  non  era 
      però  priva  di  una  certa  gravità.  Egli  si  trovava nella più 
      profonda oscurità,  isolato in mezzo al mare con marinai  che  non 
      conosceva,  che non avevano alcuna ragione d'essergli affezionati, 
      e che sapevano che  aveva  nella  ventriera  qualche  migliaio  di 
      franchi,  e  che per più volte,  se non invidiato,  avevano almeno 
      esaminate con molta curiosità le sue armi, che erano bellissime. 
      D'altra parte  egli  approdava  con  questa  sorta  di  uomini  in 
      un'isola  che,  sebbene  portasse  un  nome  molto religioso,  non 
      sembrava,  dati i tre contrabbandieri e i due banditi,  promettere 
      un'ospitalità  molto  caritatevole  poi  la  storia dei bastimenti 
      mandati a fondo,  che di giorno gli  era  sembrata  esagerata,  di 
      notte gli apparve verosimile. Posto fra questi due pericoli, forse 
      immaginari, ma fors'anche reali, non abbandonava i suoi uomini con 
      gli occhi,  né il fucile con la mano. I marinai avevano nuovamente 
      spiegata la vela ed avevano preso la scia già percorsa nell'andare 
      e venire. 
      Attraverso l'oscurità,  Franz,  un  poco  abituato  alle  tenebre, 
      distingueva   il   gigante   di   granito   che  la  barca  andava 
      costeggiando;  poi finalmente,  oltrepassando di nuovo l'angolo di 
      una roccia,  scoperse il fuoco che brillava più vivamente che mai, 
      e intorno al quale erano sedute quattro, o cinque persone. 
      Il riverbero del fuoco si estendeva a un centinaio  di  passi  nel 
      mare. 
      Gaetano costeggiò la luce,  mantenendo sempre la barca nella parte 
      meno illuminata;  quindi,  quando fu tutta  dirimpetto  al  fuoco, 
      volse  su  quello,  ed  entrò nel cerchio luminoso,  intonando una 
      canzone da pescatori di cui cantava le  strofe  egli  solo,  ed  i 
      compagni ripetevano in coro il ritornello. 
      Alla  prima  parola della canzone,  gli uomini intorno al fuoco si 
      erano alzati;  e si erano avvicinati al molo,  con gli occhi fissi 
      sulla  barca,  sforzandosi visibilmente di giudicarne la forza,  e 
      d'indovinarne le intenzioni. 
      Ben presto parve che avessero fatto un  esame  sufficiente,  e  ad 
      eccezione  di  uno  che rimase in piedi a fare la sentinella,  gli 
      altri andarono a sedersi intorno al fuoco davanti al quale  veniva 
      arrostito un capretto tutto intero. 
      Quando il battello fu a venti passi dalla terra,  l'uomo che stava 
      di sentinella sulla spiaggia fece macchinalmente colla carabina un 
      atto simile a quello di un soldato in fazione  quando  aspetta  la 
      pattuglia, e gridò, "chi vive?", in dialetto sardo. 
      Franz  montò  freddamente  i  due  fucili,   Gaetano  scambiò  con 
      quest'uomo alcune parole che  il  viaggiatore  non  capì,  ma  che 
      dovevano  necessariamente  riguardarlo,  perché Gaetano volgendosi 
      gli chiese: 
      "Vostra  Eccellenza  vuol  dire  il   suo   nome,   o   conservare 
      l'incognito?" 
      "Il  mio  nome  dev'esser  del tutto sconosciuto a questi signori" 
      rispose Franz,  "dunque dite loro soltanto che io sono un francese 
      che viaggia per diletto." 
      Allorché  Gaetano  ebbe  trasmessa questa risposta,  la sentinella 
      dette un ordine ad uno degli uomini intorno al fuoco che subito si 
      alzò, e disparve fra le rocce. 
      Seguì un silenzio di qualche minuto. 
      Ciascuno sembrava  preoccupato  dei  propri  affari:  Franz  dello 
      sbarco, i marinai delle vele, i contrabbandieri del loro capretto; 
      ma  in  mezzo  a  questa apparente noncuranza tutti si osservavano 
      attentamente. 
      L'uomo che si era allontanato ricomparve presto dal lato opposto a 
      quello da  cui  era  sparito;  fece  un  segno  colla  testa  alla 
      sentinella,   che   voltandosi   alla  barca  si  limitò  a  dire: 
      "S'accomodi". 
      Il s'accomodi degli italiani non è traducibile  in  altra  lingua: 
      significa ad un tempo: "Venite,  entrate, siate il benvenuto, fate 
      come se foste in casa vostra, voi siete il padrone", il s'accomodi 
      è  quella  frase  turca  di  Molière  che  meravigliava  tanto  il 
      gentiluomo  borghese per la quantità di significati che conteneva. 
      I marinai non se lo fecero dire due volte,  in due colpi di  remi, 
      la barca toccò terra. 
      Gaetano  saltò a prua,  scambiò ancora qualche parola a voce bassa 
      con la sentinella, i compagni discesero l'un dopo l'altro,  quindi 
      toccò finalmente a Franz. 
      Egli  aveva uno dei fucili a bandoliera,  Gaetano l'altro: uno dei 
      marinai teneva la carabina. Il vestito, un misto del costume di un 
      artista e di un dandy,  non ispirò alcun sospetto ai suoi ospiti e 
      per  conseguenza  nessuna  inquietudine.  Assicurata la barca alla 
      spiaggia, si avviarono per cercare un comodo spazio al bivacco; ma 
      la direzione che presero non piaceva al contrabbandiere che faceva 
      le funzioni di vigilare, perché gridò a Gaetano: 
      "Non da quella parte!" 
      Gaetano balbettò una scusa,  e senza aggiungere  parola  si  mosse 
      verso  la  parte  opposta,  mentre i due marinai accesero dei rami 
      d'albero al fuoco per farne una torcia e illuminare il sentiero. 
      Fecero circa  trenta  passi  e  si  fermarono  sopra  una  piccola 
      spianata,  tutta  circondata  di  rocce  nelle  quali  erano stati 
      scolpiti alcuni sedili,  incavati in  modo  che  si  poteva  stare 
      seduti al coperto.  Intorno verdeggiavano alcune querce selvagge e 
      dei cespugli di mirto. 
      Franz prese uno dei rami accesi che servivano da torcia,  e fu  il 
      primo  a  riconoscere dalla comodità del luogo,  che questa doveva 
      essere una delle  soste  abituali  dei  visitatori  dell'isola  di 
      Montecristo. 
      Quanto  alla  sua  aspettativa di disavventure,  era cessata;  una 
      volta messo piede a terra,  una volta constatata la  disponibilità 
      se  non  amichevole,  almeno  indifferente  dei suoi ospiti,  ogni 
      preoccupazione era sparita, e all'odore del capretto che arrostiva 
      nel vicino bivacco, la preoccupazione era cambiata in appetito. 
      Disse due parole a Gaetano,  e questi rispose che  nulla  era  più 
      facile  quanto l'allestire una cena in pochi minuti,  avendo nella 
      barca del pane, del vino, le pernici prese alla caccia,  e un buon 
      fuoco per farle arrostire. 
      "D'altra   parte"  aggiunse,   "se  Vostra  Eccellenza  è  tentato 
      dall'odore del capretto,  posso andare dai nostri vicini  con  due 
      dei  vostri  uccelli  ed  offrirli  in cambio di un pezzo del loro 
      capro." 
      "Fate" disse Franz, "fate pure, Gaetano,  voi siete nato veramente 
      col genio di negoziare." 
      Nel frattempo i marinai avevano divelto dei rami dalle macchie,  e 
      fatti dei fasci di mirto e di querce verdi,  a  cui  avevano  dato 
      fuoco,  un  focolare molto rispettabile.  Franz aspettò dunque con 
      impazienza (annusando sempre l'odore del capretto) il ritorno  del 
      pilota,  ed  allorché  questi  ricomparve,  aveva un aspetto molto 
      preoccupato. 
      "Ebbene" domandò,  "che abbiamo di nuovo?  è  stata  rifiutata  la 
      nostra offerta?" 
      "Al contrario" disse Gaetano,  "il capo, cui è stato detto che voi 
      siete un gentiluomo francese, v'invita a cena con lui." 
      "Va bene" disse Franz, "è un uomo molto civile questo capo,  e non 
      vedo  perché dovrei ricusare,  tanto più che porto la mia parte di 
      cena." 
      "Oh,  non è questo,  egli ha di che cenare e al di là del bisogno, 
      ma mette una singolare condizione alla vostra visita in casa sua." 
      "In  casa  sua?" disse il giovane.  "Ha dunque fatto costruire una 
      casa?" 
      "No, ma possiede un appartamento molto comodo,  almeno a quanto si 
      assicura." 
      "Dunque conoscete questo capo?" 
      "Ne ho soltanto sentito parlare." 
      "In bene o in male?" 
      "In tutti e due i modi." 
      "Che diavolo! E qual è la condizione che m'impone?" 
      "Che  vi  lasciate  bendare  gli  occhi,  e  che  non  tentiate di 
      togliervi la benda che quando ve lo dirà lui stesso." 
      Franz indagò per quanto possibile lo sguardo di Gaetano per sapere 
      ciò che nascondeva questa proposta. 
      "Oh,  diavolo" riprese questi,  rispondendo al pensiero di  Franz. 
      "Io so bene, la cosa merita molta riflessione." 
      "Che fareste voi al posto mio?" chiese il giovane. 
      "Io, che non ho niente da perdere, accetterei." 
      "Accettereste?" 
      "Non foss'altro che per curiosità." 
      "Vi  è  dunque  qualche  cosa  di  curioso da vedere presso questo 
      capo?" 
      "Ascoltate" disse Gaetano abbassando la voce,  "io non so se tutto 
      ciò che si dice è vero." 
      Qui si fermò guardando attorno se qualche estraneo ascoltava. 
      "E che si dice?" 
      "Si  dice che questo personaggio abiti un palazzo sotterraneo,  in 
      paragone del quale il palazzo Pitti è poca cosa." 
      "Questo è un sogno!" disse Franz. 
      "Oh,  non è un sogno,  è una  realtà.  Cama,  il  pilota  del  San 
      Ferdinando,  vi  entrò  un  giorno,  e ne uscì tutto meravigliato, 
      dicendo che simili tesori non si trovano che  nei  racconti  delle 
      fate." 
      "Ma  sapete  voi"  disse Franz,  "che con simili parole mi fareste 
      credere di dover discendere nella caverna di Alì Babà!" 
      "Dico ciò che mi è stato detto, Eccellenza." 
      "Allora mi consigliate di accettare?" 
      "Oh,  non dico questo,  Vostra Eccellenza faccia  ciò  che  meglio 
      crede; non vorrei darvi un consiglio in un simile frangente." 
      Franz rifletté per qualche momento, e comprese che quest'uomo così 
      ricco  non poteva aver preso di mira lui che non portava altro che 
      qualche migliaio  di  franchi:  e  siccome  in  tutto  questo  non 
      intravedeva che un'eccellente cena, accettò. 
      Gaetano andò a portare la risposta. 
      Abbiamo  detto  che  Franz  era  prudente;   e  per  questo  volle 
      raccogliere quanti più particolari possibile  su  un  ospite  così 
      strano e misterioso. Si rivolse dunque ad un marinaio, che durante 
      questo  tempo  aveva spennato le pernici con la gravità di un uomo 
      fiero delle sue funzioni, e gli chiese con che barca questi uomini 
      avevano potuto approdare, non vedendo né barche, né speroniere, né 
      tartane. 
      "Oh, non è questo che mi dà pensiero" disse il marinaio,  "conosco 
      il bastimento sul quale montano." 
      "E' un bel bastimento?" 
      "Ne  auguro  a  Vostra  Eccellenza uno simile per fare il giro del 
      mondo." 
      "E di che stazza?" 
      "Di circa cento tonnellate.  Del resto è un bastimento da diporto, 
      uno  yacht,  come  dicono  gli  inglesi,  ma  costruito in modo da 
      potersi tenere in mare per lungo viaggio." 
      "E dov'è stato costruito?" 
      "Non so, ma credo a Genova." 
      "E come mai un capo di contrabbandieri" continuò Franz,  "osa  far 
      costruire  uno  yacht per il suo commercio clandestino in un porto 
      di Genova?" 
      "Non ho detto che il proprietario di questo yacht sia un  capo  di 
      contrabbandieri." 
      "No, ma mi sembra che lo abbia detto Gaetano." 
      "Gaetano  aveva  visto  gli  uomini dell'equipaggio da lontano,  e 
      quando lo disse non aveva ancora parlato ad alcuno." 
      "Ma se quest'uomo non è un capo di contrabbandieri, chi è mai?" 
      "E' un ricco signore che viaggia per diletto." 
      "Andiamo avanti" pensò Franz,  "il personaggio diventa sempre  più 
      misterioso,  poiché  i  racconti  sono  diversi" e disse: "Come si 
      chiama?". 
      "Quando  gli  si  domanda,  risponde  che  si  chiama  Sindbad  il 
      marinaio; ma dubito che questo sia il suo vero nome." 
      "Sindbad il marinaio?" 
      "Sì." 
      "E dove abita questo signore?" 
      "Sul mare." 
      "Di quale paese è?" 
      "Non lo so." 
      "L'avete mai veduto?" 
      "Qualche volta." 
      "Che uomo è?" 
      "L'Eccellenza Vostra ne giudicherà da se stessa." 
      "E dove mi riceverà?" 
      "Senza  dubbio  nel  palazzo  sotterraneo  di  cui  vi  ha parlato 
      Gaetano." 
      "E non avete mai avuto la curiosità quando  siete  venuto  qui  ed 
      avete  trovata l'isola deserta,  di cercare di penetrare in questo 
      palazzo incantato?" 
      "Oh, davvero, Eccellenza, e più d'una volta, ma le nostre ricerche 
      sono sempre  riuscite  inutili.  Noi  abbiamo  cercato  la  grotta 
      dappertutto,  e  non abbiamo trovato il più piccolo passaggio.  Si 
      dice però che la porta non si apra con  una  chiave,  ma  con  una 
      parola magica." 
      "Andiamo  pur innanzi" mormorò Franz,  "eccomi capitato in uno dei 
      racconti delle Mille e una notte." 
      "Sua Eccellenza vi aspetta" disse  una  voce  dietro  a  lui,  che 
      riconobbe per quella della sentinella. 
      Il   nuovo   arrivato   era   accompagnato  da  due  altri  uomini 
      dell'equipaggio dello yacht. 
      Per tutta risposta,  Franz si cavò di tasca  il  fazzoletto  e  lo 
      presentò  a  colui che aveva parlato.  Senza dire una parola,  gli 
      furono bendati gli occhi con molta cautela;  gli fu fatto  giurare 
      che non avrebbe tentato in nessun modo di togliersi la benda prima 
      che fosse invitato a farlo. 
      Egli giurò. 
      Allora  i  due  uomini  lo  presero  ciascuno  per  un braccio,  e 
      s'incamminò guidato da essi e preceduto dalla sentinella. Dopo una 
      trentina di passi sentì dal calore della brace e dall'odore sempre 
      più appetitoso del capretto  che  ripassava  davanti  al  bivacco, 
      quindi  gli  venne  fatta continuare la strada per altri cinquanta 
      passi,   inoltrandosi  evidentemente  verso  la  parte   dove   la 
      sentinella non aveva permesso a Gaetano di penetrare,  proibizione 
      che ora si capiva. 
      Ben presto un cambiamento di atmosfera avverti Franz  che  entrava 
      in  un  sotterraneo.  Dopo alcuni secondi di cammino sentì aprirsi 
      una porta,  e  gli  sembrò  che  l'atmosfera  mutasse  di  natura, 
      diventasse  tiepida  e  profumata,  e s'accorse allora che i piedi 
      posavano sopra un tappeto fitto e  morbido;  in  quel  momento  le 
      guide lo abbandonarono. 
      Si  fece  un  breve silenzio,  ed una voce disse in buon francese, 
      quantunque con un accento straniero: 
      "Signore,  siete il benvenuto in casa mia,  e potete togliervi  la 
      benda." 
      Come  si  intuiva facilmente,  Franz non si fece ripetere l'invito 
      due volte,  si levò il fazzoletto,  e si ritrovò dirimpetto  a  un 
      uomo   sui  trentotto  quaranta  anni  che  indossava  un  costume 
      tunisino,  vale a dire una calotta rossa con una  lunga  nappa  di 
      seta  turchina,  una  veste  di  panno  nero tutta ricamata d'oro, 
      pantaloni color sangue di bue larghi  e  gonfi,  le  ghette  dello 
      stesso  colore  orlate d'oro come la veste,  ed i pianelli gialli, 
      una magnifica sciarpa di cachemire gli cingeva la vita al  disopra 
      dei fianchi,  e un piccolo cangiaro acuto e ricurvo passava dentro 
      alla cintura. 
      Quantunque di  un  pallore  quasi  livido,  quest'uomo  aveva  una 
      fisonomia molto bella: gli occhi erano vivi e penetranti,  il naso 
      dritto,  e quasi a livello della fronte,  tradiva il tipo greco in 
      tutta  la  sua  purezza,  e  i denti bianchi come perle spiccavano 
      mirabilmente sotto i  baffi  neri.  Soltanto  questo  pallore  era 
      strano:  si  sarebbe detto un uomo rinchiuso da lungo tempo in una 
      tomba che non avesse potuto riprendere la carnagione dei vivi. 
      Senza essere di grande persona,  era ben fatto,  e come gli uomini 
      del  mezzogiorno,  aveva  le  mani  e i piedi piccoli.  Ma ciò che 
      meravigliò Franz, che aveva trattato da visionario Gaetano,  fu la 
      sontuosità degli arredi. 
      Tutta  la  camera  era  parata  di  stoffa  turca di color cremisi 
      tessuta a fiori d'oro. 
      In un vano c'era una specie di sofà sormontato  da  un  trofeo  di 
      armi   coi  foderi  di  argento  dorato  e  tempestate  di  pietre 
      risplendenti;  dal soffitto pendeva una lampada  di  cristallo  di 
      Venezia  di  un  color grazioso,  e i piedi posavano su un tappeto 
      turco. 
      Magnifiche le portiere per le quali  entrò  Franz,  e  davanti  ad 
      un'altra  porta  che  metteva in una seconda camera splendidamente 
      illuminata. 
      L'ospite lasciò Franz per alcuni momenti  tutto  stupito,  intanto 
      non tralasciava di esaminarlo da capo a piedi. 
      "Signore"  disse finalmente,  "vi chiedo perdono delle cautele che 
      son costretto a prendere con quelli che vengono introdotti qui, ma 
      siccome la maggior parte dell'anno,  quest'isola è deserta,  se il 
      segreto di questa dimora fosse conosciuto,  al mio ritorno,  senza 
      dubbio, troverei questo mio rifugio in cattivo stato;  cosa che mi 
      dispiacerebbe immensamente,  non per la perdita che mi causerebbe, 
      ma perché non avrei più la certezza di potermi separare dal  resto 
      del  mondo quando me ne venisse la volontà.  Frattanto cercherò di 
      farvi dimenticare questo piccolo disturbo con l'offrirvi  ciò  che 
      non avreste certamente creduto di ritrovar mai in quest'isola, una 
      cena passabile ed un letto abbastanza buono." 
      "In  fede  mia,  caro  ospite"  rispose  Franz,  "non  vedo perché 
      dobbiate fare scuse: ho sempre saputo che  si  bendano  gli  occhi 
      alle persone che entrano nei palazzi incantati,  vedete Raul negli 
      Ugonotti,  e veramente non posso lamentarmi,  perché  ciò  che  mi 
      mostrate appartiene alle meraviglie delle Mille e una notte." 
      "Ah,  potrei dirvi come Lucullo, se avessi saputo di avere l'onore 
      di una vostra visita, mi sarei preparato. Ma infine metto a vostra 
      disposizione il mio eremo com'è;  e vi  offro  la  mia  cena,  per 
      quanto poca cosa. Alì, è pronto?" 
      Nel  medesimo  istante  la  portiera  si sollevò,  e un moro della 
      Nubia, nero come l'ebano,  e vestito d'una semplice tonaca bianca, 
      fece segno al padrone che poteva passare nella camera da pranzo. 
      "Ora"  disse  lo  sconosciuto  a  Franz,  "non so se siate del mio 
      avviso,  ma trovo che non vi  è  niente  di  più  incomodo  quanto 
      restare due o tre ore in una stanza, senza sapere con quale nome o 
      qual  titolo  chiamarsi.  Rispetto troppo le leggi dell'ospitalità 
      per non domandarvi né il nome né il titolo;  vi prego soltanto  di 
      indicarmi come indirizzarvi la parola. In quanto a me, per levarvi 
      ogni incomodo,  vi dirò che hanno l'abitudine di chiamarmi Sindbad 
      il marinaio." 
      "Ed io" rispose Franz,  "vi dirò,  che siccome non mi manca altro, 
      per  essere  nella  situazione  di Aladino,  che la famosa lampada 
      meravigliosa, così non trovo nessuna difficoltà che per il momento 
      mi chiamiate Aladino. Così non andremo fuori di Oriente,  dove son 
      tentato  di  credere  di essere stato trasportato dalla potenza di 
      qualche buon genio." 
      "Ebbene, signor Aladino" disse lo strano anfitrione, "avete inteso 
      che è tutto preparato? Abbiate dunque il disturbo di passare nella 
      sala da pranzo;  il vostro umilissimo servitore andrà innanzi  per 
      indicarvi il cammino." 
      A  queste  parole  venne  sollevata  la portiera,  e Sindbad passò 
      effettivamente davanti a Franz. 
      Franz passava da incanto in incanto: la tavola era  splendidamente 
      apparecchiata. 
      Una  volta  convinto  di questo punto importante,  girò lo sguardo 
      intorno a sé. 
      La sala da pranzo non era  meno  splendida  dell'altra:  essa  era 
      tutta  in marmo con bassorilievi antichi del maggior prezzo,  e ai 
      quattro angoli di questa sala alquanto  bislunga  stavano  quattro 
      statue  con  in  capo  dei  cestelli  contenenti delle piramidi di 
      frutta magnifiche: ananas di  Sicilia,  mele  granate  di  Malaga, 
      portogalli  delle  isole  Baleari,  pesche di Francia e datteri di 
      Tunisi. 
      La cena si componeva di un fagiano arrostito con contorno di merli 
      di Corsica,  un cosciotto di cinghiale con la gelatina,  un quarto 
      di capretto alla tartara, e una gigantesca aragosta; tra i piatti, 
      piattini  che contenevano antipasti.  I piatti erano d'argento,  i 
      piattini di porcellana del Giappone.  Franz si strofinò gli  occhi 
      per assicurarsi bene che non stravedeva.  Alì solo era impiegato a 
      fare il servizio e se ne disimpegnava molto bene. 
      Il convitato fece i complimenti al suo ospite. 
      "Sì"  disse  questi  facendo  gli  onori  della  cena  con   molta 
      disinvoltura, "sì, questo povero diavolo mi è molto affezionato, e 
      fa  il  meglio che può.  Si ricorda che gli ho salvato la vita,  e 
      siccome ama molto la  vita,  a  quanto  pare,  mi  professa  della 
      riconoscenza per avergliela conservata." 
      Alì,   quantunque   non   intendesse   una   parola  in  francese, 
      accorgendosi dagli sguardi di  Sindbad  che  parlava  di  lui,  si 
      avvicinò alla tavola, prese la mano del padrone e la baciò. 
      "Sarei troppo indiscreto, signor Sindbad, se vi chiedessi in quale 
      occasione faceste un così bell'atto?" 
      "Oh,  mio Dio, è una cosa ben semplice. Sembra che il furbo avesse 
      ronzato vicino al serraglio del Bey di Tunisi,  più  di  quel  che 
      fosse conveniente ad uno del suo colore,  per cui venne condannato 
      dal Bey ad avere la lingua, la mano e la testa tagliate; la lingua 
      il primo giorno la mano il secondo,  e la testa  il  terzo.  Avevo 
      sempre  desiderato  di avere un muto al mio servizio: aspettai che 
      gli fosse tagliata la lingua e andai a proporre al Bey di  darmelo 
      in  cambio  di un magnifico fucile a due canne che il giorno prima 
      mi era sembrato avesse destato i desideri  di  Sua  Altezza.  Egli 
      stette  per un momento in forse,  tanto gli premeva di finirla con 
      questo povero diavolo. Ma io aggiunsi subito al fucile un coltello 
      da caccia inglese,  col quale avevo  spezzato  il  guatan  di  Sua 
      Altezza;  il Bey si risolvette a fargli grazia della mano destra e 
      della testa, a condizione però che non avrebbe mai più messo piede 
      in Tunisi.  La raccomandazione era inutile.  Quando il miscredente 
      vede le coste d'Africa, per quanto siano lontane, corre a salvarsi 
      nel  fondo  del  bastimento,  e  non si può farlo uscire di là che 
      quando si è fuori vista della terza parte del mondo." 
      Franz restò un poco muto e  pensieroso  cercando  ciò  che  doveva 
      pensare  della  crudele  bonarietà  con la quale il suo ospite gli 
      aveva fatto questo racconto. 
      "E voi  passate  la  vostra  vita"  disse,  cercando  di  cambiare 
      conversazione,  "viaggiando  come  il  degno marinaio di cui avete 
      preso il nome?" 
      "Sì,  è un voto che feci in tempi nei quali non credevo di poterlo 
      compiere..."  disse  lo sconosciuto sorridendo.  "Ne ho fatti pure 
      alcuni altri in questo modo, e spero ben presto poterli compiere." 
      Quantunque Sindbad avesse  pronunciate  tali  parole  con  la  più 
      grande  pacatezza,  pure i suoi occhi avevano lanciato uno sguardo 
      di selvaggia ferocia. 
      "Voi avete molto sofferto, signore?" disse Franz. 
      "Da che lo arguite?" disse. 
      "Da tutto" rispose Franz, "dalla vostra voce, dal vostro sguardo e 
      dalla vita stessa che conducete." 
      "Io conduco la vita più felice che si conosca,  una vera  vita  da 
      pascià:  mi piace un luogo,  vi resto,  me ne annoio,  parto: sono 
      libero come l'uccello,  ho le  ali  come  lui.  Le  genti  che  mi 
      circondano mi obbediscono; e qualche volta mi diverto ad inceppare 
      la  giustizia  umana  o  togliendole  un  bandito che cerca,  o un 
      galantuomo che perseguita. Poi ho la mia giustizia; giustizia alta 
      e bassa senza dilazione, senza appello,  che condanna o assolve ed 
      alla  quale  nessuno può obiettare.  Ah,  se aveste gustata la mia 
      vita, non ne vorreste altra, e non rientrereste giammai nel mondo, 
      a meno che non aveste da compiere un qualche gran compito." 
      "Una vendetta, per esempio!" disse Franz. 
      Lo sconosciuto  fissò  sul  giovane  uno  di  quegli  sguardi  che 
      penetrano nel più profondo del cuore e del pensiero. 
      "E perché una vendetta?" domandò. 
      "Perché"  soggiunse  Franz,  "voi  avete l'aspetto di un uomo che, 
      perseguitato  dalla  società,   ha  qualche  terribile  conto   da 
      regolare." 
      "Ebbene"  disse  Sindbad,  ridendo  con  quello  strano  riso  che 
      mostrava i denti bianchi ed acuti, "non avete indovinato.  Io sono 
      una specie di filantropo, e forse un giorno andrò a Parigi per far 
      conoscenza col signor Appert, l'uomo dal piccolo mantello blu." 
      "E sarà la prima volta che farete questo viaggio?" 
      "Oh, mio Dio, sì... Ho l'aspetto di essere ben poco curioso, non è 
      vero?  Ma  vi assicuro che non fu colpa mia se ho ritardato tanto; 
      ciò accadrà da un giorno all'altro." 
      "E pensate di farlo presto questo viaggio?" 
      "Non lo so ancora;  dipende da congiunture sottoposte  ad  incerte 
      combinazioni." 
      "Vorrei esservi al tempo in cui vi verrete; cercherei di rendervi, 
      per quanto mi fosse possibile, l'ospitalità che così largamente mi 
      prodigate a Montecristo." 
      "Accetterei  la vostra offerta con gran piacere" rispose l'ospite, 
      "ma disgraziatamente, se vi vado, ciò sarà forse in incognito!" 
      Frattanto la cena si avanzava e sembrava  essere  stata  preparata 
      soltanto  per  Franz,  perché  era  molto  se lo sconosciuto aveva 
      toccato coi denti uno o due piatti  dello  splendido  festino  che 
      aveva  offerto  e  al  quale il suo inatteso convitato aveva fatto 
      così largamente onore. 
      Finalmente Alì portò la frutta,  o piuttosto prese i cestelli  dal 
      capo  delle statue e li posò sulla tavola.  Fra i quattro cestelli 
      pose una tazza d'argento dorata,  chiusa  da  un  coperchio  dello 
      stesso metallo. 
      Il  rispetto  col  quale  Alì  aveva portata questa tazza punse la 
      curiosità di Franz. 
      Alzò il  coperchio  e  vide  un  specie  di  pasta  verdastra  che 
      assomigliava  alle  confetture  d'Angelica,  ma  a  lui  del tutto 
      sconosciuta. 
      Rimise il coperchio senza aver saputo che cosa conteneva la tazza, 
      e volgendo gli occhi sul suo ospite vide  che  sorrideva  del  suo 
      impaccio. 
      "Voi  non  potete  indovinare"  disse  questi,  "quale  specie  di 
      commestibile  contenga  questo  piccolo  vaso,   e  ciò  vi  dà  a 
      pensare... Non è vero?" 
      "Lo confesso." 
      "Ebbene,  questa  specie  di confettura verde è l'ambrosia che Ebe 
      serviva alla tavola di Giove." 
      "Ma codesta ambrosia" disse Franz,  "passando per  le  mani  degli 
      uomini,  avrà certamente perduto il nome celeste per prenderne uno 
      umano. In lingua volgare, come si chiama questo ingrediente per il 
      quale non sento però di avere grande simpatia?" 
      "Ah, ecco precisamente" gridò Sindbad,  "spesse volte noi passiamo 
      molto  vicini alla fortuna senza vederla,  senza guardarla,  senza 
      riconoscerla.  Siete un uomo positivo,  e l'oro è il vostro idolo? 
      Gustate  di  questa,  e  le  miniere  del  Perù,  di Gizerate e di 
      Golgonda vi saranno aperte. Siete un uomo di immaginazione?  Siete 
      poeta? Gustaste di questa, e le barriere del possibile spariranno; 
      vi  si  apriranno i campi dell'infinito,  e passeggerete libero di 
      cuore,  di spirito nei domini  senza  confine  dell'ideale.  Siete 
      ambizioso?  Correte  dietro  le grandezze della terra?  Gustate di 
      questa,  e dopo un'ora sarete idealmente,  non re  di  un  piccolo 
      regno nascosto in un angolo d'Europa, come la Francia, la Spagna o 
      l'Inghilterra,  ma  sarete  il Re del mondo.  Il vostro trono sarà 
      eretto sopra le montagne di Satanasso  e  senza  aver  bisogno  di 
      fargli  omaggio,  senza  essere  costretto a baciarne gli artigli, 
      sarete il sovrano,  padrone di tutti i regni della terra.  Non  vi 
      tenta  ciò  che  vi  offro,  dite?  Non  vi  sembra  cosa  facile? 
      Osservate!" 
      A queste parole scoprì la piccola  tazza  di  argento  dorato  che 
      conteneva la sostanza tanto lodata, prese un cucchiaio da caffè di 
      questa  confettura  magica,  la  portò  alla  bocca,  e l'assaporò 
      lentamente  con  gli  occhi  semichiusi  e  la  testa   rovesciata 
      all'indietro. 
      Franz  gli  lasciò tutto il tempo di sorbire il suo cibo favorito; 
      poi quando vide che ritornava un poco in sé: 
      "Ma finalmente che cos'è questa vivanda preziosa?" 
      "Avete mai inteso  parlare  del  Vecchio  della  Montagna,  quello 
      stesso che volle fare assassinare Filippo Augusto?" 
      "Senza dubbio." 
      "Ebbene,  voi  sapete  che  regnava  in una ricca vallata dominata 
      dalla montagna di cui aveva preso il nome  pittoresco.  In  questa 
      vallata c'erano magnifici giardini piantati da Hassen-Ben-Sabah, e 
      in  questi  giardini  vi  erano  dei padiglioni isolati: in questi 
      faceva entrare i suoi eletti,  e là faceva  loro  mangiare,  disse 
      Marco Polo,  una certa erba che li trasportava nell'Eden, in mezzo 
      a piante sempre fiorite,  a frutti  sempre  maturi.  Ora  ciò  che 
      questi  giovani  felici  prendevano  per una realtà non era che un 
      sogno, ma un così dolce, inebriante, un così voluttuoso sogno, che 
      si vendevano interamente a colui che lo elargiva, e gli obbedivano 
      ciecamente.  Essi andavano a colpire in capo al mondo  la  vittima 
      designata, morivano fra i tormenti della tortura senza lamentarsi, 
      nella  sola  idea  che  quella morte che soffrivano non era che un 
      passaggio a quella vita di delizie di cui l'erba  misteriosa,  ora 
      avanti a voi, aveva dato un saggio." 
      "Allora"  gridò Franz,  "è l'hashish.  Sì,  la conosco,  almeno di 
      nome." 
      "Precisamente,  voi avete detto il suo vero nome,  signor Aladino, 
      questo  è hashish,  tutto ciò che si fa di meglio e di più puro in 
      hashish  ad   Alessandria,   l'hashish   d'Abou   Gor,   il   gran 
      confetturiere,  l'uomo  al quale si dovrebbe fabbricare un palazzo 
      con questa iscrizione: 
      AL MERCANTE DELLA FELICITA, IL MONDO RICONOSCENTE." 
      "Sapete" disse Franz,  "che mi viene voglia  di  giudicare  da  me 
      stesso quanto v'è di vero nei vostri sperticati elogi?" 
      "Giudicate: ma non siate soddisfatto di un primo esperimento. Come 
      in  tutte  le  cose,  bisogna  abituare  i sensi ad una così nuova 
      impressione, sia essa dolce o violenta, sia triste o gioconda.  Vi 
      è una lotta della natura contro questa portentosa sostanza,  della 
      natura che non è fatta per la gioia e che ci  avvince  al  dolore. 
      Bisogna che la natura vinta soccomba nel conflitto; bisogna che la 
      realtà  succeda  al  sogno,  e allora il sogno regna come padrone, 
      allora è il sogno che diventa vita,  e la vita diviene  sogno.  Ma 
      qual  differenza  in questa trasfigurazione!  Paragonando i dolori 
      dell'esistenza reale ai godimenti della fittizia,  non vorrete più 
      vivere,  ma  vorrete  sempre  sognare.  Quando lascerete il vostro 
      mondo per passare al mondo degli altri,  vi sembrerà di passare ad 
      una primavera napoletana da un inverno della Lapponia. Vi sembrerà 
      di lasciare l'Eden per la terra,  il cielo per l'inferno.  Gustate 
      dell'hashish mio caro, gustatene!" 
      Per tutta risposta  Franz  prese  un  cucchiaio  di  questa  pasta 
      meravigliosa,  misurato  sulla  quantità che ne aveva presa il suo 
      anfitrione, e la portò alla bocca. 
      "Diavolo!" disse, dopo avere inghiottito questa pasta divina.  "Io 
      non so se il risultato sarà gradevole quanto dite,  ma la sostanza 
      non mi sembra tanto saporosa quanto affermavate." 
      "Perché  le  papille  del  palato  non  sono  ancora  adatte  alla 
      sublimità della sostanza che gustano.  Ditemi,  la prima volta che 
      gustaste le ostriche, il tè, il porter, i tartufi,  li assaporaste 
      con tanto piacere quanto ne aveste poi in seguito?  Comprendereste 
      il piacere che provavano  i  romani  nel  condire  i  fagiani  con 
      l'assafetida,  ed i cinesi,  che mangiano i nidi delle rondinelle? 
      Eh,  mio Dio,  no.  Ebbene,  è lo stesso con l'hashish: mangiatene 
      soltanto otto giorni di seguito, e poi, nessun nutrimento al mondo 
      vi sembrerà della squisitezza di questo,  che oggi vi sembra forse 
      fetido e nauseante.  Ma ora passiamo alla camera vicina,  e Alì ci 
      servirà il caffè, e ci darà le pipe." 
      Tutti  e due si alzarono,  e mentre colui cui si è dato il nome di 
      Sindbad, e così chiamato per distinguerlo dal suo convitato,  dava 
      alcuni ordini al suo domestico, Franz entrò nella camera attigua. 
      Questa   era   arredata  più  semplicemente  quantunque  non  meno 
      riccamente; di forma rotonda, un gran divano le girava intorno. Ma 
      il divano, i muri, il soffitto,  e il pavimento erano ricoperti di 
      magnifiche  pelli lisce e morbide come più morbido tappeto;  erano 
      pelli di leoni dell'Atlante  dalle  possenti  criniere,  pelli  di 
      tigri  del  Bengala dalle calde righe,  pelli di pantere del Capo, 
      screziate come quella che apparve a Dante; finalmente pelli d'orsi 
      della Siberia,  e di volpi della  Norvegia,  e  tutte  gettate  in 
      profusione  le  une  sulle altre,  dimodoché si sarebbe creduto di 
      camminare sui prati più fioriti,  e  di  riposare  sui  letti  più 
      soffici.  Tutti  e due si stesero sopra i divani,  una quantità di 
      pipe con le canne di gelsomino e le imboccature  d'ambra  erano  a 
      portata di mano, e già preparate affinché non si avesse la noia di 
      fumare due volte nella stessa: ne presero una per ciascuno. 
      Alì le accese, ed uscì per andare a prendere il caffè. 
      Vi  fu  un  po'  di  silenzio,  durante il quale Sindbad si lasciò 
      trasportare dai pensieri che  sembrava  l'occupassero  senza  posa 
      anche  in mezzo alla conversazione,  e Franz si abbandonò a quella 
      muta esaltazione,  alla quale si  cede  quasi  sempre  fumando  un 
      eccellente  tabacco,  che sembra portar via con la fumata tutte le 
      pene  dello  spirito,   e  rendere  al  fumatore  tutti  i   sogni 
      dell'anima. 
      Alì portò il caffè. 
      "Come  lo  prendete?"  disse  l'incognito,  "alla  francese o alla 
      turca, forte o leggero, con zucchero o senza,  filtrato o bollito? 
      Scegliete; c'è preparato in tutti i modi." 
      "Lo prenderò alla turca" disse Franz. 
      "E  avete  ragione:  ciò  prova che avete disposizione per la vita 
      orientale. Ah, gli orientali, sono i soli che sappiano vivere.  In 
      quanto a me" soggiunse,  con uno di quei sorrisi singolari che non 
      sfuggono,  "quando avrò finito i miei affari  a  Parigi,  andrò  a 
      morire  in  Oriente,  e  se  vorrete  ritrovarmi  bisognerà che mi 
      cerchiate o al Cairo, o a Bagdad, o a Ispahan." 
      "In fede mia" disse Franz,  "questa sarà la cosa  più  facile  del 
      mondo perché sembra che mi spuntino le ali d'aquila,  e con queste 
      farei il giro del mondo in ventiquattro ore." 
      "Ah, ah, è l'hashish che opera!  Ebbene,  aprite le ali,  e volate 
      nelle regioni sovrumane;  non temete, si veglia su voi, e se, come 
      quelle d'Icaro, le vostre ali si liquefanno al sole, noi siamo qui 
      per ricevervi." 
      Disse qualche parola araba ad Alì, che fece un segno d'obbedienza, 
      e si ritirò ma senza allontanarsi. 
      In quanto a Franz,  una strana trasformazione si operava  in  lui: 
      tutta la fatica fisica della giornata, tutte le preoccupazioni che 
      avevano  fatto nascere gli avvenimenti della sera,  sparivano come 
      in un momento di riposo in cui si è svegli abbastanza per  sentire 
      che  il  sonno  viene.  Sembrava  che  il  corpo  acquistasse  una 
      leggerezza fuori del materiale,  lo spirito s'illuminasse in  modo 
      inaudito; i sensi sembravano raddoppiare le loro facoltà. 
      L'orizzonte  si  allargava,  ma  non  l'orizzonte  cupo  sul quale 
      aleggia un vago terrore,  quale l'aveva osservato prima del sonno, 
      ma un orizzonte azzurro,  trasparente,  vasto con tutto ciò che il 
      mare ha di bello,  che il sole ha di raggi,  che la brezza  ha  di 
      profumo:  quindi,  in mezzo al canto dei suoi marinai,  canto così 
      limpido e chiaro, che se ne sarebbe fatta un'armonia celeste se si 
      fosse potuto, vedeva comparire l'isola di Montecristo non più come 
      uno scoglio minaccioso sui flutti,  ma come  un'oasi  perduta  nel 
      deserto;  poi  a  seconda  che  la  barca  s'avvicinava,  i  canti 
      divenivano  più  numerosi,   poiché  un'armonia   incantatrice   e 
      misteriosa  saliva  da quest'isola al cielo,  come se qualche fata 
      come Lorelay,  o qualche mago come Amfione avesse voluto attirarvi 
      qualche spirito, o fabbricarvi una città. 
      Finalmente  la barca toccò la riva,  ma senza scossa,  allo stesso 
      modo che le labbra toccano le labbra,  e sembrò a Franz di entrare 
      nella   grotta  senza  che  cessasse  questa  incantevole  musica; 
      discese,  o meglio gli sembrò scendere qualche scalino  respirando 
      un'aria  fresca  e balsamica come quella che circondava l'isola di 
      Circe, composta di tanti profumi da far andar in estasi, di ardori 
      tali da far bruciare i sensi,  e rivide tutto ciò che aveva veduto 
      prima  del sogno,  cominciando dall'ospite fantastico Sindbad fino 
      ad Alì il muto servitore; poi gli sembrò che tutto si cancellasse, 
      e si confondesse sotto i  suoi  occhi  come  le  ultime  ombre  di 
      lanterna  magica  che  si spenga,  e si ritrovò nella camera delle 
      statue,  illuminata soltanto da una di quelle  lampade  antiche  e 
      pallide che ardono nel mezzo della notte sul sonno della voluttà. 
      Erano le stesse statue belle per le forme e per la poesia, con gli 
      occhi magnetici, con i capelli abbondanti; erano Frine, Cleopatra, 
      Messalina,  le tre donne più celebri per la loro dissolutezza; poi 
      nel mezzo di queste s'introduceva una di quelle ombre  calme,  una 
      di  quelle  visioni dolci che sembrano coprir di un velo gli occhi 
      verginali. 
      Allora gli sembrò che queste tre statue avessero  riuniti  i  loro 
      amori per un sol uomo e che questi fosse lui; che si avvicinassero 
      dove faceva un secondo sogno,  coi piedi coperti dalle loro lunghe 
      e bianche tonache,  coi capelli cadenti ad onde,  in una di quelle 
      pose  irresistibili,  con  uno  di  quegli  sguardi inflessibili e 
      ardenti,  pari a quello che vibra il serpente all'uccello,  e  che 
      lui  si  abbandonasse  a quegli sguardi,  dolorosi come un laccio, 
      voluttuosi come un bacio. 
      Sembrò a Franz  di  chiudere  gli  occhi  e,  attraverso  l'ultimo 
      sguardo  intorno,  intravedere  la  statua  pudica  che  si velava 
      internamente; quindi, i suoi occhi chiusi alle cose reali,  i suoi 
      sensi si aprirono alle impressioni impossibili. 
      Allora,   per   Franz   che   subiva   la  prima  volta  l'effetto 
      dell'hashish, fu una voluttà,  un amore come quello che prometteva 
      il Vecchio della Montagna ai suoi seguaci. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 32. 
                                IL RISVEGLIO. 
 
 
      Allorché Franz ritornò in sé, gli oggetti esteriori gli sembrarono 
      una seconda parte del suo sogno; si credette in un sepolcro dove a 
      stento penetrava appena un raggio di sole,  simile a un sguardo di 
      pietà. Stese la mano,  e sentì del marmo,  si mise a sedere,  e si 
      trovò avvolto nel mantello sopra un letto di zolle,  secche, molto 
      molli ed odorifere. 
      Tutta la visione era sparita,  e,  come se le statue  non  fossero 
      state  che  ombre uscite dai sepolcri durante il suo sogno,  erano 
      sparite al risveglio.  Fece qualche passo verso il punto  da  dove 
      veniva  la  luce,  ed  a  tutta l'agitazione del sonno successe la 
      calma della realtà. 
      Si vide in una grotta,  si avanzò verso l'apertura,  ed attraverso 
      la  porta  centinata  scoprì  un  bel  cielo turchino,  ed un mare 
      azzurro.   L'aria  e  l'acqua  risplendevano  ai  raggi  del  sole 
      mattutino;  i marinai erano sulla riva,  discorrendo e ridendo;  a 
      distanza di dieci passi la barca ondeggiava  sul  mare  trattenuta 
      dall'ancora. 
      Allora  gustò  per  qualche  tempo  quella  fresca  brezza che gli 
      passava sulla fronte,  ascoltò  il  debole  rumore  dell'onda  che 
      moriva  sulla  spiaggia,  lasciando  sulle  rocce  un  contorno di 
      schiuma bianca come l'argento;  si lasciò andare senza riflettere, 
      senza  pensare  a  quell'incanto celeste,  che hanno le cose della 
      natura particolarmente quando si esce da un sogno fantastico:  poi 
      un poco alla volta la vita esterna così pacifica,  così grande gli 
      rimandò la inverosimiglianza del suo sogno,  ed i trascorsi  fatti 
      cominciarono a rientrare nella sua memoria. 
      Si sovvenne dell'arrivo nell'isola, del modo con cui fu presentato 
      al  capo  dei  contrabbandieri,  del  palazzo sotterraneo pieno di 
      splendore dell'eccellente cena, e del cucchiaio di hashish.  Solo, 
      in faccia a questa realtà, e in pieno giorno, gli sembrò almeno un 
      anno  che  tali  cose  fossero avvenute,  tanto il sogno che aveva 
      fatto si era impresso nel suo pensiero,  e aveva preso  forza  nel 
      suo spirito. 
      A tratti la sua immaginazione faceva apparire in mezzo ai marinai, 
      o  traversare  uno  scoglio o librarsi sulla barca,  una di quelle 
      ombre che avevano ricolma la notte di sguardi e di baci.  Peraltro 
      aveva  la  testa  del  tutto  libera,  e  il  corpo  perfettamente 
      riposato;  non alcuna pesantezza nel cervello,  che anzi risentiva 
      un  certo  benessere generale,  una maggiore disposizione a godere 
      dell'aria e del sole. 
      Si avvicinò dunque con ilarità ai marinai. 
      Come lo videro, si alzarono, ed il padrone si avvicinò a lui. 
      "Il signor Sindbad" disse,  "ci ha incaricato dei suoi complimenti 
      per la Vostra Eccellenza e ci ha detto di esprimervi il dispiacere 
      che  ha di non poter prendere congedo di persona,  ma spera che lo 
      scuserete quando saprete  che  un  affare  importantissimo  lo  ha 
      chiamato a Malaga." 
      "E' dunque vero,  mio caro Gaetano" disse Franz, "tutto ciò che mi 
      è  accaduto?   Esiste  in  realtà  un  uomo  che  mi  ha   offerto 
      un'ospitalità regale e che è partito durante il mio sonno?" 
      "E'  tanto  vero,  che  potete  vedere il suo piccolo yacht che si 
      allontana a vele gonfie,  e se  volete  prendere  il  cannocchiale 
      potrete  scorgere  probabilmente  il vostro ospite in mezzo al suo 
      equipaggio." 
      Dicendo queste parole, Gaetano stendeva il braccio nella direzione 
      di  un  piccolo  bastimento  che  faceva  vela  verso   la   punta 
      meridionale della Corsica. 
      Franz prese un piccolo cannocchiale,  lo mise a punto e lo diresse 
      verso il luogo indicato.  Gaetano non s'ingannava: sulla poppa del 
      bastimento vedeva il misterioso ospite, che ritto, e voltato dalla 
      sua parte,  teneva egli pure il cannocchiale puntato verso di lui. 
      Era vestito con lo stesso costume con  cui  era  apparso  la  sera 
      prima  al  suo convitato e come s'accorse di essere guardato agitò 
      il fazzoletto in segno di addio.  Franz rese il saluto,  e cavando 
      egli pure il fazzoletto lo agitò a sua volta. 
      Dopo  un  minuto,  una  piccola  nube  di  fumo  sorse a poppa del 
      bastimento,  si staccò graziosamente e salì  lentamente  in  alto, 
      quindi una debole esplosione giunse fino a Franz. 
      "Sentite, sentite!" disse Gaetano. "Eccolo là, vi dice addio..." 
      Il  giovane  prese  la  carabina,  e la scaricò in aria,  ma senza 
      speranza che il rumore potesse superare la distanza  che  separava 
      lo yacht dalla costa. 
      "Che comanda Vostra Eccellenza?" disse Gaetano. 
      "Che procuriate di accendere subito una torcia." 
      "Ah,   sì,   capisco"   disse  Gaetano,   "per  cercare  l'entrata 
      dell'appartamento nascosto. Con molto piacere,  Eccellenza,  se la 
      cosa vi diverte vi darò subito la torcia che chiedete.  Ma io pure 
      ebbi la vostra idea,  e per tre o quattro volte ho stancata la mia 
      curiosità, ed ho finito per rinunciarvi." 
      "Giovanni" soggiunse, "accendi una torcia." 
      Giovanni obbedì,  Franz prese la torcia,  ed entrò nel sotterraneo 
      seguito da Gaetano. 
      Egli riconobbe il posto dove si era svegliato dal letto  di  zolle 
      ancora  tutto  scomposto,  ma non gli valse girare la torcia sopra 
      tutta la superficie della grotta; non vide nulla,  eccetto qualche 
      traccia  di  fumo  che  testimoniava  che  altri  avevano  tentata 
      inutilmente la stessa ricerca. 
      Tuttavia non  lasciò  un  centimetro  di  quel  muro  di  granito, 
      impenetrabile  come  l'avvenire,  senza  esaminarlo,  non vide una 
      screpolatura senza che v'introducesse  la  lama  del  coltello  da 
      caccia;  non  osservò alcun punto sporgere senza comprimerlo nella 
      speranza che cedesse; ma tutto fu inutile, e senza alcun risultato 
      perdette due ore in questa ricerca. 
      Alfine rinunciò ad ogni ulteriore indagine. 
      Gaetano trionfava. 
      Quando Franz ritornò sulla spiaggia, lo yacht non era che un punto 
      bianco all'orizzonte; ricorse al cannocchiale, ma anche con questo 
      strumento non distinse nulla. 
      Gaetano gli ricordò che era venuto per cacciare le capre,  il  che 
      sembrava avesse dimenticato: prese il fucile, si mise a percorrere 
      l'isola  come  un  uomo  che  compie un dovere invece di prendersi 
      diletto, e in capo ad un quarto d'ora aveva già ucciso una capra e 
      due capretti.  Ma queste capre,  quantunque selvagge e  fuggiasche 
      come i camosci,  avevano troppa rassomiglianza con le nostre capre 
      domestiche, per cui Franz non le considerò selvaggina. 
      Poi idee molto più possenti occupavano il suo spirito.  Fin  dalla 
      scorsa  notte  si  riteneva  un  vero eroe di un racconto favoloso 
      delle Mille e una notte,  e si sentiva ricondotto verso la  grotta 
      da una forza invincibile. 
      Malgrado  l'inutilità  della sua prima perquisizione,  ne cominciò 
      una seconda,  dopo aver detto a Gaetano di fare arrostire uno  dei 
      capretti. 
      Questa seconda indagine durò molto tempo, poiché quando ritornò il 
      capretto era arrostito e la colazione preparata. 
      Franz  si  assise  nel luogo in cui la sera innanzi aveva ricevuto 
      l'invito a cena dal suo ospite misterioso,  e  rivide  ancora  una 
      punta bianca,  il piccolo yacht che continuava ad inoltrarsi verso 
      la Corsica. 
      "Ma" disse a Gaetano,  "non mi avete detto che Sindbad faceva vela 
      per  Malaga,  mentre  mi  sembra che vada direttamente verso Porto 
      Vecchio?" 
      "Non vi ricordate più" rispose il marinaio,  "che fra la gente che 
      componeva il suo equipaggio si trovavano due banditi corsi?" 
      "E' vero! Andrà a depositarli sulla costa." 
      "Precisamente.  Ah, questo è un individuo" gridò Gaetano, "che non 
      teme cosa alcuna,  per quanto mi vien detto,  e che per dare aiuto 
      ad un pover'uomo devierebbe il suo viaggio di cinquanta leghe." 
      "Ma  questo  genere  di  aiuto  potrebbe metterlo nei pasticci col 
      magistrato del paese dove esercita tal genere  di  filantropia..." 
      disse Franz. 
      "Ebbene"  soggiunse  Gaetano  ridendo,  "che  cosa  fanno  a lui i 
      magistrati?   Egli  se  la  ride!   Non  hanno  che   tentare   di 
      perseguitarlo.  Intanto  il  suo  yacht  non è un naviglio,  ma un 
      uccello, e darebbe tre nodi su dodici ad una fregata, e poi non ha 
      che a gettarsi egli stesso sulla costa, e in ogni luogo troverebbe 
      amici." 
      Era chiaro in questa faccenda  che  Sindbad,  l'ospite  di  Franz, 
      aveva  l'onore  di  essere  in relazione con i contrabbandieri e i 
      banditi  di  tutte  le  coste  del  Mediterraneo.  Il  che,  però, 
      riconfermava la sua strana posizione. 
      Franz  non aveva più niente che lo trattenesse a Montecristo aveva 
      perduto ogni speranza di ritrovare il  segreto  della  grotta.  Si 
      affrettò dunque a far colazione, ordinando ai suoi uomini di tener 
      pronta  la barca per il momento che avrebbe finito.  Mezz'ora dopo 
      era a bordo.  Gettò un ultimo sguardo sullo yacht  che  stava  per 
      sparire nel Golfo di Porto Vecchio. 
      Dette il segnale della partenza. 
      Nello  stesso momento in cui la barca si metteva in movimento,  lo 
      yacht spariva,  e con esso si  cancellava  l'ultima  realtà  della 
      notte precedente: la cena,  Sindbad, l'hashish, e le statue, tutto 
      cominciava per Franz a confondersi nello stesso sogno. 
      La barca camminò tutto il giorno e tutta la notte:  e  l'indomani, 
      quando  il sole si alzava,  l'isola di Montecristo era a sua volta 
      sparita. 
      Messo piede a terra,  Franz dimenticò,  momentaneamente almeno gli 
      avvenimenti passati,  per non occuparsi più che dei suoi affari di 
      piacere o di obbligo in Firenze,  e di raggiungere il compagno che 
      lo aspettava a Roma: partì dunque col corriere e il sabato sera si 
      ritrovava sulla piazza della Dogana. 
      L'appartamento,  come  si disse,  era già stato fissato da qualche 
      tempo non restava dunque che recarsi all'albergo di Pastrini.  Non 
      era molto facile, mentre la folla ingombrava le strade, e Roma era 
      già  in  preda a quel rumore sordo e febbrile che precede i grandi 
      avvenimenti. 
      A Roma non vi sono che quattro grandi avvenimenti in un  anno:  il 
      carnevale, la settimana santa, il Corpus Domini, e la festa di San 
      Pietro 
      Tutto  il  resto  dell'anno  la  città ricade nella solita apatia, 
      stato intermedio fra la vita e la morte, che la rende simile a una 
      specie di regione fra questo mondo  e  l'altro;  regione  sublime, 
      alta, piena di poesia e di carattere, che Franz aveva già visitata 
      cinque  o  sei volte,  e aveva ritrovata sempre più meravigliosa e 
      più fantastica. 
      Finalmente traversò quella folla,  che sempre più s'ingrossava,  e 
      giunse all'albergo. 
      Alla  prima  domanda,  gli  fu  risposto,  con  quell'impertinenza 
      propria dei cocchieri delle carrozze e dei camerieri delle  grandi 
      locande, che non vi era posto per lui all'albergo Londra. 
      Allora inviò il suo biglietto a Pastrini,  e si fece annunciare ad 
      Alberto de Morcerf. 
      Il mezzo riuscì, e Pastrini accorse egli stesso scusandosi di aver 
      fatto aspettare Sua Eccellenza,  rimproverando i servi,  prendendo 
      il  lume  dalla  mano  del  servitore  di  piazza.  Si disponeva a 
      condurlo  nelle  camere  di  Alberto,   quando  questi  gli  venne 
      incontro. 
      L'appartamento  fissato si componeva di due piccole stanze e di un 
      soggiorno.  Le due camere davano sulla strada,  particolarità  che 
      Pastrini fece valere come aggiungesse un merito inapprezzabile. Il 
      rimanente  del  piano  era  dato in fitto ad un ricco personaggio, 
      creduto  maltese  o  siciliano;   l'albergatore  non  poté   dirlo 
      precisamente. 
      "Tutto  va  bene,  signor  Pastrini" disse Franz,  "ma ci vorrebbe 
      subito una cena per questa sera,  ed una carrozza per domani e per 
      i giorni successivi." 
      "In   quanto  alla  cena  sarete  subito  servito,   ma  circa  la 
      carrozza..." 
      "Come circa la carrozza!" gridò Alberto. "Un momento un momento... 
      non scherziamo, Pastrini, ci abbisogna una carrozza." 
      "Eccellenza" disse l'albergatore,  "si farà tutto  quello  che  si 
      potrà per averne una, ecco ciò che posso dirvi." 
      "E quando avremo la risposta?" domandò Franz. 
      "Domani mattina" rispose l'albergatore. 
      "Che diavolo!" disse Alberto,  "si pagherà più cara, ecco tutto... 
      Si sa come accade: da Diake e da Aaron si paga venti  franchi  nei 
      giorni  ordinari  e  trenta o trentacinque franchi in occasione di 
      feste;  mettete cinque franchi di giunta che farà quaranta,  e non 
      ne parliamo più." 
      "Ho  paura  che questi signori,  quand'anche offrissero il doppio, 
      non possano trovarla." 
      "Allora si facciano attaccare i cavalli  alla  mia...  E  un  poco 
      scrostata per il viaggio, ma non importa." 
      "Non si troveranno cavalli." 
      Alberto  guardò  Franz  come  un  uomo  che  riceve  una  risposta 
      incomprensibile. 
      "Capite,  Franz?  Non vi saranno cavalli!  Ma  si  potranno  avere 
      cavalli di posta?" 
      "Sono tutti impegnati da quindici giorni, e non restano che quelli 
      destinati al necessario servizio." 
      "Che ne dite?" domandò Franz. 
      "Dico   che   allorquando  una  cosa  è  al  di  sopra  della  mia 
      intelligenza,  ho l'abitudine di  non  fermarmici,  e  di  passare 
      avanti. La cena è pronta?" 
      "Sì, Eccellenza." 
      "Ebbene, per ora ceniamo." 
      "Ma la carrozza e i cavalli?" domandò Franz. 
      "State tranquillo, amico caro, verranno da sé; non si tratterà che 
      di fissare il prezzo." 
      Morcerf con quell'ammirabile filosofia dell'uomo,  che nulla crede 
      impossibile fino a che la borsa è piena e il portafogli  guarnito, 
      cenò,  andò a riposare, e sognò di essere al corso in una carrozza 
      a sei cavalli. 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 33. 
                                 I BRIGANTI. 
 
 
      Il giorno dopo Franz si svegliò per primo, e appena desto suonò. 
      Il tintinnio del campanello risuonava ancora quando Pastrini entrò 
      di persona. 
      "Ebbene!" disse l'albergatore trionfante,  e senza  aspettare  che 
      Franz  lo  interrogasse.  "Facevo  bene ieri sera a non promettere 
      niente;  avete aspettato troppo,  e adesso  non  c'è  neppure  una 
      carrozza da nolo in Roma per tre giorni, s'intende." 
      "Sì" rispose Franz, "vale a dire per quelli in cui è assolutamente 
      necessaria!" 
      "Che c'è?" domandò Alberto entrando. "Non si trovano carrozze?" 
      "Precisamente mio caro amico" rispose Franz.  "Avete indovinato al 
      primo colpo." 
      "Ah, è una gran bella città questa vostra città eterna!" 
      "Cioè,  Eccellenza" riprese Pastrini,  che desiderava mantenere la 
      capitale  del  mondo  cristiano  in  un  certo decoro in faccia ai 
      viaggiatori,  "non vi sono più  carrozze  da  domenica  mattina  a 
      martedì sera;  ma da oggi a domenica ne troverete cinquanta, se lo 
      volete." 
      "Non è poco" disse Alberto.  "Oggi è giovedì;  chi  sa  di  qui  a 
      domenica quello che può accadere." 
      "Accadrà  l'arrivo  di  dieci  o  dodici  mila forestieri" rispose 
      Franz, ai quali renderanno la difficoltà sempre più grande." 
      "Amico mio" disse Morcerf, "godiamo del presente, non ci prendiamo 
      cura dell'avvenire." 
      "Almeno" domandò Franz, "potremo avere una finestra?" 
      "Su che strada?" 
      "Sul Corso, per Bacco!" 
      "Ah sì,  una finestra"  esclamò  Pastrini,  "impossibilissimo!  Ne 
      restava  una  al  quinto  piano  del  palazzo  Doria,  ed  è stata 
      affittata ad un principe russo per venti zecchini al giorno." 
      I due giovani si guardarono con aria stupefatta. 
      "Ebbene,  mio caro" disse Franz ad Alberto.  "Sapete ciò che torna 
      meglio di fare? Andare a finire il carnevale a Venezia; almeno là, 
      se non troviamo carrozze, troveremo gondole!" 
      "Ah, in fede mia" gridò Alberto, "ho deciso di vedere il carnevale 
      di Roma, e lo vedrò, fosse anche sopra una panchetta!" 
      "Bravo!" gridò Franz.  "E' un'idea magnifica,  particolarmente per 
      spegnere i moccoletti;  ci maschereremo da Pulcinella e faremo  un 
      effetto meraviglioso." 
      "Le   Loro   Eccellenze  desiderano  sempre  la  carrozza  fino  a 
      domenica?" 
      "Per Bacco" disse Alberto,  "credete  che  noi  siamo  persone  da 
      correre le strade di Roma a piedi come i portieri e i cursori?" 
      "Vado   ad  eseguire  gli  ordini  delle  Loro  Eccellenze"  disse 
      Pastrini,  "le prevengo soltanto che la carrozza costerà sei scudi 
      al giorno." 
      "Ed  io,  caro Pastrini" disse Franz,  "che non sono il milionario 
      nostro vicino,  vi prevengo per parte mia che  essendo  la  quarta 
      volta  che  vengo  a Roma,  conosco il prezzo delle carrozze per i 
      giorni ordinari, le domeniche e le feste; vi daremo dodici piastre 
      per oggi,  domani e dopo domani,  e voi ci troverete anche un  non 
      piccolo guadagno." 
      "Ma Eccellenza..." disse Pastrini, tentando di ribellarsi. 
      "Andate, andate mio caro" disse Franz, "o vado io stesso a fare il 
      prezzo dal padrone delle scuderie,  che conosco bene; è un vecchio 
      amico,  mi ha già rubato non poco denaro,  e,  nella  speranza  di 
      rubarmene  dell'altro,  accetterà  anche  per  un prezzo minore di 
      quello che vi offro; perdereste la differenza e per colpa vostra." 
      "Non vi prendete questo incomodo,  Eccellenza" disse Pastrini  col 
      sorriso dello speculatore di locanda che si confessa vinto,  "farò 
      il meglio che potrò, e sarete contento." 
      "A meraviglia; ecco ciò che si chiama parlare." 
      "Quando volete la carrozza?" 
      "Fra un'ora." 
      "Fra un'ora sarà alla porta." 
      Un'ora dopo effettivamente la carrozza aspettava  i  due  giovani; 
      era  un  modesto  calesse,  che  per  la solennità della festa era 
      salito al grado di carrozza di piazza.  Ma quantunque di  mediocre 
      apparenza,  i due giovani sarebbero stati ben contenti di avere un 
      tale veicolo per gli ultimi tre giorni del carnevale. 
      "Eccellenza" gridò il servitore di piazza,  vedendo Franz  mettere 
      il naso alla finestra, "vuole che faccia avvicinare la carrozza al 
      palazzo?" 
      Per quanto Franz fosse abituato all'enfasi italiana,  il suo primo 
      movimento fu di  guardarsi  intorno,  ma  a  lui  stesso  venivano 
      rivolte quelle parole... 
      Franz era l'Eccellenza, il calesse era la carrozza, il palazzo era 
      l'albergo Londra. 
      Tutto il genio della nazione era in questa sola frase. 
      Franz ed Alberto discesero, la carrozza si avvicinò al palazzo, le 
      Loro  Eccellenze  allungarono  le  gambe  sui posti davanti,  e il 
      cicerone saltò sul sedile di dietro. 
      "Dove vogliono andare le Loro Eccellenze?" 
      "Prima a San Pietro e poi  al  Colosseo"  disse  Alberto  da  vero 
      parigino. 
      Ma non sapeva una cosa, cioè che ci vuole un giorno per vedere San 
      Pietro, e un mese per studiarlo. 
      La giornata fu tutta impiegata nel veder San Pietro. 
      D'improvviso  i  due  amici  si accorsero che il giorno declinava. 
      Franz cavò l'orologio:  erano  le  quattro  e  mezzo.  Ritornarono 
      all'albergo.  Giunti  alla  porta,  Franz  dette ordine di tenersi 
      pronto per le otto;  voleva far vedere ad Alberto il  Colosseo  al 
      chiaro  di  luna,  come gli aveva fatto vedere San Pietro in pieno 
      giorno. 
      Allorché si fa vedere ad un amico una città,  che si è già veduta, 
      ci  si  mette  quella  civetteria  che si usa quando si indica una 
      donna della quale si è stati l'amante. 
      In conseguenza Franz indicò al cocchiere il suo itinerario: dovete 
      uscire dalla porta del Popolo,  andare intorno alle  mura  esterne 
      della città,  e rientrare dalla porta San Giovanni. In tal modo il 
      Colosseo compare d'improvviso,  e senza  che  il  Campidoglio,  il 
      Foro, l'Arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina, 
      e  la  Via Sacra abbiano anticipato gli effetti di quelle maestose 
      rovine. 
      Si fermarono per il pranzo. 
      Pastrini aveva promesso ai suoi  ospiti  un  eccellente  desinare, 
      gliene dette uno passabile, non c'era nulla da dire. 
      Alla fine del pranzo entrò egli stesso. Franz sulle prime credette 
      che fosse venuto per ricevere i loro complimenti,  e si apprestava 
      a farglieli allorché, alle prime parole, egli lo interruppe. 
      "Eccellenza" disse, "sono lusingato della vostra approvazione,  ma 
      non è questo il motivo che mi ha fatto salire da voi." 
      "E'  forse  per  venirci  a  dire  che avete trovato la carrozza?" 
      domandò Alberto, accendendo un sigaro. 
      "Per niente,  ed anzi,  Vostra Eccellenza farà bene a non pensarci 
      più. In Roma le cose o si possono o non si possono. Quando vi si è 
      detto che non si possono, tutto è finito." 
      "A Parigi,  è molto più comodo;  quando una cosa non si può avere, 
      la si paga il doppio, e si ha sul momento ciò che si domanda." 
      "Sento sempre dire la stessa  cosa  da  tutti  i  francesi"  disse 
      Pastrini,  un  poco  contrariato,  "e  non so comprendere come con 
      tante meraviglie che ci sono a Parigi, i parigini viaggino." 
      "Ma è così" disse Alberto,  mandando flemmaticamente una fumata al 
      soffitto  e  rovesciando il capo indietro sulla poltrona,  "non vi 
      sono che i pazzi, e gli oziosi come noi che viaggino,  la gente di 
      buon  senso  non  lascia la casa della rue Helder,  il Bastione di 
      Gand, e il Caffè di Parigi." 
      Non è necessario dire che abitava nella strada suddetta, che tutti 
      i giorni faceva  la  sua  passeggiata  elegantemente  vestito  sul 
      Bastione di Gand, e che pranzava tutti i giorni al Caffè di Parigi 
      avendo confidenza coi camerieri. 
      Pastrini  restò  un momento silenzioso,  era evidente che meditava 
      sulla risposta che gli aveva  dato  Alberto,  risposta  che  senza 
      dubbio non gli pareva molto chiara. 
      "Ma infine" disse Franz a sua volta,  interrompendo le riflessioni 
      geografiche del  suo  albergatore,  "eravate  venuto  con  qualche 
      scopo: volete esporci l'oggetto della vostra visita?" 
      "Oh è vero, eccolo: avete ordinato la carrozza per le otto." 
      "Sicuramente." 
      "Avete l'intenzione di visitare il Coliseo!" 
      "Cioè il Colosseo." 
      "E' la stessa cosa." 
      "Sia." 
      "Avete detto al vostro cocchiere di uscire dalla porta del Popolo, 
      e  fare  il  giro  delle  mura  per  rientrare  dalla porta di San 
      Giovanni!" 
      "Queste sono le mie precise parole." 
      "Ebbene,   questo  itinerario  è  impossibile,   o  almeno   molto 
      pericoloso." 
      "Pericoloso!? Perché?" 
      "A causa del famoso Luigi Vampa." 
      "Per  prima  cosa,  mio  caro Pastrini,  chi è questo famoso Luigi 
      Vampa?" domandò Alberto.  "Può essere famosissimo a  Roma,  ma  vi 
      assicuro che è perfettamente sconosciuto a Parigi." 
      "Come, non lo conoscete?" 
      "Non ho quest'onore." 
      "Ebbene,  è un bandito,  vicino al quale i Decesaris e i Gasperoni 
      sono specie di chierichetti." 
      "Attenti!"  Alberto  gridò.  "Franz,  ecco  dunque  finalmente  un 
      brigante!  Vi  prevengo,  mio  caro Pastrini,  che non crederò una 
      parola di tutto ciò che state per dirci; ma parlate quanto volete, 
      vi ascolto." 
      "C'era una volta..." 
      "Avanti dunque." 
      Pastrini si  volse  dalla  parte  di  Franz  sembrandogli  il  più 
      ragionevole dei due giovani. 
      Bisogna  rendere  giustizia  al  brav'uomo: aveva alloggiati molti 
      francesi,  ma non aveva mai ben capito ciò che  essi  chiamano  il 
      loro spirito. 
      "Eccellenza" disse con gravità, volgendosi a Franz, "se mi credete 
      un  cantastorie  è inutile che vi dica ciò che volevo;  posso però 
      assicurarvi che lo facevo per  la  premura  che  ho  per  le  Loro 
      Eccellenze." 
      "Alberto  non  vi  ha  detto  che  siete un cantastorie,  mio caro 
      Pastrini,  vi ha detto soltanto che  non  vi  crederà,  ma  io  vi 
      crederò, state tranquillo: parlate dunque." 
      "Però  convenite,  Eccellenza,  che  se  si  mette  in  dubbio  la 
      sincerità delle mie parole..." 
      "Mio caro,  voi siete più suscettibile di Cassandra,  che pure era 
      una  indovina,  e  alla  quale  nessuno credeva;  mentre voi siete 
      sicuro di essere creduto almeno dalla metà  del  vostro  uditorio. 
      Sedetevi, diteci chi è questo signor Vampa?" 
      "Ve lo dissi, Eccellenza, è uno di quei banditi di cui non abbiamo 
      mai avuto l'eguale dall'epoca di Mastrilli." 
      "Ebbene,  che  rapporto ha questo bandito con l'ordine che ho dato 
      al cocchiere di partire da porta del Popolo  e  di  rientrare  per 
      porta San Giovanni." 
      "C'è" rispose Pastrini,  "che potreste uscir dall'una ma dubiterei 
      che potreste entrare per l'altra." 
      "E perché?" domandò Franz. 
      "Perché quando è notte, non c'è sicurezza in quelle contrade." 
      "Parola d'onore?" gridò Alberto. 
      Pastrini,  sempre punto nel fondo dell'anima per i dubbi sulla sua 
      veracità, rispose: 
      "Signor  conte,  ciò  che  dico  non  è  ver voi,  e per il vostro 
      compagno di viaggio che conosce Roma e sa benissimo che su  questi 
      argomenti non si scherza." 
      "Mio  caro" disse Alberto volgendosi a Franz,  "ecco un'ammirabile 
      avventura: empiamo il  nostro  calesse  di  pistole,  tromboni,  e 
      fucili a due canne. Luigi Vampa viene per arrestarci, e noi invece 
      arrestiamo  lui:  lo  portiamo  a Roma,  ne facciamo un omaggio al 
      Senato romano: se il senatore domanda che può fare per dimostrarci 
      la sua riconoscenza,  reclamiamo  puramente  e  semplicemente  una 
      carrozza e due cavalli delle scuderie del senatore: e negli ultimi 
      giorni,  godiamo del carnevale in carrozza, senza calcolare che il 
      popolo romano riconoscente potrebbe incoronarci in Campidoglio,  e 
      proclamarci,  come  Curzio  e  Orazio  Coclite,  i salvatori della 
      patria." 
      "In primo luogo" domandò Franz ad Alberto,  "dove prendere  queste 
      pistole,  questi tromboni,  e questi fucili a due canne, coi quali 
      volete riempire la vostra carrozza?" 
      "Il fatto  sta,  che  certamente  non  potrei  prenderli  nel  mio 
      arsenale" diss'egli,  "perché a Terracina mi è stato tolto perfino 
      il mio pugnale. E voi?" 
      "Mi hanno fatto altrettanto ad Acquapendente." 
      "Così,  mio caro Pastrini" disse  Alberto  accendendo  un  secondo 
      sigaro  al  residuo  del  primo,  "sapete che questa è una fortuna 
      stramaledetta per quei banditi?" 
      "Sua Eccellenza sa che non c'è l'uso di difendersi quando si viene 
      aggrediti dai banditi" rispose Pastrini, che non voleva mettersi a 
      fare osservazioni sulle leggi d'oltralpe. 
      "Come?" gridò Alberto,  il cui coraggio si rivoltava  all'idea  di 
      lasciarsi svaligiare senza dir niente, "come non c'è l'uso?" 
      "No,  perché  qualunque  difesa  sarebbe inutile.  Che volete fare 
      contro una dozzina di assassini che escono  da  un  fosso,  da  un 
      antro o da un acquedotto,  e vi mettono nello stesso tempo le armi 
      alla gola?" 
      "Ah, per Bacco! voglio farmi ammazzare!" gridò Alberto. 
      L'albergatore si volse verso Franz con una espressione che  voleva 
      dire: "Davvero, Eccellenza, il vostro camerata è pazzo". 
      "Mio caro Alberto" soggiunse Franz, "la vostra risposta è sublime, 
      e  merita  il  "dovea morir!" del vecchio Cornelio;  soltanto che, 
      quando Orazio rispondeva questo,  si trattava  della  salvezza  di 
      Roma,  e la cosa era abbastanza importante: ma in quanto a noi non 
      si tratterebbe che di un capriccio, e sarebbe ridicolo arrischiare 
      la propria vita per soddisfare un tal capriccio." 
      "Ah, per Bacco!" gridò Pastrini, "alla buon'ora,  questo si chiama 
      parlare!" 
      Alberto  si  versò  un  bicchiere  di  lacrimacristi,  che bevve a 
      sorsate frammettendovi un brontolio di parole confuse che  nessuno 
      poté intendere. 
      "Ebbene,  Pastrini"  rispose Franz,  "ora che il mio compagno si è 
      calmato,   e  voi  avete  potuto  apprezzare  le  sue   intenzioni 
      pacifiche, sentiamo: chi è questo signor Luigi Vampa? E' giovane o 
      vecchio?  E'  contadino o patrizio?  descrivetecelo affinché se lo 
      avessimo per caso  da  incontrare  nella  società,  come  Giovanni 
      Sbagar, o Lara, lo possiamo riconoscere." 
      "Non  vi  potevate  rivolgere  meglio  che  a me per averne esatti 
      particolari,  poiché ho conosciuto Luigi Vampa da  ragazzo,  e  un 
      giorno  anzi  che  caddi  nelle sue mani,  andando da Ferentino ad 
      Alatri,  si sovvenne,  fortunatamente per me,  della nostra antica 
      conoscenza,  e non solo mi lasciò andare liberamente senza esigere 
      riscatto,  ma  volle  farmi  il  regalo  di  un  bell'orologio,  e 
      raccontarmi tutta la sua storia." 
      "Vediamo l'orologio" disse Alberto. 
      Pastrini  cavò  dal  taschino  un magnifico orologio a cilindro di 
      Beguet col nome dell'autore,  il bollo di Parigi e una  corona  da 
      conte. 
      "Eccolo qui" diss'egli. 
      "Poffare!" fece Alberto,  "ve ne faccio i miei complimenti.  Io ne 
      ho uno press'a  poco  come  questo,  che  costa  tremila  franchi. 
      Eccolo..." e cavò l'orologio dal taschino del giubbetto. 
      "Sentiamo ora la storia" disse Franz, tirando una sedia, e facendo 
      segno a Pastrini di sedersi. 
      "Le Loro Eccellenze mi permettono..." disse l'albergatore. 
      "Per  Bacco" disse Alberto,  "non siete un predicatore,  mio caro, 
      per parlare sempre in piedi." 
      L'albergatore si accomodò,  dopo aver fatto un saluto rispettoso a 
      ciascuno  dei suoi uditori come per far intendere che era pronto a 
      dar loro quei particolari ch'essi avessero domandato. 
      "A noi!" disse Franz interrompendo Pastrini al momento  che  stava 
      per  aprire bocca.  "Dicevate d'aver conosciuto Luigi Vampa quando 
      era ragazzo; è dunque molto giovane ancora?" 
      "Lo credo bene!  Ha appena ventidue anni!  E' un galeotto  che  ne 
      farà di strada, state sicuri." 
      "Che  ne  dite Alberto?  E' una bella cosa a ventidue anni essersi 
      già fatta una reputazione" disse Franz. 
      "Sì certamente, alla sua età,  Alessandro,  Cesare e Napoleone non 
      erano  tanto  avanti,  e sì che hanno fatto poi qualche rumore nel 
      mondo." 
      "E così" riprese Franz, volgendosi all'albergatore, "l'eroe di cui 
      ora sentiremo la storia, non ha che ventidue anni?" 
      "Appena, come ebbi l'onore di dirvi." 
      "E' grande o piccolo?" 
      "Di  mezza  statura,  presso  a  poco  come  voi,  signore"  disse 
      l'albergatore, designando Alberto. 
      "Grazie del paragone" disse quegli, inchinandosi. 
      "Avanti,  Pastrini"  riprese Franz sorridendo della suscettibilità 
      del suo amico. "E a qual classe della società appartiene?" 
      "Era un semplice pastore,  addetto alla  fattoria  del  conte  San 
      Felice  situata  fra  Palestrina  e  il  lago  di  Gabri: nacque a 
      Pampinara e fino dall'età di cinque anni  entrò  al  servizio  del 
      conte. Suo padre, pastore in Agnani, possedeva un piccolo gregge e 
      viveva  della  lana  dei  montoni  e del prodotto delle pecore che 
      veniva a vendere a Roma.  Fin da fanciullo il piccolo Vampa  aveva 
      un'indole strana.  Un giorno all'età di sette anni, andò a trovare 
      il curato di Palestrina,  e lo pregò d'insegnargli a leggere.  Era 
      una cosa assai difficile, perché il pastorello non poteva lasciare 
      le pecore. Ma il buon curato andava tutti i giorni a dire la messa 
      in un piccolo borgo, troppo povero e troppo poco considerevole per 
      poter mantenervi un prete,  e che, non avendo neppure un nome, era 
      conosciuto sotto quello di Borgo.  Egli offrì a Luigi di  trovarsi 
      sulla strada che percorreva nell'ora del ritorno, e di dargli così 
      la lezione, prevenendolo che questa sarebbe stata corta, e che per 
      conseguenza   avrebbe   dovuto   applicarsi   molto  per  renderla 
      profittevole. Il fanciullo accettò con gioia. 
      Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla  strada 
      da  Palestrina a Borgo;  e la mattina alle nove il curato passava: 
      il prete ed il fanciullo si sedevano sull'orlo di un  fosso  e  il 
      giovane  pastorello prendeva lezione sul breviario del curato.  Il 
      prete fece fare a Roma da un maestro di calligrafia tre  esemplari 
      di alfabeto, uno grande, uno mezzano e l'altro piccolo, e gli fece 
      vedere  che imitando quegli esemplari sopra una pietra di lavagna, 
      con l'aiuto di una punta di ferro, poteva imparare a scrivere.  La 
      sera  stessa,  quando  ebbe  rinchiuso  il  gregge nell'ovile,  il 
      piccolo Vampa corse dal fabbro ferraio  di  Palestrina,  prese  un 
      grosso  chiodo  e lo arroventò,  lo martellò,  lo arrotondò,  e ne 
      formò una specie di stiletto antico: l'indomani unì  una  quantità 
      di  pezzi  di  lavagna,  e  si mise all'opera.  Dopo tre mesi egli 
      sapeva scrivere. 
      Il  curato  meravigliato  di  questa  profonda   intelligenza,   e 
      ammirando questa attitudine,  gli fece regalo di parecchi quaderni 
      di carta, di alcune penne,  e di un temperino.  Allora ebbe a fare 
      un  altro  studio;  ma  uno  studio  che era ben poca cosa dopo il 
      primo.  Otto  giorni  dopo  maneggiava  la  penna  come  prima  lo 
      stiletto.  Il  curato  raccontò  quest'aneddoto  al  conte  di San 
      Felice, che volle vedere il pastorello, lo fece leggere e scrivere 
      innanzi a sé,  ordinò al suo  intendente  di  farlo  mangiare  coi 
      domestici,  assegnandogli  due  scudi  al mese.  Con questo denaro 
      Luigi comprò dei libri e delle matite.  Difatti applicava a  tutti 
      gli  oggetti  il  suo  spirito  di  imitazione,   e,  come  Giotto 
      fanciullo, copiava sulle lavagne le pecore,  gli alberi,  le case. 
      Poi  con  la  punta del temperino cominciò a tagliare dei pezzi di 
      legno, e a dar loro tutte le forme che voleva. Pinelli,  l'artista 
      popolare, aveva cominciato così. 
      Una  ragazzina di sei sette anni,  cioè poco più giovane di Vampa, 
      era pur essa alla custodia delle  pecore  in  una  vicina  tenuta, 
      presso Palestrina: questa bambina era orfana, nata a Valmontone, e 
      si chiamava Teresa.  I due fanciulli s'incontravano, sedevano l'un 
      presso all'altro,  lasciavano i loro greggi mischiarsi  e  pascere 
      insieme,   discorrevano,   ridevano,   scherzavano;  poi  la  sera 
      separavano il gregge del conte San Felice  da  quello  del  barone 
      Cervetri e si lasciavano, promettendosi di ritrovarsi l'indomani. 
      L'indomani infatti mantenevano la parola, e intanto crescevano sia 
      l'uno  che  l'altra.  I  loro  istinti  naturali  si svilupparono. 
      Accanto al gusto per le arti,  che Luigi aveva  spinto  tant'oltre 
      quanto  è  permesso  nella  solitudine,  egli era a tratti triste, 
      ardente,  collerico per capriccio,  burbero  sempre.  Nessuno  dei 
      giovani di Pampinara,  di Palestrina e di Valmontone aveva potuto, 
      non solo prendere alcuna influenza su di lui,  ma neppure divenire 
      suo  compagno.  Il  suo temperamento e l'essere sempre disposto ad 
      esigere, e non mai a lasciarsi piegare ad alcuna concessione,  gli 
      allontanava  ogni  approccio amichevole,  ed ogni dimostrazione di 
      simpatia. Teresa sola comandava con una parola, con un gesto,  con 
      uno sguardo questa indole,  che cedeva sotto la mano di una donna, 
      ma che sotto quella di un uomo si  sarebbe  irritata  all'eccesso. 
      Teresa  al contrario era vivace,  vispa e gaia,  ma eccessivamente 
      civettuola.  I due scudi che Luigi riceveva dall'intendente di San 
      Felice,  il  ricavato  di tutti i lavori d'intaglio che vendeva ai 
      mercanti di giocattoli in Roma,  si tramutavano  in  orecchini  di 
      perle,  in  collane  di  cristallo,  in  spilli  di  oro;  per  la 
      prodigalità del giovane amico,  Teresa era la più bella e  la  più 
      elegante di tutte le contadine delle vicinanze di Roma. 
      I  due  giovani  continuavano  a  crescere,  passando  la giornata 
      insieme, e si abbandonavano senza opposizione a tutti i moti della 
      loro natura; così nelle conversazioni, nei loro desideri, nei loro 
      castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello, o 
      governatore di una provincia;  Teresa  si  vedeva  ricca,  vestita 
      delle  più  belle stoffe,  seguita da servitori in livrea.  Quando 
      avevano passata un'intera giornata ad abbellire il  loro  avvenire 
      di  questi  folli e brillanti sogni,  si separavano per ricondurre 
      ciascuno il suo gregge alla  stalla,  ricadendo  dall'altezza  dei 
      sogni  alla  umiliante  realtà  della loro condizione.  Il giovane 
      pastore disse un giorno all'intendente del conte, che aveva veduto 
      un lupo uscir dalle montagne della Sabina  e  ronzare  attorno  al 
      gregge.  L'intendente  gli  dette  un  fucile;  era ciò che ambiva 
      Vampa.  Questo fucile aveva un'eccellente  canna  di  Brescia  che 
      sparava  come  una  carabina  inglese;  l'incassatura soltanto era 
      stata in qualche modo guastata dal conte,  mentre dava  la  caccia 
      alle volpi, e per questo il fucile messo fra gli scarti. Non c'era 
      difficoltà  per  un  intagliatore  come  Vampa.  Esaminò  la forma 
      primitiva,  calcolò ciò che  bisognava  cambiare  per  metterlo  a 
      posto,  e  fece  un'altra  incassatura  zeppa  di  ornamenti  così 
      meravigliosi che certamente avrebbe potuto guadagnarci una ventina 
      di scudi,  dal solo incasso,  se fosse venuto a venderlo in città. 
      Ma non lo vendette: un fucile era stato da gran tempo il sogno del 
      giovane. 
      In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuore forte, ogni 
      giovane vigoroso,  è quello di un'arma,  che assicuri nello stesso 
      tempo l'assalto e la difesa,  e facendo  terribile  chi  la  porta 
      spesso  lo fa temuto.  Da quel giorno Vampa impiegò nell'esercizio 
      del fucile tutt'i momenti che gli rimanevano liberi: comprò  della 
      polvere  e delle pallottole,  e tutto gli serviva di bersaglio: il 
      tronco di un ulivo,  triste,  pallido e cenerino,  che vegeta  sul 
      declivio  delle  montagne della Sabina;  la volpe,  che nella sera 
      usciva dalla tana per cominciare la caccia notturna; l'aquila, che 
      s'innalza per l'aria. Ben presto diventò così valente, che Teresa, 
      superato quel primo moto di paura causata  dalla  detonazione,  si 
      divertiva  nel  vedere  il  giovane  compagno  colpire  dove aveva 
      indicato,  così precisamente come avesse accompagnato il tiro  con 
      la mano. 
      Una sera,  un lupo uscì effettivamente da un buco, vicino al quale 
      i due giovani avevano l'abitudine di  stare;  il  lupo  non  aveva 
      fatti dieci passi sulla pianura che già era morto. Vampa, fiero di 
      questo  bel  colpo,  se  lo  caricò  sulle  spalle e lo portò alla 
      fattoria.  Tutti questi  particolari  davano  a  Luigi  una  certa 
      reputazione  nei  dintorni  della  fattoria:  l'uomo  superiore in 
      qualunque luogo si trovi si forma una clientela d'ammiratori.  Nei 
      luoghi  circonvicini si parlava di questo giovane pastore come del 
      più destro,  del più forte,  e del più bravo contadino che fosse a 
      dieci  leghe  di  distanza,  e quantunque Teresa,  in una zona più 
      estesa ancora,  passasse per la  più  bella  delle  ragazze  della 
      Sabina,  pure  nessuno  si arrischiava a dirle una parola d'amore, 
      perché la si sapeva amata da Vampa.  E frattanto i due giovani non 
      si  erano mai detti che si amavano.  Avevano vissuto l'uno accanto 
      all'altro,  come due alberi che uniscono le radici nel  suolo  che 
      intrecciano i rami nell'aria,  il profumo nel cielo;  soltanto era 
      in loro lo stesso desiderio di vedersi: questo  desiderio  divenne 
      bisogno, ed era per loro assai più facile comprendere la morte che 
      una  separazione,  anche  di  un  sol giorno.  Teresa aveva allora 
      sedici anni e Vampa diciassette. 
      In quel tempo si cominciava  a  parlare  molto  di  una  banda  di 
      briganti che si rintanava sui monti Lepini.  Il brigantaggio,  per 
      quanto  efficaci  furono  le  misure  prese,   non  è  mai   stato 
      completamente sconfitto nelle nostre campagne. Qualche volta manca 
      un capo,  ma, quando se ne presenta uno, è difficile che manchi di 
      una banda.  Il  celebre  Cucumetto,  perseguitato  negli  Abruzzi, 
      cacciato  dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra,  aveva 
      traversato il Garigliano come Manfredi,  ed era venuto fra Sonnino 
      e Giuperno, a rifugiarsi sulle rive dell'Amasina, egli si occupava 
      a  riordinare  una  banda  che  avrebbe  camminato  sulle  onde di 
      Gasparone e di Decesaris,  che sperava  ben  presto  di  superare. 
      Molti   giovani   di  Palestrina,   di  Frascati  e  di  Pampinara 
      scomparvero da casa.  Sulle prime,  si stette  in  pena  sul  loro 
      conto,  ma  ben  presto  si seppe ch'erano andati a raggiungere la 
      banda di  Cucumetto.  In  capo  a  poco  tempo  Cucumetto  diventò 
      l'oggetto   dell'attenzione  generale.   Venivano  ovunque  citate 
      imprese di questo capo bandito di estrema audacia, e di rivoltante 
      brutalità. 
      Un  giorno  rapì  una  ragazza,  la  figlia  d'un  agrimensore  di 
      Frosinone.  Le  leggi  dei  banditi  sono  positive:  una  giovane 
      appartiene da prima a colui che la rapì; poi gli altri la tirano a 
      sorte fra loro,  e l'infelice serve ai piaceri di tutta  la  banda 
      fino a che i banditi l'abbandonino o muoia.  Quando i parenti sono 
      ricchi abbastanza per riscattarla,  si  manda  un  messaggero  che 
      tratta  la taglia;  la testa della prigioniera risponde della fede 
      dell'emissario.  Se  la  taglia  è  ricusata,   la  prigioniera  è 
      irrevocabilmente condannata. 
      La  giovane  aveva  nella  banda di Cucumetto il suo amante che si 
      chiamava Carlini. Riconoscendo il giovane, gli tese le braccia,  e 
      si  credette  salva.  Ma  il  povero  Carlini riconoscendola sentì 
      spezzarglisi il cuore, perché non si faceva illusioni sulla triste 
      sorte che l'aspettava. 
      Tuttavia essendo il favorito di Cucumetto,  e partecipando da  tre 
      anni  a  tutti  i  suoi  pericoli,  e  avendogli  salvata la vita, 
      uccidendo con un colpo di pistola un gendarme che aveva già levata 
      la sciabola,  sperò che costui avrebbe avuto un po' di  pietà.  Lo 
      chiamò  a parte,  mentre la giovane appoggiata contro il tronco di 
      un pino in  una  radura  della  foresta  tutta  nuda  e  ricoperta 
      soltanto  della  pittoresca  capigliatura  delle contadine romane, 
      nascondeva il viso ai  lussuriosi  sguardi  dei  banditi.  Carlini 
      raccontò  tutto  al suo capo,  i suoi amori con la prigioniera,  i 
      loro giuramenti di fedeltà, e come ogni notte, quando la banda era 
      in quei dintorni,  i due amanti si davano  convegno  in  un  luogo 
      appartato. 
      Quella   sera  appunto  Cucumetto  aveva  mandato  Carlini  in  un 
      villaggio,  e così non  aveva  potuto  trovarsi  al  convegno;  ma 
      Cucumetto  vi era giunto per caso ed aveva così rapita la ragazza. 
      Carlini supplicò il suo capo  di  fare  un'eccezione  e  rispettar 
      Rita,  dicendogli  che il padre era ricco,  e avrebbe sborsato una 
      buona somma per riscattarla. 
      Cucumetto  parve  arrendersi  alle  preghiere  dell'amico,   e  lo 
      incaricò  di  trovare  un  contadino da poter mandare dal padre di 
      Rita a Frosinone.  Carlini allora si  avvicinò  alla  ragazza,  le 
      disse  all'orecchio  che  era salva,  e la invitò a scrivere a suo 
      padre una lettera su quanto le era accaduto annunciandogli che  la 
      somma del riscatto era fissata a trecento piastre. Al padre non si 
      dava  che  dodici ore,  vale a dire fino alle nove del mattino del 
      giorno seguente. 
      Scritta la lettera,  Carlini corse alla pianura  per  cercarvi  un 
      messaggero. Trovò un giovane che faceva pascolare il suo gregge. I 
      messaggeri naturali dei briganti sono i pastori, che vivono fra la 
      città  e la campagna,  tra la vita selvaggia e la vita incivilita. 
      Il giovane pastore partì subito,  promettendo di essere  prima  di 
      un'ora a Frosinone. 
      Carlini tornò subito, gaio e contento, a raggiungere la sua amante 
      ed annunciarle la buona novella.  La banda era al medesimo posto e 
      cenava allegramente con le provvigioni che i  briganti  prendevano 
      ai  contadini  come  tributo: fra quegli allegri convitati Carlini 
      cercò inutilmente  Cucumetto  e  Rita.  Domandò  dove  fossero;  i 
      banditi risposero con uno scroscio di risa. 
      Un  freddo  sudore gli bagnò la fronte,  e parve che l'angoscia lo 
      prendesse per i capelli. 
      Rinnovò la sua domanda.  Uno dei convitati riempì un bicchiere  di 
      vino di Orvieto e glielo tese dicendo: 
      "Alla salute del bravo Cucumetto e della bella Rita!" 
      In  quel  momento  Carlini  credette  di  udire un grido di donna: 
      indovinò tutto.  Prese il bicchiere e lo spezzò  sulla  faccia  di 
      colui che glielo aveva offerto, poi si slanciò nella direzione del 
      grido. 
      A  cento  passi,  alla svolta di un cespuglio,  trovò Rita svenuta 
      nelle braccia di Cucumetto.  Scorgendo Carlini,  Cucumetto si alzò 
      tenendo  in  ognuna  delle  mani  una  pistola.  I  due banditi si 
      guardarono un istante: l'uno,  il  sorriso  della  lussuria  sulle 
      labbra;  l'altro,  il pallore della morte sulla fronte. Si sarebbe 
      creduto che tra questi due uomini  stesse  per  succedere  qualche 
      cosa  di  terribile.  Ma  a  poco  a  poco i lineamenti di Carlini 
      cominciarono a calmarsi: la mano,  che aveva portato ad una  delle 
      pistole che pendevano dalla cintura, si ritrasse di lato. Rita era 
      coricata fra loro due. 
      La luna rischiarava la scena. 
      "Ebbene?"  disse  Cucumetto,  "hai fatto la commissione di cui eri 
      incaricato?" 
      "Sì,  capitano" rispose Carlini,  "domani,  prima delle  nove,  il 
      padre di Rita sarà qui col denaro." 
      "A meraviglia!  Intanto, mentre l'aspetto, noi vogliamo passare un 
      allegra notte.  Questa giovane è magnifica,  e tu hai davvero buon 
      gusto,  mastro Carlini. Così, non sono egoista, torniamo ai nostri 
      camerati per tirare a sorte colui cui ora deve appartenere." 
      "Siete deciso ad abbandonarla alla legge comune?" chiese Carlini. 
      "E perché si dovrebbe fare eccezione in suo favore?" 
      "Avevo creduto che alla mia preghiera..." 
      "E che, sei tu più degli altri?" 
      "E' giusto.' 
      "Ma sta' tranquillo" rispose Cucumetto  ridendo,  "prima  o  dopo, 
      verrà la tua volta..." 
      I denti di Carlini si serrarono al punto che parevano spezzarsi. 
      "Andiamo"  disse  Cucumetto,  facendo  un passo verso i convitati. 
      "Vieni tu?" 
      "Vi seguo..." 
      Cucumetto si allontanò,  senza perdere di  vista  Carlini,  perché 
      temeva  che  volesse  colpirlo  di dietro,  ma niente nel brigante 
      tradiva un'intenzione ostile.  Era in piedi,  le braccia conserte, 
      presso Rita sempre svenuta. 
      Cucumetto  pensò per un istante che il giovane la prendesse fra le 
      braccia o fuggisse con lei.  Ma ciò poco gli  importava:  da  Rita 
      aveva  avuto quel che voleva;  quanto al danaro,  trecento piastre 
      divise fra la banda,  faceva una così povera somma  che  ben  poco 
      gliene importava. 
      Continuò dunque il suo cammino verso i briganti;  ma, con suo gran 
      stupore, Carlini arrivò quasi prima di lui. 
      L'estrazione a sorte!  l'estrazione a sorte!"  gridavano  tutti  i 
      banditi, nello scorgere il loro capo. 
      E gli occhi di tutti quegli uomini sfavillarono di ebbrezza,  e di 
      lascivia,  mentre la fiamma del fuoco acceso gettava su tutti  una 
      luce rossastra che li faceva somigliare a demoni. 
      La  loro  domanda  era  giusta: e però il capo fece un cenno colla 
      testa,  condiscendeva.  Tutti i nomi furono  subito  messi  in  un 
      cappello, compreso quello di Carlini, e il più giovane della banda 
      tirò un bullettino dall'urna improvvisata. Quel bullettino portava 
      il  nome  di  Diavolaccio;  era quello stesso che aveva proposto a 
      Carlini di bere alla salute  del  capo,  e  a  cui  Carlini  aveva 
      risposto col spezzargli il bicchiere sulla faccia. 
      Diavolaccio,  vedendosi  favorito  dalla  fortuna,  diede  in  uno 
      scoppio e risa. 
      "Capitano" disse, "poco fa, Carlini non ha voluto bere alla vostra 
      salute;  proponetegli ora di  bere  alla  mia...  Avrà  forse  più 
      riguardo per voi che per me." 
      Ognuno aspettava una reazione violenta di Carlini;  ma, con grande 
      stupore di tutti,  prese con la mano un bicchiere,  con l'altra un 
      fiasco riempiendo il bicchiere: 
      "Alla  tua  salute,  Diavolaccio!"  disse  con  voce perfettamente 
      calma,  e tracannò il contenuto del bicchiere senza che per  nulla 
      tremasse la sua mano. 
      Poi, sedendosi accanto al fuoco: 
      "La mia porzione di cena!" disse.  "La corsa fatta mi ha ridestato 
      l'appetito." 
      "Viva Carlini!" gridarono i briganti. 
      "Alla buon'ora,  ecco ciò che si dice  prender  la  cosa  da  buon 
      compagno." 
      E tutti formarono circolo intorno al fuoco,  mentre Diavolaccio si 
      allontanava. 
      Carlini mangiava e beveva,  come nulla fosse accaduto.  I briganti 
      lo   guardavano   stupefatti;   essi   non   comprendevano  quella 
      impassibilità, quando intesero dietro di loro un passo pesante. Si 
      voltarono,  e scorsero Diavolaccio,  che tra le braccia  aveva  la 
      ragazza.  Lei aveva la testa rovesciata, e i lunghi capelli fino a 
      terra. 
      Mentre entravano nello spazio rischiarato dal fuoco,  si accorsero 
      del  pallore  della donna e del bandito.  Quella apparizione aveva 
      qualcosa di così strano  e  di  solenne  che  tutti  si  alzarono, 
      eccetto  Carlini,  che restò seduto,  e continuò a bere e mangiare 
      come nulla accadesse intorno lui. 
      Diavolaccio continuava ad  avanzarsi  in  mezzo  al  più  profondo 
      silenzio e depose Rita ai piedi del capitano. 
      Allora  tutti poterono vedere la causa del pallore della donna del 
      bandito. Rita aveva un coltello conficcato sino al manico sotto la 
      poppa sinistra. 
      Tutti gli sguardi si portarono su Carlini;  la guaina del coltello 
      pendeva vuota alla sua cintura. 
      "Ah,  ah" disse il capo, "ora comprendo perché Carlini era rimasto 
      indietro." 
      Ogni natura selvaggia è capace di  apprezzare  una  forte  azione; 
      quantunque  forse  nessuno  di  quei banditi avrebbe fatto ciò che 
      aveva fatto Carlini, tutti però compresero la sua azione. 
      "Ebbene" disse Carlini alzandosi,  ed a sua volta avvicinandosi al 
      cadavere,  la  mano sulla impugnatura di una pistola,  "c'è ancora 
      qualcuno qui che mi disputa questa donna?" 
      "No" disse il capo. "E' tua." 
      Allora Carlini la prese fra le braccia,  e la portò al di là dello 
      spazio illuminato dalla fiamma. 
      A mezzanotte la sentinella dette la sveglia, e in un istante tutti 
      furono in piedi,  il capo e i suoi compagni. Era il padre di Rita, 
      che andava egli stesso a portar la somma per il  riscatto  di  sua 
      figlia. 
      "Tieni" disse a Cucumetto,  porgendogli un sacco di denaro,  "ecco 
      trecento piastre, rendimi la mia figliola." 
      Ma il capo, senza prendere il denaro,  gli fece cenno di seguirlo. 
      Il vecchio obbedì;  tutti e due si allontanarono sotto gli alberi, 
      attraverso i cui rami filtravano i raggi  della  luna.  Finalmente 
      Cucumetto  si  fermò mostrando al vecchio un gruppo di due persone 
      ai piedi di un albero. 
      "Tieni" disse, "domanda a Carlini, egli te ne renderà conto." 
      E se ne tornò verso i suoi compagni. 
      Il vecchio restò immobile,  gli occhi fissi.  Sentiva che  qualche 
      sventura ignota,  immensa,  inaudita gravava su di lui.  Al rumore 
      che il vecchio faceva avanzandosi,  Carlini alzò la  testa,  e  le 
      forme delle due persone cominciarono ad apparire più distinte agli 
      occhi di lui. 
      Una  donna  era  coricata  per  terra,  la  testa appoggiata sulle 
      ginocchia di un uomo seduto,  chinato su  di  lei;  nell'alzar  la 
      testa  quell'uomo aveva scoperto il volto della donna,  che teneva 
      serrato contro il  petto.  Il  vecchio  riconobbe  sua  figlia,  e 
      Carlini riconobbe il vecchio. 
      "Io t'aspettavo..." disse il bandito al padre di Rita. 
      "Miserabile!" disse il vecchio. "Che hai fatto?" 
      E guardava con terrore Rita,  pallida, immobile, insanguinata, con 
      un coltello nel petto. 
      Un raggio di luna la rischiarava della sua pallida luce. 
      "Cucumetto aveva violata tua figlia" disse il bandito,  "e siccome 
      io l'amavo,  l'ho uccisa;  poiché,  dopo di lui,  sarebbe stata lo 
      zimbello di tutta la banda." 
      Il vecchio non pronunziò una  parola;  solamente  divenne  pallido 
      come uno spettro. 
      "Ed ora" disse Carlini, "se ho avuto torto, vendicala!" 
      E  strappato  il  coltello dal seno della fanciulla,  levandosi in 
      piedi,  lo porse al vecchio,  mentre coll'altra mano slacciava  la 
      camicia sul petto, offrendolo nudo. 
      "Tu   hai   ben   fatto..."  disse  il  vecchio  con  voce  sorda. 
      "Abbracciami, figlio mio." 
      Carlini si gettò singhiozzando fra le braccia del padre della  sua 
      amante: erano le prime lacrime che versava quell'uomo sanguinario. 
      "Ed ora" disse ancora il vecchio a Carlini,  "aiutami a seppellire 
      mia figlia." 
      Carlini andò a cercare due zappe,  e il padre e l'amante si misero 
      a  scavar  la  terra  ai  piedi  di una quercia,  i cui folti rami 
      dovevano far ombra sulla tomba della fanciulla. 
      Quando la fossa fu scavata,  il padre abbracciò  Rita  per  primo, 
      dopo  abbracciò l'amante.  Quindi,  prendendola l'uno per i piedi, 
      l'altro  per  le  spalle,  la  scesero  nella  fossa.  Ciò  fatto, 
      s'inginocchiarono  ai  due  lati  della  tomba,  e  recitarono  le 
      preghiere dei morti.  Quando ebbero terminato gettarono terra  sul 
      cadavere  sino  a che la fossa fu colma.  Allora,  stendendogli la 
      mano: "Io ti ringrazio,  figliolo..." disse il vecchio a  Carlini. 
      "Ora lasciami solo. 
      "Ma intanto..." disse costui. 
      "Lasciami..., te l'ordino." 
      Carlini  obbedì:  andò  a raggiungere i suoi compagni si avviluppò 
      nel mantello,  e ben presto parve addormentato profondamente  come 
      gli altri. 
      Il  giorno  prima  era  stato deciso che la banda avrebbe cambiato 
      rifugio. Un'ora prima del giorno,  Cucumetto svegliò i suoi uomini 
      e  fu dato l'ordine di partenza;  ma Carlini non volle lasciare la 
      foresta senza sapere che ne fosse del padre di  Rita.  Si  diresse 
      verso il luogo dove lo aveva lasciato.  Trovò il vecchio appiccato 
      ad uno dei rami della quercia sulla tomba della figlia. 
      Sul cadavere dell'uno e sulla fossa  dell'altra,  fece  allora  il 
      giuramento di vendicarli entrambi.  Ma quel giuramento non lo poté 
      mantenere perché due giorni dopo,  in  uno  scontro  coi  gendarmi 
      romani,  Carlini fu ucciso. Solamente qualcuno si stupì che avesse 
      ricevuto una pallottola fra le spalle,  mentre s'era tenuto sempre 
      in faccia al nemico. Lo stupore cessò quando uno dei briganti fece 
      osservare ai compagni che Cucumetto era dieci passi dietro Carlini 
      quando costui era caduto colpito. 
      La mattina della partenza dalla foresta di Frosinone aveva seguito 
      Carlini nell'oscurità, aveva inteso il giuramento fatto, e da uomo 
      cauto lo aveva preceduto. 
      Si raccontavano ancora su cotesto terribile capobanda altre storie 
      non meno strane di questa. Così da Fondi a Perugia tutti tremavano 
      al solo nome di Cucumetto. 
      Le  storie  di ogni genere su questo capo bandito formavano spesso 
      l'oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa.  La pastorella 
      tremava molto a questi racconti; ma Vampa la tranquillava battendo 
      in  terra  il  suo  bel  fucile.  Poi,  quando  non  era del tutto 
      tranquilla,  le faceva vedere un qualche corvo  posato  sopra  una 
      frasca secca di un albero, metteva il fucile alla guancia, premeva 
      sul grilletto, e l'animale colpito cadeva ai piedi dell'albero. 
      Frattanto  il  tempo  passava,  i due giovani avevano stabilito di 
      sposarsi quando Vampa avesse avuto venti anni,  Teresa diciannove. 
      Erano  orfani  entrambi;  entrambi  non  avevano altri permessi da 
      chiedere che quello dei loro progetti per  l'avvenire.  Un  giorno 
      che  parlavano  dei  loro proponimenti intesero due o tre colpi di 
      fucile,  quindi un uomo uscì dal  bosco  presso  il  quale  i  due 
      giovani  erano soliti far pascolare gli armenti,  e corse verso di 
      loro. 
      Giunto a portata di voce, gridò tutto ansante: 
      "Sono inseguito, potete nascondermi?" 
      I due giovani riconobbero ben presto nel fuggitivo un bandito:  ma 
      fra  il  bandito  ed il contadino romano vi è una innata simpatia, 
      per cui il secondo è sempre disposto a rendere un favore al primo. 
      Vampa,  senza dire una parola,  corse ad una pietra,  che chiudeva 
      l'ingresso di una grotta, scoprì l'entrata tirando a sé la pietra, 
      fece  segno  al fuggitivo di entrare in questo asilo sconosciuto a 
      tutti, rimise la pietra e ritornò a sedersi vicino a Teresa. Quasi 
      subito quattro gendarmi  a  cavallo  comparvero  sul  confine  del 
      bosco. Tre sembravano essere alla ricerca del fuggitivo, il quarto 
      trascinava  per il collo un bandito prigioniero.  Essi esplorarono 
      il luogo con un  colpo  d'occhio,  s'accorsero  dei  due  giovani, 
      corsero di galoppo alla loro volta,  e li interrogarono; ma questi 
      risposero che nulla avevano veduto. 
      "E' spiacevole" disse il brigadiere,  "perché quello che cerchiamo 
      è il capo." 
      "Cucumetto?"  non  poterono fare a meno di gridare insieme Luigi e 
      Teresa. 
      "Sì" rispose il brigadiere,  "e siccome  la  sua  testa  porta  la 
      taglia  di  mille  scudi  romani,  così  voi ne avreste guadagnati 
      cinquecento se ci aveste aiutati a prenderlo." 
      I due giovani si guardarono.  Il  brigadiere  ebbe  un  raggio  di 
      speranza.  Cinquecento  scudi romani fanno circa tremila franchi e 
      tremila franchi sono una fortuna  per  due  poveri  orfanelli  sul 
      punto di maritarsi. 
      "Sì, è spiacevole" disse Vampa, "ma non abbiamo visto nessuno." 
      Allora  i  gendarmi percorsero il luogo in tutte le direzioni,  ma 
      inutilmente: quindi disparvero.  Allora Vampa andò a  togliere  la 
      pietra, e Cucumetto uscì. 
      Egli  aveva visto attraverso una fessura del macigno i due giovani 
      discorrere coi gendarmi.  Non aveva  alcun  dubbio  sull'argomento 
      della  conversazione:  aveva  letto sul volto di Teresa e di Luigi 
      l'inalterabile risoluzione di non consegnarlo.  Cavò di tasca  una 
      borsa  d'oro  per  farne  loro dono.  Ma Vampa rialzò la testa con 
      fierezza: quanto a Teresa i suoi occhi brillarono pensando a tutto 
      ciò che avrebbe potuto comprare,  ricchi gioielli,  e begli abiti, 
      con quella borsa d'oro. 
      Cucumetto era un demonio molto abile, solo aveva preso la forma di 
      bandito invece di serpente. S'accorse di questo sguardo, riconobbe 
      in  Teresa  una  degna  figlia  d'Eva,  e  rientrò  nella  foresta 
      volgendosi più volte,  col pretesto di salutare i suoi liberatori. 
      Il  tempo  di  carnevale  si  avvicinava,  il  conte di San Felice 
      annunziò un gran ballo mascherato al quale fu invitato quanto Roma 
      aveva di più elegante.  Teresa aveva gran voglia di vedere  questo 
      ballo. 
      Luigi  domandò  al  suo protettore,  l'intendente,  il permesso di 
      assistervi per lui e per lei, nascosti in mezzo alla servitù della 
      casa; permesso che venne loro accordato. 
      Il ballo veniva dato dal conte particolarmente per fare cosa grata 
      a sua figlia Carmela ch'egli  adorava.  Carmela  era  precisamente 
      dell'età  e  della  figura di Teresa e tanto bella quanto lei.  La 
      sera del ballo Teresa si mise quanto aveva di più  bello,  i  suoi 
      spilli  di maggior valore,  i gioielli di cristallo più rilucenti. 
      Aveva il costume delle donne  di  Frascati;  Luigi  aveva  l'abito 
      pittoresco  del  villico romano in giorno di festa.  Entrambi,  si 
      mischiarono, come avevano promesso, fra i servitori ed i paesani. 
      Il festino era magnifico.  Non solo la villa era tutta illuminata, 
      ma migliaia di lampioni a colori erano appesi ai rami degli alberi 
      nel giardino: ben presto l'onda degli accorsi straripò dal palazzo 
      sulle  terrazze,  e dalle terrazze nei viali.  Ad ogni crociera vi 
      era una orchestra,  e  rinfreschi  ;coloro  che  passeggiavano  si 
      fermavano,  formavano  delle  quadriglie e ognuno ballava dove più 
      gli piaceva.  Carmela portava il costume delle donne  di  Sonnino: 
      aveva la pettinatura intrecciata di perle,  gli spilli dei capelli 
      d'oro e di diamanti,  il busto era di seta turca a gran  fiori  di 
      broccato,  la  giubba e le gonnelle di cachemire,  i1 reggiseno di 
      mussola delle Indie,  i bottoni della  giubba  altrettante  pietre 
      preziose.  Due delle sue compagne portavano il costume delle donne 
      della Riccia. 
      Quattro giovani dei più ricchi e delle famiglie più nobili di Roma 
      l'accompagnavano,  vestiti da contadini d'Albano  di  Velletri  di 
      Civita Castellana,  e di Sora.  Questi costumi da contadini,  come 
      quelli da contadini erano risplendenti d'oro e di pietre.  Venne a 
      Carmela  l'idea  di  fare una quadriglia;  mancava però una donna. 
      Carmela guardò intorno a sé,  e fra le invitate non  trovò  alcuna 
      che portasse un costume analogo al suo ed a quello delle compagne. 
      Il  conte  di  San  Felice le mostrò fra le contadine Teresa,  che 
      stava appoggiata al braccio di Luigi. 
      "Me lo permettete, padre mio?" disse Carmela. 
      "Senza dubbio!" rispose il Conte. "Non siamo a carnevale?" 
      Carmela si accostò ad un giovane che l'accompagnava,  e gli  disse 
      alcune parole a bassa voce,  indicandogli col dito la ragazza.  Il 
      giovane si volse, seguì cogli occhi la direzione della bella mano, 
      fece un gesto di obbedienza,  e andò  ad  invitare  Teresa  perché 
      venisse  a  figurare  nella  quadriglia  diretta  dalla figlia del 
      Conte. 
      Teresa sentì come una fiamma salirle al viso.  Interrogò  con  uno 
      sguardo  Luigi:  non  c'era  mezzo  di  rifiutare.   Luigi  lasciò 
      lentamente  sdrucciolare  il  braccio  di  Teresa,   e  Teresa  si 
      allontanò  condotta  dal suo elegante cavaliere,  e tutta tremante 
      venne a prendere posto nella quadriglia aristocratica. 
      Certamente,  per un artista,  l'esatto e severo costume di  Teresa 
      avrebbe  avuto  tutt'altro carattere che quello di Carmela e delle 
      sue compagne;  ma Teresa era una  ragazza  frivola  e  civetta:  i 
      ricami  sulla  mussola,  le palme della cintura,  lo splendore del 
      cachemire l'abbagliavano, il riflesso degli zaffiri e dei diamanti 
      la rendevano ebbra. 
      Dall'altra parte,  Luigi  sentiva  nascere  in  sé  un  sentimento 
      sconosciuto  era  come un dolore sordo che mordesse sulle prime il 
      cuore,  e di là corresse fremendo nelle sue vene e  s'impadronisse 
      di tutto il corpo. 
      Egli non perdeva un momento d'occhio i piccoli movimenti di Teresa 
      e del suo cavaliere;  allorché le loro mani si toccavano,  provava 
      delle vertigini,  le arterie gli  battevano  con  violenza,  e  si 
      sarebbe  detto  che  il  suono  di  una  campana  ripercuotesse le 
      vibrazioni nelle sue orecchie. 
      Quando  parlavano  fra  di  loro,   quantunque  Teresa  ascoltasse 
      timidamente  e  con  gli  occhi  bassi  i  discorsi del cavaliere, 
      siccome Luigi leggeva negli occhi  ardenti  del  bel  giovane  che 
      erano elogi, gli sembrava che la terra girasse sotto di lui, e che 
      tutte le voci dell'inferno gli soffiassero impulsi di omicidio. 
      Allora,  temendo  di  lasciarsi  trasportare  a  qualche pazzia si 
      aggrappava con una mano all'albero contro il quale era  appoggiato 
      e  con  l'altra stringeva con un movimento convulso il pugnale dal 
      manico  intagliato,  che  era  nella  sua  cintura,  e  che  senza 
      accorgersene qualche volta cavava dal fodero quasi interamente. 
      Luigi era geloso: capiva che Teresa poteva sfuggirgli, trasportata 
      dalla   sua   natura  orgogliosa  e  ambiziosa,   e  frattanto  la 
      contadinella,  che sulle prime era timida e quasi  spaventata,  si 
      mise presto a suo agio. 
      Si disse che Teresa era bella.  Questo però non era tutto.  Teresa 
      era di quella grazia selvaggia molto più possente  che  la  nostra 
      grazia   studiata  ed  affettata.   Ebbe  quasi  gli  onori  della 
      quadriglia,  e se fu invidiosa  della  figlia  del  conte  di  San 
      Felice, non oseremo dire che Carmela non fosse gelosa di lei. 
      Così  a  forza  di  complimenti il suo bel cavaliere la ricondusse 
      dove l'aspettava Luigi. 
      Due o tre volte,  nel tempo del ballo,  la ragazza aveva volto  lo 
      sguardo su lui,  e ogni volta lo aveva visto più pallido,  e con i 
      lineamenti  più  alterati.   Una  volta  i  suoi  occhi   rimasero 
      abbagliati da un lampo di sinistro augurio, nel vedere la lama del 
      coltello  cavata  per  metà dal fodero;  quasi tremando riprese il 
      braccio dell'amante. 
      La quadriglia  ebbe  momenti  felici;  sembrava  evidente  che  si 
      sarebbe  proposto di ripeterla una seconda volta.  Carmela sola si 
      opponeva,  ma il conte di San Felice pregò  tanto  teneramente  la 
      figlia, che finalmente acconsentì. 
      Subito  uno dei cavalieri si lanciò per invitare Teresa,  senza la 
      quale era impossibile che si potesse fare  la  quadriglia,  ma  la 
      giovinetta era già sparita. 
      Infatti  Luigi  non avrebbe sopportato un secondo ballo,  e con la 
      persuasione e con la forza,  aveva trascinato Teresa da  un  altro 
      lato  del  giardino.  Teresa  aveva ceduto suo malgrado;  ma aveva 
      visto il volto alterato del giovane,  e capiva dal  suo  silenzio, 
      interrotto da un fremito nervoso, che in lui avveniva qualche cosa 
      di  strano.  Lei  pure non era esente da un'interna agitazione;  e 
      quantunque non avesse fatto niente di male,  comprendeva che Luigi 
      avrebbe  avuto  ragione  di farle dei rimproveri.  Su che?  Non lo 
      sapeva, ma si accorgeva che sarebbero stati ben meritati. 
      Con gran sorpresa di Teresa stette muto,  e durante  il  rimanente 
      della  sera  le  sue  labbra  non  dissero  più una parola.  Solo, 
      allorché il freddo della notte aveva costretti tutti gli  invitati 
      a  lasciare  i giardini,  e le porte della villa furono chiuse per 
      dar luogo alla festa  interna,  ricondusse  a  casa  Teresa.  Poi, 
      quando fu sulla soglia, le disse: 
      "Teresa, che pensavi, quando ballavi dirimpetto alla contessina di 
      San Felice?" 
      "Pensavo"  rispose  la  ragazza con tutta la franchezza dell'animo 
      suo,  "che darei la metà della mia vita per  essere  vestita  come 
      lei." 
      "E che ti diceva il cavaliere?" 
      "Mi diceva che dipendeva soltanto da me, e non dovevo dire che una 
      parola per ottener questo." 
      "Aveva  ragione" rispose Luigi.  "Lo desideri tu così ardentemente 
      come dici?" 
      "Sì." 
      "Ebbene l'avrai." 
      La ragazza alzò la testa per interrogarlo,  ma il  viso  era  così 
      tetro e così terribile, che la parola le si ghiacciò sulle labbra. 
      D'altra parte dicendo queste parole Luigi si era allontanato. 
      Teresa  lo  seguì  con  gli sguardi fra le tenebre fino a che poté 
      scorgerlo.  Poi quando fu sparito,  rientrò sospirando  nella  sua 
      cameretta. 
      Quella  medesima  notte  accadde  un  grande  avvenimento  che  fu 
      giudicato  prodotto,  senza  alcun  dubbio,   dall'imprudenza  nel 
      trafficare  coi  lumi:  la  villa San Felice prese fuoco,  proprio 
      dalla parte dell'appartamento della bella Carmela.  Svegliata  nel 
      mezzo del sonno dalle fiamme era saltata dal letto, si era avvolta 
      nella veste da camera, ed aveva tentato di fuggire dalla porta; ma 
      il corridoio per il quale bisognava passare era già tutto in preda 
      all'incendio.  Allora rientrò nella sua camera,  chiamando ad alte 
      grida soccorso.  Quando la sua finestra posta a  venti  piedi  dal 
      suolo si aperse, un giovane contadino si lanciò nell'appartamento, 
      la prese fra le braccia,  e con una forza e destrezza sovrumane la 
      trasportò sull'erba del prato dove rimase svenuta. 
      Allorché riprese l'uso dei sensi, il padre le era vicino,  tutti i 
      servitori la circondavano portando soccorsi.  Un lato intero della 
      villa fu bruciato ma non importava,  poiché  Carmela  era  sana  e 
      salva. 
      Venne ovunque cercato il suo liberatore,  ma questi non ricomparve 
      più: fu domandato di lui a tutti, ma nessuno lo aveva veduto. 
      Quanto a Carmela,  era così turbata che non lo aveva riconosciuto. 
      Siccome  il  conte  era  immensamente  ricco,  se  si  eccettua il 
      pericolo corso da Carmela,  e che gli sembrò dal  modo  miracoloso 
      con  cui  era  stata  salvata,  piuttosto  un novello favore della 
      Provvidenza che una disgrazia reale,  fu ben poca cosa per lui  la 
      perdita di ciò che avevano consumato le fiamme. 
      L'indomani  nell'ora  consueta  i  due  giovani si ritrovarono sul 
      confine della foresta. 
      Luigi era arrivato per primo. Egli venne incontro alla ragazza con 
      molta allegria, e sembrava aver completamente dimenticata la scena 
      della sera innanzi. 
      Teresa era manifestamente pensierosa,  ma vedendo la  disposizione 
      d'animo  di  Luigi,  simulò  un'allegra noncuranza che era la base 
      della  sua  indole,   quando  qualche  passione   non   veniva   a 
      disturbarla. 
      Luigi   prese  sotto  il  braccio  Teresa,   e  la  condusse  fino 
      all'apertura della grotta.  Là si fermò.  La pastorella conoscendo 
      che  doveva  esserci  qualche  cosa  di  straordinario,  lo guardò 
      fissamente. 
      "Teresa" disse Luigi,  "ieri sera tu mi dicesti che  avresti  dato 
      metà  della  tua  vita  per avere un costume eguale a quello della 
      figlia del conte." 
      "Certamente" disse Teresa con meraviglia, "ma ero ben pazza quando 
      esternavo un simile desiderio." 
      "Ed io ti ho risposto: Sta bene, tu l'avrai." 
      "Sì" soggiunse la ragazza,  la cui meraviglia  aumentava  ad  ogni 
      parola  di  Luigi,  "ma  tu  certamente hai risposto così solo per 
      farmi piacere." 
      "Non ti ho mai promesso cosa che non ti abbia data,  Teresa" disse 
      con orgoglio Luigi, "entra nella grotta, e vestiti." 
      A  queste  parole  allontanò la pietra,  e fece vedere a Teresa la 
      grotta illuminata da due candele,  che  ardevano  ai  lati  di  un 
      magnifico specchio. Sopra una tavola rustica fatta da Luigi, erano 
      distesi  gli  spilli di diamanti e la collana di perle;  sopra una 
      panca vicina era depositato il rimanente del vestiario. 
      Teresa mandò un grido di gioia,  e senza informarsi  donde  veniva 
      questo  vestito,  senza ringraziare Luigi,  si lanciò nella grotta 
      trasformata in toilette. 
      Luigi richiuse la pietra dietro di lei, perché s'accorse che sulla 
      cresta di una piccola collina,  che impediva di vedere  Palestrina 
      dal  posto in cui stava,  un viaggiatore a cavallo si era fermato, 
      incerto sulla strada da tenere, e compariva nell'azzurro del cielo 
      con quella nettezza di contorno tipica dei paesi meridionali. 
      Lo straniero,  vedendo Luigi,  mise il cavallo a galoppo,  e venne 
      alla sua volta. 
      Luigi   non  si  era  ingannato:  il  viaggiatore  che  andava  da 
      Palestrina a Tivoli  era  incerto  sul  cammino  da  prendere.  Il 
      giovane glielo indicò; ma siccome ad un quarto di miglio la strada 
      si divideva in tre, e il viaggiatore, giunto a questo luogo poteva 
      nuovamente  sbagliare,  pregò Luigi di servirgli da guida.  Questi 
      depose a terra il mantello,  si pose sulla spalla la  carabina,  e 
      liberato così dal pesante vestito,  camminò davanti al viaggiatore 
      con quel passo rapido del montanaro,  che un cavallo a stento  può 
      seguire. 
      In  dieci minuti Luigi e il viaggiatore si trovarono al crocicchio 
      indicato dal giovane pastore: con un gesto maestoso stese la  mano 
      e indicò al viaggiatore quella delle tre vie che doveva seguire. 
      "Ecco la vostra strada Eccellenza, ora non potete più sbagliare." 
      "E  tu  prendi la tua ricompensa..." disse il viaggiatore offrendo 
      al pastore alcune piccole monete. 
      "Grazie" disse Luigi ritirando la mano,  "ma io rendo un servizio, 
      non lo vendo." 
      "Ma" disse il viaggiatore,  abituato a quella differenza che passa 
      tra la servilità dell'uomo di città e l'orgoglio  del  campagnolo, 
      "se tu rifiuti una mercede, accetterai un regalo?" 
      "Ah! sì, questa è un altra cosa." 
      "Ebbene"  disse  il  viaggiatore,  "prendi  questi due zecchini di 
      Venezia,  e dalli alla tua fidanzata per acquistarsi  un  paio  di 
      pendenti." 
      "E  voi allora prendete questo pugnale" disse il pastore,  "non ne 
      ritroverete uno,  la cui impugnatura  sia  meglio  intagliata,  da 
      Albano a Civita Castellana." 
      "Lo accetto" disse il viaggiatore, "ma allora sono io che ti resto 
      obbligato, perché il pugnale vale molto più di due zecchini." 
      "Per un mercante può essere,  ma non per me che l'ho intagliato io 
      stesso, e mi costa appena uno scudo." 
      "Come ti chiami?" domandò il viaggiatore. 
      "Luigi Vampa" rispose il pastore collo  stesso  tono  come  avesse 
      risposto Alessandro di Macedonia, "e voi?" 
      "Io" disse il viaggiatore, "mi chiamo Sindbad il marinaio..." 
      Franz d'Epinay ebbe un grido di sorpresa. 
      "Sindbad il marinaio!" disse. 
      "Sì"  rispose il narratore,  "è il nome che il viaggiatore disse a 
      Vampa." 
      "Ebbene, che avete da dire a questo nome?" interruppe Alberto. "E' 
      un bellissimo nome e le avventure  di  chi  lo  portava  mi  hanno 
      divertito assai nella mia prima gioventù." 
      Franz non insistette. 
      Il  nome  di  Sindbad  il  marinaio,  come  si capirà bene,  aveva 
      risvegliato in lui una quantità di ricordi,  non  diversamente  da 
      quello  che  aveva  fatto  la  sera  innanzi  il  nome di conte di 
      Montecristo. 
      "Continuate..." disse all'albergatore. 
      "Vampa mise sdegnosamente i  due  zecchini  in  tasca,  e  riprese 
      lentamente  il  cammino  per  il quale era venuto.  Giunto a due o 
      trecento passi dalla grotta gli parve  di  sentire  un  grido.  Si 
      fermò  ascoltando  da  qual  parte  venisse questo grido.  Dopo un 
      secondo,  intese pronunciare distintamente il suo  nome;  la  voce 
      veniva dalla parte della grotta. 
      Balzò come un camoscio; e mentre correva, caricava il fucile, e in 
      meno  di un minuto era sulla sommità della piccola collina opposta 
      a quella dove aveva intravisto il viaggiatore.  Là si  fecero  più 
      distinte le grida: "Aiuto, soccorso!". Girò gli occhi sullo spazio 
      che  dominava:  un  uomo  rapiva  Teresa  come  il centauro Nesso, 
      Deianira.  Questo uomo che si dirigeva verso il bosco,  aveva  già 
      percorso tre quarti del cammino dalla grotta alla foresta. 
      Vampa  misurò la distanza;  quest'uomo aveva già duecento passi di 
      vantaggio su lui, non vi era possibilità di raggiungerlo prima che 
      entrasse nel bosco.  Il giovane si fermò  come  se  i  suoi  piedi 
      avessero  messo radice: appoggiò l'incasso del fucile alla spalla, 
      levò lentamente la canna nella direzione del rapitore, lo seguì un 
      secondo nella corsa, e fece fuoco. 
      Il rapitore si fermò, come immobile nell'aria, le ginocchia gli si 
      piegarono,  e cadde trascinando nella sua caduta Teresa,  la quale 
      si  alzò  subito.  L'altro  restò  steso dibattendosi nelle ultime 
      convulsioni dell'agonia. Vampa si slanciò verso Teresa,  che era a 
      dieci passi dal moribondo,  in ginocchio.  Allora al giovane venne 
      il  terribile  sospetto  che  la  pallottola  che  aveva   colpito 
      l'avversario  avesse ferita la fidanzata.  Fortunatamente però non 
      fu così,  e il solo terrore aveva paralizzato le forze di  Teresa. 
      Quando  Luigi fu ben sicuro che era sana e salva si volse verso il 
      ferito era già morto, colle pugna serrate,  la bocca contratta dal 
      dolore,  i  capelli ritti dal sudore dell'agonia;  gli occhi erano 
      rimasti aperti e minacciosi. 
      Vampa si avvicinò al cadavere e riconobbe Cucumetto. Dal giorno in 
      cui il bandito fu salvato dai due giovani  si  era  innamorato  di 
      Teresa, ed aveva giurato che la giovane sarebbe stata sua. Da quel 
      giorno, l'aveva spiata con assiduità; e profittando del momento in 
      cui  il suo amante l'aveva lasciata sola per andare ad indicare la 
      strada al viaggiatore l'aveva rapita e già la credeva sua,  quando 
      la  pallottola di Vampa diretta dal colpo d'occhio infallibile del 
      giovane pastore, gli aveva traversato il cuore. Vampa lo guardò un 
      momento senza la  minima  emozione  sul  viso  mentre  Teresa,  al 
      contrario, tutta tremante ancora, non osava avvicinarsi al bandito 
      morto che a piccoli passi, esitando uno sguardo sul cadavere al di 
      sotto  della  spalla  del  suo  amante.  Dopo  un momento Vampa si 
      rivolse alla sua innamorata. 
      "Sta bene, tu sei già vestita. Ora tocca a me prepararmi." 
      Infatti Teresa era vestita da  capo  a  piedi  col  costume  della 
      figlia del conte di San Felice.  Vampa prese il corpo di Cucumetto 
      fra le  braccia,  e  lo  trasportò  nella  grotta,  mentre  Teresa 
      l'aspettava fuori.  Se fosse passato un altro viaggiatore, avrebbe 
      veduto una cosa strana,  cioè una pastorella guardare  il  gregge, 
      vestita  di  cachemire coi pendenti alle orecchie,  una collana di 
      perle degli spilli di diamanti,  e  dei  bottoni  di  zaffiri,  di 
      smeraldi  e di rubini.  Senza dubbio avrebbe creduto di tornare ai 
      tempi di Florian e di ritorno  a  Parigi,  avrebbe  assicurato  di 
      avere  incontrata  la  pastorella  delle  Alpi  ai piedi dei monti 
      Sabini.  Un quarto d'ora dopo,  Vampa uscì dalla  grotta.  Il  suo 
      costume non era meno elegante, nel suo genere di quello di Teresa. 
      Aveva una veste di velluto granato coi bottoni d'oro cesellati, un 
      giubbetto di seta tutto ricoperto di galloni, una sciarpa annodata 
      intorno al collo, un portacartucce tutto in oro ed in seta rossa e 
      verde,  i  pantaloni  di  velluto celeste attaccati al disotto del 
      ginocchio colle fibbie di diamanti le ghette  di  pelle  di  daino 
      ricamate  con mille arabeschi,  ed un cappello su cui sventolavano 
      dei nastri di ogni genere;  due catene da orologio pendevano dalla 
      sua   cintura   ed   un   magnifico   pugnale   era  attaccato  al 
      portacartucce. 
      Teresa gettò un grido  di  ammirazione:  Vampa  sotto  quest'abito 
      assomigliava ad una pittura di Leopoldo Robert o di Schnetz. Aveva 
      indossato  il costume completo di Cucumetto.  Il giovane s'accorse 
      dell'effetto che produceva sulla sua fidanzata,  ed un sorriso  di 
      orgoglio gli sfiorò le labbra. 
      "Ora dimmi,  Teresa,  sei pronta a dividere la mia sorte qualunque 
      essa possa essere?" 
      "Oh! sì" gridò la ragazza con entusiasmo. 
      "A seguirmi ovunque andrò?" 
      "Anche in capo al mondo." 
      "Allora prendi il mio braccio,  e  partiamo,  poiché  non  abbiamo 
      tempo da perdere." 
      La  pastorella intrecciò il suo al braccio dell'innamorato,  senza 
      neppure domandargli dove la conduceva,  perché in quel momento  le 
      sembrava bello,  superbo e potente. E tutti e due si incamminarono 
      verso la foresta di cui in breve tempo passarono il confine. 
      Non fa bisogno dire che Vampa conosceva  tutti  i  sentieri  della 
      montagna.  S'inoltrò dunque nella foresta senza esitar neppure per 
      poco,   e  quantunque  non  vi  fosse  praticata  alcuna   strada, 
      riconosceva  la direzione che doveva seguire dal solo guardare gli 
      alberi ed i cespugli.  Camminarono in tal modo per circa un'ora  e 
      un quarto. 
      Dopo  giunsero  nel punto più fitto del bosco.  Un torrente il cui 
      letto era secco,  conduceva in  una  gola  profonda.  Vampa  prese 
      questo  strano  sentiero,  che,  incassato  fra  le  due  rive,  e 
      ottenebrato dall'ombra degli alberi, sembrava il sentiero d'Averno 
      di cui parla Virgilio.  Teresa,  tornata timorosa  all'aspetto  di 
      questo  luogo  selvaggio  e  deserto  si stringeva contro la guida 
      senza dir parola;  ma siccome lo vedeva  camminare  con  un  passo 
      sempre uguale,  e una calma sempre profonda era sul suo viso,  lei 
      aveva la forza di dissimulare la sua emozione. 
      Subito,  dieci passi lontano da loro,  un uomo sembrò staccarsi da 
      un  albero dietro cui era nascosto,  e prendendo col suo fucile di 
      mira Vampa, gridò: 
      "Non fare un passo di più o sei morto." 
      "Andiamo via!" disse Vampa,  facendo  con  la  mano  un  gesto  di 
      disprezzo, mentre Teresa non dissimulando il terrore, si stringeva 
      sempre più contro di lui. "I lupi forse si sbranano fra loro?" 
      "Chi sei tu?" domandò la sentinella. 
      "Sono Luigi Vampa, il pastore della fattoria dei San Felice. 
      "Che vuoi?" 
      "Voglio  parlare  ai  tuoi compagni che sono sulla piana di Rocca- 
      Bianca. 
      "Allora seguimi" disse la sentinella, "o piuttosto, giacché sai la 
      strada cammina avanti." 
      Vampa sorrise con aria di disprezzo alla cautela di questo bandito 
      passò avanti con Teresa,  e continuò il suo cammino  collo  stesso 
      passo fermo e tranquillo che lo aveva condotto fin là. Dopo cinque 
      minuti,  il bandito fece loro segno di fermarsi.  Essi obbedirono. 
      Il bandito imitò tre volte il grido  del  corvo,  un  altro  grido 
      eguale rispose a questo triplice appello. 
      "Ora puoi continuare la strada" disse il bandito. 
      Luigi  e Teresa si rimisero in cammino;  ma,  mentre s'inoltravano 
      Teresa tremante si  serrava  sempre  più  contro  il  suo  amante; 
      infatti attraverso gli alberi si vedevano comparire degli uomini e 
      scintillare delle canne di fucile. L'altopiano di Rocca-Bianca era 
      sulla  sommità  di  una  piccola  montagna,  che doveva certamente 
      essere stata un piccolo vulcano estinto prima che  Romolo  e  Remo 
      disertassero  da  Alba  per andare a fondare Roma.  Teresa e Luigi 
      giunsero  alla  sommità,   e  nello  stesso  tempo  si   trovarono 
      circondati da una ventina di banditi. 
      "Ecco  un  giovane  che  vi  cerca,  e desidera parlarvi" disse la 
      sentinella. 
      "Che vuole da noi?" chiese colui che in assenza del capo ne faceva 
      le provvisorie funzioni. 
      "Voglio dirvi che  mi  sono  annoiato  di  fare  il  mestiere  del 
      pastore" disse Vampa. 
      "Ah,  capisco" disse il luogotenente,  "e tu vieni a domandarci di 
      entrare nelle nostre file?" 
      "Che sia il benvenuto" gridarono molti banditi  di  Ferrusino,  di 
      Pampinara e d'Anagni, i quali avevano riconosciuto Luigi Vampa. 
      "Sì,  ma  vengo a chiedervi un'altra cosa,  oltre che esser vostro 
      compagno. 
      "E che vieni a chiederci?" dissero con meraviglia i banditi. 
      "Vengo a domandarvi di essere  fatto  vostro  capitano"  disse  il 
      giovane. 
      I banditi dettero in una gran risata. 
      "E  che  hai  fatto  per  aspirare  a  questo  onore?"  domandò il 
      luogotenente. 
      "Ho ammazzato il vostro capo Cucumetto,  di cui porto le  spoglie" 
      disse Luigi,  "ed ho messo a fuoco la villa di San Felice per dare 
      il corredo di nozze alla mia fidanzata." 
      Un'ora  dopo,   Luigi  Vampa  era  eletto  capitano  al  posto  di 
      Cucumetto." 
      "Ebbene,  mio caro Alberto" disse Franz volgendosi all'amico, "che 
      pensate ora di questo cittadino Luigi Vampa?" 
      "Dico che questo è un mito" rispose Alberto,  "e  che  non  è  mai 
      esistito." 
      "E che significa la parola mito?" domandò Pastrini. 
      "Sarebbe  troppo  lungo  a  spiegarsi,  mio caro Pastrini" rispose 
      Franz. 
      "E voi dite che mastro Vampa esercita in  questo  momento  la  sua 
      professione in queste vicinanze?" 
      "E  con  un  tale ardire che nessun bandito ne ha mai dato esempio 
      uguale." 
      "E la polizia non cerca d'impadronirsene?" 
      "Che volete?  Egli è d'accordo  ad  un  tempo  coi  pastori  della 
      pianura, coi pescatori del Tevere e i contrabbandieri della costa. 
      Se si cerca nelle montagne,  è sul fiume, se si insegue sul fiume, 
      prende l'alto mare;  poi d'improvviso  quando  si  crede  che  sia 
      rifugiato nell'isola del Giglio, di Gianutri, o di Montecristo, si 
      vede ricomparire in Albano, a Tivoli o alla Riccia." 
      "E qual è il suo modo di fare verso i viaggiatori?" 
      "Eh,  mio  Dio,  è  semplicissimo:  a seconda della distanza dalla 
      città, accorda loro otto ore, dodici ore, un giorno, per pagare il 
      loro riscatto; quando è passato il tempo accorda un'ora di grazia. 
      Al sessantesimo minuto di quest'ora se  non  ha  il  riscatto,  fa 
      saltare le cervella del prigioniero con un colpo di pistola, o gli 
      pianta un pugnale nel cuore, e tutto è finito!" 
      "Ebbene,  Alberto"  domandò  Franz al suo compagno,  "siete ancora 
      disposto ad andare al Colosseo per la strada fuori delle mura?" 
      "Certamente" disse Alberto, "se è la strada più pittoresca." 
      In questo momento batterono le  nove,  la  porta  si  aprì,  e  il 
      cocchiere comparve. 
      "Eccellenza" disse, "la carrozza è alla porta." 
      "Ebbene" disse Franz, "andiamo al Colosseo." 
      "Per la porta del Popolo, Eccellenza, o per le strade esterne?" 
      "Per le strade interne,  per Bacco!,  per le strade interne" gridò 
      Franz. 
      "Ah,  mio caro" disse Alberto alzandosi ed accendendo il suo terzo 
      sigaro, "in verità vi credevo più coraggioso!" 
      Dopo  queste parole i due giovani discesero le scale e salirono in 
      carrozza. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 34. 
                               LE APPARIZIONI. 
 
 
      Franz aveva trovato una  via  di  mezzo,  perché  Alberto  potesse 
      giungere  al  Colosseo  senza  passare  davanti  ad  alcuna rovina 
      antica,  e per conseguenza senza nulla togliere  alle  gigantesche 
      proporzioni del Colosseo. 
      Proporre  di  passare  per la via Sabina,  voltare ad angolo retto 
      davanti a Santa Maria Maggiore e giungere per la via urbana e  San 
      Pietro  in  Vincoli  alla  via del Colosseo.  D'altra parte questo 
      itinerario  offriva  anche  un  altro  vantaggio,  quello  di  non 
      distrarre  con  altre  impressioni Franz da quella prodotta in lui 
      dalla storia raccontata dal Pastrini,  e nella quale vi si trovava 
      mischiato  il  suo  anfitrione  di  Montecristo.   Perciò  si  era 
      appoggiato col gomito nell'angolo, ed era ricaduto in quelle mille 
      domande che infinite volte aveva già fatte a  se  stesso,  e  alle 
      quali mai era riuscito a dare una risposta soddisfacente. 
      Un'altra  cosa  gli  aveva  ancora  fatto  sovvenire  il suo amico 
      Sindbad il marinaio,  ed era la  relazione  tra  i  banditi  ed  i 
      marinai.  Ciò  che  aveva  detto  Pastrini  sul  rifugio che Vampa 
      trovava  nelle  barche  dei  pescatori  e   dei   contrabbandieri, 
      ricordava  a  Franz  quei  due  banditi  corsi ch'egli aveva visto 
      cenare insieme all'equipaggio del piccolo yacht,  che  deviando  a 
      bella posta dal suo cammino era approdato a Porto Vecchio col solo 
      scopo di metterli a terra. 
      Il  nome  che  il  suo  ospite  si  dava  di Conte di Montecristo, 
      pronunciato dall'albergatore dell'albergo Londra,  provava che era 
      lo  stesso  che  sosteneva  la  parte  filantropica sulle coste di 
      Piombino, di Civitavecchia, d'Ostia e di Gaeta,  come su quelle di 
      Corsica, di Toscana, di Spagna, non meno che su quelle di Tunisi e 
      di Palermo. 
      Era  una prova che egli abbracciava una cerchia di relazioni molto 
      estesa. 
      Ma per quanto queste riflessioni fossero presenti allo spirito del 
      giovane,  esse svanirono quando cominciò a farsi scorgere il tetro 
      e gigantesco spettro del Colosseo fra le cui rovine la luna faceva 
      passare quei lunghi e pallidi raggi, che sembra cadano dagli occhi 
      dei  fantasmi.  La carrozza si fermò a qualche passo dalla fontana 
      denominata "Meta sudans". 
      Il cocchiere aprì la portiera, i due giovani saltarono a terra,  e 
      si  trovarono  in  faccia  ad un cicerone,  che sembrava uscito di 
      sotto terra. Quello dell'albergo pure li aveva seguiti,  e così ne 
      ebbero due. 
      Del  resto  è  impossibile  poter  evitare  a Roma questo lusso di 
      guide: oltre il cicerone generale che s'impadronisce  di  voi  dal 
      momento  che  mettete  il piede sulla porta di un albergo o di una 
      locanda,  e che non vi abbandona che il giorno in cui  mettete  il 
      piede  fuori della città,  vi è pure un cicerone addetto a ciascun 
      monumento;  si giudichi dunque se si può restar privi di  cicerone 
      al Colosseo,  vale a dire al monumento per eccellenza,  che faceva 
      dire a Marziale: "Che Menfi cessi di vantare  i  barbari  miracoli 
      delle sue piramidi, che cessino di essere vantate le meraviglie di 
      Babilonia,  tutto  deve  annichilirsi  davanti  all'opera  immensa 
      dell'anfiteatro dei Cesari, e tutte le voci della celebrità devono 
      unirsi per lodare questo monumento. 
      Franz ed Alberto non tentarono nemmeno di sottrarsi alla tirannide 
      ciceronica,  molto più poi sarebbe stato  difficile  al  Colosseo, 
      perché  ivi le sole guide hanno il diritto di percorrere i diversi 
      punti praticabili del monumento,  colle torce accese.  Non  fecero 
      dunque alcuna resistenza, e si abbandonarono anima e corpo ai loro 
      conduttori.  Franz  conosceva  già  questa  passeggiata per averla 
      fatta dieci altre volte: ma siccome il suo compagno,  più novizio, 
      metteva  per  la  prima  volta  il piede nell'anfiteatro di Flavio 
      Vespasiano,  debbo confessarlo a sua lode,  nonostante il cicalare 
      ignorante delle guide,  egli era commosso da vive impressioni. Non 
      è possibile,  senza vederlo,  formarsi un'idea della maestà di una 
      simile  rovina,  le  cui  proporzioni sono tutte raddoppiate dalla 
      misteriosa chiarezza di  quella  luna  meridionale,  i  cui  raggi 
      sembrano i crepuscoli d'occidente. 
      Il  riflessivo  Franz,  fatti  appena  cento passi sotto i portici 
      interni, lasciò Alberto alle guide,  che non volevano rinunciare a 
      fargli  vedere  la fossa dei Leoni,  le stanze dei Gladiatori,  il 
      Palco dei Cesari,  e salì per una scala  mezzo  rovinata,  facendo 
      loro  continuare  il  metodico  giro,  si  assise all'ombra di una 
      colonna,  dirimpetto ad una curva che  gli  permetteva  di  potere 
      abbracciare  collo  sguardo  il  gigante  di marmo in tutta la sua 
      estensione.  Franz era là  da  circa  un  quarto  d'ora,  nascosto 
      dall'ombra della colonna,  ed occupato a guardare Alberto e coloro 
      che gli portavano  le  torce;  uscivano  in  quel  momento  da  un 
      romitorio posto all'altra estremità del Colosseo,  simili ad ombre 
      che segnano un fuoco fatuo.  Discendevano di  scalino  in  scalino 
      verso il luogo che era riservato alle Vestali, quando Franz sembrò 
      udire  il  rumore  di  una pietra che si staccasse e cadesse dalla 
      scala ch'egli pure aveva ascesa. 
      Certo non è cosa rara sentir cadere una pietra che sotto  i  piedi 
      del  tempo si stacca e va a rotolare nell'abisso;  ma questa volta 
      gli sembrò fosse il piede di un uomo,  e che il rumore  dei  passi 
      giungesse fino a lui,  sebbene chi li causava facesse di tutto per 
      renderli impercettibili. 
      Difatti, dopo un momento,  comparve un uomo,  uscendo gradatamente 
      dall'ombra   mentre  saliva  la  scala  la  cui  apertura,   posta 
      dirimpetto a Franz, era illuminata dalla luna. 
      Poteva  essere  un  viaggiatore  come  lui,   che  preferiva   una 
      meditazione  solitaria  al ciarlare insignificante delle guide,  e 
      per conseguenza la sua comparsa nulla aveva  di  sorprendente;  ma 
      all'esitazione  colla  quale salì gli ultimi scalini,  al modo con 
      cui, giunto sul piano,  si fermò e parve mettersi in ascolto,  era 
      evidente essere venuto là con qualche scopo. 
      Per  un  movimento  istintivo  Franz si nascose quanto più potette 
      dietro la colonna.  A dieci passi dal luogo ove  si  trovavano  la 
      volta era diroccata,  e, da una apertura rotonda come quella di un 
      pozzo, lasciava vedere il cielo tutto brillante di stelle. 
      Attorno a  questa  apertura  che  forse  da  qualche  secolo  dava 
      passaggio  ai  raggi  della  luna,  vegetavano dei cespugli il cui 
      verde spiccava con vigore  sul  pallido  azzurro  del  firmamento, 
      mentre  grandi  frasche  e  mazzi  di  ellera  pendevano da questa 
      terrazza superiore,  e ondulavano sotto la volta a guisa di  corde 
      flottanti. 
      Il personaggio che aveva attirata l'attenzione di Franz era in una 
      mezza  ombra  che non permetteva di distinguerne i tratti,  ma non 
      abbastanza oscura per  impedirgli  di  vedere  i  particolari  del 
      vestito. 
      Era  avvolto  in un gran mantello scuro,  un lembo,  gettato sulla 
      spalla sinistra,  gli copriva la parte inferiore del viso,  mentre 
      un cappello a larghe tese copriva la parte superiore.  L'estremità 
      del vestito era  illuminata  dai  raggi  obliqui  della  luna  che 
      passavano  dall'apertura,  e  che  permettevano  di  distinguere i 
      calzoni neri,  che elegantemente finivano su un paio di stivali di 
      pelle lucida. 
      Quest'uomo  apparteneva  evidentemente  se  non  all'aristocrazia, 
      almeno alla buona società. 
      Erano già trascorsi alcuni minuti da che era là,  e già cominciava 
      a  dare  qualche  segno  d'impazienza,  allorché si udì un piccolo 
      rumore nella terrazza sovrapposta.  Nel  medesimo  punto  un'ombra 
      intercettò la luce,  un uomo apparve all'orlo dell'apertura, gettò 
      uno sguardo penetrante nelle tenebre,  e vide l'uomo del mantello, 
      che,  reggendosi  ad  un  pugno  di  quelle frasche e di quei rami 
      d'ellera ondulante, si lasciò scivolare, e, giunto a tre o quattro 
      piedi dal suolo, saltò leggermente a terra. 
      Questi era interamente vestito da trasteverino. 
      "Scusatemi,  Eccellenza,  se  vi  ho  fatto  aspettare"  disse  in 
      dialetto romano, "però non sono in ritardo che di pochi minuti; le 
      dieci sono suonate or ora a San Giovanni in Laterano." 
      "Sono stato io che sono venuto prima, e non voi che avete tardato" 
      rispose lo straniero nel più puro toscano, "non facciamo cerimonie 
      perché quand'anche mi aveste fatto aspettare,  sarei ben certo che 
      sarebbe  stato  per  qualche  motivo  indipendente  dalla   vostra 
      volontà." 
      "Ed avete ragione,  Eccellenza, vengo da Castel Sant'Angelo, ed ho 
      avuto tutte le difficoltà possibili per poter parlare a Beppe." 
      "Chi è questo Beppe?" 
      "Beppe è un impiegato delle prigioni al  quale  passo  un  piccolo 
      compenso mensile per sapere ciò che succede in Castello." 
      "Ah, ah, vedo che siete un uomo pieno di cautele, mio caro." 
      "Che volete,  Eccellenza, non si sa ciò che può accadere: forse io 
      pure sarò un giorno o l'altro preso nella rete,  come quel  povero 
      Peppino,  ed  avrò io pure bisogno di un sorcio per rodere qualche 
      maglia della mia prigione." 
      "Alle corte, che avete saputo?" 
      "Che martedì vi saranno due esecuzioni,  alle due del  pomeriggio, 
      come è solito in certe ricorrenze particolari.  Uno dei condannati 
      sarà impiccato: è  un  miserabile  che  ha  ucciso  quella  stessa 
      persona  che  lo  aveva  allevato,   e  questi  non  merita  alcun 
      interesse; l'altro sarà decapitato, e questi è il povero Peppino." 
      "Che volete,  mio caro,  voi ispirate un terrore così  grande  non 
      solo   al   governo   pontificio,   ma  agli  Stati  vicini,   che 
      assolutamente si vuol dare un esempio." 
      "Ma Peppino non faceva neppure  parte  della  mia  banda;  era  un 
      povero  pastore  che  non  ha commesso altro delitto che quello di 
      fornirci viveri." 
      "E ciò lo fa vostro complice in piena regola.  Anzi vedete che gli 
      usano  dei riguardi.  Invece di impiccarlo,  come faranno a voi se 
      mai  vi   metteranno   le   mani   addosso,   si   contentano   di 
      ghigliottinarlo.   E   vedete  bene  che  daranno  due  spettacoli 
      differenti." 
      "Senza  contare  quello  che  gli  preparerò  io,  e  che  non  si 
      aspettano" soggiunse il trasteverino. 
      "Mio  caro,  permettetemi  di  dirvi  che  mi  sembrate  del tutto 
      disposto a fare qualche sciocchezza." 
      "Sono disposto a far di tutto per impedire  l'esecuzione  di  quel 
      povero diavolo,  che si trova nell'impiccio per avermi servito. Mi 
      terrei per un vile,  se non facessi qualche cosa per questo  bravo 
      giovane." 
      "E che fareste?" 
      "Metterò  una  ventina di uomini intorno al patibolo,  e quando vi 
      verrà condotto, ad un segnale che darò,  ci slanceremo col pugnale 
      alla mano sulla scorta, e lo porteremo via." 
      "Questa  è  una  cosa  troppo  incerta,  ed  io ritengo che il mio 
      disegno sia migliore del vostro." 
      "E qual è il disegno di Vostra Eccellenza?" 
      "Farei in modo  di  parlare  ad  uno  che  conosco  pregandolo  di 
      ottenere che l'esecuzione si differisca a quest'altro anno: quindi 
      nel corso dell'anno tornerei a parlare con commovente eloquenza ad 
      un altro tale che pure conosco, e lo farei evadere di prigione." 
      "Siete sicuro della riuscita?" 
      "Parbleu!" disse in francese l'uomo del mantello. 
      "Che vuol dire?" domandò il trasteverino. 
      "Vuol dire che farò più colle mie insinuanti macchinazioni che voi 
      con tutta la vostra gente,  coi loro pugnali,  le loro pistole, le 
      carabine ed i tromboni. Lasciatemi dunque fare." 
      "A meraviglia!  Ma,  ricordatevi bene,  se non ci  riuscirete,  ci 
      terremo sempre preparati." 
      "Tenetevi sempre preparati,  se così vi piace,  ma siate certi che 
      avrò la sua grazia." 
      "Ricordatevi che martedì è dopo domani.  Voi non avete più che  il 
      solo domani." 
      "Sta   bene,   ma  un  giorno  si  compone  di  ventiquattro  ore, 
      ciascun'ora  di  sessanta  minuti,   ciascun  minuto  di  sessanta 
      secondi,   e   in   ottantaseimilaquattrocento  secondi  si  fanno 
      moltissime cose." 
      "Come sapremo se Vostra Eccellenza è riuscita?" 
      "E' semplicissimo: ho preso in fitto le tre  ultime  finestre  del 
      caffè Ruspoli,  se ho ottenuta la grazia,  le due finestre ai lati 
      avranno un tappeto di damasco giallo,  e quella di mezzo  ne  avrà 
      uno di damasco bianco con una croce rossa." 
      "Sta benissimo. E da chi farete presentar la grazia?" 
      "Inviatemi  uno dei vostri uomini travestito da confratello,  e la 
      consegnerò  a  lui.  Mediante  questo  travestimento,  egli  potrà 
      giungere fino ai piedi del patibolo, e rimetterà il foglio al capo 
      della confraternita che lo passerà al carnefice.  Frattanto,  fate 
      sapere questa notizia a Peppino,  che egli non abbia a  morire  di 
      paura,  o  non abbia a divenir pazzo,  che sarebbe come farci fare 
      un'opera buona inutilmente." 
      "Ascoltate,  Eccellenza"  disse  il  trasteverino,   "io  vi  sono 
      affezionato, ne siete convinto?" 
      "Lo spero almeno." 
      "Ebbene, se voi salvate Peppino, la mia non sarà più affezione, ma 
      per l'avvenire sarà cieca obbedienza." 
      "Ebbene,  fa' attenzione a ciò che dici, mio caro, forse un giorno 
      avrò a ricordarti questo discorso e chissà che un giorno  io  pure 
      abbia bisogno di te..." 
      "Allora, Eccellenza, mi troverete nel momento del bisogno, come io 
      avrò trovato voi;  foste anche all'altra estremità del mondo,  non 
      avreste che a scrivermi "fate questo" ed io lo  farei  sulla  fede 
      di..." 
      "Zitto" disse lo sconosciuto, "sento del rumore." 
      "Sono viaggiatori che visitano il Colosseo." 
      "E'  inutile  che  ci  trovino  insieme.   Queste  spie  di  guide 
      potrebbero riconoscervi,  e per quanto  sia  onorevole  la  nostra 
      relazione,  pur  non  ostante  se  si  sapesse  che siamo uniti in 
      amicizia,  questo legame  mi  farebbe  perdere  non  poco  il  mio 
      credito." 
      "E così, se voi avrete la grazia?..." 
      "La finestra di mezzo avrà il tappeto bianco ed una croce rossa." 
      "Se non la otterrete?..." 
      "Tutte e tre le finestre saranno addobbate coi tappeti gialli." 
      "E allora?..." 
      "Allora,  menate il pugnale a vostro piacere, vi prometto di esser 
      là per assistervi." 
      "Addio, Eccellenza; conto su di voi, e voi contate su di me." 
      A queste parole il trasteverino sparì  per  la  scala,  mentre  lo 
      sconosciuto  coprendosi più che mai il viso col mantello,  passò a 
      due passi da Franz e discese nell'arena per la gradinata esterna. 
      Un minuto dopo,  Franz intese il proprio nome ripetersi  sotto  le 
      volte:  era Alberto che lo chiamava.  Aspettò per rispondere che i 
      due interlocutori si fossero allontanati,  non volendo si  sapesse 
      esservi stato un testimonio,  il quale, se non aveva veduti i loro 
      volti non aveva però perduto una parola della loro  conversazione. 
      Dieci  minuti  dopo Franz percorreva la strada per andare a piazza 
      di Spagna, ascoltando distratto la dotta dissertazione che Alberto 
      faceva, dietro la testimonianza di Plinio e Calpurnio,  sulle reti 
      guarnite  di  punte di ferro che impedivano agli animali feroci di 
      slanciarsi sugli spettatori. 
      Egli lo lasciò discorrere senza contraddirlo;  aveva troppa fretta 
      di  trovarsi  solo,  per  pensare  senza  distrazione a quanto era 
      avvenuto vicino a lui. 
      Di questi due uomini l'uno certamente  era  italiano,  ed  era  la 
      prima  volta  che  lo  vedeva  e  lo  sentiva,  ma  non  era  così 
      dell'altro, e quantunque Franz non ne avesse distinte le forme del 
      viso,  sempre nascoste nell'ombra o  nel  mantello,  l'accento  di 
      questa  voce  lo  aveva  troppo colpito la prima volta che l'aveva 
      intesa,  perché potesse mai  più  risuonare  a  lui  vicino  senza 
      riconoscerla. 
      Vi era,  particolarmente nelle intonazioni ironiche,  qualche cosa 
      di stridulo e di metallico, che lo aveva fatto rabbrividire fra le 
      rovine del Colosseo, non meno che nella grotta di Montecristo; per 
      cui era ben convinto che fosse Sindbad il marinaio. 
      In  tutt'altra  congiuntura,   la  curiosità  che   gli   ispirava 
      quest'uomo  sarebbe  stata  così  grande,  che  si  sarebbe  fatto 
      riconoscere;  ma in questa occasione,  la conversazione che  aveva 
      intesa  era troppo intima per non essere trattenuto dal timore che 
      una sua comparsa  non  sarebbe  stata  gradita.  Lo  aveva  dunque 
      lasciato allontanare,  come si è veduto,  ma ripromettendosi se lo 
      avesse incontrato un'altra volta,  di non lasciarsi  sfuggire  una 
      seconda occasione. 
      Franz era troppo preoccupato per potere dormire bene.  La notte fu 
      impiegata a passare e ripassare tutte le più minute  particolarità 
      che   avevano  relazione  con  l'uomo  della  grotta,   e  con  lo 
      sconosciuto  del  Colosseo;  e  più  Franz  ci  pensava,   più  si 
      convinceva della sua opinione. 
      Si addormentò sul far del giorno, si svegliò molto tardi. 
      Alberto,  da  vero parigino,  aveva già le sue mire per la serata. 
      Aveva mandato a cercare un palco al teatro Argentina.  Franz aveva 
      molte  lettere  da  scrivere  in Francia,  e lasciò la carrozza ad 
      Alberto per tutta la giornata. 
      Alle cinque questi  ritornò;  aveva  già  portate  le  lettere  di 
      raccomandazione,   ricevuto  inviti  per  tutte  le  conversazioni 
      serali, e veduto Roma. 
      Un giorno era bastato ad Alberto per far tutto  questo,  ed  aveva 
      anche  avuto  il tempo di informarsi dell'opera che si cantava,  e 
      degli attori che la eseguivano. 
      L'opera s'intitolava Parisina; gli attori erano Cosselli,  Moriani 
      e  la Spech.  I nostri due giovani non erano disgraziati,  come si 
      vede,  avrebbero sentita la musica di  una  delle  migliori  opere 
      dell'autore della Lucia di Lammermoor, cantata dai tre artisti più 
      rinomati  d'Italia.  Alberto  non  aveva  mai  potuto abituarsi ai 
      teatri oltramontani,  nell'orchestra  dei  quali  non  è  permesso 
      andare  e  che  non  hanno né palchi,  né logge scoperte;  ciò era 
      penoso per un uomo che aveva il suo posto agli Italiani,  e  nella 
      loggia infernale all'Opéra. 
      Ciò  però  non  gl'impediva  di  vestirsi con accuratezza tutte le 
      volte che andava a teatro con Franz,  toilettes sprecate,  perché, 
      bisogna confessarlo a vergogna di uno dei rappresentanti più degni 
      del  nostro  "bonton",  in  quattro mesi che viaggiava l'Italia in 
      tutti i sensi, non aveva avuta ancora alcuna avventura. 
      Alberto qualche volta cercava di scherzare su questo argomento; ma 
      nel fondo del cuore era  grandemente  mortificato,  egli,  Alberto 
      Morcerf,  uno  dei  giovani  più intraprendenti,  non aveva ancora 
      fatta alcuna conquista.  La cosa era  tanto  più  penosa,  perché, 
      secondo  l'abituale modestia dei nostri cari compatrioti,  Alberto 
      era partito da Parigi con la ferma convinzione di avere in  Italia 
      il  più  felice  successo,  e di ritornare a formar la delizia del 
      Bastione di Gand col racconto delle sue avventure. 
      Ahimè!  non ne aveva avuta alcuna: le graziose contesse  genovesi, 
      fiorentine e napoletane si erano conservate per i loro mariti, per 
      i loro amanti,  ed Alberto aveva acquistata la crudele convinzione 
      che le italiane sanno essere almeno fedeli.  Anche se  non  voglio 
      dire che in Italia, come in ogni altro luogo, non vi siano le loro 
      eccezioni.   Eppure  Alberto  non  era  solo  un  cavaliere  molto 
      elegante, ma aveva anche dello spirito; in più, era visconte, e di 
      nobiltà recente,  è vero,  ma oggi  che  importa,  se  la  propria 
      nobiltà  porta  la  data  del  1393 o del 1815?  Oltre tutto aveva 
      cinquantamila lire di rendita;  e questo è  molto  più  di  quanto 
      bisogna  per essere un giovane alla moda in Parigi.  Era dunque un 
      poco umiliante non essere stato  ancora  seriamente  osservato  da 
      alcuna signora nelle città in cui aveva soggiornato. 
      Ma aveva stabilito di vendicarsi nel carnevale,  essendo questo un 
      tempo di libertà in tutti i paesi della terra in cui è  introdotta 
      questa  istituzione,  e  nella  quale anche i più stoici cadono in 
      qualche follia. 
      Ora,  siccome il carnevale  si  apriva  il  giorno  appresso,  era 
      necessario che Alberto facesse conoscere il suo programma prima di 
      quest'apertura. 
      Alberto  dunque,  con  questa  idea,  aveva preso in fitto uno dei 
      palchi  più  esposti,   e  prima  di  andarci  fece  una  toilette 
      irreprensibile. Era al primo ordine, e del resto le tre prime file 
      di palchi sono ugualmente ed indistintamente aristocratiche, e per 
      questo si chiamano gli ordini nobili.  Questo palco,  nel quale si 
      poteva stare in dodici senza pigiarsi,  era costato molto meno che 
      non sarebbero costati quattro posti in una loggia dell'"Ambigu". 
      Alberto  aveva ancora un'altra speranza,  ed era che se giungeva a 
      prendere un posto nel  cuore  di  qualche  bella  romana,  ciò  lo 
      avrebbe  naturalmente  condotto anche a conquistare un Posto nella 
      carrozza.  e per conseguenza a vedere il Corso  dall'alto  di  una 
      carrozza aristocratica o da una finestra principesca. 
      Tutte   queste  considerazioni  lo  tenevano  dunque  in  continuo 
      movimento. 
      Egli volgeva le spalle agli attori,  sporgeva per metà  fuori  del 
      palco  guardando  le più belle donne con un cannocchiale lungo sei 
      pollici, cosa che non sollecitava alcuna signora a ricompensare di 
      un solo sguardo, anche di semplice curiosità, tutti i movimenti di 
      Alberto. 
      Difatti ciascuna parlava dei suoi affari,  dei suoi  piaceri,  del 
      carnevale che cominciava l'indomani, senza fare attenzione né agli 
      attori, né alla musica, ad eccezione dei momenti in cui si volgeva 
      verso  il palcoscenico per sentire un recitativo di Cosselli,  per 
      applaudire a qualche bella nota del  Moriani,  per  gridare  brava 
      alla Spech. Indi le particolari conversazioni riprendevano il loro 
      corso abituale. 
      Verso  la  fine  del  secondo  atto  si  aprì la porta di un palco 
      rimasto vuoto fino allora,  e Franz vide entrarvi una persona alla 
      quale  aveva  avuto  l'onore di essere stato presentato a Parigi e 
      che credeva ancora in Francia.  Alberto vide il movimento che fece 
      il suo amico a questa comparsa, e volgendosi a lui: 
      "Conoscete forse quella signora?" disse. 
      "Sì, che ve ne pare?" 
      "Graziosa,  mio caro;  è bionda. Oh, che capelli adorabili! E' una 
      francese?" 
      "No, è veneziana." 
      "Come si chiama?" 
      "La contessa G." 
      "Oh, io la conosco di nome" esclamò Alberto, "dicono che sia tanto 
      spiritosa quanto è bella. Per Bacco, avrei potuto farmi presentare 
      a lei a Parigi  all'ultimo  ballo  della  Villefort,  e  non  l'ho 
      avvicinata, sono un grande stupido!" 
      "Volete che ripari a questo torto?" domandò Franz. 
      "Come!  voi  la  conoscete con abbastanza intimità per presentarmi 
      nel suo palco?" 
      "Non ho avuto l'onore che di parlarle tre o quattro volte in  vita 
      mia,   ma  a  tutto  rigore  ciò  basta  per  non  commettere  una 
      sconvenienza." 
      In questo momento la contessa riconobbe Franz,  e colla  mano  gli 
      fece  un  grazioso cenno,  al quale egli rispose con un rispettoso 
      inchino di testa. 
      "Mi sembra che siate molto nelle sue grazie!" disse Alberto. 
      "Ecco ciò che inganna,  e a noi francesi farà  fare  sempre  mille 
      sciocchezze  all'estero:  sottomettere  tutto  ai  punti  di vista 
      parigini. Nella Spagna, e soprattutto in Italia, non giudicate mai 
      della intimità delle persone, dalla libertà dei rapporti.  Io e la 
      contessa ci troviamo simpatici, ed ecco tutto." 
      "Simpatici di cuore?" domandò ridendo Alberto. 
      "No, di spirito..." rispose seriamente Franz. 
      "Ed in quale occasione?" 
      "Nell'occasione  di  una passeggiata al Colosseo,  come quella che 
      abbiamo fatta insieme." 
      "Al chiaro di luna?" 
      "Sì." 
      "Soli?" 
      "Quasi." 
      "Ed avete parlato?..." 
      "Di morti." 
      "Ah, doveva essere una cosa assai piacevole.  Ebbene,  vi prometto 
      che se avrò la fortuna di essere il cavaliere della bella contessa 
      in una simile passeggiata, non le parlerò che dei vivi." 
      "E forse farete male." 
      "Frattanto, presentatemi alla contessa, come mi avete promesso." 
      "Subito, non appena sarà calato il sipario." 
      "Quanto è lungo questo diavolo di primo atto!" 
      "Ascoltate   il  finale,   è  bellissimo,   e  Cosselli  lo  canta 
      mirabilmente." 
      "Sì, ma che portamento!" 
      "Non si può essere però più drammatici della Spech." 
      "Quando si è intesa la Sontang e la Malibran..." 
      "Non trovate eccellente il metodo di Moriani?" 
      "A me non piacciono i bruni che cantano biondo." 
      "Ah, mio caro" disse Franz volgendosi, mentre Alberto continuava a 
      puntare il suo cannocchiale,  "in verità siete molto  difficile  a 
      contentare." 
      Finalmente  calò  il sipario con grande soddisfazione del visconte 
      di Morcerf,  che prese il cappello,  dette colla mano un'assestata 
      ai capelli,  alla cravatta,  ai polsini,  e fece osservare a Franz 
      ch'egli aspettava. 
      Siccome la contessa,  che Franz interrogava con  lo  sguardo,  gli 
      aveva fatto un segno impercettibile cogli occhi, per fargli capire 
      che  sarebbe  stato  il benvenuto,  così non tardò a soddisfare la 
      premura di Alberto,  e mentre faceva il  giro  del  corridoio,  il 
      compagno  ne  approfittava  per  accomodare  le  false  pieghe sul 
      colletto della camicia,  e sui rovesci dell'abito.  Batterono alla 
      porta  del  numero  4,  che  era il palco occupato dalla contessa. 
      Subito il giovane,  che sedeva a lato della contessa  sul  davanti 
      del palco,  si alzò cedendo il posto, secondo il costume italiano, 
      al nuovo arrivato,  che deve cederlo  a  sua  volta  quando  entra 
      un'altra visita. 
      Franz presentò Alberto alla contessa come uno dei giovani parigini 
      più  distinti  per  la sua posizione sociale,  per il suo spirito, 
      cosa d'altra parte vera,  perché a Parigi e  nel  circolo  in  cui 
      viveva Alberto era ritenuto un cavaliere irreprensibile.  Aggiunse 
      che afflitto di non aver potuto approfittare del  soggiorno  della 
      contessa a Parigi per farsi presentare a lei,  lo aveva incaricato 
      di riparare a questo errore, missione della quale si disimpegnava, 
      pregando la contessa, presso la quale aveva bisogno egli stesso di 
      un introduttore, di perdonare la sua indiscrezione. 
      La contessa rispose  facendo  un  grazioso  saluto  ad  Alberto  e 
      stendendo la mano a Franz. Invitato da lei, Alberto prese il posto 
      rimasto  vuoto sul davanti,  e Franz si sedette nella seconda fila 
      presso la contessa. 
      Alberto aveva ritrovato un eccellente argomento di  conversazione: 
      Parigi; parlava alla contessa delle loro comuni conoscenze. 
      Franz  capì  che  era  sul  terreno  che gli conveniva,  lo lasciò 
      parlare,   e  chiestogli  il  gigantesco  cannocchiale,   si  mise 
      anch'egli ad esplorare il teatro. 
      Sola,  sul davanti di un palco al terz'ordine di faccia, c'era una 
      donna molto bella,  con un costume alla greca,  portato con  tanta 
      disinvoltura, che si capiva essere quello il suo vestito abituale. 
      Dietro  ad essa,  nell'ombra,  si delineava la forma di un uomo di 
      cui era impossibile distinguere il viso. 
      Franz interruppe la conversazione di Alberto con la  contessa  per 
      chiedere a quest'ultima se conosceva la bella albanese tanto degna 
      di  attirare  l'attenzione  non solo degli uomini,  ma anche delle 
      donne. 
      "No" disse lei,  "tutto ciò che so,  è che si  trova  a  Roma  dal 
      principio  della  stagione;  perché  all'apertura  del teatro l'ho 
      vista  dove  è  ora,   e  da  un  mese  non  è  mancata   ad   una 
      rappresentazione,  ora  accompagnata  dall'uomo  con lei in questo 
      momento, ora semplicemente seguita da un domestico moro." 
      "Come la trovate, contessa?" 
      "Estremamente bella. Medora doveva rassomigliare a questa donna." 
      Franz e la contessa si scambiarono un sorriso,  poi questa riprese 
      il  dialogo  con  Alberto,  e  Franz  seguitò  a  fissare la bella 
      albanese. 
      Il sipario si alzò per la rappresentazione del ballo.  Era uno dei 
      buoni  balli italiani,  messo in scena dal famoso Henry,  che come 
      coreografo, si era fatta in Italia una reputazione colossale,  che 
      poi il disgraziato perse al Teatro Nautico,  per uno di quei balli 
      ove dal primo personaggio all'ultima comparsa tutti  prendono  una 
      parte  attiva  all'azione,  e  centocinquanta  persone fanno nello 
      stesso tempo lo stesso gesto,  ed alzano o il medesimo braccio,  o 
      la medesima gamba. 
      Questo ballo era intitolato Dorliska. 
      Franz  era  troppo  preoccupato  della sua bella greca per potersi 
      occupare del ballo. 
      Quanto a lei,  prendeva un manifesto piacere a questo  spettacolo, 
      piacere che formava una singolare opposizione con la noncuranza di 
      colui che l'accompagnava,  e che durante tutta la rappresentazione 
      coreografica non fece un movimento,  sembrando  che  in  mezzo  al 
      rumore  infernale  che  facevano  le trombe,  i cembali e i piatti 
      cinesi in orchestra,  egli godesse le celestiali  dolcezze  di  un 
      sonno pacifico. 
      Finalmente  il  ballo  terminò,  ed  il sipario calò in mezzo agli 
      applausi frenetici di una platea entusiasta. 
      Per quest'abitudine di separare col ballo i due  atti  dell'opera, 
      gl'intermezzi  fra  un atto e l'altro sono cortissimi in Italia: i 
      cantanti hanno tutto il tempo  di  riposarsi  e  di  fare  i  loro 
      travestimenti mentre i ballerini eseguono le loro danze. 
      L'introduzione del secondo atto cominciò. 
      Franz  vide  che,  ai primi colpi d'archetto,  il dormiente andava 
      alzandosi lentamente, e si avvicinava alla greca, che si volse per 
      dirgli qualche parola,  quindi tornò ad appoggiarsi al davanti del 
      palco.  La figura dell'interlocutore si teneva sempre fra l'ombra, 
      e Franz non poteva distinguere i tratti del volto. 
      Rialzato  il  sipario,   gli  attori  attirarono   necessariamente 
      l'attenzione  di  Franz;  gli  occhi  lasciarono per un momento il 
      palco della bella greca per andare verso la scena. 
      Il secondo atto,  come ognuno sa,  comincia col duetto del  sogno: 
      Parisina,  dormendo,  lascia sfuggire, davanti ad Azzo, il segreto 
      del suo amore per Ugo.  Lo sposo tradito passa per tutti i  furori 
      della gelosia, fino a che, convinto dell'infedeltà della sposa, la 
      sveglia  per  annunziarle la vicina vendetta.  Questo duetto è uno 
      dei più belli, dei più espressivi,  dei più terribili usciti dalla 
      penna di Donizetti. 
      Franz lo sentiva per la terza volta, e quantunque non passasse per 
      un melomaniaco arrabbiato, produsse su di lui un effetto profondo. 
      Stava  per  congiungere  i  suoi  applausi  a quelli del pubblico, 
      allorché le sue mani rimasero sospese in  aria,  ed  i  bravi  che 
      stavano per uscirgli di bocca, si estinsero sulle labbra. 
      L'uomo  del  palco  si  era  alzato in piedi e la sua testa veniva 
      rischiarata dalla luce:  Franz  riconobbe  in  lui  il  misterioso 
      abitante  di  Montecristo,  quello  che  la  sera  innanzi gli era 
      sembrato di aver individuato fra le rovine del Colosseo. 
      Non c'era più dubbio, lo strano viaggiatore era a Roma. 
      Senza fallo,  la fisonomia di Franz era in armonia col  turbamento 
      che gettava nel suo spirito quest'apparizione,  poiché la contessa 
      lo guardò, scoppiò in una risata, e gli chiese ciò che avesse. 
      "Signora contessa" rispose Franz,  "poco fa  vi  ho  domandato  se 
      conoscevate quella donna albanese: ora vi domando se conoscete suo 
      marito." 
      "Niente più di lei!" rispose la contessa. 
      "L'avete mai osservato?" 
      "Ecco una domanda alla francese!  Sapete bene che per noi italiane 
      non c'è altro uomo al mondo se non quello che amiamo!" 
      "E' giusto!" rispose Franz. 
      "In ogni modo" disse lei applicando ai suoi occhi il  cannocchiale 
      di  Alberto,  e  dirigendolo  verso  il palco,  "lui dev'essere un 
      qualche  dissotterrato,  qualche  morto  uscito  dalla  tomba  col 
      permesso dei becchini, poiché mi sembra spaventosamente pallido." 
      "E' sempre così..." rispose Franz. 
      "Voi  dunque  lo conoscete?" domandò la contessa.  "Allora sono io 
      che vi domando chi è?" 
      "Credo di averlo veduto altre volte, e mi sembra di riconoscerlo." 
      "Infatti" disse lei,  facendo un movimento colle sue belle  spalle 
      come se un brivido le percorresse le vene,  "capisco che quando un 
      tal uomo si è visto una volta, non si dimentica più." 
      L'effetto che Franz aveva provato non  era  dunque  un'impressione 
      particolare, perché un altro l'aveva risentita al pari di lui. 
      "Ebbene!"  domandò allora alla contessa,  dopo che l'ebbe guardato 
      una seconda volta, "che pensate di quell'uomo?" 
      "A me sembra che sia lord Ruthwen in carne ed ossa." 
      Infatti questo nuovo ricordo di Byron  colpì  Franz;  se  qualcuno 
      poteva fargli credere l'esistenza dei vampiri, era quest'uomo. 
      "Bisogna ch'io sappia chi è..." disse Franz alzandosi. 
      "Oh,  no" gridò la contessa,  "no,  non mi lasciate! Ho contato su 
      voi per accompagnarmi a casa, ed ora vi trattengo." 
      "Come,  veramente" le disse  Franz,  accostandosele  all'orecchio, 
      "avete paura?" 
      "Ascoltate"  disse  lei,  "Byron  mi  ha  giurato  che  credeva ai 
      vampiri, mi ha assicurato di averne veduti, e me ne ha descritti i 
      loro visi; ebbene, assomigliano perfettamente a quell'uomo là, con 
      i capelli neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma,  quel 
      pallore mortale; poi aggiungete che non è con una donna come tutte 
      le altre,  è con una straniera...  una greca...  una scismatica... 
      senza dubbio con una maga al  par  di  lui...  Ve  ne  prego,  non 
      partite. Domani vi metterete sulle sue tracce, se così vi aggrada, 
      ma questa sera vi ritengo impegnato." 
      Franz insistette. 
      "Ascoltate"  disse  lei  alzandosi,  "io  me  ne  vado,  non posso 
      fermarmi sino alla fine dello spettacolo,  perché ho gente in casa 
      che  mi  aspetta...  Sarete così poco galante da negarmi la vostra 
      compagnia?" 
      Franz non aveva altra risposta a dare che  prendere  il  cappello, 
      aprire la porta, e presentare il braccio alla contessa. 
      E questo fece. La contessa era veramente molto commossa: lo stesso 
      Franz non poteva sfuggire ad un certo terrore superstizioso, tanto 
      più  naturale  in  quanto  nella  contessa  era il prodotto di una 
      sensazione distinta, ed in lui il risultato di strani ricordi. 
      Nel salire in carrozza sentì che la contessa tremava. 
      La ricondusse fino a casa: non era vero  che  era  attesa,  gliene 
      fece perciò dei rimproveri. 
      "In verità" disse lei,  "non mi sento bene, ed ho bisogno di esser 
      sola, la vista di quell'uomo mi ha sconvolta." 
      Franz fece atto di ridere. 
      "Non ridete" gli disse  lei,  "d'altra  parte,  non  ne  avete  la 
      volontà. Promettetemi una cosa..." 
      "E quale?" 
      "Promettetela." 
      "Tutto  quel  che vorrete,  eccetto di rinunziare a scoprire chi è 
      quell'uomo.  Ho dei motivi che non posso dirvi per  desiderare  di 
      sapere chi sia, donde venga e dove vada." 
      "Donde  venga  non lo so,  ma dove vada,  ve lo posso dire a colpo 
      sicuro: va all'inferno." 
      "Ritorniamo alla promessa che volevate da me." 
      "Ah,  si tratta di tornare direttamente all'albergo e  cercare  di 
      non  veder questa sera quell'uomo.  Vi è una certa affinità fra le 
      persone che si lasciano e quelle che si raggiungono;  non vogliate 
      servire  di tramite fra quell'uomo e me.  Domani corretegli dietro 
      come più vi aggrada,  ma non me lo presentate mai,  se non  volete 
      vedermi morire di paura.  Dopo ciò,  buona sera; cercate di dormir 
      bene, quanto a me, sento che non dormirò!" 
      A queste parole la contessa si  allontanò  da  Franz,  lasciandolo 
      irresoluto,  nel dubbio se si era divertita alle sue spalle,  o se 
      aveva veramente sentita la paura espressa. 
      Ritornando all'albergo,  Franz ritrovò Alberto in veste da camera, 
      con  larghi  calzoni e voluttuosamente disteso sopra una poltrona, 
      fumando un sigaro. 
      "Ah, siete voi" disse, "non vi aspettavo che domattina." 
      "Mio caro Alberto" rispose Franz, "colgo l'occasione di dirvi, una 
      volta per  sempre,  che  avete  la  più  falsa  idea  delle  donne 
      italiane;  mi  sembra  pertanto  che  le  vostre sconfitte amorose 
      avrebbero dovuto farvela perdere." 
      "Che volete, non c'è niente da capire con questi diavoli di donne: 
      vi danno la mano,  ve  la  stringono,  vi  parlano  a  bassa  voce 
      all'orecchio, si fanno accompagnare a casa; con la quarta parte di 
      tal congegno una parigina perderebbe la sua reputazione." 
      "Eh,  questo  accade  precisamente,  perché  non  hanno  nulla  da 
      nascondere, perché vivono in pieno giorno,  ecco,  perché le donne 
      usano tanti pochi riguardi nel bel paese là dove il sì suona, come 
      dice  Dante.  D'altra  parte,  vedeste bene,  la contessa ha avuto 
      veramente paura." 
      "Paura di che?  Di quell'onest'uomo di faccia  a  noi  con  quella 
      bella greca?  Ho voluto vederci chiaro quando sono usciti,  e sono 
      andato loro incontro nel corridoio.  Non  so  dove  diavolo  avete 
      prese  tutte  le  vostre  idee dell'altro mondo!  E' un bellissimo 
      giovane molto elegante,  e gli abiti hanno l'aspetto d'esser fatti 
      in Francia da Blin o da Humann.  E' un po' pallido, è vero, ma voi 
      sapete che il pallore è un marchio di distinzione." 
      Franz sorrise, perché Alberto aveva la pretesa d'esser pallido. 
      "Io pure" disse Franz,  "sono convinto che le idee della  contessa 
      su  quest'uomo siano prive di buon senso.  Ha parlato vicino a voi 
      ed avete udita qualcuna delle sue parole?" 
      "Ha parlato,  ma in dialetto;  ho riconosciuto l'idioma e  qualche 
      parola  greca sfigurata.  Bisogna che sappiate,  mio caro,  che in 
      collegio ero molto valente in greco." 
      "Parlava dunque un dialetto greco." 
      "E' probabile." 
      "Non vi è dubbio" mormorò Franz, "è lui." 
      "Che dite?..." 
      "Niente... Ma che facevate voi là?" 
      "Vi preparavo una sorpresa." 
      "Quale?" 
      "Sapete che è impossibile ritrovare una carrozza?" 
      "Per Bacco!  dopo che abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente 
      possibile fare..." 
      "Ebbene, ho un'idea meravigliosa." 
      Franz  guardò  Alberto,  come  non  avesse  gran fiducia nella sua 
      immaginazione. 
      "Mio caro" disse Alberto,  "mi onorate di uno  sguardo  tale,  che 
      meriterebbe vi domandassi soddisfazione." 
      "Sono disposto a darvela, amico mio, se la vostra idea è ingegnosa 
      quanto dite." 
      "Ascoltate." 
      "Ascolto." 
      "Non c'è mezzo di procurarsi una carrozza?" 
      "No." 
      "Neanche cavalli?" 
      "No, ugualmente." 
      "Ma sarà facile procurarsi un carretto?" 
      "Forse." 
      "E un paio di buoi?" 
      "E' probabile." 
      "Ebbene,  mio  caro,  ecco  ciò  che  ci  serve.  Faccio ornare il 
      carretto, ci mascheriamo da mietitori napoletani, e rappresentiamo 
      al vero il magnifico quadro di Leopoldo Robert. Se per una maggior 
      somiglianza la contessa volesse vestirsi alla foggia  delle  donne 
      di  Pozzuoli o di Sorrento,  compirebbe la mascherata,  ed è tanto 
      bella che verrebbe presa per l'originale del quadro." 
      "Per Bacco" gridò Franz, "questa volta avete ragione, ecco un'idea 
      veramente felice." 
      "E tutta nazionale, rinnovata dai re dei poltroni,  mio caro.  Ah, 
      signori  romani,  voi  credete  che  si voglia andare a piedi come 
      lazzaroni,  e ciò perché avete penuria di carrozze e  di  cavalli? 
      Ebbene, ne inventeremo." 
      "E  avete  già  fatto  partecipe  qualcuno  di  questa  trionfante 
      invenzione?" 
      "Al nostro albergatore. Quando sono ritornato, l'ho fatto salire e 
      gli ho esposti i miei desideri.  Mi ha assicurato  che  non  vi  è 
      nulla di più facile. Volevo far dorare le corna dei buoi, ma mi ha 
      detto  che  richiederebbe  almeno tre giorni: bisognerà dunque che 
      tralasciamo questa superfluità." 
      "E dov'è lui?" 
      "Chi?" 
      "Il nostro albergatore..." 
      "In cerca del necessario; domani forse sarebbe tardi." 
      "Di modo che si darà la risposta questa sera stessa?" 
      "Io l'aspetto." 
      A queste parole la porta si aprì, e Pastrini sporse la testa: 
      "E' permesso?" disse. 
      "Certamente" gridò Franz. 
      "Ebbene" disse Alberto, "avete trovati il carretto ed i buoi?" 
      "Ho trovato di meglio" rispose, con un'aria molto soddisfatta. 
      "Ah,  mio caro Pastrini,  guardatevi" disse Alberto: "il meglio  è 
      nemico del bene." 
      "Le  Eccellenze Vostre si fidino di me" disse Pastrini col tono di 
      persona sicura. 
      "Ma infine che c'è?" domandò Franz a sua volta. 
      "Sapete" disse l'albergatore,  "che il conte di Montecristo  abita 
      su questo medesimo piano?" 
      "Credo bene che lo sappiamo" disse Alberto,  "poiché è per lui che 
      siamo alloggiati come due  studenti  della  rue  Saint-Nicolas  du 
      Chardonnet." 
      "Ebbene,  egli sa del vostro imbarazzo, e vi offre due posti nella 
      sua carrozza, e due posti alle sue finestre del palazzo Ruspoli." 
      Alberto e Franz si guardarono. 
      "Ma" domandò Alberto,  "dobbiamo  accettare  l'offerta  di  questo 
      straniero? Di un uomo che non conosciamo?" 
      "Che   uomo   è   questo  conte  di  Montecristo?"  domandò  Franz 
      all'albergatore. 
      "Un  ricchissimo  signore  siciliano  o   maltese,   non   lo   so 
      precisamente, ma nobile come un Borghese, e ricco come una miniera 
      d'oro." 
      "Mi  sembra"  disse Franz,  "che se questo signore avesse avuto le 
      maniere che decanta il nostro albergatore,  avrebbe  dovuto  farci 
      giungere il suo invito in altro modo, o con un biglietto, o..." 
      In quel momento fu battuto alla porta. 
      "Entrate" disse Franz. 
      Un  domestico  in  elegante  livrea  comparve  sulla  soglia della 
      camera. 
      "Vengo da parte del conte di Montecristo a recare questo biglietto 
      per il signor Franz di Epinay e per il signor visconte Alberto  di 
      Morcerf" disse. 
      E  consegnò  all'albergatore  il  biglietto  che  questi  passò ai 
      giovani. 
      "Il signor conte di Montecristo" continuò il domestico, "domanda a 
      questi signori il permesso di  potersi  presentare  a  loro,  come 
      vicino,  domattina;  avrà  l'onore d'informarsi in che ora saranno 
      visibili." 
      "In fede mia" disse Alberto a Franz,  "non c'è niente  da  ridire; 
      c'è tutto." 
      "Dite al conte" rispose Franz,  "che sarà nostro l'onore di fargli 
      visita." 
      Il domestico si ritirò. 
      "Ecco ciò che si chiama fare sfoggio di eleganza"  disse  Alberto. 
      "Davvero avete ragione, Pastrini, il vostro conte di Montecristo è 
      un uomo che conosce perfettamente le buone maniere." 
      "Allora accettate la sua offerta?" disse Pastrini. 
      "In fede mia sì" rispose Alberto.  "Anche se,  ve lo confesso,  mi 
      dispiace per il nostro carretto da mietitori,  e se non  vi  fosse 
      stata  la  finestra  del  palazzo  Ruspoli  per compensare ciò che 
      perdiamo,  credo che ritornerei al mio primo disegno: che ne  dite 
      Franz?" 
      "Dico che sono precisamente le finestre del palazzo Ruspoli che mi 
      hanno fatto risolvere ed accettare" rispose Franz. 
      Infatti  quest'offerta  dei  due posti ad una finestra del palazzo 
      Ruspoli aveva ricordato  a  Franz  la  conversazione  intesa  alle 
      rovine  del  Colosseo,  fra  lo  sconosciuto  ed  il trasteverino, 
      conversazione  nella  quale  l'uomo  del  mantello  scuro  si  era 
      impegnato ad ottenere la grazia del condannato. 
      Se  questi era,  come tutto faceva credere a Franz,  lo stesso che 
      gli era apparso al teatro Argentina, lo avrebbe riconosciuto senza 
      dubbio,   ed  allora  non  avrebbe  avuto  più  alcun  ostacolo  a 
      soddisfare la curiosità. 
      Franz   passò   buona   parte  della  notte  a  pensare  alle  due 
      apparizioni, e nel desiderare l'indomani. 
      Infatti, l'indomani tutto doveva chiarirsi,  e,  a meno che il suo 
      ospite di Montecristo non possedesse l'anello di Gips e la facoltà 
      di  rendersi  invisibile,  era  evidente  che questa volta non gli 
      sarebbe sfuggito. 
      Si svegliò prima delle otto. 
      Quanto ad Alberto,  siccome non aveva gli stessi motivi  di  Franz 
      per essere mattiniero, dormiva ancora tranquillamente. 
      Franz  fece  chiamare  l'albergatore,  che  si presentò coi soliti 
      ossequi. 
      "Pastrini" gli disse, "non ci deve essere oggi un'esecuzione?" 
      "Si,  Eccellenza;  ma se lo domandate per  avere  una  finestra  è 
      troppo tardi." 
      "No" rispose Franz, "d'altra parte se volessi assolutamente vedere 
      questo spettacolo, credo troverei posto sul Pincio." 
      "Oh,  presumevo  che  Vostra  Eccellenza  non volesse mettersi con 
      tutta  quella  canaglia  di  cui  il  Pincio  è  in  qualche  modo 
      l'anfiteatro naturale." 
      "E'  probabile  che  non  vi  andrò" disse Franz,  "ma desidererei 
      qualche particolare." 
      "Quale?" 
      "Vorrei sapere il numero dei condannati, i loro nomi,  e il genere 
      del loro supplizio." 
      "Non  poteva  capitare  più  a proposito,  Eccellenza,  proprio in 
      questo momento mi hanno portato le tavolette." 
      "Che cosa sono queste tavolette?" 
      "Le tavolette sono quadretti di legno che vengono  attaccati  agli 
      angoli  delle  contrade  il  giorno  prima dell'esecuzione e sulle 
      quali sono scritti i nomi dei  condannati,  la  causa  della  loro 
      condanna  e  il  genere  di  supplizio.  Questo avviso ha lo scopo 
      d'invitare i fedeli a pregar Dio  di  concedere  ai  colpevoli  un 
      sincero pentimento." 
      "E  ve  le  portano perché uniate le vostre preghiere a quelle dei 
      fedeli?" domandò Franz. 
      "No, Eccellenza, io me la sono intesa con quello che le attacca, e 
      me ne porta una copia,  come un altro mi porterebbe  un  manifesto 
      dello  spettacolo,   affinché  se  qualcuno  dei  miei  forestieri 
      desidera assistere all'esecuzione, sia avvertito." 
      "Ma questa è proprio un'attenzione delicata!" 
      "Oh" disse Pastrini,  "non faccio per vantarmi,  ma cerco di  fare 
      tutto  il  possibile  per  soddisfare  i  nobili  avventori che mi 
      onorano della loro confidenza." 
      "Me ne accorgo, e lo ripeterò a chi vorrà ascoltarmi,  siatene pur 
      sicuro. Frattanto desidererei una di queste tavolette." 
      "E'  presto  fatto"  disse l'albergatore aprendo la porta,  "ne ho 
      fatta mettere una qui sul pianerottolo." 
      Uscì, staccò la tavoletta e la presentò a Franz. 
      Ecco le parole dell'affisso patibolare. 
 
      "Si rende noto a tutti che martedì 22 febbraio,  primo  giorno  di 
      carnevale  saranno  per  Decreto del Tribunale e della Sacra Rota, 
      giustiziati sulla piazza del Popolo i nominati Andrea Rondolo, reo 
      di assassinio sulla persona di un rispettabilissimo  cittadino  di 
      Roma;  ed  il  nominato  Peppino  detto Rocca Priori,  convinto di 
      complicità col detestabile bandito Luigi Vampa e gli uomini  della 
      sua banda.  Il primo sarà impiccato,  e il secondo decapitato.  Le 
      anime caritatevoli sono pregate di  domandare  a  Dio  un  sincero 
      pentimento per questi due infelici condannati." 
 
      Questo  era ciò che Franz aveva inteso fra le rovine del Colosseo, 
      e  non  era  stato  cambiato  nulla  al  programma:  i  nomi   dei 
      condannati, la causa del supplizio e il genere di esecuzione erano 
      esattamente gli stessi. 
      Così,  secondo ogni probabilità, il trasteverino non era altro che 
      il bandito Luigi Vampa,  e l'uomo dal mantello  scuro  Sindbad  il 
      marinaio  che a Roma come a Porto Vecchio e a Tunisi proseguiva il 
      corso delle sue filantropiche spedizioni. 
      Frattanto il tempo passava, erano le nove, e Franz si disponeva ad 
      andare a svegliare Alberto, quando con sua grande sorpresa lo vide 
      uscir di camera vestito di tutto punto. 
      "Ebbene" disse Franz all'albergatore,  "ora che siamo pronti tutti 
      e due, credete che potremmo presentarci al conte di Montecristo?" 
      "Certamente;  ha  l'abitudine  di alzarsi di buon mattino,  e sono 
      sicuro che è alzato da più di due ore." 
      "E credete che non sarà indiscreto fargli visita a quest'ora?" 
      "No, certamente." 
      "In questo caso, Alberto, se siete pronto..." 
      "Perfettamente pronto." 
      "Andiamo a ringraziare il nostro vicino della sua cortesia." 
      "Andiamo." 
      Franz e Alberto non avevano che il pianerottolo  da  attraversare. 
      L'albergatore  li  precedeva,  e suonò in loro vece;  un domestico 
      venne ad aprire. 
      "I signori francesi" disse l'albergatore. 
      Il domestico s'inchinò e fece loro segno di entrare. 
      Essi attraversarono due camere ammobiliate con un  lusso  che  non 
      credevano ritrovare nell'albergo di Pastrini,  e furono introdotti 
      in un salotto di una perfetta eleganza. 
      Un tappeto di Turchia era steso sul  pavimento,  e  i  mobili  più 
      comodi  offrivano  i  loro  cuscini  imbottiti  e presentavano gli 
      schienali inclinati indietro. Magnifici quadri di pennello maestro 
      frammezzati da trofei di splendidissime armi,  erano  appesi  alle 
      pareti, e ricche portiere di trapunto pendevano davanti a tutte le 
      aperture. 
      "Se le Loro Eccellenze vogliono sedersi" disse il domestico, "vado 
      ad avvisare il signor conte." 
      E disparve da una porta. 
      Al  momento in cui questa si aprì,  il suono di una "guzla" giunse 
      fino ai due amici ma si estinse subito, la porta,  rinchiusa quasi 
      nello  stesso momento,  non aveva lasciato passare nel salone che, 
      per così dire, un soffio d'armonia. 
      Franz ed Alberto si scambiarono uno sguardo, e tornarono a volgere 
      la loro attenzione sui mobili, sui quadri e sulle armi. 
      A questa seconda ispezione tutto sembrò ancor  più  magnifico  che 
      alla prima. 
      "Ebbene" domandò Franz al suo amico, "che ne dite?" 
      "In fede mia,  mio caro, dico che bisogna che il nostro vicino sia 
      un qualche agente di cambio che ha giocato sui ribassi  dei  fondi 
      spagnoli, o qualche principe che viaggia incognito." 
      "Zitto"  gli  disse  Franz,  "questo  è  ciò che sapremo fra poco, 
      eccolo..." 
      Infatti il rumore di una porta che  girava  sui  cardini  si  fece 
      sentire,  e quasi subito fu alzata una portiera che lasciò passare 
      il proprietario di tutte queste ricchezze. 
      Alberto gli andò incontro, ma Franz rimase al suo posto. 
      Quegli che entrava era  infatti  l'uomo  dal  mantello  scuro  del 
      Colosseo,   lo  sconosciuto  del  palco,  l'ospite  misterioso  di 
      Montecristo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 35. 
                                 IL PATIBOLO. 
 
 
      "Signori" disse il conte di Montecristo, "abbiate le mie scuse per 
      essermi lasciato  prevenire;  ma  avrei  avuto  timore  di  essere 
      indiscreto  venendo  più  presto da voi.  D'altra parte mi avevate 
      fatto dire che sareste venuti,  ed io mi sono trattenuto a  vostra 
      disposizione." 
      "Franz  ed  io dobbiamo farvi mille ringraziamenti,  signor conte" 
      disse Alberto,  "voi ci avete  tolti  da  un  grande  impaccio,  e 
      stavamo per inventare un qualche veicolo fantastico al momento che 
      ci mandaste il vostro grazioso invito." 
      "Eh,  mio Dio, signori" rispose il conte facendo segno cogli occhi 
      ai due giovani di sedersi sopra un divano,  "la colpa è di  questo 
      imbecille  di  Pastrini  che  non  mi  ha  detto  prima  il vostro 
      impaccio,  e vi ha lasciati per così lungo tempo  nell'incertezza; 
      solo  e  isolato  come  sono  non  cercavo che un'occasione di far 
      conoscenza coi miei vicini.  Cosicché appena seppi  poter  esservi 
      utile in qualche cosa,  avete veduto con quale fretta ho afferrata 
      l'occasione di prestarvi i miei servigi." 
      I due giovani s'inchinarono. 
      Franz non aveva ancora trovata una sola parola da dire,  non aveva 
      ancora  presa  alcuna risoluzione,  e poiché il conte sembrava non 
      avesse volontà  di  riconoscerlo,  o  alcun  desiderio  di  essere 
      riconosciuto da lui non sapeva se doveva fare allusione al passato 
      con qualche parola qualunque, o lasciare il tempo all'avvenire per 
      portargli nuove prove. 
      Del resto, essendo sicuro che era quello stesso della sera innanzi 
      nel  palco,  non  poteva ugualmente assicurare che fosse quello al 
      Colosseo due sere prima: risolse dunque di  lasciar  camminare  le 
      cose  senza  fare  alcuna  osservazione diretta al conte.  D'altra 
      parte,  aveva una superiorità su lui era padrone del suo  segreto, 
      mentre  al  contrario  il  conte  non poteva avere alcun potere su 
      Franz, che non aveva nulla da nascondere. 
      Mentre  aspettava  gli  avvenimenti  decise  di  far   cadere   la 
      conversazione  su  un  punto  che  potesse  sempre  condurre a dei 
      chiarimenti. 
      "Signor conte" disse,  "ci avete offerto due  posti  nella  vostra 
      carrozza ed altri due alle finestre del palazzo Ruspoli;  potreste 
      ora indicarci come potremmo fare per procurarci un posto qualunque 
      sulla piazza del Popolo?" 
      "Ah,  sì,  è vero" disse il conte in modo distratto,  ma guardando 
      Morcerf con attenzione,  "ci dev'essere, se non sbaglio, in piazza 
      del Popolo qualche cosa di simile ad una esecuzione." 
      "Sì" rispose Franz, vedendo che veniva da sé dove voleva condurlo. 
      "Aspettate, aspettate,  credo di aver detto ieri al mio intendente 
      di  occuparsi  di  questo,  e  forse  potrò  rendervi anche questo 
      piccolo favore." 
      Allungò una mano,  e tirò il cordone del campanello.  Subito entrò 
      un  individuo sui quarantacinque cinquant'anni che somigliava come 
      due gocce d'acqua a  quel  contrabbandiere  che  aveva  introdotto 
      Franz  nella  grotta,   ma  che  non  fece  minimamente  segno  di 
      conoscerlo. 
      "Bertuccio" disse il conte,  "vi siete  incaricato,  come  ordinai 
      ieri, di trovarmi una finestra sulla piazza del Popolo?" 
      "Sì, Eccellenza" rispose l'intendente, "ma era troppo tardi." 
      "Come" disse il conte, increspando il sopracciglio, "vi avevo pure 
      ordinato di ritrovarne una?" 
      "E Vostra Eccellenza l'avrà;  è una finestra che era stata data in 
      fitto al principe Lobagneff;  ma sono stato  costretto  a  pagarla 
      cento..." 
      "Sta bene,  sta bene,  Bertuccio, risparmiate a questi signori dei 
      particolari  inutili;   voi  avete  la   finestra   e   questo   è 
      l'importante.   Date  l'indirizzo  della  casa  al  cocchiere,   e 
      trattenetevi sulla scala per accompagnarci. Basta così: andate." 
      L'intendente salutò, e fece un passo per ritirarsi. 
      "Aspettate!" riprese il conte.  "Fatemi il piacere di domandare  a 
      Pastrini  se  ha  ricevuta  la  tavoletta,  e se vuole inviarmi il 
      programma dell'esecuzione." 
      "E inutile" rispose Franz cavando  il  portafogli  di  tasca,  "ho 
      avuto questa tavoletta sotto gli occhi, e l'ho copiata, eccola." 
      "Allora,  Bertuccio,  potete ritirarvi, non ho più bisogno di voi. 
      Che ci avvisino soltanto quando sarà pronta la  colazione.  Questi 
      signori" continuò volgendosi ai due amici,  "mi faranno l'onore di 
      far colazione con me?" 
      "Davvero, signor conte" disse Alberto, "sarebbe un abusare..." 
      "No, al contrario,  mi fate un vero piacere...  Mi renderete tutto 
      ciò  a  Parigi,  l'uno  o  l'altro,  e  forse anche tutti e due... 
      Bertuccio, ordinate che preparino per tre." 
      E prese il foglio dalle mani di Franz. 
      "Noi dicevamo dunque" continuò col  tono  con  cui  avrebbe  letto 
      tutt'altro  avviso",  "che  saranno giustiziati oggi 22 febbraio i 
      nominati Andrea Rondolo,  reo d'assassinio  sulla  persona  di  un 
      rispettabilissimo  cittadino di Roma,  e il nominato Peppino detto 
      Rocca Priori convinto di complicità col detestabile bandito  Luigi 
      Vampa,  e  gli  uomini  della  sua  banda".  Hum!  "Il  primo sarà 
      impiccato,  e il secondo decapitato..." Sì,  infatti  precisamente 
      così  doveva  andare  la  faccenda,  ma  credo  che  da  ieri  sia 
      sopraggiunto qualche cambiamento nell'ordine della cerimonia." 
      "Ah" disse Franz, "quale cambiamento?" 
      "Sì,  ieri sera dal cardinale R.  presso il quale  ho  passata  la 
      serata, si parlava di qualche cosa come una dilazione accordata ad 
      uno dei due condannati." 
      "Ad Andrea Rondolo?" domandò Franz. 
      "No..."   rispose  negligentemente  il  conte,   "all'altro..."  e 
      guardando il foglio per ricordarsi il nome,  "...  a Peppino detto 
      Rocca  Priori...   Questo  vi  priverà  di  vedere  in  azione  la 
      ghigliottina,  ma vi resta l'altra esecuzione,  che è un supplizio 
      molto  imponente,  quando si vede per la prima volta,  ed anche la 
      seconda, mentre l'altro, che voi certo dovete conoscere,  è troppo 
      semplice,  troppo rapido,  e nulla c'è di inaspettato.  La mannaia 
      non sbaglia, non trema non colpisce in falso, non si ripete trenta 
      volte come il soldato che tagliava la testa al conte  di  Chalais, 
      ed  al  quale  forse  era  stato  raccomandato  da Richelieu.  Ah" 
      aggiunse il conte con  tono  sprezzante,  "non  mi  parlate  degli 
      europei  per  le  esecuzioni  capitali,  essi  non se ne intendono 
      affatto,   e  sono  nella  vera  infanzia,   o   piuttosto   nella 
      decrepitezza in rapporto al dare la morte." 
      "In  verità,  signor  conte" rispose Franz,  "si direbbe che avete 
      fatto uno studio comparato dei supplizi presso  i  diversi  popoli 
      del mondo." 
      "Ve ne sono pochi che io non abbia veduti." 
      "Ed avete trovato piacere ad assistere a questi spettacoli?" 
      "Il   mio   primo   sentimento   fu  la  ripugnanza,   il  secondo 
      l'indifferenza, il terzo la curiosità." 
      "La curiosità? La parola è veramente terribile, sapete?" 
      "Perché? Non c'è nella vita una preoccupazione più grave di quella 
      della morte...  Ebbene non è curioso studiare in quanti differenti 
      modi l'anima può uscir dal corpo,  e come,  secondo i caratteri, i 
      temperamenti,   ed  anche  i  costumi  dei   paesi,   gl'individui 
      sopportino questo supremo passaggio?" 
      "Non vi capisco bene" disse Franz,  "spiegatevi, perché non potete 
      credere quanto punga la mia curiosità ciò che mi dite." 
      "Ascoltate dunque" disse il conte, ed il suo viso diventò di fiele 
      nello stesso modo che il viso di un altro si  colora  col  sangue. 
      "Se  un uomo avesse fatto morire fra torture inaudite,  in mezzo a 
      tormenti senza fine vostro padre,  vostra madre,  la vostra amica, 
      uno  di  quegli  esseri  infine  che  quando vengono sradicati dal 
      nostro cuore vi lasciano un  vuoto  eterno  ed  una  piaga  sempre 
      sanguinosa,  credete  che  fosse sufficiente la riparazione che vi 
      accorda la società,  perché il ferro della ghigliottina è  passato 
      fra  la base dell'occipite e i muscoli delle spalle dell'uccisore, 
      e perché colui che vi ha fatto  soffrire  lunghi  anni  di  morali 
      sofferenze, ha provato qualche secondo di dolore fisico?" 
      "Sì,  lo  so" rispose Franz,  "la giustizia umana è insufficiente, 
      come consolatrice delle angosce sofferte;  può versar  sangue  per 
      sangue,  e niente più...  Non bisogna però chiederle più di quello 
      che può dare." 
      "Adesso vi proporrò un altro caso  materiale"  riprese  il  conte, 
      "quello  in  cui la società,  attaccata dalla morte violenta di un 
      individuo nei principi sui quali si fonda,  punisce la morte colla 
      morte.  Ma  non vi sono milioni di dolori dai quali possono essere 
      straziati i visceri dell'uomo,  senza che la società se ne  occupi 
      minimamente,  senza  ch'essa  gli  offra il mezzo insufficiente di 
      castigo di cui parlavamo or ora?  Non vi sono delitti per i  quali 
      il palo dei turchi,  i trogoli dei persiani, i nervi attortigliati 
      degl'indiani sarebbero supplizi troppo gentili,  e che tuttavia la 
      società indifferente lascia senza punizione?...  Rispondetemi, non 
      vi sono questi delitti?" 
      "Sì, e il duello è appena tollerato in alcuni paesi per punirli." 
      "Ah,  il duello!" gridò il conte.  "Graziosa maniera  di  giungere 
      alla  meta,  quando  questa  è  la  vendetta!  Un  uomo vi rapisce 
      l'amica, seduce vostra moglie, disonora vostra figlia; di una vita 
      intera,  che aveva il diritto di aspettarsi da Dio,  la  parte  di 
      felicità  che  ha  promesso  ad ogni uomo nel crearlo,  ha formato 
      un'esistenza di dolore, di miseria, o di infamia, e voi vi credete 
      vendicato  perché  a  quest'uomo,  che  vi  ha  messo  il  delirio 
      nell'anima e la disperazione nel cuore, avete passato il petto con 
      la spada o traversata la testa con una pallottola? Senza calcolare 
      che  spesso è il reo che riporta il vantaggio nel duello,  e viene 
      così scolpato agli occhi del mondo. No, no" continuò il conte, "se 
      avessi mai a vendicarmi, non mi vendicherei così." 
      "Voi disapprovate dunque il duello?  Dunque non vi  battereste  in 
      duello?" domandò a sua volta Alberto, meravigliato nel sentire una 
      tale teoria. 
      "No certamente, non mi batterei" disse il conte. 
      "Ma"  disse Franz al conte,  "con questa teoria che vi costituisce 
      giudice ed esecutore nella vostra propria causa, sarebbe difficile 
      contenervi nei limiti per fuggire gli  estremi,  che  sono  sempre 
      pericolosi,  e converrete senza difficoltà, che l'odio è cieco, la 
      collera sorda, e colui che vi mesce la vendetta, corre pericolo di 
      bere una bevanda amara." 
      "Anche questo può essere  vero,  e  qualche  volta  abbiamo  visto 
      avverarsi ciò che ora affermate;  ma, d'altra parte, il peggio che 
      potrebbe accadere ad un tale che avesse violato la legge,  sarebbe 
      d'incorrere  in  quest'ultimo  supplizio  di cui parlavamo or ora, 
      quello cioè che la filantropica rivoluzione francese ha sostituito 
      allo squarto ed alla ruota.  Ebbene,  che cosa è questo supplizio, 
      se si è vendicato?  In verità,  sono quasi spiaciuto che,  secondo 
      tutte  le  probabilità,   questo  miserabile  Peppino  non   venga 
      decapitato come si dice,  vedreste il tempo che vi s'impiega, e se 
      merita la pena di parlarne...  Ma,  sul mio  onore,  facciamo  una 
      conversazione  singolare  per essere il primo giorno di carnevale. 
      Come diavolo è avvenuto?  Ah,  mi ricordo: voi avete domandato  un 
      posto alla mia finestra...  Ebbene,  l'avrete! Frattanto andiamo a 
      tavola, poiché ecco che vengono ad annunciare che tutto è pronto." 
      Infatti un domestico aprì una delle quattro porte  del  salotto  e 
      disse la consueta frase: 
      "E' servito in tavola!" 
      I due giovani si alzarono e passarono nella sala da pranzo. 
      Durante  la  colazione,  che  riuscì eccellente,  e fu servita con 
      estrema  ricercatezza,   Franz  cercò  cogli  occhi   lo   sguardo 
      d'Alberto, per leggervi l'impressione che dovevano necessariamente 
      avergli  fatto  le  parole  del loro ospite ma sia che,  nella sua 
      abituale noncuranza, non vi avesse prestata grande attenzione, sia 
      che la massima del conte di Montecristo esternata in  rapporto  al 
      duello  lo  avesse  con  lui riconciliato,  sia finalmente che gli 
      antecedenti  raccontati,   conosciuti  particolarmente  da  Franz, 
      avessero raddoppiato solo l'effetto delle teorie del conte, non si 
      accorse  che  il  compagno fosse preoccupato;  anzi Alberto faceva 
      onore alla colazione come un uomo condannato da quattro  o  cinque 
      mesi  ad una cucina ben differente dalla sua.  Quanto al conte era 
      in preda ad una preoccupazione molto  viva,  che  pareva  ispirata 
      dalla  persona di Alberto,  ed assaggiò appena ciascun piatto;  si 
      sarebbe detto,  nel mettersi a tavola con i  suoi  convitati,  che 
      adempisse  un  semplice dovere di gentilezza,  e che aspettasse la 
      loro partenza per farsi portare qualche cibo strano e particolare. 
      Ciò ricordava suo malgrado a Franz,  il terrore che il conte aveva 
      ispirato alla contessa G. e la convinzione in cui l'aveva lasciata 
      che  il conte,  l'uomo che le aveva mostrato nel palco in faccia a 
      lei, era un vampiro. 
      Alla fine della colazione, Franz cavò l'orologio. 
      "Ebbene" disse il conte, "che fate dunque?" 
      "Ci scuserete signor conte" rispose Franz,  "ma noi abbiamo ancora 
      mille cose da fare." 
      "E quali?" 
      "Non  abbiamo  abiti  da  maschera,  ed  oggi  il mascherarsi è di 
      rigore." 
      "Non vi occupate di questo.  A quanto sembra abbiamo sulla  piazza 
      del  Popolo  una  stanza  privata;  vi  farò portare gli abiti che 
      m'indicherete e ci maschereremo là." 
      "Dopo l'esecuzione?" gridò Franz. 
      "Dopo, nel tempo, o prima, come vorrete..." 
      "In faccia al patibolo?" 
      "Che discorso è questo? Noi saremo presenti alla festa, ma staremo 
      nella nostra stanza privata." 
      "Sentite,  signor conte,  vi ho riflettuto bene" disse Franz,  "vi 
      ringrazio  della vostra gentilezza.  Mi contenterò di accettare un 
      posto nella vostra carrozza,  ed uno  alla  finestra  del  palazzo 
      Ruspoli;  vi  lascio  in  libertà  di  disporre del mio posto alla 
      finestra di piazza del Popolo." 
      "Ma voi perdete, ve ne prevengo,  una cosa molto curiosa" disse il 
      conte. 
      "Me  la  racconterete"  replicò Franz,  "e sono convinto che dalla 
      vostra bocca il racconto mi farà quasi tanta  impressione,  quanta 
      ne  potrei ricevere nel vedere il fatto.  D'altra parte più di una 
      volta ho progettato di assistere ad una esecuzione,  e non mi sono 
      mai potuto risolvere. E voi Alberto?" 
      "Io" rispose il visconte,  "ho veduto giustiziare Castaping..., ma 
      credo fossi un po' sbronzo quel giorno,  perché era il  primo  che 
      uscivo di collegio." 
      "Ma"  soggiunse  il  conte,  "non è una ragione,  che se non avete 
      fatta una cosa a Parigi non la dobbiate neppure  fare  all'estero: 
      quando  si viaggia è per istruirsi: quando si cambia luogo,  è per 
      vedere.  Pensate dunque quale meschina figura fareste,  quando  si 
      facessero delle domande relativamente a queste esecuzioni in Roma, 
      e  voi non sapeste rispondere altro che "non le vidi".  E poi,  si 
      dice che il condannato sia un infame malandrino,  un birbante  che 
      ha  ucciso  a colpi di alare un buon canonico che l'aveva allevato 
      come un figlio.  Se viaggiaste in Spagna,  non andreste a vedere i 
      combattimenti  dei  tori?  Ebbene  figuratevi sia un combattimento 
      quello che andiamo a vedere;  ricordatevi degli antichi romani  al 
      Circo,  dove  venivano  uccisi  trecento  leoni  e un centinaio di 
      uomini;  rammentate quegli ottantamila spettatori che battevano le 
      mani, o quelle sagge matrone che vi conducevano le loro figlie per 
      maritarle,  e  quelle  graziose vestali dalle mani bianche che col 
      pollice facevano un graziosissimo e piccolo segno che voleva dire: 
      "Via,  non siate pigri,  finite di ammazzarmi  quell'uomo,  che  è 
      mezzo morto." 
      "Vi andrete dunque, Alberto?" 
      "In fede mia, sì; esitavo come voi, ma l'eloquenza del conte mi ha 
      determinato." 
      "Andiamoci dunque,  poiché lo volete" disse Franz, "ma nel recarmi 
      alla piazza del  Popolo  desidererei  passare  per  il  Corso.  E' 
      possibile, signor conte?" 
      "A piedi sì, in carrozza non è permesso." 
      "Ebbene, vi andrò a piedi." 
      "Ma avete tanta necessità di passare per il Corso?" 
      "Sì, ho qualche cosa da sbrigare." 
      "Ebbene, passiamo tutti per il Corso. Manderemo la carrozza per la 
      strada  del  Babbuino  ad aspettarci sulla piazza del Popolo.  Del 
      resto anch'io ho piacere di passare per il Corso,  onde vedere  se 
      sono stati eseguiti alcuni ordini che ho dati." 
      "Eccellenza" disse un domestico aprendo la porta, "un uomo vestito 
      da confratello della buona morte chiede di parlarvi." 
      "Ah,  sì" disse il conte,  "so che cos'è. Signori, volete avere la 
      compiacenza di entrare nel  salotto?  Troverete  sulla  tavola  di 
      mezzo degli eccellenti sigari Avana... Vi raggiungerò fra poco." 
      I  due  giovani  si  alzarono  e uscirono da una porta,  mentre il 
      conte, dopo aver rinnovato loro le scuse, uscì dall'altra. 
      Alberto, che era un gran dilettante di sigari,  e che non riteneva 
      piccolo sacrificio l'esser privo dei sigari del Caffè di Parigi da 
      che  era in Italia,  si avvicinò alla tavola,  e mandò un grido di 
      gioia nel riconoscere del veri "puros". 
      "Ebbene"  gli  domandò  Franz,   "che   pensate   del   conte   di 
      Montecristo?" 
      "Che  ne  penso?"  disse Alberto,  grandemente meravigliato che il 
      compagno gli facesse una simile domanda.  "Penso  che  è  un  uomo 
      carissimo, che fa a meraviglia gli onori di casa sua, che ha molto 
      studiato,  che  ha  riflettuto  assai,  che  è come il Bruto della 
      scuola stoica,  e" aggiunse,  mandando una voluttuosa  fumata  che 
      salì  a  spirale  verso  il  soffitto,  "e  che,  oltre tutto ciò, 
      possiede degli eccellenti sigari." 
      Questa era l'opinione di Alberto sul conte.  Siccome  era  noto  a 
      Franz  che  Alberto  aveva la pretesa di non farsi mai un'opinione 
      degli uomini e delle cose che dopo mature riflessioni,  Franz  non 
      tentò di cambiar niente alla sua. 
      "Ma" disse, "avete notato una cosa singolare?" 
      "E quale?" 
      "L'attenzione con cui vi guardava." 
      Alberto rifletté un poco. 
      "Ah"  disse  con  un  sospiro,  "nulla  di  strano in questo: sono 
      assente da Parigi da quasi un anno,  e debbo avere degli abiti  di 
      un  taglio  dell'altro  mondo.  Il  conte  mi  avrà  preso  per un 
      provinciale. Disingannatelo, caro amico,  e ditegli,  ve ne prego, 
      alla prima occasione, che non è vero." 
      Franz sorrise; un momento dopo rientrò il conte. 
      "Eccomi, signori" disse, "e tutto per voi! Ho già dato gli ordini. 
      La  carrozza  andrà  a piazza del Popolo per la sua strada,  e noi 
      andremo per la nostra, se lo desiderate ancora, cioè per la strada 
      del Corso.  Su via,  prendete dunque qualcuno  di  questi  sigari, 
      signor  Morcerf..."  aggiunse,  strisciando  in  modo singolare le 
      sillabe di questo nome che pronunziava per la prima volta. 
      "In fede mia,  con gran piacere" disse Alberto,  "perché i  vostri 
      sigari  italiani  sono  ancora  peggiori di quelli della privativa 
      regia; quando verrete a Parigi vi renderò tutto questo." 
      "Ed io non rifiuto; conto di andarvi per qualche giorno,  e poiché 
      me  lo  permettete,  verrò  a battere alla vostra porta.  Andiamo, 
      signori,  andiamo,  non abbiamo tempo da perdere;  è mezzogiorno e 
      mezzo, partiamo..." 
      Tutti e tre discesero. 
      Allora il cocchiere prese gli ordini del padrone, seguì la via del 
      Babbuino,  mentre i pedoni risalivano per piazza di Spagna,  e per 
      via Frattina che conduce direttamente fra il palazzo  Fiano  e  il 
      palazzo Ruspoli. 
      Gli  sguardi di Franz furono diretti alle finestre di quest'ultimo 
      palazzo;  non aveva dimenticato il segnale convenuto al  Colosseo, 
      fra l'uomo del mantello scuro e il trasteverino. 
      "Quali  sono  le  vostre  finestre?" domandò al conte col tono più 
      naturale che potesse. 
      "Le tre ultime" rispose il conte con una negligenza non affettata, 
      perché non poteva indovinare a quale scopo gli veniva fatta questa 
      domanda. 
      Gli sguardi di Franz si portarono rapidamente alle tre finestre. 
      Quelle laterali erano parate con un tappeto di damasco  giallo,  e 
      quella  di  mezzo con un tappeto di damasco bianco che portava una 
      croce rossa. 
      L'uomo dal mantello scuro aveva  dunque  mantenuta  la  parola  al 
      trasteverino, e non c'era più dubbio, era precisamente il conte. 
      Le tre finestre erano vuote. 
      Da tutte le parti si facevano preparativi: si mettevano a posto le 
      sedie, si ergevano palchi, si paravano le finestre. 
      Le  maschere  non  potevano  comparire,  le  carrozze non potevano 
      entrare che dopo il suono della campana  del  Campidoglio;  ma  si 
      fiutavano  le  maschere dietro a tutte le finestre,  e le carrozze 
      dietro a tutte le porte. 
      Franz,  Alberto ed il conte continuarono  a  discendere  lungo  il 
      Corso:  a  seconda che si avvicinavano alla piazza del Popolo,  la 
      folla diveniva più fitta,  e,  al di sopra delle teste  di  questa 
      folla,  si  vedevano  due cose l'obelisco sormontato da una croce, 
      che  indica  il  centro  della  piazza,  e  davanti  all'obelisco, 
      precisamente  nel punto di corrispondenza visuale delle tre strade 
      del Babbuino,  del Corso e di Ripetta,  i due  travi  supremi  del 
      patibolo, fra i quali brillava l'acciaio forbito della falce. 
      All'angolo   della  strada,   c'era  l'intendente  del  conte  che 
      aspettava il padrone. 
      La finestra presa in fitto,  ad un prezzo senza dubbio esorbitante 
      che  il conte non aveva voluto far conoscere ai convitati,  era al 
      secondo piano del gran palazzo situato fra la strada del  Babbuino 
      e il Pincio, una specie di soggiorno che comunicava con una camera 
      da  letto;  ma  chiudendo  la porta di questa,  quelli che avevano 
      preso in fitto il soggiorno stavano come in casa loro. Sulle sedie 
      erano disposti dei vestiti da pagliaccio, di seta bianca e celeste 
      della più grande eleganza. 
      "Avendomi lasciata la scelta dei costumi" disse il  conte  ai  due 
      amici, "ho fatto preparare questi. Saranno ciò che di meglio verrà 
      indossato  in  questo  anno,  poi  sono ciò che vi è di più comodo 
      giacché la farina che getteranno si adatterà al costume." 
      Franz non intese che imperfettamente le parole del conte,  e forse 
      non  apprezzò  al  giusto  valore questa nuova gentilezza,  poiché 
      tutta  la  sua  attenzione  era  rivolta   allo   spettacolo   che 
      rappresentava la piazza del Popolo ed allo strumento terribile che 
      ne formava in quell'ora il principale ornamento. 
      Era la prima volta che Franz vedeva una ghigliottina.  Noi diciamo 
      ghigliottina,  ma la falce romana è presso  a  poco  della  stessa 
      forma del nostro strumento di morte. 
      La  falce  ha  la  forma  di  una  mezza luna,  taglia dalla parte 
      convessa cade da minore altezza: ecco tutta la diversità! 
      Due uomini,  seduti sulla tavola ad altalena,  dove viene steso il 
      condannato,  aspettavano,  e mangiavano,  a quanto sembrò a Franz, 
      del pane e della salsiccia.  Uno di  essi  sollevò  l'asse,  e  ne 
      estrasse  un  fiasco  di  vino,  ne bevve e passo il fiasco al suo 
      compagno: erano gli aiutanti del carnefice! 
      A questa sola vista,  Franz aveva sentito venirgli il sudore  fino 
      alla radice dei capelli. 
      I  condannati erano stati trasportati,  dalla sera innanzi,  dalle 
      carceri nuove alla chiesa di Santa Maria del  Popolo,  ed  avevano 
      passata  tutta  la  notte  assistiti  ciascuno da due preti in una 
      cappella chiusa da un cancello,  davanti al quale passeggiavano le 
      sentinelle cambiate d'ora in ora. 
      Una  doppia fila di gendarmi posti da ciascun lato della chiesa si 
      estendeva fino al patibolo, intorno al quale formava un circolo di 
      dieci piedi di spazio fra la ghigliottina ed il popolo. 
      Tutto il resto della piazza sembrava un selciato di teste d'uomini 
      e di donne delle quali molte avevano i loro bambini sulle  spalle, 
      e  questi  vedevano  meglio  di tutti,  perché venivano ad aver la 
      testa al di sopra delle altre. 
      Il Pincio sembrava un vasto anfiteatro con i  gradini  carichi  di 
      spettatori,  le  finestre  delle due chiese che formavano l'angolo 
      delle strade del Babbuino e di Ripetta col Corso, rigurgitavano di 
      curiosi privilegiati; gli scalini dei peristili sembravano un'onda 
      moventesi e variopinta che una marea incessante spingesse verso il 
      portico,  ciascuna sporgenza o rilievo di muro  che  potesse  dare 
      appoggio ad un uomo aveva la sua statua vivente. 
      Ciò  che  diceva  il  conte  era  dunque vero: ciò che vi è di più 
      curioso nella vita è lo spettacolo della morte. 
      E invece del silenzio,  come dovrebbe essere nella solennità di un 
      tale  spettacolo,  un  gran rumore usciva da quella folla,  rumore 
      composto di risa, di urli,  di grida giocose.  Era evidente,  come 
      aveva detto il conte,  che a questa esecuzione era intervenuta una 
      gran moltitudine di popolo,  non per la  cosa  in  sé  ma  per  la 
      coincidenza col principio del carnevale. 
      D'improvviso tutto questo rumore cessò come per incanto;  la porta 
      della chiesa era stata aperta. 
      La confraternita detta di San Giovanni Decollato comparve. Ciascun 
      membro era vestito di un sacco grigio aperto soltanto agli  occhi, 
      e   teneva   in  mano  una  torcia  accesa;   il  capo  di  questa 
      confraternita apriva la strada. 
      Dietro ai confratelli veniva un uomo di  alta  persona,  nudo,  ad 
      eccezione dei calzoni di tela,  alla cui cintola penzolava un gran 
      coltello nel fodero, e che portava sulla spalla destra un quantità 
      di corda nuova: era il carnefice.  Aveva i sandali allacciati alla 
      gamba con funicelle. 
      Dietro al carnefice camminavano, nell'ordine in cui dovevano esser 
      giustiziati, prima Peppino, e poi Andrea; ciascuno accompagnato da 
      due preti. Né l'uno né l'altro avevano gli occhi bendati. 
      Peppino camminava con passo molto sicuro; senza dubbio avvisato di 
      ciò che gli si preparava. 
      Andrea era sostenuto sotto le braccia da un prete. 
      Entrambi  baciavano,  ogni  decina  di  passi,  il  simbolo  della 
      Redenzione presentato dal confessore. 
      Franz sentì che solo questa vista gli faceva venir meno le  gambe; 
      guardò Alberto. 
      Era  pallido come la camicia e per un movimento meccanico gettò il 
      sigaro, quantunque non lo avesse fumato che a metà. 
      Il conte solo pareva impassibile.  Anzi di più: una leggera  tinta 
      rosea  adombrava  il  pallore livido delle sue guance,  il naso si 
      dilatava come un  animale  che  annusa  il  sangue,  e  le  labbra 
      lasciavano vedere i denti piccoli,  bianchi ed acuti,  come quelli 
      di un lupo d'Africa.  Tuttavia il suo viso aveva un'espressione di 
      dolcezza sorridente, che Franz non gli aveva mai veduta; gli occhi 
      soprattutto erano d'una ammirabile mansuetudine. 
      Frattanto  i  due  condannati  continuavano  a  camminare verso il 
      patibolo,  ed a seconda che avanzavano si potevano  distinguere  i 
      tratti del loro viso. 
      Peppino  era un bel giovane dai ventiquattro ai ventisei anni,  di 
      colorito scuro per il sole,  con lo sguardo  libero  e  selvaggio; 
      portava  la testa alta,  e sembrava odorare il vento per conoscere 
      da che parte sarebbe arrivato il liberatore. 
      Andrea era grosso e corto;  il  viso,  trivialmente  crudele,  non 
      rivelava la sua età, ciò nonostante poteva avere circa trent'anni. 
      Nella  prigione  si  era  lasciata  crescere  la  barba.  La testa 
      penzolava sopra una delle spalle, le gambe gli si piegavano sotto; 
      tutto il suo essere sembrava obbedire ad un movimento corporeo, al 
      quale la sua volontà non prendeva parte. 
      "Mi sembra" disse Franz al conte,  "abbiate detto che vi sarà  una 
      sola esecuzione." 
      "Ho detto la verità" rispose egli freddamente. 
      "Però là ci sono due condannati." 
      "Sì,  ma  di  quei due,  uno è sul punto di morire,  l'altro vivrà 
      ancora molti anni." 
      "Ma se deve venire la grazia, non c'è tempo da perdere." 
      "Ed appunto eccola che viene, guardate..." disse il conte. 
      Difatti nel momento in cui Peppino giungeva ai piedi del patibolo, 
      un penitente che sembrava giunto in ritardo,  passò la fila  senza 
      che  i  soldati  facessero  ostacolo  al suo passaggio,  e venendo 
      avanti presentò al capo della confraternita un foglio  piegato  in 
      quattro parti. 
      Lo  sguardo  ardente di Peppino non aveva perduto alcuno di questi 
      particolari; il capo della confraternita spiegò la carta, la lesse 
      ed alzò la mano. 
      "Il Signore sia benedetto e Sua Santità sia lodata!" disse ad alta 
      ed intelligibile voce.  "C'è la grazia  della  vita  per  uno  dei 
      condannati." 
      "Grazia!" gridò il popolo con un sol grido. "C'è la grazia!" 
      A questa parola grazia, Andrea si scosse e alzò la testa. 
      "Grazia, per chi?" gridò. 
      Peppino restò immobile, muto ed anelante. 
      "E'  la grazia della pena di morte per Peppino detto Rocca Priori" 
      disse il capo della confraternita. 
      E passò il foglio nelle mani del comandante dei gendarmi, che dopo 
      averlo letto tornò a renderlo. 
      "Grazia per Peppino!" gridò Andrea,  tolto dallo stato di  torpore 
      in cui sembrava immerso.  "Perché grazia per lui e non per me? Noi 
      dovevamo morire insieme,  mi era stato promesso che sarebbe  morto 
      prima di me non ha diritto di farmi morir solo,  non voglio morire 
      solo, non lo voglio!..." 
      E si attaccò alle braccia  dei  due  preti,  torcendosi,  urlando, 
      ruggendo e facendo sforzi insensati per resistere al carnefice che 
      voleva, a quell'impeto imprevisto, legargli nuovamente le mani. Il 
      carnefice  fece  un  segno  ai suoi aiutanti i quali saltarono dal 
      patibolo, e vennero ad impadronirsi del condannato. 
      "Che accade dunque?" domandò Franz al conte,  giacché la  distanza 
      non gli permetteva di intendere le parole. 
      "Che  accade?"  disse  il  conte.  "Non lo indovinate?  Accade che 
      quella creatura umana che va alla morte, è divenuta furiosa perché 
      il suo simile non muore  con  lei,  e  se  si  lasciasse  fare  lo 
      sbranerebbe  con  le  unghie  e con i denti piuttosto di lasciarlo 
      godere della vita di  cui  sarà  in  breve  privata.  Oh,  uomini, 
      uomini! razza di coccodrilli, come disse Karl Moor" gridò il conte 
      stendendo  i  due  pugni  verso  tutta  quella  folla,   "come  vi 
      riconosco, in ogni tempo siete sempre degni di voi stessi." 
      Andrea e i due aiutanti del carnefice si rotolavano nella polvere, 
      ed il condannato gridava sempre: 
      "Deve morire,  voglio che muoia!  Non hanno il  diritto  di  farmi 
      morir solo!" 
      "Guardate, guardate..." disse il conte afferrando ciascuno dei due 
      giovani per la mano, "guardate, perché, sull'anima mia, è una cosa 
      curiosa:  ecco  un  uomo  che  era rassegnato alla sua sorte,  che 
      camminava al patibolo,  che andava a morire come un vile,  è vero, 
      ma  pure  andava a morire senza resistenza e senza recriminazione. 
      Sapete  ciò  che  gli  dava  qualche  forza?  Sapete  ciò  che  lo 
      consolava?  Sapete  ciò  che  gli faceva prendere il supplizio con 
      pazienza?  Era un altro che divideva  le  angosce,  un  altro  che 
      moriva come lui,  un altro che moriva prima di lui.  Conducete due 
      montoni alla beccheria o due buoi al macello e fate intendere,  se 
      vi  riesce,  ad  uno  di  questi che il suo compagno non morrà: il 
      montone cred'io,  belerà di gioia,  il bue muggirà di piacere;  ma 
      l'uomo,  a cui Iddio ha imposto per prima,  per unica, per suprema 
      legge l'amore del prossimo,  l'uomo a cui Iddio ha dato la  parola 
      per  esprimere  il pensiero,  ora vedetelo qui con i vostri propri 
      occhi, che va sulle furie perché va a morir solo, perché sa che il 
      compagno è salvo. In verità,  non me lo sarei mai aspettato!  Ecco 
      là,  non  più  terrore,  non  più rassegnazione;  oh,  disgraziata 
      creatura, quanto lacrimevole è la tua sorte!" 
      E il conte rise,  ma di un riso terribile che  faceva  comprendere 
      ch'egli aveva orribilmente sofferto per poter giungere a ridere in 
      tal modo. 
      Frattanto  la  lotta  continuava,  ed  era  spettacolo  orribile a 
      vedersi. 
      I due aiutanti portavano Andrea  sul  patibolo;  tutto  il  popolo 
      aveva  preso partito contro di lui,  e ventimila voci mandavano un 
      sol grido: 
      "A morte! a morte!" 
      Franz si ritraeva: ma  il  conte  riprese  il  suo  braccio  e  lo 
      trattenne davanti alla finestra. 
      "Che  fate!" disse.  "Avete pietà?  In fede mia è ben riposta!  Se 
      sentiste gridare il cane arrabbiato, prendereste il vostro fucile, 
      vi appostereste sulla strada,  e tirereste senza misericordia,  da 
      breve  distanza,  sulla  povera  bestia,  che in fin dei conti non 
      sarebbe rea che di essere stata morsa  da  un  altro  cane,  e  di 
      rendere  ciò  che gli fu fatto;  ed ecco qua che avete pietà di un 
      uomo che non fu morso da alcun altro,  e  che  ciò  nonostante  ha 
      ucciso  il  suo  benefattore  e  che ora non potendo più uccidere, 
      perché ha le mani legate,  vuole a tutta  forza  veder  morire  il 
      compagno d'infortunio! No, no, guardate, guardate..." 
      Ogni  raccomandazione  sarebbe  stata  inutile,   Franz  era  come 
      affascinato dall'orribile spettacolo. 
      I due aiutanti avevano portato a  grande  stento  il  paziente  ai 
      piedi della scala fatale. Il misero si dibatteva, si contorceva, e 
      puntava i piedi, gettandosi con tutta la persona all'indietro. 
      Uno  di  quei  due tentò d'acquistare qualche vantaggio col salire 
      alcuni scalini dalla sua parte,  e tirarlo a sé mentre l'altro  lo 
      avrebbe sospinto all'insù. 
      In  quell'attimo  il carnefice lo afferrò per la vita e lo sollevò 
      da terra. 
      Il misero,  senza punto d'appoggio e  tirato  e  sospinto,  in  un 
      attimo fu sotto al laccio. 
      A  tal  vista,  Franz  non poté trattenersi,  si ritirò,  e andò a 
      cadere su una sedia, mezzo svenuto.  Alberto,  cogli occhi chiusi, 
      restava in piedi, ma aggrappato al telaio della finestra. 
      Il conte solo era in piedi e trionfante come l'angelo del male. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 36. 
                            IL CARNEVALE DI ROMA. 
 
 
      Quando  Franz  tornò  in sé,  vide Alberto che beveva un bicchiere 
      d'acqua, e il pallore rivelava che ne aveva avuto gran bisogno. Il 
      conte cominciava già ad indossare il vestito da pagliaccio. 
      Dette macchinalmente un'occhiata sulla piazza,  tutto era sparito: 
      patibolo,  carnefice,  vittime,  non  restava  più  che  il popolo 
      affollato, rumoreggiante, allegro. 
      La campana del Campidoglio suonava l'apertura del carnevale. 
      "Ebbene" domandò al conte, "che è dunque accaduto?" 
      "Niente,  assolutamente niente" diss'egli,  "solo il  carnevale  è 
      cominciato, mascheriamoci presto." 
      "Infatti"  rispose Franz,  "non resta di tutta questa scena che la 
      traccia di un sogno." 
      "E non fu che un sogno, non fu che un incubo, quello che aveste." 
      "Sì, ma il condannato?" 
      "E un sogno anch'esso, solo egli è rimasto addormentato,  e voi vi 
      siete  risvegliato.   Chi  può  dire  quale  di  voi  due  sia  il 
      privilegiato?" 
      "Ma di Peppino" domandò Franz, "che avvenne?" 
      "Peppino è un giovane di senno che non  ha  il  più  piccolo  amor 
      proprio,  e  che  contro l'abitudine degli uomini che sono furiosi 
      quando nessuno si occupa di loro, è rimasto soddisfatto di vedere, 
      che l'attenzione generale  era  attratta  dal  suo  compagno;  per 
      conseguenza  ha  profittato di questa distrazione per schizzar fra 
      la folla,  e sparire,  senza nemmeno ringraziare quei degni  preti 
      che  lo  avevano  accompagnato.  In fede mia,  l'uomo è un animale 
      molto ingrato ed egoista... Ma vestitevi; osservate,  il signor de 
      Morcerf ve ne dà l'esempio." 
      Infatti Alberto passava macchinalmente i calzoni di seta bianca al 
      di sopra dei suoi di panno nero, e gli stivali verniciati. 
      "Ebbene,  Alberto" domandò Franz, "avete voglia di far follie? Su, 
      rispondete francamente." 
      "No" disse,  "ma sono contento di aver visto una  cosa  simile,  e 
      comprendo ciò che diceva il signor conte,  cioè, che quando uno ha 
      potuto abituarsi ad un simile  spettacolo,  sia  il  solo  che  dà 
      ancora qualche emozione." 
      "Senza  contare che in quel momento soltanto si possono fare studi 
      psicologici" disse il conte.  "Sul primo scalino del  patibolo  la 
      morte  strappa  la  maschera  che  si è portata in tutta la vita e 
      appare il vero  viso  dell'uomo.  Bisogna  convenirne,  quello  di 
      Andrea  non  era  bello  a  vedersi,  era un infame ributtante!... 
      Vestiamoci,  ho bisogno di vedere delle  maschere  di  cera  e  di 
      stucco, per consolarmi delle maschere di carne..." 
      Sarebbe stato ridicolo per Franz fare la femminetta, e non seguire 
      l'esempio che gli veniva dato dai due compagni.  Indossò dunque il 
      suo costume,  si adattò sul viso la maschera,  non certamente  più 
      pallida del suo volto. 
      Compiuto il travestimento, discesero. 
      La  carrozza  aspettava alla porta piena di confetti e di mazzetti 
      di fiori; si mise in fila. 
      E' difficile farsi un'idea di un contrasto così  evidente:  invece 
      dello  spettacolo  di  morte,  tetro  e silenzioso,  la piazza del 
      Popolo presentava l'aspetto di una folta e rumorosa festa. 
      Una moltitudine di maschere da ogni parte,  uscendo  dalle  porte, 
      dalle  finestre;  le  carrozze  da  tutti gli angoli delle strade, 
      piene di pagliacci,  d'arlecchini,  di  domino,  di  marchesi,  di 
      trasteverini,  di  grotteschi,  di  cavalieri di contadini,  tutti 
      gridando, gesticolando, lanciando uova piene di farina, confetti e 
      mazzetti di fiori; aggredendo colle parole, e cogli oggetti, amici 
      e stranieri,  conoscenti e non conoscenti,  senza che alcuno abbia 
      il  diritto  di  lamentarsi,  senza  che  alcuno  faccia altro che 
      ridere. 
      Franz e Alberto vedevano sempre,  o per meglio dire continuavano a 
      sentire  gli  effetti di ciò che avevano veduto.  Ma a poco a poco 
      l'ubriachezza  generale  li  vinceva;  sembrò  che  la  vacillante 
      ragione  stesse per abbandonarli;  sentivano uno strano bisogno di 
      prender parte a quel rumore, a quel movimento, a quella vertigine. 
      Un pugno di confetti che gettato  da  una  carrozza  vicina  colse 
      Morcerf,  e, coprendolo di polvere unitamente ai due compagni, gli 
      punse il collo,  e tutte le parti  del  viso  non  protette  dalla 
      maschera,  come gli avessero gettato un pugno di spilli,  fini col 
      coinvolgerlo nella baraonda generale.  Si alzò a sua  volta  nella 
      carrozza;  raccolse a piene mani confetti nei sacchi,  e con tutto 
      il vigore e la destrezza di cui era capace, lanciò uova e confetti 
      ai vicini. 
      Da quel momento il combattimento era impegnato. 
      La memoria di ciò che avevano veduto mezz'ora prima si  cancellava 
      dallo  spirito  di  questi  giovani,  tanto  lo spettacolo mobile, 
      insensato, e variopinto era sopravvenuto a distrarli. In quanto al 
      conte non era mai stato, come si disse, un sol momento commosso. 
      S'immagini quella grande  e  bella  strada  del  Corso  ornata  da 
      un'estremità  all'altra  di  palazzi  a quattro o cinque piani con 
      tutte le loro ringhiere  addobbate,  con  tutte  le  finestre  coi 
      tappeti. 
      A  queste ringhiere e a queste finestre,  trecentomila spettatori, 
      romani,  italiani,  stranieri,  venuti da tutte e quattro le parti 
      del mondo, tutte le aristocrazie riunite, aristocrazie di nascita, 
      di denaro,  di genio, donne graziose anch'esse sotto l'influsso di 
      questo spettacolo,  si curvano  sulle  ringhiere,  sporgono  fuori 
      dalle  finestre,  fanno  piovere  sulle  carrozze  che passano una 
      grandine di confetti che viene contraccambiata in mazzi di  fiori; 
      la strada è tutta ingombra di confetti che scrosciano,  e di fiori 
      che volano;  poi sul selciato  della  strada  una  folla  allegra, 
      incessante,  pazza,  con costumi insensati: cavoli giganteschi che 
      passeggiano,  teste  di  bufalo  che  muggiscono  sopra  il  corpo 
      dell'uomo,  cani  che  sembrano camminare sui piedi di dietro.  Si 
      avrà una piccola idea di ciò che è il carnevale di Roma. 
      Al secondo giro,  il conte fece fermare la carrozza,  e domandò ai 
      compagni   il   permesso   di   allontanarsi,   lasciando  a  loro 
      disposizione la carrozza. 
      Franz alzò gli occhi: erano dirimpetto al palazzo Ruspoli,  e alla 
      finestra di mezzo, a quella che aveva il tappeto di damasco bianco 
      con  una  croce  rossa,  c'era un domino turchino,  sotto il quale 
      l'immaginazione di Franz si figurò senz'altro la bella  greca  del 
      teatro Argentina. 
      "Signori" disse il conte saltando a terra,  "quando sarete stanchi 
      di essere attori, e vorrete tornare spettatori, sapete che avete i 
      posti alle mie finestre; frattanto disponete del cocchiere,  della 
      carrozza e dei domestici." 
      Abbiamo dimenticato di dire che il cocchiere del conte era vestito 
      con gravità di una pelle di orso nero, esattamente simile a quella 
      d'Odry nell'Orso e il Pascià, e che i due servitori che stavano in 
      piedi  dietro  la  carrozza avevano il costume delle scimmie verdi 
      perfettamente adattato alla loro corporatura, con maschera a molla 
      colle quali facevano boccacce a coloro che passavano. 
      Franz ringraziò il conte della gentile offerta. 
      Quanto ad Alberto era in via di scherzi con una carrozza piena  di 
      contadine  romane,  ferma  come  quella del conte in una di quelle 
      soste comuni nei cortei di carri,  e che egli tempestava di  mazzi 
      di fiori. 
      Disgraziatamente per lui,  la fila riprese il movimento,  e mentre 
      scendeva a piazza del Popolo,  la carrozza che aveva  attirata  la 
      sua attenzione risaliva verso piazza Venezia. 
      "Ah,  mio  caro" diss'egli a Franz,  "non avete visto quel calesse 
      pieno di contadine romane?" 
      "No." 
      "Ebbene, vi assicuro che ci sono delle graziose signore." 
      "Quale disgrazia che siate mascherato  mio  caro  Alberto!"  disse 
      Franz.  "Sarebbe  stato  il  momento  di rifarvi di tutti i vostri 
      sconcerti amorosi." 
      "Oh" rispose egli, metà ridendo, metà convinto, "spero bene che il 
      carnevale non trascorrerà senza qualche allettante avventura." 
      Ad  onta  della  speranza  di  Alberto,   tutto  il  giorno  passò 
      senz'altra avventura, che l'incontro due o tre volte rinnovato del 
      calesse  che  portava  le  contadinelle  romane: in uno di questi, 
      fosse caso o studio,  la maschera cadde dal  volto  d'Alberto,  ed 
      egli  approfittò  di  quella congiuntura per prendere quanti fiori 
      poté, e gettarli nel calesse. 
      Senza dubbio una delle graziose  signore  che  Alberto  indovinava 
      sotto  il costume da contadina fu colpita da questa galanteria,  e 
      quando le due carrozze tornarono ad incontrarsi, gettò un mazzetto 
      di violette nella carrozza dei due amici. 
      Alberto si precipitò a raccoglierlo,  e siccome  Franz  non  aveva 
      alcun  motivo  di  credere  fosse a lui diretto,  lasciò che se ne 
      impadronisse. 
      Alberto  lo  appuntò  vittoriosamente  in  petto,  e  la  carrozza 
      continuò il corso trionfante. 
      "Ebbene" disse Franz, "ecco il principio di un'avventura." 
      "Ridete quanto volete" rispose,  "ma credo veramente di sì; perciò 
      non lascio più questo mazzetto." 
      "Per Bacco, lo credo bene!" confermò Franz ridendo. "E' un segnale 
      di riconoscimento." 
      Lo scherzo prese ben presto il  carattere  della  realtà:  quando, 
      sempre condotti dalla fila, Franz ed Alberto incontrarono di nuovo 
      la carrozza delle contadine,  quella che aveva gettato il mazzetto 
      ad Alberto, batté le mani vedendo che lo aveva messo in petto. 
      "Bravo!  mio caro,  bravo!" disse Franz.  "Ecco  che  la  cosa  si 
      prepara  a meraviglia.  Volete che vi lasci?  Avete più piacere di 
      restare solo?" 
      "No"  disse,   "non  imbrogliamo  le  cose:   non   voglio   farmi 
      accalappiare  come  uno  stupido  alla  prima  occasione,  per  un 
      convegno sotto l'orologio come diciamo al ballo dell'Opéra.  Se la 
      bella  contadina  ha  volontà di spingere la cosa più innanzi,  la 
      ritroveremo domani,  o piuttosto lei troverà noi;  allora mi  darà 
      segno, e vedrò ciò che mi converrà fare." 
      "Invero, mio caro Alberto" disse Franz, "siete saggio come Nestore 
      e prudente come Ulisse, e se la vostra Circe giunge a trasformarvi 
      in  una  bestia  qualunque,  bisognerà  che  sia  molto  destra  e 
      possente." 
      Alberto aveva ragione: la bella  sconosciuta  aveva  deciso  senza 
      dubbio  di  non  spingere  le  cose più in là quel giorno;  perché 
      quantunque facessero ancora diversi  giri,  non  rividero  più  la 
      carrozza  che  cercavano  con  attenzione,  e  che sicuramente era 
      sparita per una delle vie traverse. 
      Allora ritornarono al palazzo Ruspoli.  Il conte era  sparito  col 
      domino  turchino;  le  due  finestre  parate  col  damasco  giallo 
      continuarono però ad essere occupate da persone  senza  dubbio  da 
      lui invitate. 
      La medesima campana che aveva suonato l'apertura della mascherata, 
      suonò  il  ritiro: la fila del Corso si ruppe al momento,  e in un 
      attimo tutte le carrozze disparvero per le strade traverse.  Franz 
      ed  Alberto  erano  in  quel  momento  dirimpetto  alla  via delle 
      Muratte;  il cocchiere sfilò senza dir niente,  giunto alla piazza 
      di Spagna si fermò davanti all'albergo.  La prima cura di Franz fu 
      d'informarsi del conte,  per  esprimergli  il  dispiacere  di  non 
      essere  andato  in tempo a riprenderlo;  ma Pastrini lo tranquillò 
      dicendogli che il conte di  Montecristo  aveva  ordinata  un'altra 
      carrozza per lui, e che questa era andata a prenderlo alle quattro 
      al palazzo Ruspoli. 
      Era  inoltre  incaricato  da  parte sua di offrire ai due amici la 
      chiave del suo palco al teatro Argentina. 
      Franz interrogò Alberto sulla sua disponibilità;  ma questi  aveva 
      grandi disegni da mettere in esecuzione prima di pensare ad andare 
      a teatro: per cui,  invece di rispondergli,  s'informò se Pastrini 
      avesse potuto procurargli un sarto. 
      "Un sarto! E per che farne?" domandò l'albergatore. 
      "Per farci da oggi a domani degli abiti da  contadini  romani  più 
      eleganti che sia possibile." 
      Pastrini scosse la testa. 
      "Farvi  da  oggi  a domani due abiti?" gridò.  "Questa è,  domando 
      perdono a Vostra Eccellenza,  una vera domanda alla francese.  Due 
      abiti  quando  da  oggi a otto giorni non trovereste certamente un 
      sarto che vorrebbe attaccarvi sei bottoni ad un gilè,  quand'anche 
      li pagaste uno scudo l'uno." 
      "Bisogna dunque rinunciare a procurarsi gli abiti che desideravo?" 
      "No,  perché li troveremo belli e fatti.  Lasciate a me la cura, e 
      domani  quando  vi  sveglierete,   troverete  una  collezione   di 
      cappelli, di vestiti e di calzoni di cui rimarrete soddisfatto." 
      "Mio  caro"  disse  Franz  ad  Alberto,  "rimettiamoci  al  nostro 
      albergatore;  egli ci ha di già provato che è  un  uomo  pieno  di 
      risorse, pranziamo dunque tranquillamente e dopo il pranzo andiamo 
      a vedere l'Italiana in Algeri." 
      "Si,  ma  pensate  Pastrini che il signore ed io annettiamo la più 
      alta importanza ad avere gli abiti che vi abbiamo domandati." 
      Pastrini assicurò un'ultima volta i suoi ospiti che non avevano ad 
      inquietarsi di niente, e che sarebbero stati serviti a seconda dei 
      loro desideri. Alberto e Franz dopo ciò risalirono per levarsi gli 
      abiti da pagliacci. 
      Alberto nello spogliarsi custodì con molta  cura  il  mazzetto  di 
      viole, questo era il segno di riconoscimento per l'indomani. 
      I due amici si misero a tavola;  ma,  pranzando,  Alberto non poté 
      fare a  meno  di  osservare  la  netta  differenza  fra  i  meriti 
      rispettivi  del  cuoco  di  Pastrini,  e  di  quello  del conte di 
      Montecristo. 
      La verità costrinse Franz a confessare ad onta  delle  prevenzioni 
      che  sembrava  avere  contro  il  conte,  che  il paragone non era 
      vantaggioso per il cuoco di Pastrini.  Alla  frutta  un  domestico 
      venne ad informarsi a quale ora desideravano la carrozza. 
      Alberto  e  Franz  si  guardarono,  temendo  realmente  di  essere 
      indiscreti. 
      Il domestico li capì: 
      "Sua Eccellenza il conte di Montecristo fa sapere  loro  di  avere 
      disposto perché la carrozza restasse sempre agli ordini delle Loro 
      Signorie;   potranno  perciò  usarne  liberamente,   senza  essere 
      indiscreti." 
      I giovani decisero di approfittare fino alla fine  della  cortesia 
      del  conte ed ordinarono di mettere in ordine mentre si cambiavano 
      gli abiti gualciti e sporchi per i  giochi  a  cui  avevano  preso 
      parte  nella  giornata.  Dopo questa cautela,  passarono al teatro 
      Argentina, dove presero posto nel palco del conte. 
      Durante il primo atto la contessa G. entrò nel suo palco. 
      Il primo sguardo lo diresse dalla parte dove la sera  prima  aveva 
      visto  il singolare sconosciuto;  vide subito Franz ed Alberto nel 
      palco di colui sul conto del quale aveva espresso a Franz,  appena 
      ventiquattro  ore  prima,  una  strana  opinione.  Diresse  il suo 
      occhialino su di lui con tanta assiduità,  che Franz capì  sarebbe 
      stata una crudeltà ritardare di soddisfare la curiosità di lei. 
      Così  profittando  del  privilegio  accordato  agli spettatori dei 
      teatri italiani, che consiste nel convertire il teatro in una sala 
      da ricevimento,  i due amici lasciarono il palco per presentare  i 
      loro omaggi alla contessa. 
      Appena entrati nel palco la dama fece un segno a Franz di mettersi 
      al posto d'onore, ed Alberto questa volta si pose accanto a lei. 
      "Ebbene"  disse,  accordando  appena  a Franz il tempo di sedersi, 
      "sembra che non abbiate avuto  niente  di  più  urgente  che  fare 
      conoscenza  col nuovo lord Ruthwen...  Eccovi i migliori amici del 
      mondo!" 
      "Senza essere inoltrati,  quanto dite,  in una reciproca amicizia" 
      rispose  Franz,  "non posso negare di aver abusato tutto il giorno 
      della sua gentilezza." 
      "Come, tutto il giorno?" 
      "In fede mia, questa è la vera parola che conviene. Questa mattina 
      abbiamo accettata da lui una colazione;  durante  tutto  il  tempo 
      delle  maschere  abbiamo  girato  il  Corso nella sua carrozza;  e 
      finalmente questa sera veniamo allo spettacolo nel suo palco." 
      "Voi dunque lo conoscete?" 
      "Sì e no!" 
      "Come mai?" 
      "Questa è una lunga storia." 
      "Che voi mi racconterete?" 
      "Essa vi farà paura." 
      "Ragione di più..." 
      "Aspettate almeno che abbia uno sviluppo." 
      "Sia così: amo le storie complete.  Intanto  com'è  che  vi  siete 
      trovati a contatto? Chi vi ha presentato a lui?" 
      "Nessuno;  al  contrario,  si  è fatto presentare a noi ieri sera, 
      dopo che vi ho lasciata." 
      "Per mezzo di chi?" 
      "Oh, mio Dio,  con un mezzo molto triviale,  con quello del nostro 
      albergatore." 
      "E' dunque alloggiato all'albergo Londra?" 
      "Non solo nel medesimo albergo, ma nello stesso piano." 
      "E come si chiama? Dovete certo conoscerlo di nome." 
      "Perfettamente: il conte di Montecristo." 
      "Non è un nome di famiglia antica." 
      "No, è il nome dell'isola che ha comprato." 
      "Ed egli è conte?" 
      "Conte toscano." 
      "Ci  adatteremo  a questo come agli altri" riprese la contessa che 
      era di una delle più grandi ed antiche famiglie delle vicinanze di 
      Venezia. "E che uomo è?" 
      "Domandatene al visconte de Morcerf." 
      "Voi sentite, signore, vengo rimessa al vostro giudizio..." 
      "Saremmo incontentabili,  se non lo  trovassimo  gentile"  rispose 
      Alberto.  "Un vecchio amico non avrebbe fatto più di quello che ha 
      fatto, e ciò con tanta grazia,  delicatezza e cortesia,  che fanno 
      conoscere in lui un vero uomo di mondo." 
      "Attento!"  disse  la  contessa  ridendo.  "Vedrete che il mio bel 
      vampiro non sarà che un qualche nuovo arricchito  che  vuol  farsi 
      perdonare i suoi milioni. E lei. l'avete veduta?" 
      "Chi, lei?" domandò Franz ridendo. 
      "La bella greca di ieri sera." 
      "No, credo di aver inteso il suono della sua "guzla", ma è rimasta 
      perfettamente invisibile." 
      "Vale  a dire,  quando voi dite invisibile,  mio caro Franz" disse 
      Alberto, "è soltanto per fare il misterioso.  Per chi avete dunque 
      preso  quel domino turchino alla finestra parata di damasco bianco 
      del palazzo Ruspoli?" 
      "Il conte dunque aveva una finestra al palazzo Ruspoli?" 
      "Sì, siete passata per il Corso?" 
      "Sì, e chi non è passato per il Corso quest'oggi?" 
      "Avete osservate due finestre parate di damasco giallo,  ed una di 
      damasco bianco con una croce rossa?  Queste tre finestre erano del 
      conte." 
      "Davvero!?  Dunque,  è  un  nababbo?  Sapete  quanto  costano  tre 
      finestre  come  quelle  per  gli  otto  giorni  del carnevale?  ed 
      aggiungete nel palazzo Ruspoli che è nella più bella posizione del 
      Corso?". "Due o trecento scudi romani." 
      "Dite piuttosto due o tremila." 
      "Oh, diavolo." 
      "E' forse dalla sua isola che ritrae queste rendite?" 
      "La sua isola non gli frutta un baiocco." 
      "Perché dunque l'ha comprata?" 
      "Per fantasia." 
      "Dunque è un originale?" 
      "Il fatto è" disse Alberto,  "che mi è sembrato molto  eccentrico. 
      Se abitasse Parigi,  se frequentasse i nostri teatri,  vi direi, è 
      un triste dicitore che fa il dandy, o è un povero diavolo che si è 
      perduto nella moderna letteratura.  In  verità  questa  mattina  è 
      venuto fuori con due o tre uscite degne di Didier o d'Antony." 
      In quel momento entrò una visita,  e secondo l'uso Alberto dovette 
      cedere il posto all'ultimo arrivato;  questo decise  non  solo  il 
      cambiamento del luogo, ma anche dell'argomento. 
      Un'ora dopo i due amici tornavano all'albergo. 
      Pastrini  si  era  già  occupato  dei  loro  abiti da maschera per 
      l'indomani,  e promise loro che sarebbero stati soddisfatti  della 
      sua intelligente alacrità. 
      L'indomani  alle  nove  entrò  nella  camera di Franz con un sarto 
      carico di otto o dieci costumi da contadini romani. I due amici ne 
      scelsero due simili,  e che andavano bene alla  loro  corporatura, 
      incaricarono l'albergatore di far cucire dei nastri a ciascuno dei 
      cappelli, e di procurar loro due di quelle belle sciarpe di seta a 
      righe traverse con colori vivi,  di cui gli uomini del popolo sono 
      soliti cingersi la vita nei giorni di festa. 
      Alberto aveva fretta di vedere qual figura avrebbe fatta col nuovo 
      abito che si componeva di una giacca e  un  pantalone  di  velluto 
      turchino,  di calze ad angoli ricamati,  di scarpe con le fibbie e 
      di gilè di seta. Il giovane, del resto, non poteva che guadagnarci 
      con questo abito pittoresco e quando la  sciarpa  ebbe  cinto  gli 
      eleganti fianchi,  quando il cappello leggermente piegato sopra un 
      orecchio,  lasciò  cadere  un  gran  mazzo  di  nastri,  Franz  fu 
      costretto  a confessare che i costumi hanno sovente una gran parte 
      nella superiorità fisica che si accorda ad alcuni popoli. I turchi 
      nei tempi addietro,  tanto pittoreschi con le loro zimarre lunghe, 
      di  colori  vivi,  non  sono ora ributtanti coi soprabiti turchini 
      abbottonati,  e la calotta greca che dà l'aspetto di una bottiglia 
      di vino con turacciolo rosso? 
      Franz si congratulò con Alberto, che rimasto in piedi davanti allo 
      specchio,  sorrideva a se stesso con un'aria di soddisfazione, per 
      nulla equivoca. 
      In quel mentre entrò il conte di Montecristo. 
      "Signori" disse loro,  "per quanto sia gradevole  un  compagno  di 
      piacere,  la libertà è ancora più gradevole.  Vengo ad annunziarvi 
      che per oggi ed i giorni successivi lascio a  vostra  disposizione 
      la carrozza di cui vi siete serviti ieri. Il nostro albergatore vi 
      avrà detto che ne ho prese in fitto tre o quattro;  voi dunque non 
      me  ne  private:  usatene   liberamente,   sia   per   andare   ai 
      divertimenti,  sia  per  i  vostri  affari.  Il  nostro  luogo  di 
      convegno,  se  avremo  qualche  cosa  a  dirci,  sarà  il  palazzo 
      Ruspoli..." 
      I  due giovani volevano fare qualche osservazione,  ma non avevano 
      alcuna buona ragione per rifiutare un'offerta che,  d'altra parte, 
      gradivano assai, e finirono con l'accettare. 
      Il  conte  di  Montecristo  restò  circa  un quarto d'ora con loro 
      parlando di tutto con  molta  facilità.  Era,  come  si  è  potuto 
      osservare,  molto  al corrente della letteratura di tutti i paesi; 
      inoltre le pareti delle sue camere provavano a Franz e ad  Alberto 
      che era amatore di quadri. 
      Qualche parola senza pretesa,  lasciata cadere di passaggio, provò 
      loro che non era estraneo alle scienze, e sembrava soprattutto che 
      si fosse particolarmente occupato di chimica. 
      I due amici non avevano la  pretesa  di  restituire  al  conte  la 
      colazione;  sarebbe  stata  una  cattiva burla offrirgli in cambio 
      della sua eccellente tavola, la cucina molto mediocre di Pastrini. 
      Glielo dissero francamente,  ed egli ricevette le loro scuse  come 
      un uomo che apprezzava la loro delicatezza. 
      Alberto  era  tanto  rapito dalle maniere del conte,  che,  se non 
      fosse stato così fornito di scienza,  lo avrebbe creduto  un  vero 
      gentiluomo.  La  libertà di disporre interamente della carrozza lo 
      ricolmava di gioia, aveva le sue mire sulle graziose contadinelle, 
      e siccome erano apparse il giorno  innanzi  in  una  elegantissima 
      carrozza, era ben contento di continuare a comparire alla pari con 
      loro. 
      All'una  e  mezza  i  due giovani discesero;  il cocchiere e i due 
      servitori avevano avuto l'idea di sovrapporre alle loro  pelli  di 
      bestia  le  livree,  cosa  che  dava  loro  un  aspetto  anche più 
      grottesco del giorno innanzi,  e che procurò loro i  rallegramenti 
      di  Franz e di Alberto,  il quale aveva attaccato sentimentalmente 
      all'occhiello della giacca il mazzetto di viole appassite. 
      Al primo suono della campana partirono,  e si precipitarono  nella 
      grande strada del Corso per la via Vittoria. 
      Al  secondo  giro un mazzetto di viole fresche partì da un calesse 
      carico di pagliaccine, e venne a cadere in quello del conte, e ciò 
      indico ad Alberto ed al suo amico,  che le contadinelle del giorno 
      innanzi  avevano cambiato costume;  e fosse caso,  o un sentimento 
      uguale a quello che aveva fatto mutare abiti ai due amici, che con 
      tutta galanteria avevano preso il loro costume, esse avevano preso 
      quello dei due compagni. 
      Alberto adattò il mazzetto di viole fresche al  posto  dell'altro; 
      ma  conservò  il mazzetto appassito in mano,  e quando incontrò di 
      nuovo il calesse,  lo portò amorosamente  alle  labbra,  atto  che 
      destò l'allegria non solo di quella che lo aveva gettato, ma anche 
      di tutte le sue pazze compagne. 
      La giornata non fu meno animata della precedente. Anzi è probabile 
      che  un  profondo  osservatore  vi  avrebbe  potuto riconoscere un 
      crescere di rumore e di allegria. 
      Un momento videro il conte alla finestra,  ma quando  la  carrozza 
      ripassò era già sparito. 
      E'  inutile  dire  che  lo  scambio di civetterie tra Alberto e la 
      pagliaccina dei mazzetti di viole durò tutta la giornata. 
      La  sera   quando   rientrarono,   Franz   ritrovò   una   lettera 
      dell'ambasciata:  gli veniva annunziato che il giorno dopo avrebbe 
      avuto l'onore di esser ricevuto da Sua Santità. 
      In tutti i suoi viaggi precedenti a Roma aveva chiesto ed ottenuto 
      lo stesso favore; e tanto per religione che per riconoscenza,  non 
      aveva  voluto mettere il piede nella capitale del mondo cristiano, 
      senza genuflettersi in rispettoso omaggio  ai  piedi  di  uno  dei 
      successori di San Pietro, raro esempio di tutte le virtù: egli non 
      poteva  dunque  in  quel giorno pensare al carnevale.  Malgrado la 
      bontà di cui circonda la sua grandezza è sempre  con  un  rispetto 
      pieno  di  profonda  emozione  che  uno  si appresta ad inchinarsi 
      davanti a questo nobile e santo vecchio. 
      Uscendo dal  Vaticano,  Franz  ritornò  direttamente  all'albergo, 
      evitando ancora di passare per la strada del Corso. Portava con sé 
      un  tesoro di pietosi pensieri ai quali sarebbe stata profanazione 
      il contatto delle folli allegrezze delle maschere. 
      Alle cinque e dieci minuti Alberto rientrò.  Era  al  colmo  della 
      gioia.  La pagliaccina aveva ripreso il costume da contadinella, e 
      nell'incontrare la carrozza d'Alberto si era levata per un momento 
      la maschera... 
      Era graziosissima. 
      Franz fece i suoi complimenti ad Alberto  che  li  ricevette  come 
      persona che li riconosca dovuti. 
      Aveva  osservato,  diceva,  da alcuni segni d'eleganza inimitabile 
      che la sua bella sconosciuta  doveva  appartenere  alla  più  alta 
      aristocrazia. Quindi risolvette di scriverle l'indomani. 
      Franz  mentre  riceveva  questa  confidenza,  osservò  che Alberto 
      voleva chiedergli qualche cosa e tuttavia esitava a domandare. 
      Si disse pronto a fare per la sua felicità tutti i  sacrifici  che 
      fossero  in  suo  potere.  Alberto  si  fece  pregare quanto esige 
      un'amichevole cortesia e quindi confessò a Franz che  gli  avrebbe 
      reso  un  sommo servigio abbandonando per l'indomani la carrozza a 
      lui solo. 
      Alberto attribuiva  all'assenza  dell'amico  l'estrema  bontà  che 
      aveva avuta la bella contadina nell'alzare la maschera.  Si capirà 
      che Franz non era tanto egoista per  trattenere  Alberto  nel  bel 
      mezzo  di  un'avventura  che  prometteva  di  riuscire ad un tempo 
      gradita alla sua curiosità, e lusinghiera per il suo amor proprio. 
      Conosceva abbastanza la poca segretezza del suo degno  amico,  per 
      esser  sicuro  che  lo  avrebbe  tenuto al corrente di tutti i più 
      piccoli particolari della sua buona fortuna;  e siccome,  da tre o 
      quattro  anni che percorreva l'Italia in tutti i sensi,  non aveva 
      mai avuta l'occasione di cominciare neppure un simile intrigo  per 
      conto suo, Franz non era dispiaciuto d'imparare come vanno le cose 
      in simili affari. 
      Promise  dunque  ad Alberto che l'indomani si sarebbe accontentato 
      di guardare lo spettacolo dalle finestre del palazzo Ruspoli. 
      Infatti il giorno dopo vide passare e ripassare Alberto.  Aveva un 
      enorme  mazzo  di  fiori,  senza  dubbio  portatore  del biglietto 
      amoroso. 
      Questa probabilità si cambiò in certezza,  quando  Franz  vide  il 
      medesimo  mazzo,  notevole per un giro di camelie bianche,  fra le 
      mani della graziosa pagliaccina vestita di seta color rosa. 
      Così la sera non era più gioia, ma delirio. 
      Alberto non  dubitava  che  la  bella  incognita  non  gli  avesse 
      risposto con lo stesso mazzetto. 
      Franz  ne  prevenne i desideri dicendogli che tutto quel rumore lo 
      stancava,  e che era risoluto ad impiegare la giornata seguente  a 
      rivedere il suo album e a prendere annotazioni. 
      Del  resto,  Alberto non si era ingannato nelle sue previsioni: il 
      giorno  dopo  Franz  lo  vide  entrare  di  slancio  nella  camera 
      scuotendo  con  trionfo  un rettangolo di carta che teneva per uno 
      degli angoli. 
      "Ebbene, mi sono sbagliato?" 
      "Ha dunque risposto?" gridò Franz. 
      "Leggete." 
      Questa parola fu pronunziata con un tono  di  voce  impossibile  a 
      descriversi. 
      Franz prese il biglietto e lesse: 
 
      "Martedì  sera,  alle sette,  discendete dalla carrozza dirimpetto 
      alla via dei Pontefici,  e seguite  la  contadina  romana  che  vi 
      strapperà  il vostro moccoletto quando arriverete al primo gradino 
      della chiesa  di  San  Gaetano.  Abbiate  cura  perché  lei  possa 
      riconoscervi,  di  mettere  un  nastro color rosa sulle spalla del 
      vostro costume da pagliaccio. 
      Da oggi sino a tale momento voi non mi rivedrete più. 
      Costanza e discrezione." 
 
      "Ebbene!" disse a Franz,  quando ebbe finita questa lettura,  "che 
      ne pensate, mio caro?" 
      "Penso"   rispose   Franz,   "che  la  cosa  prende  la  piega  di 
      un'avventura molto piacevole." 
      "Questo è pure il mio parere,  ed ho gran timore che andrete  solo 
      al ballo del principe T." 
      Franz  ed  Alberto avevano ricevuto quella stessa mattina l'invito 
      del celebre banchiere romano. 
      "State in guardia" disse Franz,  "tutta  l'aristocrazia  sarà  dal 
      principe  e  se  la  vostra bella sconosciuta appartiene realmente 
      alla nobiltà, non potrà fare a meno d'intervenirvi." 
      "Che v'intervenga o no,  io conservo l'opinione  che  ho  di  lei" 
      continuò  Alberto.  "Voi  avete il biglietto;  sapete che meschina 
      educazione ricevono in Italia le donne  del  mezzo  ceto;  ebbene, 
      rileggete  il  biglietto,  osservate  il carattere e trovatemi uno 
      sbaglio di lingua o di ortografia." 
      "Voi siete  dei  predestinati..."  disse  Franz,  nel  rendere  ad 
      Alberto per la seconda volta il biglietto. 
      "Ridete quanto vi piace, scherzate a vostro agio" rispose Alberto, 
      "io sono innamorato." 
      "Oh,  mio Dio, voi mi spaventate!" gridò Franz. "Vedo bene che non 
      solamente andrò solo al ballo del  principe,  ma  anche  ritornerò 
      solo a Firenze." 
      "Il  fatto è che,  se la mia sconosciuta è amabile quanto è bella, 
      vi avverto che mi stabilisco a Roma per sei settimane  almeno.  Io 
      adoro  Roma,  e poi ho sempre avuto un trasporto straordinario per 
      l'archeologia." 
      "Ancora un altro o due  di  questi  incontri,  e  non  dispero  di 
      vedervi membro dell'Accademia di belle lettere." 
      Senza  dubbio  Alberto  si  accingeva  a  discutere seriamente sui 
      diritti che poteva avere ad un seggio nell'Accademia,  ma  vennero 
      in  quel  momento ad annunziare che il pranzo era servito: l'amore 
      in Alberto non era contrario all'appetito;  si affrettò dunque col 
      suo   amico  a  mettersi  a  tavola,   risoluto  a  riprendere  la 
      discussione dopo il pranzo. 
      Dopo il pranzo fu annunziato il conte di Montecristo. 
      Da due giorni i due amici non lo  avevano  veduto.  Un  affare  lo 
      aveva  chiamato  a Civitavecchia,  almeno a quanto disse Pastrini. 
      Era partito la sera del giorno prima,  e già  era  di  ritorno  da 
      un'ora. 
      Il conte fu squisito. 
      Sia che stesse all'erta, sia che l'occasione non svegliasse in lui 
      le fibre armoniose,  che aveva già fatto risuonare due o tre volte 
      nelle sue parole si comportò da tutt'altro uomo. 
      Era per Franz un vero enigma. 
      Il conte non poteva dubitare che il  giovane  viaggiatore  non  lo 
      avesse  riconosciuto,  e  tuttavia non aveva detto una sola parola 
      dopo il loro nuovo incontro,  che potesse tradire di averlo veduto 
      altrove. 
      Per  sua  parte  Franz,  qualunque fosse la volontà di alludere al 
      loro primo incontro,  il timore di far cosa sgradevole ad un  uomo 
      che  aveva  ricolmato  lui e l'amico di gentilezze,  lo trattenne: 
      continuò dunque a mantenersi riservato come il conte. 
      Il conte aveva saputo che i due amici avevano prenotato  un  palco 
      al  teatro Argentina e si era risposto che non ce n'erano.  Perciò 
      portava loro la chiave del  suo;  almeno  questo  era  l'apparente 
      motivo della sua visita. 
      Franz ed Alberto fecero qualche difficoltà, allegando il timore di 
      privarne  lui;  ma  il  conte  rispose  che andando quella sera al 
      teatro Valle,  il suo palco al teatro  Argentina  sarebbe  rimasto 
      vuoto. 
      Questa assicurazione risolvette i due amici ad accettare. 
      Franz  si era un poco per volta abituato a quel pallore del conte, 
      che lo aveva tanto colpito la prima volta che l'aveva  visto.  Non 
      poteva  fare  a  meno  di render giustizia alla bellezza della sua 
      fronte severa, della quale questo pallore era il solo difetto o la 
      principale bellezza. 
      Vero eroe di Byron, Franz non poteva non solo vederlo,  ma neppure 
      e pensare a lui, senza immaginarsi quel viso tetro sulle spalle di 
      Manfredi, o sotto la cotta d'armi di Lara. Egli aveva sulla fronte 
      quella  piega  che  indica  la  presenza  incessante  di  un amaro 
      pensiero,  aveva quegli occhi ardenti che leggono nel più profondo 
      delle  anime,  quel  labbro  superbo sprezzante che dà alle parole 
      quell'incisività che le fa imprimere profondamente  nella  memoria 
      di chi ascolta. 
      Il  conte non era più giovane,  aveva quarant'anni almeno,  ma ciò 
      nonostante si capiva che era fatto  per  dominare  i  giovani.  In 
      realtà,  per  un'ultima  somiglianza  con  gli eroi fantastici del 
      poeta   inglese,    il    conte    sembrava    avere    il    dono 
      dell'affascinazione. 
      Alberto   era   incantato   della  fortuna  condivisa  con  Franz, 
      d'incontrare un uomo simile. 
      Franz era meno entusiasta, tuttavia subiva l'influsso che esercita 
      un uomo superiore sugli spiriti di coloro che lo avvicinano.  Egli 
      pensava al progetto,  che il conte aveva già manifestato due o tre 
      volte,  di andare a Parigi,  e non dubitava che con  le  sue  doti 
      personali,   con  quel  volto  magnetico  e  con  la  sua  fortuna 
      colossale,   avrebbe  ottenuto  un  grande  successo.   Però   non 
      desiderava trovarsi a Parigi quando egli vi fosse andato. 
      La  serata  fu  passata come si passano ordinariamente a teatro in 
      Italia: non ad ascoltare i cantanti,  ma a fare delle visite ed  a 
      discorrere. 
      La  contessa G.  voleva ricondurre la conversazione sul conte,  ma 
      Franz le annunziò che aveva qualcosa di più nuovo da  narrarle,  e 
      malgrado  le  dimostrazioni di falsa modestia alle quali si lasciò 
      andare Alberto,  raccontò alla contessa l'avvenimento che  da  tre 
      giorni interessava i due amici. 
      Siccome  queste  tresche  non sono rare né in Italia,  né altrove, 
      almeno se si deve credere ai viaggiatori,  la  contessa  non  fece 
      minimamente  l'incredula,  e felicitò Alberto per un'avventura che 
      prometteva di terminare in modo assai soddisfacente. 
      Si lasciarono,  promettendosi di ritrovarsi al ballo del  principe 
      T. a cui era stata invitata tutta Roma. 
      La  dama  mantenne la parola: né il giorno dopo,  né l'altro dette 
      segno ad Alberto di esistere. 
      Finalmente giunse il martedì,  l'ultimo ed il più rumoroso  giorno 
      del  carnevale.  Il  martedì  i  teatri  si  aprono alle dieci del 
      mattino, perché dopo le otto della sera si entra in quaresima.  Il 
      martedì tutti quelli che per mancanza di tempo,  di entusiasmo, di 
      danaro non hanno preso parte alle precedenti  feste  si  mischiano 
      all'ultimo  baccanale,   si  lasciano  trascinare  dall'orgia,   e 
      tributano la loro parte di rumore e di movimento al rumore  ed  al 
      movimento generale. 
      Dalle  due alle cinque Franz ed Alberto stettero alla finestra del 
      Corso battagliando a pugni di confetti con le carrozze della  fila 
      opposta,  con le finestre,  e coi pedoni che circolano fra i piedi 
      dei cavalli, fra le ruote delle carrozze,  senza che accada mai in 
      mezzo  a  questa  spaventosa  mischia un solo incidente,  una sola 
      disputa, una sola rissa. 
      Sotto questo rapporto gli italiani sono il popolo per  eccellenza. 
      Le feste per essi sono vere feste. 
      L'autore  di  questa storia,  che ha abitato l'Italia cinque o sei 
      anni,  non si ricorda mai  di  avere  veduta  una  sola  solennità 
      turbata da uno di quegli incidenti che son corollario alle nostre. 
      Alberto  trionfava col suo costume da pagliaccio.  Aveva sopra una 
      spalla  un  nastro  color  rosa,  le  cui  estremità  cadevano  al 
      garretto,  per  distinguersi  da  Franz,  che  aveva conservato il 
      vestito da contadino romano. 
      Più il giorno avanzava,  e più il  tumulto  diveniva  grande:  non 
      c'era  su tutto quel selciato,  in tutte quelle carrozze,  a tutte 
      quelle finestre,  una bocca muta,  un braccio ozioso;  era un vero 
      uragano umano, composto di un tuono di grida, e di una tempesta di 
      confetti,  di mazzetti d'aranci e di fiori.  Alle tre l'esplosione 
      dei mortaretti tirati ad un tempo su piazza del Popolo e su piazza 
      Venezia, rompendo a grande stento quest'orribile tumulto, annunciò 
      che stavano per cominciare le corse. 
      Le corse ed i moccoli sono gli episodi  particolari  degli  ultimi 
      giorni di carnevale. 
      Allo  sparo  dei mortaretti le carrozze rompono nello stesso punto 
      le file e voltano ciascuna nella strada  traversa  più  vicina  al 
      luogo  dove  si trovano.  Tutte queste evoluzioni si fanno con una 
      meravigliosa rapidità,  e  senza  che  la  polizia  si  occupi  di 
      assegnare  a  ciascuna il suo posto,  o di tracciare a ciascuna la 
      sua strada.  I pedoni si ritirano  contro  il  muro  dei  palazzi, 
      quindi si sente un rumore di cavalli e uno sguainar di sciabole. 
      Un  plotone  di  gendarmi,  che  ne  presenta  quindici di fronte, 
      percorre al galoppo  in  tutta  la  lunghezza  il  Corso,  che  fa 
      sgombrare per dar posto alla corsa dei berberi.  Quando il plotone 
      arriva a palazzo  Venezia,  il  rumore  di  un'altra  batteria  di 
      mortaretti avvisa che la strada è libera.  Quasi subito,  in mezzo 
      ad un clamore immenso universale, inaudito, si vedono passare come 
      ombre sette o otto cavalli eccitati dalle  grida  di  trecentomila 
      persone  e  dalle  castagnette di ferro appuntate che loro balzano 
      sul dorso,  poi il cannone di  Sant'Angelo  tira  tre  colpi,  per 
      annunziare  che il numero tre ha vinto.  Subito senz'altro segnale 
      che quello, le carrozze si rimettono in movimento, rifluendo verso 
      il Corso,  uscendo da tutte le strade come torrenti contenuti  per 
      un  momento,  che si gettano tutti insieme nel letto del fiume che 
      alimentano,  e l'onda immensa riprende più rapida che mai  il  suo 
      corso fra le due rive di granito. 
      Soltanto  un  nuovo  elemento  di  rumore  e  di  movimento si era 
      mischiato a  questa  folla:  entrarono  in  scena  i  mercanti  di 
      moccoli. 
      I  moccoli  o moccoletti sono ceri che variano dalla grossezza del 
      cero pasquale fino alla coda di un  sorcio,  e  risvegliano  negli 
      attori  della  grande scena,  con cui termina il carnevale romano, 
      due opposte preoccupazioni: 
      1. Conservare acceso il proprio moccoletto; 
      2. Spegnere il moccoletto degli altri. 
      Avviene del moccoletto ciò che accade della vita degli uomini. Per 
      quanto è in potere loro,  si adoperano a  conservarla,  e  sebbene 
      certi che presto o tardi debba avere fine, tuttavia hanno indagato 
      e  scoperto  mille modi per reciderla e toglierla innanzi tempo: è 
      vero che per questa suprema  operazione  il  diavolo  non  ha  mai 
      mancato  di  venir  loro  in  aiuto.   Il  moccoletto  si  accende 
      avvicinandolo ad un lume qualunque. 
      Ma chi potrà descrivere i mille mezzi inventati  per  spegnere  il 
      moccoletto,  i  soffietti  giganteschi,  gli  spegnitoi mostri,  i 
      ventagli sovrumani? Ciascuno si sollecitò a comprare i moccoletti, 
      e Franz ed Alberto fecero come tutti gli altri. 
      La notte si avvicinava rapidamente,  e  già  al  grido:  Moccoli!, 
      ripetuto  dalle  voci stridule degl'industriosi,  due o tre stelle 
      cominciarono a brillare al di sopra della folla. 
      Fu come un segnale. 
      In dieci minuti,  quarantamila lumi scintillarono,  discendenti da 
      piazza  Venezia  a  piazza  del Popolo,  e risalenti da quella del 
      Popolo a quella di Venezia.  Si sarebbe detta la festa dei  fuochi 
      fatui.  Chi  non  ha veduto questa festa,  è impossibile che se ne 
      possa formare un'idea.  Supponete che tutte le stelle si stacchino 
      dal cielo, e vengano a formare sulla terra una danza insensata, il 
      tutto  accompagnato  da grida che orecchio umano non ha mai potuto 
      sentire sulla superficie del globo.  E' particolarmente in  questo 
      momento  che non c'è più distinzione sociale.  Il facchino attacca 
      il principe, questi il trasteverino,  il trasteverino il borghese, 
      ciascuno soffiando, spegnendo, riaccendendo. 
      Se  il  vecchio Eolo comparisse in quel momento sarebbe proclamato 
      re dei moccoletti, ed Aquilone l'erede alla corona. 
      Questa corsa folle e fiammeggiante durò circa due ore.  La  strada 
      del Corso era rischiarata come in pieno giorno, si distinguevano i 
      lineamenti  degli  spettatori  fino  al  terzo o quarto piano.  Di 
      cinque  minuti  in  cinque  minuti  Alberto  guardava  l'orologio: 
      finalmente  segnò  le  sette.  I  due  amici si ritrovavano a poca 
      distanza dalla  via  dei  Pontefici;  Alberto  saltò  fuori  dalla 
      carrozza col suo moccoletto in mano. 
      Due  o  tre  maschere  vollero  avvicinarsi  per  spegnerlo  o per 
      toglierlo; ma da bravo lottatore,  Alberto li respinse dieci passi 
      distanti  da lui,  continuando la sua corsa verso la chiesa di San 
      Giacomo.  I gradini erano carichi di curiosi  e  di  maschere  che 
      lottavano  per strapparsi il moccoletto dalle mani.  Franz seguiva 
      con gli occhi Alberto,  e lo  vide  mettere  il  piede  sul  primo 
      scalino,  poi  quasi  subito  una  maschera  che  portava  il  ben 
      conosciuto  costume  della  contadina  dal  mazzetto,  allungò  il 
      braccio,  e  gli  tolse il moccoletto senza ch'egli facesse la più 
      piccola resistenza. 
      Franz era troppo lontano per sentire le parole che si scambiavano, 
      ma senza  dubbio  non  furono  ostili,  poiché  vide  allontanarsi 
      Alberto tenendo sotto braccio la contadinella. 
      Per  qualche  tempo li seguì in mezzo alla folla,  ma alla via del 
      Macello li perse di vista. 
      D'improvviso,  il suono della campana che dà il segnale della fine 
      del  carnevale  si  fece  sentire,  e nel medesimo istante tutti i 
      moccoli si spensero come per incanto. Si sarebbe detto che un solo 
      ed immenso colpo di vento li  aveva  tutti  annientati.  Franz  si 
      trovò nell'oscurità più profonda. 
      Allora  tutte  le  grida  cessarono come se il soffio possente che 
      aveva spento i lumi,  avesse portato via  nel  medesimo  tempo  il 
      rumore.  Non  s'intese  più  che  il  rotolar  delle  carrozze che 
      riconducevano le maschere alle loro case;  non si videro  più  che 
      pochi lumi brillare dietro le finestre. 
      Il carnevale era finito!... 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 37. 
                       LE CATACOMBE DI SAN SEBASTIANO. 
 
 
      Forse  Franz non aveva mai provato in vita sua un'impressione così 
      rapida, un passaggio così improvviso dall'allegria alla tristezza, 
      quanto in quel momento;  si sarebbe detto che per opera del soffio 
      di  qualche  demone  della  notte,  Roma era stata cambiata in una 
      vasta  sepoltura.  Un  caso  aumentava  ancora  l'intensità  delle 
      tenebre:  la  luna  mancante non sorgeva che dopo le undici;  e le 
      strade per le quali passava il giovane  erano  immerse  nella  più 
      profonda oscurità.  Però il tragitto era corto,  e in capo a dieci 
      minuti la sua carrozza,  o per meglio dire quella del  conte,  era 
      davanti all'albergo Londra. 
      Il  pranzo era pronto;  ma siccome Alberto aveva avvertito che non 
      contava di tornare presto,  così Franz si mise a tavola  senza  di 
      lui.  Pastrini,  che  era  abituato  a  vederli  pranzare insieme, 
      s'informò della ragione  dell'assenza  di  Alberto;  ma  Franz  si 
      limitò  a  rispondergli  che  Alberto  aveva  dovuto recarsi ad un 
      invito ricevuto il giorno  innanzi.  Il  subitaneo  spegnersi  dei 
      moccoletti,  l'oscurità succeduta alla luce, il silenzio che aveva 
      sostituito l'immenso rumore,  avevano impresso  nello  spirito  di 
      Franz  una  certa  malinconia  non esente da inquietudine.  Pranzò 
      taciturno,  ad onta delle officiose premure dell'albergatore,  che 
      entrò due o tre volte per sentire se gli bisognasse cosa alcuna. 
      Franz  aveva  stabilito  di  aspettare  Alberto  il  più  a  lungo 
      possibile.  Ordinò dunque la  carrozza  per  le  undici,  pregando 
      Pastrini  di  mandarlo  ad  avvisare  appena fosse tornato Alberto 
      all'albergo, qualunque potesse essere l'ora. 
      Alle undici Alberto non era ancora ritornato. 
      Franz si  vestì,  e  partendo  avvisò  l'albergatore  che  avrebbe 
      passata la notte dal principe Torlonia. 
      La  casa del principe Torlonia è una delle più belle case di Roma; 
      sua moglie è una  delle  discendenti  della  famiglia  Colonna,  e 
      disimpegna  gli  onori  di famiglia in modo perfetto: le feste del 
      principe banchiere hanno celebrità europea. Franz ed Alberto erano 
      giunti in Roma con lettere di raccomandazione per lui,  perciò  la 
      prima  domanda  che il principe gli fece fu che fosse avvenuto del 
      compagno di viaggio. 
      Franz rispose che lo aveva lasciato pochi  momenti  prima  che  si 
      spegnessero  i  moccoletti,  e lo aveva perduto di vista nella via 
      del Macello. 
      "Dunque non è tornato a casa?" domandò il principe. 
      "L'ho aspettato fino adesso" rispose Franz. 
      "E sapete dove sia andato?" 
      "Precisamente, no; ma credo si tratti di qualche cosa di simile ad 
      un convegno." 
      "Diavolo!" disse il principe.  "E' un brutto giorno,  o per meglio 
      dire una cattiva sera per far tardi... Non è vero, contessa?" 
      Queste ultime parole erano dirette alla contessa G.,  che giungeva 
      allora,  e che passeggiava appoggiandosi al braccio  del  fratello 
      del principe, il duca di Bracciano. 
      "Io trovo al contrario che questa è una bellissima notte, e quelli 
      che  sono  qui  non  avranno a lamentarsi d'altro se non che passi 
      troppo presto." 
      "Ma io" riprese sorridendo il principe,  "non parlo di quelli  che 
      sono  qui,   essi  non  corrono  altro  pericolo  che  gli  uomini 
      d'innamorarsi di voi,  e le donne ammalarsi di  gelosia  vedendovi 
      così bella; parlo di coloro che corrono le strade di Roma." 
      "Eh,  mio  Dio,  e  chi  volete  che  corra  le  strade  di Roma a 
      quest'ora, se non quelli che vengono dal ballo?" 
      "Il nostro amico Alberto de  Morcerf,  signora  contessa,  che  ho 
      lasciato  mentre  seguiva la sua bella incognita verso le sette di 
      sera" rispose Franz, "e che dopo non ho più rivisto." 
      "Come, non sapete dove sia?" 
      "Niente affatto." 
      "Ha con sé le armi?" 
      "E' vestito da pagliaccio..." 
      "Non avreste dovuto lasciarlo andare" disse il principe  a  Franz, 
      "voi che conoscete Roma meglio di lui." 
      "Sì,  davvero!  Sarebbe stato lo stesso che aver voluto fermare il 
      numero tre dei berberi che oggi ha vinto il  premio  della  corsa" 
      rispose Franz. "E poi che volete che gli accada?" 
      "Chi lo sa? La notte è oscura, e il Tevere è molto vicino alla via 
      del Macello!..." 
      Franz  sentì  un fremito scorrergli per le vene,  sentendo le idee 
      del  principe  e  della  contessa  in  accordo  coi  suoi   timori 
      personali. 
      "Per questo ho avvisato l'albergatore che avevo l'onore di passare 
      qui  la  notte" disse Franz,  "e debbono venire ad avvertirmi qui, 
      appena ritorna." 
      "Osservate" disse il  principe  a  Franz,  "ecco  appunto  un  mio 
      domestico, che credo cerchi di voi." 
      Il  principe  non  s'ingannava:  appena il domestico ebbe scoperto 
      Franz si avvicinò a lui, e gli disse: 
      "Eccellenza,  l'albergatore dell'hotel Londra vi fa avvertire  che 
      alla  locanda c'è un uomo che vi aspetta con una lettera del conte 
      di Morcerf." 
      "Con una lettera del conte!" gridò Franz. 
      "Sì." 
      "E chi è quest'uomo?" 
      "Non lo so." 
      "E perché non è venuto a portarmela qui?" 
      "Il messaggero non mi ha data alcuna spiegazione." 
      "E dov'è il messaggero?" 
      "E' partito appena mi ha visto entrare nella sala per cercarvi." 
      "Oh,  mio Dio" disse la contessa a Franz,  "andate presto.  Povero 
      giovane: forse gli è accaduta qualche disgrazia." 
      "Vado subito..." disse Franz. 
      "Vi rivedremo per sapere le notizie?" chiese la contessa. 
      "Sì,  se  la cosa non è grave;  altrimenti non posso prevedere ciò 
      che farò io stesso." 
      "In ogni evento, siate prudente" disse la contessa. 
      "Oh, state tranquilla." 
      Franz prese il cappello e partì in tutta fretta.  Aveva licenziata 
      la  carrozza,  ordinandola per le due.  Ma per fortuna la casa del 
      principe,  che corrisponde da una parte sul  Corso,  e  dall'altra 
      sulla piazza dei Santissimi Apostoli,  è a dieci minuti di cammino 
      dall'albergo Londra. 
      Avvicinandosi all'albergo Franz vide un uomo ritto in  mezzo  alla 
      strada avvolto in un gran mantello: non dubitò che questi fosse il 
      messaggero  d'Alberto;  restò però meravigliato che gli rivolgesse 
      per primo la parola. 
      "Che volete, Eccellenza?" disse facendo un passo indietro come uno 
      che voglia tenersi in guardia. 
      "Non siete voi" chiese Franz,  "che mi avete portato  una  lettera 
      del conte di Morcerf?" 
      "Vostra Eccellenza abita all'albergo di Pastrini?" 
      "Sì." 
      "Vostra Eccellenza è il compagno di viaggio del conte?" 
      "Sì." 
      "Come si chiama?" 
      "Il barone Franz d'Epinay." 
      "E'   precisamente  a  Vostra  Eccellenza  che  è  diretta  questa 
      lettera." 
      "Vi abbisogna risposta?" domandò Franz  nel  prendere  la  lettera 
      dalle sue mani. 
      "Sì, o almeno il vostro amico lo spera." 
      "Allora salite da me, che ve la darò." 
      "Sarà meglio che l'aspetti qui..." disse ridendo il messaggero. 
      "E perché?" 
      "Vostra Eccellenza lo capirà meglio quando avrà letta la lettera." 
      "Allora vi ritroverò qui?" 
      "Senza dubbio." 
      Franz entrò e per le scale s'imbatté in Pastrini. 
      "Ebbene?" gli domandò questi. 
      "Ebbene, che?" rispose Franz. 
      "Avete  visto  l'uomo che desiderava parlarvi per parte del vostro 
      amico?" 
      "Sì,  l'ho veduto" rispose  Franz,  "e  mi  ha  consegnata  questa 
      lettera. Vi prego di fare accendere un lume nella mia camera." 
      L'albergatore  dette ordine ad un domestico di precedere Franz col 
      lume. 
      Il  giovane  aveva  osservata  un'aria  spaventata  sul  viso   di 
      Pastrini, il che non aveva fatto che raddoppiargli la curiosità di 
      leggere la lettera d'Alberto: si accostò al candeliere,  appena fu 
      accesa la candela, e piegò il foglio. 
      La lettera era scritta e firmata dalla mano d'Alberto. 
      Franz la lesse due volte,  tanto  era  lontano  dal  figurarsi  il 
      contenuto. Eccola riportata letteralmente: 
 
      "Mio caro amico, 
      appena  avrete  ricevuta  la  presente,  abbiate la compiacenza di 
      prendere nel mio portafogli che troverete nel cassettino  del  mio 
      scrigno la credenziale: uniteci la vostra,  se non basta.  Correte 
      da Torlonia, e ritirate da lui sul momento quattro mila scudi, che 
      consegnerete al  latore  della  presente.  Preme  grandemente  che 
      questa  somma  mi giunga senza alcun ritardo.  Non insisto di più, 
      contando su voi, come voi potreste contare su di me. vostro amico, 
      Alberto de Morcerf. 
      Post scriptum. Adesso credo ai banditi italiani. 
 
      Sotto queste righe erano scritte da mano sconosciuta  le  seguenti 
      parole: 
      "Se  alle  sei  di mattina i quattro mila scudi non sono nelle mie 
      mani, alle sette il conte Alberto avrà cessato di vivere. 
      Luigi Vampa." 
 
      Questa firma spiegò ogni  cosa  a  Franz,  che  capì  l'avversione 
      mostrata dal messaggero a salire in camera: la strada gli sembrava 
      più sicura. 
      Alberto era caduto nelle mani di quel famoso capo di banditi, alla 
      cui esistenza non voleva credere. 
      Non  c'era  tempo  da  perdere:  corse allo scrigno,  l'aprì e nel 
      cassettino  indicato  ritrovò  il  portafogli,   ed  in  esso   la 
      credenziale  di  seimila  scudi  in tutto: ma Alberto ne aveva già 
      presi tremila. 
      Franz non aveva alcuna credenziale;  domiciliando  a  Firenze,  ed 
      essendo  venuto a Roma per passarvi gli otto giorni del carnevale, 
      non aveva preso che un centinaio di luigi, e non gliene rimanevano 
      che appena cinquanta. 
      Gli mancavano dunque sette o ottocento scudi  per  poter  riunire, 
      fra  lui  ed  Alberto,  la somma richiesta.  E' vero che in simile 
      congiuntura Franz poteva calcolare sulla gentilezza di Torlonia. 
      Egli si disponeva dunque a ritornare al palazzo del principe senza 
      perdere un momento,  quando d'improvviso gli venne alla mente  una 
      felice idea... 
      Pensò al conte di Montecristo. 
      Stava  per  far chiamare Pastrini,  quando questi si presentò alla 
      porta. 
      "Mio caro Pastrini, credete che il conte sia in casa?" 
      "Sì, Eccellenza, è entrato or ora." 
      "Avrà avuto tempo d'andare a letto?" 
      "Non credo." 
      "Allora suonate alla sua porta,  ve ne prego,  e domandate in nome 
      mio il permesso di potermi presentare a lui." 
      Pastrini  si  affrettò  ad  eseguire la commissione: cinque minuti 
      dopo rientrò. 
      "Il conte aspetta Vostra Eccellenza" disse. 
      Franz traversò il pianerottolo;  un domestico  lo  introdusse  dal 
      conte. 
      Era  in  un  piccolo salotto che Franz non aveva mai visto,  tutto 
      circondato da un divano; il conte gli venne incontro. 
      "Oh,  qual buon vento vi conduce da me a  quest'ora?"  gli  disse. 
      "Venite forse a chiedermi la cena?  Per Bacco, sarebbe davvero una 
      bella gentilezza per parte vostra." 
      "No, vengo a parlarvi di un affare molto grave." 
      "Di un affare!" disse  il  conte  fissandolo  con  quello  sguardo 
      scrutatore che gli era proprio. "E di quale affare?" 
      "Siamo soli?" 
      Il conte andò alla porta, poi ritornò. 
      "Assolutamente soli..." disse. 
      Franz gli presentò la lettera d'Alberto. 
      "Leggete!" disse. 
      Il conte lesse la lettera. 
      "Ah, ah" fece egli. 
      "Avete veduto il post-scriptum?" 
      "Sì, lo vedo bene... 
      "Se  alle  sei  di mattina i quattro mila scudi non sono nelle mie 
      mani, alle sette il conte Alberto avrà cessato di vivere. 
      Luigi Vampa." 
      "Che ne dite?"  domandò  Franz.  "Avete  la  somma  che  vi  viene 
      richiesta?" 
      "Si, meno ottocento scudi." 
      Il  conte  si accostò allo scrigno e ne trasse un cassettino pieno 
      d'oro. 
      "Io spero" disse a Franz,  "che non vorrete  farmi  l'ingiuria  di 
      rivolgervi ad altri." 
      "Vedete che sono venuto direttamente da voi..." disse Franz. 
      "Ed io ve ne ringrazio: prendete." 
      E fece segno a Franz di prendere nel cassettino. 
      "Ma  è  poi  assolutamente necessario mandare questa somma a Luigi 
      Vampa?" chiese il giovane fissando a  sua  volta  lo  sguardo  sul 
      conte. 
      "Diavolo, giudicatene voi stesso: il post-scriptum è preciso." 
      "Mi sembra che,  se volete prendervi l'incomodo di pensarvi, forse 
      trovereste un mezzo per semplificare molto la  faccenda..."  disse 
      Franz. 
      "E quale?" chiese il conte meravigliato. 
      "Per  esempio,  se  andassimo insieme a trovare Luigi Vampa,  sono 
      sicuro che non vi negherebbe la libertà di Alberto." 
      "A me? Quale influenza volete che io abbia su questo bandito?" 
      "Non gli  avete  appena  reso  uno  di  quei  favori  che  non  si 
      dimenticano più?" 
      "E quale?" 
      "Non avete salvato la vita a Peppino?" 
      "Ah, ah" fece il conte, "e chi ve lo ha detto?" 
      "E che importa a voi questo? Io lo so." 
      Il conte rimase per un momento muto col sopracciglio aggrottato. 
      "E se io andassi a trovare Vampa, mi accompagnereste voi?" 
      "Se la mia compagnia non vi è sgradevole..." 
      "Ebbene,  sia:  la  notte è bella;  una passeggiata nella campagna 
      romana non può farci che bene." 
      "Bisognerà prendere armi?" 
      "Per far che cosa?" 
      "Denaro?" 
      "E'  inutile.   Dove  si  trova  l'uomo  che  ha  portato   questo 
      biglietto?" 
      "Nella strada." 
      "Aspetta la risposta?" 
      "Sì." 
      "Bisogna sapere dove andremo: ora lo chiamerò." 
      "E' inutile, non ha voluto salire." 
      "Da voi forse, ma da me non farà nessuna difficoltà." 
      Il  conte  aprì  la  finestra  del salotto che corrispondeva sulla 
      strada,  e fischiò in un modo particolare.  L'uomo dal mantello si 
      staccò dal muro cui era appoggiato e si avanzò fino al mezzo della 
      strada. 
      "Salite!"  disse il conte col tono con cui si darebbe un ordine al 
      servitore. 
      Il messaggero obbedì senza indugio,  senza  esitazione,  anzi  con 
      sollecitudine. 
      Saliti  i quattro scalini dell'andito,  entrò nell'albergo,  ed in 
      cinque secondi era già alla porta del salotto. 
      "Ah, sei tu, Peppino?" disse il conte. 
      Ma Peppino invece di rispondergli,  gli si gettò  alle  ginocchia, 
      prese le mani del conte, e v'impresse a più riprese le labbra. 
      "Ah,  ah" disse il conte, "tu non hai ancora dimenticato che ti ho 
      salvata la vita? E' singolare! Eppure sono già otto giorni." 
      "No,  Eccellenza,  non lo dimenticherò  mai..."  rispose  Peppino, 
      coll'accento della più viva riconoscenza. 
      "Non  mai?  E' troppo lungo;  però è ancora molto che tu lo creda. 
      Alzati e rispondimi." 
      Peppino gettò uno sguardo inquieto su Franz. 
      "Oh, oh, tu puoi parlare davanti a Sua Eccellenza" disse il conte, 
      "poiché è un mio amico.  Voi permettete che vi dia questo titolo?" 
      disse   in  francese  volgendosi  a  Franz.   "E'  necessario  per 
      accattivarsi la fiducia di costui." 
      "Potete parlare in mia presenza, essendo un amico del conte." 
      "Alla  buon'ora!"  disse  Peppino  volgendosi  al  conte.  "Vostra 
      Eccellenza m'interroghi, ed io risponderò." 
      "In che modo il conte Alberto è caduto nelle mani di Luigi?" 
      "Eccellenza,  la  carrozza  del  francese ha incrociata più di una 
      volta quella di Teresa." 
      "L'amica del capo?" 
      "Sì,  il francese le  ha  fatto  gli  occhi  dolci.  Teresa  si  è 
      divertita a rispondergli;  il francese le ha gettato dei mazzetti, 
      lei gliene ha ricambiati; e tutto ciò, s'intende, col consenso del 
      capo che era nella stessa carrozza." 
      "Come!"  gridò  Franz,  "Luigi  Vampa  era  nella  carrozza  delle 
      contadine romane?" 
      "Era  quello  che  guidava,  mascherato  da  cocchiere..." rispose 
      Peppino. 
      "E poi?" chiese il conte. 
      "Ebbene,  in seguito il francese  si  levò  la  maschera;  Teresa, 
      sempre  col  permesso  del  capo,  fece  altrettanto;  il francese 
      domandò un convegno,  Teresa l'accordò;  soltanto fu Beppe che  si 
      trovò sugli scalini della chiesa di San Giacomo." 
      "Come!"  interruppe  nuovamente  Franz,  "quella  persona  che gli 
      strappò il moccoletto?..." 
      "Era un giovane di quindici anni" rispose Peppino,  "ma il  vostro 
      amico non deve vergognarsi d'essere stato ingannato da lui,  ne ha 
      ingannati molti altri." 
      "E Beppe lo ha condotto fuori le mura?" domandò il conte. 
      "Precisamente.  Una carrozza li aspettava alla fine  della  strada 
      del Macello;  Beppe vi salì, invitando il francese a seguirlo: non 
      se lo fece dire due volte.  Offerse con tutta galanteria la destra 
      a  Beppe,  e gli si sedette vicino;  questi annunziò allora che lo 
      avrebbe condotto in una villa a tre miglia da Roma; il francese lo 
      assicurò di  essere  pronto  a  seguirlo  in  capo  al  mondo.  Il 
      cocchiere  si  avviò subito per la strada di Ripetta,  giunse alla 
      porta San Paolo,  e a duecento passi nella  campagna,  siccome  il 
      francese  diventava  un  po'  troppo intraprendente,  in fede mia, 
      Beppe gli puntò un paio di pistole alla gola,  il cocchiere  fermò 
      subito i cavalli, e volgendosi sul sedile, fece altrettanto. Nello 
      stesso tempo quattro dei nostri, che erano nascosti dietro le rive 
      dell'Almo,  si  sono  lanciati  agli sportelli.  Il francese aveva 
      buona volontà di difendersi,  e per poco non ha strangolato Beppe, 
      a quanto ho inteso dire;  ma non c'era nulla da fare contro cinque 
      uomini armati, ed è stato costretto ad arrendersi. Allora fu fatto 
      scendere di carrozza,  e seguendo l'argine della piccola  riviera, 
      fu  condotto  da Teresa e Luigi che lo aspettavano nelle catacombe 
      di San Sebastiano." 
      "Bene!" disse il conte volgendosi a Franz.  "Mi  pare  che  questa 
      storia  ne  valga  bene  un'altra...  Che  ne  dite  voi che ve ne 
      intendete?" 
      "Dico che la troverei ridicola, se fosse avvenuta a tutt'altri che 
      al mio amico." 
      "Il fatto è" disse il conte,  "che se non mi aveste  ritrovato  in 
      casa,  questa  era un'avventura che sarebbe costata un po' cara al 
      vostro amico; ma tranquillizzatevi, ne sarà riscattato solo con un 
      poco di paura." 
      "E noi andiamo a trovarlo?" domandò Franz. 
      "Per Bacco,  tanto più perché  si  trova  in  una  località  molto 
      pittoresca. Conoscete le catacombe di San Sebastiano?" 
      "No,  non vi sono mai disceso: avevo però stabilito che un qualche 
      giorno vi sarei andato." 
      "Ebbene, ecco trovata l'occasione, e sarà difficile ritrovarne una 
      migliore. Avete pronta la vostra carrozza?" 
      "No." 
      "Non importa: io ho l'uso di farne stare una sempre pronta notte e 
      giorno." 
      "In ordine?..." 
      "Sì,  sono molto  capriccioso:  vi  confesso  che  qualche  volta, 
      alzandomi alla fine del pranzo, o nel mezzo della notte, mi prende 
      la volontà di portarmi in un punto qualunque del mondo, e parto." 
      Il conte dette un tocco al campanello, il cameriere comparve. 
      "Fate  uscire  la  carrozza  dalla  rimessa"  disse,  "e levate le 
      pistole che stanno nelle tasche: è inutile svegliare il cocchiere, 
      Alì guiderà." 
      Dopo un momento s'intese il rumore della carrozza,  che  si  fermò 
      davanti alla porta. 
      Il conte guardò l'orologio. 
      "Mezz'ora  dopo  mezzanotte"  disse.  "Avremmo  potuto partire tra 
      cinque ore,  e giungere ancora in tempo;  ma questo ritardo  forse 
      avrebbe  fatto  passare  una  cattiva notte al vostro compagno.  E 
      dunque meglio andare di corsa a toglierlo dalle mani dei  barbari. 
      Siete sempre risoluto ad accompagnarmi?" 
      "Più che mai." 
      "Ebbene, andiamo dunque." 
      Franz ed il conte uscirono seguiti da Peppino. 
      Alla porta trovarono la carrozza. 
      Alì  era  a cassetta: Franz riconobbe lo schiavo muto della grotta 
      di Montecristo. 
      Salirono in carrozza aperta;  Peppino si  pose  vicino  ad  Alì  e 
      partirono  al galoppo.  Alì aveva già ricevuto gli ordini,  poiché 
      prese la strada del Corso,  e  traversò  Campo  Vaccino,  percorse 
      quella di San Gregorio,  e giunse alla porta di San Sebastiano: il 
      portinaio  volle  fare  qualche  difficoltà,   ma  il   conte   di 
      Montecristo presentò un permesso del governatore di Roma di potere 
      entrare  ed uscire dalla città in qualunque ora del giorno e della 
      notte; fu dunque aperta la porta,  il portinaio ricevette un luigi 
      per il suo incomodo e passarono. 
      La strada che percorreva la carrozza era l'antica via Appia, tutta 
      costeggiata  da antichi sepolcri.  A quando a quando,  al chiarore 
      della luna che sorgeva,  sembrava a Franz di vedere una specie  di 
      sentinella  staccarsi  da  un rudere;  ma ad un segnale di Peppino 
      spariva immediatamente fra le ombre. 
      Poco prima del circo di Caracalla la carrozza  si  fermò,  Peppino 
      venne ad aprire lo sportello, e Franz ed il conte discesero. 
      "Fra dieci minuti" disse il conte al compagno, "saremo arrivati." 
      Indi  prese Peppino a parte,  gli dette un ordine a bassa voce,  e 
      questi partì  dopo  essersi  munito  di  una  torcia  presa  nella 
      cassetta della carrozza. 
      Scorsero  ancora  cinque  minuti,  nei quali Franz vide il pastore 
      inoltrarsi fra le dune del terreno ineguale della campagna romana, 
      e perdersi fra l'alta erba rossastra che sembra l'irta criniera di 
      qualche gigantesco leone. 
      "Ora" disse il conte, "seguiamolo." 
      Entrambi s'inoltrarono nello stesso sentiero, che dopo cento passi 
      li condusse per un piano inclinato in una piccola vallata. 
      Ben presto videro due uomini parlarsi fra le ombre. 
      "Dobbiamo continuare ad inoltrarci?" domandò Franz  al  conte,  "o 
      aspettare?" 
      "Avanti...  Peppino  deve  avere avvisata la sentinella del nostro 
      arrivo." 
      Infatti uno di quei due uomini era  Peppino,  l'altro  un  bandito 
      posto a vedetta. 
      Franz e il conte si avvicinarono, il bandito li salutò. 
      "Eccellenza"  disse  Peppino,   volgendosi  al  conte,  "se  vuole 
      seguirmi, l'ingresso alle catacombe è qui a due passi." 
      "Sta bene" disse il conte, "cammina avanti." 
      Infatti dietro ad un folto cespuglio, ed in mezzo a diverse rocce, 
      si presentava un'apertura per  la  quale  un  uomo  poteva  appena 
      passare.  Peppino  fu il primo a scivolare entro questa fenditura; 
      ma appena ebbe fatto qualche passo il passaggio si allargò. 
      Allora si fermò,  accese la torcia,  e si volse a  vedere  se  era 
      seguito. 
      Il  conte  si  era  introdotto  per  primo  per  questa  specie di 
      spiraglio,  e Franz dopo di lui.  Il terreno si abbassava con  una 
      inclinazione dolce, e si allargava man mano che s'inoltravano; ciò 
      nonostante  Franz ed il conte erano obbligati a camminare ricurvi, 
      ed avrebbero fatto fatica a passare tutti e due di fianco. 
      In tal modo fecero circa cinquanta passi,  quindi si fermarono  al 
      grido "chi vive?" e nello stesso tempo videro brillare la canna di 
      un fucile al chiarore della torcia. 
      "Amici!" rispose Peppino. 
      E  si  avanzò  solo,  disse  alcune  parole  a bassa voce a questa 
      seconda sentinella,  che come la prima li salutò facendo segno  ai 
      notturni visitatori che potevano passare. 
      Dietro la sentinella c'era una scala di circa venti gradini. 
      Franz  ed  il conte li discesero e si ritrovarono in una specie di 
      crocevia mortuario. 
      Da questo punto divergevano cinque vie come i raggi di una stella, 
      e le pareti delle mura,  scavate a nicchie sovrapposte a forma  di 
      sepolcri,   indicavano   che   finalmente  erano  penetrati  nelle 
      catacombe.  In una  di  queste  cavità,  di  cui  era  impossibile 
      calcolare l'estensione, si vedevano alcuni riflessi di luce. 
      Il conte mise la mano sulla spalla di Franz, e disse: 
      "Volete vedere un accampamento di banditi immersi nel sonno?" 
      "Sì" rispose Franz. 
      "Ebbene, venite con me... Peppino, smorza la torcia." 
      Peppino  obbedì,  e  Franz  ed  il  conte  si  trovarono nella più 
      profonda oscurità;  soltanto a circa  cinquanta  passi  davanti  a 
      loro,  si  vedevano  lungo  i muri alcuni raggi rossastri di luce, 
      divenuti ancora più visibili  dopo  che  Peppino  ebbe  spenta  la 
      torcia. 
      Avanzarono silenziosamente;  il conte guidava Franz come se avesse 
      avuta la singolare facoltà di vederci fra le  tenebre.  Lo  stesso 
      Franz   acquistava   maggior   pratica  del  luogo  man  mano  che 
      s'inoltrava verso quel chiaro di luce che serviva di guida. 
      Tre arcate,  delle quali una di mezzo serviva  di  porta,  dettero 
      loro  passaggio.  Da  una  parte mettevano nel corridoio dov'erano 
      Franz ed il conte,  e  dall'altra  in  una  sala  quadrata,  tutta 
      circondata da nicchie come quelle di cui abbiamo parlato. In mezzo 
      s'ergevano  quattro  pietre  che  un tempo erano adibite ad altare 
      come indicava la croce sovrapposta. 
      Una sola lampada, posta sopra un fusto di colonna,  illuminava con 
      una  luce  pallida  e vacillante la strana scena che si presentava 
      agli occhi dei due notturni visitatori nascosti nell'ombra. 
      Un uomo era seduto,  col gomito appoggiato  a  questa  colonna,  e 
      leggeva, voltando le spalle alle arcate. 
      Era il capo della banda, Luigi Vampa. 
      Intorno  a  lui,  stavano  stesi  e  avvolti nei loro mantelli,  o 
      addossati ad una specie di banco di pietra che girava tutt'intorno 
      alle pareti di questo colombario,  una ventina circa di  briganti; 
      ciascuno teneva la carabina a portata di mano. 
      Nel  fondo,   silenziosa,   e  appena  visibile  si  scorgeva  una 
      sentinella che come un'ombra passeggiava su e giù,  davanti ad una 
      specie di apertura, che non da altro si distingueva, se non perché 
      erano più fitte le tenebre in quella direzione. 
      Appena  il conte s'accorse che Franz aveva abituati abbastanza gli 
      occhi a questo quadro pittoresco portò l'indice  alle  labbra  per 
      raccomandare  il  silenzio,  e  salendo  i  tre  scalini  che  dal 
      corridoio mettevano nel colombario,  entrò nella sala  dell'arcata 
      di  mezzo,  e  si  avanzò  verso Vampa tanto profondamente immerso 
      nella lettura, che non ne intese i passi. 
      "Chi è là?" gridò la sentinella meno occupata di lui,  e che  vide 
      al chiarore della lampada due specie d'ombre ingrandirsi dietro il 
      capo. 
      A questo grido, Vampa si alzò rapido, togliendo nello stesso tempo 
      dalla cintura le pistole; in un momento i banditi furono in piedi, 
      e venti canne di carabine erano dirette sopra il conte. 
      "Ebbene" disse tranquillamente questi, con voce del tutto placida, 
      e  senza  che  uno  solo  dei  muscoli del suo viso si contraesse, 
      "ebbene,  mio caro Vampa,  mi sembra di vedere troppi  preparativi 
      per ricevere un amico." 
      "Abbasso  le  armi!" gridò il capo facendo un segno imperativo con 
      una mano, mentre coll'altra si levava rispettosamente il cappello. 
      Quindi volgendosi verso  il  singolare  personaggio  che  dominava 
      tutta questa scena: 
      "Perdono,    signor   conte"   disse,   "ma   ero   così   lontano 
      dall'aspettarmi l'onore di una vostra visita,  che  non  vi  avevo 
      riconosciuto." 
      "Sembra  che  voi  abbiate  poca memoria in tutte le cose,  Vampa" 
      disse il conte, "e che non solo vi scordiate della fisonomia delle 
      persone, ma anche delle condizioni pattuite." 
      "E quali condizioni ho potuto dimenticare,  signor conte?" domandò 
      il bandito,  come un uomo che se ha commesso un fallo non desidera 
      che di ripararlo. 
      "Non è stato fra noi convenuto" disse il conte,  "che  vi  sarebbe 
      stata  sacra  non solo la mia persona,  ma anche quella di tutti i 
      miei amici?" 
      "E in che ho mancato al trattato, Eccellenza?" 
      "Questa sera avete rapito e trasportato  il  visconte  Alberto  di 
      Morcerf:  ebbene"  continuò  il  conte  con  un  accento  che fece 
      rabbrividire Franz,  "questo giovane è uno dei  miei  amici,  egli 
      abita nello stesso albergo dove sto io, per otto giorni è stato al 
      Corso  nella  mia  carrozza,  e  inoltre,  ve lo ripeto,  lo avete 
      rapito,  lo avete trasportato qui" aggiunse il  conte  cavando  di 
      tasca  la  lettera,  "gli  avete imposto un riscatto come se fosse 
      stato un nemico." 
      "E perché non mi avete avvisato di tutto questo?"  disse  il  capo 
      volgendosi  ai  suoi  uomini,  che  indietreggiavano  tutti al suo 
      sguardo. "Perché mi avete esposto a mancare alla mia parola con un 
      uomo,  il signor conte,  che tiene tutte le nostre vite nelle  sue 
      mani?  Per...!  Se  potessi  credere  che uno di voi sapeva che il 
      giovane era amico di Sua  Eccellenza,  gli  brucerei  le  cervella 
      colle mie mani!" 
      "Ebbene"  disse  il conte volgendosi a Franz,  "non vi avevo detto 
      che doveva esserci un qualche equivoco!" 
      "Come, non siete solo?" domandò Vampa con inquietudine. 
      "Sono con colui cui era diretta questa  lettera  ed  al  quale  ho 
      voluto  provare  che  Luigi  Vampa  era un uomo di parola.  Venite 
      avanti,  Eccellenza" disse a Franz,  "ecco  qui  il  signor  Luigi 
      Vampa, che si dirà dolente dello sbaglio commesso." 
      Franz  si  avanzò,  ed  il  capo  dei banditi gli andò incontro di 
      qualche passo: 
      "Siate il benvenuto in mezzo a noi, Eccellenza" gli disse.  "Avete 
      sentito  ciò  che  ha  detto  il  signor  conte,  e ciò che gli ho 
      risposto;  aggiungerò che non vorrei,  per i quattromila scudi che 
      avevo fissato di riscatto, che ciò fosse accaduto." 
      "Ma"  disse  Franz  guardando con inquietudine intorno,  "dov'è il 
      prigioniero? Non lo vedo..." 
      "Spero non gli sarà  accaduta  cosa  alcuna?"  domandò  il  conte, 
      aggrottando il sopracciglio. 
      "Il  prigioniero è là" disse Vampa,  mostrando colla mano il luogo 
      oscuro davanti al quale passeggiava il bandito in  fazione.  "Vado 
      io stesso ad annunciargli la libertà." 
      Il capo si avanzò verso il luogo indicato come prigione d'Alberto, 
      il conte e Franz lo seguirono. 
      "Che fa il prigioniero?" domandò Vampa alla sentinella. 
      "Sulla mia parola" rispose questi, "l'ignoro: da più di un'ora non 
      l'ho sentito muoversi." 
      "Venite, Eccellenza" disse Vampa. 
      Il  conte  e  Franz salirono sette o otto scalini sempre preceduti 
      dal capo, che tirò un catenaccio e spinse avanti una porta. 
      Allora,  al chiarore di una lampada simile a quella che illuminava 
      il  colombario,  si  poté  vedere Alberto,  avvolto in un mantello 
      prestato da un bandito, steso in un angolo,  dormire nel sonno più 
      profondo. 
      "Andiamo"  disse  il conte con quel suo sorriso particolare,  "non 
      c'è male per un uomo che doveva  essere  fucilato  domattina  alle 
      sette." 
      Vampa  guardò con una certa ammirazione Alberto che dormiva,  e si 
      vide che non era insensibile a questa prova di coraggio. 
      "Avete ragione,  signor conte" disse,  "quest'uomo dev'essere  uno 
      dei vostri amici." 
      E, accostandosi ad Alberto e toccandogli la spalla: 
      "Eccellenza" disse, "si svegli, se le fa piacere." 
      Alberto stese le braccia, si strofinò le palpebre, e si svegliò: 
      "Ah" disse,  "siete voi,  capitano?  Per Bacco, avreste ben potuto 
      lasciarmi dormire: io facevo un grazioso sogno, sognavo di ballare 
      un galop da Torlonia con la contessa G." 
      Guardò l'orologio che aveva conservato,  per poter controllare  il 
      tempo trascorso: 
      "Un'ora  e mezzo dopo mezzanotte;  e perché diavolo mi svegliate a 
      quest'ora?" 
      "Per dirvi che siete libero, Eccellenza." 
      "Caro mio" soggiunse Alberto con una perfetta  prontezza  d'animo, 
      "ricordatevi bene,  in avvenire, di questa massima di Napoleone il 
      grande: "Non mi svegliate che  per  le  cattive  notizie".  Se  mi 
      aveste  lasciato  dormire,  avrei terminato il mio galop,  e ve ne 
      sarei stato riconoscente per tutta la vita...  Il mio  riscatto  è 
      dunque stato pagato?" 
      "No, Eccellenza." 
      "In qual modo dunque son libero?" 
      "Qualcuno, a cui non posso nulla negare, è venuto a reclamarvi." 
      "Fin qui?" 
      "Fin qui." 
      "Oh per Bacco, questo qualcuno è una persona molto amabile." 
      Alberto guardò intorno a sé e s'avvide di Franz. 
      "Come?" disse.  "Siete voi mio caro Franz, che spingete tant'oltre 
      la vostra amicizia?" 
      "Non sono io" rispose Franz, "ma il nostro conte di Montecristo." 
      "Ah,  per Bacco!  il signor conte!" disse Alberto accomodandosi la 
      cravatta ed i polsini.  "Siete un uomo veramente prezioso, e spero 
      vorrete considerarmi riconoscente per tutta  la  vita,  prima  per 
      l'affare della carrozza, e poi per questo." 
      E in così dire stese la mano al conte,  che fremette al momento di 
      dargli la sua; però gliela diede. 
      Il bandito osservava tutta questa scena con volto stupefatto:  era 
      evidentemente  avvezzo a vedere i suoi prigionieri tremare davanti 
      a lui,  ed ora ne aveva innanzi a sé uno,  la cui burlevole indole 
      non  aveva  sofferta  alcuna  alterazione;  quanto  a  Franz,  era 
      contentissimo che Alberto,  anche in faccia ad un bandito,  avesse 
      saputo sostenere l'onore nazionale. 
      "Mio caro Alberto" gli disse, "se volete spicciarvi, avremo ancora 
      il tempo di andare a finire la notte da Torlonia.  Riprenderete il 
      vostro galop al punto in  cui  l'avete  interrotto,  per  cui  non 
      serberete  alcun  rancore  col  signor  Luigi Vampa,  che in tutto 
      questo affare, si è condotto da vero galantuomo." 
      "Ah,  sì davvero" disse,  "avete ragione,  e noi potremo giungervi 
      alle due...  Signor Luigi" continuò Alberto, "vi è altra formalità 
      da compiersi prima di prendere commiato da Vostra Eccellenza?" 
      "Nessuna,  signore" rispose il bandito,  "e voi siete libero  come 
      l'aria." 
      "In  questo  caso,  buona  ed  allegra  vita...  Venite,  signori, 
      venite." 
      Ed Alberto,  seguito da Franz e dal conte,  discese  la  scala,  e 
      traversò la sala quadrata. 
      Tutti i banditi erano in piedi col cappello in mano. 
      "Peppino" disse il capo, "dammi la torcia." 
      "Ebbene che volete fare?" domandò il conte. 
      "Vi  accompagno,  questo  è  il  più  piccolo  onore  che io possa 
      tributare a Vostra Eccellenza." 
      E togliendo la torcia  accesa  dalle  mani  del  pastore,  camminò 
      avanti ai suoi ospiti, non come un cameriere che compie un atto di 
      servitù, ma come un re che preceda degli ambasciatori. Giunto alla 
      porta, s'inchinò. 
      "Ora,  signor conte" disse,  "vi rinnovo le mie scuse, e spero non 
      conserverete alcun risentimento per l'accaduto." 
      "No, mio caro Vampa" disse il conte.  "Emendate i vostri errori in 
      un  modo  così  compito,  che  si  è  quasi  costretti  ad esservi 
      obbligati per averli commessi." 
      "Signori" riprese  il  capo  volgendosi  ai  due  giovani,  "forse 
      l'invito non vi sembrerà molto attraente,  ma se mai vi venisse la 
      volontà di farmi una seconda visita,  qui ed  in  qualunque  altro 
      luogo potessi essere, sarete sempre i benvenuti." 
      Franz ed Alberto lo salutarono. 
      Il conte uscì per primo, Alberto lo seguì, Franz fu l'ultimo. 
      "Vostra  Eccellenza,  ha  forse  qualche cosa da chiedermi?" disse 
      Vampa. 
      "Sì, lo confesso" rispose Franz, "sarei curioso di sapere qual era 
      l'opera che  leggevate  con  tanta  attenzione  quando  noi  siamo 
      arrivati." 
      "I Commentari di Giulio Cesare, il mio libro prediletto." 
      "Ebbene, non venite?" domandò Alberto. 
      "Subito" rispose Franz, "eccomi." 
      Ed uscì a sua volta dalla buca. 
      Fatto qualche passo nella pianura: 
      "Ah,   perdonatemi"  disse  Alberto,  tornando  indietro.  "Volete 
      permettermi, capitano?" 
      Ed accese il sigaro alla torcia di Vampa. 
      "Ora signor conte"  disse  Alberto,  "ho  grandissima  premura  di 
      finire la notte dal principe Torlonia." 
      La carrozza fu ritrovata nel luogo dove era stata lasciata. 
      Il  conte  disse  una  sola  parola  araba  ad  Alì,  ed i cavalli 
      partirono a tutta carriera. 
      Erano le due precise all'orologio d'Alberto,  quando i  due  amici 
      entrarono nella sala da ballo.  Il loro ritorno fu un avvenimento, 
      ma siccome rientrarono insieme, tutti i timori sul conto d'Alberto 
      cessarono sul momento. 
      "Signora" disse  il  visconte  de  Morcerf  avanzandosi  verso  la 
      contessa, "ieri voi aveste la bontà di promettermi un galop, vengo 
      un  po'  tardi  a  reclamare  questa graziosa promessa;  ma il mio 
      amico,  che voi sapete quant'è sincero,  potrà dirvi  che  non  fu 
      colpa mia." 
      E  siccome  in  quel  momento  l'orchestra  dava  il segnale di un 
      valzer,  Alberto passò il braccio attorno alla vita della contessa 
      e disparve con lei fra il nembo dei ballerini. 
      Intanto   Franz  ripensava  al  singolare  fremito  del  conte  di 
      Montecristo, nel momento in cui era stato costretto a stringere la 
      mano ad Alberto. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 38. 
                                 IL CONVEGNO. 
 
 
      L'indomani nel levarsi,  la prima parola di Alberto fu di proporre 
      a  Franz di fare una visita al conte.  Lo aveva già ringraziato la 
      sera prima,  ma capiva benissimo che un favore come quello resogli 
      dal  conte,   meritava  due  ringraziamenti.   Franz  che  provava 
      un'attrattiva, mista a terrore, verso il conte di Montecristo, non 
      volle  lasciarlo  andar  solo  da  quest'uomo,  e  lo  accompagnò. 
      Entrambi furono introdotti: cinque minuti dopo comparve il conte. 
      "Signor conte" disse Alberto andandogli incontro, "permettetemi di 
      ripetervi  questa  mattina ciò che malamente vi ho detto la scorsa 
      notte;  che non dimenticherò mai in qual frangente mi siate venuto 
      in aiuto; e mi ricorderò sempre che vi devo la vita, o poco meno." 
      "Mio  caro  vicino"  rispose  il  conte ridendo,  "voi esagerate i 
      vostri obblighi verso di me;  non mi dovete  che  una  ventina  di 
      migliaia  di  franchi  sul  vostro preventivo di viaggio,  ed ecco 
      tutto...  Vedete bene che non bisogna parlarne.  Per vostra parte" 
      aggiunse,  "ricevete  le  mie  congratulazioni;  avete  dimostrato 
      un'ammirabile prontezza d'animo, e gran disinvoltura." 
      "Che serve,  conte" disse Alberto,  "mi sono immaginato  di  avere 
      avuto una sfavorevole contesa, ed esser corsa una sfida. Volli far 
      comprendere  una  cosa a questi banditi,  che in tutti i paesi del 
      mondo gli uomini si battono, ma che non vi sono che i francesi che 
      si battono ridendo. Ma non essendo meno grande l'obbligo,  vengo a 
      chiedervi  se per mezzo delle mie conoscenze potessi esservi utile 
      in  qualche  cosa.  Mio  padre,  il  conte  de  Morcerf  d'origine 
      spagnola, gode di un'alta posizione in Francia ed in Spagna, vengo 
      a   mettere   me  e  tutte  le  persone  che  mi  amano  a  vostra 
      disposizione." 
      "Ebbene" disse il conte, "vi confesso,  signor de Morcerf,  che mi 
      aspettavo da voi una simile offerta,  e che l'accetto con tutto il 
      cuore.  Avevo già fissati i miei pensieri su di voi per  chiedervi 
      un gran favore." 
      "Quale?" 
      "Non sono mai stato a Parigi, e non conosco Parigi." 
      "Davvero"  gridò  Alberto,  "avete potuto vivere fino ad ora senza 
      vedere Parigi? Pare incredibile..." 
      "Eppure è così.  Ma  sento  che  una  più  lunga  ignoranza  della 
      capitale del mondo intellettuale è impossibile. Vi è di più; forse 
      avrei  fatto  da  lungo  tempo  questo viaggio indispensabile,  se 
      avessi conosciuto qualcuno che mi avesse potuto introdurre in quel 
      mondo dove non ho alcuna relazione. 
      "Oh, un uomo come voi!" gridò Alberto. 
      "Siete molto buono.  Ma siccome non riconosco in me  stesso  altro 
      merito  che  quello  di poter fare concorso,  come milionario,  ai 
      vostri più ricchi banchieri,  e non vado a Parigi per speculare in 
      borsa,  questa modestia mi ha trattenuto. Ora la vostra offerta mi 
      risolve.  Vediamo v'impegnate,  mio  caro  de  Morcerf"  il  conte 
      strisciò  questa parola con un singolare sorriso,  "quando sarò in 
      Francia,  ad aprirmi  le  porte  di  quel  mondo,  dove  sarò  uno 
      straniero al pari di un Huron, o di un cinese?" 
      "Quanto a ciò,  mio caro conte, a meraviglia e con tutto il cuore" 
      rispose Alberto,  "e tanto più volentieri (mio caro Franz,  non vi 
      burlate tanto di me),  che sono richiamato a Parigi da una lettera 
      che ricevo questa mattina stessa,  ed  in  cui  si  parla  di  una 
      trattativa  con  una  casa molto rispettabile e che ha le migliori 
      relazioni col bel mondo parigino." 
      "Trattativa di matrimonio?" disse ridendo Franz. 
      "Qual meraviglia?  Sì:  perciò  quando  ritornerete  a  Parigi  mi 
      troverete uomo sposato,  e forse padre di famiglia. Ciò starà bene 
      colla mia serietà naturale, non è vero? In ogni modo, conte, ve lo 
      ripeto,  io ed i miei,  siamo tutti,  corpo  ed  anima,  a  vostra 
      disposizione." 
      "Ed  io  accetto"  disse il conte,  "perché vi assicuro che non mi 
      mancava che questa occasione per effettuare un disegno che  rumino 
      da lungo tempo." 
      Franz  non  dubitò  un  momento che non fosse quello di cui si era 
      lasciato sfuggire qualche parola nella grotta  di  Montecristo,  e 
      guardò  il  conte  mentre  diceva  queste  parole,  per tentare di 
      sorprendere sulla sua fisonomia qualche rivelazione  sui  progetti 
      che  lo  conducevano  a  Parigi,  ma era molto difficile penetrare 
      nell'animo di quest'uomo,  particolarmente quando lo vedeva con un 
      sorriso. 
      "Ma  mi  scusi,   conte"  soggiunse  Alberto,  contento  di  poter 
      presentare a Parigi un uomo come il  conte  di  Montecristo,  "non 
      sarà  un  qualche  castello  in  aria,  come  se ne fanno mille in 
      viaggio, e che, fabbricati sulla sabbia,  vengono poi distrutti al 
      primo soffio di vento?" 
      "No,  sul mio onore" disse il conte,  "voglio andare a Parigi,  ho 
      bisogno d'andarvi." 
      "E quando sarà?" 
      "Quando vi sarete voi stesso?" 
      "Io?" disse Alberto. "Oh, mio Dio,  fra quindici giorni,  o al più 
      fra  tre  settimane;   il  tempo  necessario  per  il  ritorno,  e 
      null'altro." 
      "Ebbene,  vi accordo tre  mesi...  Vedete  che  vi  do  una  larga 
      misura." 
      "E fra tre mesi" gridò Alberto con gioia,  "verrete a battere alla 
      mia porta?" 
      "Volete un appuntamento anche per il giorno e per l'ora?" disse il 
      conte.  "Vi prevengo  però  che  sono  di  una  esattezza  da  far 
      disperare." 
      "Il  giorno  e  l'ora  precisa!"  disse  Alberto.   "Ciò  andrà  a 
      meraviglia." 
      "Ebbene, sia così." 
      Egli stese  la  mano  verso  un  calendario  attaccato  presso  lo 
      specchio. 
      "Oggi  siamo  al 21 febbraio" cavò l'orologio,  "e sono le dieci e 
      mezzo del mattino: volete aspettarmi il 21  maggio  prossimo  alle 
      dieci e mezzo del mattino?" 
      "A meraviglia!" disse Alberto. "La colazione sarà preparata." 
      "Dove abitate?" 
      "Rue Helder numero 27." 
      "Siete   nella  vostra  casa  di  scapolo,   ed  io  non  vi  sarò 
      d'incomodo?" 
      "Abito in casa di mio padre,  ma in  un  padiglione  in  fondo  al 
      cortile, interamente separato." 
      "Va bene" il conte aprì il taccuino e scrisse: "Rue Helder, numero 
      27, 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino". 
      "Ed ora" disse il conte, rimettendosi il taccuino in tasca, "state 
      tranquillo, la sfera del vostro pendolo non sarà più esatta di me. 
      Vi rivedrò prima della vostra partenza?" domandò ad Alberto. 
      "Dipende..." 
      "Quando partirete?" 
      "Parto domani sera alle cinque." 
      "In questo caso vi do il mio addio.  Ho alcuni affari a Napoli,  e 
      non sarò di ritorno qui che sabato sera o domenica mattina. E voi" 
      soggiunse volgendosi a Franz, "partite voi pure, signor barone?" 
      "Sì." 
      "Per la Francia?" 
      "No, per Venezia. Resto ancora un anno o due in Italia." 
      "Noi dunque non ci rivedremo a Parigi?" 
      "Temo di non avere quest'onore." 
      "Animo dunque, signori, buon viaggio" disse il conte ai due amici, 
      stendendo ad essi la mano. 
      Era la prima volta che Franz toccava  la  mano  di  quest'uomo,  e 
      rabbrividì, perché era di ghiaccio come quella di un morto. 
      "Per l'ultima volta" disse Alberto,  "resta stabilito sulla parola 
      d'onore, è vero?  Rue Helder numero 27,  il 21 maggio alle dieci e 
      mezzo del mattino?" 
      "Il 21 maggio,  alle dieci e mezzo del mattino,  Rue Helder numero 
      27" ripeté il conte. 
      Dopo di che i due giovani amici lo salutarono. 
      "Che avete?" disse  Alberto  a  Franz  nel  rientrare  nelle  loro 
      stanze. "Mi sembrate molto afflitto." 
      "Sì" disse Franz, "ve lo confesso, il conte è un uomo singolare, e 
      vedo con inquietudine questo appuntamento a Parigi." 
      "Questo  appuntamento...  con  inquietudine?  E  perché?  Ma siete 
      pazzo, mio caro Franz!" gridò Alberto. 
      "Che volete? Pazzo o no, la cosa va così." 
      "Ascoltate" ripeté Alberto,  "sono ben contento che mi si presenti 
      l'occasione  di  dirvi  che  vi  ho  sempre  trovato  di  una gran 
      freddezza col conte mentr'egli per sua parte è  sempre  stato  ben 
      diverso  con noi.  Avete qualche prevenzione in particolare contro 
      di lui?" 
      "Può darsi." 
      "Ma l'avevate veduto in qualche altro  luogo  prima  d'incontrarlo 
      qui?" 
      "Precisamente." 
      "E dove?" 
      "Mi  promettete  di  non  dir  mai  una  parola  di quanto sto per 
      raccontarvi?" 
      "Ve lo prometto." 
      "Sta bene: ascoltatemi dunque." 
      Allora Franz raccontò ad Alberto la sua  escursione  all'isola  di 
      Montecristo,  in  qual  modo  vi  aveva ritrovato un equipaggio di 
      contrabbandieri e fra questi due  banditi  corsi.  Egli  calcò  su 
      tutti  i particolari della ospitalità stregonesca che il conte gli 
      aveva data nella sua grotta delle Mille e una notte, gli descrisse 
      la cena, l'hashish, le statue,  la realtà,  il sogno e come al suo 
      svegliarsi  altro  non restava più,  come prova e ricordo di tanti 
      avvenimenti,  che il piccolo yacht che faceva  vela  all'orizzonte 
      per Porto Vecchio.  Quindi passò a Roma,  alla notte del Colosseo, 
      al dialogo che aveva udito fra lui e Vampa, conversazione relativa 
      a Peppino,  e nella quale il conte aveva promesso di  ottenere  la 
      grazia del bandito,  promessa che aveva mantenuta, come ne avranno 
      potuto giudicare i nostri lettori. 
      Finalmente   giunse   all'avventura   della   notte    precedente, 
      all'impaccio  in  cui si era ritrovato,  vedendosi mancare sette o 
      ottocento scudi per completare la somma;  infine all'idea che  gli 
      era venuta di ricorrere al conte, idea che ebbe un risultato tanto 
      soddisfacente e pittoresco. 
      Alberto ascoltava Franz con tutta l'attenzione. 
      "Ebbene"  disse,  quando  l'amico  ebbe  finito,  "e  che  c'è  di 
      riprovevole in  tutto  questo?  Il  conte  è  viaggiatore;  ha  un 
      bastimento  proprio  perché è uomo ricco.  Andate a Portsmouht o a 
      Southampton  e  ritroverete  questi  porti   ingombri   di   yacht 
      appartenenti  a  ricchi inglesi che hanno la stessa fantasia.  Per 
      sapere dove fermarsi nelle escursioni,  per non cibarsi di  quella 
      terribile  cucina,  che  avvelena  me  da  quattro mesi,  e voi da 
      quattro anni,  per non giacere su quei letti abominevoli nei quali 
      non si può dormire, si è fatto ammobiliare un piccolo pian terreno 
      a  Montecristo;  e temendo che il governo toscano non gli desse il 
      permesso,  e tutti i suoi mobili andassero  perduti,  ha  comprato 
      l'isola,  e ne ha assunto il nome.  Mio caro, frugate nella vostra 
      memoria,  e ditemi quante persone di nostra conoscenza prendono il 
      nome di proprietà che non hanno mai avute?" 
      "Ma"  disse  Franz,  "e  quei  banditi  corsi che erano fra il suo 
      equipaggio?..." 
      "Che c'è di strano? Capite meglio di qualunque altro che i banditi 
      corsi non sono ladri, ma fuggitivi, perché una qualche vendetta li 
      ha esiliati dalle loro città o dai  villaggi;  si  possono  dunque 
      vedere  senza  compromettersi.  In  quanto a me dichiaro che se un 
      giorno dovessi andare in Corsica,  prima di  farmi  presentare  al 
      Governatore  o  al  Prefetto,  mi  farei  presentare ai banditi di 
      Colomba,  sempre che vi si possa mettere la mano sopra,  e che  io 
      considero gentiluomini." 
      "Ma  Vampa  e  la  sua  banda" soggiunse Franz,  "sono banditi che 
      rapiscono per rubare,  non lo negherete,  spero!  Che dite  dunque 
      dell'influenza che il conte ha su tal razza di gente?" 
      "Dirò  che dovendo la vita,  secondo tutte le apparenze,  a questa 
      influenza,  non spetta a me il criticarla troppo da vicino.  Così, 
      invece  di  fargliene,  come  voi,  una colpa capitale,  troverete 
      giusto che lo scusi,  se non di avermi salvata  la  vita,  il  che 
      sarebbe esagerato, almeno di avermi fatto risparmiare quattro mila 
      scudi, che fanno ventiquattro mila lire nella nostra moneta, somma 
      per la quale non mi avrebbero tanto stimato in Francia." 
      "Ma di che paese è il conte?  Che lingua parla?  Quali sono i suoi 
      mezzi di sussistenza?  Da dove gli viene la sua  immensa  fortuna? 
      Quale  è  stata  questa  prima  parte della sua vita misteriosa ed 
      incognita,  che  ha  sparso  sulla  seconda  una  tinta  oscura  e 
      misantropica? Ecco ciò che al vostro posto vorrei sapere." 
      "Mio  caro Franz,  quando leggendo la mia lettera vi siete accorto 
      che avevamo bisogno  dell'influenza  del  conte,  siete  andato  a 
      dirgli:  "Alberto conte di Morcerf corre un pericolo;  aiutatemi a 
      toglierlo d'impiccio!". Non è vero?" 
      "Sì." 
      "Allora vi ha egli domandato: "E chi è questo  signor  Alberto  de 
      Morcerf?  Donde  gli  viene  il  suo nome?  Donde gli viene la sua 
      fortuna?  Quali sono i suoi mezzi di sussistenza?  Qual è  il  suo 
      paese? Dove è nato?". Vi ha forse fatte queste domande? dite?" 
      "No, lo confesso." 
      "Egli  è  venuto,  ecco  tutto,  mi ha tolto dalle mani del signor 
      Vampa, dove ad onta di tutte le mie arie, come voi mi diceste,  vi 
      facevo barbina figura,  lo confesso: ebbene,  mio caro,  quando in 
      cambio di simile favore mi domanda di far per lui ciò  che  si  fa 
      tutti  i  giorni  per il primo principe russo o italiano che passa 
      per Parigi,  vale a dire presentarlo in società,  volete  che  gli 
      neghi questo? Via dunque, Franz, siete pazzo?" 
      Bisogna  convenire  che,  contro il solito,  questa volta tutte le 
      buone ragioni erano dalla parte di Alberto. 
      "E va bene" rispose Franz con un sospiro,  "fate come volete,  mio 
      caro  visconte,  poiché tutto quello che mi dite è persuasivo,  lo 
      confesso,  ma è altrettanto vero che il conte di Montecristo è  un 
      uomo strano." 
      "Il  conte  di  Montecristo è un uomo molto generoso...  Non vi ha 
      detto con quale scopo viene a Parigi? Ebbene, viene per concorrere 
      al premio di Monthyon,  e se ad ottenerlo non gli manca che il mio 
      voto,  glielo  darò.  Dopo  di  ciò,  non  parliamo più di questo: 
      mettiamoci a tavola,  e dopo andiamo a fare un'ultima visita a San 
      Pietro." 
      Fu fatto come aveva detto Alberto, e il giorno dopo alle cinque di 
      sera i due giovani si lasciarono, Alberto de Morcerf per ritornare 
      a Parigi,  e Franz d'Epinay per passare una quindicina di giorni a 
      Venezia. 
      Ma Alberto,  prima di salire in carrozza,  consegnò  al  cameriere 
      dell'albergo,  tanto  aveva  paura  che  il  convitato mancasse al 
      convegno, un biglietto da visita per il conte di Montecristo,  sul 
      quale  al  di  sotto  delle  parole "Visconte Alberto de Morcerf", 
      aveva scritto colla matita: 
      "21 maggio,  alle dieci e mezzo antimeridiane,  rue Helder  numero 
      27." 
 
 

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