Biblioteca elettronica "Freinet"
Agenzia educativa Tangram
Avvertenza: il seguente testo è a disposizione 
esclusivamente per iniziative didattiche e/o per
attività di sostegno per i non vedenti.

 
      Traduzioni telematiche a cura di 
      Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo 
      (Casa di reclusione - Opera) 
 
 
 
                           IL CONTE DI MONTECRISTO. 
                             di Alessandro Dumas. 
 
                               VOLUME SECONDO. 
 
 
 
 
 
 
                                    INDICE 
 
 
      Capitolo 39. La colazione:                             pagina   4. 
      Capitolo 40. La presentazione:                         pagina  59. 
      Capitolo 41. Bertuccio:                                pagina  83. 
      Capitolo 42. La casa di Auteil:                        pagina  92. 
      Capitolo 43. La vendetta:                              pagina 105. 
      Capitolo 44. Pioggia di sangue:                        pagina 144. 
      Capitolo 45. Il credito illimitato:                    pagina 164. 
      Capitolo 46. La pariglia grigio-pomellata:             pagina 186. 
      Capitolo 47. Ideologia:                                pagina 206. 
      Capitolo 48. Haydée:                                   pagina 224. 
      Capitolo 49. La famiglia Morrel:                       pagina 232. 
      Capitolo 50. Piramo e Tisbe:                           pagina 250. 
      Capitolo 51. Tossicologia:                             pagina 267. 
      Capitolo 52. Roberto il Diavolo:                       pagina 293. 
      Capitolo 53. Rialzo e ribasso dei fondi:               pagina 320. 
      Capitolo 54. Il maggiore Cavalcanti:                   pagina 339. 
      Capitolo 55. Andrea Cavalcanti:                        pagina 356. 
      Capitolo 56. Il recinto di trifoglio:                  pagina 376. 
      Capitolo 57. Il signor Noirtier Villefort:             pagina 395. 
      Capitolo 58. Il testamento:                            pagina 410. 
      Capitolo 59. Il telegrafo:                             pagina 425. 
      Capitolo 60. Mezzo di liberare un giardiniere 
                   dai ghiri che gli mangiano le pesche:     pagina 442. 
      Capitolo 61. I fantasmi:                               pagina 460. 
      Capitolo 62. Il pranzo:                                pagina 476. 
      Capitolo 63. Il mendico:                               pagina 495. 
      Capitolo 64. Scena coniugale:                          pagina 511. 
      Capitolo 65. Disegni di matrimonio:                    pagina 529. 
      Capitolo 66. L'ufficio del Procuratore del Re:         pagina 547. 
      Capitolo 67. Un ballo in estate:                       pagina 568. 
      Capitolo 68. Le informazioni:                          pagina 582. 
      Capitolo 69. La festa da ballo:                        pagina 600. 
      Capitolo 70. Il pane e il sale:                        pagina 616. 
      Capitolo 71. La signora di Saint-Méran:                pagina 624. 
      Capitolo 72. La promessa:                              pagina 645. 
      Capitolo 73. La tomba della famiglia Villefort:        pagina 694. 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 39. 
                                LA COLAZIONE. 
 
 
      Nella casa di rue Helder,  in cui Alberto de Morcerf aveva dato in 
      Roma  convegno al conte di Montecristo,  tutto veniva preparato il 
      mattino del 21  maggio,  per  fare  onore  alla  parola  data  dal 
      giovane. 
      Alberto  abitava un padiglione posto all'angolo di un gran cortile 
      rimpetto ad un altro stabile. 
      Due sole finestre di questo padiglione  guardavano  sulla  strada, 
      delle  altre,  tre  davano  sul cortile,  e due sul giardino.  Fra 
      questo cortile ed il giardino  s'ergeva,  sebbene  fabbricata  con 
      cattivo  gusto di architettura imperiale,  l'abitazione elegante e 
      vasta del conte e della contessa de Morcerf. 
      Su tutta la larghezza del fabbricato  girava  un  muro,  che  dava 
      sulla strada, ornato ad intervalli da sovrapposti vasi di fiori, e 
      diviso nel mezzo da un cancello,  a lance dorate,  che serviva per 
      le entrate di parata; una piccola porta,  addossata all'abitazione 
      del   portinaio  dava  passaggio  a  padroni  e  servitori  quando 
      entravano o uscivano a piedi. 
      Nella scelta del padiglione destinato ad abitazione d'Alberto,  si 
      scorgeva  la  delicata  previdenza  di  una  madre che non volendo 
      dividersi dal figlio, aveva però capito che un giovane dell'età di 
      Alberto aveva bisogno di libertà d'azione. 
      Però  dobbiamo  convenirne,   si  scorgeva   pure   l'intelligente 
      narcisismo  del  giovane,  perduto in quella vita libera ed oziosa 
      propria dei figli di famiglia, al quale veniva,  come all'uccello, 
      dorata la gabbia. 
      Da queste due finestre che guardavano sulla strada, Alberto poteva 
      dare  qualche  occhiata  all'esterno,  cosa  tanto  necessaria  ai 
      giovani che vogliono vedere passare innanzi agli occhi il  proprio 
      orizzonte,  fosse pur quello della strada.  Alberto poteva, per le 
      sue scappatelle,  uscire da una piccola porta che  era  dirimpetto 
      all'altra   di  cui  abbiamo  parlato,   presso  l'abitazione  del 
      portinaio, e merita una particolare menzione. 
      Era una piccola porta,  che si sarebbe detta dimenticata da  tutti 
      dal  momento  che  fu  fabbricata  la  casa,  e si sarebbe creduta 
      condannata a rimanere sempre chiusa,  tanto  sembrava  meschina  e 
      polverosa.  Ma  i  catenacci e i gangheri erano talmente ben unti, 
      che ne tradivano l'uso continuo e misterioso. 
      Questa piccola porta segreta faceva concorrenza  alle  altre  due, 
      aprendosi  come  la  famosa  porta della caverna delle Mille e una 
      notte,  Sesamo incantato di Alì Babà,  per mezzo di qualche parola 
      cabalistica,  o di qualche segno convenuto,  pronunciato dalla più 
      dolce voce, ed eseguito dalla più bella mano del mondo. 
      Alla fine di un corridoio vasto e silenzioso, col quale comunicava 
      questa piccola porta e che formava anticamera,  s'apriva a  destra 
      la sala da pranzo d'Alberto che guardava il cortile, ed a sinistra 
      la sua piccola sala da ricevimento che guardava il giardino. 
      Cespugli  e  piante parassite si aprivano a ventaglio davanti alle 
      finestre e nascondevano al cortile ed  al  giardino  l'interno  di 
      queste  stanze,  le  sole  al  piano terreno,  che potevano essere 
      esposte agli sguardi degli importuni. 
      Al primo piano queste due camere si ripetevano,  più una terza che 
      corrispondeva  alla  sottoposta  anticamera:  erano  la  camera da 
      letto, quella da ricevimento, ed un salottino. 
      La sala del piano terreno era una  specie  di  "boudoir"  algerino 
      destinato ai fumatori. 
      Il salotto del primo piano metteva nella camera da letto e per una 
      porta invisibile aveva comunicazione colle scale. 
      Si ponga mente alle cautele. 
      Al  di  sopra  di  questo  primo  piano  spaziava un vasto studio, 
      ingrandito abbattendo i muri di  divisione,  in  un  disordine  da 
      artista o da damerino. 
      Là  erano rifugiati ed affastellati tutti i successivi capricci di 
      Alberto: i corni  da  caccia,  i  bassi,  i  flauti,  un'orchestra 
      completa,  poiché per un momento ebbe non il gusto, ma la fantasia 
      della musica;  i cavalletti,  tavolozze,  i pastelli,  poiché alla 
      fantasia  della  musica  era  succeduta  la fatuità della pittura; 
      finalmente i fioretti,  i guanti da pugilatore,  gli squadroni e i 
      bastoni  d'ogni  genere,  poiché,  seguendo il costume dei giovani 
      alla moda, Alberto coltivava, con maggior perseveranza di quel che 
      non aveva fatto con la musica  e  la  pittura,  le  tre  arti  che 
      formano  il compimento dell'educazione da "lyons",  vale a dire la 
      scherma, i pugni ed il bastone, ed in questa camera destinata agli 
      esercizi corporali,  vi riceveva successivamente Grisier,  Cooks e 
      Carlo Lacour. 
      Il resto della mobilia di questa sala privilegiata si componeva di 
      vecchi   forzieri  dei  tempi  di  Francesco  Primo,   ripieni  di 
      porcellane della Cina, di vasi del Giappone,  di terraglie di Luca 
      della  Robbia  e  di  piatti  di  Bernardo di Palissy;  di antichi 
      seggioloni,  in cui forse si era assiso  Enrico  Quarto  o  Sully, 
      Luigi Tredicesimo o Richelieu,  poiché due di essi,  ornati di uno 
      scudo intagliato,  ove su campo azzurro brillavano i tre gigli  di 
      Francia  sormontati  dalla corona reale,  provenivano visibilmente 
      dal guardaroba del Louvre,  o per  lo  meno  da  qualche  castello 
      reale.  Su  essi  erano  gettate alla rinfusa ricche stoffe a vivi 
      colori,  tinte al sole della Persia o ricamate  dalle  dita  delle 
      donne di Calcutta o di Chandernagor. 
      Che  stessero  a  far là quelle stoffe non si sarebbe potuto dire; 
      aspettavano, ricreando gli occhi,  un destino sconosciuto anche al 
      loro  stesso  proprietario,  e  mentre aspettavano,  rischiaravano 
      l'appartamento coi loro riflessi dorati. 
      Nel posto più  appariscente  c'era  un  pianoforte  fabbricato  da 
      Roller  e  Blanchet  di  legno  di  rosa,  della  forma dei nostri 
      organetti di Barberia, racchiudente un'orchestra nella sua stretta 
      e sonora capacità, e caricato coi capolavori di Weber,  di Mozart, 
      d'Haydn, di Grétry e di Porpora. 
      Quindi,  lungo tutti i muri,  sopra le porte,  nel soffitto, erano 
      disposti  spade,  pugnali,  stocchi,  mazze  dorate,   e  complete 
      armature  damascate,  incrostate;  arborari,  massi  di  minerali, 
      uccelli imbottiti di crini,  che tenevano le ali aperte in un volo 
      immobile,  colle penne color di fuoco,  col becco che non chiudono 
      mai. 
      Non occorre dire che questa era la stanza prediletta di Alberto. 
      Però,  il giorno dell'appuntamento,  il giovane in abito di  mezza 
      gala  aveva fissato il suo quartier generale nel salotto del piano 
      terreno.  Ivi,  su una tavola,  circondata da un  divano  largo  e 
      morbido,  stavano  tutti  i  tabacchi  conosciuti,  dal  giallo di 
      Pietroburgo fino al nero del Sinai passando per il portorico e  il 
      "latakiè",  erano racchiusi in vasi di terraglia smaltata che sono 
      il vanto degli olandesi. 
      Accanto ad essi, in cassette di legni odorosi, erano schierati per 
      ordine di grandezza e di qualità, i sigari puros, regalia,  avana, 
      ecc. 
      Finalmente  in  un  armadio  aperto  una  collezione  di  pipe  di 
      Germania, di Turchia, coi bocchini d'ambra, ornate di corallo e di 
      fregi incrostati d'oro, con lunghe canne di marocchino ripiegate a 
      guisa di serpenti,  aspettavano il capriccio  o  la  simpatia  dei 
      fumatori. 
      Alberto aveva controllato di persona tutti quei preparativi per il 
      dopo  caffè  quando i convitati amano osservare il fumo che sfugge 
      loro di bocca,  dirigendosi al soffitto in  lunghe  e  capricciose 
      spirali. 
      Alle dieci meno un quarto entrò un cameriere,  che,  unitamente ad 
      un groom di quindici  anni,  che  parlava  soltanto  l'inglese,  e 
      rispondeva  al  nome  di John,  erano i soli domestici di Alberto. 
      Anche se poteva disporre del cuoco di casa nei giorni  ordinari  e 
      negli   straordinari,   e  il  cacciatore  del  conte  era  a  sua 
      disposizione. 
      Questo cameriere,  che si chiamava Germano e che godeva  tutta  la 
      confidenza  del  giovane  padrone,  teneva  in  mano  un  pacco di 
      giornali che depose sul tavolo,  ed alcune lettere che consegnò ad 
      Alberto,  il  quale  vi  gettò sopra uno sguardo indifferente,  ne 
      scelse due con minuti caratteri e con  sopraccarta  profumata,  le 
      dissigillò, e le lesse con qualche attenzione. 
      "Come sono arrivate queste lettere?" domandò. 
      "Una  è venuta per posta,  l'altra l'ha portata il cameriere della 
      signora Danglars." 
      "Fate dire alla signora Danglars,  che accetto  il  posto  che  mi 
      offre nel suo palco... Aspettate, in giornata passerete da Rosa le 
      direte  che  andrò,   come  m'invita,  a  cenare  da  lei  uscendo 
      dall'Opera,  e le porterete sei bottiglie  di  vino  assortito  di 
      Cipro,  Xeres,  di  Malaga,  ed un barile di ostriche d'Ostenda... 
      Prendete le ostriche da Borel, e raccomandategli che sono per me." 
      "A che ora comanda in ordine la tavola?" 
      "Che ore sono?" 
      "Manca un quarto alle dieci." 
      "Ebbene,  ordinate per le dieci e  mezzo  precise...  Debray  sarà 
      forse obbligato ad andare al suo ministero... e d 'altra parte..." 
      Alberto consultò il suo taccuino,  "questa è l'ora che ho indicata 
      al conte:  il  "21  maggio  alle  dieci  e  mezzo  antimeridiane". 
      Quantunque  non  faccia  gran fondamento sulla promessa,  desidero 
      essere esatto.  A proposito,  sapete se la  signora  contessa  sia 
      alzata?" 
      "Se il signor visconte lo desidera, andrò ad informarmene." 
      "Sì...  le chiederete una delle sue cassettine da liquori,  poiché 
      la mia è incompleta: le direte che avrò  l'onore  d'andar  da  lei 
      verso  le  tre,  e  che  le  domando  permesso  di  presentarle un 
      signore." 
      Uscito il cameriere,  Alberto si gettò  sul  divano,  stracciò  la 
      fascetta   a  due  o  tre  giornali,   guardò  gli  annunzi  degli 
      spettacoli, fece una smorfia vedendo che si rappresentava un'opera 
      e non un ballo;  cercò invano fra gli  annunzi  di  profumeria  un 
      oppiaceo  per  dolore dei denti,  e gettò l'uno dopo l'altro i tre 
      giornali più  in  voga  a  Parigi,  mormorando  in  mezzo  ad  uno 
      sbadiglio prolungato: 
      "In  verità  questi  giornali diventano di giorno in giorno sempre 
      più noiosi!" 
      In quel momento una carrozza si fermò  davanti  la  porta,  ed  un 
      momento  dopo  il  cameriere rientrò annunziando il signor Luciano 
      Debray. 
      Un giovane biondo, alto, pallido,  coll'occhio grigio e fermo,  le 
      labbra  sottili  e  fredde,  l'abito  blu a bottoni cesellati,  la 
      cravatta bianca,  una lente di cristallo sospesa  ad  un  filo  di 
      seta,  fissata  all'occhio  destro,  entrò senza sorridere,  senza 
      parlare, con un portamento semiufficiale. 
      "Buon giorno, Luciano,  buon giorno!" disse Alberto.  "Ah!  voi mi 
      spaventate,  mio  caro,  colla  vostra  esattezza!  Ma  che  dico, 
      esattezza!  Voi che non aspettavo che per  ultimo,  giungete  alle 
      dieci  meno  cinque  minuti,  mentre l'appuntamento non è che alle 
      dieci e mezzo.  Questo è un miracolo!  Il ministero sarebbe  forse 
      caduto?" 
      "No,   carissimo"   disse  il  giovane,   gettandosi  sul  divano, 
      "tranquillizzatevi,  trattiamo  sempre,  ma  non  cediamo  mai,  e 
      comincio  a  credere  che  passeremo  bonariamente all'immobilità, 
      senza contare che gli affari  della  penisola  vanno  in  modo  da 
      consolidarsi pienamente." 
      "Ah, è vero, scacciate Don Carlos dalla Spagna." 
      "No,  carissimo non confondete le cose,  lo riconduciamo all'altra 
      frontiera della Francia,  e gli offriamo una ospitalità  da  re  a 
      Bourges." 
      "A Bourges?" 
      "Sì,  egli non avrà a lagnarsi; Bourges è la capitale del re Carlo 
      Settimo. Come! voi non sapete nulla di tutto ciò?  Tutta Parigi lo 
      sa  da  ieri,  e avanti ieri la cosa era già trapelata alla borsa, 
      perché Danglars (non so con qual mezzo quest'uomo  ha  le  notizie 
      nello  stesso  tempo  che  noi),  perché Danglars ha rischiato sul 
      rialzo dei fondi, e vi ha guadagnato un milione." 
      "E voi una nuova decorazione,  a  quanto  pare:  poiché  vedo  una 
      striscia blu in più alla vostra spranghetta!" 
      "Bah,  mi  hanno  inviato  la  decorazione di Carlo Terzo" rispose 
      negligentemente Debray. 
      "Andiamo,  non fate tanto l'indifferente,  e confessate che  avete 
      avuto piacere a riceverla." 
      "In fede mia,  sì, come compimento di toilette una placca sta bene 
      sopra un abito nero abbottonato, è cosa elegante." 
      "E" disse ridendo  Morcerf,  "si  ha  l'aspetto  del  principe  di 
      Galles, o simili..." 
      "Ecco adunque, carissimo, il perché mi vedete così di buon'ora." 
      "Per la placca di Carlo Terzo, e volevate darmi questa notizia?" 
      "No,  ma  perché  ho  passato  tutta  la  notte  a spedir lettere: 
      venticinque dispacci diplomatici. Ritornato in casa questa mattina 
      a giorno, volevo dormire,  ma mi ha assalito il dolor di testa,  e 
      mi  sono  rialzato  per montare un'ora a cavallo.  A Boulogne sono 
      stato preso dalla noia e dalla  fame,  due  nemici  che  raramente 
      vanno insieme,  e che tuttavia si sono collegati contro di me: una 
      specie di alleanza Carlo-repubblicana.  Allora mi  sono  ricordato 
      che  questa mattina c'era festa in casa vostra,  ed eccomi qua: ho 
      fame, nutritemi; sono annoiato, svagatemi." 
      "Questo è il mio dovere d'anfitrione,  amico caro"  disse  Alberto 
      suonando  per il cameriere,  mentre Luciano colla sua bacchettina, 
      dal pomo cesellato ed incrostato di turchinette,  faceva saltare i 
      giornali  spiegati.   "Germano,  una  bicchiere  di  Xeres  ed  un 
      biscotto.  Frattanto,  mio  caro  Luciano,  ecco  dei  sigari,  di 
      contrabbando  bene  inteso:  v'invito  a fumarli e a persuadere il 
      vostro ministro a vendercene degli uguali,  invece delle foglie di 
      noce che condanna i buoni cittadini a fumare." 
      "Peste,  me  ne  guarderò  bene.  Quando  questi  vi venissero dal 
      Governo non li vorreste più, e li ritrovereste esecrabili. D'altra 
      parte ciò non  ha  rapporto  coll'interno,  spetta  alle  finanze, 
      indirizzatevi  al  signor  Humann,   sezione  delle  contribuzioni 
      indirette, corridoio A, numero 26." 
      "In verità" disse Alberto,  "mi sorprendete per le  vostre  estese 
      cognizioni. Ma prendete un sigaro!" 
      "Ah, caro conte" disse Luciano accendendo un sigaro ad una candela 
      color  rosa  in  una  bugia d'argento dorato,  e rovesciandosi sul 
      divano,  "quanto siete felice per non  avere  nulla  da  fare!  In 
      verità, non conoscete la vostra felicità!" 
      "E che fareste dunque,  mio caro rappacificatore di regni" rispose 
      Morcerf con una leggera ironia,  "se non  aveste  nulla  da  fare? 
      Come!  Segretario particolare di persone influenti, lanciato ad un 
      tempo nella gran cabala europea e nei piccoli intrighi di  Parigi; 
      dovendo  dirigere le elezioni;  facendo più nel vostro gabinetto e 
      col vostro telegrafo di quel che non ha fatto Napoleone sui  campi 
      di battaglia colla spada e colle vittorie;  possedendo venticinque 
      mila lire di rendita,  oltre il vostro impiego,  un cavallo di cui 
      Chateau-Renaud vi ha offerto quattrocento luigi e non glielo avete 
      voluto  dare,  un sarto che non vi sbaglia mai un paio di calzoni; 
      avendo l'Opera,  il  Jockey  Club,  e  il  teatro  del  Varietà  a 
      disposizione,  non  trovate  dunque  che  tutto  ciò sia buono per 
      distrarvi? Ebbene sia, vi distrarrò io." 
      "Ed in qual modo?" 
      "Col farvi fare una nuova conoscenza." 
      "Un uomo o una donna?" 
      "Un uomo." 
      "Oh, ne conosco già troppi!" 
      "Ma è uno come non ne conoscete, quello di cui vi parlo." 
      "E di dove viene dunque? di capo al mondo?" 
      "Fors'anche di più lontano." 
      "Oh,  diavolo!  Spero bene che non sia quello che deve portare  la 
      nostra colazione?" 
      "No, state tranquillo, la nostra colazione è nelle cucine materne. 
      Ma dunque avete fame?" 
      "Sì,  lo  confesso,  per  quanto  sia umiliante il dirlo.  Ieri ho 
      pranzato dal signor Villefort, e non so se abbiate mai notato come 
      si pranza male tra i membri del tribunale: si  direbbe  che  hanno 
      sempre dei rimorsi." 
      "Ah,  per Bacco,  voi disprezzate i pranzi degli altri! Come se si 
      pranzasse bene dai vostri ministri..." 
      "Sì,  ma non invitiamo la gente  di  "bonton"  almeno;  e  se  non 
      fossimo obbligati ad invitare quei miserabili che pensano,  e quel 
      che più importa,  che danno buoni voti,  ci guarderemmo come dalla 
      peste,  di  pranzare  in  casa nostra;  questo vi prego di volerlo 
      credere sul serio." 
      "Allora, mio caro, prendete un altro bicchiere di Xeres e un altro 
      biscotto." 
      "Il vostro vino di Spagna è eccellente;  vedete bene,  che abbiamo 
      avuto gran ragione a rappacificare quel paese." 
      "E ciò vi procurerà il Toson d'Oro." 
      "Credo  che questa mattina abbiate adottato il sistema di nutrirmi 
      di fumo." 
      "Eh,  questo è quanto diverte più lo  stomaco,  convenitene...  Ma 
      ascoltate:  sento  appunto  la  voce di Beauchamp nell'anticamera, 
      discuterete  insieme,   e  ciò  vi  farà  attendere  con  maggiore 
      pazienza." 
      "A proposito di che?" 
      "A proposito di giornali." 
      "Ah,  caro  amico"  disse Luciano,  con un sovrano disprezzo,  "io 
      leggo forse giornali?" 
      "Ragione di più, allora discuterete maggiormente..." 
      "Il signor Beauchamp!" annunciò il cameriere. 
      "Entrate,  entrate,  penna terribile!" disse Alberto  alzandosi  e 
      andando incontro al giovane. "Ecco qui Debray che vi detesta senza 
      leggervi, almeno a quanto ha detto." 
      "Ne ha ben ragione" disse Beauchamp.  "Si comporta come me,  io lo 
      critico senza sapere quel che fa... Buon giorno, commendatore!" 
      "Ah, lo sapete già?" rispose il segretario particolare, scambiando 
      col giornalista una stretta di mano ed un sorriso. 
      "Per Bacco!" rispose Beauchamp. 
      "E che se ne dice nel mondo?" 
      "In qual mondo? Abbiamo molti mondi nell'anno di grazia 1838." 
      "Eh, nel mondo critico-politico di cui siete uno dei lyons." 
      "Ma, si dice che la cosa è giustissima." 
      "Andiamo,  andiamo,  non c'è male" disse Luciano.  "Perché mai non 
      siete  uno  dei  nostri,  mio  caro Beauchamp?  Con tanto spirito, 
      fareste fortuna in tre o quattro anni." 
      "Non aspetto che una cosa per seguire il  vostro  consiglio.  Ora, 
      una sola parola a voi, caro Alberto, poiché bisogna bene che lasci 
      respirare Luciano: facciamo colazione,  o pranziamo?  Perché io ho 
      la Camera che mi aspetta.  Non sono tutte rose,  come vedete,  nel 
      nostro mestiere." 
      "Faremo soltanto colazione;  non aspettiamo più che due persone, e 
      ci metteremo a tavola appena saranno giunte." 
      "E chi aspettate?" disse Beauchamp. 
      "Un gentiluomo e un diplomatico" rispose Alberto. 
      "Allora è affare di due piccole ore per il gentiluomo,  e  di  due 
      grandi per il diplomatico;  ritornerò alle frutta. Serbatemi delle 
      fragole,  del caffè,  e dei sigari;  mangerò una  costoletta  alla 
      Camera." 
      "Non ne fate niente,  Beauchamp.  Quando anche il gentiluomo fosse 
      un Montmorency,  e  l'altro  uno  dei  primi  diplomatici,  faremo 
      colazione  alle  undici  precise;   frattanto  fate  come  Debray: 
      assaggiate il mio Xeres, ed i miei biscotti." 
      "Andiamo dunque, sia così, resto. Bisogna assolutamente che questa 
      mattina mi distragga." 
      "Bene,  eccovi come Debray: mi sembra però che quando il Ministero 
      è triste l'opposizione debba essere allegra!" 
      "Ah, vedete, amico caro, non sapete da che cosa sono minacciato... 
      Questa  mattina sentirò un discorso di Danglars,  e questa sera in 
      casa di sua moglie una tragedia di un pari di Francia." 
      "Capisco, avete bisogno di far provvigione d'ilarità." 
      "Non dite dunque male dei discorsi di Danglars, egli vota per voi, 
      è dell'opposizione." 
      "Ecco,  per Bacco,  dove sta il male: io aspetto che lo mandiate a 
      discorrere al Lussemburgo per riderne a mio bell'agio." 
      "Caro mio" disse Alberto a Beauchamp, "si vede bene che gli affari 
      di  Spagna  sono  accomodati,  questa mattina siete di un'asprezza 
      stomachevole.  Ricordatevi dunque che la  cronaca  parigina  porta 
      trattative di un matrimonio fra me ed Eugenia Danglars.  Non posso 
      dunque,  in coscienza,  lasciarvi parlar male dell'eloquenza di un 
      uomo,  che un giorno o l'altro può dirmi: "Signor visconte, sapete 
      che assegno in dote due milioni a mia figlia"." 
      "Suvvia" disse Beauchamp,  "questo matrimonio non si farà mai.  Il 
      Re  ha  potuto  farlo  conte,  ma  non  potrà  mai  farlo diventar 
      gentiluomo,   ed  il  conte  de  Morcerf  è   una   spada   troppo 
      aristocratica per acconsentire,  per due meschini milioni,  ad una 
      cattiva alleanza.  Il visconte de Morcerf non deve sposare che una 
      marchesa." 
      "Due milioni" rispose Alberto, "sono una bella cosa." 
      "Questo  è  il capitale sociale di un teatro dei boulevards,  o di 
      una ferrovia dal Giardino delle piante a Rapée." 
      "Lasciatelo dire  Morcerf"  riprese  con  noncuranza  Debray,  "ed 
      ammogliatevi. Voi sposate la cifra che sta scritta sopra un sacco, 
      non  è  vero?  Ebbene!  Che  v'importa?  Meglio su questa cifra un 
      blasone di meno ed uno zero di più: avete sette merli nelle vostre 
      armi,  ne darete tre a vostra moglie,  e ve ne  resteranno  ancora 
      quattro." 
      "In  fede  mia,  credo  che abbiate ragione,  Luciano" rispose con 
      distrazione Alberto. 
      "Eh certamente!  D'altra parte egli è milionario e nobile come  un 
      bastardo: cioè, potrebbe esserlo." 
      "Zitto!  Non dite questo, Debray" rispose ridendo Beauchamp. "Ecco 
      qui Chateau-Renaud che per guarirvi dalla  mania  di  ridurre,  vi 
      passerebbe  traverso  il  corpo la spada di Rinaldo di Montalbano, 
      suo avolo." 
      "Allora  uscirebbe  dalle  regole  dei  duelli"  rispose  Luciano, 
      "perché io sono un villano, villanissimo." 
      "Bene!" gridò Beauchamp.  "Ecco il Ministero che canta da pastore. 
      Eh! come finiremo?" 
      "Il signor Chateau-Renaud!  Il signor Massimiliano Morrel!"  disse 
      il cameriere, annunziando i due nuovi convitati. 
      "Il  numero  e  completo!"  disse  Beauchamp.  "Noi  andiamo a far 
      colazione;  perché se  non  erro  aspettavate  solo  due  persone, 
      Alberto?" 
      "Morrel!" mormorò Alberto, "e chi è costui?" 
      Ma  prima  che  avesse terminato,  il signor de Chateau-Renaud bel 
      giovane sui trent'anni,  gentiluomo dalla testa ai piedi,  vale  a 
      dire,  coll'aspetto  di  un  Guiche  e lo spirito di un Montemart, 
      aveva preso Alberto per la mano. 
      "Permettetemi  mio  caro"  disse,   "di  presentarvi   il   signor 
      Massimiliano  Morrel  capitano  degli  Spahis (specie di cavalieri 
      africani),  mio amico,  e di più,  mio  salvatore.  Del  resto  si 
      presenta  abbastanza  bene  da  se  stesso:  salutate il mio eroe, 
      visconte!" 
      E si scostò per presentare questo grande e nobile  giovane,  dalla 
      fronte  larga,  dallo  sguardo penetrante,  dai baffi neri,  che i 
      nostri lettori ricorderanno di  aver  visto  a  Marsiglia  in  una 
      occasione   molto   più  drammatica,   e  che  non  avranno  certo 
      dimenticato. 
      Una ricca uniforme, metà francese, e metà orientale,  mirabilmente 
      portata,  faceva  risaltare  il  suo  largo petto,  la croce della 
      Legion d'Onore, e la struttura agile delle sue forme. 
      Il giovane ufficiale s'inchinò con  pulita  eleganza;  Morrel  era 
      raffinato in tutti i suoi movimenti perché era forte. 
      "Signore"  disse  Alberto  con affettuosa cortesia,  "il barone di 
      Chateau-Renaud ben sapeva tutto il piacere che  mi  procurava  nel 
      farmi  fare  la  vostra conoscenza.  Voi siete uno dei suoi amici, 
      signore; siate anche uno dei nostri." 
      "Benissimo" disse Chateau-Renaud, "e desidero,  mio caro visconte, 
      che all'occasione faccia per voi quel che ha fatto per me." 
      "E che ha dunque fatto?" domandò Alberto. 
      "Oh, non è il caso di parlarne, il signore esagera." 
      "Come!  non è il caso di parlarne? La vita non vale la pena che se 
      ne parli?... Davvero c'è troppa filosofia nelle vostre parole, mio 
      caro Morrel...  Andrà bene per voi che  esponete  la  vostra  vita 
      tutti i giorni, ma per me che l'ho esposta una volta per caso..." 
      "Ciò  che  scorgo  di  più chiaro in tutto ciò,  barone,  è che il 
      capitano Morrel vi ha salvata la vita." 
      "Oh, mio Dio, sì, semplicemente" replicò Chateau-Renaud. 
      "E in quale occasione?" domandò Beauchamp. 
      "Beauchamp amico mio,  sapete ch'io muoio di fame!" disse  Debray. 
      "Non perdetevi dunque in storie." 
      "Ebbene,  ma io" disse Beauchamp, "non impedisco che ci mettiamo a 
      tavola.., Chateau-Renaud ci racconterà tutto a tavola." 
      "Signori" disse Morcerf, "non sono che le dieci e un quarto, e noi 
      aspettiamo un altro convitato." 
      "Ah, è vero, un diplomatico" riprese Debray. 
      "Un diplomatico, o qualche altra cosa,  non so niente: ciò che so, 
      è  che  lo  incaricai  di  un'ambasciata  per  conto  mio,  da lui 
      disimpegnata con tanta soddisfazione che se  fossi  stato  re,  lo 
      avrei  fatto  cavaliere di tutti i miei ordini ad un tempo,  anche 
      avessi  avuto  a  mia  disposizione   il   Toson   d'Oro,   e   la 
      Giarrettiera." 
      "Allora,   poiché  non  si  va  ancora  a  tavola"  disse  Debray, 
      "versatevi un altro bicchiere di Xeres come abbiamo fatto  noi,  e 
      raccontateci la vostra storia, barone." 
      "Voi tutti sapete che mi venne il capriccio di andare in Africa?" 
      "Strada tracciatavi dai vostri antenati,  mio caro Chateau-Renaud" 
      disse con galanteria Morcerf. 
      "Sì,  ma dubito che vi sarete andato,  come loro,  per liberare il 
      Santo Sepolcro." 
      "Avete  ragione,  Beauchamp"  disse il giovane aristocratico,  "fu 
      solo per tirare un colpo di pistola come dilettante...  Il  duello 
      mi ripugna, come voi sapete, da quando due testimoni, che io avevo 
      scelti  per  accomodare  una contesa,  mi costrinsero a rompere un 
      braccio ad uno dei miei migliori amici...  eh,  per Bacco,  a quel 
      povero Franz d'Epinay, che voi tutti conoscete." 
      "Ah, è vero, vi batteste molto tempo fa... ed a proposito di che?" 
      "Il diavolo mi porti se me ne ricordo!" disse Chateau-Renaud.  "Ma 
      ciò che mi ricordo perfettamente è che, avendo vergogna di lasciar 
      dormire un ingegno come il mio,  ho  voluto  provare  sugli  arabi 
      delle  pistole  nuove  di  cui  avevo  avuto dono.  In conseguenza 
      m'imbarcai per Orano;  di là passai a Costantina,  e giunsi giusto 
      in  tempo  per  veder levare l'assedio.  Mi aggregai alla ritirata 
      come gli altri.  Per quarantotto ore sopportai abbastanza bene  la 
      pioggia  di  giorno,  e  la neve di notte;  finalmente nella terza 
      mattina il cavallo morì di freddo.  Povera bestia!  Abituato  alle 
      coperte ed al braciere della scuderia... un cavallo arabo che si è 
      trovato spatriato per aver trovato appena dieci gradi di freddo in 
      Arabia..." 
      "Perciò  volevate  comprare  il mio cavallo inglese" disse Debray, 
      "supponendo forse che avrebbe  sopportato  il  freddo  meglio  del 
      vostro arabo." 
      "Siete  in  errore;  poiché  ho fatto voto di non ritornare più in 
      Africa." 
      "Voi dunque avete avuto paura?" domandò Beauchamp. 
      "In fede mia sì, lo confesso" disse Chateau-Renaud, "e ne ho avuto 
      ben donde!  Il mio cavallo dunque era  morto,  io  facevo  la  mia 
      strada  a  piedi,  sei  arabi  vennero al galoppo per tagliarmi la 
      testa, ne ammazzai due con due colpi del mio fucile, due colle mie 
      pistole, ma ne restavano altri due, ed ero disarmato. Uno mi prese 
      per i capelli,  per questo ora li porto corti,  non si sa mai  ciò 
      che può accadere,  l'altro mi circondò il collo col suo yatagan, e 
      già sentivo il freddo acuto del ferro,  quando questo signore  che 
      vedete,  caricò  a sua volta contro,  atterrò quello che mi teneva 
      per i capelli con un colpo di pistola,  e colla sciabola spaccò la 
      testa  a  quello che stava a tagliarmi la gola.  Questo signore si 
      era imposto in quel  giorno  l'obbligo  di  salvare  un  uomo,  la 
      combinazione  volle  che fossi io: quando diventerò ricco,  voglio 
      far fare da Klugmann o da Marochetti una  statua  che  rappresenti 
      quell'episodio." 
      "Sì" disse sorridendo Morrel,  "era il 5 settembre, l'anniversario 
      del giorno in cui mio padre fu miracolosamente salvato. Così,  per 
      quanto  è in mio potere,  celebro tutti gli anni questo giorno con 
      qualche azione." 
      "Eroica,  non è vero?" interruppe  Chateau-Renaud.  "Insomma,  fui 
      l'eletto,  ma qui non sta il tutto.  Dopo avermi salvato dal ferro 
      mi salvò dal freddo,  dandomi,  non già una metà del suo  mantello 
      come fece,  non mi ricordo chi,  ma tutto intero.  Poi dalla fame, 
      dividendo con me, indovinate un poco che cosa?..." 
      "Un pasticcio di Félix?" chiese Beauchamp. 
      "No,  il suo cavallo,  di cui  mangiammo  entrambi  un  pezzo  con 
      grandissimo appetito, sebbene fosse un poco duro..." 
      "Il cavallo?" domandò ridendo Morcerf. 
      "No, il sacrificio" rispose Chateau-Renaud. "Domandate a Debray se 
      sacrificherebbe il suo cavallo inglese per un estraneo?" 
      "Per un estraneo, no; per un amico potrebbe darsi" rispose Debray. 
      "Ed  io pronosticai che sareste divenuto mio amico,  signor conte" 
      disse Morrel.  "D'altra parte ho già  avuto  l'onore  di  dirvelo: 
      eroismo  o no,  sacrificio o no,  avevo un debito colla sorte,  in 
      compenso del favore che altra volta ci aveva fatta." 
      "Questa storia a cui Morrel fa allusione,  è una bellissima storia 
      e  ve  la  racconterà  un giorno,  quando avrete fatto con lui più 
      estesa conoscenza per oggi approvvigioniamo lo stomaco,  e non  la 
      memoria. A che ora fate colazione?" 
      "Alle dieci e mezzo." 
      "Precise?" domandò Debray cavando l'orologio. 
      "Oh,  mi  accorderete  cinque  minuti di dilazione" disse Morcerf, 
      "poiché io pure aspetto un salvatore." 
      "Di chi?" 
      "Di me, per Bacco!" rispose Morcerf.  "Credete forse che non possa 
      essere salvato come un altro, o che non vi siano che gli arabi che 
      tagliano  la  testa?  La  nostra  colazione  è  una  colazione  di 
      riconoscenza ed avremo  alla  nostra  tavola,  spero  almeno,  due 
      benefattori dell'umanità." 
      "E  come  faremo?"  disse  Debray.  "Non abbiamo che un sol premio 
      Monthyon..." 
      "Ebbene,   verrà  dato  a  qualcuno  che  nulla  abbia  fatto  per 
      meritarlo"   disse  Beauchamp.   "In  questo  modo  di  solito  fa 
      l'accademia per togliersi da qualunque impaccio." 
      "E di dove viene?" domandò Debray.  "Scusate  l'insistenza;  avete 
      già,  lo so bene,  risposto a questa domanda, ma molto vagamente e 
      perciò posso permettermi di farvela una seconda volta" 
      "In verità" disse Alberto,  "non lo so.  Quando l'ho invitato  tre 
      mesi fa era a Roma.  Ma da quel tempo, chi può dire il viaggio che 
      ha fatto?" 
      "E lo credete capace di essere puntuale?" 
      "Lo credo capace di tutto" rispose Morcerf. 
      "Fate attenzione che,  compresi i  minuti  di  dilazione,  non  ne 
      mancano che dieci." 
      "Ebbene, ne approfitterò per dirvi una parola sul mio convitato." 
      "Scusate" disse Beauchamp, "vi sarà materia per un articolo in ciò 
      che siete per narrare?" 
      "Sì, certamente" disse Morcerf, "ed anche dei più curiosi." 
      "Allora  raccontate,  poiché  vedo  bene che non potrò andare alla 
      Camera, e bisogna che ne abbia un vantaggio." 
      "Ero a Roma nell'ultimo carnevale." 
      "Questo lo sappiamo già" disse Beauchamp. 
      "Ma ciò che non sapete è che fui rapito dai briganti." 
      "Non vi sono più briganti" disse Debray. 
      "Ve ne sono,  e ve ne sono anche  degli  orridi  cioè  ammirabili, 
      mentre ne ho trovati dei belli, ma da far paura." 
      "Vediamo,  mio  caro  Alberto"  disse  Debray,  "confessate che il 
      vostro cuoco è in ritardo,  che le ostriche non sono ancora giunte 
      da  Marennes  o  da  Ostenda,  e che come la signora di Maintenon, 
      volete sostituire un racconto ad  un  piatto.  Ditelo,  mio  caro, 
      siamo  abbastanza  di  buona  compagnia  per  perdonarvelo,  e per 
      ascoltare la vostra storia, purché sembri favolosa." 
      "Ed io vi dico,  per quanto possa comparir  favolosa,  che  ve  la 
      garantisco per vera dal principio alla fine.  I briganti dunque mi 
      avevano condotto in un luogo molto triste,  chiamato le  catacombe 
      di San Sebastiano." 
      "Le  conosco"  disse  Chateau-Renaud,  "per  poco  non vi presi le 
      febbri". 
      "Ed io ho fatto ancora di più: le ebbi realmente.  Mi fu detto che 
      ero prigioniero,  salvo il riscatto,  una bagattella,  quattromila 
      scudi romani,  circa ventiseimila lire francesi.  Disgraziatamente 
      non  ne  avevo  più  che  millecinquecento;  ero alla fine del mio 
      viaggio, e il mio credito era esaurito. Scrissi a Franz.  Ah,  per 
      Bacco!  Franz  era  là,  e  potete  chiedergli  se  mento  di  una 
      virgola... Scrissi dunque a Franz che se non giungeva alle sei del 
      mattino coi quattro mila scudi,  alle sei  e  dieci  minuti  sarei 
      passato  all'eterna  gloria,  e Luigi Vampa,  questo è il nome del 
      capo  dei  briganti,  vi  prego  di  crederlo,  avrebbe  mantenuta 
      scrupolosamente la sua parola." 
      "Ma  Franz  sarà  giunto  coi quattromila scudi..." disse Chateau- 
      Renaud. "Che diavolo! non può trovarsi in impaccio per quattromila 
      scudi chi porta  il  nome  di  Franz  d'Epinay  o  di  Alberto  de 
      Morcerf!" 
      "No,  ma  egli  giunse  solamente e semplicemente accompagnato dal 
      convitato che vi ho annunziato, e che spero potervi presentare." 
      "E che! è dunque Ercole che uccide Caco questo signore?  un Perseo 
      che libera Andromeda?" 
      "No, è un uomo circa della mia corporatura." 
      "Armato fino ai denti?" 
      "Non aveva neppure un ferro di calzetta." 
      "Dunque contrattò il vostro riscatto?" 
      "Disse due parole all'orecchio del capo ed io fui liberato." 
      "Anzi   gli   fecero  perfino  le  scuse  d'avervi  rapito"  disse 
      Beauchamp. 
      "Precisamente" rispose Morcerf. 
      "Ma che! era dunque l'Orlando d'Ariosto quest'uomo?" 
      "No, era semplicemente il conte di Montecristo." 
      "Non c'è nessuno che si chiami così" disse Debray. 
      "Non  credo"  soggiunse  Chateau-Renaud  colla  presenza   d'animo 
      dell'uomo  che  tiene  sulla  punta delle dita tutte le genealogie 
      delle famiglie nobili dell'Europa, "ci sia chi conosca un conte di 
      Montecristo..." 
      "E' forse un qualche casato proveniente dalla Terra  Santa"  disse 
      Beauchamp:  "uno  dei  suoi  avi avrà posseduto il Calvario,  come 
      Montemart, il Mar Morto." 
      "Scusate"  disse  Massimiliano,  "io  credo  di  potervi  togliere 
      d'impaccio,  signori:  Montecristo è una piccola isola,  di cui ho 
      spesso sentito parlare dai marinai  impiegati  da  mio  padre,  un 
      grano di sabbia in mezzo al Mediterraneo, un atomo nell'infinito." 
      "Ed è vero,  signore" disse Alberto.  "Ebbene,  di questo grano di 
      sabbia, di questo atomo è signore e re colui di cui vi parlo; egli 
      avrà comprato il diploma di conte in qualche parte della Toscana." 
      "E' dunque ricco il vostro conte?" 
      "In fede mia lo credo!" 
      "Ma ciò deve vedersi mi sembra..." 
      "Avete letto le Mille e una notte?" 
      "Per Bacco! bella domanda!" 
      "Le persone che vi appaiono sono ricche o povere?  i loro grani di 
      frumento   sono  rubini  o  diamanti?   Essi  hanno  l'aspetto  di 
      miserabili pescatori,  non è vero?  Voi li trattate come  tali,  e 
      subito  vi  aprono  qualche  caverna  misteriosa,  e vi trovate un 
      tesoro da comprare le Indie.  Il mio conte di Montecristo è uno di 
      quei  pescatori;  ha  perfino  un nome tolto da quella favola,  si 
      chiama Sindbad il marinaio, e possiede una caverna piena d'oro." 
      "L'avete vista" domandò Beauchamp. 
      "Io no; Franz sì.  Ma zitti!  Non bisogna dire una parola di tutto 
      ciò  davanti  a  lui.  Franz vi discese cogli occhi bendati,  e fu 
      servito da uomini muti,  e  da  donne,  in  paragone  delle  quali 
      Cleopatra non era,  a quanto pare, che una donna volgare. Soltanto 
      delle donne egli non è ben sicuro,  giacché esse non apparvero che 
      dopo  aver  masticato  dell'hashish di modo che potrebbe darsi che 
      quelle che ha prese per donne,  non fossero state  banalmente  che 
      statue." 
      I  giovani  amici  guardarono  Morcerf  con uno sguardo che voleva 
      dire: "Mio caro, diventate insensato o vi burlate di noi?". 
      "Però" disse Morrel pensieroso,  "ho inteso raccontare anch'io  da 
      un  vecchio marinaio,  chiamato Penelon,  qualche cosa di simile a 
      ciò che dice il signor di Morcerf." 
      "Ah" fece Alberto,  "sono ben fortunato che Morrel  venga  in  mio 
      aiuto.  Vi dispiace, non è vero, ch'egli getti un gomitolo di filo 
      nel mio labirinto?" 
      "Perdonate, mio caro, ma ci raccontate cose tanto inverosimili..." 
      "Ah, per Bacco! Perché i vostri ambasciatori, i vostri consoli non 
      ve ne parlano?  Essi non ne hanno il tempo;  hanno troppo da  fare 
      nel molestare i loro compatrioti che viaggiano." 
      "Ah,  ecco  che  v'inquietate,  e ve la prendete coi nostri poveri 
      diplomatici.  Eh,  mio Dio,  con che volete che vi proteggano?  La 
      Camera  corrode ogni giorno i loro stipendi,  ed ora è al punto di 
      non trovarne più. Volete diventare ambasciatore?  Vi farò nominare 
      a Costantinopoli." 
      "No,  perché  il Sultano alla prima nota in favore di Mehemet-Alì, 
      mi manderebbe il cordone, e i miei segretari mi strangolerebbero." 
      "Vedete bene!" disse Debray. 
      "Sì, tutto ciò non toglie che esista il mio conte di Montecristo!" 
      "Per Bacco, tutti gli uomini esistono, bel miracolo!" 
      "Tutti gli uomini esistono, ma non in simili condizioni. Tutti gli 
      uomini  non  hanno  schiavi,  gallerie  principesche,   armi  alla 
      Casauba, cavalli di seimila franchi l'uno, e concubine greche." 
      "L'avete vista la concubina greca?" 
      "Sì,  l'ho vista ed ascoltata; vista al teatro Valle, ascoltata un 
      giorno che facevo colazione dal conte." 
      "Il vostro uomo straordinario dunque mangia?" 
      "Certo che mangia!  Ma tanto poco,  che non merita parlarne."  "Si 
      scoprirà poi che è un vampiro..." 
      "Ridete,  se volete,  questa era l'opinione della contessa G.  che 
      come voi sapete, ha conosciuto lord Ruthwen." 
      "Ah, bene!" disse Beauchamp. "Ecco per un giornalista lo scoop del 
      famoso serpente di mare del "Constitutionnel": un vampiro,  niente 
      meno!" 
      "Occhio rossiccio, la cui pupilla si dilata e restringe a volontà" 
      disse  Debray,  "volto  ossuto  e scarno,  fronte spaziosa,  tinta 
      livida,  barba nera,  denti bianchi  ed  acuti,  compitezza  tutta 
      particolare." 
      "Ebbene, è proprio così, Luciano" disse Morcerf, "i connotati sono 
      riportati a puntino.  Sì, compitezza acuta ed incisiva. Quest'uomo 
      spesso mi ha fatto fremere,  e particolarmente un giorno,  fra gli 
      altri,  che  guardavamo  insieme  una  esecuzione,  ho  creduto di 
      svenire, molto più nel vederlo e sentirlo ragionare freddamente su 
      tutti i supplizi della terra,  che guardare il carnefice  eseguire 
      il suo compito, e sentire le grida del condannato." 
      "E non vi ha condotto fra le rovine del Colosseo per succhiarvi il 
      sangue,  Morcerf?" disse Beauchamp. "Ovvero, dopo avervi liberato, 
      non vi ha fatto firmare qualche pergamena color di fuoco, in virtù 
      della quale gli cediate la vostra anima?" 
      "Scherzate! scherzate quanto volete, signori!" disse Morcerf punto 
      sul vivo.  "Quando osservo  voialtri  bei  parigini,  abituati  al 
      Bastione di Gand, passeggiatori del Bois de Boulogne, e mi ricordo 
      di quest'uomo, mi pare che non siamo della stessa specie." 
      "Me ne vanto" disse Beauchamp. 
      "Il vostro conte di Montecristo" soggiunse Chateau-Renaud, "è però 
      sempre un galantuomo nelle ore d'ozio, salvo le sue piccole intese 
      coi banditi italiani..." 
      "Ma se non vi sono banditi italiani!" soggiunse Debray. 
      "Non vi sono vampiri!" disse Beauchamp. 
      "Non esiste il conte di Montecristo!" riprese Debray.  "Ascoltate, 
      caro Alberto, suonano le dieci e mezzo." 
      "Confessate  che  avete  veduto  un  fantasma,  e  andiamo  a  far 
      colazione" disse Beauchamp. 
      Ma  la  vibrazione dell'orologio a pendolo non era ancora estinta, 
      quando la porta si aprì, e Germano annunziò: 
      "Sua Eccellenza il conte di Montecristo!" 
      Tutti gli uditori fecero loro malgrado un movimento  di  sorpresa. 
      Alberto stesso non poté evitare una commozione momentanea. 
      Non   era   stata  udita  né  carrozza  sulla  strada,   né  passi 
      nell'anticamera;  la porta stessa si era aperta senza  rumore.  Il 
      conte comparve sulla soglia,  vestito colla più grande semplicità, 
      ed il lyon più esigente non avrebbe saputo trovarvi la più piccola 
      mancanza. 
      Tutto era di un gusto squisito,  tutto usciva dalle mani  dei  più 
      eleganti fornitori: abiti, cappello, biancheria. 
      Sembrava avere appena trentacinque anni, ma ciò che sorprese tutti 
      fu  l'estrema  rassomiglianza  col  ritratto  che  ne  aveva fatto 
      Debray.  Il conte avanzò sorridendo in mezzo al  salotto,  e  andò 
      direttamente  da Alberto,  che venendogli incontro gli offerse con 
      trasporto la mano. 
      "L'esattezza" disse Montecristo,  "è la  gentilezza  dei  re,  per 
      quanto ha preteso,  io credo, uno dei vostri sovrani. Ma qualunque 
      sia  la  loro  buona  volontà,   non  è  però  sempre  quella  dei 
      viaggiatori.  Però io spero,  mio caro visconte, che mi scuserete, 
      in grazia della mia buona volontà,  i due o tre secondi di ritardo 
      al  nostro  appuntamento;  cinquecento  leghe  non  si fanno senza 
      qualche contrattempo, particolarmente in Francia ove è proibito, a 
      quanto sembra, frustare i postiglioni." 
      "Signor conte" rispose Alberto,  "stavo proprio preannunciando  la 
      vostra  visita  agli  amici,  da me riuniti per la promessa che mi 
      faceste e che ho l'onore di presentarvi.  Questi signori sono,  il 
      conte di Chateau-Renaud,  la cui nobiltà risale ai dodici Pari,  i 
      cui antenati  hanno  avuto  posto  alla  Tavola  rotonda;  Luciano 
      Debray,   segretario   particolare   del   ministro  dell'interno; 
      Beauchamp, terribile giornalista, il terrore del governo francese, 
      e di cui forse,  ad onta della sua celebrità,  non  avrete  inteso 
      parlare  in Italia,  visto che il suo giornale non vi può entrare; 
      finalmente Massimiliano Morrel, capitano degli Spahis." 
      A  questo  nome,   il  conte,   che  fino  allora  aveva  salutato 
      cortesemente,  ma  con  una  freddezza  ed una impassibilità tutta 
      inglese,  fece suo malgrado un passo in  avanti,  ed  una  leggera 
      tinta vermiglia passò come un lampo sulle sue pallide guance. 
      "Il  signore porta l'uniforme dei nuovi vincitori francesi" disse; 
      "è una bella uniforme!" 
      Non sarebbe stato possibile poter dire quale fosse  il  sentimento 
      che  dava  alla  voce  del  conte una così profonda vibrazione,  e 
      faceva brillare suo malgrado l'occhio tanto bello,  tanto sereno e 
      limpido, quando non aveva alcun motivo per velarlo. 
      "Voi non avevate mai visto i nostri africani, signor conte?" disse 
      Alberto. 
      "Giammai!" replicò il conte, ritornato perfettamente padrone di se 
      stesso. 
      "Ebbene,  signor  conte,  sotto quest'uniforme batte uno dei cuori 
      più coraggiosi e più nobili dell'esercito..." 
      "Oh, signor conte..." interruppe Morrel. 
      "Lasciatemi dire,  capitano...  Non  ha  pari"  continuò  Alberto. 
      "Abbiamo appreso un tratto così eroico del signore, che quantunque 
      io  lo  veda  oggi  per  la  prima  volta,  pretendo  il favore di 
      potervelo presentare come mio amico." 
      E si sarebbe potuto,  anche a queste parole,  scorgere  nel  conte 
      quello strano sguardo indagatore,  quel rossore fuggitivo,  e quel 
      leggero tremore della palpebra, che in lui tradiva l'emozione. 
      "Ah,  il signore ha un  cuore  nobile?"  disse  il  conte.  "Tanto 
      meglio!" 
      Questa  specie  di  esclamazione  che  corrispondeva  piuttosto al 
      pensiero del conte, che al discorso di Alberto, sorprese tutti, ma 
      particolarmente Morrel,  che guardò il conte  di  Montecristo  con 
      stupore. 
      Ma  il tono della voce era stato così dolce e per così dire soave, 
      che,  per quanto strana fosse  apparsa  questa  esclamazione,  non 
      c'era ragione in alcun modo di offendersene. 
      "Perché dunque ne dubiterebbe?" disse Beauchamp a Chateau-Renaud. 
      "In verità" rispose questi, che, coll'abitudine al gran mondo e la 
      chiarezza del colpo d'occhio aristocratico,  aveva riconosciuto in 
      Montecristo molte qualità, "in verità Alberto non ci ha ingannati, 
      è un personaggio singolare questo conte... Che ne dite, Morrel?" 
      "In fede mia" rispose  questi,  "ha  l'occhio  franco  e  la  voce 
      simpatica,  di  modo che mi piace malgrado la bizzarra riflessione 
      fatta sul mio conto." 
      "Signori" disse Alberto,  "Germano mi avverte che la  colazione  è 
      pronta. Mio caro conte, permettete che vi mostri la strada." 
      Passarono silenziosamente nella sala da pranzo, e ciascuno si mise 
      al suo posto. 
      "Signori"  disse  il conte sedendosi,  "permettete una confessione 
      che sarà  la  mia  scusa  per  tutte  le  sconvenienze  che  potrò 
      commettere: sono forestiero,  ma forestiero a tal punto che questa 
      è la prima volta che vengo a Parigi.  La vita francese mi è dunque 
      perfettamente  sconosciuta,  non  avendo  fino  ad ora seguita che 
      l'orientale, la più antitetica alle buone tradizioni parigine.  Vi 
      prego dunque di scusarmi se troverete in me qualche cosa di troppo 
      turco, o di troppo arabo. Detto ciò, signori, facciamo colazione." 
      "Dal  modo che ha detto tutto ciò" mormorò Beauchamp,  "si capisce 
      che è un gran signore!" 
      "Un gran signore straniero" soggiunse Debray. 
      "Un signore cosmopolita" disse Chateau-Renaud. 
      Ognuno ricorderà che il conte era un convitato sobrio. 
      Alberto osservò la cosa,  e manifestò il timore che non  avesse  a 
      dispiacergli  la vita parigina fin dal principio,  nella parte più 
      materiale, è vero, ma nello stesso tempo più necessaria. 
      "Mio caro conte" disse,  "voi mi vedete colpito da un timore:  che 
      la  cucina  della  rue  Helder  non abbia a piacervi quanto quella 
      della piazza di Spagna.  Avrei dovuto chiedervi  ciò  che  più  vi 
      gusta, e farvi preparare qualche piatto di vostra fantasia." 
      "Se  mi  conosceste  di più" rispose sorridendo il conte,  "non vi 
      preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore come 
      me,  che ha successivamente vissuto con maccheroni a  Napoli,  con 
      polenta a Milano,  con olla podrida a Valenza, con riso asciutto a 
      Costantinopoli,  con karrick nelle Indie,  e con nidi  di  rondini 
      nella Cina. Non c'è una cucina particolare per un cosmopolita come 
      me:  mangio di tutto ed in ogni luogo;  solo mangio poco,  ed oggi 
      che mi rimproverate la mia sobrietà,  sono in una  delle  giornate 
      del  mio  massimo  appetito,  perché  da  ieri  mattina non ho più 
      mangiato." 
      "Come da  ieri  mattina?"  esclamarono  i  convitati.  "Non  avete 
      mangiato da ventisei ore?" 
      "No"  rispose il conte.  "Fui obbligato a deviare dalla mia strada 
      per portarmi a Nimes a prendere alcune informazioni,  di modo  che 
      ero un poco in ritardo, e non ho voluto fermarmi." 
      "Ma avrete mangiato in carrozza?!" disse Morcerf. 
      "No,  ho dormito,  come mi succede quando mi annoio senza avere il 
      coraggio di distrarmi,  o quando ho fame  senza  avere  voglia  di 
      mangiare." 
      "Ma dunque comandate al sonno?" domandò Morrel. 
      "Press'a poco." 
      "Avete una ricetta per questo?" 
      "Infallibile." 
      "Sarebbe  eccellente  per noi africani,  che non sempre abbiamo da 
      mangiare, e sempre difficilmente da bere..." disse Morrel. 
      "Sì" disse il conte,  "disgraziatamente la mia ricetta,  buona per 
      un uomo come me,  che conduce una vita eccezionale,  sarebbe molto 
      pericolosa applicata ad un esercito,  che non si sveglierebbe più, 
      quando se ne avesse bisogno." 
      "Si può sapere che è questa ricetta?" chiese Debray. 
      "Oh,  mio Dio, sì" disse il conte, "non ne faccio alcun segreto; è 
      una mistura di eccellente oppio;  io stesso sono stato a cercare a 
      Canton, per esser certo di averlo puro, e del migliore hashish che 
      si  raccolga  in  Oriente,  cioè  fra  il  Tigri  e l'Eufrate.  Si 
      riuniscono questi due ingredienti in  porzioni  uguali,  e  se  ne 
      formano delle specie di pillole che s'inghiottono quando uno ne ha 
      bisogno.  L'effetto  si produce dieci minuti dopo.  Domandatene al 
      barone Franz d'Epinay, che credo un giorno ne abbia gustato." 
      "Sì" rispose Morcerf,  "me ne ha accennato,  anzi ne ha conservata 
      grata memoria." 
      "Ma"  disse  Beauchamp,  che  nella sua qualità di giornalista era 
      molto incredulo, "portate sempre questa droga con voi?" 
      "Sempre!" rispose il conte di Montecristo. 
      "Sarei indiscreto se vi  domandassi  di  vedere  queste  pillole?" 
      continuò  Beauchamp,  nella  speranza  di cogliere lo straniero in 
      fallo. 
      "No, signore..." rispose il conte. 
      E cavò di tasca una meravigliosa bomboniera  scavata  in  un  solo 
      smeraldo,  e  chiusa  con  un  fermaglio  d'oro,  che,  aprendosi, 
      lasciava uscire una pillola di color verdastro, della grossezza di 
      un pisello. 
      Questa pillola aveva un odore acre e penetrante,  e  ve  ne  erano 
      quattro  o  cinque  nella  cavità  dello  smeraldo  che  ne poteva 
      contenere circa una dozzina.  La bomboniera  fece  il  giro  della 
      tavola, ed i convitati se la facevano passare più per esaminare la 
      magnificenza dell'ammirabile smeraldo,  che per guardare e fiutare 
      le pillole che conteneva. 
      "E' forse il  vostro  cuoco  che  vi  prepara  questo  miscuglio?" 
      domandò Beauchamp. 
      "No, signore" disse il conte di Montecristo, "non abbandono i miei 
      piaceri  all'arbitrio  di  mani  inesperte;  sono  abbastanza buon 
      chimico per prepararmi da solo queste pillole." 
      "Questo è uno smeraldo ammirabile,  ed è il più grosso  che  abbia 
      mai  visto,  quantunque  mia madre abbia qualche gioia di famiglia 
      molto notevole..." disse Chateau-Renaud. 
      "Di questi ne avevo tre" soggiunse il conte di  Montecristo:  "uno 
      lo  regalai  al  Gran  Visir,  che ne ha adornata la sua sciabola; 
      l'altro a persona che non posso nominare;  il terzo  l'ho  serbato 
      per me,  e l'ho fatto scavare gli ho tolto metà del suo valore, ma 
      l'ho reso più adatto all'uso al quale l'ho destinato." 
      Ciascuno guardò il conte di Montecristo  con  meraviglia;  parlava 
      con tanta semplicità,  che faceva ritenere vero ciò che diceva,  o 
      pazzo:  lo  smeraldo  nelle  sue  mani  provava  però   la   prima 
      supposizione. 
      "Che  vi  hanno  dato  in cambio le persone cui avete fatto simili 
      doni?" chiese Debray. 
      "Il Gran Visir mi concesse la libertà di  una  donna"  rispose  il 
      conte,  "l'altra  persona la vita di un uomo.  Di modo che per due 
      volte sono stato possente,  come fossi  nato  sui  gradini  di  un 
      trono." 
      "Forse  fu Peppino che liberaste,  non è vero?" gridò Morcerf,  "a 
      lui applicaste il vostro diritto di grazia?" 
      "Può darsi" disse Montecristo, sorridendo. 
      "Signor conte"  disse  Morcerf,  "non  potete  farvi  un'idea  del 
      piacere  che provo nel sentirvi parlare in tal modo.  Vi avevo già 
      dipinto ai miei amici come un uomo favoloso,  come un  mago  delle 
      Mille e una notte,  come uno stregone del medio evo, ma i parigini 
      sono persone talmente sottili  nei  paradossi,  che  prendono  per 
      capricci dell'immaginazione le verità più incontrastabili,  quando 
      non sono abituali. Per esempio, ecco Debray che legge, e Beauchamp 
      che stampa tutti  i  giorni:  è  stato  fermato  e  spogliato  sui 
      bastioni  qualche  membro  del Jockey Club in ritardo,  sono state 
      assassinate quattro persone sulla rue Saint-Denis o  nel  Faubourg 
      Saint-Germain,  sono stati arrestati quattro,  dieci, venti ladri, 
      sia in un caffè sul Bastione del Tempio, sia alle Terme di Giulio. 
      E negano l'esistenza dei banditi  nelle  Maremme,  nella  Campagna 
      romana,  e  nelle  paludi pontine.  Dite dunque voi stesso,  ve ne 
      prego,  signor conte,  che sono stato preso da questi  banditi,  e 
      che,  senza la vostra generosa intercessione,  io oggi aspetterei, 
      secondo  tutte  le  probabilità,   la  resurrezione  finale  nelle 
      catacombe  di  San  Sebastiano,  invece  di offrire loro colazione 
      nella mia piccola ed indegna casa in rue Helder." 
      "Mi avete promesso di non parlarmi più di questa miseria." 
      "Non sono io che vi ho fatto questa promessa,  signor conte" gridò 
      Morcerf,  "sarà  stato  qualche  altro  cui  avete  reso un simile 
      favore, e che ora confondete con me. Parliamone anzi, ve ne prego; 
      perché se vi risolvete a parlare  di  questo  episodio,  non  solo 
      ridirete alcune cose che so, ma molte altre che non so." 
      "Mi sembra che in tutto questo affare" soggiunse il conte ridendo, 
      "abbiate  sostenuta una parte di troppa importanza,  per sapere al 
      par mio tutto ciò che è accaduto." 
      "Volete promettermi che,  se dico tutto quel  che  so,  mi  direte 
      tutto quel che non so?" 
      "E' troppo giusto" rispose Montecristo. 
      "Ebbene" soggiunse Morcerf,  "dovesse il mio amor proprio di nuovo 
      soffrirne, mi sono creduto per tre giorni oggetto delle civetterie 
      di una maschera che ritenevo discendente  delle  Tullie,  o  delle 
      Poppee,  mentre  ero semplicemente oggetto delle frascherie di una 
      contadina;  e notate bene che dico contadina per non dir  villana. 
      Poi  come  un  gonzo  ho scambiato un giovane bandito sui quindici 
      sedici anni per quella contadina,  fino a deporre un  bacio  sulla 
      sua  casta spalla.  Lui,  in quel momento,  mi ha messo le pistole 
      alla gola e coll'aiuto di  altri  sette  o  otto  banditi,  mi  ha 
      condotto  o  piuttosto trascinato nel fondo delle catacombe di San 
      Sebastiano. Qui trovai un capo di banditi molto letterato, in fede 
      mia, che leggeva i Commentari di Giulio Cesare, e che si è degnato 
      d'interrompere la lettura per dirmi che se l'indomani alle sei del 
      mattino non avessi versati quattromila scudi nella sua cassa, alle 
      sei e un quarto avrei cessato di vivere. La lettera esiste, essa è 
      nelle mani di Franz, firmata da me,  con poscritto di mastro Luigi 
      Vampa.  Se  ne  dubitate,  scriverò a Franz che potrà mostrarvi le 
      firme.  Ecco ciò che so.  Quello che mi resta a sapere è come mai, 
      voi  signor conte,  siate giunto ad incutere ai banditi di Roma un 
      così gran rispetto,  essi che nulla rispettano.  Vi  confesso  che 
      Franz e io ne fummo pieni d'ammirazione." 
      "Niente di più semplice,  signore" rispose il conte. "Conoscevo il 
      famoso Vampa da più di  dieci  anni.  Quand'era  ancor  giovane  e 
      pastore,  un giorno gli regalai non mi sovviene qual moneta d'oro, 
      perché mi indicò la strada ed egli,  per non aver niente del  mio, 
      mi dette in cambio un pugnale intagliato colle sue mani, e che voi 
      forse  avrete notato nella mia collezione d'armi.  Col tempo,  sia 
      che egli dimenticasse questo scambio di piccoli regali, che doveva 
      mantenere l'amicizia fra noi,  sia che non mi avesse riconosciuto, 
      tentò  di  rapirmi;  ma io invece catturai lui con una dozzina dei 
      suoi compagni.  Allora potevo abbandonarlo alla  giustizia  romana 
      che  è  spiccia,  e  si  sarebbe  ancora  affrettata  di più a suo 
      riguardo ma non lo feci: lo rimandai con tutti i suoi." 
      "A  condizione  che  non  peccassero  più"  disse  il  giornalista 
      ridendo.    "Vedo    con    piacere   ch'essi   hanno   mantenuta. 
      scrupolosamente la parola." 
      "No, signore" rispose Montecristo, "a condizione che rispettassero 
      sempre me ed i miei amici." 
      "Alla  buon'ora!"  gridò  Chateau-Renaud,   "ecco  il  primo  uomo 
      coraggioso   da   cui  sento  predicare  lealmente  e  brutalmente 
      l'egoismo, ciò è bellissimo, bravo!, signor conte." 
      "Almeno ciò è molto franco" disse Morrel,  "ma sono sicuro che  il 
      signor  conte non si è pentito di avere una volta mancato a questi 
      principi, esposti in modo così assoluto." 
      "Ed in qual modo ho mancato ai miei  principi,  signore?"  domandò 
      Montecristo,  che  ogni  tanto  non  poteva  esimersi dal guardare 
      Massimiliano con  tanta  attenzione,  che  già  due  o  tre  volte 
      l'ardito giovane era stato costretto ad abbassare gli occhi,  allo 
      sguardo limpido e chiaro del conte. 
      "Mi sembra" rispose Morrel,  "che liberando il signor  de  Morcerf 
      che non conoscevate voi servivate al prossimo, ed alla società..." 
      "Di cui egli fa il più bell'ornamento" disse con gravità Beauchamp 
      vuotando in un sol fiato un bicchiere di champagne. 
      "Signor conte" gridò Morcerf,  "eccovi preso dal ragionamento, voi 
      uno dei più aspri logici che io conosca.  E quanto prima  vi  sarà 
      dimostrato che invece d'essere un egoista, siete un altruista. Ah, 
      voi  vi  spacciate  per orientale,  levantino,  maltese,  indiano, 
      cinese,  selvaggio,  vi chiamate Montecristo per nome di famiglia, 
      Sindbad  il  marinaio  per  nome di battesimo ed ecco che il primo 
      giorno che mettete piede a  Parigi,  già  possedete  il  più  gran 
      difetto della nostra eccentricità parigina, vale a dire usurpate i 
      vizi che non avete!" 
      "Mio caro visconte" disse Montecristo,  "non vedo in tutto ciò che 
      ho detto o fatto,  una sola parola che possa meritarmi  per  parte 
      vostra  e  di  questi  signori,  l'elogio  che ricevo.  Voi non mi 
      eravate estraneo, poiché vi avevo offerta una colazione,  vi avevo 
      prestata  per otto giorni la mia carrozza,  avevamo veduto assieme 
      passare le maschere per il Corso,  e perché avevamo guardato dalla 
      stessa  finestra  della piazza del Popolo quella esecuzione che vi 
      fece tanta impressione che  quasi  sveniste.  Ora,  io  domando  a 
      questi signori, potevo lasciare il mio ospite nelle mani di quegli 
      spaventosi  banditi,  come  voi  li  chiamate?  D'altra parte,  lo 
      sapete, avevo nel salvarvi un secondo fine,  quello di servirmi di 
      voi  per introdurmi nella società di Parigi quando fossi venuto in 
      Francia.   Per  qualche  tempo  avete  potuto  considerare  questa 
      risoluzione come un disegno vago ed incerto; ma oggi, lo vedete, è 
      una bella e buona realtà, alla quale bisogna che vi sottomettiate, 
      sotto pena di mancare alla vostra parola." 
      "Ed  io  la manterrò" disse Morcerf,  "ma temo che presto vi cadrà 
      ogni  illusione,   mio  caro  conte,   voi,   avvezzo  ai   luoghi 
      d'avventure, agli avvenimenti pittoreschi ai fantastici orizzonti. 
      Presso noi non vi accadrà il più piccolo episodio di quelli cui la 
      vita fantastica vi ha abituato. Il nostro Chimboraco è Montmartre, 
      il  nostro Himalaya è il monte Valérien,  il nostro Gran Deserto è 
      la pianura di Grenelle.  Noi abbiamo dei  ladri  ed  anche  molti, 
      quantunque  non  ve ne siano tanti quanti si dice;  ma essi temono 
      ugualmente la più piccola spia come il più gran signore. Infine la 
      Francia è un  paese  così  prosaico,  e  Parigi  una  città  tanto 
      incivilita, che non troverete cercando per tutti gli ottantacinque 
      nostri dipartimenti (dico ottantacinque dipartimenti,  perché, ben 
      inteso,  separo la Corsica dalla Francia) che  non  troverete  una 
      sola  montagna  in  cui  non  vi sia un telegrafo,  la più piccola 
      grotta un poco oscura,  nella quale un commissario di polizia  non 
      abbia  fatto  porre  un  becco a gas.  Non vi è dunque che un solo 
      favore che posso rendervi,  mio caro conte,  e per questo mi metto 
      interamente a vostra disposizione,  ed è di presentarvi ovunque, e 
      farvi presentare dai miei amici, benché voi per questo non abbiate 
      bisogno d'alcuno: col vostro nome, la vostra fortuna, ed il vostro 
      spirito"  (Montecristo  s'inchinò  con  un   sorriso   leggermente 
      ironico),  "ognuno si presenta ovunque da se stesso,  ed ovunque è 
      ben ricevuto.  In realtà dunque non posso essere utile per voi che 
      ad  una  cosa  sola:  se  l'abitudine  della vita parigina,  se la 
      esperienza dei nostri usi,  se  la  conoscenza  dei  nostri  bazar 
      possono  raccomandarmi  a voi,  mi metto a vostra disposizione per 
      trovarvi una conveniente abitazione.  Non oso  proporvi  di  farvi 
      parte  del mio alloggio,  come ho partecipato del vostro a Roma... 
      Non professo l'egoismo,  ma sono egoista per eccellenza...  perché 
      il  mio  alloggio  non  potrebbe  contenere,   oltre  me,  neppure 
      un'ombra... a meno che non fosse quella di una donna." 
      "Ah" fece il conte,  "ecco una riserva del tutto matrimoniale: voi 
      infatti  a  Roma mi avete detto qualche parola di un matrimonio in 
      trattativa; debbo congratularmi per la vostra prossima felicità?" 
      "La cosa è sempre allo stato di progetto, signor conte." 
      "E chi dice progetto" soggiunse Debray, "vuol dire eventualità." 
      "No, no, mio padre si è impegnato, e spero fra poco di presentarvi 
      se non mia moglie,  almeno la mia fidanzata,  la signorina Eugenia 
      Danglars." 
      "Eugenia Danglars" riprese Montecristo,  "aspettate dunque...  Suo 
      padre non è il barone Danglars?" 
      "Sì" rispose Morcerf, "ma barone di nuova formazione." 
      "Oh, che importa!" rispose Montecristo, "se ha reso allo Stato dei 
      servigi che gli abbiano meritata questa distinzione." 
      "Servigi enormi!" disse Beauchamp. "Quantunque liberale nell'anima 
      nel 1829 completò un prestito di sei milioni a Carlo Decimo che lo 
      ha, penso io,  fatto barone e cavaliere della Legione d'Onore,  di 
      modo  che egli porta la decorazione non al taschino del giubbetto, 
      come si potrebbe credere, ma all'occhiello dell'abito!" 
      "Ah" disse Morcerf ridendo,  "Beauchamp,  riserbate questi  frizzi 
      per inserirli sul "Corsaire" e sul "Charivari", ma in mia presenza 
      risparmiate il mio futuro suocero." 
      Quindi volgendosi a Montecristo: 
      "Ma  voi  poco  fa  ne  pronunciaste il nome come se conosceste il 
      barone?" 
      "Non  lo   conosco"   disse   negligentemente   Montecristo,   "ma 
      probabilmente  non  tarderò molto a fare la sua conoscenza,  visto 
      che ho dei crediti aperti su lui dalla casa Richard  e  Blount  di 
      Londra, Arstein e Escheles di Vienna, Thomson e French di Roma." 
      Pronunciando questi due ultimi nomi, Montecristo guardò colla coda 
      dell'occhio Massimiliano Morrel. 
      Se  lo  straniero  aveva  calcolato  di  produrre un effetto sopra 
      Massimiliano, non si era ingannato. 
      Massimiliano trasalì come se avesse ricevuta una scossa elettrica. 
      "Thomson e French!" disse. "Conoscete questa casa, signore?" 
      "Sono i miei banchieri nella capitale del mondo cristiano" rispose 
      tranquillamente il conte. "Posso esservi utile con loro?" 
      "Ah, signore, voi potreste aiutarmi, forse, in certe ricerche, che 
      fino ad oggi sono state infruttuose. In altro tempo questa casa ha 
      reso un grandissimo favore alla nostra,  e non so  perché,  ma  ha 
      sempre negato di avercelo reso." 
      "Sono ai vostri ordini..." rispose Montecristo, inchinandosi. 
      "Ma  noi"  disse  Morcerf,  "ci  siamo  allontanati  per  Danglars 
      dall'argomento della conversazione.  Si trattava  di  trovare  una 
      casa   conveniente  al  conte  di  Montecristo.   Andiamo  signori 
      orizzontiamoci per averne un'idea: dove alloggeremo  questo  nuovo 
      ospite della grande Parigi?" 
      "Nel  Faubourg  Saint-Germain"  disse Chateau-Renaud,  "il signore 
      troverà  una  graziosa  abitazione  posta  fra  il  cortile  e  il 
      giardino." 
      "Bah,  Chateau-Renaud"  disse  Debray,  "voi  non conoscete che il 
      vostro  triste  ed  ammuffito  Faubourg  Saint-Germain...  Non  lo 
      ascoltate  signor conte,  alloggiate nella Chaussée d'Antin,  è il 
      vero centro di Parigi." 
      "Boulevard dell'Opera" disse Beauchamp, "al primo piano,  una casa 
      con  ringhiera...  Il  signor conte vi farà portare dei cuscini di 
      broccato  d'argento,  e  vedrà,  fumando  la  sua  pipa  turca,  o 
      inghiottendo  le  sue  pillole,  tutta la capitale sfilare sotto i 
      suoi occhi." 
      "E voi" disse  Chateau-Renaud,  "voi,  signor  Morrel,  non  avete 
      alcuna idea? Nulla proponete?" 
      "Anzi"  disse il giovane militare,  "al contrario,  ne ho una,  ma 
      aspettavo che il signore si fosse  lasciato  tentare  da  qualcuna 
      delle  brillanti  proposte  che gli sono state fatte.  Ora,  credo 
      potergli offrire un appartamento in una casa piccola, ma graziosa, 
      tutta alla Pompadour, che mia sorella ha presa in affitto da circa 
      un anno in rue Meslay." 
      "Voi avete una sorella?" domandò Montecristo. 
      "Sì, signore, ed una eccellente sorella." 
      "Maritata?" 
      "Ben presto saranno nove anni." 
      "E' felice?" domandò di nuovo il conte. 
      "Tanto  felice,  quanto  è  permesso  a  creatura  umana"  rispose 
      Massimiliano. "Sposò l'uomo che amava, quello che ci rimase fedele 
      nell'avversa fortuna: Emanuele Herbaut." 
      Montecristo sorrise impercettibilmente. 
      "Io  abito  là durante il mio congedo" continuò Massimiliano,  "ed 
      insieme a mio cognato Emanuele,  saremo a disposizione del  signor 
      conte per tutte le informazioni che potesse desiderare." 
      "Un momento" gridò Alberto,  prima che Montecristo avesse avuto il 
      tempo  di  rispondere,   "riflettete  su  ciò  che  fate:   volete 
      rinchiudere  un viaggiatore come Sindbad il marinaio nella vita di 
      famiglia?  Un uomo che è venuto  a  vedere  Parigi,  volete  farlo 
      diventare un patriarca?" 
      "Oh,  no"  rispose Morrel sorridendo,  "mia sorella ha venticinque 
      anni, mio cognato trenta; sono giovani, allegri e felici;  d'altra 
      parte  il  signor  conte  avrà  il  proprio  appartamento,  e  non 
      incontrerà gli ospiti che quando gli piacerà di scendere da loro". 
      "Grazie,  signore,  grazie" disse Montecristo,  "mi contenterò  di 
      essere da voi presentato a vostra sorella ed a vostro cognato,  se 
      volete farmi questo onore;  ma non posso accettare le  offerte  di 
      nessuno   di   questi  signori,   poiché  ho  già  pronta  la  mia 
      abitazione." 
      "Come!" gridò Morcerf,  "voi andate ad alloggiare in una  locanda? 
      Sarebbe troppo disdicevole per voi." 
      "Ma stavo forse tanto male a Roma?" domandò Montecristo. 
      "Per Bacco,  a Roma" disse Morcerf,  "avevate speso cinquanta mila 
      scudi per farvi ammobiliare un appartamento,  e presumo non sarete 
      tutti i giorni disposto ad una simile spesa." 
      "Ciò  non mi ha trattenuto" rispose Montecristo.  "Avevo stabilito 
      di avere una casa a Parigi,  intendo  una  casa  mia.  Ho  mandato 
      avanti il mio cameriere: a quest'ora l'avrà già comprata,  e fatta 
      ammobiliare." 
      "Ma diteci dunque,  avete un cameriere che conosce Parigi!"  gridò 
      Beauchamp. 
      "E' la prima volta,  signore,  ch'egli come me viene in Francia, è 
      moro, e non parla..." disse Montecristo. 
      "Allora è Alì?" domandò Alberto in mezzo alla sorpresa generale. 
      "Sì, è Alì il mio nubiese, il mio moro,  che credo abbiate visto a 
      Roma." 
      "Sì, certamente" rispose Morcerf, "me lo ricordo benissimo." 
      "Ma  come  mai  avete  incaricato uno della Nubia di comprarvi una 
      casa  a  Parigi,  un  muto  per  farvelo  ammobiliare?  Il  povero 
      disgraziato avrà fatte tutte le cose con grande difficoltà..." 
      "Disingannatevi,  signore,  sono  certo  che avrà scelto ogni cosa 
      secondo il mio gusto;  e voi sapete che il mio gusto non è  quello 
      di  tutti...  Avrà  percorsa  tutta  la  città  con  quell'istinto 
      naturale  che  userebbe  un  bravo  cane  da  caccia  che  andasse 
      cacciando  da solo.  Conosce i miei capricci,  le mie fantasie,  i 
      miei bisogni;  avrà ordinato tutto a modo mio.  Sapeva  che  sarei 
      arrivato qui alle dieci; fin dalle nove mi aspettava alla barriera 
      di Fontainebleau. Mi ha consegnato questo biglietto, col mio nuovo 
      indirizzo: prendete e leggete..." 
      "Champs-Elysées, numero 30" lesse Morcerf. 
      "Ah!  è  veramente  originale!"  non  poté  fare  a  meno  di dire 
      Beauchamp. 
      "E' grandemente principesca!..." aggiunse Chateau-Renaud. 
      "Come, voi non conoscete la vostra casa?" domandò Debray. 
      "No" disse Montecristo,  "vi dissi  già  che  non  volevo  tardare 
      all'appuntamento.  Feci la mia toilette in carrozza, e sono venuto 
      alla porta del visconte." 
      I giovani si guardarono l'un l'altro;  non sapevano se Montecristo 
      avesse voluto rappresentare una commedia;  ma tutto ciò che usciva 
      dalla bocca di quest'uomo  aveva,  nonostante  l'originalità,  una 
      tale  impronta  di  semplicità,  che  non  si  poteva supporre che 
      mentisse. D'altra parte, perché avrebbe mentito? 
      "Bisognerà  contentarsi  di  rendere  al   signor   conte"   disse 
      Beauchamp,  "tutti  quei  piccoli  favori  che  saranno  in nostro 
      potere.  Io,  nella mia qualità di giornalista,  gli apro tutti  i 
      teatri di Parigi." 
      "Grazie,   signore"   rispose  sorridendo  Montecristo,   "il  mio 
      intendente ha già l'ordine  di  prendere  in  fitto  un  palco  in 
      ciascuno di essi." 
      "E il vostro intendente è pure uno della Nubia,  un muto?" domandò 
      Debray. 
      "No, signore, è semplicemente un vostro compatriota, se un corso è 
      compatriota di qualcuno; ma voi lo conoscete, signor di Morcerf." 
      "Sarebbe per caso quel bravo  Bertuccio,  che  è  così  esperto  a 
      prendere in affitto le finestre?" 
      "Precisamente,  e lo avete visto da me quel giorno ch'ebbi l'onore 
      di avervi a colazione. E' un bravissimo uomo,  un po' soldato,  un 
      po' contrabbandiere, un po' infine di tutto ciò che si può essere. 
      Non  giurerei  che  non abbia avuto qualche intrigo colla polizia, 
      per una miseria, qualche cosa di simile ad un colpo di coltello." 
      "Ed avete scelto quest'onesto  cittadino  del  mondo,  per  vostro 
      intendente,  signor  conte?" disse Debray.  "E quanto vi ruba ogni 
      anno?" 
      "Ebbene, parola d'onore" disse il conte,  "niente più di un altro, 
      ne sono sicuro; ma mi conviene, per lui nulla è impossibile, ed io 
      lo tengo." 
      "Allora" disse Chateau-Renaud, "eccovi con una casa montata; avete 
      un'abitazione agli Champs-Elisées,  domestico,  intendente: non vi 
      manca più che una moglie." 
      Alberto sorrise;  pensava alla bella greca veduta  nel  palco  del 
      conte al teatro Valle, e al teatro Argentina. 
      Da lungo tempo erano passati alla frutta e ai sigari. 
      "Mio caro" disse Debray alzandosi, "sono le due e mezzo, il vostro 
      convito  è  delizioso,  ma non vi è buona compagnia che non si sia 
      obbligati a lasciare,  e qualche  volta  anche  per  una  cattiva: 
      bisogna che torni al Ministero.  Parlerò del conte al ministro,  e 
      bisognerà bene che scopriamo chi sia." 
      "Astenetevene" disse Morcerf, "i più maligni vi hanno rinunciato." 
      "Bah,  noi abbiamo tre milioni per la nostra polizia;  è vero  che 
      sono  quasi  sempre spesi in anticipo;  ma non importa: resteranno 
      sempre un cinquantamila franchi da impiegarsi in questo". 
      "E quando saprete chi è, me lo direte?" 
      "Ve lo prometto. Arrivederci, Alberto. Signori, servo umilissimo." 
      Ed uscendo, Debray gridò ad alta voce: 
      "Fate venire la carrozza!" 
      "Beh" disse Beauchamp ad Alberto,  "io non andrò alla  Camera,  ma 
      avrò  da  offrire  ai miei lettori molto di meglio che un discorso 
      del signor Danglars." 
      "Di grazia, Beauchamp" disse Morcerf,  "neppure una parola,  ve ne 
      supplico;  non mi togliete il merito di presentarlo, e di renderlo 
      noto. Non è vero ch'egli è interessante?" 
      "Anche molto di più"  rispose  Chateau-Renaud:  "è  veramente  uno 
      degli  uomini  più  straordinari che abbia mai veduto in vita mia. 
      Venite, Morrel." 
      "Solo il tempo di dare il mio biglietto al signor conte, che vorrà 
      promettermi di venire a farci una visita, rue Meslay, numero 14." 
      "State sicuro che non mancherò,  signore..." disse inchinandosi il 
      conte. 
      E Massimiliano Morrel uscì col barone di Chateau-Renaud, lasciando 
      Montecristo solo con Morcerf. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 40. 
                              LA PRESENTAZIONE. 
 
 
      Quando Alberto si trovò solo con Montecristo, gli disse: 
      "Signor  conte,  permettetemi  di  esordire  nel  mio  compito  di 
      cicerone  col  farvi  la  descrizione  dell'appartamento  di   uno 
      scapolo.  Abituato ai palazzi d'Italia,  non sarà piccola sorpresa 
      per voi calcolare in quanti piedi quadrati può vivere  un  giovane 
      che  passa per non essere male alloggiato.  Passando da una camera 
      all'altra apriremo le finestre, perché possiate respirare." 
      Montecristo conosceva già il salotto,  e la  sala  da  pranzo  del 
      piano terreno.  Alberto lo condusse prima nel suo studio: ciascuno 
      si ricorderà che questa era la stanza prediletta d'Alberto. 
      Montecristo era un  valente  conoscitore  di  tutte  le  cose  che 
      Alberto   aveva  ammassate  in  questa  stanza:  antichi  scrigni, 
      porcellane del Giappone,  stoffe d'Oriente,  specchi  di  Venezia, 
      armi di tutti i paesi del mondo.  Ogni cosa gli era famigliare,  e 
      al  primo  colpo  d'occhio  riconosceva  il  secolo,   il   paese, 
      l'origine.  Morcerf  aveva creduto di dover tutto spiegare,  ed al 
      contrario faceva sotto la direzione del conte un corso completo di 
      archeologia, mineralogia, e storia naturale. 
      Discesero quindi al primo piano. 
      Alberto introdusse  il  suo  ospite  nella  sala  da  ricevimento, 
      tappezzata di capolavori dei moderni pittori.  V'erano paesaggi di 
      Dupré dai lunghi canneti,  gli alberi  slanciati,  le  vacche  che 
      pascolavano sotto un cielo stupendo;  cavalieri arabi di Delacroix 
      coi  lunghi  bornous  bianchi,   i  cinti  brillantati,   le  armi 
      damaschine,  i  cavalli  che  si mordevano con rabbia,  mentre gli 
      uomini si laceravano colla mazza di ferro;  vi erano acquarelli di 
      Boulanger,  che  rappresentavano tutti Notre-Dame di Parigi con un 
      vigore degno d'un poeta;  quadri di Dias che fa i fiori più  belli 
      dei  fiori,  il  sole  più brillante del sole;  disegni di Duchamp 
      coloriti quanto quelli di Salvator Rosa, ma più poetici;  quadri a 
      pastello di Giraud e di Muller che rappresentavano fanciulli colle 
      teste da angeli, e donne colle sembianze di vergini; abbozzi tolti 
      dall'album  di  Dauzats  nel  suo viaggio in Oriente,  fatti colla 
      matita,  in pochi secondi stando o sulla sella di un  cammello,  o 
      sulla  cupola  di  una  moschea:  finalmente  tutto ciò che l'arte 
      moderna può dare in cambio ed in compenso  dell'arte  perduta  dei 
      secoli passati. 
      Alberto supponeva di potere, almeno questa volta, mostrare qualche 
      cosa di nuovo al suo strano viaggiatore ma con sua grande sorpresa 
      questi,  senza  aver  bisogno di guardare le firme,  di cui alcune 
      segnate soltanto colle iniziali, a ciascun'opera assegnava il nome 
      dell'autore,  e in modo tale che era facile  accorgersi  che,  non 
      solo gli erano noti i nomi di questi autori,  ma che le loro opere 
      erano state studiate ed apprezzate giustamente da lui. 
      Da questa sala si passò alla camera da letto. 
      Era un modello di eleganza e di gusto severo: là non c'era che  un 
      solo   ritratto,   ma   firmato   col  nome  di  Leopoldo  Robert, 
      risplendente in una cornice d'oro massiccia. 
      Questo quadro attirò subito l'attenzione del  conte,  perché  fece 
      subito tre passi rapidi ed andò a fermarsi davanti ad esso. 
      Era  quello  di una donna giovane di venticinque-ventisei anni col 
      colorito  bianco,   sguardo  acuto,   velato  sotto  una  palpebra 
      languente; portava il costume pittoresco delle pescatrici catalane 
      colla  giubba  rossa e nera,  e gli spilli faccettati nei capelli; 
      guardava il mare, e l'elegante profilo si staccava sopra il doppio 
      azzurro delle onde e del cielo. 
      La luce della camera era fioca,  se no Alberto si sarebbe  accorto 
      del pallore livido sulle guance del conte,  ed avrebbe scoperto il 
      fremito che gli sfiorò le spalle ed il petto. 
      Vi fu un momento di silenzio,  nel quale Montecristo  restò  fisso 
      coll'occhio sulla pittura. 
      "Voi  avete  qui una bella amica,  visconte" disse Montecristo con 
      una voce perfettamente tranquilla,  "e questo costume,  certamente 
      da ballo, le sta a meraviglia." 
      "Ah,  signore, ecco uno sbaglio che non vi perdonerei, se vicino a 
      questo ritratto ne aveste veduto qualche altro.  Voi non conoscete 
      mia  madre,  signore;  è lei che vedete in questo quadro.  Si fece 
      ritrarre così sette o otto anni fa.  Questo costume è di fantasia, 
      a quanto pare, e la somiglianza è tanto grande, che mi pare sempre 
      di  vedere  mia  madre  quale era nel 1830.  La contessa fece fare 
      questo ritratto in assenza del  conte.  Senza  dubbio  credeva  di 
      preparargli una dolce sorpresa per il ritorno.  Ma, cosa bizzarra, 
      questo ritratto dispiacque a mio padre; e il merito della pittura, 
      che come vedete è una delle più belle opere  di  Leopoldo  Robert, 
      non poté vincerla sulla sua antipatia. E' vero, sia detto fra noi, 
      mio caro signor conte, che mio padre è uno dei pari più assidui al 
      Lussemburgo,  un  generale  rinomato  per  la  strategia,  ma è un 
      conoscitore d'arte dei più mediocri. Non così però mia madre,  che 
      dipinge in un modo notevole,  e che, stimando troppo questo lavoro 
      per separarsene del tutto,  l'ha regalato a me,  perché qui  fosse 
      meno esposto a dispiacere al signor Morcerf, di cui vi farò vedere 
      a suo tempo il ritratto dipinto da Gras. 
      "Perdonatemi  se  vi parlo in tal modo di cose intime di famiglia; 
      ma siccome avrò l'onore di presentarvi fra momenti  al  conte,  vi 
      dico  tutto ciò,  perché non vi abbia a sfuggire qualche elogio di 
      questo quadro in sua presenza.  Del resto però,  il quadro ha  una 
      ben  triste  influenza:  è difficile che mia madre venga in camera 
      mia senza fermarsi a contemplarlo,  e più difficile ancora che  lo 
      contempli  senza  piangere.  La  nube  che portò questa pittura in 
      famiglia,  è del resto la sola che sia insorta fra il conte  e  la 
      contessa,  che,  sebbene maritati da più di venti anni, sono uniti 
      come se fosse il primo giorno." 
      Montecristo vibrò una rapida occhiata ad Alberto, come per cercare 
      un fine nascosto nelle sue parole,  ma era evidente che il giovane 
      le aveva pronunciate con tutta semplicità. 
      "Ora" disse Alberto,  "avete visto tutte le mia ricchezze,  signor 
      conte,  e permettetemi di offrirvele,  per quanto siano indegne di 
      voi...  Consideratevi come in casa vostra, e per mettervi ancora a 
      maggior comodo vostro,  abbiate  la  bontà  di  accompagnarmi  dal 
      signor de Morcerf,  mio padre,  al quale scrissi da Roma il favore 
      che mi avete reso,  ed ho annunziata  la  visita  che  mi  avevate 
      promessa, e, posso assicurarvene, il conte e la contessa aspettano 
      con  impazienza che sia permesso loro di ringraziarvene.  Siete un 
      poco singolare in tutte le cose, lo so,  signor conte,  e forse le 
      scene  di  famiglia  non  hanno  molta  attrazione  per Sindbad il 
      marinaio: siete abituato a tutt'altre scene!  Però  accettate  ciò 
      che  vi  propongo  come  iniziazione  alla vita parigina,  vita di 
      cortesie, di visite e di presentazioni." 
      Montecristo s'inchinò senza rispondere: accettò la proposta  senza 
      entusiasmo e senza rincrescimento,  come una di quelle convenienze 
      sociali, di cui ciascun uomo perbene si fa un dovere. 
      Alberto chiamò il cameriere,  e gli ordinò d'andare a prevenire il 
      signore  e  la signora de Morcerf del prossimo arrivo del conte di 
      Montecristo. 
      Alberto lo seguì col conte. 
      Giungendo nell'anticamera del conte,  si vedeva,  al disopra della 
      porta che metteva nel salotto, uno scudo, che dai ricchi fregi che 
      lo  circondavano,   e  dall'armonia  cogli  arredi  della  stanza, 
      rivelava in quanto conto fosse tenuto. 
      Montecristo si fermò davanti a questo blasone  e  lo  esaminò  con 
      attenzione. Sette merli d'oro a stormo, in campo azzurro. 
      "Questa  senza  dubbio  è  l'arme della vostra famiglia?" domandò. 
      "Escludendo le parti del blasone che mi permettono di  decifrarlo, 
      sono molto ignorante in materia araldica.  Io sono conte per caso, 
      fatto in Toscana per aver formata una commenda di Santo Stefano, e 
      mi sarei contentato d'essere semplicemente un gran signore, se non 
      mi si fosse più volte ripetuto che, per uno che viaggia molto,  un 
      titolo  è  cosa  necessaria.  In  pratica  portare  un  arme  allo 
      sportello della carrozza è cosa molto utile,  non fosse altro  che 
      per  non essere visitati dai doganieri.  Scusatemi dunque se vi ho 
      fatta questa domanda." 
      "Essa non è affatto indiscreta"  disse  Morcerf  colla  semplicità 
      della convinzione,  "e avete colto nel vero: queste sono le nostre 
      armi, vale a dire, quelle del capo della famiglia, di mio padre... 
      Ma,  come vedete,  sono  inquartate  con  altro  scudo  con  torri 
      d'argento in campo rosso e che proviene dal capo della famiglia di 
      mia  madre.  Dal  lato  di donna io sono spagnolo,  ma la famiglia 
      Morcerf è francese,  e,  a quanto ho inteso dire ancora una  delle 
      più antiche del mezzodì della Francia." 
      "Sì" confermò Montecristo, "è quello che viene indicato dai merli. 
      Quasi  tutti  i  pellegrini  armati  che  tentarono  o  fecero  la 
      conquista della Terra Santa,  presero  per  loro  armi,  o  croci, 
      simbolo  della  missione alla quale si erano votati,  o uccelli di 
      passaggio,   simbolo  del  lungo   viaggio   che   imprendevano... 
      Supponendo che fosse il tempo di San Luigi,  ciò vi fa risalire al 
      dodicesimo secolo, il che è un altro pregio." 
      "Ciò è possibile" disse Morcerf, "in un angolo dell'ufficio di mio 
      padre vi è un albero genealogico che illustra  tutto  ciò,  e  sul 
      quale  in  altri  tempi  ho  scritto  dei commentari che avrebbero 
      soddisfatto d'Ozier e Jaucour. Ora non ci penso più, e tuttavia vi 
      dirò,  signor conte,  e questo rientra nelle mie  attribuzioni  di 
      cicerone,  che già cominciano di nuovo ad occuparsi di queste cose 
      sotto il nostro governo popolare." 
      "Ebbene,  allora il vostro  governo  dovrebbe  scegliere  nel  suo 
      passato qualche cosa di meglio che quelle due tavole che ho vedute 
      sui vostri monumenti, e che non hanno alcun senso araldico. Quanto 
      a voi,  visconte" riprese Montecristo ritornando a Morcerf, "siete 
      più fortunato del vostro  governo,  perché  le  vostre  armi  sono 
      veramente belle e parlano all'immaginazione.  Sì,  voi siete ad un 
      tempo di Provenza e di Spagna, e ciò mi spiega (se il ritratto che 
      mi avete mostrato è  rassomigliante)  il  color  bruno  che  tanto 
      ammirai sul viso della nobile catalana." 
      Sarebbe  occorso  essere Edipo,  o la stessa sfinge per indovinare 
      l'ironia che mise il conte in queste parole,  coperte in apparenza 
      dalla  maggior  gentilezza;  per  cui  Morcerf lo ringraziò con un 
      sorriso, e, passando prima per fargli strada, spinse la porta che, 
      come si disse, metteva nel salotto da ricevimento. 
      Nel luogo più esposto di questo salotto si  vedeva  ugualmente  un 
      ritratto;  quello  di  un  uomo  dai trentacinque ai quaranta anni 
      vestito coll'uniforme di generale,  portando  la  doppia  spallina 
      particolare  ai  gradi  superiori,  la decorazione da commendatore 
      della Legion d'Onore al collo, e sul petto, a dritta, la placca di 
      Grande ufficiale dell'ordine del Salvatore,  a sinistra quella  di 
      Gran   Croce  dell'ordine  di  Carlo  Terzo.   Quindi  la  persona 
      rappresentata da questo ritratto aveva fatto le guerre di Grecia e 
      di Spagna, o, ciò che è lo stesso in materia di decorazioni, aveva 
      adempiuto qualche missione diplomatica nei due paesi. 
      Montecristo era occupato a guardare questo ritratto con non minore 
      attenzione di quel che aveva fatto  coll'altro,  quando  la  porta 
      laterale  si aprì,  ed egli si trovò in faccia al conte di Morcerf 
      in persona. 
      Era un uomo fra i quaranta quarantacinque anni,  ma ne  dimostrava 
      almeno   cinquanta,   i   cui   baffi   e   sopraccigli  nerissimi 
      contrastavano stranamente coi capelli quasi bianchi tagliati corti 
      a spazzola secondo l'uso militare. 
      Era vestito da borghese,  e portava all'occhiello un nastro le cui 
      strisce  a  diversi  colori  indicavano  i  vari ordini di cui era 
      decorato.  Questo uomo entrò con passo nobile ma con una specie di 
      fretta. 
      Montecristo  l'osservò senza muover passo;  si sarebbe detto che i 
      piedi erano inchiodati al pavimento  e  gli  occhi  sul  viso  del 
      conte. 
      "Padre mio" disse il giovane, "ho l'onore di presentarvi il signor 
      conte di Montecristo,  quel generoso amico che ho avuto la fortuna 
      d'incontrare nelle difficili situazioni che sapete." 
      "Signore,  voi siete il benvenuto  fra  noi"  disse  il  conte  di 
      Morcerf,  salutando Montecristo con un sorriso.  "Nel salvare alla 
      mia famiglia l'unico suo erede,  avete reso alla  nostra  casa  un 
      servigio che vi merita la nostra eterna riconoscenza." 
      Dicendo  queste parole il conte di Morcerf indicava una seggiola a 
      braccioli a Montecristo,  nel medesimo  tempo  ch'egli  stesso  si 
      sedeva in faccia alla finestra. 
      Quanto a Montecristo,  prendendo la seggiola indicata dal conte di 
      Morcerf,  si situò in modo da rimanere nascosto  nell'ombra  delle 
      grandi  tende di velluto,  per leggere di là sui tratti del conte, 
      in ciascuna ruga del suo volto. 
      "La contessa" disse Morcerf, "era alla toilette quando il visconte 
      l'ha fatta avvertire della visita che  avrebbe  avuto  l'onore  di 
      ricevere; sta per scendere, e fra dieci minuti sarà in salotto." 
      "E'  molto  onore  per  me"  disse  Montecristo,  "essere messo in 
      rapporto,  fin dal primo giorno in cui sono a Parigi,  con un uomo 
      il  cui  merito  è  eguale  alla  reputazione,  e  per il quale la 
      fortuna, giusta questa volta, non ha commesso errore... Ma non ha, 
      la sorte,  nelle pianure di Mitidjia o nelle montagne dell'Atlante 
      un bastone da Maresciallo da offrirvi?" 
      "Oh!"  replicò  Morcerf  arrossendo  un  poco,  "io ho lasciato il 
      servizio, signore. Nominato Pari sotto la restaurazione, ero nella 
      prima campagna,  e servivo agli ordini del  maresciallo  Bourmont. 
      Potevo  dunque  pretendere un comando superiore?  E chi sa ciò che 
      sarebbe accaduto,  se la dinastia primogenita rimaneva sul  trono? 
      Ma  la  rivoluzione  di  luglio,  a quanto sembra,  era abbastanza 
      gloriosa per potersi permettere d'essere  ingrata,  e  lo  fu  per 
      tutti  i  servigi che non portavano la data del periodo imperiale. 
      Chiesi dunque la dimissione,  perché quando uno ha guadagnato come 
      me le spalline sul campo di battaglia, non sa ugualmente manovrare 
      sul terreno sdrucciolevole delle sale.  Ho lasciata la spada, e mi 
      sono ingolfato nella politica; mi dedico all'industria e studio le 
      arti utili. Nei vent'anni che sono rimasto in servizio ne avevo il 
      desiderio, ma non ne avevo avuto il tempo." 
      "Sono queste idee  che  dimostrano  la  superiorità  della  vostra 
      nazione   sugli   altri   paesi,   signore"  rispose  Montecristo. 
      "Gentiluomo,  uscito da una gran famiglia,  possedendo  una  bella 
      fortuna  avete  sulle  prime voluto acquistarvi i primi gradi come 
      oscuro soldato,  la  qual  cosa  è  molto  rara;  quindi  divenuto 
      generale,  Pari  di  Francia,  commendatore  della Legion d'Onore, 
      acconsentite ad  incominciare  un  secondo  noviziato,  senz'altra 
      ricompensa che quella d'essere un giorno utile ai vostri simili... 
      Ah! signore, ecco quello che può veramente dirsi bello; dirò anche 
      più, sublime." 
      Alberto  guardava ed ascoltava Montecristo con meraviglia: non era 
      avvezzo a vederlo alzarsi a simili entusiasmi. 
      "Ahimè" continuò  lo  straniero,  senza  dubbio  per  far  sparire 
      l'impercettibile  nube  che  era  passata sulla fronte di Morcerf, 
      "noi non facciamo così;  cresciamo secondo la nostra  razza  e  la 
      nostra  specie,  e  conserviamo  la  stessa  corteccia,  la stessa 
      dimensione,  e dirò ancora la stessa inutilità per tutta la nostra 
      vita." 
      "Ma,  signore,  per  un  uomo del vostro merito,  l'Italia non può 
      essere sua patria, e la Francia vi apre le braccia;  corrispondete 
      alla  sua  chiamata,  la Francia forse non sarà ingrata con tutti; 
      essa è accostumata ad accogliere generosamente gli stranieri." 
      "Eh,  padre mio,  si vede bene  che  non  conoscete  il  conte  di 
      Montecristo.  Le  sue  soddisfazioni  sono  al  di fuori di questo 
      mondo, egli non aspira agli onori,  e ne prende soltanto quanti ne 
      possono stare sul suo passaporto." 
      "Ecco l'espressione più giusta che abbia mai intesa sul conto mio" 
      rispose lo straniero. 
      "Il  signore  è  stato  padrone  del suo avvenire,  ecco perché ha 
      scelto un sentiero di fiori" disse sospirando de Morcerf. 
      "Precisamente,  signore"  replicò  Montecristo  con  uno  di  quei 
      sorrisi  che  un  pittore  non  potrà  mai  riprodurre,  e  che un 
      fisiologo sarebbe disperato ad analizzare. 
      "Se non avessi avuto timore di stancare il signor conte" disse  il 
      generale evidentemente lusingato dalle parole di Montecristo,  "lo 
      avrei condotto alla Camera;  oggi vi è una seduta curiosa per  chi 
      non conosce i nostri moderni senatori." 
      "Vi sarei molto riconoscente se vorreste rinnovarmi questa offerta 
      un'altra  volta;  ma  oggi  sono stato lusingato dalla speranza di 
      esser presentato alla signora contessa, ed aspetterò." 
      "Ah! ecco appunto mia madre" esclamò Alberto. 
      Difatti Montecristo volgendosi  velocemente  vide  la  signora  de 
      Morcerf  sul  limitare  della  porta  opposta a quella per cui era 
      entrato il marito immobile e pallida;  appena Montecristo si volse 
      dalla sua parte,  lasciò cadere il braccio che,  non si sa perché, 
      s'era appoggiato  alla  maniglia  dorata;  stava  là,  da  qualche 
      secondo,   ed  aveva  intese  le  ultime  parole  pronunciate  dal 
      viaggiatore oltremontano. 
      Questi si alzò e salutò profondamente la contessa,  che  s'inchinò 
      anch'essa, muta e cerimoniosa. 
      "Eh, mio Dio, signora che avete?" domandò il conte. "Sarebbe forse 
      il calore di questo salotto che vi fa male?" 
      "State  poco  bene,  madre  mia?"  gridò  il  visconte lanciandosi 
      incontro a Mercedes. 
      Lei li ringraziò entrambi con un sorriso. 
      "No" disse,  "ma ho provato una certa emozione nel vedere  per  la 
      prima  volta  colui  senza  il cui aiuto ora saremmo immersi nelle 
      lacrime e nel lutto.  Signore" continuò la  contessa,  avanzandosi 
      colla maestà di una regina, "vi debbo la vita di mio figlio, e per 
      questo vi benedico. Ora vi sono grata del piacere che mi procurate 
      offrendomi l'occasione di ringraziarvi con tutto il cuore." 
      Il  conte s'inchinò,  ma più profondamente della prima volta,  era 
      ancora più pallido di Mercedes. 
      "Signora" disse,  "il signor conte e voi mi ringraziate troppo per 
      un azione semplicissima.  Salvare un uomo, risparmiare un tormento 
      al padre,  risparmiare la sensibilità di una  donna,  ciò  non  si 
      chiama fare un'opera buona, ma fare un atto di umanità." 
      A   queste  parole  pronunciate  con  dolcezza,   e  con  squisita 
      gentilezza, la signora de Morcerf rispose con accento profondo: 
      "E' una fortuna per mio figlio l'avervi per amico, e ringrazio Dio 
      che ha in tal modo disposte le cose." 
      E Mercedes alzò gli  occhi  al  cielo  con  una  gratitudine  così 
      infinita, che al conte parve di vedere tremolare due lacrime. 
      Il signor de Morcerf si avvicinò a lei: 
      "Signora,  ho  già  fatto  le mie scuse al signor conte per essere 
      obbligato a lasciarlo: vi prego di  rinnovarle.  La  seduta  si  è 
      aperta alle due, ora sono le tre, ed io sono obbligato a parlare." 
      "Andate, signore; cercherò di far dimenticare la vostra assenza al 
      nostro   ospite"   disse  la  contessa  collo  stesso  accento  di 
      sensibilità.  "Il signor conte" proseguì la contessa volgendosi  a 
      Montecristo, "vorrà farci la grazia di passare il resto del giorno 
      con noi?" 
      "Grazie,  signora,  sono,  credetelo,  riconoscente  nel  modo più 
      profondo alla vostra offerta;  ma questa mattina sono sceso  dalla 
      carrozza da viaggio alla vostra porta.  Non so come sia installato 
      a Parigi; e il dove mi è appena noto. E' una inquietudine leggera, 
      lo so, non pertanto è da considerarsi." 
      "Avremo questo piacere un'altra volta,  almeno: ce lo promettete?" 
      domandò la contessa. 
      Montecristo s'inchinò senza rispondere, ma il gesto poteva passare 
      per un consenso. 
      "Allora non vi trattengo,  signore" disse la contessa, "poiché non 
      voglio che la mia riconoscenza divenga o una  importunità,  o  una 
      indiscrezione." 
      "Mio  caro  conte"  disse  Alberto,  "se  lo  volete,  cercherò di 
      corrispondere alla vostra cortesia di  Roma  col  mettere  la  mia 
      carrozza a vostra disposizione,  fino a che abbiate avuto il tempo 
      di provvedervi del vostro equipaggio." 
      "Mille  grazie  alla  vostra  cortese  offerta,   visconte"  disse 
      Montecristo,  "ma  presumo  che  Bertuccio  avrà  convenientemente 
      impiegate le quattr'ore che gli ho concesse,  e che  troverò  alla 
      porta una carrozza qualunque già attaccata." 
      Alberto  era  abituato a queste maniere del conte: sapeva che come 
      Nerone era alla ricerca dell'impossibile,  e non  si  meravigliava 
      più  di  nulla;  soltanto  volle giudicare di persona in qual modo 
      erano stati eseguiti i suoi ordini,  e  lo  accompagnò  sino  alla 
      porta di strada. 
      Montecristo  non s'era sbagliato;  appena comparve nell'anticamera 
      del conte de Morcerf,  uno staffiere,  lo stesso che  a  Roma  era 
      venuto  a  portare  il  biglietto  del  conte  ai due giovani,  ed 
      annunziar  loro  la  sua  visita,   si  era  slanciato  fuori  del 
      peristilio,   di   modo  che  giungendo  al  portone,   l'illustre 
      viaggiatore trovò la carrozza che lo aspettava. 
      Era un coupé della fabbrica di Keller, e due cavalli,  per i quali 
      Drake aveva,  come sapevano tutti i lyons di Parigi,  rifiutato il 
      giorno innanzi diciotto mila franchi. 
      "Signore"  disse  il  conte  ad  Alberto,   "non  vi  propongo  di 
      accompagnarmi  alla  mia  casa  non  potrei mostrarvi che una casa 
      improvvisata...  Accordatemi  un  giorno  ed  allora  permettetemi 
      d'invitarvi:   sarò   più   sicuro   di  non  mancare  alle  leggi 
      dell'ospitalità." 
      "Se mi chiedete un giorno, signor conte, sono tranquillo: non sarà 
      più una casa che mi mostrerete,  ma un palazzo.  Voi dovete  avere 
      qualche genio a vostra disposizione." 
      "In fede mia,  continuate a crederlo" disse Montecristo,  mettendo 
      il piede sul montatoio in velluto del  suo  splendido  equipaggio, 
      "ciò potrà essermi utile, signore." 
      E si lanciò nella carrozza,  che si chiuse dietro a lui e partì al 
      galoppo  ma  non  tanto  rapidamente  che  il  conte  non  potesse 
      accorgersi  del  movimento  impercettibile  che mosse la tenda del 
      salotto ove aveva lasciata la signora de Morcerf. 
      Quando Alberto ritornò da  sua  madre,  ritrovò  la  contessa  nel 
      salotto  gettata  sopra un seggiolone di velluto;  tutta la stanza 
      essendo nell'ombra,  non lasciava scorgere che la foglietta  d'oro 
      sfavillante,  attaccata  qua  e là o sul corpo di qualche vaso,  o 
      agli angoli di qualche quadro. 
      Alberto non poté vedere il volto della contessa nascosto sotto  la 
      nube  del  velo  che  le  circondava  la  testa come un'aureola di 
      vapore, ma gli sembrò che la voce fosse alterata;  distinse ancora 
      fra  gli  odori  di  rose e vainiglie della giardiniera la traccia 
      aspra e mordente del sale d'aceto sopra una delle tazze  cesellate 
      del caminetto, infatti la boccettina della contessa, tolta dal suo 
      astuccio di velluto, attirò l'inquieta attenzione del giovane. 
      "Soffrite,  madre mia" gridò entrando,  "o vi sareste sentita male 
      mentre io non c'ero?" 
      "Io? No, Alberto,  ma queste rose,  queste tuberose,  questi fiori 
      d'arancio  nauseano  nei  primi  calori,  quando  non  si è ancora 
      abituati a violenti profumi..." 
      "Allora,  madre mia" disse Alberto portando la mano al campanello, 
      "bisogna  farli  portare  nella vostra anticamera: siete veramente 
      indisposta;  anche  poco  fa,   quando  entraste,   eravate  molto 
      pallida." 
      "Ero pallida, dite voi, Alberto?" 
      "Di un pallore che vi sta a meraviglia, madre mia, ma che però non 
      ha spaventato meno mio padre e me." 
      "Vostro padre ve ne ha parlato?" domandò vivamente Mercedes. 
      "No, signora, ma fu a voi stessa che diresse questa osservazione." 
      "Non me ne ricordo..." disse la contessa. 
      Entrò  un  cameriere,  chiamato dal suono del campanello tirato da 
      Alberto. 
      "Portate questi fiori in anticamera, o nel salotto della toilette" 
      disse il visconte, "fanno male alla signora contessa." 
      Il cameriere obbedì. 
      Vi fu un silenzio abbastanza lungo, che durò tutto il tempo che il 
      cameriere provvedeva a portar via i fiori. 
      "Qual nome è mai  questo  di  Montecristo?"  chiese  la  contessa, 
      quando il domestico uscì portando via l'ultimo vaso di fiori.  "E' 
      il nome di una terra o un semplice titolo?" 
      "Questo è, credo, un titolo, madre mia, e niente più.  Il conte ha 
      comprato  un'isola nell'arcipelago toscano,  ed ha,  per quanto ha 
      detto egli stesso questa mattina, fondato una commenda. Voi sapete 
      che ciò si usa per Santo  Stefano  di  Firenze  per  San  Gregorio 
      Costantiniano  di Parma ed anche per l'ordine di Malta.  Del resto 
      non ha alcuna pretesa di nobiltà,  e si  chiama  conte  per  caso, 
      quantunque  l'opinione  generale di Roma fosse che il conte sia un 
      gran signore." 
      "I suoi modi sono eccellenti,  per quanto ho potuto giudicare  nei 
      pochi momenti che si è trattenuto." 
      "Oh!  perfetti,  madre  mia,  anzi tanto perfetti,  che sorpassano 
      molto tutto ciò che ho conosciuto di più aristocratico  nelle  tre 
      nobiltà  più  orgogliose  d'Europa,  cioè  nella  nobiltà inglese, 
      spagnola e germanica." 
      La contessa rifletté un momento,  poi dopo  una  breve  esitazione 
      riprese: 
      "Avete  visto,  mio caro Alberto...  questa è una domanda da madre 
      che vi faccio, lo capirete... avete visto il signor di Montecristo 
      nel profondo? Voi avete della perspicacia, voi avete uso di mondo, 
      e un tatto maggiore di quello che d'ordinario si  ha  alla  vostra 
      età... Credete che il conte sia quello che appare essere?" 
      "Come, appare?" 
      "Voi stesso lo avete detto, non ha pari... un gran signore." 
      "Vi ho detto, madre mia, ch'egli era ritenuto per tale." 
      "Ma che ne pensate voi?" 
      "Io  non  ho,  ve  lo confesso,  un'opinione precisa su di lui: lo 
      credo maltese." 
      "Io non vi chiedo della sua origine, ma della sua persona." 
      "Ah la sua persona è tutt'altro!  Ho viste tante  cose  strane  di 
      lui,  che  se voleste vi dicessi ciò che ne penso,  vi risponderei 
      che lo  considero  come  uno  degli  uomini  alla  Byron,  che  la 
      disgrazia  ha  marcati  col  suggello  fatale;  qualche  Manfredo, 
      qualche Lara,  qualche Werner,  uno di quegli  avanzi  di  vecchia 
      famiglia che, diseredati dalla fortuna paterna, ne hanno ritrovato 
      una  colla  forza del loro genio avventuroso che li ha posto al di 
      sopra delle leggi della società... Dico che Montecristo è un'isola 
      in mezzo al Mediterraneo, senza abitanti, senza guarnigione, asilo 
      di contrabbandieri di tutte le  nazioni,  di  pirati  di  tutti  i 
      paesi.  Chi  sa  che  questi degni trafficanti non paghino al loro 
      signore il diritto di asilo." 
      "E' possibile..." disse la contessa distratta. 
      "Ma non importa" riprese il giovane,  "contrabbandiere  o  no,  ne 
      converrete  madre mia (perché l'avete veduto),  il signor conte di 
      Montecristo è un uomo notevole,  ed avrà  i  più  grandi  successi 
      nelle  sale  di Parigi.  E questa mattina da me ha incominciato il 
      suo ingresso nel mondo destando in tutti ammirazione,  perfino  in 
      Chateau-Renaud." 
      "E  che  età  potrà  avere  il  conte?"  chiese  Mercedes,   dando 
      visibilmente grande importanza a questa domanda. 
      "Avrà trentacinque o trentasei anni, madre mia." 
      "Così  giovane?   E'  possibile!"  disse   Mercedes,   rispondendo 
      contemporaneamente  a  ciò  che le diceva Alberto,  e a ciò che le 
      diceva il proprio pensiero. 
      "Eppure questa è la verità.  Tre o quattro volte mi  ha  detto,  e 
      certamente senza premeditazione, alla tal'epoca avevo cinque anni, 
      alla tal'altra dodici.  Io che ero all'erta su questi particolari, 
      ho ravvicinato le date, e non l'ho mai trovato in fallo.  L'età di 
      quest'uomo singolare, che non ha età, è dunque, ne sono sicuro, di 
      trentacinque anni. In più, ricordatevi, madre mia, quanto è vivace 
      il  suo  sguardo,  come  sono  neri  i capelli,  e come la fronte, 
      sebbene pallida,  è esente da rughe;  questa è una natura non solo 
      vigorosa, ma giovane." 
      La  contessa  abbassò il capo come sotto un'onda troppo pesante di 
      amari pensieri. 
      "E quest'uomo ha stretta amicizia con voi?" domandò con un fremito 
      nervoso. 
      "Lo credo, madre mia." 
      "E voi... lo amate ugualmente?" 
      "Egli mi piace, checché ne dica Franz d'Epinay,  che lo voleva far 
      comparire ai miei occhi come un uomo uscito dall'altro mondo." 
      La contessa fece un movimento di terrore. 
      "Alberto"  disse  con  voce  alterata,  "io  vi ho sempre messo in 
      guardia contro le nuove conoscenze. Ora siete un uomo,  e potreste 
      dar consigli a me, tuttavia vi ripeto: "Siate prudente, Alberto." 
      "Mia   cara   madre,   perché  il  consiglio  fosse  profittevole, 
      bisognerebbe che sapessi di che cosa debbo non fidarmi.  Il  conte 
      non gioca mai, il conte non beve che dell'acqua dorata con qualche 
      goccia di vino di Spagna,  il conte si è rivelato tanto ricco, che 
      non potrebbe chiedermi in prestito  del  danaro  senza  esporsi  a 
      farsi  ridere  sul naso...  Che volete dunque che io tema da parte 
      del conte?" 
      "Voi avete ragione" disse la contessa,  "ed  i  miei  timori  sono 
      folli  particolarmente  per  un uomo che vi ha salvata la vita.  A 
      proposito,  Alberto,   vostro  padre  lo  ha  ricevuto  bene?   E' 
      necessario che noi siamo più che ospitali col conte.  Il signor de 
      Morcerf qualche volta è preoccupato,  i  suoi  affari  lo  rendono 
      distratto, e potrebbe darsi, senza volerlo..." 
      "Mio padre si è condotto perfettamente" interruppe Alberto,  "dirò 
      di più, è sembrato grandemente lusingato dei due o tre complimenti 
      accorti che il conte gli ha fatto  tanto  fortuitamente  quanto  a 
      proposito, come se lo avesse conosciuto da trent'anni. Ciascuna di 
      queste  piccole  frecce  di  lode ha dovuto solleticare mio padre" 
      soggiunse Alberto ridendo, "poiché si sono lasciati come i due più 
      grandi amici del mondo,  ed il signor de Morcerf lo voleva perfino 
      condurre alla Camera per fargli sentire il suo discorso." 
      La  contessa  non  rispose:  era  assorta  in una riflessione così 
      profonda, che i suoi occhi si erano chiusi a poco a poco. 
      Il giovane in piedi dinanzi a  lei,  la  guardava  con  quell'amor 
      filiale che è ancor più tenero e più affettuoso nei figli,  le cui 
      madri sono ancora giovani e belle; poi,  dopo aver visto gli occhi 
      di  lei chiudersi,  l'ascoltò respirare un momento nella sua dolce 
      immobilità,  e credendola assopita si allontanò in punta di piedi, 
      chiudendo  con  cautela  la  porta  della stanza dove lasciava sua 
      madre. 
      "Che diavolo d'uomo!" mormorò scuotendo la testa,  "gli avevo  ben 
      predetto  laggiù  che  avrebbe  fatto  gran  sensazione nel nostro 
      mondo;  io ne calcolo l'effetto su di un  termometro  infallibile. 
      Mia  madre  lo  ha  rimarcato,  dunque  bisogna  dire  ch'egli sia 
      notevole." 
      Discese nelle scuderie,  non senza un segreto dispetto,  perché il 
      conte  di  Montecristo  si  era  provveduto  d'una  pariglia,  che 
      relegava i cavalli di Alberto in secondo piano  agli  occhi  degli 
      intenditori. 
      "Davvero" disse, "gli uomini non sono tutti eguali." 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 41. 
                                  BERTUCCIO. 
 
 
      In  quel  mentre  il  conte era giunto alla sua abitazione.  Aveva 
      impiegati sei minuti a percorrere la distanza,  sufficienti perché 
      fosse  visto  da una ventina di giovani che,  conoscendo il prezzo 
      dell'equipaggio, avevano messe le loro cavalcature al galoppo, per 
      vedere lo splendido signore che aveva cavalli da diecimila franchi 
      l'uno. 
      La casa scelta da Alì,  e che doveva servire da residenza in città 
      a  Montecristo,  era situata a destra salendo agli Champs-Elysées, 
      con un bel cortile e un  giardino.  Un  gruppo  di  ramosi  alberi 
      s'innalzava in mezzo al cortile, copriva una parte della facciata; 
      ai  lati  di  questi  alberi  passavano due viali che dal cancello 
      portavano le carrozze ad una  doppia  scalinata,  ornata  su  ogni 
      gradino da un vaso di porcellana pieno di fiori. 
      Questa  casa,  isolata  nel  centro  di  un  vasto  spazio,  oltre 
      l'ingresso principale,  aveva  pure  un'altra  entrata  sulla  rue 
      Ponthieu. 
      Prima ancora che il cocchiere avesse data la voce al portinaio, il 
      robusto  cancello  girò sui gangheri: era stato veduto giungere il 
      conte, ed a Parigi, come a Roma,  e come ovunque era servito colla 
      rapidità del fulmine. 
      Il  cocchiere  dunque  entrò,  descrisse  il  mezzo  cerchio senza 
      rallentare la corsa,  ed il cancello era già rinchiuso,  quando le 
      ruote rumoreggiavano ancora sulla sabbia del viale. 
      La  carrozza  si  fermò  alla parte sinistra della scalinata,  due 
      uomini comparvero allo sportello; uno era Alì,  che sorrise al suo 
      padrone  con  una  incredibile  gioia,  e  che si trovò pago di un 
      semplice sguardo di  Montecristo,  l'altro  salutò  umilmente,  ed 
      offrì  il  braccio  al  conte  per  aiutarlo  a  discendere  dalla 
      carrozza. 
      "Grazie,  Bertuccio" disse il conte,  saltando leggermente  i  tre 
      scalini. "E il notaio?" 
      "E' nel salotto, Eccellenza" rispose Bertuccio. 
      "Ed i biglietti da visita che ho ordinato di fare stampare, appena 
      avuto il numero della casa?" 
      "Signor conte, è fatto tutto; sono stato dal migliore incisore del 
      Palazzo Reale,  che ha eseguito il rame in mia presenza,  e tirato 
      il  primo  biglietto,  secondo  i  vostri  ordini.  Subito  questo 
      biglietto  fu  portato  al  signor Danglars,  rue Chaussée d'Antin 
      numero 7;  gli altri sono sul caminetto della camera da  letto  di 
      Vostra Eccellenza." 
      "Va bene: che ore sono?" 
      "Le quattro." 
      Montecristo  consegnò  il cappello,  i guanti,  ed il bastone allo 
      stesso staffiere francese che era corso fuori dall'anticamera  del 
      conte di Morcerf per fare inoltrare la carrozza,  quindi passò nel 
      piccolo  salotto,  condotto  da  Bertuccio,  che  gl'insegnava  la 
      strada. 
      "Ecco  dei mobili mediocri in quest'anticamera,  spero bene che ne 
      verrò presto sbarazzato" disse Montecristo. 
      Bertuccio s'inchinò. 
      Come aveva detto l'intendente,  il notaio  aspettava  nel  piccolo 
      salotto. 
      Era  un  onesta  figura  parigina,  elevata alla dignità di notaio 
      distrettuale. 
      "Il signore è il notaio incaricato di vendere la casa di  campagna 
      che voglio comprare?" domandò Montecristo. 
      "Sì, signor conte" rispose il notaio. 
      "L'atto di vendita è steso?" 
      "Sì, signor conte." 
      "Lo avete con voi?" 
      "Eccolo qui." 
      "Perfettamente." 
      "E dove è situata questa casa che compro?" domandò negligentemente 
      Montecristo per metà al notaio e per metà a Bertuccio. 
      Il notaio guardò il conte con stupore. 
      "Come?"  disse,  "il  signor  conte  non  sa  dove sia la casa che 
      compra?" 
      "No, in fede mia" disse il conte. 
      "Il signor conte non la conosce?" 
      "E come diavolo  la  posso  conoscere?  Giungo  da  Cadice  questa 
      mattina non sono mai stato a Parigi, ed è la prima volta che metto 
      piede in Francia." 
      "Allora  è  tutt'altro" rispose il notaio.  "La casa che compra il 
      signor conte è ad Auteuil." 
      "E dove è Auteuil?" chiese Montecristo. 
      "A pochi passi da qui,  signor conte" disse il notaio,  "poco dopo 
      Passy,  in  una  bellissima  posizione,  nel  centro  del  Bois de 
      Boulogne." 
      "Tanto vicino!" disse Montecristo. "Ma questa non è campagna. Come 
      diavolo siete andato a scegliermi una casa alle porte  di  Parigi, 
      Bertuccio?" 
      "Io"   gridò  l'intendente  con  una  strana  sollecitudine,   "no 
      certamente non sono stato io l'incaricato  del  signor  conte  per 
      pigliare una casa;  prego il signor conte di ricordarsene bene,  e 
      richiamare i suoi ricordi." 
      "Ah,  è  giusto"  disse  Montecristo,   "ora  ricordo,   ho  letto 
      quest'annuncio  in  un giornale,  e mi sono lasciato sedurre dalla 
      falsa menzione "casa di campagna"." 
      "Siete ancora in tempo" disse con vivacità Bertuccio, "e se Vostra 
      Eccellenza vuole incaricarmi di cercare un  altro  luogo,  troverò 
      ciò che vi ha di meglio, sia ad Enghien, sia a Fontenay-aux-Roses, 
      sia a Bellevue." 
      "No,  in  fede  mia" disse con noncuranza Montecristo,  "poiché ho 
      questa, la conserverò." 
      "Il signore ha ragione" disse  subito  il  notaio  che  temeva  di 
      perdere  i suoi guadagni,  "questa è una graziosa proprietà: acque 
      vive, boschi folti,  abitazione gradevole,  quantunque abbandonata 
      da lungo tempo,  senza calcolare la mobilia, che, sebbene vecchia, 
      ha del valore, particolarmente oggi che si cercano le anticaglie." 
      "Dunque è conveniente?" soggiunse Montecristo. 
      "Ah, signore, è ancora meglio, è magnifica!" 
      "Presto!  non ci lasciamo sfuggire l'occasione" disse Montecristo. 
      "Il contratto, signor notaio?" 
      E  sottoscrisse,  dopo aver data un'occhiata nella parte dell'atto 
      ove stavano segnati i nomi dei proprietari,  e la situazione della 
      villa. 
      "Bertuccio"   diss'egli,   "date  cinquantacinquemila  franchi  al 
      signore." 
      L'intendente uscì con passo incerto, e ritornò con un pacchetto di 
      biglietti di banca che il notaio contò al modo  degli  uomini  che 
      hanno ogni giorno a che fare col danaro. 
      "Ed ora" domandò il conte, "sono adempiute tutte le formalità?" 
      "Tutte, signor conte." 
      "Avete le chiavi?" 
      "Sono  nelle  mani  del portinaio che custodisce la casa;  ma ecco 
      l'ordine che gli ho dato di installare il signore nella sua  nuova 
      proprietà." 
      "Va benissimo." 
      E  Montecristo  fece  al  notaio un segno colla testa,  che voleva 
      dire: "Signore, non ho più bisogno di voi, andatevene". 
      "Ma" disse l'onesto notaio,  "mi sembra che il signor conte si sia 
      sbagliato; non sono che cinquantamila franchi tutto compreso." 
      "E i vostri onorari?" 
      "Vengono pagati colla stessa somma, signor conte." 
      "Ma non siete venuto qui da Auteuil?" 
      "Sì, senza dubbio." 
      "Ebbene,  bisogna compensare il vostro incomodo" disse il conte. E 
      lo congedò con un gesto. 
      Il notaio uscì andando all'indietro, e salutando fino a terra; era 
      la prima volta,  dal giorno in cui aveva  presa  la  licenza,  che 
      trovava un simile cliente. 
      "Accompagnate il signore" disse il conte a Bertuccio. 
      E l'intendente uscì dietro il notaio. 
      Appena  il  conte  fu  solo,  cavò  di  tasca  un  portafogli  con 
      serratura,  lo aprì con una chiavetta che portava al collo,  e che 
      non lasciava mai. 
      Dopo  aver cercato un momento,  si fermò sopra un foglietto su cui 
      erano  segnate  alcune  annotazioni,  le  confrontò  coll'atto  di 
      vendita deposto sulla tavola, e raccogliendo la memoria: 
      "Auteuil, rue Fontaine 28; è questa" disse, "ora mi debbo attenere 
      ad  una  confessione  ottenuta per mezzo del rimorso religioso,  o 
      strappata dal terrore fisico?  Del resto,  fra un'ora saprò tutto. 
      Bertuccio!"  gridò  battendo  un  colpo  con una specie di piccolo 
      martello a manico elastico sopra un campanello,  che rese un suono 
      acuto e prolungato simile a quello del gong. 
      L'intendente comparve sulla soglia. 
      "Bertuccio,  non  mi  avete  detto  una volta di aver viaggiato in 
      Francia?" 
      "In alcune parti della Francia sì, Eccellenza." 
      "Conoscerete senza dubbio i dintorni di Parigi?" 
      "No,  Eccellenza,  no" rispose  l'intendente  con  una  specie  di 
      tremito nervoso,  che Montecristo,  grande conoscitore in fatto di 
      emozioni, attribuì con ragione ad una viva inquietudine. 
      "Mi rincresce che non  abbiate  visitati  i  dintorni  di  Parigi, 
      perché voglio questa stessa sera vedere la mia nuova proprietà,  e 
      venendo con me, mi avreste dato senza dubbio utili informazioni." 
      "Ad Auteuil!" gridò Bertuccio,  il cui  viso  color  rame  divenne 
      quasi livido, "io andare ad Auteuil!" 
      "Ebbene,  che  c'è  di  strano  che veniate ad Auteuil?  Quando io 
      dimorerò ad Auteuil,  bisognerà bene che ci veniate,  giacché fate 
      parte della famiglia." 
      Bertuccio  abbassò  la  testa  davanti  allo sguardo imperioso del 
      padrone restò immobile, e senza rispondere. 
      "Ebbene,  che vi accade?  Mi obbligherete  dunque  a  suonare  una 
      seconda volta per la carrozza?" disse Montecristo col tono con cui 
      Luigi Quattordicesimo pronunciò il suo famoso: "Poco è mancato che 
      io non aspettassi!". 
      Bertuccio  fece  un  balzo  dal piccolo salotto all'anticamera,  e 
      gridò con voce rauca: 
      "I cavalli di Sua Eccellenza." 
      Montecristo  scrisse  due  o  tre  lettere,   e  mentre  sigillava 
      l'ultima, l'intendente ricomparve. 
      "La carrozza di Sua Eccellenza è alla porta" disse. 
      "Ebbene, prendete i vostri guanti ed il cappello." 
      "E' dunque vero che vengo con Vostra Eccellenza" gridò Bertuccio. 
      "Senza dubbio, bisogna bene che diate i vostri ordini mentre conto 
      d'abitare quella casa." 
      Sarebbe  stata senza precedenti una replica a ciò che comandava il 
      conte; per cui l'intendente, senza fare alcuna obiezione, seguì il 
      padrone  che  montò  in  carrozza,   e  gli  fece  segno  di  fare 
      altrettanto. 
      L'intendente si assise rispettosamente sul sedile davanti. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 42. 
                             LA CASA DI AUTEUIL. 
 
 
      Montecristo  aveva  osservato,  nel  discendere la scalinata,  che 
      Bertuccio si era segnato al modo dei corsi,  vale a dire  fendendo 
      l'aria in croce col pollice,  e che prendendo posto nella carrozza 
      aveva mormorata una breve preghiera. 
      Ogni altro uomo avrebbe avuto pietà della ripugnanza che il  degno 
      intendente aveva manifestata per questa passeggiata fuori le mura, 
      ideata dal conte. Ma a ciò che sembrava, questi era troppo curioso 
      per dispensare Bertuccio da quel piccolo viaggio. 
      In venti minuti furono ad Auteuil. 
      L'emozione dell'intendente era sempre crescente. 
      Nell'entrare  nel borgo,  Bertuccio raggruppato in un angolo della 
      carrozza,  cominciò a guardare con un'emozione febbrile  tutte  le 
      case davanti alle quali passavano. 
      "Farete fermare a rue Fontaine, 28" disse il conte, fissando senza 
      pietà lo sguardo sull'intendente al quale dava quest'ordine. 
      Il  sudore  grondò dal viso di Bertuccio,  che tuttavia obbedì,  e 
      sporgendo fuori della carrozza, gridò al cocchiere: 
      "Rue Fontaine, 28." 
      Questo numero 28 era situato all'estremità opposta del sobborgo. 
      Durante il viaggio era sopraggiunta la notte, o piuttosto una nube 
      nera  carica  di  elettricità  dava  a  quelle  tenebre  premature 
      l'apparenza e la solennità di un episodio drammatico.  La carrozza 
      si fermò, lo staffiere si precipitò allo sportello che aprì. 
      "Ebbene" disse il conte,  "non scendete  Bertuccio?  Rimarrete  in 
      carrozza? Ma a che diavolo pensate questa sera?" 
      Bertuccio  si  precipitò  dalla  portiera  e presentò la spalla al 
      conte, che questa volta vi si appoggiò,  e discese ad uno ad uno i 
      tre gradini del montatoio. 
      "Picchiate" disse il conte, "ed annunciatemi." 
      Bertuccio bussò, la porta si aprì e comparve il portinaio. 
      "Chi è?" domandò. 
      "E'  il  nuovo padrone,  brav'uomo" disse lo staffiere e mostrò al 
      portinaio il biglietto di riconoscimento dato dal notaio. 
      "La casa è dunque venduta?" domandò il  portinaio.  "Ed  è  questo 
      signore che viene ad abitarla?" 
      "Sì,  amico  mio" disse il conte,  "farò in modo che non abbiate a 
      rimpiangere l'antico padrone." 
      "Ah,  signore,  non ne ho  nostalgia,  perché  lo  vedevamo  tanto 
      raramente...  Sono più di cinque anni che non è venuto, ed in fede 
      mia,  ha fatto molto bene a vendere una casa che non gli  fruttava 
      niente." 
      "Come si chiamava il vostro antico padrone?" 
      "Il marchese di Saint-Méran. Ah, non ha certamente venduto la casa 
      per quel che gli costava, ne sono ben sicuro." 
      "Il marchese di Saint-Méran!" riprese Montecristo.  "Mi sembra che 
      questo nome non mi sia ignoto." 
      Indi ripeté: "Il marchese di Saint-Méran".  E parve cercare  nella 
      sua memoria. 
      "Un  vecchio  gentiluomo"  continuò  il portinaio,  "era servitore 
      fedele dei Borboni,  aveva una figlia unica che maritò  al  signor 
      Villefort, procuratore del Re a Nimes, e poi a Versailles." 
      Montecristo vibrò uno sguardo su Bertuccio,  che aveva il viso più 
      livido del muro contro il quale si appoggiava per non cadere. 
      "E questa figlia non morì?" domandò  Montecristo.  "Mi  sembra  di 
      averlo sentito dire." 
      "Sì,  signore,  è  già  ventun  anni;  e da allora non abbiamo più 
      veduto che tre volte il povero marchese." 
      "Grazie, grazie" disse Montecristo,  giudicando dalla prostrazione 
      dell'intendente di non potere più lungamente toccare quella corda, 
      senza  correre  rischio  di romperla,  "grazie...  Datemi un lume, 
      brav'uomo." 
      "Vi accompagnerò io, signore." 
      "No, è inutile. Bertuccio mi farà lume." 
      E Montecristo accompagnò queste parole  col  dono  di  due  monete 
      d'oro, che causarono una esplosione di benedizioni e sospiri. 
      "Ah,  signore"  disse il portinaio,  dopo aver cercato inutilmente 
      sulla pietra del caminetto e sui mobili vicini,  "la  disgrazia  è 
      che qui non ho candelieri." 
      "Prendete un fanale della carrozza, Bertuccio, e fatemi vedere gli 
      appartamenti." 
      L'intendente obbedì,  senza osservazioni,  ma era facile scorgere, 
      dal tremito della mano che portava il fanale,  ciò che gli costava 
      obbedire. 
      Fu percorso un piano terreno molto vasto;  un primo piano composto 
      di un salone,  di una stanza da bagno,  e due camere da  letto;  e 
      giunsero ad una scala a chiocciola che metteva in giardino. 
      "Osservate!  Ecco una scala segreta" disse il conte. "Questa ci fa 
      molto comodo.  Fatemi lume,  Bertuccio,  andate avanti,  e vediamo 
      dove ci condurrà." 
      "Signore" disse Bertuccio, "porta al giardino." 
      "E come lo sapete?" 
      "Cioè, volevo dire che deve portarvi..." 
      "Ebbene, assicuriamocene." 
      Bertuccio mandò un sospiro, e andò avanti. 
      La  scala  metteva effettivamente in giardino.  Alla porta esterna 
      l'intendente si fermò. 
      "Andiamo dunque, Bertuccio..." disse il conte. 
      Ma Bertuccio era  assordito,  istupidito,  annientato.  Gli  occhi 
      stravolti  cercavano  intorno  a  lui  le  tracce  di  un  passato 
      terribile,  e colle mani irrigidite cercava di  allontanare  degli 
      spaventosi ricordi. 
      "Ebbene?" insistette il conte. 
      "No,  no..." gridò Bertuccio, deponendo il fanale in un angolo del 
      muro interno, "no, signore, non andrò più avanti, è impossibile!" 
      "Sarebbe a dire?" articolò la voce imperiosa di Montecristo. 
      "Vedete  bene,   signore,   che  questo  non  è  naturale"   gridò 
      l'intendente,  "che  avendo una casa da comprare a Parigi,  voi la 
      compriate precisamente ad Auteuil,  e che comprandola ad  Auteuil, 
      questa  casa  sia  precisamente il numero 28 di rue Fontaine.  Ah, 
      perché mai non vi ho detto tutto laggiù,  signore?  Voi certamente 
      non  mi  avreste ordinato di seguirvi.  Io speravo che la casa del 
      signor conte fosse tutt'altra che questa.  Possibile  non  ci  sia 
      altra casa in Auteuil che quella dell'assassinio!" 
      "Oh, oh!" disse Montecristo fermandosi. "Che orribile parola avete 
      pronunciata?    Diavolo   d'uomo!    Corso   arrabbiato!    Sempre 
      superstizioni?  Vediamo,  prendete questo fanale  e  visitiamo  il 
      giardino; con me, spero che non avrete paura." 
      Bertuccio raccolse il fanale, ed obbedì. 
      La porta aprendosi, lasciò vedere un cielo cupo, nel quale la luna 
      si  sforzava  invano  di  lottare  contro  un  mare di nubi che la 
      coprivano coi loro vapori oscuri; illuminava per un momento,  e in 
      seguito si perdeva più cupa ancora, nel profondo dell'infinito. 
      L'intendente voleva piegare sulla sinistra. 
      "No,  signore...  Perché andate sotto i viali?" disse Montecristo. 
      "Ecco qui un bel praticello, andiamo diritto." 
      Bertuccio si asciugò il sudore che  gli  irrigava  la  fronte,  ma 
      obbedì;   ciò  nonostante  continuava  a  tenere  sulla  sinistra. 
      Montecristo al contrario piegava a dritta; giunto presso un gruppo 
      di alberi si fermò. 
      L'intendente non poté contenersi. 
      "Allontanatevi,   signore,   allontanatevi!"  gridò.   "Voi  siete 
      precisamente sul luogo!" 
      "E quale luogo?" 
      "Sul luogo dove cadde." 
      "Mio caro Bertuccio,  ritornate in voi stesso,  ve ne esorto,  non 
      siamo qui né a Sartena, né a Corte.  Questa non è una macchia,  ma 
      un  giardino  inglese,  mal  custodito,  ne  convengo,  ma che non 
      pertanto bisogna calunniare." 
      "Signore, non rimanete là, ve ne supplico!" 
      "Io credo che  siate  un  po'  matto,  compare  Bertuccio!"  disse 
      freddamente  il  conte.   "Se  è  così,   ditemelo,  che  vi  farò 
      rinchiudere in qualche casa  di  salute,  prima  che  succeda  una 
      disgrazia." 
      "Ahimè,   Eccellenza"  disse  Bertuccio,  scuotendo  la  testa,  e 
      piegando le mani in un'attitudine  che  avrebbe  fatto  ridere  il 
      conte,  se  ben altri pensieri non lo avessero preoccupato in quel 
      momento,  e reso molto attento alle più piccole manifestazioni  di 
      quella coscienza timorosa. "Ahimè, la disgrazia è accaduta!" 
      "Bertuccio"   disse   il  conte,   "devo  dirvi  che  gesticolate, 
      contorcete le braccia e stralunate gli occhi come un ossesso,  dal 
      cui  corpo il diavolo non voglia uscire.  Ora ho sempre notato che 
      il diavolo più ostinato ad  uscire  è  un  qualsiasi  segreto.  Vi 
      sapevo  corso,  vi  stimavo  taciturno,  ruminando  sempre qualche 
      storia di vendetta, e vi perdonavo questo in Italia, sebbene anche 
      in Italia questa specie di cose  non  siano  trascurabili;  ma  in 
      Francia si giudica l'assassinio una pessima cosa; vi sono gendarmi 
      che  se  ne occupano,  giudici che lo condannano,  patiboli che lo 
      vendicano." 
      Bertuccio congiunse le mani, e, siccome non lasciava il fanale, la 
      luce venne a rischiarargli il viso sconvolto. 
      Montecristo per un momento lo esaminò, come a Roma aveva osservato 
      il supplizio di Andrea.  Quindi con  un  tono  di  voce  che  fece 
      scorrere un brivido per il corpo del povero intendente: 
      "L'abate  Busoni mi ha dunque ingannato" disse,  "quando,  dopo il 
      suo viaggio in Francia nel 1829,  v'inviò  a  me,  munito  di  una 
      lettera  di  raccomandazione,  nella  quale  mi  lodava  le vostre 
      preziose qualità. Ebbene, scriverò all'abate, gli chiederò del suo 
      protetto,  ed allora saprò senza dubbio che cosa  è  tutto  questo 
      affare di assassinio.  Vi prevengo soltanto,  Bertuccio che quando 
      io vivo in un paese,  ho l'abitudine d'uniformarmi alle sue leggi, 
      e  che  non ho alcuna volontà d'intrigarmi per voi colla giustizia 
      in Francia." 
      "Non fate questo,  Eccellenza...  Vi ho servito fedelmente,  non è 
      vero?" gridò Bertuccio disperato. "Sono stato un galantuomo, e per 
      quanto ho potuto, ho fatto delle buone azioni." 
      "Non  dico  di no" rispose il conte,  "ma perché diavolo siete ora 
      agitato in tal modo?  Questo è un cattivo segno...  Una  coscienza 
      pura non porta tanto pallore sulle guance, tanta febbre nelle mani 
      di un uomo." 
      "Ma,  signor conte" interruppe Bertuccio,  "non mi avete detto voi 
      stesso che l'abate Busoni,  che fu  quello  che  raccolse  la  mia 
      confessione nelle carceri di Nimes, vi aveva avvertito, inviandomi 
      a voi, che io avevo un rimorso nella coscienza?" 
      "Sì,  ma  siccome vi raccomandava dicendomi che avrei ritrovato in 
      voi un eccellente intendente, credetti che voi aveste rubato, ecco 
      tutto." 
      "Oh, signor conte!" fece Bertuccio con dolore. 
      "Ovvero che,  essendo voi corso,  non avevate potuto resistere  al 
      desiderio  di far la pelle a qualcuno,  come vien detto nel vostro 
      paese..." 
      "Ebbene, sì, mio signore,  sì,  mio buon signore,  è questo" gridò 
      Bertuccio,  gettandosi  alle  ginocchia  del  conte,  "sì,  fu una 
      vendetta, lo giuro, una semplice vendetta!" 
      "Capisco,  ma ciò che non capisco è come questa casa vi ecciti  in 
      tal modo." 
      "Eppure  la cosa è naturale,  poiché fu appunto in questa casa che 
      si compì la vendetta." 
      "Che, in casa mia?" 
      "Oh,  signore,  non era  ancora  vostra..."  obiettò  ingenuamente 
      Bertuccio. 
      "Ma di chi era dunque?" 
      "Del  signor  marchese  di  Saint-Méran,  ci ha detto,  credo,  il 
      portinaio." 
      "Che diavolo dunque avevate da vendicarvi del marchese  di  Saint- 
      Méran?" 
      "Ah, non fu di lui, signore, fu di un altro." 
      "Ecco una strana combinazione" disse Montecristo, sembrando cedere 
      alle sue riflessioni,  "voi vi trovate in tal modo per caso, senza 
      alcun preparativo, in una casa dove è accaduta una scena che vi dà 
      tanti terribili rimorsi." 
      "Signore" disse l'intendente, "pare che sia una specie di fatalità 
      a muovere tutto questo,  ne sono  ben  sicuro...  Per  prima  cosa 
      comprate una casa in Auteuil,  e questa casa è precisamente quella 
      dove ho commesso l'assassinio; poi scendete nel giardino, e giusto 
      per la scala per cui egli discese,  e vi fermate proprio nel luogo 
      ov'egli  ricevette il colpo,  e a due passi da quest'albero era la 
      fossa dove egli aveva seppellito il bambino:  tutto  ciò  non  può 
      essere opera del caso." 
      "Ebbene,  vediamo,  signor  corso,  io  suppongo  sempre  tutto... 
      D'altra parte bisogna saper fare delle  concessioni  agli  spiriti 
      ammalati.  Vediamo:  richiamate il vostro buonsenso e raccontatemi 
      tutto." 
      "Io non l'ho raccontato che una  sola  volta,  signore,  all'abate 
      Busoni.  Simili cose" disse Bertuccio scuotendo la testa,  "non si 
      raccontano che sotto il suggello della confessione." 
      "Allora,  mio caro Bertuccio,  riterrete giusto che vi rimandi  al 
      vostro  confessore;  vi  farete con lui certosino o bernardino,  e 
      ragionerete sui vostri segreti.  Ma  io  ho  paura  di  un  ospite 
      spaventato  da  simili  fantasmi;  non  amo  che  le mie genti non 
      abbiano il coraggio di passare di notte per il giardino. Poi ve lo 
      confesso,  mi piacerebbe poco qualche visita  del  commissario  di 
      polizia; poiché, intendete bene, Bertuccio, si dice che in qualche 
      luogo  la  polizia  venga  pagata perché taccia,  ma in Francia al 
      contrario si  paga  quando  parla.  Perdinci,  vi  credevo  corso, 
      contrabbandiere,  e  bravo  intendente,  ma ora m'avvedo che avete 
      ancora altre corde al vostro arco. Voi perciò non siete più al mio 
      servizio, Bertuccio." 
      "Ah, signore,  signore!" gridò l'intendente colpito dal terrore di 
      questa  minaccia.  "Se non dipende che da questo perché io rimanga 
      al vostro servizio,  parlerò,  dirò tutto;  e se vi  lascio,  sarà 
      soltanto per andare al patibolo!" 
      "Adesso andiamo meglio" disse Montecristo,  "ma se voleste mentire 
      riflettete bene, non parlate affatto." 
      "No,  signore,  ve lo giuro sulla salute dell'anima mia,  vi  dirò 
      tutto...  Lo  stesso  abate Busoni non ha saputo che una parte del 
      segreto.  Ma  prima  ve  ne  supplico,   allontanatevi  da  questo 
      platano...  Osservate, la luna va a rischiarare quella nube, e là, 
      in quella posizione,  avvolto in quel mantello che mi nasconde  la 
      vostra   corporatura,   e   che   somiglia  a  quella  del  signor 
      Villefort..." 
      "Come?" gridò Montecristo. "Fu Villefort...?" 
      "Vostra Eccellenza lo conosce?" 
      "Sì." 
      "Quello che sposò la figlia del marchese di Saint-Méran." 
      "Sì, e che negli uffici godeva la reputazione del più onesto uomo, 
      del più severo e del più rigido magistrato?" 
      "Ebbene signore"  gridò  Bertuccio,  "quest'uomo  d'irreprensibile 
      reputazione..." 
      "Ebbene?" 
      "Era un infame!" 
      "Evvia" disse Montecristo, "è impossibile!" 
      "Eppure è come vi dico." 
      "Veramente?" disse Montecristo. "E ne avete le prove?" 
      "Le avevo, almeno." 
      "E le avete perdute, malaccorto?" 
      "Sì, ma cercando bene si possono ritrovare." 
      "Davvero?" disse il conte. "Raccontatemi ciò, Bertuccio, perché la 
      cosa incomincia ad interessarmi davvero." 
      E  il  conte,  canterellando una piccola aria della Lucia,  andò a 
      sedersi in una panca,  mentre Bertuccio lo seguiva concentrando la 
      sua memoria, restando in piedi davanti a lui. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 43. 
                                 LA VENDETTA. 
 
 
      "Da  dove  desiderate,  signor  conte,  che  cominci il racconto?" 
      domandò Bertuccio. 
      "Da  dove  volete"  disse  Montecristo,   "giacché   non   ne   so 
      assolutamente  niente."  "Credevo che Vostra Eccellenza avesse già 
      saputo che..." 
      "Sì,  qualche particolare senza dubbio;  ma sono passati  sette  o 
      otto anni, e nulla più mi ricordo." 
      "Allora posso, senza tema d'annoiare Vostra Eccellenza..." 
      "Raccontate pure, mi farete le veci di un giornale." 
      "Le cose rimontano al 1815." 
      "Ah, ah" fece Montecristo, "il 1815 non fu ieri." 
      "No,  signore,  tuttavia  i  più piccoli particolari sono presenti 
      come fosse oggi. Io avevo un fratello maggiore che era al servizio 
      dell'Imperatore.  Era sottotenente in un reggimento composto tutto 
      di  corsi.  Era  anche  il  mio  unico amico,  noi eravamo rimasti 
      orfani: egli a diciotto,  io a cinque anni;  e mi  aveva  allevato 
      come fossi stato suo figlio. Si ammogliò nel 1814 sotto i Borboni; 
      ma  quando  l'Imperatore  ritornò dall'isola d'Elba,  mio fratello 
      riprese subito servizio;  poi ferito leggermente  a  Waterloo,  si 
      ritirò coll'esercito dietro la Loira." 
      "Ma questa è la storia dei cento giorni, Bertuccio, ed è già stata 
      fatta, se non sbaglio" 
      "Scusate,  Eccellenza, ma questi primi particolari sono necessari, 
      e voi mi avete promesso d'esser paziente." 
      "Avanti, avanti! Non dirò più una parola." 
      "Un giorno ricevemmo una lettera...  Bisogna dirvi  che  abitavamo 
      nel piccolo villaggio di Rogliano, all'estremità del capo Corso... 
      Era  di  mio  fratello,  il  quale diceva che l'esercito era stato 
      sciolto e lui ritornava  per  la  via  di  Chateauroux,  Clermont- 
      Ferrand,  le Puy e Nimes,  e che se avevo denaro glielo inviassi a 
      Nimes presso un albergatore di nostra conoscenza..." 
      "Contrabbandiere" interruppe il conte. 
      "Eh, mio Dio, bisogna bene che tutti vivano." 
      "Certamente, continuate dunque." 
      "Io amavo teneramente mio fratello, ve l'ho detto,  per cui decisi 
      di  non  inviargli  il  denaro,  ma  di  portarglielo  io  stesso. 
      Possedevo un  migliaio  di  franchi;  ne  lasciai  cinquecento  ad 
      Assunta,  mia  cognata,  presi  gli altri cinquecento e mi misi in 
      viaggio per Nimes...  Era cosa facile,  avevo  la  mia  barca,  un 
      carico da fare per mare: tutto secondava il mio disegno. Ma, fatto 
      il  carico,  il vento divenne contrario,  di modo che stemmo tre o 
      quattro giorni senza potere  entrare  nel  Rodano.  Finalmente  vi 
      riuscimmo:  risaliti fino ad Arles lasciai la barca fra Bellegarde 
      e Beaucaire,  e presi la via di  Nimes;  erano  i  giorni  in  cui 
      accadeva  il  famoso massacro del mezzogiorno.  Due o tre briganti 
      chiamati Trestaillon, Truphemy e Graffan,  scannavano sulle strade 
      tutti  quelli  che credevano bonapartisti.  Senza dubbio il signor 
      conte avrà inteso parlare di questi assassini." 
      "Sì, ma vagamente; allora ero lontano dalla Francia." 
      "Entrando a Nimes  si  camminava,  alla  lettera,  nel  sangue;  a 
      ciascun passo s'incontravano cadaveri: gli assassini,  ordinati in 
      bande, uccidevano, saccheggiavano, bruciavano. Alla vista di tanta 
      carneficina,  mi prese  un  tremito,  non  per  me,  io,  semplice 
      pescatore   corso,   non   avevo   da   temere,   anzi   per   noi 
      contrabbandieri,  quelli erano tempi buoni,  ma per mio  fratello, 
      soldato dell'impero, che ritornava dall'esercito della Loira colla 
      sua  uniforme,  le  spalline,  c'era tutto da temere...  Corsi dal 
      nostro albergatore, i miei presentimenti non mi avevano ingannato: 
      mio fratello giunto il giorno innanzi a Nimes,  alla stessa  porta 
      di  quello cui andava a chiedere ospitalità era stato assassinato. 
      Feci il possibile per riconoscere gli  uccisori,  ma  nessuno  osò 
      dirmi  i  loro  nomi,  tanto  erano  temuti.  Pensai  allora  alla 
      giustizia francese, di cui tanto mi era stato parlato, e che nulla 
      teme, e mi presentai al procuratore del re." 
      "E questo  procuratore  del  re  si  chiamava  Villefort?"  chiese 
      negligentemente Montecristo. 
      "Sì,  Eccellenza, veniva da Marsiglia dove era stato sostituto. Il 
      suo zelo gli aveva procurato  l'avanzamento.  Era  stato  uno  dei 
      primi,  si  diceva,  che  avevano  annunziato al governo lo sbarco 
      dall'isola d'Elba." 
      "Dunque" riprese Montecristo, "vi presentaste a lui?" 
      "Signore" gli dissi,  "mio fratello è stato assassinato ieri nelle 
      strade di Nimes,  non so da chi,  ma è vostro compito saperlo. Voi 
      siete qui  il  capo  della  giustizia,  e  spetta  alla  giustizia 
      vendicare quelli che non ha saputo difendere." 
      "E che cos'era vostro fratello?" domandò il procuratore del re. 
      "Sottotenente nel battaglione corso." 
      "Un soldato dell'imperatore allora..." 
      "Un soldato dell'esercito francese." 
      "Ebbene" replicò, "si è servito della spada, ed è morto di spada." 
      "Voi v'ingannate, signore, egli perì sotto il pugnale." 
      "E che volete che faccia?" risponde il magistrato. 
      "Ve l'ho già detto, voglio che lo vendichiate." 
      "E di chi?" 
      "Dei suoi assassini." 
      "E che, li conosco io?" 
      "Fateli cercare." 
      "Per farne che?  Vostro fratello avrà avuto qualche contesa,  e si 
      sarà battuto in duello.  Tutti questi  vecchi  soldati  cadono  in 
      eccessi,  che riuscivano bene sotto l'impero,  ma che ora riescono 
      male;  adesso le nostre genti  del  mezzogiorno  non  amano  né  i 
      soldati, né gli eccessi." 
      "Siccome  non  è  per  me  che  vi  prego.   Io  piangerei,  o  mi 
      vendicherei,  ecco tutto;  ma il mio  povero  fratello  aveva  una 
      moglie.  Se accadesse anche a me qualche disgrazia,  povera donna, 
      morirebbe di fame, perché il solo lavoro di mio fratello la faceva 
      vivere. Ottenete per lei una piccola pensione del governo." 
      "Ciascuna rivoluzione ha la  sua  catastrofe;  vostro  fratello  è 
      rimasto  vittima di questa,  è una disgrazia;  ma il governo nulla 
      deve per ciò alla vostra famiglia. Se dovessimo giudicare tutte le 
      vendette che i partigiani si sono prese su quelli del  re,  quando 
      avevano il potere, vostro fratello oggi forse sarebbe condannato a 
      morte.   Ciò  che  accade  è  naturale,   perché  è  la  legge  di 
      rappresaglia." 
      "E che signore!" gridai io.  "E' mai possibile che parliate  così, 
      voi magistrato...?!" 
      "Tutti questi corsi sono pazzi" rispose Villefort. "Credono ancora 
      che  il  loro  compatriota  sia  imperatore.  Voi sbagliate epoca, 
      dovevate venirmi a dir questo due mesi fa: oggi  è  troppo  tardi. 
      Andatevene dunque, e se non volete andare, vi farò buttar fuori." 
      Lo guardai un momento per vedere se,  con una nuova preghiera,  vi 
      fosse stata qualche cosa da sperare. Quest'uomo era di pietra.  Mi 
      avvicinai a lui. 
      "Ebbene"  gli  dissi a mezza voce,  "poiché conoscete tanto bene i 
      corsi dovete sapere in qual modo essi mantengono la  loro  parola. 
      Voi trovate che hanno fatto bene ad uccidere mio fratello, che era 
      bonapartista,   perché  voi  siete  regio;   ebbene  io  che  sono 
      ugualmente bonapartista,  vi dichiaro una cosa,  che vi ammazzerò! 
      Da questo momento vi dichiaro vendetta;  per cui cautelatevi bene, 
      e guardatevi come meglio potrete;  poiché la prima  volta  che  ci 
      ritroveremo  faccia  a  faccia,  sarà  segno che è giunta l'ultima 
      vostra ora." 
      Dopo ciò,  prima ancor che si fosse rimesso dalla sorpresa,  aprii 
      la porta e fuggii." 
      "Oh,  oh"  disse Montecristo,  "colla vostra onesta figura fate di 
      queste cose,  Bertuccio,  ed anche ad un procuratore  del  re?  Va 
      bene! Ma sapeva almeno ciò che voleva dire la parola vendetta?" 
      "Lo sapeva tanto bene,  che da quel giorno non uscì più solo, e si 
      chiuse in casa, facendomi cercare dappertutto.  Fortunatamente ero 
      tanto ben nascosto,  che non poté trovarmi.  Allora fu preso dalla 
      paura,  tremò di restare più lungamente  a  Nimes:  sollecitò  una 
      permuta  di  residenza e siccome era realmente persona d'influenza 
      si fece nominare a Versailles.  Ma,  voi lo sapete,  non  vi  sono 
      distanze per un corso che ha giurato di vendicarsi del suo nemico, 
      e  la  sua  carrozza,  per quanto fosse bene condotta,  non ha mai 
      avuto più di una mezza giornata di vantaggio  su  me,  sebbene  lo 
      seguissi a piedi. L'importante non era d'ucciderlo, cento volte ne 
      avrei trovato l'occasione,  ma di ucciderlo senza essere scoperto, 
      e particolarmente  senza  essere  arrestato.  Ormai  non  ero  più 
      indipendente,  avevo  da proteggere e da nutrire mia cognata.  Per 
      tre mesi lo appostai: e  per  tre  mesi  non  fece  un  passo,  un 
      movimento,  una  passeggiata  senza  che  il  mio  sguardo  non lo 
      seguisse   ovunque   andava.   Finalmente   scoprii   che   veniva 
      misteriosamente ad Auteuil: lo seguii, e lo vidi entrare in questa 
      casa  ove siamo;  soltanto,  invece d'entrare,  come tutti,  dalla 
      porta grande della strada, egli veniva o a cavallo, o in carrozza, 
      e lasciando il cavallo o  la  carrozza  all'albergo,  entrava  per 
      quella piccola porta che vedete là." 
      Montecristo  fece  colla  testa  un segno che provava che malgrado 
      l'oscurità, distingueva l'entrata indicata da Bertuccio. 
      "Io non ero più necessario a Versailles, mi stabilii ad Auteuil, e 
      presi le mie misure. Se volevo prenderlo era evidentemente qui che 
      dovevo tendere il laccio.  La casa apparteneva,  come il portinaio 
      ha  detto,  al signor marchese di Saint-Méran,  suocero del signor 
      Villefort.  Il signor di Saint-Méran abitava a  Marsiglia,  e  per 
      conseguenza  questa  casa  gli era inutile,  così si diceva ch'era 
      stata appigionata ad una giovane  vedova,  che  non  si  conosceva 
      sotto altro nome se non con quello di baronessa.  Infatti una sera 
      che guardavo al di sopra del muro,  vidi una donna giovane e bella 
      che  girava  sola  per  questo giardino,  su cui non domina alcuna 
      finestra estranea,  guardava  spesso  dalla  parte  della  piccola 
      porta, e compresi che quella sera aspettava il signor Villefort. 
      Quando  fu  abbastanza vicina a me,  nonostante l'oscurità,  potei 
      distinguerne i lineamenti,  e vidi una bella giovane  di  diciotto 
      diciannove  anni,  alta  e  bionda.  Siccome  era con una semplice 
      giubba,  e niente poteva impedirmi  dal  vederne  la  corporatura, 
      m'accorsi ch'era incinta, e che la gravidanza era molto inoltrata. 
      Pochi momenti dopo fu aperta la piccola porta;  entrò un uomo,  la 
      giovane corse più che poté incontro a lui. Era Villefort. Calcolai 
      che, uscendo, particolarmente di notte,  doveva traversare da solo 
      il giardino in tutta la sua lunghezza." 
      "Avete poi saputo il nome di questa donna?" domandò il conte. 
      "No,  Eccellenza" rispose Bertuccio,  "voi vedrete che non ebbi il 
      tempo d'informarmene." 
      "Continuate." 
      "Forse quella stessa sera avrei potuto uccidere il procuratore del 
      re" riprese Bertuccio,  "ma non  conoscevo  ancora  abbastanza  il 
      giardino in tutti i suoi particolari.  Temevo di non poter fuggire 
      se qualcuno fosse accorso alle grida.  Rinviai l'azione al  futuro 
      convegno;  e perché nulla avesse a sfuggirmi, presi in affitto una 
      piccola camera che guardava il muro del giardino. Tre giorni dopo, 
      alle sette di sera, vidi un domestico uscire dalla casa a cavallo, 
      e prendere al galoppo la strada che porta a  Sèvres:  supposi  che 
      sarebbe  andato  a  Versailles,  e  non m'ingannai.  Tre ore dopo, 
      ritornò l'uomo coperto di polvere. Dieci minuti dopo, un altr'uomo 
      a piedi,  avvolto in un mantello,  apriva  la  piccola  porta  del 
      giardino, e la rinchiudeva dietro a sé. Discesi rapidamente. 
      Quantunque non avessi veduto il viso di Villefort, lo riconobbi al 
      battito   del  mio  cuore:  traversai  la  strada,   raggiunsi  un 
      pilastrino posto all'angolo  del  muro,  su  cui  ero  salito  per 
      guardare  nel  giardino  la prima volta.  Questa volta però non mi 
      contentai di guardare,  cavai di tasca il coltello,  mi  assicurai 
      che la punta fosse ben affilata, e saltai al di sopra del muro. La 
      mia  prima  cura fu di correre alla porta;  egli aveva lasciata la 
      chiave dentro la serratura dalla parte  interna,  avendo  soltanto 
      preso  la  cautela  di darvi un doppio giro.  Niente dunque poteva 
      opporsi alla mia fuga da quel  lato.  Il  giardino  era  di  forma 
      bislunga,  nel  mezzo  la  terra  era coperta da una folta e molle 
      erbetta ad uso dei giardini inglesi;  agli angoli di questo  prato 
      erano  gruppi di alberi,  con folti rami,  allora frammischiati ai 
      fiori d'autunno.  Per andare dalla piccola porta alla casa,  tanto 
      entrando,  quanto  uscendo,  Villefort  era  obbligato  a  passare 
      davanti a questi gruppi d'alberi. 
      Era la fine di settembre: il vento soffiava con  forza;  una  luna 
      pallida   e  languente  velata  a  tratti  da  grosse  nuvole  che 
      scorrevano per il cielo,  rischiarava  la  sabbia  dei  viali  che 
      conducevano alla casa,  ma non poteva fendere l'oscurità di questi 
      alberi fronzuti, fra i quali un uomo poteva tenersi nascosto senza 
      timore di essere scoperto.  Mi nascosi in quello,  presso al quale 
      doveva passare Villefort.  Mi ero appena nascosto,  che,  ai soffi 
      del vento che curvava i rami degli alberi mi parve distinguere dei 
      gemiti.  Ma voi sapete,  o per meglio  dire,  non  sapete,  signor 
      conte,  che  chi  aspetta  il momento di commettere un assassinio, 
      crede sempre di sentire delle strida sorde nell'aria. 
      Trascorsero due ore, nelle quali a più riprese credetti di sentire 
      i medesimi gemiti. Suonò mezzanotte. L'ultimo tocco vibrava ancora 
      cupo e sonoro,  quando  scoprii  una  debole  luce  illuminare  le 
      finestre  della  scala  segreta  per  la  quale  noi poco fa siamo 
      discesi.  La porta  si  aprì,  e  comparve  l'uomo  dal  mantello. 
      Quest'era  il  momento  terribile;   ma  da  molto  tempo  mi  ero 
      preparato: cavai il coltello, lo aprii, e mi tenni pronto.  L'uomo 
      del mantello veniva direttamente verso di me,  e mi pareva tenesse 
      in mano un'arma:  ebbi  timore,  non  di  una  lotta,  ma  di  non 
      riuscire. 
      Quando  fu  a pochi passi da me,  capii che l'arma non era che una 
      vanga.  Non avevo ancora potuto immaginare a quale scopo il signor 
      Villefort  teneva una vanga in mano,  quando egli si fermò accosto 
      al gruppo d'alberi, gettò uno sguardo intorno, e si mise a scavare 
      una fossa nella terra: allora m'accorsi che  teneva  qualche  cosa 
      sotto il mantello,  che depose sull'erba per essere più libero nei 
      suoi movimenti. Un po' di curiosità,  lo confesso,  si frammischiò 
      al  mio  odio,  volli  vedere ciò che era venuto a fare Villefort: 
      rimasi immobile, senza tirare il fiato, ed aspettai. 
      Quindi mi venne  un  terribile  pensiero,  che  vidi  confermarsi, 
      quando  il procuratore del re cavò dal mantello una cassetta lunga 
      sei piedi e larga da sei a otto pollici.  Lasciai che deponesse la 
      cassetta  nella  fossa  che  poi riempì di terra;  su questa terra 
      smossa pestò i piedi per fare scomparire l'opera notturna. 
      Allora mi slanciai su lui,  e gli conficcai il coltello nel petto, 
      dicendogli: 
      "Io sono Giovanni Bertuccio! La tua morte per mio fratello, il tuo 
      tesoro  per  la  sua  vedova:  vedi bene che la mia vendetta è più 
      completa di quel che speravo!" 
      Non so se capì queste parole, ma credo di no.  Cadde senza mandare 
      un  gemito:  sentii  l'onda del suo sangue scorrermi ardente sulle 
      mani e sul viso,  ma io ero ebbro,  in delirio: questo  sangue  mi 
      rinfrescava  invece  di  bruciarmi.  In  un secondo dissotterai la 
      cassetta colla  vanga,  poi,  perché  nessuno  si  accorgesse  che 
      l'avevo portata via,  riempii io pure la fossa, gettai la vanga al 
      di là del muro,  e corsi fuori dalla porta,  che chiusi  a  doppio 
      giro per di fuori, portando con me la chiave." 
      "Bene" disse Montecristo,  "quest'era,  a quanto vedo,  un piccolo 
      assassinio complicato con furto." 
      "No, Eccellenza" rispose Bertuccio, "era una vendetta accompagnata 
      da una restituzione." 
      "E la somma almeno era forte?" 
      "Non era danaro." 
      "Ah,  sì,  ricordo" disse Montecristo: "non avete  parlato  di  un 
      bambino?" 
      "Precisamente,  Eccellenza.  Corsi  fino  al  fiume  sedetti sulla 
      sponda,  e incuriosito  dal  contenuto  della  cassetta,  ne  feci 
      saltare via la serratura col coltello. In un panno di tela batista 
      era  avvolto  un bambino appena nato: il viso era livido,  le mani 
      violette rivelavano  che  era  rimasto  vittima  di  una  asfissia 
      causata  dalla  cordicella  che  aveva  avvolta  intorno al collo. 
      Siccome però non era ancora freddo,  esitai a gettarlo  nell'acqua 
      che  scorreva  ai miei piedi;  infatti dopo un momento mi parve di 
      sentire un leggero battito del cuore.  Gli liberai  il  collo  dal 
      cordone,  e  siccome  ero stato infermiere all'ospedale di Bastia, 
      feci tutto ciò  che  avrebbe  potuto  fare  un  medico  in  simile 
      occasione, gli soffiai coraggiosamente dell'aria nei polmoni. Dopo 
      un quarto d'ora di sforzi inauditi, lo vidi respirare, e intesi un 
      grido sfuggirgli dal petto.  Io pure gettai un grido,  ma un grido 
      di gioia.  "Dio dunque non mi maledice" dissi  a  me  stesso,  "se 
      permette  che ridoni la vita ad una creatura umana in cambio della 
      vita che ho tolto ad un'altra!"" 
      "E che faceste  di  quel  bimbo?"  domandò  Montecristo.  "Era  un 
      bagaglio molto impacciante per uno che doveva fuggire." 
      "Per  questo non ebbi l'idea di tenerlo...  Ma sapevo che a Parigi 
      vi è un ospizio, ove sono accolte queste povere creature. Passando 
      per la barriera,  dichiarai  di  aver  trovato  quel  bimbo  sulla 
      strada,  e  presi le mie informazioni.  La cassetta accreditava la 
      mia versione;  la biancheria di  batista  indicava  che  il  bimbo 
      apparteneva a persone ricche. Non mi venne fatta alcuna obiezione, 
      mi  fu indicato l'ospizio che era situato alla estremità della rue 
      Enfer,  e,  dopo aver presa la cautela di tagliare il pannolino in 
      due  parti,  in  maniera  che  una  delle  lettere  che lo marcava 
      continuasse ad avvolgere il fanciullo, mi riserbai l'altra, deposi 
      il fardello nella ruota, e fuggii a gambe levate. 
      Quindici giorni dopo ero  di  ritorno  a  Rogliano,  e  dicevo  ad 
      Assunta:  Consolati,   sorella  mia,  Israele  è  morto,  ma  l'ho 
      vendicato! 
      Allora mi  chiese  la  spiegazione  di  queste  parole,  e  io  le 
      raccontai tutto l'accaduto. 
      "Giovanni" mi disse Assunta,  "avresti dovuto portarmi quel bimbo; 
      lo avremmo chiamato Benedetto: e per questa buona azione,  Dio  ci 
      avrebbe benedetti effettivamente!" 
      In   risposta  le  consegnai  la  metà  del  pannolino  che  avevo 
      conservata,  per poter reclamare il bimbo il  giorno  che  fossimo 
      divenuti più ricchi." 
      "E  con  quali  lettere  era  segnato  questo  pannolino?" domandò 
      Montecristo. 
      "Con una L ed una N sormontate dalla corona baronale." 
      "Credo,  Dio me lo  perdoni,  che  voi  facciate  uso  di  termini 
      araldici, Bertuccio! E dove avete fatti questi studi?" 
      "Al vostro servizio, signor conte, dove s'impara ogni cosa." 
      "Continuate, sono curioso di sapere altre due cose." 
      "E quali, signore?" 
      "Ciò  che  avvenne  di  questo ragazzo;  non mi diceste che era un 
      maschio?" 
      "No, signore, non ricordo di avervi detto ciò." 
      "Ah, credevo... Mi sarò sbagliato." 
      "No,  non  vi  siete  sbagliato,   perché  effettivamente  era  un 
      maschio... Ma Vostra Eccellenza desiderava sapere due cose, qual è 
      la seconda?" 
      "La seconda è il delitto di cui foste accusato quando chiedeste un 
      confessore, e l'abate Busoni venne a vostra richiesta a ritrovarvi 
      nelle prigioni di Nimes." 
      "Questa storia sarà forse troppo lunga, Eccellenza." 
      "Che  importa?  Sono  appena  le  dieci;  sapete che non dormo,  e 
      suppongo che non avrete gran voglia di dormire." 
      Bertuccio s'inchinò, e riprese la narrazione. 
      "Io,   un  po'  per  scacciare  le  tristi  rimembranze   che   mi 
      assillavano,  parte per provvedere ai bisogni della povera vedova, 
      mi rimisi al mestiere di contrabbandiere,  divenuto più facile per 
      l'affievolimento delle leggi, che succede sempre alle rivoluzioni. 
      Le coste del mezzodì particolarmente erano mal custodite,  a causa 
      delle continue sommosse ora in Avignone, ora a Nimes, ora ad Uzèf. 
      Noi approfittammo  di  questa  specie  di  tregua  che  ci  veniva 
      accordata dal governo per annodare relazioni su tutto il litorale. 
      Dopo l'assassinio di mio fratello nelle strade di Nimes, non avevo 
      voluto  entrare  in  quella  città.  L'albergatore  col  quale noi 
      facevamo affari,  vedendo che non volevamo più andar da  lui,  era 
      venuto  da  noi,  ed  aveva fissata una succursale al suo albergo, 
      sulla strada da Bellegard a Beaucaire,  all'insegna del  Ponte  di 
      Gard. 
      In  tal  modo  avevamo,  sia  dalla  parte  d'Aiguesmortes,  sia a 
      Martigues, sia a Bouc,  una dozzina di luoghi dove depositavamo le 
      nostre  mercanzie,  e  dove  al  bisogno  trovavamo un rifugio per 
      metterci in salvo dai doganieri e dai gendarmi. E' un mestiere che 
      frutta molto quello del contrabbandiere,  quando uno ci si applica 
      con  una  certa  intelligenza  secondata da buona dose di vigoria. 
      Quanto a me,  vivevo nelle montagne,  avendo conservato un  doppio 
      motivo  di  temere  i  gendarmi  e  i doganieri,  poiché qualunque 
      comparsa davanti ad un giudice, poteva produrre un processo,  vale 
      a  dire  una escursione nel passato,  e si poteva scoprire qualche 
      cosa di più importante che non sigari di  contrabbando,  e  barili 
      d'acquavite senza lasciapassare. 
      Così,  preferendo mille volte la morte ad un arresto,  conducevo a 
      buon fine operazioni straordinarie,  e che,  più di una volta,  mi 
      convinsero che la troppa cura che ci prendiamo del nostro corpo, è 
      quasi  sempre il solo ostacolo alla buona riuscita di quei disegni 
      che hanno bisogno di una risoluzione, e di una esecuzione vigorosa 
      e determinata.  Infatti,  una  volta  fatto  il  sacrificio  della 
      propria vita, non si è più simili agli altri uomini, e chiunque ha 
      presa  questa  risoluzione,  ha  sentito centuplicarsi le forze ed 
      allargarsi l'orizzonte." 
      "Anche la filosofia! Bertuccio, voi dunque sapete un poco di tutto 
      nella vostra vita?" 
      "Oh, perdono, Eccellenza!" 
      "No,  no,  è solo perché la filosofia alle dieci e mezzo di sera è 
      ad ora troppo tarda.  Fuori di questa non ho altra osservazione da 
      fare, visto che la trovo esatta,  ciò che non si può dire di tutte 
      le filosofie." 
      "I  miei  viaggi  divennero  dunque  sempre  più estesi sempre più 
      fruttiferi.  Assunta era l'economa;  e la  nostra  fortuna  andava 
      ingigantendosi. Un giorno ch'io partivo per un viaggio: 
      ''Va''' disse lei. "Al tuo ritorno ti preparo una sorpresa." 
      L'interrogai inutilmente; non volle dirmi di più, ed io partii. Il 
      viaggio durò quasi sei settimane: eravamo stati a Lucca a caricare 
      dell'olio,  ed  a  Livorno  a  prendere cotoni inglesi.  Il nostro 
      sbarco si effettuò senza contrattempi,  tirammo i nostri guadagni, 
      e ritornammo allegri e contenti.  Rientrando a casa, la prima cosa 
      che vidi nel luogo più esposto della camera d'Assunta, in una cuna 
      sontuosa,   relativamente  al  resto  dell'appartamento,   fu   un 
      fanciullo  di  sette-otto mesi.  Diedi un grido di gioia.  Il solo 
      momento di tristezza che provai dopo l'uccisione  del  procuratore 
      del  re,  fu  quello  in  cui abbandonai il bambino.  Non ebbi mai 
      rimorsi per l'assassinio in se stesso. 
      La povera Assunta aveva indovinato tutto: approfittando della  mia 
      assenza,  munita  della metà del pannolino ed avendo scritto,  per 
      non dimenticarlo,  il giorno e l'ora precisa in cui il  bimbo  era 
      stato deposto all ospizio,  era andata a Parigi a reclamarlo.  Non 
      le venne fatta alcuna obiezione,  e le fu reso.  Ah,  vi confesso, 
      signor conte,  che vedendo questa creatura dormire nella cuna,  il 
      petto mi si gonfiò, e mi scorsero le lacrime. 
      "In verità, Assunta, sei un'ottima donna" le dissi, "ed il Signore 
      ti benedirà!" 
      "Ciò mostrava che tu avevi fede..." disse Montecristo. 
      "Ahimè! Eccellenza" rispose Bertuccio.  "Iddio però fece strumento 
      della  mia  punizione  questo stesso fanciullo.  Mai si rivelò più 
      prematuramente una natura più perversa!  E non  si  può  dire  che 
      venisse  male  allevato,  poiché  mia  sorella lo trattava come il 
      figlio di un principe.  Era un ragazzo di bellissimo aspetto,  con 
      occhi celesti di quella tinta delle terraglie cinesi tanto bene in 
      armonia  col  bianco  latteo del fondo;  solamente i capelli di un 
      biondo troppo vivo,  davano al suo viso  una  strana  indole,  che 
      raddoppiava la vivacità dello sguardo e la malizia del sorriso. 
      Digraziatamente un proverbio dice che i rossi sono buoni del tutto 
      o  del  tutto  cattivi:  il  proverbio  non  mentiva  sul conto di 
      Benedetto,  che fin dalla prima infanzia si  manifestò  del  tutto 
      cattivo.  E'  vero però che la dolcezza di sua madre radicò le sue 
      prime inclinazioni.  Mia sorella andava continuamente  al  mercato 
      della  città,  a  cinque  leghe di distanza,  per comprare i primi 
      frutti e i dolci più delicati per questo  ragazzo,  che  preferiva 
      agli aranci di Palma ed alle conserve di Genova le castagne rubate 
      al vicino traversando le siepi,  o le mele secche del granaio, pur 
      avendo a sua  disposizione  le  castagne  e  le  mele  del  nostro 
      orticello. 
      Un  giorno  (Benedetto  poteva  avere cinque o sei anni) il vicino 
      Basilio, che, secondo l'uso del nostro paese,  non riponeva mai né 
      la sua borsa, né i suoi gioielli, perché il signor conte sa meglio 
      di  qualunque  altro  che in Corsica non vi sono ladri,  il vicino 
      Basilio si lamentò con noi che gli era sparito un luigi.  Si pensò 
      che  avesse  contato male,  ma egli pretendeva di esser sicuro del 
      fatto suo. 
      In tal giorno Benedetto aveva lasciata la casa di buon mattino,  e 
      quando  lo  vedemmo  tornare  la  sera,  si  trascinava dietro una 
      scimmia,  che diceva di aver trovata colla  catena  legata  ad  un 
      albero; da più di un mese il cattivo ragazzo era voglioso di avere 
      una  scimmia.  Un  saltimbanco ch'era passato per Rogliano,  e che 
      aveva molti di questi animali che lo avevano  divertito  coi  loro 
      esercizi,  gli  aveva,  senza dubbio,  ispirata questa malaugurata 
      fantasia. 
      "Nei  nostri  boschi  non  si  trovano  scimmie,   e  tanto   meno 
      incatenate"  gli  dissi.  "Confessami dunque come ti sei procurata 
      questa." 
      Benedetto  sostenne  la  menzogna,   e   l'accompagnò   con   tali 
      particolari che facevano più onore alla sua immaginazione che alla 
      sua veracità. M'irritai, egli si mise a ridere; lo minacciai, fece 
      due passi indietro. 
      "Tu non puoi battermi" disse.  "Non ne hai il diritto,  perché non 
      sei mio padre. " 
      Noi ignorammo sempre chi gli aveva rivelato questo fatale segreto, 
      che per parte  nostra  era  stato  gelosamente  custodito.  Questa 
      risposta,  per  cui  il  ragazzo  si faceva interamente conoscere, 
      quasi  mi  spaventò,  ed  il  mio  braccio  alzato  ricadde  senza 
      percuotere il colpevole. Il ragazzo trionfò, e questa vittoria gli 
      dette  un'audacia  tale,  che  da  quel  giorno  tutto  il  denaro 
      d'Assunta,  il cui amore sembrava aumentare man  mano  che  se  ne 
      rendeva  meno  degno,  fu  speso  in  capricci  che lei non sapeva 
      combattere,  ed in follie che non aveva  il  coraggio  d'impedire. 
      Quando  io ero a Rogliano,  le cose andavano meno male,  ma quando 
      partivo, Benedetto diventava il capo di casa,  e tutto andava alla 
      peggio. 
      All'età  di dieci o undici anni tutti i suoi compagni erano scelti 
      fra i giovani di diciotto-venti anni e fra i più cattivi  soggetti 
      di Bastia e di Corte,  e già per qualche scappata, che meritava un 
      nome più serio,  la giustizia ci aveva fatti chiamare.  Io ne  fui 
      spaventato:  qualunque  interrogatorio  poteva  avere  conseguenze 
      funeste.  Ero  proprio  allora  obbligato  ad  allontanarmi  dalla 
      Corsica per una spedizione importante.  Vi riflettei lungamente, e 
      col presentimento d'evitare qualche disgrazia,  decisi di condurre 
      con  me  Benedetto.  Speravo  che  la  vita  attiva e faticosa del 
      contrabbandiere,  la disciplina severa di bordo avrebbero corretto 
      questa indole vicina a corrompersi, se già non era spaventosamente 
      corrotta. 
      Presi  dunque  Benedetto  a  parte,  e  gli  feci  la  proposta di 
      seguirmi, con tutte quelle promesse che possono sedurre un giovane 
      di  dodici  anni.  Egli  mi  lasciò  parlare  fino  alla  fine,  e 
      quand'ebbi terminato scoppiò in una risata, dicendo: 
      'Siete  pazzo,  zio mio!" (egli mi chiamava così quand'era di buon 
      umore).  "Io cambiare la mia vita con quella che fate voi?  Il mio 
      ottimo  ed  eccellente  far niente,  colle orribili fatiche che vi 
      siete imposto?  Passare la notte al freddo,  il giorno  al  caldo, 
      nascondersi continuamente,  ricevere schioppettate, e tutto questo 
      per guadagnare un poco di denaro?  Del denaro ne ho quanto voglio, 
      madre  Assunta  me  ne dà quanto ne domando: sarei un imbecille se 
      accettassi la vostra proposta." 
      Io rimasi stupefatto da quell'audacia, e da quel ragionamento. 
      Benedetto ritornò a giocare coi suoi compagni,  e lo vidi  che  mi 
      mostrava ad essi come un idiota." 
      "Grazioso fanciullo!" mormorò Montecristo. 
      "Ah,  se  fosse stato mio" rispose Bertuccio,  "se fosse stato mio 
      figlio,  o  anche  mio  nipote,  lo  avrei  ricondotto  sul  retto 
      sentiero,  perché la coscienza da la forza. Ma l'idea di picchiare 
      un ragazzo,  di cui avevo ucciso il padre,  mi rendeva impossibile 
      ogni  correzione.  Detti  buoni consigli a mia cognata,  che nelle 
      nostre  discussioni  prendeva  sempre  la   difesa   del   piccolo 
      disgraziato;  e,  siccome  mi  confessò  che  varie volte le erano 
      mancate somme considerevoli,  le indicai un luogo dove  nascondere 
      il nostro piccolo tesoro.  In quanto a me,  la mia risoluzione era 
      presa.  Benedetto sapeva perfettamente leggere  e  fare  i  conti, 
      perché quando per caso voleva studiare,  imparava in un giorno ciò 
      che gli altri in una settimana. 
      La mia risoluzione,  dicevo,  era presa: dovevo  ingaggiarlo  come 
      segretario sopra un bastimento a lungo corso,  e, senza avvertirlo 
      di niente,  farlo prendere un bel mattino,  e trasportare a bordo; 
      in questo modo, raccomandandolo al capitano, tutto il suo avvenire 
      dipendeva da lui. Stabilito questo partii per la Francia. Tutte le 
      nostre  operazioni  dovevano  questa  volta eseguirsi nel golfo di 
      Lione,  e si rendevano ogni giorno più difficili,  perché  eravamo 
      nel  1829.  La  tranquillità era perfettamente ristabilita,  e per 
      conseguenza il servizio delle coste più  severo  che  mai.  Questa 
      sorveglianza   era  aumentata  momentaneamente  per  la  fiera  di 
      Beaucaire che allora si apriva.  Gli inizi della spedizione furono 
      eseguiti  senza  impaccio.  Noi  ancorammo la barca,  che aveva un 
      doppio  fondo  nel  quale  nascondevamo  le  nostre  mercanzie  di 
      contrabbando,  in  mezzo  ad  una quantità di battelli che stavano 
      fitti alle due rive del Rodano da Beaucaire fino ad Alès. 
      Giunti là,  cominciammo notte tempo a scaricare le merci proibite, 
      ed  a farle passare in città per mezzo di gente in relazione cogli 
      albergatori nelle case dei quali facevamo i depositi.  Sia che  la 
      buona  riuscita  ci  rendesse  imprudenti,  sia  che fossimo stati 
      traditi,  una sera verso le cinque pomeridiane mentre stavamo  per 
      metterci  a  tavola,  accorse  tutto  affannato  il nostro piccolo 
      mozzo, dicendo che aveva veduto una squadra di doganieri dirigersi 
      dalla nostra  parte.  Non  era  precisamente  la  squadra  che  ci 
      spaventava.  Da un momento all'altro,  e particolarmente allora si 
      vedevano compagnie intere pattugliare e girare  sulle  sponde  del 
      Rodano.  Ma  le  cautele  che,  al dire del mozzo,  questa squadra 
      prendeva per non essere veduta. 
      In un attimo eravamo in piedi;  ma era già troppo tardi: la nostra 
      barca  evidentemente oggetto delle loro ricerche,  era circondata. 
      Fra i doganieri distinsi qualche gendarme;  e tanto sospettoso  di 
      questi,   quanto   indifferente  alla  vista  di  qualunque  altro 
      militare, discesi sotto il ponte, e strisciando da un finestrello, 
      mi lasciai calare nel fiume,  quindi mi misi a nuotare sott'acqua, 
      non  respirando  che  a lunghi intervalli,  tanto bene,  che senza 
      esser veduto raggiunsi un canale nuovo che  poneva  il  Rodano  in 
      comunicazione  col canale da Beaucaire ad Aiguesmortes.  Una volta 
      là ero salvo,  potevo proseguire  senza  essere  visto  in  quella 
      direzione.  Non  era  a  caso,  né  senza premeditazione che avevo 
      seguito questa via;  ho già parlato a  Vostra  Eccellenza,  di  un 
      albergatore di Nimes, che aveva impiantata una piccola osteria fra 
      Bellegarde e Beaucaire." 
      "Sì" disse Montecristo, "me ne ricordo perfettamente, questo degno 
      galantuomo, se non erro, era uno dei vostri associati..." 
      "Precisamente"  rispose  Bertuccio,  "ma  da sette otto anni aveva 
      ceduto il suo albergo ad un sarto di Marsiglia,  che dopo  essersi 
      rovinato con quel mestiere, aveva voluto tentare la sua fortuna in 
      un  altro.  Le  corrispondenze  che avevamo col primo proprietario 
      furono mantenute col  secondo;  dunque  a  quest'uomo  contavo  di 
      chiedere un asilo." 
      "E come si chiamava costui?" domandò il conte di Montecristo,  che 
      sembrava cominciare a prendere qualche interesse  al  racconto  di 
      Bertuccio. 
      "Si  chiamava Gaspare Caderousse,  ed era ammogliato con una donna 
      del villaggio di Carconta,  che non conoscevamo per altro nome che 
      quello  del  suo villaggio;  una povera donna colpita dalle febbri 
      maremmane,  che moriva di  languidezza.  In  quanto  all'uomo  era 
      gagliardo e robusto,  dai quaranta ai cinquanta anni,  e più d'una 
      volta in  difficili  situazioni  aveva  dato  prova  di  prontezza 
      d'animo e di coraggio." 
      "E dicevate" domandò Montecristo,  "che tali cose accadevano verso 
      l'anno?..." 
      "L'anno 1829, signor conte." 
      "In qual mese?" 
      "Nel mese di giugno." 
      "Al principio o alla fine?" 
      "Precisamente la sera del 3." 
      "Ah" fece Montecristo, "il 3 giugno 1829... Va bene, continuate." 
      "Era dunque a Caderousse,  che  contavo  di  domandare  asilo;  ma 
      secondo il solito,  anche nelle occasioni ordinarie, non entravamo 
      da lui per la porta  che  dava  sulla  strada,  e  decisi  di  non 
      derogare alle abitudini: scavalcai la siepe del giardino, camminai 
      carpone fra gli ulivi e i fichi salvatici,  e pervenni, nel dubbio 
      che Caderousse potesse avere qualche viaggiatore nell'albergo,  ad 
      un  soppalco  nel  quale  avevo  più di una volta passata la notte 
      tanto bene quanto nel  miglior  letto.  Questo  soppalco  non  era 
      diviso  dalla  sala  comune del pianterreno dell'albergo che da un 
      tramezzo di assi,  nel quale si erano praticate delle fenditure  a 
      bella posta, perché di là potessimo spiare prima di palesarci. 
      Volevo  capire  se  Caderousse  era solo,  dargli un segno del mio 
      arrivo,  e terminare con lui il pasto interrotto  dall'apparizione 
      dei  doganieri;  indi  profittare  del  temporale  in  arrivo  per 
      raggiungere le rive del Rodano,  rendermi conto  di  ciò  che  era 
      accaduto  alla barca ed a quelli che v'erano dentro.  Calai dunque 
      nel soppalco,  e fu fortuna,  perché quasi  nello  stesso  istante 
      Caderousse entrava in casa con uno sconosciuto. Mi tenni cheto, ed 
      aspettai,    non    coll'intenzione    di   scoprire   i   segreti 
      dell'albergatore, ma perché non potevo fare altrimenti;  e d'altra 
      parte la stessa cosa era già accaduta altre volte. 
      L'uomo che accompagnava Caderousse era evidentemente forestiero al 
      mezzogiorno  della  Francia,  uno  di  quei mercanti che vengono a 
      vendere i loro gioielli alla fiera di Beaucaire,  e che in un mese 
      fanno affari per cinquanta ed anche centomila franchi.  Caderousse 
      entrò vivacemente,  e per il primo;  quindi vedendo la sala vuota, 
      secondo il solito, e soltanto guardata dal cane, chiamò la moglie. 
      "Ehi!  Carconta!"  disse.  "Quel  degno uomo del prete,  non ci ha 
      ingannati, il diamante è buono." 
      Si sentì  un'esclamazione  di  gioia,  e  quasi  subito  la  scala 
      scricchiolò  sotto  un  passo  appesantito dalla debolezza e dalla 
      malattia. 
      "Che dici?" domandò la donna più pallida di un morto. 
      "Dico che il diamante è buono,  ed ecco qui il signore,  che è uno 
      dei  primi  gioiellieri di Parigi,  disposto a darci cinquantamila 
      franchi,  solo che gli proviamo che è veramente nostro.  Vuole che 
      gli  racconti,  come  gli  ho  già  raccontato  io,  in  qual modo 
      miracoloso il diamante è  caduto  nelle  nostre  mani.  Frattanto, 
      signore,  sedetevi,  se  vi piace,  e siccome la stagione è calda, 
      vado a cercare di che rinfrescarvi." 
      Il  gioielliere  esaminò   con   visibile   attenzione   l'interno 
      dell'albergo,  e  la  miseria  manifesta di coloro che stavano per 
      vendergli un diamante che sembrava uscito dallo scrigno di un re. 
      "Raccontate,  signora" diss'egli,  volendo senza dubbio profittare 
      dell'assenza del marito,  perché non vi fosse alcun segno d'intesa 
      di costui,  e controllare se i due racconti  corrispondevano  bene 
      uno coll'altro. 
      "Eh,  mio  Dio" disse la donna con volubilità,  "è una benedizione 
      del cielo che non ci aspettavamo.  Immaginate,  caro signore,  che 
      mio  marito  era in amicizia,  fin dal 1814 1815,  con un marinaio 
      chiamato  Edmondo  Dantès.   Questo  povero  giovane   non   aveva 
      dimenticato Caderousse,  che lo aveva obliato del tutto,  e gli ha 
      lasciato morendo il diamante che avete veduto. " 
      "Ma  in  qual  modo  n'era  divenuto   possessore?"   domandò   il 
      gioielliere. "Lo aveva dunque prima d'entrare in prigione?'' 
      "No, signore, ma in prigione fece conoscenza, a quanto pare, di un 
      inglese ricchissimo;  e quando il suo compagno di cella si ammalò, 
      Dantès lo trattò come un  fratello,  così  l'inglese  uscendo  dal 
      carcere  lasciò  al  povero Dantès,  che meno fortunato di lui era 
      morto in prigione,  questo diamante,  ch'egli a sua  volta  ci  ha 
      lasciato  in  legato  morendo,  e che il degno abate ci ha rimesso 
      questa mattina." 
      "E' lo stesso racconto" mormorò il gioielliere,  "e,  in  fin  dei 
      conti,  la  storia può essere vera,  per quanto paia inverosimile. 
      Non  c'è  dunque  che  il  prezzo  sul  quale  non  siamo   ancora 
      d'accordo." 
      "Come,  non  siamo  d'accordo?"  disse  Caderousse.  "Credevo  che 
      avreste consentito al prezzo richiesto." 
      "Cioè" rispose il gioielliere,  "al prezzo di quarantamila franchi 
      che vi ho offerti." 
      "Quarantamila  franchi!"  gridò  la  Carconta.  "Non  lo venderemo 
      certamente.  L'abate ci ha detto che ne vale cinquantamila,  senza 
      calcolare la legatura. 
      "E   come   si   chiama   quest'abate?"   domandò   l'instancabile 
      interlocutore. 
      "L'abate Busoni" rispose la donna. 
      "E' dunque uno straniero?" 
      "Credo sia un italiano delle vicinanze di Mantova." 
      "Mostratemi questo  diamante"  riprese  il  gioielliere,  "che  lo 
      riveda  una  seconda  volta;  spesso si giudicano male le pietre a 
      prima vista." 
      Caderousse cavò di tasca un piccolo astuccio di  marocchino  nero, 
      l'aprì e lo passò al gioielliere. 
      Alla  vista di questo diamante grosso quanto una piccola nocciola, 
      me lo ricordo come lo vedessi ancora,  gli  occhi  della  Carconta 
      sfavillarono di cupidigia." 
      "E  che  pensavate  di tutto ciò,  signor ascoltatore alle porte?" 
      domandò Montecristo. "Prestavate fede a quella favola?" 
      "Sì,  Eccellenza;  non ritenevo Caderousse un uomo cattivo,  e  lo 
      credevo incapace di aver commesso un delitto, od anche un furto." 
      "Questo  fa  più onore al vostro cuore che alla vostra esperienza, 
      Bertuccio.  Avevate conosciuto questo Edmondo  Dantès  di  cui  si 
      parlava?" 
      "No,  Eccellenza,  fino allora non ne avevo mai sentito parlare, e 
      dopo nemmeno,  tranne una sola volta dallo  stesso  abate  Busoni, 
      quando lo vidi nelle prigioni di Nimes." 
      "Bene, continuate." 
      "Il  gioielliere prese l'anello dalle mani di Caderousse,  cavò di 
      tasca un paio di piccole pinzette d'acciaio,  e  un  bilancino  di 
      rame;  poi  allontanando  le  punte d'oro che ritenevano la pietra 
      nell'anello fece uscire il diamante dal suo  alveolo,  e  lo  pesò 
      scrupolosamente sul bilancino. 
      "Giungerò  fino a quarantacinquemila franchi" disse,  "ma non darò 
      un soldo di più. Siccome questo è il vero prezzo dell'anello,  non 
      ho preso con me che questa somma. 
      "Oh,  per  questo,  tornerò  con  voi a Beaucaire per prendere gli 
      altri cinquemila franchi." 
      "No" disse il gioielliere restituendo a Caderousse l'anello  e  il 
      diamante,  "questo non vale di più;  e sono anzi dolente di avervi 
      offerta questa somma,  dato che la pietra ha un  difetto  che  non 
      avevo  visto prima;  ma non importa: io non ho che una parola,  ho 
      detto quarantacinquemila franchi e non mi ritiro." 
      "Almeno rimettete il diamante nell'anello" disse con  asprezza  la 
      Carconta. 
      Egli ritornò ad incassare la pietra. 
      "Bene  bene,   bene"  disse  Caderousse,   rimettendosi  in  tasca 
      l'astuccio. "Si venderà ad un altro." 
      ''Sì"  rispose  il  gioielliere,   "ma  un  altro  non  sarà  così 
      compiacente come me; un altro non si contenterà delle informazioni 
      che  mi  avete  date.  Non  è  cosa  naturale che un uomo come voi 
      possegga  un  anello  di  cinquantamila   franchi,   informerò   i 
      magistrati,  e bisognerà ritrovare l'abate Busoni; e gli abati che 
      regalano diamanti  da  duemila  luigi,  sono  rari.  La  giustizia 
      comincerà col mettervi le mani addosso,  sarete messo in prigione, 
      e se riconosciuto innocente verrete messo in libertà  dopo  tre  o 
      quattro mesi di prigionia;  l'anello o si sarà perduto in spese di 
      giudizio,  o vi sarà restituito con una pietra falsa  che  costerà 
      tre  franchi  invece  di  cinquantamila,  e voglio anche ammettere 
      cinquantacinquemila... Ma voi converrete con me, mio brav'uomo, si 
      corrono sempre certi rischi a comprare." 
      Caderousse e sua moglie s'interrogarono con uno sguardo. 
      "No" disse Caderousse,  "non siamo abbastanza ricchi  per  perdere 
      cinquemila franchi." 
      "Come  volete,  mio  caro  amico...  Io  però avevo portato,  come 
      vedete, bella moneta." 
      E con una mano cavò di tasca un pugno d'oro che  fece  risplendere 
      davanti agli occhi abbagliati degli albergatori,  e con l'altra un 
      pacchetto di biglietti di banca. 
      L'animo di Caderousse era  agitato  visibilmente  da  una  interna 
      lotta  era  evidente che quel piccolo astuccio di marocchino,  che 
      girava e rigirava nelle sue mani,  non gli sembrava corrispondere, 
      come valore alla somma enorme che gli affascinava gli occhi. 
      Egli si volse a sua moglie. 
      "Che dici tu?" le domandò a bassa voce. 
      "Daglielo,  daglielo"  disse.  "Se  ritorna  a  Beaucaire senza il 
      diamante,  ci denunzierà,  e come ha detto,  chi sa se potremo più 
      ritrovare l'abate Busoni!" 
      "Ebbene,  sia  così"  disse  Caderousse: "prendete il diamante per 
      quarantacinquemila franchi,  ma mia moglie vuole una catena d'oro, 
      ed un paio di orecchini d'argento." 
      Il  gioielliere  cavò  di  tasca  una  scatola  lunga e piatta che 
      conteneva molti campioni degli oggetti domandati: 
      "Prendete" disse. "Io sono generoso negli affari. Scegliete..." 
      La donna scelse una collana d'oro che poteva costare cinque luigi, 
      ed il marito un paio di orecchini del valore di quindici franchi. 
      "Spero che non vi lamenterete?" disse il gioielliere. 
      "L'abate aveva detto che costava  cinquantamila  franchi"  mormorò 
      Caderousse. 
      "Andiamo,  andiamo,  date  qua...  Che  uomo  terribile!" disse il 
      gioielliere togliendogli  di  mano  il  diamante.  "Io  vi  sborso 
      quarantacinquemila franchi: duemilacinquecento franchi di rendita, 
      vale  a  dire  una  fortuna  come  vorrei  averla io,  e non siete 
      contento." 
      "Ed i quarantacinquemila  franchi"  domandò  Caderousse  con  voce 
      rauca, "vediamo, dove sono?" 
      "Eccoli"  disse il gioielliere.  E contò sulla tavola quindicimila 
      franchi in oro, e trentamila in biglietti di banca. 
      "Aspettate che accenda una lucerna" disse  Carconta.  "Non  ci  si 
      vede più, e si potrebbe sbagliare." 
      Infatti  durante  questa discussione era sopraggiunta la notte,  e 
      colla notte l'uragano che minacciava da più di  una  mezz'ora.  Si 
      sentiva  di  lontano  rumoreggiare  sordamente il tuono;  ma né il 
      gioielliere,  né Carconta,  né Caderousse sembravano  occuparsene, 
      tanto tutti e tre erano presi dal demonio del guadagno. 
      Io   stesso   provai  una  strana  affascinazione  alla  vista  di 
      quell'oro,  e di quel biglietti.  Mi sembrava di fare un sogno,  e 
      come  succede  nei  sogni,  mi  sentivo  inchiodato  al mio posto. 
      Caderousse contò e ricontò l'oro e i biglietti;  quindi  li  passò 
      alla  moglie,  che  li  contò  e  ricontò  anche  lei.  Intanto il 
      gioielliere faceva specchiare il lume  sul  diamante,  che  faceva 
      luccicare  lampi  da  far  dimenticare  quelli ch'erano precursori 
      dell'uragano, e che già cominciavano ad infiammare le finestre. 
      "Ebbene siete soddisfatti?" domandò il gioielliere. 
      "Sì"  disse  Caderousse.  "Dammi  il  portafogli,   e  trovami  un 
      sacchetto, Carconta." 
      Carconta aprì un armadio, e ritornò portando un vecchio portafogli 
      di  cuoio,  dal  quale  furono  tolte alcune lettere sudice,  e vi 
      furono  messi  i  biglietti,  ed  un  sacchetto  nel  quale  erano 
      racchiusi due o tre scudi da sei lire, che probabilmente formavano 
      tutta la fortuna della miserabile famiglia. 
      "Eh" disse Caderousse, "quantunque mi abbiate alleggerito forse di 
      un  diecimila  franchi  volete cenare con noi?  Ve l'offro di buon 
      cuore." 
      "Grazie" disse  il  gioielliere,  "deve  essersi  fatto  tardi,  e 
      bisogna  che  ritorni  a  Beaucaire,  perché mia moglie sarebbe in 
      pena." E cavò l'orologio. "Per Bacco!" gridò. "Sono quasi le nove. 
      Non sarò a Beaucaire prima della mezzanotte.  Addio amici  miei... 
      Se per caso ritornassero degli abati Busoni, pensate a me." 
      "Fra  dieci  giorni  non sarete più a Beaucaire" disse Caderousse, 
      "poiché la fiera finisce la settimana ventura." 
      "Questo non importa; scrivetemi a Parigi, signor Giovanni, Palazzo 
      Reale,  Galleria  delle  Pietre,   numero  45.   Farò  il  viaggio 
      espressamente, se ne vale la pena." 
      Uno  scroscio  di fulmine rintronò,  accompagnato da un lampo così 
      vivo, che tolse quasi il chiarore della lucerna. 
      "Oh, oh" disse Caderousse, "e volete partire con questo tempo?" 
      "Oh, non ho paura del tuono" disse il gioielliere. 
      "E dei ladri?" domandò Carconta. "La strada non è mai molto sicura 
      in tempo di fiera." 
      "Oh, quanto ai ladri, ecco ciò che tengo per loro..." 
      E cavò di tasca un paio  di  piccole  pistole  cariche  fino  alla 
      bocca. 
      "Ecco" disse, "dei cani che abbaiano e mordono nello stesso tempo: 
      queste  sono  per  i  primi  due  che  avessero  brama  del vostro 
      diamante, compare Caderousse." 
      Caderousse e sua moglie si scambiarono una cupa occhiata: sembrava 
      che entrambi avessero avuto contemporaneamente  qualche  terribile 
      pensiero. 
      "Allora, buon viaggio" disse Caderousse. 
      "Grazie" rispose il gioielliere. 
      E preso il bastone che aveva posato contro un vecchio baule, uscì. 
      Nell'atto che aprì lo porta entrò un colpo di vento,  che per poco 
      non spense la lucerna. 
      "Oh" disse,  "va a farsi un bel tempo...  Ed io ho  due  leghe  da 
      camminare con questo tempo!" 
      Restate disse Caderousse. "Dormirete qui. 
      "Sì,  restate  disse Carconta con voce mal ferma.  "Avremo per voi 
      tutte le cure." 
      "No, bisogna ch'io vada a dormire a Beaucaire. Addio." 
      Caderousse andò lentamente fino al limitare della porta. 
      "Non si distingue né cielo né  terra"  disse  il  gioielliere  già 
      fuori di casa. "Debbo prendere a destra o a sinistra?" 
      "A  destra" disse Caderousse.  "Non v'è da sbagliare,  la strada è 
      fiancheggiata d'alberi da ambe le parti." 
      "Va bene, ci sono" disse la voce, quasi estinta, da lontano. 
      "Chiudi dunque la porta" disse  Carconta.  "Non  mi  piacciono  le 
      porte aperte quando tuona. 
      "E  quando  c'è del danaro in casa,  non è vero?" disse Caderousse 
      dando un doppio giro alla serratura. 
      Egli rientrò,  andò  all'armadio,  ne  cavò  il  sacchetto  ed  il 
      portafogli,  ed  entrambi  si  misero a contare per la terza volta 
      l'oro ed i biglietti.  Io non ho mai veduto una espressione simile 
      a  quella di quei due visi,  di cui una debole lampada rischiarava 
      la cupidigia.  La donna particolarmente era schifosa:  il  tremito 
      febbrile  che  abitualmente l'animava,  s'era raddoppiato.  Il suo 
      viso  da  pallido  era  divenuto  livido;   gli   occhi   incavati 
      fiammeggiavano. 
      "Perché dunque" domandò, "gli hai offerto di dormire qui?" 
      "Ma"  rispose  Caderousse  con un tremito,  "perché...  perché non 
      avesse la pena di ritornare a Beaucaire.' 
      "Ah" disse  la  donna  con  un'espressione  impossibile  a  dirsi. 
      "Credevo fosse per un altro fine." 
      "Donna,  donna!"  gridò  Caderousse.  "Perché  hai simili idee?  e 
      perché, avendole, non le serbi tutte per te?" 
      "E' lo stesso" disse Carconta dopo un momento di silenzio. "Tu non 
      sei un uomo." 
      "Come sarebbe a dire?" disse Caderousse. 
      "Se tu fossi stato un uomo, non sarebbe uscito di qui. 
      "Donna!" 
      "Oppure non arriverebbe a Beaucaire." 
      "Donna!" 
      "La strada fa un gomito,  è obbligato a seguire la strada,  mentre 
      lungo il canale s'accorcia." 
      "Donna! tu offendi il buon Dio... Tieni, ascolta..." 
      Infatti s'intese uno spaventoso tuono, nello stesso tempo un lampo 
      rossastro infiammò tutta la scala,  mentre il fulmine, decrescendo 
      lentamente,  sembrava  allontanarsi  di  mala  voglia  dalla  casa 
      maledetta. 
      "Gesù!" disse Carconta segnandosi. 
      Nello  stesso  tempo,  ed  in mezzo a quel silenzio di terrore che 
      ordinariamente succede  allo  scroscio  di  un  fulmine,  s'intese 
      battere alla porta. 
      Caderousse e sua moglie fremettero, e si guardarono spaventati. 
      "Chi  va  là?"  gridò  Caderousse alzandosi,  e riunendo in un sol 
      monte l'oro e i biglietti ch'erano sparsi per  la  tavola,  e  che 
      coprì con le mani. 
      "Sono io" disse una voce. 
      "E chi siete?" 
      "Eh, per Bacco! Giovanni il gioielliere!" 
      "Ebbene, che dici ora?" riprese Carconta con un terribile sorriso. 
      "Offendevo il cielo? Ecco che il cielo pietoso ce lo rimanda!" 
      Caderousse ricadde pallido ed anelante sulla sedia.  Carconta,  al 
      contrario si alzò, e andò con passo fermo ad aprire la porta. 
      "Entrate dunque, caro signor Giovanni." 
      "In fede mia" disse il gioielliere bagnato  dalla  pioggia,  "pare 
      che  il diavolo non voglia che io ritorni a Beaucaire questa sera. 
      Le più corte pazzie sono le  migliori,  mio  caro  Caderousse:  mi 
      avete offerto ospitalità, l'accetto, e vengo a dormire da voi." 
      Caderousse balbettò qualche parola, asciugandosi il sudore che gli 
      grondava  dalla fronte.  Carconta rinchiuse la porta a doppio giro 
      di chiave, appena fu entrato il gioielliere." 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 44. 
                              PIOGGIA DI SANGUE. 
 
 
      "Il gioielliere entrando girò uno sguardo investigatore intorno  a 
      sé;  ma nulla poteva fargli nascere sospetti,  se non ne aveva,  e 
      nulla confermarglieli quando ne avesse avuti.  Caderousse  copriva 
      sempre con ambe le mani i biglietti e l'oro. 
      Carconta sorrideva al suo ospite più graziosamente che poteva. 
      "Ah,  ah"  disse il gioielliere,  "sembra che abbiate paura di non 
      aver ricevuto il conto vostro,  che tornavate a contare il  tesoro 
      dopo la mia partenza?" 
      "No"  disse  Caderousse,  "ma  l'avvenimento  che  ce  ne mette in 
      possesso è così inatteso,  che non vi possiamo ancora  credere,  e 
      quando  non  abbiamo  la prova materiale sotto gli occhi,  ci pare 
      sempre di sognare." 
      Il gioielliere sorrise. 
      "Avete viaggiatori nel vostro albergo?" domandò. 
      "No" rispose Caderousse,  "non  diamo  da  dormire;  siamo  troppo 
      vicini alla città, e nessuno si ferma." 
      "Allora vi procuro un grandissimo incomodo?" 
      "Incomodarci  voi!  Mio  caro  signore" disse con grazia Carconta, 
      "niente affatto; ve lo giuro." 
      "Vediamo, dove mi metterete?" 
      "Nella camera in alto. 
      "Ma non è la vostra camera?" 
      "Oh,  non importa: abbiamo un secondo letto nella camera di fianco 
      a questa. 
      Caderousse  guardò  con  meraviglia  la  moglie.   Il  gioielliere 
      cantarellò una canzonetta mentre si riscaldava  il  dorso  ad  una 
      fascina che Carconta aveva accesa nel caminetto per il suo ospite, 
      intanto  apparecchiava  ad  un  angolo della tavola,  su cui aveva 
      messa una salvietta,  i magri avanzi di un pranzo a cui unì due  o 
      tre uova fresche. 
      Caderousse  aveva  nuovamente  chiusi  i biglietti nel portafogli, 
      l'oro nel sacchetto, ed il tutto nell'armadio. Egli passeggiava in 
      lungo ed in largo,  cupo  e  meditabondo,  alzando  la  testa  sul 
      gioielliere,  che  stava  fumando  davanti al caminetto,  e che si 
      asciugava da un lato, e poi dall'altro. 
      ''Ecco qua" disse Carconta mettendo una  bottiglia  sulla  tavola. 
      "Quando vorrete cenare, tutto è pronto." E voi? domandò Giovanni. 
      "Io non cenerò" rispose Caderousse. 
      "Abbiamo pranzato tardissimo" si affrettò a dire Carconta. 
      "Cenerò dunque solo?" disse il gioielliere. 
      "Vi  serviremo"  disse  Carconta,  con  una premura che non le era 
      naturale, neppure cogli ospiti del suo paese. 
      Ogni tanto Caderousse le lanciava degli  sguardi  rapidi  come  il 
      baleno. 
      L'uragano continuava. 
      "Sentite?  sentite?" diceva Carconta.  "Avete fatto molto bene, in 
      fede mia, a ritornare." 
      "Ciò non impedisce che se il temporale diminuisce durante  la  mia 
      cena io ritorni a mettermi in viaggio." 
      "Spira  maestrale"  disse  Caderousse scuotendo la testa.  "Avremo 
      questo tempo fino a domani." 
      E dicendo ciò, mandò un sospiro. 
      "Accidenti" disse  il  gioielliere  mettendosi  a  tavola.  "Tanto 
      peggio per quelli che sono fuori." 
      "Sì" soggiunse Carconta, "passeranno una cattiva notte." 
      Il  gioielliere cominciò la cena,  e la Carconta continuò ad avere 
      per lui tutte le piccole premure di un'attività albergatrice, essa 
      d'ordinario così dispettosa e strana era divenuta il modello della 
      pulizia e delle premure.  Se il  gioielliere  l'avesse  conosciuta 
      prima,  si  sarebbe  certamente  meravigliato  di  un  così grande 
      mutamento,  e  ciò  non  avrebbe  mancato  di  ispirargli  qualche 
      sospetto.   In  quanto  a  Caderousse,   non  diceva  una  parola, 
      continuava ad andare su e giù per la stanza,  e  sembrava  perfino 
      non osasse guardare il suo ospite. 
      Quando la cena fu terminata, Caderousse andò egli stesso ad aprire 
      la porta. 
      "Credo che l'uragano si calmi..." disse. 
      Ma  nello  stesso  momento,  come  per  dargli  una  smentita,  un 
      terribile scroscio di tuono fece tremare la casa,  e l'impeto  del 
      vento pervenne a spegnere la lucerna. 
      Caderousse rinchiuse la porta;  e sua moglie accese una candela al 
      fuoco che stava estinguendosi. 
      "Prendete" disse lei al gioielliere.  "Dovete essere stanco...  Ho 
      messo lenzuola di bucato al letto, salite per riposarvi, e dormite 
      bene." 
      Giovanni  si  fermò  ancora  un  momento  per  assicurarsi  se  il 
      temporale non si calmasse,  e quando fu certo che il  tuono  e  la 
      pioggia non facevano che aumentare,  augurò la buona notte ai suoi 
      albergatori e salì la scala. 
      Egli passava sopra  la  mia  testa,  e  sentivo  ciascuno  scalino 
      scricchiolare sotto i suoi passi. 
      Carconta lo seguì con occhio avido, mentre Caderousse gli voltò le 
      spalle, e non guardò neppure da quella parte. 
      Tutti  questi  particolari,  che mi sono poi ritornati in memoria, 
      non mi fecero allora alcuna impressione mentre avvenivano sotto  i 
      miei  occhi,  e  non  c'era  nulla  di  straordinario  in  ciò che 
      accadeva,  eccettuata la storia del diamante che  mi  sembrava  un 
      poco inverosimile. 
      Così,  essendo  spossato dalla fatica,  e contando di approfittare 
      della prima pausa della tempesta, decisi di dormire lì alcune ore, 
      e di allontanarmi nel mezzo della notte. 
      Sentivo nella camera superiore che  anche  il  gioielliere  faceva 
      tutti  i  preparativi  per passare la notte il meglio che potesse. 
      Ben presto il letto scricchiolò sotto il suo peso;  era  andato  a 
      riposare.  Sentivo i miei occhi chiudersi mio malgrado,  e siccome 
      non avevo alcun  sospetto,  così  mi  abbandonai  al  sonno,  però 
      lanciando un ultimo sguardo nell'interno della cucina. 
      Caderousse  era  seduto  di fianco ad una lunga tavola,  su una di 
      quelle panche di legno in uso  negli  alberghi  dei  villaggi.  Mi 
      voltava  le spalle,  e non potevo vederne i lineamenti,  teneva il 
      viso sepolto nelle mani. 
      La Carconta lo guardò per qualche  tempo,  poi  si  strinse  nelle 
      spalle e andò a sedersi vicino a lui. La fiamma morente si appiccò 
      ad  un  avanzo  di  legno dimenticato,  una luce un po' più vivace 
      illuminò l'interno. 
      Carconta teneva gli occhi  fissi  sul  marito,  e  siccome  questi 
      rimaneva sempre nella stessa posizione,  la vidi stendere verso di 
      lui la scarna mano, e toccarlo in fronte... 
      Caderousse fremette. 
      Mi sembrò che la donna movesse le  labbra,  ma  sia  che  parlasse 
      troppo piano, sia che i miei sensi fossero già presi dal sonno, il 
      suono della sua voce non giunse fino a me. 
      Non ci vedevo che attraverso una nebbia; era quella incertezza del 
      sonno,  nella quale si crede di cominciare a sognare. Finalmente i 
      miei occhi si chiusero, e persi conoscenza. 
      Ero nel più profondo del sonno,  quando fui svegliato da un  colpo 
      di pistola seguito da un grido terribile. 
      Udii alcuni passi barcollanti nella stanza di sopra, poi una massa 
      inerte cadde dalle scale. 
      Non  ero  ancora ben padrone di me.  Intesi dei gemiti,  poi delle 
      grida soffocate come per una lotta. 
      Un ultimo grido,  che terminò in un  gemito  prolungato,  venne  a 
      togliermi del tutto dal mio letargo. 
      Mi  sollevai  sopra  un braccio,  aprii gli occhi,  che non videro 
      niente nelle tenebre, e portai la mano alla fronte, sulla quale mi 
      pareva che cadesse dalle fenditure della scala una pioggia tiepida 
      ed abbondante. 
      Il più profondo silenzio era succeduto a questo spaventoso rumore. 
      Intesi il passo di un uomo che camminava di  sopra;  questi  passi 
      fecero scricchiolare la scala. Poi l'uomo discese nella stanza, si 
      avvicinò al caminetto, ed accese una candela. 
      Era Caderousse;  aveva il viso pallido, e la camicia insanguinata. 
      Accesa la candela risalì rapidamente la scala, e intesi di nuovo i 
      suoi passi rapidi e tremolanti. 
      Un momento dopo tornò a scendere; teneva in una mano l'astuccio, e 
      si assicurò che vi fosse ancora il diamante.  Cercò un momento  in 
      quale delle sue tasche doveva metterlo;  quindi senza dubbio,  non 
      ritenendo la tasca un nascondiglio abbastanza sicuro,  lo  avvolse 
      nel fazzoletto rosso, che si legò al collo. Poi corse all'armadio, 
      ne  cavò  i biglietti e l'oro e mise gli uni nelle tasche dei suoi 
      calzoni,  l'altro nella tasca del  suo  abito,  prese  due  o  tre 
      camicie, si lanciò verso la porta, e sparì nell'oscurità. 
      Allora  tutto fu chiaro e manifesto;  mi figurai l'accaduto,  come 
      fossi stato il colpevole. 
      Mi sembrò sentire dei gemiti: il  gioielliere  poteva  non  essere 
      ancora morto;  forse potevo riparare,  apportandogli soccorso, una 
      parte di quel male che non avevo  fatto,  ma  che  avevo  lasciato 
      fare. 
      Appoggiai  le  spalle  contro l'assito di quella specie di tamburo 
      che mi separava dalla sala inferiore,  l'assito cedette ed  io  mi 
      ritrovai in casa. 
      Corsi a prendere la candela,  e mi lanciai verso la scala un corpo 
      la sbarrava di traverso...  era il  cadavere  della  Carconta.  Il 
      colpo di pistola che avevo udito era stato scaricato su lei: aveva 
      la  gola  trapassata  da  parte  a parte,  e vomitava sangue dalla 
      bocca. 
      Scavalcai il suo corpo e passai.  La camera offriva l'aspetto  del 
      più spaventoso disordine. Due o tre mobili erano stati rovesciati; 
      il   lenzuolo,   al   quale   si  era  aggrappato  il  disgraziato 
      gioielliere, era steso sul pavimento; egli stesso giaceva a terra, 
      colla testa appoggiata contro il muro in un mare  di  sangue,  che 
      scaturiva da tre larghe ferite al petto.  Nella quarta era rimasto 
      un lungo coltello da cucina di cui non si vedeva  che  il  manico. 
      Inciampai  nella  seconda  pistola,  che  non aveva sparato perché 
      forse la polvere era bagnata. 
      Mi avvicinai al gioielliere,  effettivamente non era  morto:  aprì 
      gli occhi stravolti,  giunse a fissarli un momento su me, agitò le 
      labbra come se avesse voluto parlare, e spirò. 
      Questo truce spettacolo mi aveva reso quasi insensato. Dal momento 
      che non potevo più arrecare soccorso ad alcuno,  non provai che un 
      solo  bisogno,   cioè  di  fuggire.  Mi  precipitai  dalla  scala, 
      cacciandomi le mani nei capelli, e mandando un grido di terrore. 
      Nella sala terrena c'erano cinque o sei  doganieri  e  due  o  tre 
      gendarmi.  Un  intero picchetto d'armati.  S'impadronirono di me e 
      non tentai nemmeno di fare resistenza,  non ero  più  padrone  dei 
      miei  nervi.  Tentai  di  parlare  e  non  emisi che qualche grido 
      inarticolato;  vidi che i doganieri ed i gendarmi mi mostravano  a 
      dito,  volsi  gli  occhi su me stesso,  e m'accorsi allora che ero 
      tutto pieno di sangue. 
      Quella pioggia tiepida  che  avevo  sentito  cadermi  sopra  dalle 
      fenditure dei gradini della scala, era il sangue di Carconta. 
      Mostrai col dito il luogo dov'ero nascosto. 
      "Che vuoi dire?" domandò un gendarme. 
      Un doganiere andò a vedere. 
      "Vuol dire ch'è passato di là" rispose. 
      E mostrò l'apertura per la quale effettivamente ero passato. 
      Allora capii che venivo preso per l'assassino.  Ricuperai la voce, 
      e ritrovai la forza;  mi sciolsi dalle mani dei due uomini che  mi 
      tenevano gridando: 
      "Non sono stato io! non sono stato io!" 
      Due gendarmi mi presero di mira colle carabine. 
      "Se fai un movimento" mi dissero, "sei morto!" 
      "Ma" gridai, "vi ripeto che non sono stato io." 
      "Racconterai  la  tua  storiella  ai  giudici  di  Nimes" dissero. 
      ''Intanto vieni con noi; e se vuoi un buon consiglio è di non fare 
      resistenza." 
      Questa non era la mia intenzione: ero spossato  dalla  sorpresa  e 
      dal terrore.  Mi furono messe le manette,  fui attaccato alla coda 
      di un cavallo e fui condotto a Nimes. 
      Ero stato seguito da un doganiere che mi aveva  perduto  di  vista 
      nelle vicinanze della casa,  e pensando che vi avrei passata tutta 
      la notte,  andò ad avvisare i compagni,  che giunsero in tempo per 
      sentire di lontano il colpo di pistola, e per cogliere me in mezzo 
      a tante prove di colpevolezza. 
      Capii  quanto  mi  sarebbe costato far conoscere la mia innocenza. 
      Non avevo che un sol punto di appoggio;  e la  prima  domanda  che 
      feci  al  giudice istruttore fu una preghiera: che fosse ricercato 
      un certo abate Busoni,  in quel giorno fermatosi  all'albergo  del 
      Ponte di Gard. 
      Se  Caderousse  aveva  inventata  una  storia,  se quest'abate non 
      esisteva,  ero  evidentemente  perduto,   a  meno  che  non  fosse 
      arrestato Caderousse e confessasse tutto. 
      Passarono due mesi,  durante i quali,  debbo dirlo a lode dei miei 
      giudici, furono fatte le possibili ricerche per ritrovare l'abate. 
      Avevo perduto ogni speranza;  Caderousse non era stato  arrestato. 
      Ero  vicino  ad  essere giudicato nella prima seduta,  allorché il 
      giorno  8  settembre,   cioè  tre  mesi  e  cinque   giorni   dopo 
      l'avvenimento,  l'abate  Busoni,  sul  quale  non speravo più,  si 
      presentò alle carceri,  dicendo  che  sapeva  che  un  prigioniero 
      desiderava parlargli. Aveva saputo, diceva, la cosa a Marsiglia, e 
      si affrettava ad accorrere. 
      Capirete con quale ardore lo ricevetti; gli raccontai tutto ciò di 
      cui  ero  stato testimonio: cominciai con esitazione la storia del 
      diamante. Contro ogni mia aspettativa, era vera punto per punto, e 
      contro ogni mia aspettativa ancora egli prestò piena fede a  tutto 
      ciò che gli dissi. 
      Allora  convinto  dalla  sua  dolce carità,  ravvisando in lui una 
      profonda conoscenza dei costumi del mio paese,  e pensando che  la 
      parola  del  perdono del solo delitto che avevo commesso nella mia 
      vita, poteva forse uscire dalle sue labbra tanto caritatevoli, gli 
      raccontai,  sotto  il  suggello  della  confessione,   l'avventura 
      d'Auteuil in tutti i suoi particolari. 
      La   confessione  di  questo  primo  assassinio,   che  niente  mi 
      costringeva a confessare,  gli provò ch'io non avevo  commesso  il 
      secondo:  mi lasciò,  dicendomi di sperare e promettendomi di fare 
      ciò che sarebbe stato in suo potere per convincere i giudici della 
      mia innocenza. 
      Ebbi infatti la prova ch'egli si era occupato di me,  quando  vidi 
      addolcirsi i trattamenti che ricevevo nella mia prigione,  e seppi 
      che veniva differito il giudizio alle sedute che sarebbero venute. 
      In quest'intervallo la  Provvidenza  volle  che  Caderousse  fosse 
      arrestato all'estero e ricondotto in Francia. Egli confessò tutto, 
      aggravando la moglie della premeditazione, e particolarmente della 
      istigazione,  e fu condannato alla galera a vita.  Io fui messo in 
      libertà." 
      "E fu allora" disse Montecristo,  "che vi presentaste a  me  colla 
      lettera dell'abate Busoni." 
      "Sì, Eccellenza, egli aveva preso per me un particolare interesse. 
      "Il vostro stato di contrabbandiere vi perderà" mi disse.  "Se voi 
      uscite di qui, lasciatelo." 
      "Ma, padre" gli chiesi,  "come volete che faccia a vivere ed a far 
      vivere la mia povera cognata?" 
      "Uno  dei  miei penitenti" disse,  "mi ha in molta stima,  e mi ha 
      incaricato  di  trovargli  un  uomo  di  fiducia.   Volete  essere 
      quest'uomo? Vi raccomanderò a lui! 
      "Oh! padre" gridai, "quanta bontà!" 
      "Ma mi promettete che non avrò mai a pentirmene?" 
      Stesi la mano per fare il mio giuramento. 
      "E'  inutile"  diss'egli,  "conosco  ed  amo  i corsi: ecco la mia 
      raccomandazione. 
      E scrisse le poche righe che vi portai,  e  per  le  quali  Vostra 
      Eccellenza ebbe la bontà di prendermi al suo servizio. Ora domando 
      con orgoglio a Vostra Eccellenza: ha mai dovuto lamentarsi di me?" 
      "No"  rispose  il  conte,  "e  lo dico con piacere,  siete un buon 
      servitore quantunque manchiate di confidenza." 
      "Io, signor conte?" 
      "Sì, voi. Come, avete una cognata ed un figlio adottivo,  e non mi 
      avete mai parlato di loro?" 
      "Ahimè,  Eccellenza,  questo è quanto mi rimane da dirvi,  ed è la 
      parte più triste della mia vita... 
      Partii per la Corsica: avevo fretta, come potrete bene immaginarvi 
      d'andare a consolare quella ch'io chiamavo mia sorella,  ma quando 
      giunsi  a Rogliano trovai la casa in lutto.  Era accaduta una cosa 
      orribile, e di cui i vicini conservavano ancora memoria! 
      La mia povera cognata,  secondo quanto le avevo  consigliato,  non 
      cedette più alle pretese di Benedetto,  che ad ogni momento voleva 
      denaro.  Una mattina egli la minacciò,  e poi sparì per  tutto  il 
      giorno.  Lei pianse. La povera Assunta aveva per il miserabile una 
      tenerezza materna.  Giunse la sera,  e lo aspettò senza  andare  a 
      letto. Alle undici entrò con due dei suoi amici, compagni di tutte 
      le sue follie. Lei gli stese le braccia, ma questi s'impadronirono 
      di lei,  ed uno dei tre (io temo sia stato quel diabolico ragazzo) 
      gridò: 
      "Torturiamola,  bisognerà bene che confessi dove tiene nascosto il 
      suo denaro. 
      Il vicino Basilio era a Bastia,  e sua moglie soltanto era rimasta 
      in casa. Nessuno, eccettuata lei,  poteva vedere o sentire ciò che 
      accadeva  in  casa  mia.  Due  di  loro  tenevano  ferma la povera 
      Assunta,  che,  non potendo credere alla possibilità di un  simile 
      eccesso,  sorrideva  ai  carnefici,  il  terzo andò a barricare la 
      porta e le finestre. Quando tornò,  tutti e tre riuniti soffocando 
      le  grida  che  il  terrore le strappava,  avvicinarono i piedi di 
      Assunta ad un braciere.  Ma nella lotta il fuoco si  appiccò  alle 
      vesti:  lasciarono  allora  la  poveretta  per non essere bruciati 
      anch'essi. Fra le fiamme ella corse alla porta, ma era chiusa,  si 
      slanciò  verso  le  finestre ma erano barricate.  Allora la vicina 
      intese delle grida orribili, era Assunta che chiamava soccorso. 
      Ben presto la sua voce fu soffocata, e le grida divennero gemiti. 
      L'indomani,  dopo una notte di  terrore  e  d'angoscia  quando  la 
      moglie  di  Basilio  osò uscire di casa,  fece aprire la porta dal 
      giudice: fu ritrovata la povera Assunta per metà bruciata,  ma che 
      respirava  ancora,  gli  armadi  forzati,  ed  il  piccolo  tesoro 
      sparito. Benedetto aveva lasciato Rogliano per non tornarvi più, e 
      da quel giorno non l'ho più veduto,  né ho sentito parlare di lui. 
      Dopo queste tristi notizie, venni da Vostra Eccellenza. Non potevo 
      più  parlarvi  di  Benedetto,  perché  era sparito,  né di Assunta 
      perché era morta." 
      "E che avete pensato di ciò?" domandò Montecristo. 
      "Che quello  era  stato  il  castigo  del  delitto  che  io  avevo 
      commesso" rispose Bertuccio. "Ah, questi Villefort, sono una razza 
      maledetta!" 
      "Lo credo anch'io" mormorò il conte con accento lugubre. 
      "Ed  ora" rispose Bertuccio,  "Vostra Eccellenza comprenderà,  che 
      questa casa che  da  allora  non  avevo  più  veduta,  che  questo 
      giardino  dove  mi  sono ritrovato d'improvviso,  che questo luogo 
      dove ho ammazzato un uomo,  devono avermi procurato  quelle  forti 
      emozioni  delle  quali ha voluto conoscere l'origine.  Inoltre non 
      sono certo che davanti a me,  là ai miei piedi,  Villefort non sia 
      stato sepolto nella fossa ch'egli aveva scavata per suo figlio." 
      "Infatti  tutto  è  possibile" disse Montecristo,  levandosi dalla 
      panca su cui era seduto,  "ed anche" soggiunse a bassa voce,  "che 
      il procuratore del re non sia morto.  L'abate Busoni ha fatto bene 
      ad indirizzarvi a me.  E voi avete fatto  bene  a  raccontarmi  la 
      vostra storia;  perché non avrò più sospetti a vostro riguardo. In 
      quanto a codesto malchiamato Benedetto,  non avete mai cercato  di 
      sapere ciò che ne sia avvenuto?" 
      "No,  mai. Se avessi saputo dov'era, invece d'andare da lui, sarei 
      fuggito come davanti ad un mostro. No,  fortunatamente,  non ne ho 
      inteso mai parlare da chicchessia; e spero che sia morto." 
      "Non lo sperate, Bertuccio" disse il conte. "I cattivi non muoiono 
      così, sembra che Dio li prenda sotto la sua custodia per farne gli 
      strumenti della sua giustizia." 
      "Sia"  disse Bertuccio.  "Tutto ciò però che io domando al cielo è 
      che non lo  abbia  mai  a  rivedere.  Ora"  continuò  l'intendente 
      abbassando la testa, "voi sapete tutto, signor conte, siete il mio 
      giudice   quaggiù...   Non   vorrete   dirmi   qualche  parola  di 
      consolazione?" 
      "Infatti avete ragione,  ed io posso  dirvi  ciò  che  vi  direbbe 
      l'abate Busoni.  Colui che avete colpito,  meritava un castigo per 
      ciò  che  aveva  fatto  a  voi,  e  fors'anche  a  qualche  altro. 
      Benedetto,  se vive, servirà a qualche giustizia divina, poi a sua 
      volta sarà punito.  In quanto a voi,  non avete più rimproveri  da 
      farvi.  Chiedetevi  piuttosto perché,  avendo salvato questo bimbo 
      dalla morte,  non lo rendeste a sua madre:  qui  sta  il  delitto, 
      Bertuccio." 
      "Sì,  signore, quello è il mio delitto, il vero delitto, perché in 
      questo,  sono stato un vile.  Una volta richiamato  alla  vita  il 
      bambino,  non  avevo  che  una sola cosa da fare,  voi lo diceste: 
      farlo sapere a sua madre.  Ma mi necessitava fare delle  ricerche, 
      attirare l'attenzione,  e forse scoprirmi.  Non volli morire,  ero 
      attaccato alla vita per  il  sostentamento  di  mia  cognata,  per 
      l'amore  di  me  stesso,  innato  in ciascuno,  per rimaner sano e 
      libero nelle mie vendette,  infine ero attaccato alla  vita  anche 
      per l'amore stesso della vita.  Oh,  non sono un brav'uomo come lo 
      era mio fratello!" 
      E Bertuccio si nascose il viso fra le mani. 
      Montecristo fisso su lui un lungo ed indefinito sguardo. 
      Dopo un momento di silenzio reso ancora più solenne dall'ora e dal 
      luogo: 
      "Per terminare degnamente questa conversazione,  che sarà l'ultima 
      su  tali avventure,  Bertuccio" disse il conte,  "ritenete bene le 
      mie parole,  le ho spesso intese pronunciare  dallo  stesso  abate 
      Busoni. A tutti i mali vi sono due rimedi: il tempo e il silenzio. 
      Ora,  Bertuccio,  lasciatemi  passeggiare  un  momento  in  questo 
      giardino.  Ciò che rammenta a  voi  un'emozione  ripugnante,  come 
      attore  di  quell'orribile  scena,  darà  a  me  sensazioni  quasi 
      piacevoli, come raddoppiassero il valore di questa proprietà.  Gli 
      alberi non piacciono se non perché danno l'ombra, e l'ombra stessa 
      non  piace  se non perché è piena di sogni e di visioni.  Ecco che 
      compro un giardino,  credendo  d'acquistare  un  semplice  recinto 
      circondato da muri,  e d'improvviso si cambia in un giardino pieno 
      di fantasmi non descritti nel contratto. Io amo i fantasmi,  e non 
      ho mai inteso dire che i morti abbiano in seimila anni fatto tanto 
      male,  quanto ne fanno i vivi in un solo giorno. Rientrate dunque, 
      Bertuccio, e andate a dormire in pace." 
      Bertuccio s'inchinò profondamente davanti al conte, e si allontanò 
      mandando un sospiro. 
      Montecristo rimase  solo;  e  facendo  quattro  passi  in  avanti, 
      mormorò: 
      "Qui,  vicino  a  questa  pianta,  la  fossa  in cui fu deposto il 
      bambino;  laggiù la piccola porta per cui si entrava nel giardino: 
      in quest'angolo la scala segreta che conduce alla camera da letto. 
      Credo  di  non  aver  bisogno  di  descrivere  tutto  ciò  nel mio 
      taccuino,  perché ecco qua,  davanti ai miei occhi,  intorno a me, 
      sotto i miei piedi, il piano in rilievo, il piano vivente." 
      Ed  il  conte,  dopo  un  ultimo  giro  in  quel giardino,  andò a 
      raggiungere la  sua  carrozza.  Bertuccio  che  lo  vide  assorto, 
      s'assise  presso  il  cocchiere.  La carrozza riprese la strada di 
      Parigi. 
      La sera stessa, al suo ritorno nella casa degli Champs-Elysées, il 
      conte di Montecristo visitò tutta l'abitazione come avrebbe potuto 
      fare un uomo a cui fosse stata famigliare da molti anni. 
      Alì lo accompagnava in questa visita notturna.  Il conte  dette  a 
      Bertuccio molti ordini per l'abbellimento e la nuova distribuzione 
      degli appartamenti. Poi cavando l'orologio disse all'attento moro: 
      "Sono le undici e mezzo.  Haydée non può tardare ad arrivare. Sono 
      state avvertite le cameriere francesi?" 
      Alì stese la mano verso l'appartamento destinato alla bella  greca 
      (talmente isolato, che nascondendo la porta dietro la tappezzeria, 
      la  casa  poteva  essere  visitata  per  intero,  senza che alcuno 
      potesse sospettare esservi  un  salotto  e  due  camere  abitate), 
      mostrò  il  numero  tre  con  la mano sinistra,  e su questa mano, 
      appoggiò la testa, e chiuse gli occhi come dormiente. 
      "Ah"  fece  Montecristo,   abituato  a  questo  linguaggio,   "tre 
      aspettano nella camera da letto, non è così?" 
      "Sì" fece Alì, agitando la testa. 
      "La signora sarà stanca questa sera, e senza dubbio vorrà dormire" 
      continuò Montecristo, "che nessuno la faccia parlare. Le cameriere 
      francesi   devono  soltanto  salutare  la  loro  nuova  padrona  e 
      ritirarsi e voi sorveglierete perché la cameriera greca non  abbia 
      comunicazione colle francesi." 
      Alì s'inchinò. 
      Ben presto fu inteso chiamare il portinaio; il cancello s'aprì una 
      carrozza  percorse il viale e si fermò davanti alla scalinata.  Il 
      conte scese: la porticina era già aperta,  egli stese la  mano  ad 
      una  giovane avvolta in un manto di seta verde ricamato in oro che 
      la copriva tutta, fin dalla testa. 
      Allora,  preceduta da Alì che portava una torcia  dal  profumo  di 
      rose,  la giovane fu condotta al suo appartamento, quindi il conte 
      si ritirò nel padiglione che si era riservato. 
      Mezz'ora dopo mezzanotte tutti i lumi erano spenti nella  casa,  e 
      si sarebbe potuto credere che tutti dormissero. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 45. 
                            IL CREDITO ILLIMITATO. 
 
 
      L'indomani  verso  le  due  dopo mezzogiorno,  un elegante calesse 
      tirato da due magnifici cavalli inglesi,  si  fermò  davanti  alla 
      porta di Montecristo.  Un uomo vestito con un abito turchino,  con 
      bottoni di seta dello stesso colore un corpetto bianco  sormontato 
      da  una  enorme  catena  d'oro,  pantaloni neri,  capelli neri che 
      scendevano sulle sopracciglia e non parevano naturali, tanto erano 
      poco in armonia colle rughe sparse;  un uomo infine di  cinquanta- 
      cinquantacinque  anni,  e  che cercava di dimostrarne quaranta dal 
      volto,  sporse la testa dal finestrino della carrozza,  che  aveva 
      dipinta  sullo sportello una corona di barone,  e mandò il groom a 
      domandare al portinaio se il conte di Montecristo era in casa. 
      Mentre aspettava,  quest'uomo osservava con una attenzione minuta, 
      quasi   impertinente,   l'esterno   della   casa,   quanto  poteva 
      distinguersi dal giardino,  e la livrea di quei domestici  che  si 
      potevano  vedere  andare  e  venire.  L'occhio  di  quest'uomo era 
      vivace,  ma piuttosto furbo che spiritoso.  Le labbra  erano  così 
      sottili  che,  invece  di  sporgere  in  fuori,  si ripiegavano in 
      dentro. 
      La larghezza e la protuberanza  degli  zigomi,  segno  infallibile 
      d'astuzia,   la   depressione   della  fronte,   il  rigonfiamento 
      dell'occipite  che  sorpassava  un  paio  d'orecchie   non   certo 
      aristocratiche,  contribuivano  a  dare un aspetto spiacevole alla 
      fisonomia di questo personaggio,  che molto si  raccomandava  agli 
      occhi  del  volgo  per  i  suoi  magnifici  cavalli,  per l'enorme 
      diamante che portava alla camicia,  e per il nastro  rosso  da  un 
      capo all'altro della bottoniera dell'abito. 
      Il groom bussò all'invetriata del portinaio, domandando: 
      "Non è qui che abita il conte di Montecristo?" 
      "E' qui che abita Sua Eccellenza" rispose il portinaio "ma..." 
      E consultò con uno sguardo Alì, che fece un segno negativo. 
      "Ma?" domandò il groom. 
      "Sua Eccellenza non può ricevere" rispose il portinaio. 
      "In questo caso,  ecco il biglietto da visita del mio padrone,  il 
      barone Danglars...  Lo consegnerete al conte di Montecristo e  gli 
      direte  che  andando alla Camera,  il mio padrone è passato di qui 
      per aver l'onore di vederlo." 
      "Io non parlo a Sua Eccellenza" rispose  il  portinaio,  "però  il 
      cameriere farà l'ambasciata." 
      Il groom ritornò alla carrozza. 
      "Ebbene?" domandò Danglars. 
      Il ragazzo,  abbastanza vergognoso della lezione ricevuta,  ripeté 
      al padrone la risposta del portinaio. 
      "Oh" fece questi,  "è dunque un principe questo signore che  viene 
      detto  Eccellenza,  e  a  cui  solo  il cameriere ha il diritto di 
      parlare? Non importa, poiché ha un credito su me, bisogna bene che 
      lo veda, quando avrà bisogno di denaro." 
      E Danglars si ritrasse  nel  fondo  della  carrozza,  gridando  al 
      cocchiere,  in  modo che si sarebbe sentito dall'altra parte della 
      strada: 
      "Alla Camera dei deputati!" 
      Da una persiana del padiglione,  Montecristo  avvisato  in  tempo, 
      aveva  visto  il  barone,  e lo aveva osservato,  coll'aiuto di un 
      eccellente occhialino con non  minore  attenzione  di  quella  che 
      Danglars  aveva  messa  ad analizzare la casa,  il giardino,  e le 
      livree. 
      "Davvero" disse con un gesto di disgusto e  facendo  rientrare  le 
      lenti   dell'occhialino   nel   loro  manico  d'avorio,   "davvero 
      quest'uomo è una laida creatura.  Come mai,  dalla prima volta che 
      lo  vedono,  non riconoscono il serpente dalla fronte schiacciata, 
      l'avvoltoio dal cranio  rotondeggiante,  lo  sparviero  dal  becco 
      acuto?" 
      "Alì" gridò, poi batté un colpo sul campanello di rame. 
      Alì comparve. 
      "Chiamate Bertuccio" disse il conte. 
      Nello stesso momento entrò Bertuccio. 
      "Forse Vostra Eccellenza mi faceva chiamare?" disse l'intendente. 
      "Sì,  signore" disse il conte. "Avete veduti i cavalli che si sono 
      fermati davanti alla mia porta?" 
      "Certamente, Eccellenza, sono molto belli." 
      "E com'è dunque" disse Montecristo  aggrottando  il  sopracciglio, 
      "che  mentre  ho  ordinato  i  due  più  bei cavalli che fossero a 
      Parigi,  vi siano ancora nelle scuderie dei cavalli più belli  dei 
      miei?" 
      All'aggrottarsi  delle  sopracciglia,  ed al tono severo di quella 
      voce, Alì abbassò la testa ed impallidì. 
      "Non è colpa tua,  buon Alì" disse  in  arabo  il  conte  con  una 
      dolcezza  che non si sarebbe sospettata né nella sua voce,  né sul 
      suo viso. "Tu non t'intendi di cavalli inglesi." 
      La serenità ricomparve sui lineamenti d'Alì. 
      "Signor conte" disse Bertuccio,  "i cavalli di cui mi parlate  non 
      erano in vendita." 
      Montecristo si strinse nelle spalle. 
      "Sappiate,  signor intendente" disse,  "che tutto è in vendita per 
      chi sa fissare il prezzo." 
      "Il signor  Danglars  li  ha  pagati  sedicimila  franchi,  signor 
      conte." 
      "Ebbene,   bisognava  offrirgliene  trentaduemila...   Egli  è  un 
      banchiere,  e un banchiere non si lascia mai sfuggire  l'occasione 
      di raddoppiare il suo capitale." 
      "Il signor conte parla sul serio?" domandò Bertuccio. 
      Montecristo  guardò  l'intendente stupito che avesse ardito fargli 
      una simile domanda. 
      "Questa sera" disse, "ho una visita da restituire. Voglio che quei 
      cavalli siano attaccati alla mia carrozza con finimenti nuovi." 
      Bertuccio si ritirò salutando, vicino alla porta si fermò: 
      "A che ora" chiese, "Vostra Eccellenza conta di fare la visita?" 
      "Alle cinque" disse Montecristo. 
      Poi volgendosi ad Alì: 
      "Fate passare tutti i cavalli davanti alla signora" disse,  "e lei 
      scelga  la  pariglia  che più le piace;  e mi faccia dire se vuole 
      pranzare   con   me,    in   questo   caso    sia    apparecchiato 
      nell'appartamento  di  lei.   Andate,  e  scendendo  mandatemi  il 
      cameriere." 
      Non appena uscito Alì, entrò il cameriere. 
      "Battistino" disse il conte, "è ormai un anno che voi siete al mio 
      servizio: questo è l'apprendistato che di solito  fisso  alla  mia 
      servitù: sono contento di voi." 
      Battistino s'inchinò. 
      "Resta ora da sapere se voi siete contento di me." 
      "Oh, signor conte!" si affrettò a dire Battistino. 
      "Ascoltatemi  sino  alla  fine"  riprese  il  conte.   "Voi  avete 
      millecinquecento franchi l'anno di salario,  vale a dire il  soldo 
      di  un  bravo  ufficiale che arrischia la sua vita tutti i giorni; 
      avete una tavola che  molti  capiufficio,  servitori  disgraziati, 
      infinitamente  più  occupati di voi,  non potrebbero desiderare di 
      meglio.  Domestico,  voi stesso avete dei domestici che hanno cura 
      della   vostra   biancheria   e   dei  vostri  effetti.   Oltre  a 
      millecinquecento franchi di paga, voi mi rubate negli acquisti del 
      mio vestiario, circa altri millecinquecento franchi ogni anno." 
      "Oh, Eccellenza!" 
      "Io  non  me  ne  lamento,  Battistino,  è  cosa  naturale;   però 
      desidererei  che  la  cosa  si  limitasse  qui.   Voi  dunque  non 
      ritrovereste un posto simile a  quel  che  vi  ha  dato  la  buona 
      fortuna.  Io  non percuoto mai la mia servitù,  non bestemmio mai, 
      non mento mai,  non  vado  mai  in  collera,  perdono  sempre  uno 
      sbaglio,  non mai però una negligenza, od una dimenticanza. I miei 
      ordini sono ordinariamente brevi, ma chiari e precisi;  preferisco 
      ripeterli  due  e anche tre volte,  che vederli male interpretati. 
      Sono abbastanza ricco di esperienze,  e sono curiosissimo,  ve  ne 
      prevengo.  Se  io  sapessi  dunque che voi aveste parlato di me in 
      bene o in male,  che aveste fatto dei commenti sulle  mie  azioni, 
      sorvegliata la mia condotta, uscireste sul momento da casa mia: io 
      non avverto un servitore che una sola volta.  Ora siete avvertito. 
      Andate!" 
      Battistino s'inchinò e fece tre o quattro passi per ritirarsi. 
      "A proposito" riprese il conte,  "dimenticavo di  dirvi  che  ogni 
      anno  metto  a  frutto  un  certo  capitale  sulla  vita  dei miei 
      domestici.   Quelli  che  licenzio  dal   mio   servizio   perdono 
      necessariamente  questa  somma,  che  va in profitto di quelli che 
      rimangono, e della quale godranno il possesso dopo la mia morte. E 
      passato l'anno che siete al mio servizio,  ed il vostro capitale è 
      già incominciato; sappiatelo accumulare." 
      Questo  discorso,  fatto  davanti ad Alì che rimaneva impassibile, 
      poiché non capiva una parola di francese,  produsse su  Battistino 
      un  effetto  intuibile  da tutti coloro che conoscono l'indole del 
      domestico francese. 
      "Cercherò di conformarmi su tutti i punti alla volontà  di  Vostra 
      Eccellenza"  diss'egli,  "e  per far meglio,  seguirò l'esempio di 
      Alì." 
      "Oh,  niente affatto" disse il conte con una freddezza  di  marmo. 
      "Alì ha molti difetti mescolati alle sue qualità; non vi modellate 
      dunque su di lui. Poi egli è un'eccezione: non ha stipendio, non è 
      un domestico,  è uno schiavo, è il mio cane; se non facesse il suo 
      dovere, non lo caccerei, ma lo ammazzerei!" 
      Battistino aprì due grandi occhi. 
      "Voi ne dubitate?" disse Montecristo. 
      E ripeté in arabo ad Alì le  stesse  parole  che  aveva  dette  in 
      francese a Battistino. 
      Alì ascoltò,  sorrise, si avvicinò al padrone, mise un ginocchio a 
      terra e gli baciò rispettosamente la mano. 
      Questo piccolo corollario alla lezione mise al colmo lo stupore di 
      Battistino, cui il conte fece segno di ritirarsi,  mentre ordinava 
      ad  Alì  di seguirlo.  Entrambi passarono nel suo studio,  e là si 
      trattennero lungamente. 
      Alle cinque il conte batté tre  colpi  sul  campanello.  Un  colpo 
      chiamava Alì, due colpi Battistino, tre colpi Bertuccio. 
      L'intendente entrò. 
      "I miei cavalli!" disse Montecristo. 
      "Sono  attaccati  alla  carrozza,  Eccellenza"  rispose Bertuccio. 
      "Devo accompagnare Vostra Eccellenza?" 
      "No, soltanto il cocchiere, Battistino, ed Alì." 
      Il conte discese e vide attaccati  alla  carrozza  i  cavalli  che 
      nella  mattina aveva ammirati alla carrozza di Danglars.  Passando 
      vicino ad essi vi gettò un occhiata: 
      "Di fatto sono belli!"  diss'egli.  "E  voi  avete  fatto  bene  a 
      comprarli, solo lo avete fatto un poco tardi." 
      "Ho durato molta fatica ad averli, e sono costati un po' cari." 
      "Non  per  questo  i  cavalli  sono  meno  belli"  disse il conte, 
      stringendosi nelle spalle. 
      "Se Vostra Eccellenza è soddisfatta" disse  Bertuccio,  "tutto  va 
      bene... Dove va Vostra Eccellenza?" 
      "Rue Chaussée d'Antin, dal barone Danglars." 
      Questa conversazione si faceva dall'alto della scalinata. 
      Bertuccio fece un passo per scendere il primo scalino. 
      "Aspettate,  signore" disse Montecristo,  "ho bisogno di una terra 
      in Normandia sulla riva del mare,  per  esempio  fra  Le  Havre  e 
      Boulogne. Vi do uno spazio vasto, come vedete. Bisognerebbe che in 
      questo  luogo  vi  fosse  un piccolo porto,  un piccolo seno,  una 
      piccola baia, dove potesse entrare ed uscire la mia corvetta; essa 
      non pesca che quindici piedi d'acqua. Il bastimento sarà sempre in 
      ordine per mettere alla vela,  a qualunque ora del giorno e  della 
      notte  mi piaccia dargli il segnale.  Voi v'informerete da tutti i 
      notai di una proprietà che abbia i pregi che vi ho  detto.  Quando 
      l'avrete trovata,  andrete a visitarla, e se rimarrete contento la 
      comprerete a vostro nome.  La corvetta deve essere in viaggio  per 
      Fecamp, non è vero?" 
      "La  stessa  sera  che noi abbiamo lasciato Marsiglia,  io la vidi 
      mettere alla vela." 
      "E lo yacht?" 
      "Lo yacht ha ordine di star fermo alla Martigues." 
      "Va bene.  Vi metterete in contatto di  tanto  in  tanto  coi  due 
      padroni che comandano, affinché non si addormentino." 
      "E per il battello a vapore?" 
      "Non è a Chalons?" 
      "Sì." 
      "Gli stessi ordini che per i due bastimenti a vela." 
      "Bene!" 
      "Appena  comprata  questa  proprietà,  mi  fisserete  dei cambi di 
      cavalli di dieci leghe tanto sulla strada del nord,  che su quella 
      del mezzogiorno." 
      "Vostra Eccellenza può fidarsi di me." 
      Il  conte  fece  un segno di soddisfazione,  discese i gradini,  e 
      saltò nella carrozza,  che trascinata al  trotto  dalla  magnifica 
      pariglia non si fermò che alla porta del banchiere. 
      Danglars  presiedeva  una  commissione  nominata  per una ferrovia 
      allorché  vennero  ad  annunziargli  la  visita   del   conte   di 
      Montecristo. La seduta del resto era quasi finita. 
      Al nome del conte egli si alzò: 
      "Signori"  disse  ai colleghi,  fra i quali molti onorevoli membri 
      dell'una e dell'altra Camera, "perdonatemi se vi lascio così... Ma 
      la casa Thomson e  French  di  Roma  m'invia  un  certo  conte  di 
      Montecristo aprendogli a mio mezzo un credito illimitato. Questo è 
      lo  scherzo  più  insolito che i miei corrispondenti all'estero si 
      siano permessi con me.  Lo capirete bene,  sono preso e trattenuto 
      dalla più grande curiosità.  Questa mattina sono passato da questo 
      preteso conte.  Se fosse un vero  conte,  capirete  bene  che  non 
      sarebbe  così  ricco.  Ebbene  il signore non riceveva.  Che ve ne 
      pare?  Queste maniere che si permette il nostro  Montecristo,  non 
      sono  più  adatte  a  qualche  principe  o  a qualche bella donna? 
      D'altra parte la casa agli Champs-Elysées che è sua,  me  ne  sono 
      informato,  dev'essere  costata  un  patrimonio...  Ma  un credito 
      illimitato" riprese Danglars,  ridendo col  suo  villano  sorriso, 
      "rende  molto  esigente  il  banchiere sul quale viene aperto.  Ho 
      dunque fretta di vedere il nostro uomo.  Mi  credo  raggirato.  Ma 
      quelli  laggiù non sanno con chi hanno a che fare: riderà bene chi 
      riderà ultimo..." 
      Terminando queste parole,  e dandogli un'enfasi che gli gonfiò  le 
      narici,  lasciò  i suoi ospiti,  e passò in un salone bianco e oro 
      che godeva gran fama nella Chaussée d'Antin. Là aveva ordinato che 
      fosse introdotto il visitatore onde abbagliarlo al primo colpo. 
      Il  conte  era  in  piedi,   e  stava  considerando  alcune  copie 
      dell'Albano  e  del Fattore vendute per originali al banchiere,  e 
      che,  per quanto fossero copie,  spiccavano molto sugli  arabeschi 
      d'oro e di tutti i colori che adornavano il soffitto. 
      Al  rumore che Danglars fece entrando il conte si volse.  Danglars 
      fece un leggero cenno di testa,  indicando colla mano al conte  di 
      sedersi  in  una  seggiola  di  legno dorata,  con cuscini di seta 
      bianca broccata in oro. 
      Il conte si sedette. 
      "Ho l'onore di parlare al signor di Montecristo?" 
      "Ed io" rispose il conte,  "al barone  Danglars,  cavaliere  della 
      Legion d'Onore, membro della Camera dei deputati?" 
      Montecristo  ridiceva  tutti  i  titoli  che  aveva  ritrovati sul 
      biglietto da visita del barone. 
      Danglars sentì la botta e si morse le labbra: 
      "Scusatemi,  signore" disse,  "di non avervi dato subito il titolo 
      sotto  il quale mi siete stato annunziato,  ma voi lo sapete,  noi 
      viviamo sotto un governo democratico..." 
      "Di modo che" rispose  Montecristo,  "conservando  l'abitudine  di 
      farvi chiamare barone,  avete perduta quella di chiamare gli altri 
      conte." 
      "Ah,  non ci faccio caso neppure  per  me"  disse  negligentemente 
      Danglars. "Mi hanno fatto barone e cavaliere della Legione d'Onore 
      per servigi resi, ma..." 
      "Ma voi avete abdicato ai titoli,  come in altro tempo hanno fatto 
      Montmorency e La Fayette?  Questo è un  bell'esempio  da  seguire, 
      signore." 
      "Però   non  del  tutto"  riprese  Danglars  impacciato,   "per  i 
      domestici, capirete..." 
      "Sì,  voi  siete  barone  per  la  servitù,   e  cittadino  per  i 
      giornalisti, e per i vostri committenti." 
      Danglars  si  morse  le  labbra.  Vide che su quel terreno non era 
      della forza di Montecristo, cercò dunque un terreno più familiare. 
      "Signor  conte"  disse  inchinandosi,  "ho  ricevuto  una  lettera 
      d'avviso della casa Thomson e French." 
      "Ne sono contento,  signor barone.  Permettetemi di trattarvi come 
      la vostra servitù;  è una cattiva abitudine presa nei paesi ove vi 
      sono  ancora dei baroni,  proprio perché non se ne fanno di nuovi. 
      Ne sono contento,  dicevo,  non avrò  bisogno  di  presentarmi  io 
      stesso,  la  quale  cosa  è sempre imbarazzante.  Voi dunque avete 
      ricevuto una lettera di credito?" 
      "Sì" rispose Danglars,  "ma vi confesso che non ne ho bene  capito 
      il senso." 
      "Bah!" 
      "Ed anzi avevo avuto l'onore di passare da voi per domandarvene la 
      spiegazione." 
      "Fatelo,   signore,   eccomi,   io   ascolto,   e  sono  pronto  a 
      rispondervi." 
      "Questa lettera" rispose Danglars, "credo d'averla con me." 
      Si frugò nelle tasche. 
      "Eccola, sì. Questa lettera apre al signor conte di Montecristo un 
      credito illimitato sulla mia casa." 
      "Ebbene, signor barone, che vi trovate d'oscuro?" 
      "Niente, signore, fuorché la parola illimitato..." 
      "Ebbene,  questa parola non è forse francese?  Capirete  che  sono 
      anglosassoni che scrivono." 
      "Oh via,  signore per la sintassi non c'è niente da ridire, ma non 
      è così per la contabilità." 
      "Perché,  la casa Thomson e French" chiese  Montecristo  coll'aria 
      più  ingenua  che  avesse potuto assumere,  "non è a vostro avviso 
      abbastanza sicura, signor barone? Diavolo, mi spiacerebbe,  perché 
      ho depositati su di essa alcuni capitali." 
      "Ah,  perfettamente  sicura" rispose Danglars con un sorriso quasi 
      beffardo, "ma la parola illimitato, in materia di finanza, è tanto 
      vaga che..." 
      "Che è illimitata, non è vero" disse Montecristo. 
      "Precisamente questo volevo dire.  Ciò che è vago è dubbio,  ed il 
      saggio dice: astieniti dal dubbio." 
      "Che è quanto dire" replicò Montecristo, "che se la casa Thomson e 
      French  è  disposta  a  fare delle pazzie,  la casa Danglars non è 
      disposta a seguirne l'esempio." 
      "Che significa, signor conte?" 
      "Sì, senza dubbio,  Thomson e French fanno gli affari senza cifre, 
      ma  il  Signor  Danglars dà un limite alle sue;  è un uomo saggio, 
      come si vantava poco fa." 
      "Signore" disse orgogliosamente il banchiere,  "nessuno ha  ancora 
      fatti conti nella mia cassa." 
      "Allora"  disse  freddamente  Montecristo,  "sembra  che sarò io a 
      cominciare." 
      "E chi vi ha detto questo?" 
      "Le spiegazioni che  voi  mi  chiedete,  e  che  somigliano  molto 
      all'esitazione." 
      Danglars  si  morse  le  labbra;  era  la seconda volta che veniva 
      battuto da quest'uomo,  e questa volta sopra un terreno che era il 
      suo.  La  sua  compitezza mordace non era che apparente e sfiorava 
      l'impertinenza.  Montecristo al contrario sorrideva colla  maggior 
      grazia  del  mondo,  e  quando voleva,  possedeva una cert'aria di 
      leggerezza che gli dava molti vantaggi. 
      "Finalmente,  signore" disse Danglars dopo un momento di silenzio, 
      "cercherò di farmi intendere,  pregandovi di fissare voi stesso la 
      somma che contate riscuotere da me." 
      "Ma,  signore" rispose Montecristo,  risoluto  a  non  perdere  un 
      pollice  di  terreno nella discussione,  "se ho chiesto un credito 
      illimitato su voi,  fu precisamente perché  non  sapevo  di  quale 
      somma potevo aver bisogno." 
      Il  banchiere credette finalmente giunto il momento di prendere il 
      sopravvento;  si rovesciò sul suo seggio,  e con un grossolano  ed 
      orgoglioso sorriso: 
      "Oh,  signore,  non  abbiate alcun timore nel chiedere...  Potrete 
      convincervi che le cifre della casa Danglars, per quanto limitate, 
      possono soddisfare  le  più  grandi  esigenze,  e  potreste  anche 
      chiedere un milione..." 
      "Sarebbe a dire?" disse Montecristo. 
      "Dico un milione" disse Danglars colla sostenutezza dello stolido. 
      "E  a  che  mi servirebbe un milione?" disse il conte.  "Buon Dio, 
      signore, se non mi fosse abbisognato che un milione,  non mi sarei 
      fatto aprire un credito su voi per una simile miseria. Un milione! 
      Ma  ho  sempre  un milione nel mio portafogli,  nel mio scrigno da 
      viaggio." 
      E Montecristo cavò  dal  piccolo  taccuino,  entro  cui  teneva  i 
      biglietti da visita, due assegni di cinquecentomila franchi l'uno, 
      pagabili  dal  tesoro  al  portatore.  Bisognava accoppare,  e non 
      pungere un uomo come Danglars.  Il colpo  di  mazza  fece  il  suo 
      effetto: il banchiere vacillò,  ed ebbe la vertigine,  spalancò su 
      Montecristo due occhi ebeti, la cui pupilla si dilatò a dismisura. 
      "Vediamo,  confessatemi" disse Montecristo,  "che diffidate  della 
      casa Thomson e French.  Mio Dio,  la cosa è semplicissima. Io però 
      ho previsto il caso,  e sebbene estraneo agli affari ho  preso  le 
      mie cautele.  Ecco dunque due altre lettere simili a quella che vi 
      fu scritta: una è della casa Arstein e Eskeles di Vienna sopra  il 
      signor  barone  Rothschild,  l'altra è della casa Baring di Londra 
      sul signor Laffitte. Dite una parola,  signore,  ed io vi toglierò 
      qualunque  preoccupazione,  presentandomi  all'una  o all'altra di 
      queste due case." 
      Era finita: Danglars fu vinto.  Egli aprì con un visibile  tremore 
      la  lettera  di  Vienna  e  quella  di  Londra  che  gli  venivano 
      presentate  sulla   punta   delle   dita   dal   conte,   verificò 
      l'autenticità delle firme, tanto minuziosamente, che sarebbe stato 
      un insulto per Montecristo, senza la confusione del banchiere. 
      "Oh,  signore,  ecco tre firme che valgono bene dei milioni" disse 
      Danglars  alzandosi,   come  per  salutare  la  potenza   dell'oro 
      personificata nell'uomo che aveva davanti. "Tre crediti illimitati 
      sulle nostre tre prime case!  Perdonatemi, signor conte, ma mentre 
      cesso  di   essere   diffidente,   mi   sarà   permesso   d'essere 
      meravigliato." 
      "Oh,  non  sarà  già  una  casa  come  la  vostra,  quella  che si 
      meraviglia di ciò!" disse Montecristo con tutta cortesia.  "Dunque 
      mi manderete un po' di denaro, non è vero?" 
      "Parlate, signor conte, sono ai vostri ordini." 
      "Ebbene,  ora  che  c'intendiamo...  Perché già c'intendiamo,  non 
      vero?" 
      Danglars fece un segno affermativo colla testa. 
      "E non avrete più diffidenza?" continuò Montecristo. 
      "Oh, non ne ho mai avuta" disse il banchiere. 
      "No, desideravate una prova, ecco tutto.  Ebbene" ripeté il conte, 
      "ora  che  c'intendiamo,  ora che non avete più alcuna diffidenza, 
      fissiamo, se volete,  una somma per il primo anno...  sei milioni, 
      per esempio." 
      "Sei milioni, sia!" disse Danglars soffocato. 
      "Se  mi  occorrerà  di  più"  disse Montecristo con trascuratezza, 
      "metteremo di più; ma non conto di restare che un anno in Francia, 
      e non credo d'oltrepassare questa  somma...  però  vedremo...  Per 
      cominciare,  fatemi  portare domani trecentomila franchi.  Sarò in 
      casa fino a mezzogiorno, se non vi sarò lascerò la ricevuta al mio 
      intendente." 
      "Il denaro sarà in casa vostra domattina alle dieci, signor conte" 
      rispose Danglars. "Volete oro, argento, o biglietti di banca?" 
      "Metà oro, e metà biglietti, per favore" ed il conte si alzò. 
      "Debbo confessarvi una cosa"  disse  Danglars  a  sua  volta,  "io 
      credevo di avere delle cognizioni esatte su tutte le belle fortune 
      d'Europa,  e tuttavia la vostra,  che mi sembra considerevole,  mi 
      era, ve lo confesso, del tutto sconosciuta. E' recente?" 
      "No,  signore" rispose Montecristo,  "al contrario  è  di  vecchia 
      data.  Era  una  specie  di  tesoro  di  famiglia che era proibito 
      toccare,  e i cui  interessi  accumulandosi  hanno  triplicato  il 
      capitale:  l'epoca  fissata  dal testatore è scaduta da pochi anni 
      soltanto,  e non è che da pochi anni che  io  ne  uso.  La  vostra 
      ignoranza su questo argomento è naturale; del resto la conoscerete 
      meglio fra qualche tempo." 
      Ed  il  conte  accompagnò  queste  parole con uno di quei languidi 
      sorrisi che facevano tanta paura a Franz d'Epinay. 
      "Coi vostri gusti e colle vostre intenzioni, signore,  spiegherete 
      nella nostra capitale un lusso che ci schiaccerà tutti,  noi altri 
      poveri piccoli milionari. Ed ora,  giacché mi sembrate un amatore, 
      e  quando  sono  entrato  guardavate i miei quadri,  vi domando il 
      permesso di farvi vedere la mia galleria:  tutti  quadri  antichi, 
      tutti  quadri  di  maestri,  garantiti  come  tali.  Io  non amo i 
      moderni." 
      "Avete ragione,  perché hanno in generale un gran difetto,  quello 
      cioè di non aver ancora avuto il tempo di diventare antichi." 
      "Poi potrò mostrarvi qualche statua di Thorvaldsen,  di Bartolini, 
      di Canova, tutti artisti stranieri,  come ben sapete: io non stimo 
      gli artisti francesi. 
      "Voi  avete  diritto  d'essere  ingiusto con loro,  signore,  sono 
      vostri compatrioti." 
      "Ma tutto questo sarà per un  altro  giorno  quando  avremo  fatta 
      miglior  conoscenza;  oggi  mi  contenterò,  se lo permettete,  di 
      presentarvi alla signora Danglars.  Scusate la mia premura,  ma un 
      cliente come voi fa quasi parte della famiglia." 
      Montecristo  s'inchinò  come  per fargli comprendere che accettava 
      l'onore che voleva fargli. 
      Danglars suonò,  un  lacchè,  vestito  con  una  livrea  sontuosa, 
      comparve. 
      "La signora baronessa è in casa?" domandò Danglars. 
      "Sì, signor barone" rispose il lacchè. 
      "Sola?" 
      "No, la signora è in compagnia." 
      "Non  sarà  indiscrezione presentarvi davanti a estranei,  è vero, 
      signor conte? Non siete in incognito?" 
      "No" rispose sorridendo  Montecristo,  "non  mi  riconosco  questo 
      diritto." 
      "E  chi  è dalla signora?  Il signor Debray?" domandò Danglars con 
      una bonarietà che fece sorridere Montecristo,  già  informato  dei 
      trasparenti segreti della casa del banchiere. 
      "Il signor Debray, sì, signor barone" rispose il lacchè. 
      Danglars   fece   un  segno  colla  testa,   poi  si  volse  verso 
      Montecristo. 
      "Il signor Luciano Debray è un nostro  vecchio  amico,  segretario 
      del Ministro dell'interno;  in quanto a mia moglie,  appartiene ad 
      un'antica famiglia: era la signorina Servières,  vedova  in  prime 
      nozze del Colonnello marchese de Nargonne." 
      "Non ho ancora l'onore di conoscere la signora baronessa Danglars, 
      ma ho già incontrato il signor Debray." 
      "Beh" disse Danglars, "e dove?" 
      "In casa del signor Morcerf." 
      "Ah, voi conoscete il piccolo visconte?" disse Danglars. 
      "Ci siamo trovati insieme a Roma al tempo del carnevale." 
      "Ah  sì"  disse  Danglars,   "ho  sentito  dire  qualche  cosa  di 
      un'avventura singolare con banditi o ladri fra certe rovine:  egli 
      fu salvato miracolosamente. Credo abbia raccontato qualche cosa di 
      simile a mia moglie ed a mia figlia al suo ritorno dall'Italia." 
      "La  signora  baronessa  aspetta questi signori" ritornò a dire il 
      lacchè. 
      "Vado avanti per indicarvi la strada" disse Danglars salutando. 
      "Ed io vi seguo" soggiunse Montecristo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 46. 
                        LA PARIGLIA GRIGIO-POMELLATA. 
 
 
      Il  barone  seguito   dal   conte,   traversò   una   lunga   fila 
      d'appartamenti  notevoli  per  la  loro pesante sontuosità,  ed il 
      fastoso cattivo gusto,  e giunse fino  al  salotto  della  signora 
      Danglars,  piccola  stanza  ottagonale  parata  di seta color rosa 
      ricoperta di mussola d'India,  le seggiole di vecchio legno dorato 
      coperte di vecchie stoffe,  le sovrapporte con paesaggi del genere 
      di Boucher, e infine due piccoli medaglioni a pastello, in armonia 
      col rimanente del mobilio:  questa  piccola  stanza  era  il  solo 
      locale  della  casa  che avesse un qualche carattere.  Sfuggita al 
      piano generale stabilito fra Danglars ed il  suo  architetto,  una 
      delle  più  alte  e più eminenti celebrità dell'impero,  era stata 
      decorata direttamente dalla baronessa Danglars e da Debray. 
      Così il signor Danglars,  grande ammiratore dell'antico,  al  modo 
      che  lo  intendeva  il  direttorio,  disprezzava moltissimo questo 
      elegante piccolo ridotto,  ove del resto  non  era  ammesso  senza 
      farsi  scusare  conducendo  qualcuno.  Non era dunque Danglars che 
      presentava,  era al contrario egli il presentato,  ed era  bene  o 
      male  ricevuto  a  seconda  che  la fisonomia del visitatore fosse 
      gradita o sgradita alla baronessa. 
      La signora Danglars,  la cui bellezza poteva ancora essere vantata 
      malgrado  i  suoi  trentasei  anni,  era  al  pianoforte,  piccolo 
      capolavoro  d'intarsio,  mentre  Luciano  Debray,   seduto  ad  un 
      tavolino da lavoro, sfogliava un album. Luciano aveva già avuto il 
      tempo,  prima dell'arrivo, di raccontare alla baronessa molte cose 
      relative al conte.  Si conosce già quanta impressione  Montecristo 
      avesse  fatto  sui  convitati  alla  colazione di Alberto.  Questa 
      sensazione non si era ancor cancellata in Debray. 
      La  curiosità  della  signora  Danglars,   eccitata  anche   dalle 
      informazioni di Morcerf,  e dalle recenti di Debray, era dunque al 
      colmo.  Perciò questo accomodamento al pianoforte ed all'album non 
      era  che una di quelle piccole furberie del gran mondo,  per mezzo 
      delle quali si velano le più forti curiosità. 
      La baronessa ricevette Danglars con un  sorriso,  cosa  non  molto 
      comune;  quanto al conte, ricevette, in cambio del suo saluto, una 
      cerimoniosa, ma nello stesso tempo graziosa riverenza. 
      Luciano,  dal canto suo,  scambiò col conte  un  saluto  di  mezza 
      conoscenza, e con Danglars un gesto d'intimità. 
      "Signora baronessa" disse Danglars, "permettete che vi presenti il 
      signor  conte  di  Montecristo,  che mi viene indirizzato dai miei 
      corrispondenti di Roma colle raccomandazioni  più  vive.  Viene  a 
      Parigi  coll'intenzione  di  restarvi un anno,  e di spendervi sei 
      milioni in questo solo anno;  ciò promette una serie  infinita  di 
      balli,  di  pranzi,  di  festini  nei  quali voglio sperare che il 
      signor conte non vorrà dimenticarci,  come certamente noi  non  lo 
      dimenticheremo nelle nostre feste." 
      Quantunque  la  presentazione  fosse composta di troppo grossolane 
      lodi,  in generale,  è una cosa tanto rara che  un  uomo  venga  a 
      Parigi per spendervi in un anno la fortuna di un principe,  che la 
      signora Danglars dette un'occhiata al conte non priva d'interesse. 
      "E siete giunto?" domandò la baronessa. 
      "Da ieri mattina, signora." 
      "E venite,  secondo la vostra abitudine a quanto mi è stato detto, 
      di capo al mondo..." 
      "Da Cadice questa volta, puramente e semplicemente da Cadice." 
      "Ah,  giungete  in  una  triste  stagione...  Parigi nell'estate è 
      detestabile: non vi sono più né  balli,  né  riunioni,  né  feste. 
      L'opera  italiana  è  a  Londra;  l'opera  francese è dappertutto, 
      fuorché a Parigi;  e in quanto al teatro francese,  voi sapete che 
      non  è  più in alcun luogo.  Non ci resta dunque per distrarci che 
      qualche sfortunata corsa al Campo di Marte,  ed a  Satory.  Farete 
      correre cavalli, signor conte?" 
      "Io,  signora,  farò  tutto  ciò  che  si  fa  a  Parigi"  rispose 
      Montecristo,  "se  avrò  la  fortuna  di  ritrovare  qualcuno  che 
      m'informi convenientemente delle abitudini francesi." 
      "Siete un amatore di cavalli, signor conte?" 
      "Io  ho  passata  una  parte  della  mia  vita  in Oriente,  e gli 
      orientali,  voi lo sapete,  non stimano che  due  cose  in  questo 
      mondo: la nobiltà dei cavalli, e la bellezza delle donne." 
      "Ah,  signor conte,  avreste dovuto avere la galanteria di mettere 
      le donne per prime." 
      "Vedete, signora,  che io avevo ben ragione poco fa d'augurarmi un 
      precettore che fosse da guida nelle abitudini francesi." 
      In  quel  momento  entrò  la  cameriera  favorita  della baronessa 
      Danglars,  ed avvicinandosi alla padrona le mormorò alcune  parole 
      all'orecchio. 
      La signora impallidì. 
      "Impossibile" disse. 
      "Eppure questa è l'esatta verità, signora" rispose la cameriera. 
      La signora Danglars si volse al marito: 
      "E' vero signore?" domandò. 
      "Che cosa?" chiese Danglars visibilmente agitato. 
      "Ciò che mi ha detto la cameriera..." 
      "E che cosa vi ha detto?" 
      "Che quando il mio cocchiere è andato per attaccare i miei cavalli 
      alla carrozza, non li ha trovati in scuderia... Che significa ciò? 
      Voglio saperlo!" 
      "Signora" disse Danglars, "ascoltatemi." 
      "Oh,  io vi ascolto,  signore,  perché sono ben curiosa di sentire 
      ciò che mi saprete dire.  Farò questi signori giudici fra  noi,  e 
      comincerò  col dir loro come stanno le cose.  Signori" continuò la 
      baronessa,   "il  signor  barone  Danglars  ha  dieci  cavalli  in 
      scuderia; fra essi ve ne sono due che sono i miei grigi-pomellati. 
      Ebbene,  al  momento  in  cui  la  signora  Villefort mi chiede in 
      prestito la mia carrozza,  ed io gliel'ho promessa per  domani  al 
      Bois,  ecco  che  i  due  cavalli  non  si trovano più.  Il signor 
      Danglars avrà trovato da guadagnarvi  sopra  qualche  migliaio  di 
      franchi.  Oh,  che  schiatta  villana,  mio  Dio,  è  quella degli 
      speculatori." 
      "Signora" rispose Danglars,  "i cavalli erano troppo vivaci,  essi 
      avevano appena quattro anni, e mi facevano paura, per voi." 
      "Eh,  ben  sapete"  disse la baronessa,  "che da un mese ho al mio 
      servizio il miglior cocchiere di Parigi, a meno che non lo abbiate 
      venduto coi cavalli..." 
      "Amica cara,  ve ne troverò degli uguali,  ed anche dei più belli, 
      se  sarà  possibile,  ma che saranno cavalli docili e quieti e non 
      ispireranno simili terrori." 
      La baronessa si strinse nelle spalle coll'aria  del  più  profondo 
      disprezzo.  Danglars  non  fece mostra d'essersi accorto di questo 
      gesto, e volgendosi a Montecristo: 
      "In verità mi dispiace non avervi conosciuto prima,  signor conte" 
      disse. "So che state arredando la vostra casa..." 
      "Sì" disse il conte, "e cercavo anche dei cavalli..." 
      "Ve li avrei proposti, poiché io li ho ceduti per niente, ma, come 
      vi dissi volevo disfarmene, erano cavalli troppo focosi." 
      "Signore"  disse  il conte,  "io vi ringrazio...  Ne ho acquistati 
      questa mattina  due  molti  buoni,  e  non  a  caro  prezzo.  Anzi 
      guardate,  signor Debray, voi siete conoscitore, io credo?" Mentre 
      Debray si avvicinava alla finestra,  Danglars  si  accostò  a  sua 
      moglie. 
      "Immaginatevi,  signora"  disse  a  bassa  voce,  "sono  venuti ad 
      offrirmi un prezzo esorbitante per quei cavalli. Non so chi sia il 
      pazzo sulla via di rovinarsi che mi ha inviato questa  mattina  il 
      suo  intendente,  ma  il  fatto  è che vi ho guadagnato sedicimila 
      franchi. Non mi rimproverate, ne darò a voi quattromila, e duemila 
      ad Eugenia." 
      La  signora  Danglars  lasciò  cadere  su  Danglars  uno   sguardo 
      terribile. 
      "Oh, mio Dio!" gridò Debray. 
      "Che accade?" domandò la baronessa. 
      "Ma non m'inganno certo,  quelli sono i vostri cavalli,  attaccati 
      alla carrozza del conte." 
      "I miei grigi-pomellati?" gridò la signora Danglars. 
      E si lanciò verso la finestra. 
      "Infatti sono i miei cavalli." 
      Danglars rimase stupefatto. 
      "Possibile?" disse Montecristo fingendo meraviglia. 
      "E' incredibile!" mormorò il banchiere. 
      La baronessa disse due parole all'orecchio di Debray,  che  a  sua 
      volta si accostò al conte: 
      "La  baronessa  mi  fa  chiedere  quanto ve li ha fatti pagare suo 
      marito." 
      "Non lo so bene" disse il conte,  "è una sorpresa che mi ha  fatto 
      il mio intendente, e credo che mi costi trentamila franchi." 
      Debray andò a riportare la risposta alla baronessa. 
      Danglars  era  così pallido,  e così sconcertato che il conte fece 
      mostra d'averne pietà. 
      "Vedete  come  sono  ingrate  le  donne"  disse.   "Questa  vostra 
      preoccupazione non ha commosso per nulla la baronessa. Ingrata non 
      è la parola adatta,  dovrei dire pazza...  Ma che volete farci? Si 
      ama sempre ciò che nuoce, per cui, credetemi, barone mio, è meglio 
      lasciarle far sempre di testa loro;  se almeno se la rompono,  non 
      hanno a prendersela che con se stesse." 
      Danglars  non  rispose  una  parola:  prevedeva prossima una scena 
      disastrosa.   Le  sopracciglia  della  baronessa  si   erano   già 
      aggrottate,  e,  come  quelle  di  Giove Olimpico,  presagivano un 
      uragano. 
      Debray che lo sentiva ingrossare,  prese pretesto di un affare,  e 
      si   accomiatò.   Montecristo   che  non  voleva,   rimanendo  più 
      lungamente,  guastare una posizione da cui contava trarre  qualche 
      vantaggio, salutò la signora Danglars e si ritirò, abbandonando il 
      barone alla collera della moglie. 
      "Bene"  pensò  Montecristo  nel  ritirarsi,  "sono  pervenuto dove 
      volevo ecco che tengo nelle mie mani la pace della famiglia, e che 
      con un sol tratto vado a guadagnarmi il cuore del signore e  della 
      signora...  Quale  felicità!  Ma  in mezzo a tutto questo non sono 
      stato presentato alla signorina Eugenia Danglars,  che pure  avrei 
      desiderato  molto  conoscere.  Ma"  soggiunse  egli  con  quel suo 
      sorriso particolare, "eccoci a Parigi, ed abbiamo innanzi a noi il 
      tempo... Tutto verrà a suo tempo." 
      Con queste riflessioni il conte salì  in  carrozza  e  rientrò  in 
      casa.  Due  ore  dopo  la  signora Danglars ricevette una graziosa 
      lettera dal conte di Montecristo,  nella quale le diceva  che  non 
      volendo  cominciare  il  suo  ingresso  nel mondo parigino facendo 
      disperare una bella donna,  la supplicava  di  riprendere  i  suoi 
      cavalli.  Essi  avevano gli stessi finimenti che ella aveva veduti 
      la mattina,  soltanto in  ciascuna  rosetta  che  portavano  sotto 
      l'orecchia, il conte aveva fatto mettere un diamante. 
      Danglars ebbe pure una lettera. 
      Il  conte  gli chiedeva il permesso di perdonare alla baronessa un 
      capriccio da milionaria, e lo pregava di scusare il modo orientale 
      con cui era accompagnato il rinvio dei cavalli. 
      La sera il conte partì per Auteuil, accompagnato da Alì. 
      L'indomani  verso  le  tre,  Alì  fu  chiamato  da  un  tocco  del 
      campanello, ed entrò nel salotto del conte. 
      "Alì"  disse,  "tu  mi hai spesso accennato alla tua destrezza nel 
      lanciare il laccio..." 
      Alì fece segno di sì, e si raddrizzò con fierezza. 
      "Bene!... Così col laccio tu fermeresti un bue?" 
      Alì fece segno colla testa di sì. 
      "Una tigre?" 
      Alì fece il medesimo segno. 
      "Un leone?" 
      Alì fece il gesto dell'uomo che lancia  il  laccio,  ed  imitò  un 
      ruggito soffocato. 
      "Bene, capisco, tu sei stato a caccia del leone." 
      Alì fece un cenno orgoglioso colla testa. 
      "Ma, arresteresti nella loro corsa due cavalli furibondi?" 
      Alì sorrise. 
      "Ebbene  ascolta" disse Montecristo,  "fra poco passerà di qui una 
      carrozza trascinata da due cavalli  grigi-pomellati  imbizzarriti, 
      gli stessi che io avevo ieri.  Dovessi farti schiacciare,  bisogna 
      che fermi quella carrozza davanti alla mia porta." 
      Alì discese nella strada,  e tracciò davanti alla porta una  linea 
      nella  polvere;  quindi  rientrò e mostrò la linea al conte che lo 
      aveva seguito cogli occhi. 
      Il conte gli batté dolcemente sulla spalla,  era il  suo  modo  di 
      ringraziare  Alì.  Poi  il moro andò a fumare la pipa sul luogo in 
      cui la strada formava angolo con la casa,  mentre  Montecristo  si 
      ritirava senza più occuparsi di niente.  Verso le tre, vale a dire 
      nell'ora in cui Montecristo aspettava la  carrozza,  si  sarebbero 
      potuti  notare  in lui i segni quasi impercettibili di una leggera 
      impazienza: passeggiava in una stanza che guardava  sulla  strada, 
      tendendo  ad  intervalli  l'orecchio,  e  andando  ogni tanto alla 
      finestra da dove scorgeva Alì,  che mandava  sbuffate  di  fumo  a 
      regolari intervalli, come se fosse assorto in una oziosa fumata. 
      D'improvviso  s'intese  un rotolar lontano che si avvicinava colla 
      rapidità  del  fulmine,  quindi  comparve  una  carrozza,  il  cui 
      cocchiere  tentava  inutilmente  di  trattenere  i  cavalli che si 
      avanzavano furiosi,  coi peli irti,  e si avventavano  con  impeto 
      insensato.  In  essa,  una  giovane signora ed un ragazzo di sette 
      otto anni,  che  si  tenevano  abbracciati,  avevano  perduto  per 
      l'eccesso  della  paura,  perfino  la  forza  di mandare un grido. 
      Sarebbe bastato un  sasso  sulla  strada,  o  un  tronco  d'albero 
      staccato,  per  far  deragliare  la carrozza che già scricchiolava 
      tenendo il mezzo della strada;  giungevano dalla via le  grida  di 
      terrore di coloro che la vedevano venire. 
      In  un  baleno  Alì  depone  la pipa,  cava il laccio,  lo lancia, 
      avvolge  con  triplice  giro  le  zampe  davanti  del  cavallo  di 
      sinistra,  si  lascia  trascinare  per  tre  o quattro passi dalla 
      violenza dell'impulso,  ma dopo questi tre  o  quattro  passi,  il 
      cavallo  allacciato  si  abbatte,  cade  sul timone che spezza,  e 
      paralizza così gli sforzi che fa il cavallo rimasto in  piedi  per 
      continuare la corsa;  il cocchiere approfitta di questo momento di 
      respiro per gettarsi giù dalla serpa,  ma  già  Alì  ha  afferrato 
      colle sue mani di ferro il secondo cavallo, che nitrendo di dolore 
      si stende fremente vicino al compagno. 
      Per  tutto  ciò  non  necessitò  che  il  tempo che occorre ad una 
      pallottola per cogliere nel segno.  Ma bastò perché un uomo  della 
      casa  davanti  alla  quale accadeva questo accidente si slanciasse 
      fuori accompagnato da molti servitori.  Mentre il cocchiere apriva 
      la portiera, egli toglieva dalla carrozza la dama che con una mano 
      era aggrappata al cuscino, coll'altra stringeva al petto il figlio 
      svenuto. 
      Montecristo  li trasportò entrambi nel salone,  e li fece sdraiare 
      sul sofà. 
      "Non temete più niente, signora" disse, "siete salva." 
      La donna ritornò in sé,  e per risposta accennò al figlio con  uno 
      sguardo più eloquente di tutte le preghiere. 
      Infatti il ragazzo era sempre svenuto. 
      "Sì, signora, capisco" disse il conte esaminando il fanciullo, "ma 
      state tranquilla,  non gli è accaduto alcun male, la sola paura lo 
      ha messo in questo stato." 
      "Ah,  signore" gridò la  madre,  "non  dite  questo  soltanto  per 
      tranquillizzarmi!  Vedete come è pallido?  Figlio mio, figlio mio! 
      mio Edoardo! Rispondi dunque a tua madre. Ah,  signore,  mandate a 
      cercare  un  medico...  La  mia fortuna è di chi mi restituisce il 
      figlio!" 
      Montecristo fece un gesto per calmare la madre desolata ed aprendo 
      un bauletto ne cavò una piccola bottiglia di cristallo  di  Boemia 
      incrostata d'oro, contenente un liquore rosso come il sangue, e ne 
      lasciò cadere una sola goccia sulle labbra del ragazzo;  il quale, 
      quantunque sempre più pallido, riaprì subito gli occhi. 
      A questa vista la gioia della madre divenne quasi un delirio. 
      "Dove sono?" gridò.  "E a chi devo tanta felicità dopo  una  prova 
      così crudele?" 
      "Voi  siete,  signora"  rispose  Montecristo,  "in casa di un uomo 
      felice di avervi potuto risparmiare un dispiacere." 
      "Oh,  maledetta curiosità!" disse la dama.  "Tutta Parigi parla di 
      questi magnifici cavalli della signora Danglars, ed io ho avuto la 
      follia di volerli sperimentare. 
      "Come!"  gridò  il  conte con una sorpresa recitata stupendamente, 
      "questi cavalli sono quelli della baronessa Danglars?" 
      "Sì, signore. La conoscete?" 
      "La signora Danglars? Ho questo onore, e la mia gioia è doppia nel 
      vedervi salva dal pericolo  che  vi  hanno  fatto  correre  questi 
      cavalli mentre voi avreste potuto addebitarne me: avevo acquistati 
      questi  cavalli  dal  barone,  ma  la  baronessa mi parve talmente 
      afflitta,   che  glieli  rimandai  ieri,   pregandola  di  volerli 
      accettare dalle mie mani." 
      "Ma  allora  siete  il  conte  di  Montecristo  di cui mi ha tanto 
      parlato ieri Erminia?" 
      "Sì, signora" disse il conte. 
      "Ed io, signore, Luigia Villefort." 
      Il conte la salutò,  come se questo cognome gli  fosse  del  tutto 
      nuovo. 
      "Oh,  quanto  vi  sarà  riconoscente il signor Villefort!" riprese 
      Luigia.  "Perché vi dovrà la vita di noi due,  gli avrete resa  la 
      moglie  ed il figlio!  Senza il vostro generoso servitore,  questo 
      caro ragazzo ed io saremmo rimasti uccisi." 
      "Purtroppo,  signora...  Fremo ancora,  pensando al  pericolo  che 
      avete corso." 
      "Spero  che  mi  permetterete  di compensare degnamente lo zelo di 
      quest'uomo?" 
      "Signora" rispose Montecristo, "non mi guastate Alì,  ve ne prego, 
      né  con  elogi,  né  con ricompense;  non voglio che prenda queste 
      abitudini. Alì è mio schiavo;  salvandovi la vita,  ha servito me, 
      ed è suo dovere servirmi." 
      "Ma  egli ha arrischiata la sua vita!" disse la signora Villefort, 
      sulla quale quel tono padronale aveva un singolare ascendente. 
      "Ed io ho salvato  la  sua,  signora"  rispose  Montecristo,  "per 
      conseguenza mi appartiene." 
      La signora Villefort tacque;  forse rifletteva su questo uomo, che 
      dal primo momento faceva tanta impressione sugli spiriti.  Durante 
      questi momenti di silenzio, il conte ebbe agio di considerare quel 
      ragazzo, che la madre copriva di tanti baci. 
      Era  piccolo,  gracile,  bianco di pelle come i bambini rossi,  ad 
      onta di una foresta di capelli neri, ribelli ad ogni acconciatura, 
      che ne copriva la fronte rotondeggiante, e cadendo sulle spalle ne 
      contornava il viso e raddoppiava la vivacità degli occhi pieni  di 
      furba  malizia  e  di  giovanile  cattiveria;   la  bocca,  appena 
      ritornata  vermiglia,   era  sottile   nelle   labbra,   e   larga 
      nell'apertura:  i  lineamenti  di  questo  ragazzino di otto anni, 
      dimostravano un'età almeno di dodici.  Il primo  movimento  fu  di 
      sciogliersi con una rozza scossa dalle braccia di sua madre,  e di 
      andare ad aprire il bauletto da dove  il  conte  aveva  tratta  la 
      boccetta d'elisir;  quindi, senza domandare il permesso ad alcuno, 
      e come fanno di solito i fanciulli avvezzi a  soddisfare  tutti  i 
      loro capricci, si mise a levare il turacciolo a tutte le ampolle. 
      "Non toccate queste,  amico mio" disse subito il conte, "alcuni di 
      questi liquori sono pericolosi non soltanto a bersi,  ma anche  ad 
      odorarsi." 
      La  signora  Villefort impallidì e fermò il braccio del figlio che 
      ricondusse a sé; ma appena sedato il timore, gettò sul bauletto un 
      breve ma espressivo sguardo, che il conte afferrò a volo. 
      In quel momento entrò Alì. 
      La signora Villefort fece un movimento di  gioia,  e  tirando  più 
      vicino a sé il ragazzo: 
      "Edoardo" gli disse,  "vedi questo buon servitore?  E' stato molto 
      coraggioso,  perché ha rischiato la sua vita per fermare i cavalli 
      che  ci  trascinavano  e  la carrozza ch'era vicina a fracassarsi: 
      ringrazialo dunque,  perché senza di lui a quest'ora saremmo forse 
      morti." 
      Il ragazzo allungò le labbra, e voltò sdegnosamente la testa: 
      "E' troppo brutto" disse. 
      Il  conte  sorrise  come  se  il ragazzo confermasse una delle sue 
      speranze. 
      Quanto alla signora Villefort sgridò il figlio  tanto  blandamente 
      che  non  avrebbe  certamente soddisfatto Rousseau,  se il piccolo 
      Edoardo si fosse chiamato Emilio. 
      "Vedi" disse in arabo il conte ad Alì,  "questa signora prega  suo 
      figlio di ringraziarti per la vita che tu hai salvata ad entrambi, 
      ed il ragazzo risponde che sei troppo brutto." 
      Alì  per  un  momento  volse la testa intelligente,  ed osservò il 
      fanciullo apparentemente senza espressione, ma un semplice tremito 
      della sua narice fece capire a Montecristo ch'era  rimasto  ferito 
      nell'anima. 
      "Signore"  chiese  la  signora  Villefort alzandosi per ritirarsi, 
      "questa casa è la vostra abitazione stabile?" 
      "No, signora" rispose il conte,  "è una specie di luogo di riposo, 
      che  ho  acquistato:  io  abito  all'entrata  degli Champs-Elysées 
      numero 30. Ma vedo che vi siete del tutto rimessa e che desiderate 
      ritirarvi.  Ho ordinato che siano attaccati alla mia carrozza quei 
      medesimi  cavalli;  e  Alì,  quel servitore così brutto" diss'egli 
      sorridendo al ragazzino, "avrà l'onore di condurvi a casa,  mentre 
      il  vostro  cocchiere  resterà qui per fare accomodare la vettura. 
      Così appena terminata  questa  piccola  faccenda,  una  delle  mie 
      pariglie la ricondurrà direttamente dalla signora Danglars." 
      "Ma"  disse  la  signora  Villefort,  "non avrò mai il coraggio di 
      ritornare con gli stessi cavalli." 
      "Oh, vedrete,  signora,  che sotto la mano d'Alì diventeranno come 
      agnelli." 
      Alì  si  era  già  avvicinato  ai  cavalli,  e a grande stento era 
      riuscito a farli tornare in piedi. 
      Egli teneva in mano una piccola spugna imbevuta d'aceto aromatico; 
      strofinò le narici e le tempie dei cavalli, coperti di sudore e di 
      schiuma,  che quasi subito si misero a  soffiare  fortemente  e  a 
      fremere  per  qualche  secondo.  Quindi,  in  mezzo  ad  una folla 
      numerosa  richiamata  dall'avvenimento  e  dalla   rottura   della 
      carrozza  innanzi casa,  Alì fece attaccare i cavalli al coupé del 
      conte, riunì le redini,  salì sul seggio,  e con grande stupore di 
      tutti  gli  assistenti  che avevano veduto questi cavalli travolti 
      come da un turbine, pur obbligato ad usare vigorosamente la frusta 
      per farli partire,  non poté ottenere dai famosi grigio-pomellati, 
      ora  intontiti,  pietrificati,  insonnoliti,  che  un trotto tanto 
      malsicuro e languido,  che occorsero alla signora Villefort  quasi 
      due ore per giungere al Faubourg Saint-Honoré dove abitava. 
      Appena  giunta  a  casa,  e calmate le prime emozioni di famiglia, 
      scrisse subito il seguente biglietto alla signora Danglars. 
 
      "Cara Erminia, 
      sono stata miracolosamente salvata insieme a mio figlio da  quello 
      stesso  conte  di  Montecristo,  di  cui  ieri sera mi avete tanto 
      parlato,  e che ero lungi dal credere che avrei veduto oggi.  Ieri 
      mi  parlaste  di  lui con un entusiasmo tale ch'io non potei far a 
      meno di scherzarne con tutto  il  mio  piccolo  spirito,  ma  oggi 
      ritrovo  questo  entusiasmo  molto  al  disotto  dell'uomo  che lo 
      ispirava.  I vostri cavalli avevano preso la mano a Ranelagh  come 
      fossero  stati invasi dalla frenesia,  e noi probabilmente saremmo 
      andati in pezzi,  Edoardo ed io,  contro  il  primo  albero  della 
      strada od il primo muro del villaggio,  quando un arabo,  un moro, 
      uno della Nubia, un uomo nero infine,  al servizio del conte,  ha, 
      dietro un suo cenno,  io credo, fermato lo slancio dei cavalli col 
      rischio di essere egli stesso ucciso, ed è proprio un miracolo che 
      non lo sia stato.  Allora il conte è accorso,  e ci ha portati  in 
      casa  sua,  ed  ha  richiamato  mio  figlio  alla vita.  Nella sua 
      carrozza fui ricondotta a casa,  domani vi sarà mandata la vostra. 
      Ritroverete i vostri cavalli avviliti dopo questo accidente;  sono 
      divenuti come ebeti,  si direbbe che non possono  perdonare  a  se 
      stessi  di  essersi  lasciati  vincere da un uomo.  Il conte mi ha 
      incaricata di dirvi che due giorni di riposo sulla paglia ed  orzo 
      per  solo nutrimento,  li rimetteranno nello stesso stato florido, 
      vale a dire spaventoso, come lo erano ieri. 
      Addio, non vi ringrazio della mia passeggiata. Tuttavia, quando vi 
      rifletto,  è un'ingratitudine conservarvi rancore per il capriccio 
      della vostra pariglia, poiché ad essa devo di aver veduto il conte 
      di  Montecristo:  e l'illustre forestiero mi sembra,  prescindendo 
      dai milioni di cui può disporre,  un enigma così  curioso  e  così 
      importante,  che conto di studiarlo ad ogni costo,  dovessi ancora 
      rifare un altra passeggiata al Bois coi vostri cavalli. 
      Edoardo ha sopportato l'avventura con un coraggio  miracoloso.  E' 
      svenuto,  ma non ha mandato un grido prima, né versata una lacrima 
      dopo.  Direte ancora che il mio amore materno mi acceca,  ma vi  è 
      un'anima  di  ferro  in  quel  piccolo  corpo  così gracile e così 
      delicato. 
      La nostra cara Valentina  manda  tanti  saluti  alla  vostra  cara 
      Eugenia; io vi abbraccio di tutto cuore. 
      Luigia Villefort 
      Post  scriptum.   Fatemi  dunque  incontrare  in  casa  vostra  in 
      qualunque modo col  conte  di  Montecristo,  voglio  assolutamente 
      rivederlo.  Del  resto  ho  ottenuto  dal signor Villefort che gli 
      faccia una visita; spero che gliela restituirà." 
 
      In serata l'avventura d'Auteuil formava l'argomento  di  tutte  le 
      conversazioni:  Alberto la raccontava a sua madre,  Chateau-Renaud 
      al Jockey Club, Debray nella sala del ministro,  Beauchamp fece al 
      conte  la cortesia di inserire nel suo giornale,  sotto la rubrica 
      dei "Fatti diversi",  un  racconto  di  venti  lunghe  righe,  che 
      introdusse  il  nobile straniero come un eroe presso tutte le dame 
      dell'aristocrazia. 
      Molte persone andarono a  farsi  iscrivere  nell'anticamera  della 
      signora  Villefort,  per avere poi il diritto di rinnovare la loro 
      visita in tempo utile,  e di sentire dalla bocca di  lei  tutti  i 
      particolari di questa pittoresca avventura. 
      In quanto al signor Villefort,  come aveva scritto Luigia, indossò 
      un abito nero, guanti bianchi,  e salì nella sua carrozza,  che si 
      fermò al numero 30 all'entrata degli Champs-Elysées. 
                                 Capitolo 47. 
                                  IDEOLOGIA. 
 
 
      Se  il  conte  di  Montecristo avesse vissuto da lungo tempo nella 
      società parigina,  avrebbe apprezzato in tutto il  suo  valore  la 
      gentilezza che gli faceva Villefort colla sua visita. 
      Ben  visto a corte,  tanto se regnava un re del ramo primogenito o 
      del ramo cadetto,  tanto se governava un  ministro  dottrinario  o 
      conservatore;   reputato   abile   da  tutti,   come  si  reputano 
      generalmente abili tutte  le  persone  che  non  hanno  mai  avuto 
      declini  politici;  odiato  da  molti,  ma  caldamente protetto da 
      certuni,  senza però essere amato da alcuno,  il signor  Villefort 
      aveva  un  alto  posto  nella  magistratura,  e si teneva a questa 
      altezza come un Harlay, o come un Molé. 
      Il suo salone, rimodernato da una giovane sposa e da una figlia di 
      primo letto dell'età appena  di  diciotto  anni,  non  valeva  ciò 
      nonostante meno di quei salotti aristocratici di Parigi, in cui si 
      conserva  il culto delle tradizioni e la religione dell'etichetta. 
      La fredda cortesia,  la fedeltà assoluta ai principi del  governo, 
      un disprezzo profondo delle teorie e dei teoretici, un odio grande 
      alle  ideologie,  tali  erano  gli  elementi  della vita interna e 
      pubblica professati dal signor Villefort. 
      Non era solamente un magistrato, era quasi un diplomatico.  Le sue 
      relazioni colla vecchia corte, di cui parlava sempre con dignità e 
      rispetto lo facevano rispettare dalla nuova;  sapeva tante cose, e 
      non solo era sempre lodato, ma spesso anche consultato; e tuttavia 
      in molti sarebbero stati lieti, se avessero potuto sbarazzarsi del 
      signor Villefort.  Ma abitava come i signori feudatari ribelli  al 
      loro sovrano,  una fortezza inespugnabile.  Questa fortezza era la 
      sua  carica  di  procuratore  del   re,   di   cui   si   avvaleva 
      scrupolosamente   a  proprio  vantaggio  e  che  avrebbe  lasciato 
      soltanto per cambiare la neutralità in opposizione. 
      In generale faceva o  rendeva  raramente  visite,  sua  moglie  le 
      faceva  in  sua  vece,  cosa  accettata in questa società,  ove si 
      teneva conto delle gravi e numerose occupazioni del magistrato. Ma 
      ciò in realtà non era che un calcolo  d'orgoglio,  una  accortezza 
      d'aristocratico,   l'applicazione  infine  dl  quest'assioma:  fai 
      mostra di stimarti e sarai stimato,  assioma mille volte più utile 
      nella  nostra  società  di  quello dei greci: "conosci te stesso", 
      sostituito  ai  nostri  giorni  dall'arte  meno  difficile  e  più 
      vantaggiosa del "conoscete gli altri".  Per i suoi amici Villefort 
      era un possente protettore; per i suoi nemici un avversario sordo, 
      ma accanito per gli indifferenti la statua della legge fatta uomo: 
      aspetto altero, fisionomia impassibile, sguardo fosco ed appannato 
      o insolentemente penetrante e scrutatore.  Tale era l'uomo  a  cui 
      quattro  avvenimenti,   abilmente  intrecciati  l'uno  all  altro, 
      avevano da prima costruito, poi cementato il piedistallo. 
      Il signor Villefort aveva la reputazione  di  essere  l'uomo  meno 
      curioso, meno allegro di Francia. 
      Dava  un  ballo  tutti  gli  anni,  ma non vi compariva che per un 
      quarto d'ora;  non si vedeva mai né ai  teatri,  né  ai  concerti; 
      qualche  volta,  ma  raramente,  faceva  una partita di whist,  ma 
      allora aveva cura di scegliere giocatori  degni  di  lui,  qualche 
      ambasciatore,  qualche  primo presidente o infine qualche duchessa 
      primogenita. 
      Ecco qual era l'uomo la cui carrozza si era fermata  davanti  alla 
      porta del conte di Montecristo. 
      Il  cameriere  annunziò il signor Villefort,  al momento in cui il 
      conte,  chino  sopra  una  gran  tavola,   seguiva  su  una  carta 
      geografica un itinerario da Pietroburgo alla Cina. 
      Il  procuratore  del  re  entrò  con  quello  stesso passo grave e 
      misurato,  con cui era solito andare al tribunale;  era lo  stesso 
      uomo,  che noi abbiamo conosciuto a Marsiglia. La natura, aderente 
      ai suoi principi,  nulla aveva cambiato in costui nel corso  degli 
      anni.  Da snello era divenuto magro, da pallido, giallo, gli occhi 
      infossati erano cavi,  gli  occhiali  legati  in  oro,  appoggiati 
      sull'orbita, sembravano far parte del viso; eccettuata la cravatta 
      bianca,  tutto  il  suo  vestito era completamente nero;  e questo 
      colore  funebre  non  era  interrotto  che  dalla  striscia  della 
      fettuccia rossa che appariva impercettibilmente dall'occhiello del 
      suo abito, e che sembrava una linea di sangue tirata col pennello. 
      Per  quanto  Montecristo  fosse  padrone  di  sé,  esaminò con una 
      visibile curiosità,  rendendogli il  saluto,  il  magistrato  che, 
      diffidente per abitudine, e poco credulo soprattutto nelle materie 
      sociali,  era più disposto a vedere nel nobile straniero, chiamato 
      Montecristo,  un cavaliere d'industria  che  cercasse  nuove  zone 
      d'espansione,  o  un  malfattore in esilio perché ricercato al suo 
      paese, piuttosto che un principe dello Stato romano, od un sultano 
      delle Mille e una notte. 
      "Signore" disse Villefort,  con quel tono lamentevole che assumono 
      i  magistrati nelle loro perorazioni,  e di cui non vogliono o non 
      possono  disfarsi  nella  conversazione,  "signore,   il  prezioso 
      servizio che ieri avete reso a mia moglie ed a mio figlio mi fanno 
      obbligo di ringraziarvi.  Vengo dunque a compiere questo dovere, e 
      ad esprimervi tutta la mia riconoscenza." 
      E nel pronunciare queste parole,  l'occhio severo  del  magistrato 
      nulla aveva perduto della sua abituale arroganza. 
      "Signore"  disse  il  conte a sua volta con una freddezza di gelo, 
      "sono molto fortunato di aver potuto conservare un  figlio  a  sua 
      madre,  perché  si  dice che il sentimento di maternità sia il più 
      possente,  com'è il più santo di tutti,  e questa fortuna  che  mi 
      sono  procurata  vi dispensava,  signore dal compiere un dovere di 
      cui certamente mi onoro,  poiché so che il  signor  Villefort  non 
      prodiga facilmente il suo favore, ma che, per quanto prezioso, non 
      vale per me l'interna soddisfazione." 
      Villefort stupito da questa uscita, che non si aspettava, fremette 
      come  un  soldato  che avverte il colpo malgrado l'armatura che lo 
      protegge: una piega sdegnosa del labbro indicò che non riteneva il 
      conte di Montecristo un gentiluomo ben educato. 
      Girò gli occhi intorno a sé,  come per riattaccare con un pretesto 
      la  conversazione  che  era  già  caduta  e  che  sembrava essersi 
      infranta cadendo.  Vide la carta su cui  era  assorto  Montecristo 
      quando egli era entrato e riprese: 
      "Vi occupate di geografia,  signore?  Questo è un prezioso studio, 
      per voi particolarmente,  che,  a quanto si  assicura,  avete  già 
      visti tanti paesi quanti ne sono incisi su quella carta." 
      "Sì,  signore"  rispose il conte,  "io ho voluto fare sulla specie 
      umana colta nella vita abituale,  ciò che  voi  fate  ogni  giorno 
      sulle   individualità   eccezionali,   vale   a  dire  uno  studio 
      fisiologico.  Ho pensato che mi sarebbe più facile discendere  dal 
      tutto al particolare,  che dal particolare salire al tutto.  E' un 
      assioma algebrico che vuole che si proceda dal noto  all'ignoto... 
      Ma sedetevi dunque, ve ne supplico..." 
      E  Montecristo  indicò colla mano al procuratore del re una sedia, 
      che questi dovette prendersi da solo, mentre il conte non ebbe che 
      la  briga  di  lasciarsi  ricadere  sulla  stessa   su   cui   era 
      inginocchiato quando era entrato il procuratore del re.  In questo 
      modo il conte si ritrovò per metà voltato verso il suo visitatore, 
      avendo le spalle alla finestra ed il gomito appoggiato sulla carta 
      geografica,   che  per  il  momento  formava  il  soggetto   della 
      conversazione. E il dialogo prendeva, come era accaduto da Morcerf 
      e  da  Danglars,   una  piega  del  tutto  analoga,  se  non  alla 
      situazione, almeno al personaggio. 
      "Ah,  voi  filosofate"  riprese  Villefort,  dopo  un  momento  di 
      silenzio  durante  il quale,  come un atleta che incontra un forte 
      avversario, aveva riunite le sue forze. "Ebbene,  signore,  parola 
      d'onore,   se  come  voi  non  avessi  nulla  da  fare,  cercherei 
      un'occupazione meno triste." 
      "E' vero,  signore" rispose Montecristo,  "e  l'uomo  è  un  laido 
      verme,  se  si osserva col microscopio;  ma voi avete detto che io 
      non ho niente da fare... Vediamo,  credereste per caso di aver voi 
      qualche cosa da fare?  o, per parlare più chiaramente, credete che 
      ciò che fate possa chiamarsi qualche cosa?" 
      Lo stupore di Villefort raddoppiò a  questo  secondo  colpo,  così 
      brutalmente vibrato dal suo strano avversario;  era gran tempo che 
      il magistrato non si era  sentito  dire  un  paradosso  di  questa 
      forza, o piuttosto, per parlare più rettamente, era la prima volta 
      che lo sentiva. 
      Il procuratore del re si mise a riflettere per rispondere. 
      "Signore" disse,  "voi siete straniero, e lo dite voi stesso ma io 
      reputo che,  avendo trascorsa gran parte  della  vostra  vita  nei 
      paesi orientali,  dove la giustizia umana è piuttosto spiccia, non 
      vi rendiate conto come mai abbia preso  un  andamento  prudente  e 
      moderato." 
      "Sia,  signore,  sia;  è  il  piede zoppo degli antichi.  So tutto 
      questo,  perché è particolarmente della giustizia di tutti i paesi 
      che  mi  sono  occupato,  è  la  procedura giudiziaria di tutte le 
      nazioni che io ho paragonata colla  giustizia  naturale;  e  debbo 
      dirlo,  signore,  è ancora la legge dei popoli primitivi, la legge 
      del taglione che ho ritrovata la più conforme al bisogno e la  più 
      esaustiva." 
      "Se  questa  legge  fosse adottata semplificherebbe molto i nostri 
      codici,  ed allora per il colpo che  ne  riceverebbero,  i  nostri 
      magistrati,  come dicevate or ora,  non avrebbero più gran cosa da 
      fare." 
      "Ciò accadrà forse nell'avvenire" disse Montecristo.  "Sapete  che 
      le invenzioni umane progrediscono dal composto al semplice,  e che 
      il semplice è sempre la perfezione." 
      "Mentre si aspetta questo avvenire però" disse il magistrato,  "vi 
      sono  i  nostri  codici coi loro articoli contraddittori tolti dai 
      gallici costumi, dalle leggi romane, e dagli usi franchi... Ora la 
      conoscenza di tutte queste leggi,  ne converrete,  non si acquista 
      che  con  lunghi  lavori  ed  abbisogna  certo un lungo studio per 
      acquisire tale conoscenza, ed una gran forza di memoria perché non 
      si abbia più a dimenticare una volta acquistata." 
      "Io sono del vostro parere,  signore;  ma  tutto  ciò  che  sapete 
      riguardo a questo codice francese, lo so io pure, ma non solamente 
      riguardo  a  questo  codice,  ma  a quello di tutte le nazioni: le 
      leggi indiane, turche,  giapponesi mi sono tanto famigliari quanto 
      le leggi francesi.  Avevo dunque ragione di dire che relativamente 
      (perché tutto è relativo) a tutto ciò che ho fatto io,  voi  avete 
      fatto ben poco,  e che relativamente a quanto ho imparato io,  voi 
      avete molto da imparare." 
      "Ma  con  quale  scopo  voi  avete  appreso  tutto  ciò?"  rispose 
      Villefort meravigliato. 
      Montecristo sorrise. 
      "Bene,  signore" disse, "vedo che ad onta della reputazione per la 
      quale vi si ritiene un uomo superiore,  voi vedete ogni cosa sotto 
      il  punto  di vista più ristretto,  più circoscritto che sia stato 
      permesso all'umana intelligenza dl abbracciare." 
      "Spiegatevi"  disse  Villefort  sempre  più  costernato,  "non  vi 
      capisco.. molto bene." 
      "Dico, signore, che cogli occhi fissi sulla organizzazione sociale 
      delle nazioni,  voi non vedete che le molle della macchina,  e non 
      conoscete davanti a voi,  e intorno a  voi,  che  i  titolari  dei 
      posti,  i  cui  diplomi sono stati firmati dal ministro o dal re e 
      che gli uomini che Dio ha  messo  al  disopra  dei  titolari,  dei 
      ministri  e  del  re  dando loro una missione da compiere e non un 
      posto da occupare,  io dico che questi sfuggono alla vostra  corta 
      vista.  Ciò è proprio dell'umana debolezza,  e degli organi deboli 
      ed imperfetti.  Tobia prendeva l'angelo che  doveva  rendergli  la 
      vista  per  un giovane comune,  le nazioni prendevano Attila,  che 
      doveva annientarle,  per un conquistatore come tutti gli altri: fu 
      necessario che entrambi svelassero la loro missione celeste perché 
      gli  uomini  comprendessero.  Bisognò  che  uno  dicesse: "Io sono 
      l'angelo del Signore!" e l'altro: "Io sono il  flagello  di  Dio!" 
      perché la missione divina fosse rilevata." 
      "Allora" disse Villefort con stupore sempre crescente,  e credendo 
      di parlare ad un pazzo o ad un ispirato,  "voi vi considerate come 
      uno di questi esseri straordinari che avete nominati?" 
      "E perché no?" disse freddamente Montecristo. 
      "Perdonatemi,   signore"  riprese  Villefort  sbalordito,  "ma  mi 
      scuserete se, presentandomi a voi, non sapevo di presentarmi ad un 
      uomo, il cui sapere e il cui spirito sorpassano di tanto il sapere 
      e lo spirito ordinario ed abituale degli uomini. Non è usanza, fra 
      noi infelici,  corrotti  dall'incivilimento,  che  i  gentiluomini 
      possessori come voi di un'immensa fortuna,  almeno a ciò che mi si 
      assicura, notate bene che io non interrogo, ma ripeto soltanto ciò 
      che  ho  inteso,  non  è  usanza  fra  noi,  dicevo,   che  questi 
      privilegiati  perdano  il  loro tempo in speculazioni sociali,  in 
      astrazioni filosofiche, fatte tutt'al più per consolare quelli che 
      la sorte ha diseredati dei beni della terra." 
      "Eh,  signore" riprese il conte,  "siete dunque  giunto  al  posto 
      eminente  che  occupate  senza aver mai fatta o incontrata qualche 
      eccezione?  E non esercitate  mai  il  vostro  sguardo,  che  pure 
      avrebbe bisogno di molta finezza e sicurezza, ad indovinare con un 
      sol  colpo  chi  è caduto sotto questo sguardo?  Un magistrato non 
      dovrebbe essere, non dico il migliore applicatore della legge, non 
      il più astuto interprete  delle  oscurità  della  cabala,  ma  uno 
      specchio d'acciaio per provare i cuori, una pietra di paragone per 
      scandagliare  l'oro  che  in ciascun animo si trova sempre misto a 
      qualche altra lega." 
      "Signore" disse Villefort, "voi mi confondete;  non ho mai sentito 
      parlare come voi." 
      "E'  che siete sempre rimasto chiuso nel cerchio delle convenzioni 
      abituali,  perché non avete mai osato  innalzarvi  con  un  batter 
      d'ali  nelle sfere superiori che sono popolate d'esseri invisibili 
      ed eccezionali." 
      "Ammettete dunque, signore,  che vi siano queste sfere,  e che gli 
      esseri eccezionali e invisibili si mischino a noi?" 
      "E  perché no?  Vedete voi forse l'aria che respirate,  e senza la 
      quale non potreste vivere?" 
      "Allora non vediamo questi esseri di cui parlate?" 
      "Voi  li  potete  vedere  ogni  qualvolta  che  questi  esseri  si 
      materializzano,  voi li toccate allora,  li urtate,  parlate loro, 
      essi vi rispondono." 
      "Ah" disse Villefort sorridendo,  "vi confesso che  vorrei  essere 
      avvertito  quando  uno di questi esseri si metterà in contatto con 
      me." 
      "Voi siete stato servito a seconda del vostro desiderio,  signore, 
      poiché poco fa siete stato avvisato, ed ora pure vi avverto." 
      "Così, voi stesso..." 
      "Io  sono  uno di questi esseri eccezionali,  sì,  signore,  io lo 
      credo,  sino ad oggi nessun uomo si è  trovato  in  una  posizione 
      simile  alla  mia.  I  regni  dei re sono circoscritti,  sia dalle 
      montagne,  sia dai fiumi,  sia da un cambiamento di costumi  o  di 
      favelle.  Il  mio  regno è grande come il mondo perché non sono né 
      italiano, né francese, né indiano,  né americano,  né spagnolo: io 
      sono cosmopolita.  Nessuno può dire di avermi veduto nascere;  Dio 
      solo sa quale terra mi vedrà morire.  Io adotto  tutti  i  costumi 
      parlo tutte le lingue; voi mi credete francese, non è vero, perché 
      parlo  il francese colla stessa facilità e purezza di voi?  Ebbene 
      Alì, il mio moro, mi crede arabo; Bertuccio,  il mio intendente mi 
      crede  romano;  Haydée,  la  mia schiava,  mi crede greco.  Dunque 
      capirete  che  non  essendo  di  alcun   paese,   non   domandando 
      protezione,  non riconoscendo alcun uomo per mio fratello,  non un 
      solo scrupolo che arresta i potenti,  non un  solo  ostacolo,  che 
      paralizza i deboli, può arrestarmi, e paralizzarmi. Non ho che due 
      avversari,  non  dico  due  vincitori  perché  li sottometto colla 
      tenacia: la distanza ed il tempo. Il terzo, ed é il più terribile, 
      sta nella mia condizione di mortale.  Ciò solo può fermarmi  nella 
      strada  che  percorro  e prima che abbia conseguito lo scopo a cui 
      miro tutto il resto l'ho calcolato.  Ciò che gli  uomini  chiamano 
      capricci della fortuna,  vale a dire la rovina,  i cambiamenti, le 
      eventualità,  li ho tutti prevenuti,  e se qualcuno può  colpirmi, 
      nessuno può rovesciarmi. A meno che non muoia, sarò sempre ciò che 
      sono.  Ecco  perché  vi  dico  cose  che  voi non avete mai intese 
      neppure dalla bocca dei re,  perché i re hanno bisogno di  voi,  e 
      gli altri uomini hanno paura di voi. Chi è colui che non supponga, 
      in  una  società  ben  ordinata quanto la nostra: "Forse un giorno 
      posso aver a che fare col procuratore del re?" 
      "Ma voi stesso potete dir questo, perché,  dal momento che abitate 
      la Francia, siete naturalmente sottoposto alle leggi francesi." 
      "Lo so, signore" rispose Montecristo, "ma quando devo andare in un 
      paese,   comincio   con  lo  studiare,   con  mezzi  che  mi  sono 
      particolari,  tutti gli uomini dai quali posso avere qualche  cosa 
      da  sperare o da temere,  e giungo a conoscerli molto bene,  forse 
      meglio ancora di quello che non  si  conoscano  loro  stessi.  Ciò 
      porta ad un risultato: che il procuratore del re, qualunque fosse, 
      con  cui  avessi a che fare,  sarebbe certamente più impacciato di 
      me." 
      "Ciò vuol dire" riprese con  cautela  Villefort,  "che  la  natura 
      umana è debole,  ed ogni uomo, secondo voi, ha commesso qualche... 
      sbaglio." 
      "Sbaglio o delitto..." rispose negligentemente Montecristo. 
      "E che solo,  fra gli uomini,  che non riconoscete  per  fratelli, 
      come   avete   detto   voi  stesso"  riprese  Villefort  con  voce 
      leggermente alterata, "voi solo siete perfetto." 
      "Non perfetto" disse il  conte:  "impenetrabile;  ecco  tutto.  Ma 
      tronchiamo  questo  argomento,  signore,  se  la  conversazione vi 
      dispiace...  Tanto più se vi  sentite  più  minacciato  dalla  mia 
      profonda vista di quanto io lo sia dalla vostra giustizia." 
      "No  signore!"  disse  vivamente  Villefort,  che senza dubbio non 
      voleva apparire sconfitto,  "no!  Con la vostra brillante e  quasi 
      sublime  conversazione  mi avete innalzato al di sopra dei livelli 
      ordinari;  noi  non  parliamo  dissertiamo.   Voi  sapete  come  i 
      professori in cattedra,  ed i filosofi nelle loro dispute,  dicano 
      qualche volta delle crudeli verità.  Fingiamo dunque di  fare  una 
      disputa  sociale  o  filosofica,  vi dirò,  dunque,  per quanto vi 
      sembri duro: "Caro fratello, voi vi sacrificate all'orgoglio;  voi 
      siete al di sopra degli altri, ma al di sopra di voi sta Dio!". 
      "Al  di sopra di tutti,  signore!" rispose Montecristo con accento 
      così profondo che Villefort ne fremette involontariamente.  "Ho il 
      mio  orgoglio  per  gli uomini: serpenti sempre pronti a drizzarsi 
      contro colui che li sorpassa,  senza schiacciarli col piede: ma lo 
      depongono davanti a Dio, che mi ha tolto dal niente per farmi quel 
      che sono." 
      "Allora, signor conte, vi ammiro" disse Villefort che per la prima 
      volta,   in  questo  strano  dialogo,   impiegava  questa  formula 
      aristocratica con lo straniero,  che fino  allora  aveva  chiamato 
      soltanto  signore.  "Sì,  ve  lo  dico,  se siete realmente forte, 
      superiore, sano e impenetrabile, ciò che è la stessa cosa, siatene 
      superbo,  questa è la legge dei domatori.  Ma voi pertanto  avrete 
      qualche ambizione?" 
      "Ne ho avuta una, signore." 
      "E quale?" 
      "Ho desiderato di essere fatto strumento della Provvidenza." 
      Villefort guardò Montecristo con somma meraviglia. 
      "Signor conte" disse, "non avete parenti?" 
      "No, signore, sono solo in questo mondo." 
      "Tanto peggio!" 
      "Perché?" domandò Montecristo. 
      "Perché avreste potuto vedere uno spettacolo atto ad infrangere il 
      vostro orgoglio. Non temete che la morte, diceste?" 
      "Non dico di temerla; dico ch'essa sola può arrestarmi." 
      "E la vecchiaia?" 
      "La mia missione sarà compiuta prima che sia vecchio." 
      "E la pazzia?" 
      "Poco è mancato che non diventassi pazzo,  e voi sapete l'assioma: 
      " Non due volte nella stessa situazione",  "Non bis in idem": è un 
      assioma giudiziario, e perciò nella vostra sfera." 
      "Signore,  vi è ancora un'altra cosa da temersi oltre la morte, la 
      vecchiaia, o la pazzia; vi è,  per esempio,  l'apoplessia,  questo 
      colpo  di  fulmine che vi colpisce senza distruggervi,  ma dopo il 
      quale però tutto è finito; siete sempre voi,  e ciò nonostante non 
      siete   più   voi.   Venite,   se   vi   piace  continuare  questa 
      conversazione,  venite in casa mia,  signor conte,  un giorno  che 
      abbiate   volontà   d'incontrarvi   in  un  avversario  capace  di 
      comprendervi ed avido di confutarvi e vi mostrerò  mio  padre,  il 
      signor  di  Noirtier  Villefort,  un uomo che come voi,  non aveva 
      forse veduto tutti  i  regni  della  terra,  ma  aveva  aiutato  a 
      rovesciarne  uno  dei  più forti;  un uomo che come voi si credeva 
      inviato da Dio,  dall'Essere supremo,  dalla Provvidenza.  Ebbene, 
      signore,  la  rottura di un vaso sanguigno in un lobo del cervello 
      ha rovinato tutto questo; non in un giorno,  non in un'ora,  ma in 
      un secondo.  Il giorno prima il signor Noirtier disprezzava tutto, 
      il  giorno  dopo  era  quel  povero  Noirtier  vecchio   immobile, 
      abbandonato alla volontà dell'essere più debole della casa, vale a 
      dire  sua  nipote Valentina: infine cadavere muto ed agghiacciato, 
      che vive senza gioie, e spero, senza soffrire." 
      "Ahimè,  signore,  questo spettacolo non è nuovo né ai miei occhi, 
      né al mio pensiero" disse Montecristo. "Sono un poco medico, e qui 
      rammenterò  che  la  Provvidenza si palesa nei fatti che ci cadono 
      sotto gli occhi, e non potete negarlo. Cento autori, dopo Socrate, 
      dopo Seneca,  hanno fatto in prosa e in versi  l'accostamento  che 
      avete fatto voi...  Tuttavia capisco che le sofferenze di un padre 
      possono operare,  nello spirito di un  figlio,  grandi  mutamenti. 
      Verrò  signore,  poiché  mi  impegnate,  verrò  a  contemplare,  a 
      profitto della mia umiltà,  questo  triste  spettacolo,  che  deve 
      molto contristare la vostra casa." 
      "Questo  certamente  sarebbe,  se  il  cielo non mi avesse dato un 
      largo compenso.  Al vecchio che discende trascinandosi nella tomba 
      seguono  due  figli che entrano nella vita: Valentina figlia della 
      prima moglie Renata di Saint-Méran,  ed Edoardo,  quel bambino  di 
      cui voi avete salvata la vita." 
      "E che concludete da questo confronto, signore?" 
      "Concludo"  rispose  Villefort,  "che  mio  padre,  travolto dalle 
      passioni ha  commesso  qualcuno  di  quegli  errori  che  sfuggono 
      all'umana  giustizia ma che attirano la giustizia di Dio,  che non 
      volendo punire che uno solo non ha colpito che lui." 
      Montecristo col sorriso sulle labbra, mandò dal profondo del cuore 
      un ruggito,  che avrebbe fatto fuggire  Villefort,  se  lo  avesse 
      inteso. 
      "Addio,  signore"  riprese  il  magistrato  che  si  era alzato da 
      qualche tempo e parlava in piedi,  "io parto portando una  memoria 
      di  voi piena di stima e che,  spero,  vi potrà essere più gradita 
      quando mi conoscerete meglio  poiché  non  sono  un  uomo  leggero 
      quanto  può  credersi.  D'altra parte vi siete fatto della signora 
      Villefort un'amica eterna." 
      Il conte salutò,  si contentò di accompagnare  Villefort  soltanto 
      fino alla porta del salotto questi raggiunse la carrozza preceduto 
      da due lacché,  che, ad un segno del loro padrone, si affrettarono 
      a fagli aprire. 
      Quindi, quando il procuratore del re fu partito: 
      "Andiamo" disse Montecristo cavando a stento un sospiro dal  petto 
      oppresso, "andiamo, abbiamo preso abbastanza di questo veleno, ora 
      che il cuore ne è pieno, andiamo a cercarne l'antidoto!" 
      E batté un colpo sul campanello. 
      "Salgo dalla signora" disse ad Alì,  "che fra mezz'ora la carrozza 
      sia pronta." 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 48. 
                                   HAYDEE. 
 
 
      Si ricorderanno i nostri lettori quali erano  le  recenti,  o  per 
      meglio  dire  le antiche conoscenze del conte di Montecristo,  che 
      abitavano in rue Meslay: Massimiliano, Giulia, ed Emanuele. 
      La speranza di questa buona visita che  voleva  fare,  quei  pochi 
      momenti   che   avrebbe   passati   in  questa  luce  di  paradiso 
      sdrucciolando dall'inferno in cui si  era  volontariamente  posto, 
      aveva rasserenato il conte, dal momento che Villefort era partito: 
      per cui Alì,  accorso al noto suono, vedendo raggiare sul suo viso 
      tanta inusitata gioia,  si ritirò trattenendo il respiro  per  non 
      turbare  i  buoni  pensieri  che  credeva  intuire nella mente del 
      padrone. 
      Era mezzogiorno,  il conte si era riservata un'ora per  salire  da 
      Haydée:  si  sarebbe  detto  che la gioia non poteva entrare ad un 
      tratto in quell'anima per  tanto  tempo  attristata  e  che  aveva 
      bisogno  di  prepararsi  alle dolci emozioni,  come le altre anime 
      hanno bisogno di prepararsi alle emozioni violente. 
      La giovane greca era,  come  abbiamo  detto,  in  un  appartamento 
      interamente  separato da quello del conte,  per intero ammobiliato 
      all'uso orientale;  vale a  dire  i  pavimenti  coperti  di  fitti 
      tappeti  di  Turchia,  stoffe  di  broccato  lungo  i muri,  ed in 
      ciascuna camera un largo divano intorno con pile di cuscini che si 
      spostavano a volontà. 
      Haydée aveva tre donne francesi ed una greca. 
      Le tre donne  francesi  stavano  nella  prima  stanza,  pronte  ad 
      accorrere  al suono di un piccolo campanello d'oro,  e ad obbedire 
      agli ordini della schiava greca,  la quale  sapeva  abbastanza  il 
      francese  per  trasmettere  la  volontà della sua padrona alle tre 
      cameriere,  cui Montecristo aveva raccomandato di avere per Haydée 
      i  riguardi che si sarebbero potuti avere per una regina.  Lei era 
      nella stanza più remota del suo appartamento,  cioè in una  specie 
      di  salotto  rotondo,  che prendeva lume soltanto dall'alto,  e la 
      luce passava per cristalli colorati  in  rosa:  seduta  per  terra 
      sopra cuscini di seta turchina broccata in argento,  circondava la 
      testa col braccio destro  mollemente  rotondeggiante,  mentre  col 
      sinistro  teneva alle labbra il bocchino di corallo,  al quale era 
      attaccata la canna flessibile di una pipa turca,  che non lasciava 
      giungere alla bocca il vapore,  se non dopo essere stato profumato 
      dall'acqua di benzuino. 
      Quella sua posa, naturale per una orientale, sarebbe stata per una 
      francese di una civetteria un po' affettata. 
      Quanto al vestito era quello delle donne  dell'Epiro:  calzoni  di 
      seta bianca ricamati a fiori di rose,  che lasciavano scoperti due 
      piedi da puttino che si sarebbero creduti di marmo  di  Paros,  se 
      non  si  fossero  visti  agitare  due piccoli sandali con la punta 
      ricurva,  orlati d'oro e  di  perle:  una  veste  a  lunghe  righe 
      turchine   e  bianche,   con  larghe  maniche  aperte  con  ricami 
      d'argento, e bottoni di perle; e infine una specie di corsetto che 
      lasciava dall'apertura a cuore intravedere il collo e  l'alto  del 
      petto, e che si allacciava al di sotto del seno con tre bottoni di 
      diamanti.  Quanto  alla parte inferiore del corsetto,  e superiore 
      dei calzoni era nascosta da una di quelle cinture, a vivi colori e 
      a  larghe  frange,  che  oggi  formano  l'ambizione  delle  nostre 
      eleganti parigine. 
      La testa era acconciata con una piccola calotta,  e dalla parte su 
      cui era inclinata,  una bella rosa naturale color porpora spiccava 
      intrecciata ai capelli così neri che sembravano d'ebano. 
      La  bellezza  del  viso era da beltà greca in tutta la purezza del 
      tipo, coi grandi occhi neri vellutati,  la fronte di marmo il naso 
      diritto  le  labbra  di corallo,  e i denti di perle.  E in questa 
      graziosa donna il fiore della gioventù appariva in  tutto  il  suo 
      splendore e profumo. 
      Haydée poteva avere diciannove o venti anni. 
      Montecristo  chiamò  la  sua  schiava  greca,  e fece domandare ad 
      Haydée il permesso di entrare. 
      Per sola risposta Haydée fece segno alla schiava di  far  scorrere 
      la  portiera,  e  nel vano della porta si vide lei,  la giovanetta 
      come dipinta in un quadro.  Montecristo s'avanzò.  Lei si  sollevò 
      sul  gomito  del  braccio  con cui teneva la pipa,  e stendendo al 
      conte la mano lo accolse con un sorriso: 
      "Perché" disse nella  lingua  sonora  delle  figlie  di  Sparta  e 
      d'Atene,  "perché mi fai chiedere il permesso d'entrare da me? Non 
      sei tu il mio padrone? Non sono io la tua schiava?" 
      Montecristo sorrise a sua volta: 
      "Haydée" disse, "non sapete?..." 
      "Perché non dai del tu come sempre?" interruppe la giovane  greca. 
      "Ho  dunque  commesso  qualche  mancanza?  In  questo caso bisogna 
      punirmi, ma non darmi del voi." 
      "Haydée" disse il conte,  "tu sai che siamo in Francia,  e che per 
      conseguenza sei libera." 
      "Libera di far che?" domandò la giovane. 
      "Libera di lasciarmi." 
      "Lasciarti!... E perché lo farei?" 
      "Che so io?... Vedremo gente..." 
      "Non voglio vedere alcuno." 
      "E  se  in  mezzo  ai  bei  giovani  che incontrerai,  qualcuno ti 
      piacesse, io non sarò tanto ingiusto..." 
      "Non vidi mai uomo più bello di te,  e non amai che  mio  padre  e 
      te." 
      "Povera fanciulla" disse Montecristo, "perché non parlasti che con 
      tuo padre e con me." 
      "Ebbene,  che  bisogno  ho  io di parlare con altri?  Mio padre mi 
      chiamava "sua gioia",  tu mi chiami "tuo amore",  e tutti e due mi 
      chiamate "vostra figlia"." 
      "Ti ricordi di tuo padre, Haydée?" 
      "Egli è qui,  e qui" disse lei, mettendo la mano sul cuore e sugli 
      occhi. 
      "Ed io dove sono?" domandò sorridendo Montecristo. 
      "Tu?" disse lei. "Tu sei dappertutto." 
      Montecristo prese  la  bella  mano  di  Haydée  per  baciarla,  ma 
      l'ingenua fanciulla la ritirò e gli porse la fronte. 
      "Ora  Haydée,  tu  sai  che  sei  libera,  padrona,  regina,  puoi 
      conservare il tuo costume, o lasciarlo a tuo piacimento;  resterai 
      qui  quanto vuoi restarvi,  uscirai quando vorrai;  vi sarà sempre 
      una  carrozza  pronta  per  te;  Alì  e  Myrtho  t'accompagneranno 
      ovunque,  e  saranno  ai  tuoi  ordini.  Soltanto  di  una cosa ti 
      prego..." 
      "Parla." 
      "Conserva il segreto della tua nascita,  non dire una  parola  del 
      tuo   passato,   non  pronunciare  in  alcuna  occasione  il  nome 
      dell'illustre tuo padre, né quello della tua povera madre." 
      "Te l'ho già detto, non voglio vedere alcuno." 
      "Ascolta Haydée questa reclusione del tutto orientale  forse  sarà 
      impossibile a Parigi. Continua ad apprendere il genere di vita dei 
      nostri paesi del Nord,  come hai fatto a Roma, a Firenze, a Milano 
      e a Madrid; ciò ti gioverà tanto se continui a vivere qui,  quanto 
      se ritorni in Oriente." 
      La giovane volse al conte i suoi occhi lacrimosi, e rispose: 
      "Ritorniamo forse in Oriente, hai voluto dire, vero, mio signore?" 
      "Sì  figlia mia" disse Montecristo,  "tu sai bene che non sarò mai 
      io quello che ti abbandonerà.  Non è l'albero che si disgiunge dal 
      fiore; è il fiore che si distacca dall'albero." 
      "Io non ti lascerò mai, signore, perché sono sicura che non potrei 
      vivere senza di te." 
      "Povera  fanciulla,  fra  dieci anni io sarò vecchio,  e fra dieci 
      anni tu sarai ancora giovane." 
      "Mio padre aveva una lunga barba bianca,  e  ciò  non  mi  vietava 
      d'amarlo: mio padre aveva sessant'anni, e mi sembrava più bello di 
      tutti i giovani ch'io vedevo." 
      "Orsù, credi che ti abituerai, qui?" 
      "Ti vedrò?" 
      "Tutti i giorni." 
      "Ebbene che mi domandi dunque, signore?" 
      "Temo che tu ti annoi." 
      "No,  signore,  perché la mattina penserò che tu verrai, e la sera 
      mi ricorderò che tu sei stato da me;  del resto,  quando sono sola 
      ho grandi ricordi,  rivedo immensi quadri; mi si presentano grandi 
      orizzonti col Pindo e con l'Olimpo in lontananza. Poi ho nel cuore 
      tre sentimenti con i quali uno non si annoia mai:  la  malinconia, 
      l'amore e la riconoscenza." 
      "Sei una degna figlia dell'Epiro,  Haydée,  graziosa e poetica, si 
      capisce che discendi da quella famiglia di dee che nacque nel  tuo 
      paese.  Sii dunque tranquilla,  figlia mia, io farò in modo che la 
      tua gioventù non sia del tutto perduta;  perché se tu mi ami  come 
      tuo padre, io ti amo come mia figlia." 
      "T'inganni,  signore,  io non amavo mio padre come amo te;  il mio 
      amore per te è altro amore: mio padre morì ed io non  sono  morta, 
      mentre se tu morissi io pure morirei." 
      Il  conte  stese  la  mano  alla  giovane  con un sorriso pieno di 
      tenerezza: lei v'impresse le labbra, com'era abituata. 
      Il conte disposto in tal modo alla visita che voleva fare a Morrel 
      ed alla sua famiglia, partì mormorando questi versi di Pindaro: 
 
      Gioventù è fior di cui l'amore è frutto 
      Vendemmiator felice tu che 'l cogli, 
      Tu ch'el vedesti a maturanza addutto. 
 
      Secondo i suoi ordini,  la carrozza  era  preparata,  vi  salì,  e 
      questa come sempre partì al galoppo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 49. 
                             LA FAMIGLIA MORREL. 
 
 
      In pochi minuti la carrozza giunse nella rue Meslay numero 7. 
      La  casa  era bianca,  ridente,  e preceduta da un cortile con due 
      praticelli con dei bellissimi fiori. 
      Nel portinaio che gli aprì la porta il conte riconobbe il  vecchio 
      Coclite ma come ognuno ricorderà,  questi non aveva che un occhio, 
      ed in nove anni quest'occhio s'era considerevolmente indebolito. 
      Coclite non riconobbe il conte. 
      La carrozza, per fermarsi davanti all'entrata, doveva voltare onde 
      evitare un piccolo getto d'acqua che cadeva in una vasca di rocce: 
      magnificenza che aveva eccitata la gelosia del  quartiere,  e  per 
      cui la casa veniva chiamata la Piccola Versailles. 
      E' superfluo dire che nella vasca guizzavano una quantità di pesci 
      gialli e rossi. 
      La  casa,  eretta  sopra le cucine e le cantine,  aveva,  oltre il 
      piano terreno  due  piani  e  le  soffitte.  I  giovani  l'avevano 
      acquistata   con   le   "dépendances"   che   consistevano  in  un 
      laboratorio,  in due padiglioni nel  fondo  del  giardino,  e  nel 
      giardino stesso. 
      Emanuele aveva veduto,  a primo colpo d'occhio,  che dietro questa 
      disposizione dei locali si poteva fare una  piccola  speculazione: 
      si  era riservata la casa e metà del giardino,  e aveva tirata una 
      linea,  cioè fabbricato un piccolo muro,  fra la metà del giardino 
      ed  il  laboratorio,  che  aveva dato in fitto coi padiglioni e la 
      porzione di giardino.  Di modo che si trovava alloggiato  per  una 
      somma molto modica, e tanto ben appartato quanto il più scrupoloso 
      proprietario di una casa del Faubourg Saint-Germain. 
      La  sala  da  pranzo  era  di  quercia,  il salotto di mogano e di 
      velluto turchino,  la camera da letto di cedro e di damasco verde: 
      vi  era  inoltre un locale-studio per Emanuele che nulla studiava, 
      ed un salotto da musica per  Giulia  che  non  era  musicista.  Il 
      secondo   piano  per  intero  era  riservato  a  Massimiliano  una 
      ripetizione esatta dell'appartamento della  sorella,  meno  ce  la 
      sala  da  pranzo convertita in sala da bigliardo,  ove conduceva i 
      suoi amici. 
      Accudiva al suo cavallo,  e  fumava  il  sigaro  all'ingresso  del 
      giardino quando la carrozza del conte si fermò alla porta. 
      Coclite aprì la porta,  come abbiamo detto e Battistino smontò dal 
      sedile, chiedendo se il signore e la signora Hérbault ed il signor 
      Massimiliano Morrel erano visibili per il conte di Montecristo. 
      "Per il conte di Montecristo!?" gridò Morrel gettando il sigaro, e 
      slanciandosi  verso  il  visitatore.  "Lo  credo  bene  che  siamo 
      visibili per lui. Ah, grazie, cento volte grazie, signor conte, di 
      non aver dimenticato la vostra promessa." 
      Il  giovane ufficiale strinse così cordialmente la mano del conte, 
      che questi non poté ingannarsi sulla franchezza  del  gesto,  vide 
      bene ch'era aspettato con impazienza e ricevuto con premura. 
      "Venite,   venite"  disse  Massimiliano,  "voglio  presentarvi  io 
      stesso;  un uomo  come  voi  non  deve  essere  annunciato  da  un 
      servitore...  Mia  sorella  è  in  giardino  a  strappar  le  rose 
      appassite. Mio cognato legge i suoi giornali preferiti la "Presse" 
      e il "Débats", a sei passi da lei: ovunque si trattiene la signora 
      Herbault, si ritrova Emanuele, e viceversa." 
      Il rumore dei passi fece alzare la testa ad una giovane  donna  di 
      venti,  ventitré anni, abbigliata con una veste da camera di seta, 
      che sfogliava con cura particolare un magnifico rosaio. 
      Questa donna era la nostra  piccola  Giulia,  divenuta,  come  era 
      stato  predetto  dal  mandatario  della casa Thomson e French,  la 
      moglie di Emanuele Herbault. 
      Vedendo uno straniero mandò un piccolo grido. 
      Massimiliano si mise a ridere. 
      "Non ti disturbare,  sorella mia" disse.  "Il  signor  conte  è  a 
      Parigi da soli due o tre giorni, ma sa già che cosa è una borghese 
      del Marais, e se non lo sa, tu glielo insegnerai." 
      "Ah signore,  condurvi così..." disse Giulia. "E' un tradimento di 
      mio  fratello  che  non  ha  per  sua  sorella  la   più   piccola 
      attenzione... Penelon!... Penelon!..." 
      Un  vecchio  che  zappava intorno ad un rosaio bianco del Bengala, 
      piantò la zappa in terra e si  avvicinò,  col  berretto  in  mano, 
      dissimulando  meglio  che  poteva  l'avanzo  di  tabacco che stava 
      masticando.  Qualche  capello  bianco  inargentava  la  sua  fitta 
      capigliatura  color  bronzeo  e l'occhio ardito e vivo rivelava un 
      vecchio  marinaio,   imbrunito  sotto  il  sole  dell'equatore   e 
      disseccato al soffio delle tempeste. 
      "Mi  pare  che  mi abbiate chiamato,  signorina Giulia" diss'egli, 
      "eccomi." 
      Penelon aveva conservato l'abitudine di chiamare la figlia del suo 
      padrone signorina Giulia, e non aveva mai potuto chiamarla signora 
      Herbault. 
      "Penelon" disse Giulia,  "andate ad avvertire Emanuele della buona 
      visita che riceviamo,  mentre Massimiliano condurrà il signore nel 
      salotto." 
      Poi volgendosi a Montecristo: 
      "Il signore mi permetterà di allontanarmi per  un  minuto,  non  è 
      vero? disse e, senza aspettare il consenso del conte, sparì dietro 
      un gruppo d'alberi e rientrò in casa per un viale laterale. 
      "E'  che,  mio  caro  Morrel"  disse  Montecristo,  "m'accorgo con 
      dispiacere  che  porto  una  completa  rivoluzione  nella   vostra 
      famiglia." 
      "Guardate,  guardate"  disse Massimiliano ridendo,  "vedete laggiù 
      marito,  che da parte sua,  va a cambiare la veste da camera in un 
      abito... E' perché ormai tutti vi ammirano nella rue Meslay, tanto 
      si è parlato di voi, vi prego di crederlo..." 
      "Mi  sembra  che  abbiate  qui una famiglia felice" disse il conte 
      rispondendo a un suo pensiero. 
      "Oh sì,  ve lo garantisco,  signor conte...  Che volete?...  Nulla 
      manca  loro  per  essere felici,  sono giovani,  sono allegri,  si 
      amano, e,  con le venticinquemila lire di rendita,  si figurano di 
      possedere le ricchezze di Rothschild." 
      "E'  poco  però venticinquemila lire di rendita" disse Montecristo 
      con una dolcezza così soave che penetrò il cuore di  Massimiliano, 
      come  avrebbe potuto farlo la voce di un tenero padre.  "Ma non si 
      fermeranno  lì,   i  nostri  giovani,   diverranno  a  loro  volta 
      milionari. Il vostro cognato e avvocato... medico?" 
      "Era  negoziante,  signor  conte,  ed aveva presa la ditta del mio 
      povero padre.  Il signor Morrel è morto lasciando  cinquecentomila 
      franchi  di  fondi:  io ne avevo una metà,  e mia sorella l'altra, 
      perché non eravamo che due figli. Suo marito,  che l'aveva sposata 
      senza  avere  altra  ricchezza  che la sua nobile probità,  la sua 
      intelligenza di prim'ordine,  e la sua reputazione senza  macchia, 
      ha  voluto  accumulare  un  patrimonio pari a quello della moglie. 
      Egli lavorò finché ebbe risparmiati duecentocinquantamila franchi: 
      sei anni bastarono. Era, ve lo giuro, signor conte,  un commovente 
      spettacolo vedere questi due giovani laboriosi,  uniti,  destinati 
      per la loro capacità alla più gran fortuna che,  non avendo voluto 
      alcun cambiamento nelle abitudini della casa paterna,  hanno messo 
      sei anni per accumulare  ciò  che  degli  spregiudicati  avrebbero 
      potuto  fare in due o tre...  Marsiglia parla ancora dei sacrifici 
      di questi due ragazzi.  Infine un giorno  Emanuele  venne  da  sua 
      moglie che finiva di pagare le scadenze. 
      "Giulia" le disse,  "ecco l'ultimo buono di cento franchi riscosso 
      da Coclite,  e che compie i  duecentocinquanta  mila  franchi  che 
      abbiamo fissato come limite del nostro guadagno. Sarai soddisfatta 
      di  quel  poco  di cui d'ora innanzi bisognerà che ci contentiamo? 
      Ascolta,  la casa ogni anno  fa  affari  per  un  milione,  e  può 
      produrre un utile di quarantamila franchi: venderemo, se vogliamo, 
      la  clientela  per  trecento  mila  franchi,  perché  ecco qui una 
      lettera del signor Delaunay che ce li offre in cambio  dei  nostri 
      fondi,  ch'egli  vuole  riunire ai suoi.  Pensa a ciò che credi si 
      debba fare." 
      "Amico mio" disse mia sorella,  "la ditta Morrel  non  può  essere 
      portata  che  da  un Morrel.  Salvare per sempre il nome di nostro 
      padre da qualunque evento della sorte non  vale  più  di  trecento 
      mila franchi?" 
      "Lo  pensavo  anch'io" disse Emanuele,  "però ho voluto sentire il 
      tuo parere." 
      "Ebbene,  amico mio,  eccolo.  Tutti i nostri incassi sono  fatti, 
      tutte  le  nostre obbligazioni pagate;  possiamo tirare un rigo al 
      disotto dei conti di  questa  quindicina,  e  chiudere  il  banco; 
      facciamolo." 
      Il che fu fatto nello stesso momento.  Erano le tre; alle tre e un 
      quarto un cliente si presentò per fare assicurare il  tragitto  di 
      due  bastimenti;  era  un  guadagno  di  quindicimila  franchi  in 
      contanti. 
      Signore" gli disse Emanuele,  "abbiate la bontà di rivolgervi  per 
      queste  assicurazioni a qualcun altro dei nostri confratelli,  per 
      esempio al signor Delaunay;  in quanto a noi abbiamo lasciato  gli 
      affari." 
      E da quanto tempo?" domandò il cliente meravigliato. 
      "Da un quarto d'ora.' 
      "Ecco,  signore"  continuò sorridendo Massimiliano,  "in qual modo 
      mia sorella e mio cognato non hanno che  venticinquemila  lire  di 
      rendita." 
      Massimiliano  terminava appena questo racconto durante il quale il 
      cuore del conte si era  sempre  più  commosso,  allorché  Emanuele 
      ricomparve vestito d'un altro abito e di un cappello.  Egli salutò 
      in modo da far capire che aspettava la sua visita, e quindi,  dopo 
      aver  fatto fare al conte il giro del piccolo recinto fiorito,  lo 
      condusse verso casa. 
      Il salotto era già profumato dai fiori  contenuti  in  un  immenso 
      vaso del Giappone. 
      Giulia, convenientemente vestita ed elegantemente pettinata (aveva 
      impiegata tutta la sua abilità in dieci minuti!),  si presentò all 
      ingresso per ricevere il conte. 
      Si sentivano cinguettare gli uccelli di una uccelliera, i cui rami 
      di falso ebano e  i  rami  d'un'acacia  rosea  venivano  coi  loro 
      grappoli di fiori ad ornare i panneggiamenti di velluto turchino. 
      Tutto respirava calma in questo grazioso piccolo ritiro, dal canto 
      degli uccelli fino al sorriso dei padroni. 
      Il conte, fin dal suo entrare nella casa, si era già impregnato di 
      questa felicità;  perciò restava muto ed assorto,  dimenticando di 
      esser  guardato  ed  atteso  per   riprendere   la   conversazione 
      interrotta dopo i primi complimenti. 
      Egli   s'accorse   che   il   proprio   silenzio   diveniva  quasi 
      sconveniente, e strappandosi con sforzo dai suoi ricordi: 
      "Signora" disse  finalmente,  "perdonate  una  emozione  che  deve 
      meravigliare voi,  abituata a questa pace ed a questa felicità, ma 
      per me è cosa tanto nuova la soddisfazione sul viso umano, che non 
      mi stanco di contemplare voi e vostro marito." 
      "Siamo infatti molto felici, signore" replicò Giulia,  "ma abbiamo 
      sofferto tanto lungamente, che ben poche persone hanno conquistato 
      la loro felicità ad un così caro prezzo." 
      La curiosità si dipinse sui lineamenti del conte. 
      "Oh, questa è un storia di famiglia, come vi diceva l'altro giorno 
      Chateau-Renaud"  riprese  Massimiliano.  "Per  voi,  signor conte, 
      assuefatto a vedere  illustri  infortuni  e  splendide  gioie,  vi 
      sarebbe  poco d'interessante in questo quadro familiare.  Tuttavia 
      abbiamo,  come diceva Giulia,  sofferto  vivi  dolori,  quantunque 
      circoscritti in questo piccolo quadro." 
      "E  Dio versò su voi,  come versa su tutti,  la consolazione nelle 
      disgrazie?" domandò Montecristo. 
      "Sì,  conte,  possiamo dirlo,  perché ha fatto  per  noi  ciò  che 
      potrebbe  fare  per  i  suoi  eletti;  ci  ha inviato uno dei suoi 
      angeli." 
      Le guance del conte divennero rosse,  ed egli tossì per  avere  un 
      mezzo  di  dissimulare  la  sua  emozione,  portando alla bocca il 
      fazzoletto. 
      "Coloro che nacquero in una culla di porpora e che non  hanno  mai 
      desiderato cosa alcuna" disse Emanuele,  "non sanno ciò che sia il 
      bene della vita,  come non conoscono il valore di un cielo puro  e 
      sereno  coloro  che  non  hanno mai messa la loro vita in balia di 
      quattro assi gettate sopra un mare in tempesta." 
      Montecristo si alzò,  e senza dir nulla,  perché al tremolio della 
      sua  voce  avrebbero  forse  riconosciuta  l'emozione  da  cui era 
      scosso, si mise a percorrere il salotto passo passo. 
      "La nostra magnificenza vi farà sorridere..." disse  Massimiliano, 
      che seguiva con gli occhi Montecristo. 
      "No, no..." rispose Montecristo molto pallido, e comprimendosi con 
      una  mano  i  battiti  del  cuore,  mentre con l'altra mostrava al 
      giovane una campana di cristallo, sotto la quale una borsa di seta 
      stava preziosamente  stesa  sopra  un  cuscino  di  velluto  nero, 
      "domando  soltanto  a  che  serve questa borsa che da una parte mi 
      sembra che contenga una carta, e dall'altra un bel diamante?" 
      Massimiliano, assumendo un aria grave, rispose: 
      "Questo,  signor conte,  è il più prezioso dei  nostri  tesori  di 
      famiglia." 
      "Infatti questo diamante è molto bello..." replicò il conte. 
      "Oh,  mio  fratello non parla del prezzo della pietra,  quantunque 
      sia stimata cento mila franchi,  vuole  solamente  dirvi  che  gli 
      oggetti  racchiusi  in  questa  borsa  sono  le  testimonianze  di 
      quell'angelo di cui vi parlammo or ora." 
      "Ecco ciò che non saprei capire,  e ciò nonostante  sento  di  non 
      poter   chiedervi,   signora"  replicò  Montecristo  inchinandosi. 
      "Perdonatemi, non volevo essere indiscreto." 
      "Indiscreto, dite? Al contrario ci rendete contenti, signor conte, 
      offrendoci occasione di trattenerci su questo  argomento!  Se  noi 
      nascondessimo  come  un  segreto  la  bella  azione che ci ricorda 
      questa borsa,  non la terremmo così esposta alla vista  di  tutti. 
      Vorremmo poterla divulgare in tutto l'universo,  affinché un cenno 
      del nostro sconosciuto benefattore ci svelasse la sua presenza." 
      "Davvero?" esclamò Montecristo con voce soffocata. 
      "Signore" disse Massimiliano sollevando la campana di cristallo  e 
      baciando devotamente la borsa di seta,  "questa ha toccato la mano 
      di un uomo per il quale mio padre è  stato  salvato  dalla  morte, 
      dalla  rovina  e dalla infamia;  di un uomo,  grazie al quale noi, 
      poveri ragazzi destinati alla miseria  ed  alle  lacrime  possiamo 
      sentire  oggi  le  persone  gioire per la nostra felicità.  Questa 
      lettera" e  Massimiliano  cavò  il  biglietto  dalla  borsa  e  lo 
      presentò al conte,  "questa lettera fu scritta da lui un giorno in 
      cui mio padre aveva  presa  una  risoluzione  molto  disperata,  e 
      questo  diamante  fu dato in dote a mia sorella da questo generoso 
      sconosciuto." 
      Montecristo aprì la  lettera  e  la  lesse  con  una  indefinibile 
      espressione  di  felicità;  era  il biglietto che i nostri lettori 
      conoscono, diretto a Giulia, e firmato Sindbad il marinaio. 
      "Sconosciuto,  diceste?  L'uomo che vi ha reso questo favore vi  è 
      rimasto ignoto?" 
      "Sì,  oh signore,  non abbiamo mai avuta la fortuna di stringergli 
      la mano!  Non fu però per nostra mancanza,  per non aver chiesto a 
      Dio  questa  grazia"  riprese  Massimiliano,  "ma  in tutto questo 
      affare furono così misteriose le circostanze che  non  le  abbiamo 
      ancora  chiarite:  il  tutto  fu  guidato  da una mano invisibile, 
      potente come quella di un mago." 
      "Oh" disse Giulia, "non ho ancora perduto del tutto la speranza di 
      potere un giorno giungere a baciare quella mano, come bacio questa 
      borsa che fu da essa toccata.  Sono quattro anni,  Penelon  era  a 
      Trieste...  Penelon, signor conte, è quel bravo marinaio che avete 
      veduto con la zappa alla mano, e che da secondo mastro è diventato 
      giardiniere.  Penelon era dunque a Trieste,  vide sullo  scalo  un 
      inglese che stava per imbarcarsi su uno yacht,  e riconobbe in lui 
      quello che venne da mio padre il 5 giugno 1829,  e che mi  scrisse 
      questo biglietto il 5 settembre. Era lo stesso, a quanto assicura, 
      ma non osò parlargli." 
      "Un  inglese?"  fece  Montecristo  distratto,  impacciato  ad ogni 
      sguardo di Giulia. 
      "Sì" riprese Massimiliano,  "un inglese che si presentò a noi come 
      mandatario della casa Thomson e French di Roma. Ecco perché quando 
      l'altro  giorno  diceste  da  Morcerf che Thomson e French erano i 
      vostri banchieri,  mi avete visto sussultare.  In nome del  cielo, 
      signore,  quanto  vi  abbiamo  detto  accadde  nel 19229...  Avete 
      conosciuto questo inglese?" 
      "Ma  non  mi  avete  detto  che  la  casa  Thomson  e  French   ha 
      costantemente negato di avervi reso questo servigio?" 
      "Sì." 
      "Allora quest'inglese non potrebbe essere un uomo che riconoscente 
      verso  vostro  padre  di  qualche  buona  azione  che  forse aveva 
      anch'egli dimenticata avesse preso questo pretesto  per  rendergli 
      un servizio?" 
      "Tutto è possibile in simile congiuntura, anche un miracolo." 
      "Come si chiamava?" domandò Montecristo. 
      "Non ha lasciato altro nome" rispose Giulia guardando il conte con 
      una  profonda  attenzione,   "che  la  firma  in  calce  a  questo 
      biglietto, Sindbad il marinaio." 
      "Evidentemente questo non è un nome, ma un soprannome." 
      Quindi,  poiché Giulia lo  guardava  più  attentamente  ancora,  e 
      sembrava cogliere qualche rassomiglianza alle note della sua voce: 
      "Vediamo"  continuò  egli,  "non è un uomo con la mia corporatura, 
      forse  un  poco  più  magro,  imprigionato  in  un'alta  cravatta, 
      abbottonato  in  un  abito  stretto,  e  sempre con la matita alla 
      mano?" 
      "Oh,   ma  dunque  lo  conoscete?"  gridò  Giulia  con  gli  occhi 
      scintillanti di gioia. 
      "No"  disse  Montecristo.  "Ho  conosciuto  un  lord Wilmore,  che 
      esercitava in tal modo atti di generosità." 
      "Senza farsi conoscere?" 
      "Era un uomo bizzarro, che non credeva alla riconoscenza." 
      "Oh, mio Dio!" gridò Giulia con un sublime accento, e giungendo le 
      mani. "E a che cosa credeva dunque il disgraziato?" 
      "Egli non ci credeva,  almeno al tempo in cui l'ho  conosciuto..." 
      disse  Montecristo,   al  quale  questa  voce  sortita  dal  fondo 
      dell'anima aveva agitato fin l'ultima fibra.  "Ma  da  quel  tempo 
      forse avrà avuto qualche prova che la riconoscenza esiste." 
      "E voi conoscete quest'uomo?" disse Emanuele. 
      "Oh,  se lo conoscete" gridò Giulia, "dite, potete guidarci a lui, 
      mostrarcelo,   dirci  dov'è?   Massimiliano,   Emanuele,   se   lo 
      ritrovassimo lo faremmo ricredere sulla memoria del cuore... Non è 
      vero?" 
      Montecristo  sentì  due lacrime cadergli dagli occhi;  fece ancora 
      qualche passo nel salotto. 
      "In nome  del  cielo,  signore"  disse  Massimiliano,  "se  sapete 
      qualche cosa di quest'uomo, diteci ciò che sapete." 
      "Ahimè" disse Montecristo,  comprimendo l'emozione della sua voce, 
      "se il  vostro  benefattore  è  lord  Wilmore,  temo  che  non  lo 
      ritroverete mai.  Io l'ho lasciato due o tre anni fa a Palermo; ed 
      egli partiva per paesi tanto  favolosi,  che  dubito  non  ritorni 
      più." 
      "Ah, signore, siete crudele..." gridò Giulia con spavento. 
      E le lacrime discesero dagli occhi della giovane sposa. 
      "Signora"  disse  con gravità Montecristo divorando con lo sguardo 
      le lacrime sulle guance di Giulia,  "se lord Wilmore avesse  visto 
      ciò che io vedo,  egli amerebbe ancora la vita,  perché le lacrime 
      che voi versate lo rappacificherebbero col genere umano." 
      E stese la mano a Giulia  che  gli  presentò  la  sua,  trascinata 
      com'era dallo sguardo del conte. 
      "Ma  questo  lord Wilmore" disse lei,  riattaccandosi ad un'ultima 
      speranza, "aveva un paese, una famiglia,  dei parenti,  infine era 
      conosciuto? e non potremmo?..." 
      "Oh,  non cercate niente, signora" disse il conte, "non fabbricate 
      dolci chimere sopra parole che mi sono lasciato sfuggire. No, lord 
      Wilmore probabilmente non è  l'uomo  che  cercate;  egli  era  mio 
      amico,  conoscevo  tutti i suoi segreti e non mi ha raccontato mai 
      niente di tutto ciò." 
      "Non vi ha mai detto niente di tutto ciò!" gridò Giulia. 
      "Niente." 
      "Mai una parola che avesse potuto farvi supporre?" 
      "Mai." 
      "Tuttavia lo avete correlato subito." 
      "Ah, sapete... in simili casi si suppone." 
      "Sorella mia,  sorella mia" disse Massimiliano venendo in soccorso 
      del  conte,  "il  signore ha ragione.  Ricordati ciò che ci diceva 
      spesso il nostro buon padre: "Non è un inglese che ci ha procurata 
      questa fortuna"." 
      Montecristo rabbrividì. 
      "Vostro padre diceva, signor Morrel?" riprese vivamente il conte. 
      "Mio padre, signore, vedeva in quest'azione un miracolo. Mio padre 
      credeva ad un benefattore uscito per noi  dalla  tomba.  Oh,  qual 
      commovente sentimento,  signore,  era questo... E mentre io stesso 
      non ci credevo,  ero ben lontano dal voler distruggere questa fede 
      nel suo nobile cuore! Così quante volte ci pensava, pronunciando a 
      bassa  voce  un nome,  nome di un amico molto caro,  un nome di un 
      amico  perduto!   E  quando   fu   vicino   alla   morte,   quando 
      l'approssimarsi  dell'eternità  ebbe  dato  al suo spirito qualche 
      cosa della chiaroveggenza della tomba,  questo pensiero,  che fino 
      ad allora non era che un dubbio,  divenne convinzione: e le ultime 
      parole che pronunziò morendo furono  queste:  "Massimiliano,  egli 
      era Edmondo Dantès!"." 
      Il  pallore  del  conte,  che  da  qualche minuto stava crescendo, 
      divenne livido a queste parole. 
      Tutto il suo sangue venne  ad  affluirgli  al  cuore;  non  poteva 
      parlare.  Cavò l'orologio come se avesse dimenticata l'ora,  prese 
      il  cappello,   e  fece  alla  signora  Herbault  un   complimento 
      momentaneo  ed  impacciato,  e  stringendo la mano ad Emanuele e a 
      Massimiliano: 
      "Signori"  disse,   "permettetemi  di  venire  qualche   volta   a 
      presentarvi  i  miei  omaggi.  Io  amo  la vostra casa,  e vi sono 
      riconoscente della vostra accoglienza; è la prima volta dopo molti 
      anni che ho passato il tempo senza accorgermene." 
      Ed uscì a passi precipitati. 
      "Che uomo singolare è questo conte" disse Emanuele. 
      "Sì"  disse  Massimiliano,   "ma  sono  sicuro  che  ha  un  cuore 
      eccellente, ed affettuoso." 
      "Ed a me" disse Giulia,  "la sua voce ha toccato il cuore, e due o 
      tre volte mi è sembrato che  non  fosse  la  prima  volta  che  la 
      sentivo." 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 50. 
                               PIRAMO E TISBE. 
 
 
      A due terzi del Faubourg Saint-Honoré,  dietro una bella casa, fra 
      le notevoli abitazioni di questo quartiere  si  estende  un  vasto 
      giardino  i  cui  castagni fronzuti sorpassano le enormi muraglie, 
      alte come bastioni,  e che lasciano al  giungere  della  primavera 
      cadere  i  loro  fiori  color  bianco e rosa in due vasi di pietra 
      scanalata,  posti parallelamente sopra due pilastri quadrangolari, 
      nei  quali  era  incassato un cancello di ferro dei tempi di Luigi 
      Tredicesimo. 
      Questo grandioso ingresso  è  sacrificato,  malgrado  i  magnifici 
      pelargoni  che  vegetano nei due vasi e librano al vento le foglie 
      marmoree e i bei  fiori  di  porpora,  fin  dall'epoca  in  cui  i 
      proprietari  del  palazzo  furono costretti a separare la casa dal 
      cortile alberato che immette al Faubourg e  dal  giardino  che  si 
      vede  dietro  il  cancello,  un tempo stupendo frutteto.  E ciò da 
      quando la speculazione edilizia ha tracciato una strada  ai  bordi 
      del  frutteto  e  ha progettato di costruire altri palazzi per far 
      concorrenza alla vicina grande arteria di Parigi che è il Faubourg 
      Saint-Honoré. Anche se,  quando si tratta di speculazioni,  spesso 
      l'uomo  propone  e  il  denaro  dispone,  la  strada morì prima di 
      nascere e ne rimase solo la targa in vetro brunito, e l'acquirente 
      del frutteto,  dopo  aver  terminato  di  pagarlo,  non  riuscì  a 
      rivenderlo per la somma preventivata. Così, in attesa d'un aumento 
      del  prezzo  che  potesse  rifonderlo  dei quattrini sborsati,  si 
      ridusse  ad  affittare  il  terreno  agli  ortolani  parigini  per 
      trecento franchi l'anno,  equivalenti ad una rendita del mezzo per 
      cento,  veramente esigua se si  pensa  agli  speculatori  che  non 
      s'accontentano del 30 per cento. 
      Intanto il cancello d'ingresso è chiuso e la ruggine lo corrode, e 
      per  di  più  un  tavolato  è  stato  applicato  alle  sbarre fino 
      all'altezza di sei piedi ad impedire che gli sguardi plebei  degli 
      ortolani  possano contaminarne l'intimità aristocratica.  Anche se 
      le assi sconnesse non impediscono sguardi  furtivi,  in  una  casa 
      tuttavia dai costumi severi. 
      In quest'orto invece di cavoli e carote,  piselli e meloni, cresce 
      un alto trifoglio,  unica testimonianza di vita  in  questo  luogo 
      abbandonato.  Una  piccola porta bassa che si apre sulla strada dà 
      ingresso  a  questo  terreno  recinto  da  alte  mura,   e   ormai 
      abbandonato  dai  pigionali per la sua sterilità,  e che quindi da 
      otto giorni,  invece di fruttare il solito mezzo  per  cento,  non 
      frutta un bel niente. 
      Dalla  parte  del  palazzo,   i  castagni  di  cui  abbiamo  detto 
      attorniavano le mura, anche se altre piante stendevano i loro rami 
      fioriti fra quei grossi alberi.  E in un angolo,  il fogliame  era 
      talmente  fitto che la luce poteva appena penetrarvi,  e una larga 
      panchina di pietra ed alcune seggiole da  giardino  lo  indicavano 
      come  il  luogo  favorito,  o più intimo di qualche abitante della 
      casa,  lontana circa cento passi e che tuttavia si  poteva  appena 
      scorgere  fra  i  grovigli  vegetali  di quell'eremo: la scelta di 
      questo rifugio misterioso era giustificata, inoltre,  dall'assenza 
      della  luce,  dalla  continua  freschezza pur nei giorni della più 
      bruciante  estate,   dal  cinguettio  degli  uccelli  che  vi   si 
      annidavano,  e dalla lontananza dalla strada,  cioè dal traffico e 
      dal rumore. 
      Verso sera di una delle più calde giornate che la primavera  possa 
      portare agli abitanti di Parigi,  su questa panchina di pietra, un 
      libro,  un ombrellino,  un cestello di lavoro ed un fazzoletto  di 
      batista, dall'orlo appena iniziato, erano stati abbandonati da una 
      ragazza che vicino al cancello,  guardava in una di quelle fessure 
      fra le assi, esplorando il terreno incolto che conosciamo. 
      Quasi nello stesso momento,  la piccola porta d'ingresso si apriva 
      senza rumore, e un giovane alto, vigoroso, coi baffi, la barba e i 
      capelli ben curati,  entrò nel recinto.  Indossava una "blouse" di 
      tela grigia e un berretto  di  velluto  nero  molto  ordinari,  in 
      contrasto  con  l'aspetto.  Dopo  un  rapido  sguardo  attorno per 
      assicurarsi  di  non  essere  visto  da  estranei,   rinchiuse  la 
      porticina e si diresse con passo precipitoso verso il cancello. 
      Vedendo il giovane,  la ragazza si ritirò altrettanto rapidamente. 
      Ma  il  giovane,   con  l'intuito  degli  innamorati,   aveva  già 
      intravista una veste bianca e una larga cintura turchina, e subito 
      corse verso il tavolato e applicò la bocca a una fessura: 
      "Non abbiate paura, Valentina, sono io" disse. 
      La ragazza si avvicinò. 
      "Ah,  perché siete venuto così tardi, oggi? Sapete che in casa mia 
      si pranza presto,  e sono state necessarie astuzia e prontezza per 
      disimpegnarmi dalla matrigna che mi sorveglia, dalla cameriera che 
      mi spia e da mio fratello che mi tormenta, e per venire a lavorare 
      a un fazzoletto di cui non riuscirò mai a finire l'orlo...  Quando 
      poi vi sarete  scusato  per  il  vostro  ritardo,  mi  direte  che 
      significa questo nuovo vestito che avete addosso, per cui quasi me 
      ne andavo non avendovi riconosciuto." 
      "Cara  Valentina,  siete troppo al di sopra del mio amore,  perché 
      osi parlarvene,  e ciò nonostante tutte le volte che  vi  vedo  ho 
      bisogno  di dirvi che vi amo perché l'eco delle mie proprie parole 
      mi accarezzi dolcemente il cuore,  quando non vi vedo più.  Ora vi 
      ringrazio  della  vostra protesta,  del tutto lusinghiera,  perché 
      prova,  non oso dire che mi aspettavate,  ma che pensavate  a  me. 
      Volevate  sapere  la  causa del mio ritardo,  ed il motivo del mio 
      travestimento?  Ve li dirò,  e spero che vorrete scusarmi: mi sono 
      scelto un lavoro." 
      "Un lavoro!?...  Che volete dire,  Massimiliano? Siamo dunque così 
      felici perché  possiate  parlare  scherzando  delle  cose  che  ci 
      riguardano?" 
      "Oh, il cielo me ne guardi" disse il giovane, "di scherzare con la 
      mia  vita!  Ma  stanco di essere un uomo che corre in guerra e che 
      scala mura,  seriamente spaventato dall'idea che vostro  padre  un 
      giorno  o  l'altro  mi  avrebbe  fatto  giudicare  come  un ladro, 
      disonorando  l'esercito  francese,   non  meno  spaventato   dalla 
      possibilità che qualcuno si meravigli di vedermi ronzare intorno a 
      questo terreno,  dove non c'è la più piccola fortezza da assediare 
      o il più piccolo ridotto da difendere, da capitano degli Spahis mi 
      sono fatto ortolano,  ed  ho  adottato  l'abito  della  mia  nuova 
      professione." 
      "Ah, che follia!" 
      "E'  al  contrario la cosa più saggia che abbia fatto in vita mia, 
      perché  ci  garantisce  sicurezza.   Sono  stato  a   trovare   il 
      proprietario   di   questo   recinto   il  contratto  col  vecchio 
      affittuario era scaduto ed io l'ho preso.  Tutto questo  trifoglio 
      che vedete è mio,  Valentina, nulla può impedirmi d'ora innanzi di 
      far fabbricare una capanna fra questo fieno,  e di vivere a  venti 
      passi da voi.  Oh,  non posso contenere la mia gioia pensando alla 
      mia fortuna.  Credete,  Valentina,  che si possa giungere a pagare 
      tutto  questo?  Eppure tutta questa felicità,  tutta questa gioia, 
      per le quali avrei dato dieci anni della mia vita,  mi  costano... 
      indovinate  un  po'?...  cinquecento franchi all'anno pagabili per 
      trimestre. In tal modo d'ora innanzi non vi e più nulla da temere. 
      Io sono qui in casa mia posso mettere delle scale  contro  il  mio 
      muro e guardarvi, ed ho diritto di dirvi che vi amo, fino a che la 
      vostra  fierezza  non  si  offenda  di sentirsi dire questa parola 
      dalla bocca di un povero  contadino  vestito  con  la  "blouse"  e 
      coperto con un berretto." 
      Valentina mandò un sospiro per la gioia, poi subito si rattristò. 
      "Ahimè,  Massimiliano"  disse,  "ora noi saremo troppo liberi;  la 
      nostra felicità  ci  farà  tentare  Dio:  abuseremo  della  nostra 
      sicurezza, e la nostra sicurezza ci perderà." 
      "Potete  dir questo,  amica mia,  a me,  che da quando vi conobbi, 
      ogni giorno vi do prove che ho sottomesso i miei pensieri e la mia 
      vita alla vostra  ed  ai  vostri  pensieri?  Chi  vi  ha  ispirato 
      confidenza in me?  Il mio onore, non è vero? Quando mi avete detto 
      che un vago istinto v'assicurava che correvate un  gran  pericolo, 
      io ho messo i miei affetti ai vostri ordini, senza chiedervi altra 
      ricompensa che la felicità di servirvi.  Da quel tempo vi ho dato, 
      con una parola,  con un gesto,  il motivo di  pentirvi  di  avermi 
      distinto  fra quelli che avrebbero dato la loro vita per voi?  Voi 
      mi avete detto, povera cara, che eravate stata fidanzata al signor 
      d'Epinay, che vostro padre aveva stabilito questo matrimonio, vale 
      a dire ch'esso era certo,  perché tutto ciò che  vuole  il  signor 
      Villefort accade infallibilmente.  Ebbene,  io sono rimasto fra le 
      ombre aspettando tutto,  non dalla mia volontà,  non dalla vostra, 
      ma dagli avvenimenti, dalla Provvidenza, da Dio... E frattanto voi 
      mi  amate,  voi  avete avuto pietà di me,  Valentina,  me lo avete 
      detto! Ed io vi ringrazio di questa dolce parola,  che vi prego di 
      ripetermi di tempo in tempo, e che mi farà dimenticare tutto." 
      "Ed ecco ciò che vi ha dato ardimento,  Massimiliano, ecco ciò che 
      rende la mia vita dolce ad un  tempo  ed  infelice  al  punto  che 
      spesso  domando a me stessa se sia meglio per me il dispiacere che 
      mi causava il rigore della mia matrigna e la sua cieca  preferenza 
      per  suo  figlio,  o  la  felicità piena di pericoli che provo nel 
      vedervi." 
      "Di pericoli!" gridò Massimiliano.  "Potete dire una  parola  così 
      aspra e così ingiusta?  Avete mai visto uno schiavo più sottomesso 
      di me?  Voi mi avete proibito di  seguirvi,  ed  io  ho  obbedito. 
      Dacché  ho  ritrovato il mezzo di penetrare in questo recinto,  di 
      parlare con voi attraverso questa porta,  di essere vicino  a  voi 
      senza vedervi,  ditelo, ho io mai domandato di toccare l'estremità 
      del vostro vestito attraverso questo cancello?  Ho  mai  fatto  un 
      passo  per  superare  questo  muro,  ridicolo  ostacolo per la mia 
      esuberanza e la mia  giovinezza?  Mai  un  rimprovero  sul  vostro 
      rigore,  mai  un  desiderio espresso chiaramente: sono stato ligio 
      alla mia parola, come un cavaliere dei tempi antichi. Confessatelo 
      almeno, perché io non vi abbia a credere ingiusta." 
      "E' vero" disse Valentina passando fra due assi l'apice di uno dei 
      suoi diti affilati,  sul quale Massimiliano  posò  le  labbra,  "è 
      vero,  siete un onesto amico.  Ma infine non avete operato che nel 
      vostro interesse, mio caro Massimiliano...  Sapevate che il giorno 
      in cui lo schiavo fosse divenuto esigente,  avrebbe tutto perduto. 
      Voi avete promesso l'amicizia d'un  fratello  a  me,  che  non  ho 
      amici,   che  sono  dimenticata  dal  padre,   perseguitata  dalla 
      matrigna,  che non ho per consolazione che  un  vecchio  immobile, 
      muto,  paralizzato,  la cui mano non può stringere la mia,  il cui 
      occhio soltanto può parlarmi,  e il cui cuore batte per me  di  un 
      residuo  calore.  Derisione  amara della sorte che fu nemica a me, 
      vittima di tutti coloro che sono più forti di me,  e che mi  danno 
      un   cadavere   per  appoggio,   e  per  amico.   Oh,   veramente, 
      Massimiliano, ve lo ripeto, sono ben infelice, e voi avete ragione 
      di amarmi per me e non per voi." 
      "Valentina" disse il giovane con una profonda emozione,  "non dirò 
      che amo soltanto voi a questo mondo,  perché amo anche mia sorella 
      e mio cognato, ma per loro provo un amore dolce e tranquillo,  che 
      non  somiglia in nulla a quello con cui amo voi...  Quando penso a 
      voi, il sangue mi bolle, il petto si gonfia, il cuore irrompe;  ma 
      questa forza,  quest'ardore, questa potenza sovrumana li dedicherò 
      ad amar voi soltanto fino al giorno che mi  direte  di  impiegarli 
      per  servirvi.  Il  signor  Franz d'Epinay starà assente ancora un 
      anno, si dice...  In un anno quante eventualità favorevoli possono 
      accadere!  Dunque speriamo sempre, è cosa tanto buona, tanto dolce 
      sperare! Ma aspettando,  voi,  Valentina,  voi che rimproverate il 
      mio egoismo, che cosa siete stata per me? La bella e fredda statua 
      della  Venere  pudica.  In  cambio  di  questo affetto,  di questa 
      obbedienza, di questa riserva, che mi avete promesso?  Nulla.  Che 
      mi  avete  accordato?  Ben  poca  cosa.  Voi mi parlate del signor 
      d'Epinay, vostro fidanzato e sospirate all'idea d'essere un giorno 
      sua.  Vediamo,  Valentina,  è  forse  soltanto  questo  che  avete 
      nell'anima?  Che? Io v'impegno la mia vita, vi do tutto me stesso, 
      vi consacro perfino il più insignificante battito del mio cuore, e 
      quando sono tutto vostro,  quando vi dico in segreto che morrò  se 
      vi  perdo,  voi non vi spaventate alla sola idea di dover divenire 
      di un altro. Oh, Valentina, Valentina!  Se fossi io voi!  Se io mi 
      sapessi  amato,  come  voi  siete sicura che vi amo,  io già avrei 
      passato la mano fra le sbarre di questo cancello, ed avrei stretto 
      quella del povero Massimiliano dicendogli: "A  voi,  a  voi  solo, 
      Massimiliano, in questo mondo e nell'altro"." 
      Valentina  non  rispose,   ma  il  giovane  l'intese  sospirare  e 
      piangere. 
      Il pentimento fu pronto in Massimiliano. 
      "Oh" gridò egli, "Valentina, Valentina! dimenticate le mie parole, 
      se in esse vi è qualche cosa che possa offendervi!" 
      "No" disse lei,  "voi avete ragione: ma non vedete che io sono una 
      povera  creatura  abbandonata  in  una  casa  straniera,  e la cui 
      volontà è stata annullata da dieci anni,  giorno per  giorno,  ora 
      per ora, minuto per minuto dalla volontà di ferro dei miei padroni 
      che mi dominano?  Nessuno sa quello che io soffro,  ed io non l'ho 
      detto ad altri che a voi. In apparenza,  ed agli occhi di tutto il 
      mondo,  tutti  sono buoni con me,  tutti affettuosi,  ed in realtà 
      tutti mi sono nemici. Il mondo dice: "Il signor Villefort è troppo 
      duro, è troppo severo per essere tenero con sua figlia,  ma lui ha 
      avuto  almeno  la  felicità di trovare nella signora Villefort una 
      seconda madre".  Ebbene il mondo s'inganna,  mio padre m'abbandona 
      con  indifferenza,  e  la  mia matrigna mi odia con un accanimento 
      tanto più terribile, in quanto velato da un eterno sorriso." 
      "Odiarvi, Valentina! E come può essere?..." 
      "Ahimè,  amico caro,  sono costretta a confessarvi che  quest'odio 
      per  me  viene  da  un  sentimento  quasi naturale.  Lei adora suo 
      figlio, mio fratello Edoardo." 
      "Ebbene?" 
      "Ebbene, mi sembra ingiusto mischiare tutto ciò a una questione di 
      denaro...  Eppure amico mio,  credo che tale odio per me venga  di 
      là.  Siccome  non  ha beni propri,  ed io sono già ricca anche dal 
      solo lato di mia madre, fortuna che mi verrà un giorno raddoppiata 
      da quella del signore e della signora di Saint-Méran, bene,  credo 
      che  lei  sia invidiosa.  Oh,  mio Dio,  potessi regalarle metà di 
      questa fortuna e ritrovarmi presso il signor  Villefort  come  una 
      figlia in casa di suo padre, lo farei in questo medesimo istante." 
      "Povera Valentina!" 
      "Sì, mi sento incatenata, e nello stesso tempo così debole, che mi 
      sembra  che  questi  ceppi mi sostengano,  ed ho paura a romperli. 
      D'altra parte mio padre non è uomo di cui  si  possano  infrangere 
      impunemente gli ordini: è imperioso con me, e lo sarebbe anche con 
      voi,  lo  sarebbe  con altri,  coperto come è da un irreprensibile 
      passato, e da una posizione inattaccabile. Oh, Massimiliano, ve lo 
      giuro,  non combatto perché temo di spezzare voi al pari di me  in 
      questa lotta." 
      "Ma  infine,  Valentina" riprese Massimiliano,  "perché disperarvi 
      sempre così, e vedere l'avvenire sempre tetro?" 
      "Oh, amico mio, perché lo giudico dal passato." 
      "Se non sono un partito illustre sotto il  punto  di  vista  della 
      nobiltà,  però  sono  introdotto nella società nella quale vivete. 
      Non è più il tempo in cui c'erano due France nella Francia: le più 
      elevate  famiglie  della  monarchia  si  sono  fuse   con   quelle 
      dell'impero; l'aristocrazia della lancia ha sposata la nobiltà del 
      cannone.  Ebbene,  io  appartengo  a  quest'ultima,  ho  una bella 
      carriera innanzi a me  nell'esercito,  ho  una  discreta  rendita; 
      infine  la  memoria di mio padre è onorata nel nostro paese,  come 
      quella di uno dei più onesti armatori che siano mai esistiti. Dico 
      nel nostro paese, Valentina, perché voi siete quasi di Marsiglia." 
      "Non mi parlate di Marsiglia, Massimiliano,  questa sola parola mi 
      ricorda  la  mia  buona  madre,  quell'angelo  che fu compianto da 
      tutti,  e che,  dopo aver vegliato su sua figlia durante il  breve 
      soggiorno  su  questa  terra,  veglia ancora su di lei,  almeno lo 
      spero,  dall'alto del cielo.  Oh,  se la mia povera mamma vivesse, 
      Massimiliano,  non avrei più nulla da temere: le direi che vi amo, 
      e lei ci proteggerebbe." 
      "Ahimè, Valentina" disse Massimiliano, "se lei vivesse, certamente 
      non vi conoscerei,  perché voi lo avete detto,  se lei vivesse voi 
      sareste felice,  e Valentina felice mi avrebbe guardato con sdegno 
      dall'alto della sua grandezza." 
      "Ah,   amico  mio"  gridò  Valentina,   "questa  volta  siete  voi 
      l'ingiusto... ma ditemi..." 
      "Che  volete  che  vi  dica?"  riprese Massimiliano,  vendendo che 
      esitava. 
      "Ditemi" continuò la giovane,  "in Marsiglia nei tempi passati  vi 
      fu  mai  qualche  motivo  di dissenso fra la vostra famiglia e mio 
      padre?" 
      "No, che io sappia" rispose Massimiliano, "se non che vostro padre 
      era  un  partigiano  zelante  dei  Borboni,  ed  il  mio  un  uomo 
      affezionato all'Imperatore. Ciò è, a quanto presumo, la sola causa 
      dei  loro  cattivi  rapporti.  Ma  perché  mi fate questa domanda, 
      Valentina?" 
      "Ve lo dirò" riprese la giovane,  "perché voi dovete sapere tutto. 
      Ebbene  era  il giorno in cui fu pubblicata nei giornali la vostra 
      nomina di ufficiale della Legione d'Onore. Noi eravamo tutti nella 
      stanza di mio nonno,  il signor Noirtier,  e c'era anche il signor 
      Danglars,  quel  banchiere i cui cavalli per poco non hanno ucciso 
      mia madre e mio fratello.  Io leggevo ad alta voce il  giornale  a 
      mio  nonno,  mentre  gli altri discorrevano fra loro del probabile 
      matrimonio fra il signor Morcerf e la  signorina  Danglars  quando 
      come  dicevo giunsi al brano che vi concerneva.  Ero ben felice... 
      ma altrettanto tremante di  dover  pronunciare  ad  alta  voce  il 
      vostro  nome  e  lo  avrei fors'anche omesso,  senza il timore che 
      fosse stato male interpretato il mio silenzio. Dunque riunii tutto 
      il mio coraggio e lessi." 
      "Cara Valentina!" 
      "Ebbene appena risuonò il vostro nome, mio padre volse la testa... 
      Io ero così persuasa, vedete come sono folle!  che tutti sarebbero 
      stati  colpiti da questo nome come da un fulmine,  che credetti di 
      veder fremere mio padre,  ed anche il signor Danglars,  quantunque 
      io sia sicura che fu una mia illusione. 
      "Morrel!"   disse   mio   padre.   "Fermatevi!"   ed  aggrottò  il 
      sopracciglio.  "Sarebbe uno di quei Morrel di  Marsiglia,  uno  di 
      quegli  arrabbiati  bonapartisti che ci hanno procurato tanto male 
      nel 1815?" 
      'Sì" rispose il signor Danglars,  "credo sia il figlio del vecchio 
      armatore." 
      "Davvero?" disse Massimiliano. "E che rispose vostro padre?" 
      "Una cosa orribile che non ho il coraggio di ridirvi." 
      "Dite pure" riprese sorridendo Massimiliano. 
      "Il loro Imperatore" continuò egli con uno sguardo truce,  "sapeva 
      mettere tutti quei fanatici al loro posto,  li chiamava  carne  da 
      cannone,  ed era il solo nome che meritassero. Vedo però con gioia 
      che il nuovo governo rimette in vigore questo salutare  principio. 
      Se  per  questo  soltanto vuol conservare l'Algeria,  farei le mie 
      felicitazioni al governo, quantunque ci costi un po' troppo cara." 
      "Difatti questa è una politica un po' brutale" disse Massimiliano. 
      "Ma non arrossite, amica mia,  di ciò che può aver detto il signor 
      Villefort.  Mio padre non la cedeva al vostro su questo argomento, 
      e ripeteva continuamente: "E perché  dunque  l'Imperatore  che  fa 
      tante belle cose,  non fa un reggimento di giudici ed avvocati,  e 
      non li manda in prima linea?" Vedete,  amica cara,  che gli uomini 
      di  partito si somigliano tutti in quanto ad espressioni brutali e 
      delicatezza di pensiero.  Ma il signor Danglars che  ha  detto  di 
      questa uscita del procuratore del re?" 
      "Oh,  si  mise  a  ridere  di  quel  sorriso  sardonico  che gli è 
      particolare, e che io trovo feroce; poi si alzarono, e subito dopo 
      se ne andarono.  M'accorsi allora soltanto che il mio  buon  nonno 
      era molto agitato. Bisogna che sappiate, Massimiliano, che io sola 
      indovino  le  agitazioni  di  questo povero paralitico,  e d'altra 
      parte già dubitavo  che  la  conversazione  dovesse  averlo  molto 
      agitato,  perché  non  usando  più  alcun  riguardo in presenza di 
      questo povero vecchio,  avevano detto male  dell'Imperatore,  e  a 
      quanto so egli deve essere stato fanatico dell'Imperatore." 
      "E'  uno dei nomi più conosciuti dell'Impero;  è stato senatore ed 
      ha preso parte, come saprete, a tutte le cospirazioni bonapartiste 
      che hanno avuto luogo sotto la Restaurazione." 
      "Sì, sento qualche volta dire a bassa voce alcune cose simili, che 
      mi sembrano strane; il nonno bonapartista, il padre realista,  che 
      volete che ne capisca? 
      Io mi voltai dunque verso di lui,  egli m'indicò con lo sguardo il 
      giornale. 
      "Che avete, nonno?" gli dissi. "Siete contento?" 
      Fece segno di sì. 
      "Di ciò che ha detto mio padre?" chiesi io. 
      Fece segno di no. 
      "Di ciò che ha detto il signor Danglars?" 
      Fece ancora segno di no. 
      "E' dunque perché il signor Morrel" non  osai  dire  Massimiliano, 
      "ha avuto la nomina di ufficiale della Legione d'Onore?" 
      Fece segno di sì. 
      Lo  credereste,  Massimiliano?  Era  contento perché eravate stato 
      nominato ufficiale della Legione d'Onore, egli che non vi conosce; 
      questa è forse una follia  da  parte  sua...  Dicono  che  ritorni 
      fanciullo... Ma l'amo ancora di più per questo sì." 
      "La   cosa  è  bizzarra"  disse  Massimiliano:  "vostro  padre  mi 
      odierebbe  dunque,  mentre  vostro  nonno  al  contrario...  Quale 
      stranezza questi amori e questi odi di partito!" 
      "Zitto!" gridò Valentina. "Nascondetevi, fuggite, vien gente." 
      Massimiliano corse ad una zappa,  e si mise a zappare il trifoglio 
      senza pietà. 
      "Signorina,  signorina!" gridò una voce  dietro  gli  alberi.  "La 
      signora  Villefort  vi  cerca,  e vi chiama dappertutto.  Vi è una 
      visita in salotto." 
      "Una visita!?" disse Valentina agitata.  "E chi è che ci fa questa 
      visita?" 
      "Un  gran  signore,  un  principe  a  quanto  dicono,  il conte di 
      Montecristo." 
      "Vengo!" disse ad alta voce Valentina. 
      Questa parola fece tremare dall'altra parte del cancello colui  al 
      quale la parola vengo di Valentina serviva di addio. 
      "Oh" disse a se stesso Massimiliano, appoggiandosi pensieroso alla 
      zappa,  "come  mai  il  conte  di  Montecristo  conosce  il signor 
      Villefort?" 
 
                                 Capitolo 51. 
                                TOSSICOLOGIA. 
 
 
      Era realmente il conte di Montecristo che  entrava  dalla  signora 
      Villefort,  con  l'intenzione  di  restituirle  la  visita  che il 
      procuratore del re gli aveva fatta,  ed a  questo  nome  tutta  la 
      casa, come si può ben immaginare, s'era messa in moto. 
      La  signora  Villefort  che  non  era sola nel salotto,  quando fu 
      annunziato il conte,  fece  subito  chiamare  suo  figlio,  perché 
      rinnovasse i ringraziamenti al conte, ed Edoardo che da due giorni 
      non  aveva  cessato  di sentir parlare di questo gran personaggio, 
      accorse in tutta fretta non per ubbidire  a  sua  madre,  non  per 
      ringraziare  il  conte,  ma  per  pronunciare  qualcuna  di quelle 
      impertinenze che facevano  dire  a  sua  madre:  "Oh  che  cattivo 
      ragazzo. Ma bisogna pure che gli perdoni, ha tanto spirito!" 
      Dopo i primi convenevoli il conte domandò del signor Villefort. 
      "Mio  marito  è andato a pranzo dal signor cancelliere" rispose la 
      giovane sposa.  "E' partito da poco e  sarà  dispiacentissimo,  ne 
      sono sicura, di essere stato privato della fortuna di vedervi." 
      Due  visitatori che avevano preceduto il conte nel salotto,  e che 
      lo divoravano  con  gli  occhi,  si  ritirarono  dopo  quel  tempo 
      conveniente che esige l'educazione e la curiosità. 
      "A proposito,  che fa dunque vostra sorella Valentina?" domandò la 
      signora  Villefort  ad  Edoardo.  "Sia  avvertita  affinché  abbia 
      l'onore di presentarla al signor conte." 
      "Avete una figlia, signora?" domandò il conte. "Ma deve essere una 
      bambina..." 
      "E' la figlia del signor Villefort" replicò la giovane sposa, "una 
      figlia del primo matrimonio, una bella ragazza." 
      "Ma  malinconica" interruppe il giovane Edoardo,  strappando,  per 
      farsene un pennacchio  al  cappello,  una  penna  a  un  magnifico 
      pappagallo, che gridava per il dolore nella sua gabbia dorata. 
      La  signora  Villefort si limitò a dire: "Quieto,  Edoardo!".  Poi 
      soggiunse: "Questo giovane stordito ha quasi ragione, e ripete ora 
      ciò che ha sentito dire da me molte volte con  dolore;  perché  la 
      signorina  Villefort,  per  quanto  facciamo  per distrarla,  è di 
      un'indole  triste,  di  un  umore  taciturno,   che  spesso  nuoce 
      all'effetto della sua bellezza...  Ma non viene... Edoardo, vedete 
      dunque perché". 
      "Perché la cercano dove non è." 
      "Dove la cercano?" 
      "Dal nonno Noirtier." 
      "E credete che non sia là?" 
      "No, no, no, no, non c'è" beffeggiò Edoardo. 
      "E dov'è? Se lo sapete, ditelo." 
      "E sotto il gran castagno" continuò il perfido ragazzo,  offrendo, 
      nonostante  le  grida  di sua madre,  alcune mosche ancora vive al 
      pappagallo che sembrava ghiotto di un tal cibo. 
      La signora Villefort stese la mano per suonare,  e per far  sapere 
      alla cameriera dove stava Valentina, quando lei stessa entrò. 
      Difatti  sembrava triste,  e guardandola attentamente si sarebbero 
      potute scorgere nei suoi occhi le tracce delle lacrime. 
      Valentina,  che per la rapidità del racconto abbiamo presentato ai 
      nostri  lettori  senza  farla  conoscere,  era  alta e snella,  di 
      diciannove anni,  coi capelli castano chiari,  la figura morbida e 
      ben modellata, con quella squisita signorilità che distingueva sua 
      madre.  Le  sue  mani bianche ed affilate,  il collo d'avorio,  le 
      guance dai fuggevoli colori, le davano,  al primo aspetto,  l'aria 
      di  quelle  belle  inglesi,   che  con  molta  poesia  sono  state 
      paragonate a dei cigni che si specchiano. Entrò dunque,  e vedendo 
      vicino  a  sua  madre  lo  straniero  di cui aveva inteso parlare, 
      salutò,  senz'alcuna smorfia da ragazzina,  e senza abbassare  gli 
      occhi,  con  una  grazia che raddoppiò l'attenzione del conte,  il 
      quale si alzò. 
      "La  signorina  Villefort,   mia  figliastra"  disse  la   signora 
      Villefort  a  Montecristo chinandosi sul sofà,  e indicando con la 
      mano Valentina. 
      "E' il signor di Montecristo,  re  della  Cina,  imperatore  della 
      Cocincina!"  disse il ragazzo impertinente,  lanciando uno sguardo 
      alla sorella. 
      Questa volta la signora Villefort  impallidì,  e  quasi  si  adirò 
      contro  quel flagello domestico che rispondeva al nome di Edoardo; 
      ma il conte al contrario sorrise e parve guardasse il bambino  con 
      compiacenza,  il  che portò al colmo la gioia e l'entusiasmo della 
      madre. 
      "Ma signora" riprese il  conte  riannodando  la  conversazione,  e 
      guardando  ora  la  signora  Villefort ed ora Valentina,  "è forse 
      possibile che abbia avuto l'onore di veder voi e la  signorina  in 
      qualche  altro  luogo?  Poco  fa  ci  pensavo  e  quando  entrò la 
      signorina la sua vista è stata un bagliore di più  su  un  confuso 
      ricordo, perdonate l'espressione." 
      "Non  è  probabile,  signore;  la  signorina Villefort ama poco la 
      società e noi usciamo raramente." 
      "Ma non in società ho veduto  la  signorina  e  voi,  come  questo 
      grazioso  folletto.  La  società  parigina,  d'altra  parte,  mi è 
      affatto sconosciuta,  perché,  credo di  avere  avuto  l'onore  di 
      dirvelo,  sono a Parigi da pochi giorni.  No, se permettete che mi 
      ricordi...  aspettate..." Il conte appoggiò la  mano  alla  fronte 
      come per concentrare le idee.  "No,  è all'estero...  è...  non so 
      bene,  ma mi sembra che questo ricordo sia collegato  con  un  bel 
      sole,  e con una specie di festa religiosa...  La signorina teneva 
      dei fiori in mano,  il bambino correva dietro un bel pavone in  un 
      giardino,  e voi, signora, eravate sotto un pergolato di foglie... 
      Aiutatemi  dunque,  signora,  forse  quanto  vi  dico  non  vi  fa 
      risovvenire di qualche cosa?" 
      "No,  in  verità" rispose la signora Villefort.  "Eppure mi sembra 
      che se vi avessi incontrato in qualche luogo il ricordo di voi  mi 
      sarebbe rimasto impresso." 
      "Il signor conte ci avrà forse vedute in Italia" disse timidamente 
      Valentina. 
      "Difatti in Italia... Siete stata in Italia, signorina?" 
      "La  signora  ed io ci fummo circa due anni fa;  i medici temevano 
      per il mio petto e  mi  avevano  raccomandato  l'aria  di  Napoli. 
      Passammo per Bologna, Perugia e Roma." 
      "Ah,  è vero signorina!" gridò Montecristo, come se questa piccola 
      indicazione gli fosse bastata per fissare le sue rimembranze.  "Fu 
      a Perugia, il giorno di una festa, nella locanda della Posta, dove 
      la combinazione ci riunì,  signora, vostro figlio, la signorina ed 
      io." 
      "Mi ricordo perfettamente di Perugia,  della locanda della  Posta, 
      della festa di cui mi parlate" disse la signora Villefort,  "ma ho 
      un bell'interrogare i miei ricordi,  e mi vergogno della mia  poca 
      memoria, ma non mi sovvengo di avere avuto l'onore di vedervi." 
      "E'  singolare,  neppure  io" disse Valentina alzando i suoi begli 
      occhi sul conte di Montecristo. 
      "Ah, me ne ricordo io" disse Edoardo. 
      "Vi aiuterò,  signora" riprese il conte.  "La giornata era  calda; 
      aspettavate  dei cavalli che non venivano a causa della solennità. 
      La signorina si allontanò nel fondo del  giardino,  vostro  figlio 
      disparve correndo dietro al pavone." 
      "E  lo  raggiunsi,  mamma,  lo  sai" disse Edoardo,  "che anzi gli 
      strappai due penne della coda." 
      "Voi signora,  vi fermaste  sotto  il  pergolato  di  viti...  Non 
      ricordate più che mentre eravate seduta su una panchina di pietra, 
      mentre,  come  vi  dicevo,  la signorina Villefort e vostro figlio 
      erano assenti, voi parlaste lungamente con qualcuno?" 
      "Sì,  davvero,  sì" disse la  giovane  sposa  arrossendo,  "me  ne 
      sovvengo,  con un uomo avviluppato in un lungo mantello di lana... 
      con un medico, credo." 
      "Precisamente, signora, quell'uomo ero io. Soggiornavo da quindici 
      giorni in quell'albergo dove avevo guarito il mio cameriere  dalla 
      febbre,  ed il mio locandiere dalla itterizia, per cui ero creduto 
      un  gran  dottore.  Noi  parlammo  lungamente,  signora,  di  cose 
      indifferenti,  del Perugino,  di Raffaello,  delle abitudini,  dei 
      costumi,  e di quella famosa acqua tofàna di cui  alcuni,  vi  era 
      stato detto, conservano ancora il segreto a Perugia." 
      "Ah,  è vero!" disse vivamente la signora Villefort, con una certa 
      inquietudine. "Me ne ricordo." 
      "Non so più che mi diceste in  particolare,  signora"  riprese  il 
      conte  con  una perfetta tranquillità,  "ma ricordo benissimo che, 
      condividendo  voi  pure  l'equivoco  sulla  mia  professione,   mi 
      consultaste sulla salute della signorina Villefort." 
      "Ma però,  signore,  voi eravate realmente medico, poiché guariste 
      degli infermi." 
      "Molière e Beaumarchais vi risponderebbero,  signora,  che appunto 
      perché  non medico,  non ho potuto guarire i miei malati,  ma essi 
      sono guariti da sé.  Mi limiterò a dirvi  che  ho  studiato  molto 
      profondamente  la chimica,  le scienze naturali,  ma soltanto come 
      dilettante... capite?" 
      In quel momento suonarono le sei. 
      "Sono le sei" disse la  signora  Villefort  visibilmente  agitata. 
      "Valentina,  non  andate  a  vedere  se  vostro nonno è pronto per 
      pranzare?" 
      Valentina si alzò,  e salutando il conte,  uscì dalla stanza senza 
      pronunciare una parola. 
      "Oh,  mio Dio,  signora, sarebbe mai per colpa mia che avete fatto 
      uscire la signorina?" disse il conte quando Valentina fu uscita. 
      "No,  davvero" rispose vivacemente la giovane sposa.  "Ma questa è 
      l'ora  nella  quale  facciamo  fare  al  signor Noirtier il triste 
      pasto,  che sostiene la sua anche più  triste  esistenza.  Sapete, 
      signore, in quale deplorevole stato è il padre di mio marito?" 
      "Sì,  signora,  il  signor  Villefort me ne ha parlato,  credo una 
      paralisi. 
      "Purtroppo sì,  per il povero vecchio vi  è  completa  assenza  di 
      movimenti, l'anima sola veglia in quella macchina umana, pallida e 
      tremante  come  una lampada vicina ad estinguersi...  Ma mi scusi, 
      signore, se vi ho trattenuto sui nostri domestici infortuni; vi ho 
      interrotto al momento che dicevate di essere un abile chimico." 
      "Oh,  io non dicevo questo,  signora"  rispose  il  conte  con  un 
      sorriso. 
      "Ben diversamente,  ho studiato la chimica, quando deciso a vivere 
      particolarmente in Oriente,  ho voluto seguire  l'esempio  del  re 
      Mitridate." 
      "Mitridates  rex  Ponti" disse lo stordito ragazzo stracciando dei 
      disegni in un magnifico album,  "quello che faceva colazione tutte 
      le mattine con una tazza di veleno al fior di latte." 
      "Edoardo, perfido ragazzo!" gridò la signora Villefort, strappando 
      il  libro  mutilato dalle mani del figlio.  "Siete insopportabile! 
      andate a raggiungere vostra sorella Valentina presso il nonno." 
      "L'album" disse Edoardo. 
      "Come l'album?" 
      "Sì lo voglio..." 
      "Perché avete stracciato i disegni?" 
      "Perché mi diverte." 
      "Andatevene, andatevene!" 
      "Non me ne andrò, se prima non mi si dà l'album" disse il ragazzo, 
      accomodandosi su una gran seggiola. 
      "Prendete e lasciateci tranquilli" disse la signora Villefort. 
      E dette l'album ad Edoardo, che uscì accompagnato da sua madre sin 
      sulla soglia. 
      Il conte seguì con gli occhi la signora Villefort. 
      "Vediamo se chiude la porta..." disse fra sé. 
      La signora chiuse la porta con la più gran cura dietro il ragazzo; 
      il conte fece mostra  di  non  accorgersene.  Quindi  gettando  un 
      ultimo  sguardo  intorno,   la  giovane  sposa  si  sedette  sulla 
      poltrona. 
      "Permettetemi di farvi osservare,  signora"  disse  il  conte  con 
      quella  bonarietà  di cui lo conosciamo dotato,  "che voi siete un 
      poco severa con questo grazioso folletto." 
      "E' necessario, signore..." replicò lei con tono materno. 
      "Egli recitava il suo Cornelius Nepos,  parlando del re Mitridate" 
      disse il conte,  "e voi lo avete interrotto in una recitazione che 
      prova che il precettore non ha perduto il tempo  con  lui,  e  che 
      vostro figlio è molto avanti per la sua età." 
      "Il fatto è,  signor conte" riprese la madre dolcemente lusingata, 
      "ch'egli ha una grande facilità, e impara tutto ciò che vuole; non 
      ha che un difetto,  ed è di avere troppa forza di  volontà.  Ma  a 
      proposito di ciò che si diceva, credete forse che Mitridate usasse 
      queste cautele e che fossero efficaci?" 
      "Lo  credo tanto,  signora,  che io ne ho usato in occasioni nelle 
      quali, senza queste cautele, vi avrei potuto lasciare la vita." 
      "E l'antidoto è stato efficace?" 
      "Perfettamente." 
      "Sì, è vero, mi ricordo che voi mi avete già detto qualche cosa di 
      simile a Perugia." 
      "Veramente?" fece il conte con una sorpresa mirabilmente simulata. 
      "Non me ne rammento." 
      "Io vi domandai se i veleni operavano ugualmente e con  la  stessa 
      energia  sugli uomini del Nord,  che su quelli del Mezzogiorno,  e 
      voi mi rispondeste che  i  temperamenti  freddi  e  linfatici  dei 
      settentrionali non presentano la stessa attitudine che la ricca ed 
      energica natura delle persone del Mezzogiorno." 
      "E'  vero"  disse Montecristo.  "Ho visto dei russi divorare senza 
      essere  incomodati  sostanze   vegetali   che   avrebbero   ucciso 
      infallibilmente un arabo." 
      "Per  cui  credete  che in mezzo alle nostre nebbie ed alle nostre 
      piogge un uomo si potrebbe più facilmente,  che in regioni  calde, 
      abituare a questo lento e progressivo assorbimento di veleno?" 
      "Certamente,  ben  inteso però senza premunirsi di antidoto contro 
      il veleno a cui si deve abituare." 
      "Oh, capisco!  E in qual modo vi ci abituereste voi,  per esempio, 
      ovvero in qual modo vi ci siete già abituato?" 
      "Supponete  che  sappiate  già  prima  qual veleno si voglia usare 
      contro di voi, supponete che sia della brucnina." 
      "La brucnina si ricava dalla  falsa  angustura,  credo"  disse  la 
      signora Villefort. 
      "Precisamente  signora"  disse Montecristo.  "Ma vedo che mi resta 
      poco da insegnarvi.  Vi  faccio  le  mie  congratulazioni;  simili 
      erudizioni sono rare nelle donne." 
      "Ve  lo confesso signore,  ho il più vivo interesse per le scienze 
      occulte,  che parlano all'immaginazione  come  una  poesia,  e  si 
      risolvono  in cifre come una equazione algebrica...  Ma continuate 
      vi prego, ciò che mi dite mi importa moltissimo." 
      "Ebbene" riprese Montecristo,  "supponete che questo veleno sia la 
      brucnina,  per esempio,  e che ne prendiate un millesimo di grammo 
      il primo giorno,  due il secondo e così  via...  Ebbene,  dopo  10 
      giorni  ne  prenderete  un centigrammo,  dopo 20 ne prenderete tre 
      centigrammi,  vale a dire una  dose  che  sopporterete  senz'alcun 
      inconveniente,  e che sarebbe pericolosissima per un'altra persona 
      che non avesse prese le  stesse  cautele;  infine  dopo  un  mese, 
      bevendo  nello stesso bicchiere,  voi ammazzereste una persona che 
      beva di quest'acqua,  con voi.  Vi accorgerete solo da un  piccolo 
      malessere che c'era una sostanza velenosa mescolata all'acqua." 
      "Non conoscete altri contravveleni?" 
      "Non ne conosco altri." 
      "Avevo spesso letta e riletta questa storia di Mitridate" disse la 
      signora Villefort, "e l'avevo creduta una favola." 
      "No, signora, contro il solito, questa è una verità, ma ciò che mi 
      dite,  signora,  ciò  che  chiedete  non  è curiosità d'un momento 
      poiché sono due anni che mi fate le stesse domande, ed ora mi dite 
      che la storia di Mitridate vi preoccupa da molto tempo." 
      "E' vero,  signore,  i due studi favoriti della mia gioventù  sono 
      stati  la  botanica  e la mineralogia,  e quando poi ho saputo che 
      l'uso di questi semplici  spiegava  spesso  tutta  la  storia  dei 
      popoli,  e  tutta la vita degli individui d'Oriente,  nello stesso 
      modo con cui i fiori spiegano tutti i loro pensieri amorosi,  mi è 
      spiaciuto  di  non  essere  un  uomo  per diventare un Flamel,  un 
      Fontana, o un Cabanis." 
      "Tanto più, signora" disse Montecristo,  "che gli orientali non si 
      limitano,  come Mitridate, a servirsi dei veleni come una corazza, 
      ma se ne servono come pugnali: la scienza nelle loro mani  diventa 
      non  solo un'arma difensiva,  ma anche offensiva: l'una serve loro 
      contro le sofferenze fisiche,  l'altra contro i loro  nemici;  con 
      l'oppio,  con  la belladonna,  con l'hashish si procurano sogni di 
      felicità che il cielo ha  loro  realmente  negati;  con  la  falsa 
      angustura,  col  legno  di brionia,  col lauro-ceraso addormentano 
      quelli che vorrebbero svegliarsi.  Non  vi  è  una  fra  le  donne 
      egiziane,  turche,  o greche,  che qui chiamate "buone donne", che 
      non sappia in fatto di chimica fare stupire un medico." 
      "Davvero?" disse la signora Villefort,  i cui occhi brillavano  di 
      uno strano fuoco durante la conversazione. 
      "Eh,  mio Dio, sì, signora. I drammi segreti d'Oriente si annodano 
      e si sciolgono così,  dalla pianta che fa amare fino a quella  che 
      fa morire;  dalla bevanda che vi rapisce in estasi,  fino a quella 
      che può far discendere un uomo  nella  sepoltura.  Vi  sono  tante 
      gradazioni  di ogni genere,  quanti sono i capricci e le bizzarrie 
      dell'umana natura, fisica,  e morale,  e,  dirò di più,  l'arte di 
      questi  chimici  sa adattare mirabilmente il rimedio ed il male ai 
      propri bisogni d'amore, e ai propri desideri di vendetta." 
      "Ma, signore" riprese la giovane sposa, "queste società orientali, 
      in  mezzo  alle  quali  avete  passato  gran  parte  della  vostra 
      esistenza  sono  dunque fantastiche come i racconti che vengono da 
      questi bei paesi?  E' dunque una realtà la Bagdad o la Bassora del 
      signor Galland?  I sultani e i visir che reggono queste società, e 
      che costituiscono ciò che si chiamerebbe in  Francia  il  governo, 
      sono  dunque  sul serio tanti Harumal-Ruscid e tanti Giaffar,  che 
      non solo perdonano ad un avvelenatore,  ma lo  fanno  anche  primo 
      ministro,  se questo delitto è stato ingegnoso;  e poi,  in questo 
      caso,   ne  fanno  stampare  la  storia  in  lettere   d'oro   per 
      divertirsene nelle loro ore di noia?" 
      "No,  signora,  il fantastico non c'è più,  neppure in Oriente; vi 
      sono anche laggiù mascherati con altri nomi e nascosti sotto altri 
      costumi,  dei giudici istruttori,  dei procuratori del re,  e  dei 
      periti.  Vi  s'impicca,  vi si taglia la testa,  vi s'impala molto 
      gradevolmente;  ma i  delinquenti,  da  esperti  frodatori,  hanno 
      saputo  illudere la giustizia umana ed assicurare il successo alle 
      loro imprese con  abili  combinazioni.  Presso  noi  un  imbecille 
      posseduto dal demone dell'odio e della cupidigia, che ha un nemico 
      da distruggere o un parente da annientare, va da uno speziale, gli 
      dà  un  nome  falso,  che  poi più facilmente farà scoprire il suo 
      vero,  e compra cinque o sei grammi  d'arsenico;  s'egli  è  molto 
      furbo, va da cinque o sei speziali, e non è che cinque o sei volte 
      conosciuto   meglio:   poi   quando  possiede  il  suo  specifico, 
      amministra al nemico,  o  al  parente,  una  dose  d'arsenico  che 
      farebbe  crepare  un  elefante o un rinoceronte,  e che fa mandare 
      alla sua vittima urli tali da mettere tutto il quartiere sossopra. 
      Allora giunge un nugolo di agenti di polizia,  o di  gendarmi;  si 
      manda  a cercare un medico,  che fa l'autopsia,  e raccoglie nello 
      stomaco o negli intestini l'arsenico a cucchiaiate il giorno  dopo 
      cento  giornali  raccontano  il  fatto  col  nome  della vittima e 
      dell'uccisore. Fin dalla stessa sera lo speziale,  o gli speziali, 
      viene  o  vengono  a  dire  "sono  io che ho venduto l'arsenico al 
      signore" e,  piuttosto  che  non  riconoscere  il  compratore,  ne 
      riconoscerebbero venti; allora il goffo reo è preso, imprigionato, 
      interrogato,  confrontato, confuso, condannato e ghigliottinato o, 
      se è una donna della buona società,  viene  imprigionata  a  vita. 
      Ecco il modo con cui i nostri settentrionali intendono la chimica. 
      Desrues però la intendeva meglio, debbo confessarlo." 
      "Che volete,  signore.  non tutti hanno i segreti dei medici o dei 
      Borgia!" disse la giovane sposa ridendo. 
      "Ora" disse il conte stringendosi nelle  spalle,  "volete  che  vi 
      dica  qual  è  la  causa  di tutte queste sciocchezze?  E' che nei 
      teatri, a quanto ho potuto giudicare io stesso dalla lettura delle 
      opere che vi si rappresentano, si vede sempre qualcuno inghiottire 
      il contenuto di un'ampolla,  mordere la montatura di un anello,  e 
      cadere  cadavere;   cinque  minuti  dopo  cala  il  sipario,   gli 
      spettatori si disperdono, s'ignorano le conseguenze dell'omicidio, 
      non si vede mai né il commissario di polizia con la sciarpa, né il 
      caporale coi suoi quattro  agenti,  e  ciò  autorizza  i  cervelli 
      mediocri  a  credere che le cose finiscano così.  Ma uscite un po' 
      dalla Francia, andate ad Aleppo o al Cairo,  e vedrete passeggiare 
      per  le strade persone tutte fresche e color rosa,  delle quali il 
      diavolo zoppo,  se vi toccasse col suo mantello,  potrebbe  dirvi: 
      "Questo  signore è avvelenato da tre settimane e sarà morto tra un 
      mese"." 
      "Ma allora" disse la  signora  Villefort,  "hanno  dunque  trovato 
      finalmente  il  segreto  di  quella  famosa  acqua tofàna,  che in 
      Perugia si diceva perduto." 
      "Eh, signora, forse fra gli uomini si perde qualche cosa?  Le arti 
      si  spostano e fanno il giro del mondo,  le cose cambiano di nome, 
      ecco tutto: l'uomo  volgare  s'inganna,  ma  è  sempre  lo  stesso 
      risultato,  il veleno.  Ciascun veleno opera particolarmente su un 
      tale  o  tal  altro  organo,  l'uno  sullo  stomaco,  l'altro  sul 
      cervello,  l'altro  infine  sugli  intestini.  Ebbene,  il  veleno 
      determina una tosse,  questa un'infiammazione di petto o qualunque 
      altra  malattia  scritta nel libro della scienza,  cosa che non le 
      impedisce di essere del tutto mortale,  e che quand'anche  non  lo 
      fosse,  lo  diverrebbe  grazie  ai rimedi somministrati da ingenui 
      medici, che in generale sono cattivi chimici.  Ecco un uomo ucciso 
      con arte,  e con tutte le regole, sul quale la giustizia non ha da 
      ridire,  come diceva un terribile chimico mio amico,  l'eccellente 
      Adelmonte  di  Taormina  in  Sicilia  che  aveva  molto studiato i 
      fenomeni nazionali." 
      "E' spaventoso, ma ammirabile" disse la giovane sposa immobile per 
      l'attenzione.  "Lo confesso,  credevo  che  tutte  queste  fossero 
      invenzioni del medio evo." 
      "Sì,  senza  dubbio,  ma che si sono meglio perfezionate ai giorni 
      nostri.   A  che  volete  dunque  che   servano   i   tempi,   gli 
      incoraggiamenti,  le medaglie, le croci, i premi alla virtù se non 
      per condurre la società alla sua più grande perfezione? Ora l'uomo 
      non sarà perfetto che quando saprà come creare e distruggere  come 
      la  natura.  Egli  sa  distruggere,  dunque  la metà del cammino è 
      fatta." 
      "Di  modo  che"   riprese   la   signora   Villefort,   ritornando 
      invariabilmente al suo scopo "i veleni dei Medici, dei Renato, dei 
      Ruggero, e più tardi probabilmente del barone di Trenck, di cui ha 
      tanto abusato l'odierno dramma ed il romanzo..." 
      "Erano  oggetti  d'arte,  signora,  non  altro"  riprese il conte. 
      "Credete che il vero sapiente s'indirizzi bonariamente allo stesso 
      individuo?  No,  davvero.  La scienza ama il recondito,  le grandi 
      fatiche,  l'ideale,  se  ciò  si  può dire.  Così a mo' d'esempio, 
      quell'eccellente Adelmonte di cui vi parlavo ha  fatto  su  questo 
      rapporto  eccellenti esperienze;  ve ne citerò una sola.  Aveva un 
      bellissimo giardino pieno di legumi,  di fiori e di  frutti.  Egli 
      sceglieva  il  più umile di tutti questi legumi,  per esempio,  un 
      cavolo.  Per  tre  giorni  lo  annaffiava  con  una  soluzione  di 
      arsenico;  il  terzo  giorno il cavolo cadeva malato ed appassiva; 
      era  il  momento  di  tagliarlo:  per  tutti  sembrava  maturo   e 
      conservava   la   normale   apparenza;   per  Adelmonte  solo  era 
      avvelenato.  Allora egli portava il cavolo a casa,  e prendeva  un 
      coniglio (Adelmonte aveva una collezione di conigli,  di gatti, di 
      porcellini d'India, che nulla cedeva alla collezione di legumi, di 
      fiori e di frutti),  prendeva dunque  un  coniglio  e  gli  faceva 
      mangiare una foglia di cavolo;  il coniglio moriva.  Quale sarebbe 
      il giudice istruttore che potrebbe trovare a ridire su ciò? e qual 
      procuratore del re ha mai sognato di  stabilire  una  requisitoria 
      contro  Magendie o Flourens sul conto dei conigli,  dei porcellini 
      d'India e dei gatti che hanno  ucciso?  Nessuno:  ecco  dunque  un 
      coniglio  morto  senza  che la giustizia se ne inquieti.  Morto il 
      coniglio,  Adelmonte lo faceva sventrare dalla sua cuoca e gettare 
      gli  intestini sopra un letamaio;  su questo un pollo va a beccare 
      gli intestini, cade malato a sua volta e muore l'indomani.  Mentre 
      si  dibatte  nelle  convulsioni dell'agonia passa un avvoltoio (vi 
      sono molti avvoltoi nel paese di Adelmonte),  piomba sul cadavere, 
      lo  porta  su  una  roccia e lo divora.  Tre giorni dopo il povero 
      avvoltoio,  che dopo  questo  pasto  si  è  trovato  costantemente 
      indisposto,  si  sente  preso  da  un  capogiro  durante  il volo, 
      s'avvita in aria e viene a cadere a piombo in un vostro vivaio  di 
      pesci:  voi sapete che il luccio,  l'anguilla,  la morena mangiano 
      golosamente,  essi  mordono  l'avvoltoio.   Ebbene  supponete  che 
      l'indomani  venga  servito alla vostra tavola uno di questi lucci, 
      una di queste anguille,  una  di  queste  morene  avvelenata  dopo 
      quattro passaggi, il vostro convitato, che lo sarà al quinto morrà 
      in  capo ad otto o dieci giorni di dolore d'intestini,  di male al 
      cuore,  di ascesso al piloro.  Verrà fatta l'autopsia,  e i medici 
      diranno: è morto di un tumore al fegato o di una febbre tifoidea." 
      "Ma"  disse  la signora Villefort,  "tutti questi passaggi che voi 
      concatenate gli uni agli altri possono essere interrotti  dal  più 
      piccolo  accidente: l'avvoltolo,  per esempio,  può non passare in 
      tempo, o cadere a cento passi dal vivaio..." 
      "Ecco dove sta precisamente l'arte.  Per essere un gran chimico in 
      Oriente, bisogna saper prendere l'occasione: e vi si giunge." 
      La signora Villefort era tutta intenta ad ascoltarlo. 
      "Ma"  disse,  "l'arsenico  è  indelebile;  in qualunque modo venga 
      assorbito si trova sempre nel corpo umano,  dal momento che vi sia 
      stato introdotto in quantità sufficiente per darne la morte." 
      "Bene" gridò Montecristo,  "bene!  Ecco precisamente ciò che dissi 
      al buon Adelmonte.  Egli sorrise,  e mi rispose con  un  proverbio 
      siciliano, che credo sia anche un proverbio francese: "Figlio mio, 
      il  mondo  non  fu  fatto  in  un giorno,  ma in sette,  ritornate 
      domenica".  La domenica  successiva  vi  andai,  invece  di  avere 
      annaffiato  il  suo  cavolo  con la soluzione arsenicale,  l'aveva 
      annaffiato con una  soluzione  a  base  di  stricnina,  "strichnon 
      culubrina" come dicono gli scienziati.  Questa volta il cavolo non 
      aveva l'aspetto malato,  per cui il coniglio non ne  diffidava;  e 
      cinque minuti dopo era morto. Il pollo lo mangiò ed il giorno dopo 
      era  morto.  Allora  noi facemmo come l'avvoltoio,  il pollo venne 
      sventrato. Questa volta tutti i sintomi particolari erano spariti, 
      e non restavano che i sintomi generali.  Nessuna indicazione sugli 
      organi,  soltanto esasperazione del sistema nervoso,  e traccia di 
      congestione  cerebrale,  nient'altro;   il  pollo  non  era  stato 
      avvelenato,  era morto d'apoplessia.  E un caso raro nei polli, lo 
      so, ma comunissimo nell'uomo." 
      La signora Villefort sembrava sempre più assorta. 
      "E' una fortuna" disse,  "che tali  sostanze  non  possano  essere 
      preparate  che  dai  chimici,  perché in verità una metà del mondo 
      avvelenerebbe l'altra." 
      "Da chimici,  e da quelli che  si  occupano  di  chimica"  rispose 
      negligentemente Montecristo. 
      "E  poi" disse la signora Villefort togliendosi con forza dai suoi 
      pensieri,  "per quanto più sapientemente preparato,  il delitto  è 
      sempre  un  delitto;  e  se sfugge alle umane investigazioni,  non 
      sfugge però allo sguardo di Dio! Gli orientali sono più coraggiosi 
      di noi, ecco tutto." 
      "Eh,  signora,  questo è un pensiero che deve naturalmente nascere 
      in un'anima onesta come la vostra,  ma che i sofismi sradicano ben 
      presto nei perversi. La vita dell'uomo scorre facendo tali cose, e 
      la sua intelligenza si stanca a segnarle.  Voi troverete ben poche 
      persone  che  vadano bestialmente a piantare un coltello nel cuore 
      del loro simile,  o a  somministrare  una  dose  d'arsenico,  come 
      quella  di  cui  vi  parlavo  or  ora.   Questa  è  veramente  una 
      eccentricità o una bestialità.  Per giungere a ciò bisogna che  il 
      sangue si riscaldi e che l'anima esca dai limiti ordinari.  Ma se, 
      come si usa in filologia,  si passa dalla parola al sinonimo,  voi 
      fate  una semplice eliminazione,  invece di commettere un ignobile 
      assassinio;  se allontanate puramente e semplicemente  dal  vostro 
      sentiero  colui  che  vi  dà incomodo,  e ciò senza scossa,  senza 
      violenza,  senza quelle sofferenze che,  diventando un  supplizio, 
      fanno della vostra vittima un martire, e di chi opera un carnefice 
      in tutta l'estensione del termine; se non vi è né sangue, né urli, 
      né  contorsioni,  né soprattutto la pericolosa fretta del delitto, 
      allora voi sfuggite ai colpi della legge umana che vi  dice:  "Non 
      disturbate  la  società".  Ecco come procedono e riescono le genti 
      d'Oriente,  persone gravi,  e flemmatiche,  che s'inquietano  poco 
      sulla   questione   del  tempo  nelle  circostanze  di  una  certa 
      importanza." 
      "Resta la coscienza" disse la signora Villefort con voce  commossa 
      soffocando un sospiro. 
      Montecristo  voleva  continuare,  ma  lei  lo  interruppe come per 
      cambiar discorso. 
      "Tutto mi conduce a stimarvi"  disse,  "per  un  gran  chimico,  e 
      quell'elisir  che  avete  fatto  prendere a mio figlio,  che lo ha 
      richiamato così rapidamente alla vita..." 
      "Oh,  non ve ne fidate" la interruppe Montecristo.  "Una goccia di 
      quell'elisir  bastò  per richiamare vostro figlio alla vita mentre 
      stava per morire,  ma tre gocce gli avrebbero spinto il sangue  ai 
      polmoni,  in modo da procurargli forti palpitazioni di cuore,  sei 
      gocce gli avrebbero sospesa la respirazione,  e lo avrebbero posto 
      in una sincope molto più grave di quella in cui si trovava;  dieci 
      lo  avrebbero  fulminato.  Sapete,   signora,   in  qual  modo  lo 
      allontanai da quelle ampolle che aveva l'imprudenza di toccare..." 
      "E' dunque un veleno terribile?" 
      "Oh, mio Dio, no: bisogna prima ammettere che la parola veleno non 
      esiste:  in  medicina  si  servono  dei  veleni più violenti,  che 
      divengono,  per il modo con cui sono amministrati,  i  rimedi  più 
      salutari." 
      "Che cosa è dunque allora?" 
      "E' una sapiente pozione del mio amico,  l'eccellente Adelmonte, e 
      di cui mi ha insegnato a servirmi." 
      "Oh" disse la signora Villefort,  "questo dev'essere un eccellente 
      antispasmodico." 
      "Sovrano rimedio,  signora, lo avete veduto" rispose il conte, "ed 
      io ne faccio uso frequentemente con tutta la  prudenza  possibile, 
      ben inteso" soggiunse ridendo. 
      "Lo credo;  in quanto a me,  tanto nervosa e così facile a svenire 
      avrei bisogno di pillole per  respirare  meglio,  giacché  il  mio 
      terrore  è di morire soffocata.  Ma siccome è difficile trovar ciò 
      in Francia,  e il vostro amico non sarà disposto a fare per me  un 
      viaggio  a  Parigi,  io faccio uso degli antispasmodici del signor 
      Planch,  e la sua menta e le gocce di Hoffmann  occupano  un  gran 
      posto in casa mia. Osservate, ecco le pastiglie che mi faccio fare 
      espressamente; sono a dose doppia." 
      Montecristo  aprì  la  scatola  di  madreperla  che gli porgeva la 
      giovane sposa,  ed odorò le pastiglie come un esperto in grado  di 
      apprezzare questi preparati. 
      "Esse sono squisite" disse, "ma bisogna deglutirle, e spesso ciò è 
      impossibile a una persona svenuta. Preferisco il mio specifico." 
      "Ma  certamente;  io pure lo preferirei,  particolarmente dopo gli 
      effetti veduti.  Senza dubbio  sarà  un  segreto,  né  sono  tanto 
      indiscreta da domandarlo..." 
      "Ma io sono abbastanza galante per offrirvelo." 
      "Oh, signore." 
      "Soltanto ricordatevi d'una cosa, che a piccola dose è un rimedio, 
      ad  alta  dose è un veleno.  Una goccia rende la vita,  come avete 
      visto,  cinque o sei ammazzerebbero  infallibilmente  ed  in  modo 
      terribile.  Sciolte  in  un  bicchier di vino non ne altererebbero 
      minimamente il gusto...  E  qui  taccio,  perché  sembrerebbe  che 
      avessi l'aria di consigliarvi..." 
      Le sei e mezzo erano suonate, fu annunziato un amico della signora 
      Villefort che veniva a pranzo da lei. 
      "Se  avessi  l'onore  di avervi già frequentato più volte e avessi 
      così l'onore d'essere vostra amica,  invece di avere  soltanto  la 
      fortuna d'esservi obbligata, insisterei perché rimaneste a pranzo, 
      e non mi lascerei abbattere da un primo rifiuto..." 
      "Mille  grazie,  signora"  rispose Montecristo.  "Ho un impegno al 
      quale non posso mancare.  Ho promesso di  condurre  a  teatro  una 
      principessa greca mia amica,  che non è ancora stata all'Opera,  e 
      conta su di me per andarvi." 
      "Andate dunque, ma non dimenticate la mia ricetta." 
      "E  come,  signora?   Per  far  ciò  bisognerebbe  dimenticare  la 
      conversazione che ho avuta con voi, il che è impossibile." 
      Montecristo salutò e partì. 
      La signora Villefort rimase impensierita. 
      "Ecco un uomo strano" disse fra sé,  "e che mi dà l'impressione di 
      chiamarsi Adelmonte per nome di battesimo." 
      In quanto  a  Montecristo  il  risultato  aveva  superato  la  sua 
      aspettativa. 
      "Andiamo" si disse partendo,  "ecco una buona terra; sono convinto 
      che il seme che vi si lascia cadere non abortisce." 
      Il giorno dopo, fedele alla sua promessa, inviò la ricetta. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 52. 
                             ROBERTO IL DIAVOLO. 
 
 
      La scusa dell'Opera era tanto più credibile in quanto quella  sera 
      era solennemente dedicata all'Accademia reale di musica. 
      Lavasseur,    dopo   una   lunga   indisposizione,    si   esibiva 
      rappresentando la parte di Bertramo, e come accade sempre, l'opera 
      del maestro di moda aveva richiamata la più brillante  società  di 
      Parigi.  Morcerf,  come la maggior parte dei giovani ricchi, aveva 
      il suo posto fisso in orchestra,  più dieci palchi di  persone  di 
      sua  conoscenza  cui  poteva  domandare un posto,  senza calcolare 
      quello al quale aveva diritto nel palco dei lyons. 
      Chateau-Renaud aveva il posto  vicino  al  suo,  Beauchamp,  nella 
      qualità  di  giornalista,  aveva  posto  dove voleva.  Quella sera 
      Luciano Debray teneva a sua disposizione il palco del ministro,  e 
      lo  aveva  offerto  al conte Morcerf,  il quale dopo il rifiuto di 
      Mercedes lo aveva girato a Danglars,  facendogli dire  che  quella 
      sera  avrebbe  probabilmente  fatto una visita alla baronessa ed a 
      sua figlia, se queste signore avessero accettato il palco. 
      Queste dame si erano ben guardate dal rifiutare. 
      Nessuno è più bramoso di un palco gratuito di  un  milionario.  In 
      quanto a Danglars aveva dichiarato che i suoi principi politici, e 
      la  qualità  di  deputato dell'opposizione non gli permettevano di 
      andare nel palco del ministro. 
      Di conseguenza la baronessa aveva scritto a Luciano di  venirla  a 
      prendere,  poiché  non  poteva  andare all'Opera sola con Eugenia. 
      Infatti se  le  due  dame  vi  fossero  andate  sole,  si  sarebbe 
      giudicato  di  cattivo  gusto,  mentre  nulla c'era a ridire se la 
      signorina Danglars andava all'Opera con sua madre  e  l'amante  di 
      sua madre... 
      Bisogna pure prendere il mondo come è fatto. 
      Il sipario si alzò come d'ordinario, col teatro quasi vuoto. 
      Questa è una delle abitudini della società elegante parigina,  che 
      va allo spettacolo quando è già cominciato;  e se ne  deriva  che, 
      per gli spettatori già arrivati,  il primo atto passa senza essere 
      guardato ed ascoltato, mentre tutti sono attratti dagli spettatori 
      che giungono,  e non ascoltano altro che il rumore delle  porte  e 
      quello delle conversazioni. 
      "Guarda"  disse  d'improvviso  Alberto  vedendo  aprirsi  un palco 
      laterale del primo ordine, "la contessa G." 
      "E chi è questa contessa G.?" domandò Chateau-Renaud. 
      "Oh,  per Bacco,  barone,  ecco una domanda che non vi  perdono... 
      Chiedete chi è la contessa G.?" 
      "Oh   è  vero"  disse  Chateau-Renaud.   "Non  è  quella  graziosa 
      veneziana?" 
      "Precisamente." 
      In quel momento la contessa G. s'accorse d'Alberto,  e scambiò con 
      lui un saluto accompagnato da un sorriso. 
      "La conoscete?" disse Chateau-Renaud. 
      "Sì" disse Alberto, "le fui presentato a Roma da Franz." 
      "Vorreste  rendermi  a  Parigi  lo stesso favore che Franz vi rese 
      Roma?" 
      "Ben volentieri." 
      "Zitti!" gridò il pubblico. 
      I  due  giovani  continuarono   la   loro   conversazione,   senza 
      inquietarsi per il desiderio della platea di sentire la musica. 
      "Era alle corse del Campo di Marte" disse Chateau-Renaud. 
      "Già, che oggi c'erano le corse... Avete scommesso?" 
      "Oh per una miseria di cinquanta luigi..." 
      "Chi vinse?" 
      "Natius, ho scommesso su lui." 
      "Ma c'erano tre corse?" 
      "Sì,  il premio del Jockey Club,  una coppa d'oro. Anzi è accaduta 
      una cosa bizzarra." 
      "E quale?" 
      "Zitti dunque" gridò il pubblico. 
      "Hanno vinto questa  corsa  un  cavallo  ed  un  fantino  a  tutti 
      sconosciuti." 
      "Come?" 
      "Oh  mio  Dio,  sì,  nessuno  aveva fatto attenzione ad un cavallo 
      iscritto sotto il nome di Vampa e ad un fantino iscritto sotto  il 
      nome di Job,  quando si è visto entrare un ammirabile sauro, ed un 
      fantino grosso come un pugno;  sono stati costretti a caricarlo di 
      20 libbre di piombo nelle tasche,  cosa che non gli ha impedito di 
      arrivare con tre lunghezze prima di Ariel e Barbaro che  correvano 
      con lui." 
      "E non si è saputo a chi appartenevano il cavallo ed il fantino?" 
      "No." 
      "Diceste che il cavallo era iscritto sotto il nome di..." 
      "Vampa." 
      "Ne so più di voi, so a chi apparteneva il cavallo." 
      "Silenzio dunque" gridò per la terza volta la platea. 
      Questa volta gli urli erano così insistenti,  che i due giovani si 
      accorsero finalmente ch'erano indirizzati a loro. 
      Si volsero un momento cercando nella folla chi poteva essere  così 
      insolente  da  zittirli;  ma  nessuno ripeté il grido,  ed essi si 
      volsero verso la scena. 
      In quel mentre si apriva il  palco  del  ministro,  e  la  signora 
      Danglars con la figlia e Luciano Debray prendevano i loro posti. 
      "Ah,  ah"  disse  Chateau-Renaud,  "ecco  delle  persone di vostra 
      conoscenza,  visconte...  Che diavolo  guardate  a  dritta?  Siete 
      cercato da quest'altra parte." 
      Alberto  si  volse  ed  i  suoi  occhi  incontrarono  quelli della 
      baronessa Danglars,  che gli fece un piccolo saluto col ventaglio. 
      In  quanto  alla  signorina  Eugenia  fu  molto se i suoi occhi si 
      abbassarono fino all'orchestra. 
      "In  verità,   mio  caro"  disse  Chateau-Renaud,   "non  capisco, 
      prescindendo dalla condizione borghese, che non credo vi preoccupi 
      molto,  quel che potete avere contro la signorina Danglars; eppure 
      è una bellissima giovane." 
      "Bellissima certamente" disse Alberto,  "ma  vi  confesso  che  in 
      fatto di bellezza, amerei qualche cosa di più dolce, di più soave, 
      infine di più femminile." 
      "Ecco i giovani,  non si contentano mai" disse Chateau-Renaud, che 
      nella sua qualità di uomo di trent'anni assumeva un'aria  paterna. 
      "E come, mio caro, vi si trova una fidanzata costruita sul modello 
      di Diana cacciatrice, e non siete contento!" 
      "Ebbene,  l'avrei  desiderata piuttosto del genere della Venere di 
      Milo, o di Capua.  Questa Diana cacciatrice,  sempre in mezzo alle 
      sue  ninfe,  mi  spaventa  un  poco;  ho  paura che mi tratti come 
      Atteone." 
      Infatti, un colpo d'occhio sulla giovane, poteva quasi spiegare il 
      sentimento di Morcerf. 
      Eugenia Danglars era bella,  ma come aveva detto Alberto,  di  una 
      bellezza  un  poco sostenuta.  I capelli erano di un bel nero,  ma 
      nell'ondulazione si notava una specie di ritrosìa al pettine;  gli 
      occhi, neri come i capelli, sotto magnifiche sopracciglia, che non 
      avevano che un difetto,  quello cioè di aggrottarsi qualche volta, 
      erano particolarmente notevoli per  una  espressione  di  fermezza 
      rara in una donna,  il naso aveva quelle proporzioni esatte che un 
      bravo scultore darebbe alla statua di Giunone  soltanto  la  bocca 
      era  un  po'  grande,  ma  con  bei  denti che davano risalto alle 
      labbra, il cui carminio troppo vivo spiccava sul pallore del viso; 
      infine, un neo nero posto all'angolo della bocca,  e più largo del 
      naturale,  finiva  col dare a questa fisonomia un'indole risoluta, 
      ciò che spaventava un pochino Morcerf. 
      Tutto il resto della persona di Eugenia corrispondeva  alla  testa 
      che  abbiamo cercato di descrivere.  Era come aveva detto Alberto, 
      una Diana cacciatrice,  ma con qualche cosa di più fermo e di  più 
      maschio nella sua bellezza. 
      In quanto all'educazione ricevuta, se c'era un rimprovero a farsi, 
      sembrava  in alcuni punti,  come nella sua fisonomia,  più propria 
      all'altro sesso. 
      Infatti parlava due o tre  lingue,  disegnava  facilmente,  faceva 
      versi  e  componeva  musica,   era  soprattutto  appassionata  per 
      quest'ultima  arte,   che  studiava  con  una  delle  amiche   del 
      conservatorio,  ragazza  senza beni di fortuna,  ma che,  a quanto 
      veniva assicurato,  aveva tutte le doti possibili per divenire una 
      eccellente cantante; si diceva che un gran compositore provava per 
      questa  ragazza  un interesse quasi paterno,  e la faceva studiare 
      nella speranza che un giorno avrebbe fatto una gran fortuna con la 
      sua voce. 
      La possibilità che Luisa d'Armilly  (era  il  nome  della  giovane 
      virtuosa) potesse un giorno salire sul palcoscenico, faceva sì che 
      la  signorina  Danglars,  quantunque la ricevesse in casa,  non si 
      facesse vedere con lei in pubblico.  Del  resto  senz'avere  nella 
      casa  del  banchiere  il  posto  di un'amica,  Luisa godeva di una 
      posizione superiore a quella delle istitutrici ordinarie. 
      Qualche secondo dopo l'ingresso della signora Danglars nel  palco, 
      era calato il sipario, e grazie alla lunghezza dell'intermezzo fra 
      un  atto  e  l'altro,  venne  lasciato tutto il comodo di andare a 
      passeggiare nella scala o di fare delle visite per una mezz'ora: i 
      posti dell'orchestra si erano quasi del tutto vuotati. 
      Morcerf e Chateau-Renaud erano usciti fra i primi. 
      Per  un  momento  la  signora   Danglars   credette   che   questa 
      sollecitudine  di  Alberto  avesse  per  scopo  di  farle  i  suoi 
      complimenti,  e si era inclinata  all'orecchio  della  figlia  per 
      annunziarle questa visita, ma lei si era contentata di scuotere la 
      testa  sorridendo;  e nello stesso tempo,  come per provare quanto 
      era fondato lo scetticismo d'Eugenia,  Morcerf comparve nel  palco 
      di fianco del prim'ordine: era quello della contessa G.? 
      "Ah,  eccovi qui, signor viaggiatore" disse questa stendendogli la 
      mano con tutta la cordialità di una vecchia conoscenza. "E' un bel 
      tratto di amabilità per voi  avermi  riconosciuta,  e  soprattutto 
      avermi accordata la preferenza della prima visita." 
      "Credetemi, signora, se avessi conosciuto prima il vostro arrivo a 
      Parigi,  ed avessi saputo il vostro indirizzo, non avrei aspettato 
      tanto.  Ma vogliate permettermi di presentarvi il barone  Chateau- 
      Renaud mio amico,  uno dei pochi gentiluomini che rimangono ancora 
      alla Francia,  dal quale ho saputo che voi eravate alle corse  del 
      Campo di Marte." 
      Chateau-Renaud salutò. 
      "Ah, eravate alle corse, signore?" disse con vivacità la contessa. 
      "Sì, signora." 
      "Ebbene"  riprese  la  contessa G.,  "sapreste dirmi di chi era il 
      cavallo che ha vinto il Jockey Club?" 
      "No, signora, e poco fa facevo la stessa domanda ad Alberto." 
      "Date tanta importanza alla cosa, contessa?" domandò Alberto. 
      "A che?" 
      "A conoscere il padrone del cavallo." 
      "Infinitamente... Immaginatevi... Ma sapreste, visconte, per caso, 
      chi sia?" 
      "Signora,  sembra vogliate dare inizio a una storia:  avete  detto 
      "immaginatevi"..." 
      "Ebbene!  Immaginatevi  che  quel  grazioso  cavallo  sauro e quel 
      delizioso e piccolo fantino dalla casacca rosa mi avevano a  prima 
      vista ispirata una così forte simpatia,  che facevo voti per l'uno 
      e per l'altro,  come avessi scommesso su loro  la  metà  dei  miei 
      beni:  per  cui  quando  giunsero  al  nastro,  battendo gli altri 
      corridori di tre lunghezze,  ne fui così contenta,  che mi misi  a 
      battere  le  mani  come  una  pazza.  Figuratevi  il  mio  stupore 
      allorché,  rientrando in casa,  ho  incontrato  per  le  scale  il 
      piccolo  fantino  rosa,  credetti  che  il  vincitore  della corsa 
      abitasse per caso nella stessa casa, quando,  aprendo la porta del 
      mio salotto,  la prima cosa che vidi, fu la coppa d'oro del premio 
      vinto dal cavallo e dal fantino sconosciuti.  Nella coppa c'era un 
      pezzetto  di  carta  sul  quale erano scritte queste parole: "Alla 
      contessa G., lord Ruthwen"." 
      "E' precisamente lui" disse Morcerf. 
      "Come "precisamente lui"? Chi volete dire?" 
      "Voglio dire che è lord Ruthwen in persona." 
      "Quale lord Ruthwen?" 
      "Il mostro, il vampiro, quello del teatro Argentina." 
      "Davvero?" gridò la contessa. "E' dunque qui?" 
      "Sì, è qui." 
      "E voi lo vedete, lo ricevete, andate da lui?" 
      "E' mio amico intimo; ed anche il signor Chateau-Renaud ha l'onore 
      di conoscerlo." 
      "Ma che cosa può farvi credere che egli sia il vincitore?" 
      "Il suo cavallo iscritto sotto il nome di Vampa." 
      "Ebbene, avanti." 
      "Non vi ricordate il nome di  quel  famoso  bandito  che  mi  fece 
      prigioniero?" 
      "Ah, è vero." 
      "E dalle mani del quale il conte mi strappò miracolosamente?" 
      "E' un fatto." 
      "Si chiamava Vampa... Vedete bene che è lui." 
      "Ma perché ha inviata questa coppa a me?" 
      "Innanzitutto, signora contessa, perché gli avevo parlato molto di 
      voi,  come potete ben capire; secondo, perché sarà stato felice di 
      aver ritrovato una  compatriota,  e  contento  dell'interesse  che 
      questa compatriota aveva per lui." 
      "Spero  che  non gli avrete raccontato le pazzie che si sono dette 
      sul suo conto?" 
      "In fede mia,  non lo giurerei.  E questo modo d'offrirvi la coppa 
      sotto il nome di lord Ruthwen..." 
      "E' orribile... Sarà adirato con me!" 
      "Le sembra il comportamento di un nemico?" 
      "No, lo confesso." 
      "E allora?" 
      "Dunque è a Parigi?" 
      " Sì." 
      "E che sensazione ha fatto?" 
      "Se  ne  è  parlato  otto  giorni"  disse Alberto.  "Poi c'è stata 
      l'incoronazione della regina d'Inghilterra,  e quindi il furto dei 
      diamanti  della  signorina  Mars,  e  non  si è più parlato che di 
      questo." 
      "Mio caro" disse Chateau-Renaud,  "si vede bene  che  il  conte  è 
      vostro amico,  e lo trattate come tale...  Non credete, signora, a 
      ciò che vi dice Alberto...  In tutta Parigi non si parla  che  del 
      conte di Montecristo. Egli ha cominciato col regalare alla signora 
      Danglars  un  paio  di  cavalli  che  gli  sono costati trentamila 
      franchi;  poi ha salvato la vita alla signora  Villefort;  poi  ha 
      guadagnato,  a  quanto  sembra,  il  premio della corsa del Jockey 
      Club.  Io sostengo,  qualunque sia l'opinione di Morcerf,  che  in 
      questo  momento  tutti  si  occupano  ancora  del conte,  e che si 
      occuperanno per un buon mese ancora di lui,  tanto più se continua 
      a fare delle eccentricità,  le quali,  del resto,  sembrano il suo 
      modo di vivere." 
      "Può darsi" disse Morcerf.  "Ma,  guardate,  chi ha  affittato  il 
      palco dell'ambasciatore di Russia?" 
      "Qual è?" disse la contessa. 
      "Quello  fra  i  colonnati  del prim'ordine,  che sembra rimesso a 
      nuovo del tutto." 
      "É vero" disse Chateau-Renaud. "Non c'era nessuno durante il primo 
      atto?" 
      "Dove?" 
      "In quel palco." 
      "No" rispose la contessa, "non vi ho visto alcuno.  Così" continuò 
      ritornando alla prima conversazione,  "credete che il vostro conte 
      di Montecristo sia stato quello che ha vinto il premio?" 
      "Ne sono sicuro." 
      "E che mi ha inviato la coppa?" 
      "Senz'alcun dubbio." 
      "Ma io non lo conosco, ed ho l'intenzione di rimandargliela." 
      "Oh, non lo fate,  ve ne manderebbe un'altra intagliata in qualche 
      zaffiro,  o scavata in qualche rubino.  Questi sono i suoi modi di 
      fare..." 
      In quell'istante s'intesero i campanelli: il  secondo  atto  stava 
      per cominciare. 
      Alberto si alzò per andare al suo posto. 
      "Vi rivedrò?" domandò la contessa. 
      "Nell'intermezzo,  se permettete, verrò a sentire se posso esservi 
      utile a Parigi." 
      "Signori" disse la contessa,  "tutti i sabato sera sto in casa per 
      ricevere gli amici, rue de Rivoli, 22. Entrambi siete invitati." 
      I due giovani salutarono ed uscirono. 
      Rientrando  in  platea,  videro tutti in piedi con gli occhi fissi 
      sopra un sol punto del teatro;  i loro sguardi seguirono quelli di 
      tutti,   e   si   fermarono   sul   palco  che  prima  apparteneva 
      all'ambasciatore di Russia. 
      Erano  entrati  un  uomo   vestito   di   nero   di   trentacinque 
      quarant'anni, e una donna che indossava un costume orientale. 
      La  donna  era  della  più  gran  bellezza,  ed il vestito di tale 
      ricchezza che tutti gli occhi, come si disse, erano su di lei. 
      "Ecco" disse Alberto, "Montecristo e la sua greca." 
      Infatti erano il conte ed Haydée. 
      La giovane greca era  l'oggetto  dell'attenzione  non  solo  della 
      platea,  ma di tutto il teatro;  le donne si sporgevano dai palchi 
      per vedere risplendere al chiarore  dei  lumi  quella  cascata  di 
      diamanti. 
      Il  secondo  atto  passò  in mezzo a quel sordo mormorio che nelle 
      grandi platee accompagna i grandi avvenimenti. 
      Nessuno pensò a gridare silenzio. 
      Questa donna così bella, così giovane, così raggiante,  era il più 
      bello spettacolo che si potesse vedere. 
      Questa   volta   un  segno  della  signora  Danglars  fece  capire 
      chiaramente ad Alberto che la baronessa desiderava avere  una  sua 
      visita, finito l'atto. 
      Morcerf era troppo educato per farsi aspettare,  quando gli veniva 
      chiaramente detto ch'era atteso.  Appena l'atto finì si affrettò a 
      salire al palco del proscenio. 
      Salutò le due dame e stese la mano a Debray. 
      La baronessa lo accolse con un grazioso sorriso, ed Eugenia con la 
      sua freddezza abituale. 
      "In  fede  mia,  mio  caro"  disse  Debray,  "voi  vedete  un uomo 
      depresso,  che vi chiama in aiuto  per  sollevarlo.  Ecco  qui  la 
      signora che mi aggredisce con le domande sul conte,  e vuole ch'io 
      sappia di dov'è,  di dove viene,  dove va: in fede mia,  non  sono 
      Cagliostro, e per togliermi d'impaccio, ho detto: "Domandate tutto 
      ciò  a  Morcerf;  egli  conosce  sulla  punta  delle  dita  il suo 
      Montecristo"... Allora vi hanno fatto segno." 
      "Non è incredibile?" disse la baronessa. "Quando si è al ministero 
      e si ha mezzo milione per i segreti di Stato,  bisognerebbe  saper 
      rispondere a queste domande!" 
      "Signora" disse Luciano,  "vi prego di credere che se avessi mezzo 
      milione a mia disposizione, lo impiegherei in tutt'altro modo, che 
      nel prendere informazioni sul conte di Montecristo,  che  ai  miei 
      occhi  non ha altro merito,  se non quello di essere due volte più 
      ricco  di  un  nababbo:  ma  ho  ceduto  la  parola   a   Morcerf, 
      accomodatevi con lui; in ciò non ho più nulla da dire." 
      "Un  nababbo  non  mi  avrebbe  certo mandato in regalo un paio di 
      cavalli di trentamila franchi con quattro diamanti  da  cinquemila 
      franchi l'uno." 
      "Oh"  disse  ridendo  Morcerf,  "i diamanti sono la sua mania.  Io 
      credo che,  come Potemkin,  ne abbia sempre in tasca,  e ne semini 
      lungo la strada, come Pollicino faceva coi sassolini." 
      "Avrà  scoperto qualche miniera" disse la signora.  "Sapete che ha 
      un credito illimitato sul banco del barone?" 
      "Non lo sapevo, ma dev'esser così" rispose Alberto. 
      "E che ha avvertito il signor Danglars che conta di stare a Parigi 
      un anno e di spendervi sei milioni?" 
      "E' lo Scià di Persia che viaggia in incognito." 
      "E quella donna,  signor Luciano" disse Eugenia.  "Avete osservato 
      quanto è bella?" 
      "In  verità,  signorina,  non  conosco  che voi per far vanto alle 
      persone del vostro sesso." 
      Luciano accostò l'occhialino. 
      "Graziosa!" disse. 
      "Ed il signor Morcerf sa chi sia quella signora?" 
      "Signorina" disse Alberto,  rispondendo  a  questa  quasi  diretta 
      domanda, "press'a poco, come tutto ciò che riguarda il personaggio 
      misterioso di cui si parla: è una greca." 
      "Si  capisce  facilmente  dal vestito...  Non mi dite nulla più di 
      quanto a quest'ora sa tutto il teatro." 
      "Sono mortificato" disse  Morcerf,  "d'essere  un  cicerone  tanto 
      ignorante;  ma debbo confessarvi che le mie cognizioni si limitano 
      a questo.  So anche che ama la musica,  perché un giorno che  feci 
      colazione  dal conte,  sentii il suono di una guzla che certamente 
      suonava lei." 
      "Il vostro conte riceve?" domandò la signora Danglars. 
      "In modo assai splendido, ve lo giuro." 
      "Bisogna che obblighi il signor Danglars ad offrirgli  un  pranzo, 
      un ballo, affinché ce lo restituisca." 
      "Come, andreste da lui?" disse Debray, ridendo. 
      "E perché no, con mio marito?" 
      "Ma questo misterioso conte è celibe." 
      "Vedete  che  non  è vero" disse ridendo la baronessa mostrando la 
      bella greca. 
      "Quella donna  è  una  schiava,  a  quanto  ci  ha  detto,  ve  ne 
      ricordate, alla vostra colazione, Morcerf." 
      "Converrete,  mio  caro  Luciano"  disse  la  baronessa,  "che  ha 
      piuttosto l'aspetto di qualche principessa." 
      "Delle Mille e una notte." 
      "Non dico delle Mille e una notte, ma che cosa fa una principessa, 
      caro mio? I diamanti! Ed essa ne è ricoperta." 
      "Ne ha anche troppi" disse  Eugenia,  "sarebbe  ancor  più  bella, 
      senza;  perché  il  collo ed i polsi,  che sono di forme squisite, 
      avrebbero maggiore spicco." 
      "Oh,  l'artista!  Sentite" disse  la  signora  Danglars,  "come  è 
      entusiasta..." 
      "Amo tutto ciò che è bello" disse Eugenia. 
      "Ma che ne dite del conte? Mi sembra che non sia male." 
      "Il  conte"  disse  Eugenia,  come  se non avesse ancora pensato a 
      guardarlo, "il conte è molto pallido." 
      "Di questo pallore appunto" disse Morcerf, "cerchiamo di conoscere 
      la causa.  La contessa G.  pretende,  voi lo sapete,  che  sia  un 
      vampiro." 
      "E' dunque ritornata la contessa?" domandò la baronessa. 
      "E'  nel  palco  di  fianco"  disse  Eugenia,  "quasi in faccia al 
      nostro,  madre mia...  Quella  donna  con  quei  mirabili  capelli 
      biondi..." 
      "Bella..."  disse la signora Danglars.  "Sapete che dovreste fare, 
      Morcerf?" 
      "Ordinate, signora." 
      "Dovreste fare  una  visita  al  vostro  conte  di  Montecristo  e 
      condurcelo." 
      "Per quale motivo?" disse Eugenia. 
      "Per parlare con lui... Non sei curiosa di vederlo?" 
      "Niente affatto!" 
      "Strana fanciulla" mormorò la baronessa. 
      "Non   occorre"   disse   Morcerf:  "probabilmente  verrà  da  sé. 
      Osservate, vi ha vista, signora, e vi saluta." 
      La baronessa rese  il  saluto  al  conte  accompagnandolo  con  un 
      grazioso sorriso. 
      "Andiamo" disse Morcerf,  "mi sacrifico, vi lascio per scoprire il 
      modo di parlargli." 
      "Andate nel palco, la cosa è semplicissima." 
      "Ma io non sono stato presentato." 
      "A chi?" 
      "Alla bella greca." 
      "La diceste una schiava..." 
      "Sì, ma voi pretendete che sia una principessa... Spero che quando 
      mi vedrà uscire, uscirà a sua volta..." 
      "E' possibile, andate." 
      "Vado." 
      Morcerf salutò ed uscì. 
      Effettivamente nel momento che passava davanti al palco del conte, 
      la porta si aprì: il conte disse alcune parole in  arabo  ad  Alì, 
      che stava nel corridoio, e prese il braccio di Morcerf. Alì chiuse 
      la porta,  e si tenne in piedi davanti ad essa;  nel corridoio una 
      piccola folla curiosava. 
      "In verità" disse Montecristo,  "la vostra  Parigi  è  una  strana 
      città, ed i vostri parigini gente curiosa. Si direbbe che questa è 
      la  prima  volta  che  vedano  un moro: guardate come si affollano 
      intorno a questo povero Alì,  che non capisce il perché.  Vi  dico 
      però  che  un  parigino può andare a Tunisi,  a Costantinopoli,  a 
      Bagdad, al Cairo e non gli faranno cerchio intorno." 
      "I vostri orientali sono persone sensate,  e non guardano che  ciò 
      che merita d'essere guardato, ma credetemi, Alì non gode di questa 
      popolarità  se  non perché vi appartiene...  In questo momento voi 
      siete l'uomo di moda." 
      "Davvero? E chi mi ha procurato questo favore?" 
      "Per Bacco,  voi stesso!  Voi regalate  pariglie  da  migliaia  di 
      luigi,  salvate  la  vita alle mogli dei procuratori del re,  fate 
      correre a nome di un maggiore Black  dei  purosangue,  montati  da 
      fantini grossi come formiche e infine vincete delle coppe d'oro, e 
      le mandate in regalo a delle belle donne." 
      "E chi diavolo vi ha raccontato tutte queste fole?" 
      "Per Bacco!  Primo, la signora Danglars, che muore dalla voglia di 
      vedervi nel suo palco, o piuttosto di farvici vedere; secondo,  il 
      giornale  di  Beauchamp;  e  terzo,  la mia propria immaginazione. 
      Perché  avete  chiamato  Vampa  il  vostro  cavallo,  se  volevate 
      conservare l'incognito?" 
      "Ah,  è vero!" disse il conte. "E' stata un 'imprudenza. Ma ditemi 
      dunque il conte Morcerf non viene qualche  volta  all'Opera?  L'ho 
      cercato dappertutto, ma non l'ho visto da nessuna parte." 
      "Egli verrà, questa sera." 
      "E dove?" 
      "Nel palco della baronessa, credo." 
      "Quella graziosa giovane che è con lei è sua figlia?" 
      "Sì." 
      "Ve ne faccio i miei rallegramenti." 
      Morcerf sorrise. 
      "Parleremo di ciò in altro momento,  e più a fondo..." disse. "Che 
      ne dite della musica?" 
      "Quale musica?" 
      "Ma... quella che avete ascoltata!" 
      "E' bellissima come  musica  composta  da  un  comune  mortale,  e 
      cantata da uccelli senza ali, come diceva Diogene." 
      "Che  dite,  caro conte?  Sembrerebbe che abbiate potuto udire,  a 
      vostro talento, i sette cori celesti..." 
      "Sarebbe ancor poco.  Quando voglio udire della musica mai sentita 
      da orecchio umano, allora io dormo." 
      "Ebbene,  qui siete nel posto giusto...  Dormite, dormite, l'opera 
      non è stata inventata per altro scopo." 
      "No,  la vostra orchestra fa troppo rumore,  perché possa  dormire 
      del sonno di cui vi parlo,  mi occorrono calma,  silenzio,  ed una 
      certa preparazione..." 
      "Ah, il famoso hashish!" 
      "Appunto,  visconte,  quando vorrete sentire della musica venite a 
      cena da me." 
      "Ma già la intesi venendo a far colazione" disse Morcerf. 
      "A Roma?" 
      "Sì." 
      "Sarà  stata  la guzla di Haydée.  Sì,  si diverte qualche volta a 
      suonare delle arie del suo paese." 
      Morcerf non volle insistere, e il conte tacque. 
      In quel momento suonarono i campanelli. 
      "Voi mi scuserete" disse il  conte  riprendendo  la  via  del  suo 
      palco. 
      "Scusarvi di che?" 
      "Fate  mille  complimenti  alla  contessa  G.  da  parte  del  suo 
      vampiro." 
      "E alla baronessa?" 
      "Le direte che avrò l'onore, se me lo permette, di portarle i miei 
      omaggi nella serata." 
      Il terz'atto cominciò. 
      Il conte Morcerf venne,  come aveva  promesso,  a  raggiungere  la 
      signora Danglars. 
      Il  conte  non  era  uno  di  quegli  uomini che fanno colpo in un 
      teatro: nessuno si accorse del suo arrivo,  fuorché le persone del 
      palco  in cui prese posto.  Ma Montecristo lo vide,  ed un leggero 
      sorriso gli sfiorò le labbra. 
      In quanto ad Haydée nulla vide finché il  sipario  rimase  alzato; 
      come  tutte  le  nature primitive ella adorava tutto ciò che parla 
      all'orecchio ed agli occhi. 
      Il terzo atto passò senza applausi eccezionali. 
      Le signorine Noblet,  Julia,  e Leroux eseguirono  i  loro  soliti 
      intermezzi,  il principe di Granata fu sfidato da Roberto e infine 
      questo maestoso re, che tutti conoscete, fece il giro della scena, 
      per mostrare il suo manto di velluto, tenendo sua figlia per mano; 
      poi calò il sipario,  e la platea si  riversò  nella  sala  e  nei 
      corridoi. 
      Il  conte  uscì  dal  palco  ed un momento dopo fu visto in quello 
      della baronessa Danglars,  la quale non poté contenere un  leggero 
      grido di sorpresa misto a gioia. 
      "Ah,  venite dunque,  signor conte" gridò. "Ho troppo desiderio di 
      aggiungere i miei ringraziamenti verbali a quelli che  vi  ho  già 
      scritti." 
      "Oh,  signora,  vi ricordate ancora di questa miseria,  io l'avevo 
      già dimenticata." 
      "Sì,  ma ciò che non si dimentica,  signor conte,  è che il giorno 
      seguente  salvaste la mia buona amica,  la signora Villefort,  dal 
      pericolo che le facevano correre i miei cavalli." 
      "Neppure questa volta merito i vostri ringraziamenti. Alì,  il mio 
      moro,  ebbe l'opportunità di rendere alla signora Villefort questo 
      importante servizio." 
      "Ma fu pure Alì" domandò il  conte  di  Morcerf,  "che  salvò  mio 
      figlio dalle mani dei banditi romani?" 
      "No,  signor  conte"  disse Montecristo stringendo la mano che gli 
      tendeva il generale,  "questa volta accetto i ringraziamenti,  per 
      conto mio,  ma voi me li avete già fatti, ed in verità sono felice 
      di sentirvi tanto  riconoscente.  Fatemi  dunque  l'onore,  ve  ne 
      prego, baronessa, di presentarmi a vostra figlia." 
      "Oh, voi siete già presentato, almeno di nome, poiché da due o tre 
      giorni  non  si  parla che di voi.  Eugenia" continuò la baronessa 
      voltandosi verso la figlia, "il conte di Montecristo." 
      Il  conte  s'inchinò,   la  signorina  Danglars  fece  un  leggero 
      movimento con la testa. 
      "Nel  palco  con  voi  c'è  una  bellissima signora,  conte" disse 
      Eugenia. "E' vostra figlia?" 
      "No,  signorina" disse Montecristo stupito da questa ingenuità,  o 
      da  questa  sorprendente  malizia.  "E'  una  greca di cui io sono 
      tutore." 
      "Come si chiama?" 
      "Haydée" rispose Montecristo. 
      "Una greca" mormorò il conte di Morcerf. 
      "Sì,  conte" disse la signora Danglars.  "E ditemi se  alla  corte 
      d'Alì-Tebelen,  ove avete servito gloriosamente,  avete mai veduto 
      un costume così ammirabile,  come quello che abbiamo innanzi  agli 
      occhi." 
      "Ah" disse Montecristo, "voi avete servito a Giannina?" 
      "Sono  stato  istruttore  delle  soldatesche  del  Pascià" rispose 
      Morcerf,  "e la mia piccola fortuna,  non lo  nascondo,  mi  viene 
      dalla liberalità di questo illustre capo albanese." 
      "Guardate, dunque" insistette la signora Danglars. 
      "E dove?" balbettò Morcerf. 
      "Lassù"  disse  Montecristo,  e  attirando  il  conte col braccio, 
      sporse con lui la testa dal palco. 
      In quel momento Haydée,  che  cercava  con  gli  occhi  il  conte, 
      scoperse la sua pallida testa vicina a quella di Morcerf. 
      Questa  vista  produsse  sulla  giovane  l'effetto  della testa di 
      Medusa: fece un movimento in avanti,  come per  divorarli  con  lo 
      sguardo poi,  quasi subito,  si gettò indietro, mandando un debole 
      grido,  inteso soltanto dalle persone vicine e da Alì,  che aperse 
      subito la porta. 
      "Avete  visto?"  disse  Eugenia.  "Che accade alla vostra pupilla, 
      signor conte? Si direbbe che stia male." 
      "Sembra" disse il conte. "Ma non vi spaventate, signorina,  Haydée 
      è un temperamento nervoso e molto sensibile agli odori: un profumo 
      fastidioso  basta  per  farla  svenire...  Ma" soggiunse il conte, 
      cavando una boccettina di tasca, "ho qui il rimedio." 
      E dopo avere salutato la baronessa e la figlia, strinse nuovamente 
      la mano a Morcerf e a Debray,  ed uscì  dal  palco  della  signora 
      Danglars. 
      Quando rientrò nel suo, Haydée era ancora molto pallida; appena le 
      strinse la mano Montecristo s'accorse ch'era fredda ed umida. 
      "Con chi parlavi, signore?" domandò Haydée. 
      "Col  conte  di  Morcerf"  rispose  Montecristo,  "che  è stato al 
      servizio del tuo illustre padre, e che confessa di dovergli la sua 
      fortuna." 
      "Ah, miserabile, egli lo vendette ai turchi!  La sua fortuna fu il 
      premio del suo tradimento. Tu dunque non lo sapevi, mio signore?" 
      "Avevo sentito parlarne in Epiro" disse Montecristo,  "ma ignoro i 
      particolari... Vieni, figlia mia,  tu me li racconterai...  Devono 
      esser curiosi." 
      "Oh,  sì,  vieni, vieni. Mi sembra che morrei se dovessi stare più 
      lungamente di faccia a quest'uomo." 
      E  Haydée  s'alzò  all'istante,  s'avvolse  nel  suo  mantello  di 
      cachemire bianco, orlato di perle e di corallo ed uscì nel momento 
      in cui si alzava il sipario per il quarto atto. 
      "Guardate  se  quest'uomo  si  comporta  come gli altri!" disse la 
      contessa  G.   ad  Alberto  ch'era  ritornato  da  lei.   "Ascolta 
      attentamente il terzo atto del Roberto, e se ne va nel momento che 
      sta per cominciare il quarto." 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 53. 
                         RIALZO E RIBASSO DEI FONDI. 
 
 
      Qualche  giorno dopo questo incontro Alberto di Morcerf andò a far 
      visita al conte di Montecristo nella sua casa agli Champs-Elysées, 
      che aveva già preso quell'aspetto di palazzo, che il conte, grazie 
      alle sue immense ricchezze,  sapeva imprimere alle sue abitazioni. 
      Egli veniva a rinnovargli i ringraziamenti della signora Danglars, 
      già  ricevuti  in  una  lettera  firmata baronessa Danglars,  nata 
      Erminia de Servieux. 
      Alberto era accompagnato da Luciano  Debray,  il  quale  unì  alle 
      parole dell'amico qualche complimento,  non certo ufficiale, ma di 
      cui il conte con il suo fine intuito non poteva non  sospettar  la 
      sorgente. Gli sembrò perfino che Luciano venisse a visitarlo mosso 
      da un doppio sentimento di curiosità, di cui almeno metà proveniva 
      dalla rue Chaussée d'Antin: infatti poteva supporre,  senza timore 
      di sbagliarsi, che la signora Danglars, non potendo coi suoi occhi 
      ispezionare l'appartamento di un  uomo  che  regalava  cavalli  da 
      trenta  mila  franchi  ed  andava  all'Opera  con  una  greca  che 
      ostentava il valore di un milione in  diamanti,  aveva  incaricato 
      gli occhi di un fidato amico per avere qualche informazione. Ma il 
      conte non parve sospettare la minima correlazione fra la visita di 
      Luciano e la curiosità della baronessa. 
      "Voi  siete  in  rapporto  quasi  continuo  col  barone Danglars?" 
      domandò ad Alberto. 
      "Sì, signor conte, sapete ciò che vi ho detto." 
      "Dunque resta sempre stabilito?" 
      "Oggi più che mai..." disse Luciano. "E' affare concluso." 
      E Luciano,  giudicando senza dubbio che questa parola gli desse il 
      diritto  di  estraniarsi  dalla  conversazione,  si  pose la lente 
      all'occhio,  e col pomo del bastoncino alle labbra,  fece il  giro 
      della stanza esaminando le armi ed i quadri. 
      "Bene" disse Montecristo.  "A quanto mi diceste, non avrei creduto 
      ad una così sollecita soluzione." 
      "Che volete?  Le cose camminano da sé...  Quando voi non pensate a 
      loro,  esse pensano a voi, e quando vi voltate, siete meravigliato 
      del cammino che hanno fatto. Mio padre ed il signor Danglars hanno 
      servito insieme in  Spagna.  Mio  padre,  rovinato  dalle  vicende 
      politiche,   e  Danglars  che  non  aveva  mai  avuto  patrimonio, 
      gettarono  le  prime  fondamenta:  mio  padre  della  sua  fortuna 
      politico-militare,   ch'è   straordinaria,   Danglars   della  sua 
      politico-commerciale, che è ammirabile." 
      "Sì,  infatti" disse Montecristo,  "credo che nella visita che gli 
      ho  fatta,  il  signor  Danglars  mi  abbia  parlato di ciò...  e" 
      continuò,  dando uno sguardo dov'era Luciano che stava  sfogliando 
      un  album,  "è  bella  la  signorina  Eugenia?...  Perché credo di 
      ricordarmi che si chiami Eugenia..." 
      "Molto bella,  o piuttosto molto avvenente" disse Alberto,  "ma di 
      una bellezza che non apprezzo; sono un indegno." 
      "Ne parlate come se foste già suo marito." 
      "Oh"  fece  Alberto,  dando anch'egli uno sguardo a ciò che faceva 
      Luciano. 
      "Sapete"  disse  Montecristo  abbassando  la  voce,  "che  non  mi 
      sembrate molto entusiasta di questo matrimonio?" 
      "La  signorina Danglars è troppo ricca per me,  e ciò mi spaventa" 
      disse Morcerf. 
      "Baie!" disse Montecristo. "Questa non è una buona ragione!  E non 
      siete ricco anche voi?" 
      "Mio padre ha qualche cosa... circa cinquantamila lire di rendita, 
      e maritandomi me ne cederà forse dieci o dodici." 
      "La  cosa  è  alquanto  modesta,  particolarmente a Parigi;  ma in 
      questo mondo non ci sono solo le ricchezze,  e non è piccola  cosa 
      avere  un  nome ed un'alta posizione in società.  Il vostro nome è 
      celebre,  la vostra posizione magnifica,  e poi il conte Morcerf è 
      un  soldato,  ed  è  cosa  risaputa  la  sua  integerrimità...  Il 
      disinteresse è il più bel raggio di sole al quale  possa  balenare 
      una  nobile  spada.  Trovo questo matrimonio convenientissimo: voi 
      nobiliterete la signorina Danglars, lei vi arricchirà!" 
      Alberto scosse la testa e rimase pensieroso. 
      "Vi sono altre cose" disse. 
      "Vi confesso che non arrivo a comprendere tanta repulsione per una 
      giovane ricca e bella." 
      "Questa repulsione, se pure c'è, non viene tutta da parte mia." 
      "E da quale parte, dunque?  Mi diceste che vostro padre desiderava 
      questo matrimonio." 
      "Da  parte  di  mia  madre,  che  ha  un occhio prudente e sicuro. 
      Ebbene,  a lei non sorride quest'unione;  ha una certa prevenzione 
      contro i Danglars." 
      "Oh!" disse il conte con un tono di voce un po' caricato.  "Ciò si 
      capisce:  la  contessa  Morcerf,   che  è  la  distinzione  e   la 
      delicatezza  personificate,  esita  alquanto  a  toccare  una mano 
      ordinaria, callosa e brutale." 
      "Non so se sia così" disse  Alberto,  "ma  mi  sembra  che  questo 
      matrimonio la renderà infelice.  Vi doveva già essere una riunione 
      di famiglia sei settimane fa per parlarne,  ma  mi  ha  preso  una 
      forte emicrania..." 
      "Vera?" disse il conte sorridendo. 
      "Oh, sì, vera, la paura senza fallo... E la riunione fu aggiornata 
      a  due  mesi.  Non c'è fretta,  come capite,  non ho ancora ventun 
      anni,  ed Eugenia non ne ha che diciassette: ma i due mesi scadono 
      la   settimana   ventura.   Bisognerà  sottoporvisi.   Non  potete 
      immaginare, caro conte, come io sia impacciato.  Ah,  quanto siete 
      felice voi, che siete libero!" 
      "Ebbene, restate come vi piace... Chi ve lo impedisce?" 
      "Sarebbe  un  troppo  crudele  disinganno  per  mio padre,  se non 
      sposassi la signorina Danglars." 
      "Sposatela dunque" disse il conte,  con una particolare stretta di 
      spalle. 
      "Sì"  disse  Morcerf,  "ma  questo  per  mia  madre  non  sarà  un 
      disinganno, ma un dolore." 
      "Ed allora non la sposate" disse il conte. 
      "Vedrò,  proverò...  Mi  consiglierete,  non  è  vero?   Se  vi  è 
      possibile,  mi toglierete da quest'impaccio? Oh, per non procurare 
      un dispiacere a mia madre,  credo che  oserei  uno  sgarbo  a  mio 
      padre..." 
      Montecristo si voltò, era commosso. 
      "Che!"  diss'egli  a  Debray ch'era sprofondato in una sedia in un 
      angolo del salotto, tenendo con una mano il lapis e con l'altra un 
      portafoglio.  "Che fate dunque là?  Fate uno schizzo nel genere di 
      Poussin?" 
      "Io?" disse Debray tranquillamente. "Sì, davvero, uno schizzo! Amo 
      molto la pittura!  Ma questa volta faccio all'opposto,  scrivo dei 
      numeri." 
      "Dei numeri?" 
      "Sì, calcolo, e ciò riguarda voi indirettamente, visconte, calcolo 
      ciò che la casa Danglars ha dovuto guadagnare  sull'ultimo  rialzo 
      dei  fondi  di  Haiti:  da  duecentosei  i  fondi  sono  saliti  a 
      quattrocentonove in tre giorni,  ed il prudente banchiere ne aveva 
      acquistati  molti  a duecentosei.  Deve averci guadagnato trecento 
      mila lire." 
      "Non è il suo più bel colpo" disse Morcerf.  "Non ha guadagnato un 
      milione quest'anno coi buoni di Spagna?" 
      "Ascoltate,  mio  caro"  disse  Luciano,  "qui  vi  è  il conte di 
      Montecristo che vi dirà,  come  dicono  gli  italiani:  "Denaro  e 
      santità,  metà  della metà".  Ed è ancora molto: per cui quando mi 
      raccontano simili storie, mi stringo nelle spalle..." 
      "Ma voi avete parlato d'Haiti?" disse Montecristo. 
      "Oh,  Haiti è un'altra cosa;  Haiti è il gioco dell'écarté per  il 
      traffico  di  valuta  della  finanza  francese...  Si può amare la 
      roulette, prediligere il whist affollarsi al boston, ma poi ognuno 
      si  stancherà  sempre  di  tutti  questi  giochi,   e  si  tornerà 
      all'écarté,  che è un capolavoro.  Così il signor Danglars ieri ha 
      venduto  a  quattrocentocinque  e  si  è  intascato   trecentomila 
      franchi.  Se  avesse aspettato fino ad oggi,  i fondi ricadevano a 
      duecentocinque ed invece di guadagnare  trecentomila  franchi,  ne 
      avrebbe perduti venti o venticinquemila." 
      "E   per   qual   motivo   i   fondi   si   sono   riabbassati  da 
      quattrocentocinque a duecentocinque?  Vi  chiedo  scusa,  ma  sono 
      molto ignorante in questi intrighi di Borsa." 
      "Perché" commentò ridendo Alberto,  "le notizie si aggrovigliano e 
      non si assomigliano." 
      "Ah,  diavolo" fece il conte ridendo,  "il signor Danglars rischia 
      di  guadagnare  e di perdere trecentomila franchi in un giorno?  E 
      dunque enormemente ricco?" 
      "Non è lui che rischia" si affrettò a dire Luciano,  "è la signora 
      Danglars. Lei è veramente intrepida!" 
      "Ma   voi   Luciano   che   siete   ragionevole  e  che  conoscete 
      l'instabilità delle notizie, perché ne siete alla fonte,  dovreste 
      impedirlo" disse con un sorriso Morcerf. 
      "Come  posso  farlo  io,  se  non  ci  riesce suo marito?" domandò 
      Luciano.  "Voi conoscete  l'indole  della  baronessa:  nessuno  ha 
      influenza su di lei; fa ciò che vuole." 
      "S'io fossi al vostro posto..." disse Alberto. 
      "Ebbene?" 
      "Io  la  guarirei;  questo sarebbe un buon servizio da rendersi al 
      futuro genero." 
      "E in che modo?" 
      "Oh, è facile: le darei una buona lezione." 
      "Una lezione?" 
      "Sì,  la vostra posizione come segretario del ministro,  vi dà una 
      grande  autorità sulle notizie: voi non aprite bocca che i sensali 
      di cambi  non  stenografino  subito  le  vostre  parole...  Fatele 
      perdere  un  centinaio  di  migliaio di franchi,  e ciò la renderà 
      prudente." 
      "Non capisco..." balbettò Luciano. 
      "Eppure la cosa è chiara"  rispose  il  giovane  con  un'ingenuità 
      senz'affettazione.  "Un  bel  mattino  annunciatele  qualche  cosa 
      d'inaudito,  una notizia telegrafica che voi solo  potete  sapere: 
      per  esempio,  che Enrico Quarto è stato visto vicino a Gabriella. 
      La notizia farà salire i fondi,  lei  giocherà  il  suo  colpo  in 
      Borsa,  e perderà certamente, quando l'indomani Beauchamp scriverà 
      nel suo giornale: "E' falso che persone bene informate  pretendano 
      che Enrico Quarto sia stato veduto ieri da Gabriella: questo fatto 
      è  del tutto inesatto;  il re Enrico Quarto non ha mai lasciato il 
      Ponte Nuovo." 
      Luciano fece un sorriso all'estremità delle labbra. 
      Montecristo,  apparentemente indifferente,  non aveva perduta  una 
      parola  di  questo  discorso,  ed  il suo sguardo penetrante aveva 
      perfino  preteso  di  scoprire  un   segreto   nell'impaccio   del 
      segretario di ministero. Ma quest'impaccio, completamente sfuggito 
      ad  Alberto,  fece  abbreviare  la  visita di Luciano,  che non si 
      sentiva più a suo agio. 
      Il conte,  accompagnandolo alla porta,  gli disse alcune parole  a 
      voce bassa, alle quali rispose: 
      "Ben volentieri, accetto." 
      Il conte ritornò dopo al giovane Morcerf. 
      "Non  credete,  riflettendoci bene,  di avere avuto torto a parlar 
      così di vostra suocera in presenza di Debray?" 
      "Conte" disse Morcerf,  "ve ne  prego,  non  date  alla  baronessa 
      questo nome prima del tempo." 
      "Davvero dunque,  e senza esagerazione,  la contessa è contraria a 
      tal punto a questo matrimonio?" 
      "A tal punto che la baronessa viene raramente in casa mia,  e  mia 
      madre,  credo  non  sia  stata  più di una volta a far visita alla 
      signora Danglars." 
      "Allora"  disse  il  conte,   "eccomi  incoraggiato   a   parlarvi 
      apertamente.  Il  signor  Danglars  è il mio banchiere,  il signor 
      Villefort  mi  ha  colmato  di   gentilezze   per   la   fortunata 
      combinazione  che  mi  ha  messo  in  grado di potergli rendere un 
      servizio.  Indovino sotto tutto ciò un buon numero di pranzi e  di 
      festini.  Ora,  per non sembrare d'intrecciar tutto a bella posta, 
      ed anche di prendere un'iniziativa inopportuna,  vi  dirò  che  ho 
      ideato  di riunire nel mio casinò di campagna d'Auteuil il signore 
      e la signora Danglars,  il signore  e  la  signora  Villefort.  Se 
      v'invito a questo pranzo insieme al conte e alla contessa Morcerf, 
      non  avrebbe  questo  l'apparenza  di un convegno matrimoniale,  o 
      almeno la contessa di Morcerf non penserebbe così, particolarmente 
      se il barone Danglars mi farà  l'onore  di  condurvi  sua  figlia? 
      Allora vostra madre mi prenderà in orrore, ed io non lo voglio per 
      niente.  Al contrario,  ho tutta l'intenzione, e ditelo a lei ogni 
      volta se ne presenti l'occasione, di conservare la sua stima." 
      "In fede mia" disse Morcerf,  "vi ringrazio della  franchezza  che 
      avete  con me,  ed accetto l'esclusione che mi proponete.  Mi dite 
      che desiderate conservarvi più che sia possibile nel cuore di  mia 
      madre; vi assicuro che vi siete già per sempre." 
      "Lo credete?" disse Montecristo con interesse. 
      "Oh, ne sono sicuro... Quando l'altro giorno ci lasciaste, abbiamo 
      parlato  molto  di voi.  Ma ritorniamo a ciò che dicevamo.  Se mia 
      madre potesse sapere, e rischierò di dirglielo, il riguardo che le 
      usate,  sono certo che ve ne sarebbe oltremodo grata;  sebbene mio 
      padre dal canto suo monterebbe sulle furie." 
      Il conte si mise a ridere. 
      "Ebbene,  eccovi avvertito. Non solo vostro padre sarà furioso; il 
      signore  e  la  signora  Danglars  mi  considereranno   come   uno 
      screanzato.  Sanno  che  fra  noi  c'è  una certa intimità,  e non 
      vedendovi alla mia villa,  mi  chiederanno  perché  non  vi  abbia 
      invitato.  Pensate  almeno  a munirvi di un impegno anticipato che 
      possa essere valido,  e di cui mi avvertirete con un  bigliettino. 
      Ben  sapete  che  i  banchieri  non riconoscono valide che le cose 
      scritte." 
      "Farò anche  meglio"  disse  Alberto.  "Mia  madre  ama  andare  a 
      respirare  l'aria  del  mare.  In  che  giorno è fissato il vostro 
      pranzo?" 
      "Per sabato." 
      "Oggi è martedì... Bene, domani sera partiamo, dopo domani mattina 
      saremo a Tréport. Sapete, signor conte, che siete meraviglioso nel 
      togliere dagli impicci i vostri amici?" 
      "Io?  In verità mi stimate più di quel che valgo;  desidero  farvi 
      cosa grata, ecco tutto." 
      "In che giorno avete mandati gli inviti?" 
      "Oggi stesso." 
      "Bene,  corro  dal  signor Danglars,  ad annunciare che domani mia 
      madre ed io lasceremo Parigi.  Non vi ho visto,  e per conseguenza 
      non so nulla del vostro pranzo." 
      "Pazzo che siete, ed il signor Debray che vi ha visto da me?" 
      "Ah giusto..." 
      "Quindi  vi  ho  visto  e vi ho invitato,  e voi mi avete risposto 
      candidamente  che  non  potevate  perché  domani   partivate   per 
      Tréport." 
      "Bene,  è  concluso...  Ma  verrete  a visitare mia madre prima di 
      domani?" 
      "Prima di domani è difficile.  Poi verrei a  disturbare  i  vostri 
      preparativi di partenza." 
      "Ebbene  fate  ancor  meglio:  non  eravate  che  un uomo gentile, 
      diventereste un uomo adorabile..." 
      "E che debbo fare per giungere a questa sublimità?" 
      "Oggi siete libero come l'aria, venite a pranzo con me. Saremo una 
      piccola brigata: voi,  mia madre ed io.  Avete appena  veduto  mia 
      madre, così la conoscerete da vicino. E' una donna molto notevole, 
      e  mi  dispiace solo che non ve ne sia una uguale con vent'anni di 
      meno,  poiché vi assicuro che vi sarebbero presto una contessa  ed 
      una  viscontessa  Morcerf.  Quanto a mio padre non lo troverete in 
      casa,  fa parte di una commissione e pranza dal Gran referendario. 
      Venite,  parleremo di viaggi; voi che avete girato il mondo intero 
      ci racconterete le vostre avventure, ci direte la storia di quella 
      bella greca che dite essere vostra schiava,  e che  trattate  come 
      una principessa. Andiamo, accettate, mia madre ve ne sarà grata." 
      "Mille grazie" disse il conte, "l'invito non può essere più bello, 
      e  mi  spiace vivamente di non poterlo accettare.  Non sono libero 
      come credete, ed ho un convegno importantissimo." 
      "Ah, state in guardia,  mi avete insegnato in qual modo,  in fatto 
      di  pranzi,  uno  può  disimpegnarsi  da un invito sgradevole.  Mi 
      occorre una prova.  Fortunatamente  non  sono  un  banchiere  come 
      Danglars, ma vi prevengo che sono incredulo quanto lui." 
      "Ed io vi do subito la prova" disse il conte, e suonò. 
      "Hum!" fece Morcerf.  "Sono già due volte che ricusate di pranzare 
      con mia madre. Questa sembra una decisione permanente." 
      Montecristo ebbe un fremito. 
      "Ah, non lo credete, eppure ecco la mia prova." 
      Battistino entrò e si fermò sulla porta aspettando. 
      "Io non ero stato prevenuto della vostra visita, non è vero?" 
      "Diamine, siete un uomo tanto straordinario che non ne giurerei." 
      "Non potevo però immaginare che mi avreste invitato a pranzo..." 
      "Oh, in quanto a ciò, è possibile." 
      "Ebbene,  ascoltate: Battistino,  che vi ho detto  questa  mattina 
      quando vi ho chiamato nel mio studio?" 
      "Di  far  chiudere  la porta del palazzo appena suonate le cinque" 
      disse il cameriere. 
      "E poi?" 
      "Oh, signor conte..." disse Alberto. 
      "No,  no voglio assolutamente sbarazzarmi della reputazione d'uomo 
      misterioso  che  mi  avete  data,  mio  caro  visconte;  è  troppo 
      difficile rappresentare sempre la parte di Manfredi. Voglio vivere 
      in una casa di cristallo... E poi? Continuate Battistino..." 
      "E  poi  di  non  ricevere  che  il  signor  maggiore   Bartolomeo 
      Cavalcanti e suo figlio." 
      "Capite  il  maggiore  Bartolomeo  Cavalcanti,  un  uomo della più 
      antica nobiltà d'Italia,  e di cui Dante si è  preso  la  pena  di 
      essere l'Ossian...  Vi ricordate,  o non vi ricordate,  nel decimo 
      canto dell'Inferno...? Verrà anche suo figlio, un grazioso giovane 
      della vostra età circa, e del vostro titolo, e che fa il suo primo 
      ingresso nel mondo  parigino  con  i  milioni  di  suo  padre.  Il 
      maggiore  questa  sera viene a trovarmi con suo figlio Andrea,  il 
      contino,  come noi diciamo  in  Italia;  egli  me  lo  affida:  lo 
      presenterò se ha qualche merito... Voi mi aiuterete, non è vero?" 
      "Senza  dubbio.  Il  maggiore  Cavalcanti  è dunque vostro vecchio 
      amico?" chiese Alberto. 
      "Niente affatto!  E' un degno signore  molto  educato,  modesto  e 
      discreto,  come  se  ne  trovano  in gran quantità in Italia fra i 
      discendenti decaduti delle antiche famiglie. L'ho visto più volte, 
      tanto a Bologna, che a Firenze e Lucca,  e mi ha avvertito del suo 
      arrivo.  Le conoscenze di viaggio sono esigenti: ovunque reclamano 
      quell'amicizia che loro si è dimostrata una volta per  caso.  Come 
      se l'uomo civile, che non si cura poi troppo delle sue conoscenze, 
      non  avesse  a  casa  sua  una  vita  privata  e  affari propri da 
      sbrigare! Questo buon maggiore ritorna a rivedere Parigi,  che non 
      vide  che  di  passaggio  sotto  l'impero,  quando  andò  a  farsi 
      congelare a Mosca. Gli darò un buon pranzo, mi lascerà suo figlio, 
      gli prometterò di sorvegliarlo,  ma gli lascerò fare tutte  quelle 
      follie che gli piacerà di fare, e saremo pari." 
      "A  meraviglia,  m'accorgo  che  siete un prezioso Mentore.  Addio 
      dunque,  ritorneremo domenica.  A proposito ho ricevuto notizie di 
      Franz." 
      "Ah, davvero?" disse Montecristo. "Il soggiorno d'Italia gli piace 
      sempre?" 
      "Credo di sì,  però vi desidera. Dice che eravate il sole di Roma, 
      e che senza di voi si fa buio; non so se giunge fino a dire che vi 
      piova." 
      "Si è dunque ricreduto sul conto mio?" 
      "Tutt'altro,  insiste a credervi un essere fantastico in assoluto: 
      ecco perché vi desidera." 
      "Un  giovane molto gentile" disse Montecristo,  "e per il quale ho 
      sentito una viva simpatia fin dalla prima  sera  in  cui  lo  vidi 
      spensieratamente  in cerca d'una cena e mi permisi di offrirgli la 
      mia. Egli è, credo, il figlio del generale d'Epinay?" 
      "Precisamente." 
      "Lo stesso che fu assassinato nel 1815?" 
      "Dai bonapartisti." 
      "E' vero,  in fede mia lo amo!  Non vi è  anche  per  lui  qualche 
      progetto di matrimonio?" 
      "Sì, deve sposare la figlia del signor Villefort." 
      "Davvero?" 
      "Come  io  devo  sposare  quella  del  barone Danglars..." rispose 
      Alberto sorridendo. 
      "Voi ridete?" 
      "Sì." 
      "Perché ridete?" 
      "Rido,  perché mi sembra di vedere tra loro tanta simpatia per  il 
      matrimonio,  quanta  ne  vedo  fra la signorina Danglars e me.  Ma 
      veramente,  mio caro conte,  parliamo delle donne  come  le  donne 
      degli uomini... Questo è imperdonabile." 
      Alberto si alzò. 
      "Volete andarvene?" 
      "La domanda è troppo cortese,  sono due ore che vi assedio,  e voi 
      avete la gentilezza di chiedermi se voglio andarmene?  In  verità, 
      conte,  siete l'uomo più amabile della terra!  E la vostra servitù 
      com'è educata! Battistino particolarmente. Non ho mai potuto avere 
      un cameriere simile.  I miei sembrano tutti modellarsi  su  quelli 
      del teatro francese,  che, proprio perché non hanno che una parola 
      da dire,  vengono sempre a dirla sulla scala...  Se mai  aveste  a 
      disfarvi di Battistino, vi prego darmi la preferenza." 
      "Resta stabilito, visconte." 
      "Ma  non  è  tutto;  aspettate,  fate i miei complimenti al vostro 
      discreto lucchese Cavalcanti;  e se per caso avesse intenzione  di 
      dar moglie a suo figlio,  trovategli una donna molto ricca,  molto 
      nobile almeno da parte di madre... Io vi aiuterò a trovarla." 
      "Oh, oh!" rispose Montecristo. "Davvero siamo a questi termini?" 
      "Sì." 
      "In fede mia, non bisogna giurare su niente." 
      "Ah, conte" gridò Morcerf, "qual servizio mi rendereste! E come vi 
      amerei cento volte di più, se grazie a voi potessi restare celibe, 
      altri dieci anni almeno!" 
      "Tutto è possibile" rispose con gravità Montecristo. 
      E prendendo congedo da Alberto rientrò nel suo studio, e batté tre 
      colpi sul campanello. 
      Bertuccio comparve. 
      "Bertuccio,  sapete che  sabato  do  ricevimento  nel  mio  casinò 
      d'Auteuil." 
      Bertuccio ebbe un leggero fremito. 
      "Bene, signore." 
      "Ho bisogno di voi" continuò il conte,  "perché tutto sia disposto 
      convenientemente. Quella casa è bella, o per lo meno può diventare 
      bella." 
      "Per far ciò bisognerebbe cambiar tutto, signor conte, ogni cosa è 
      invecchiata." 
      "Cambiate dunque tutto, ad eccezione di una camera sola, la camera 
      da letto di damasco rosso.  Anzi,  la lascerete assolutamente come 
      si trova." 
      Bertuccio s'inchinò. 
      "Non toccherete niente neppure nel giardino;  ma del cortile,  per 
      esempio,  fatene tutto ciò che volete,  gradirò anzi moltissimo se 
      sarà ridotto in modo da non essere più riconosciuto." 
      "Farò il possibile perché il signor conte rimanga contento;  sarei 
      più tranquillo  però  se  volesse  dirmi  le  sue  intenzioni  sul 
      pranzo." 
      "In  verità"  disse  il  conte,  "dacché  siamo  a Parigi vi trovo 
      sconcertato e tremante... Dunque non mi conoscete più?" 
      "Ma infine Vostra Eccellenza potrebbe dirmi chi riceve?" 
      "Non so ancora niente,  e voi pure non avete bisogno di saperlo... 
      Lucullo, ecco tutto." 
      Bertuccio s'inchinò e partì. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 54. 
                           IL MAGGIORE CAVALCANTI. 
 
 
      Né  il conte,  né Battistino avevano mentito annunciando a Morcerf 
      questa visita del maggiore lucchese,  che serviva a Montecristo di 
      pretesto per rifiutare il pranzo che gli era stato offerto. 
      Battevano le sette,  e già da due ore Bertuccio,  secondo l'ordine 
      ricevuto, era partito per Auteuil,  quando una carrozza da nolo si 
      fermò  al  cancello,  e  fuggì subito dopo aver deposto a terra un 
      uomo di circa cinquant'anni, vestito d'uno di quei soprabiti verdi 
      con alamari neri,  la cui specie sembra non potersi estinguere  in 
      Europa. 
      Larghe  brache  di  panno  turchino,  stivali  abbastanza  puliti, 
      sebbene la vernice fosse incerta. e le suole un po' troppo grosse; 
      guanti di daino,  un cappello che  per  la  forma  assomigliava  a 
      quello  di un gendarme,  un colletto nero con orlo bianco,  che si 
      sarebbe potuto credere uno di  quei  cerchi  di  ferro  a  cui  si 
      attaccano  per  il  collo  i  malfattori  alla  berlina:  tale  il 
      pittoresco abbigliamento  della  persona  che  bussò  al  cancello 
      domandando  se  all'entrata  degli  Champs-Elysées  30 abitasse il 
      conte  di  Montecristo,   e  che  alla  risposta  affermativa  del 
      portinaio, entrò, richiuse la porta e si diresse alla scalinata. 
      La  testa  piccola e spigolosa di quest'uomo,  i capelli grigi,  i 
      fitti baffi lo fecero riconoscere da  Battistino,  che  aveva  gli 
      esatti connotati del visitatore da lui atteso nel vestibolo Appena 
      pronunciato  il  nome all'intelligente servitore,  Montecristo era 
      già avvertito del suo arrivo. 
      Lo straniero fu introdotto nella sala meno elegante.  Il conte  lo 
      aspettava, e gli andò incontro sorridendo. 
      "Ah, caro signore, siate il benvenuto, vi aspettavo." 
      "Davvero" disse il lucchese, "Vostra Eccellenza mi aspettava?" 
      "Sì, ero stato avvisato per oggi del vostro arrivo alle sette." 
      "Del mio arrivo? Cosicché eravate prevenuto?" 
      "Perfettamente." 
      "Oh,  tanto meglio!  Temevo, lo confesso, che avessero dimenticato 
      di avvertirvi." 
      "Invece tutto è a posto." 
      "Veramente Vostra Eccellenza aspettava me alle sette?" 
      "Sì, veramente... D'altra parte verifichiamolo." 
      "Oh, se mi aspettavate non vale la pena." 
      "No, no" disse Montecristo. 
      Il lucchese parve alquanto commuoversi. 
      "Vediamo, non siete il marchese Bartolomeo Cavalcanti?" 
      "Bartolomeo Cavalcanti, sta bene." 
      "E maggiore al servizio dell'Austria?" 
      "Ero dunque maggiore?" domandò timidamente il vecchio soldato. 
      "Sì" disse Montecristo, "eravate maggiore; questo è il nome che si 
      dà in Francia al grado che avevate in Italia." 
      "Bene" disse il lucchese, "non domando di meglio, capite..." 
      "D'altra parte non venite qui di vostra spontanea volontà?" chiese 
      Montecristo. 
      "Oh, sì, certamente." 
      "Mi siete stato indirizzato da qualcuno?" 
      "Sì." 
      "Dall'eccellente abate Busoni?" 
      "Da lui precisamente!" gridò tutto contento il lucchese. 
      "Ed avete una lettera?" 
      "Eccola." 
      "Per Bacco, vedete bene che tutto corrisponde. Datemela dunque." 
      E Montecristo prese la lettera che aprì e lesse. 
      Il maggiore guardava il conte con occhi spalancati e meravigliati, 
      che si posavano con curiosità in giro sopra ciascun oggetto  della 
      stanza, ma ritornavano involontariamente sul suo interlocutore. 
      "E' ben lui... questo caro Busoni..." 
      "Il maggiore Cavalcanti,  un degno patrizio lucchese,  discendente 
      dai Cavalcanti di Firenze..." continuò Montecristo leggendo a voce 
      alta,  "e che gode una fortuna di mezzo milione di  rendita...  Di 
      mezzo milione?" soggiunse. "Salute, mio caro Cavalcanti." 
      "Dice mezzo milione?" domandò il lucchese. 
      "In  tutte lettere...  E dev'essere così,  l'abate Busoni è l'uomo 
      che conosce meglio di tutti le più grandi fortune d'Europa." 
      "Vada per mezzo milione" disse il lucchese, "ma parola d'onore non 
      credevo di possedere tanto." 
      "Perché avete un intendente che  vi  deruba...  Che  volete,  caro 
      signor Cavalcanti, bisogna adattarsi..." 
      "Voi m'illuminate" disse il lucchese con gravità. "Lo metterò alla 
      porta." 
      Montecristo continuò a leggere. 
      "Ed al quale non mancava che una cosa per essere felice..." 
      "Oh, sì, una sola cosa" disse il lucchese con un sospiro. 
      "...  di  ritrovare  un  figlio  adorato,  rapito  nella sua prima 
      gioventù, o da nemici della sua famiglia o da zingari..." 
      "All'età di  cinque  anni,  signore"  disse  il  lucchese  con  un 
      profondo sospiro ed alzando gli occhi al cielo. 
      "Povero  padre!"  disse Montecristo,  e continuò: "Io gli rendo la 
      speranza,  gli rendo la vita,  signor  conte,  annunziandogli  che 
      questo  figlio,  che  da  quindici  anni cerca invano,  voi potete 
      farglielo ritrovare". 
      Il lucchese guardò Montecristo con  una  indefinibile  espressione 
      d'inquietudine. 
      "Lo posso" disse Montecristo. 
      Il maggiore riprese coraggio: 
      "La lettera è dunque vera fino alla fine?" 
      "Avreste potuto dubitarne?" 
      "E  come potevo?  Ad un uomo serio,  di rispettabile carattere non 
      sarebbe permessa una simile  celia:  ma  non  avete  letto  tutto, 
      Eccellenza!" 
      "E' vero" disse Montecristo, "c'è un post-scriptum: 
      "Per  non  procurare al maggiore Cavalcanti l'impaccio di spostare 
      dei fondi dal suo banchiere gli mando una tratta di 2.000  franchi 
      per  le  spese  del  viaggio e gli apro credito su voi per 48 mila 
      franchi che mi rimborserete." 
      Il  maggiore  seguiva  con  gli  occhi  questo  post-scriptum  con 
      visibile ansietà. 
      "Bene" si contentò di dire il conte. 
      "Disse il vero" mormoro il lucchese, "è così, signore..." disse. 
      "Così, cosa?" domandò Montecristo. 
      "Il post-scriptum è accettato da voi con lo stesso favore di tutto 
      il resto della lettera?" 
      "Certamente.  Ho  un  debito  con  l'abate Busoni: non so se siano 
      proprio 48 mila lire che ancora devo dargli,  ma non guasteremo  i 
      nostri rapporti per qualche biglietto di banca.  E voi dunque date 
      grande importanza a questo post-scriptum, caro signor Cavalcanti?" 
      "Vi confesso" disse il lucchese, "che pieno di fiducia nella firma 
      dell'abate Busoni, non mi sono provveduto di altri fondi,  di modo 
      che se mi mancasse questa risorsa,  mi troverei molto impacciato a 
      Parigi." 
      "Possibile che un uomo come voi possa mai trovarsi  impacciato  in 
      alcun luogo?" disse Montecristo. "Via dunque!" 
      "Diavolo, conoscendo qualcuno..." disse il lucchese. 
      "Ma voi siete conosciuto." 
      "Sì, sono conosciuto, di modo che..." 
      "Terminate, caro signor Cavalcanti." 
      "Di modo che mi pagherete questi 48 mila franchi?" 
      "Alla vostra prima richiesta." 
      Il maggiore girava gli occhi stralunati. 
      "Ma  sedetevi dunque" disse Montecristo.  "Davvero non so più quel 
      che faccio... E' un quarto d'ora che vi tengo qui in piedi." 
      "Non ci fate attenzione." 
      Il maggiore avanzò una seggiola e si sedette. 
      "Ora" disse il conte, "volete prendere qualche cosa?  Un bicchiere 
      di Xeres, di Porto, d'Alicante?" 
      "D'Alicante, se volete, è il mio vino prediletto..." 
      "Ne ho dell'eccellente. E con un biscotto, non è vero?" 
      "Con un biscotto, se volete..." 
      Montecristo suonò, Battistino comparve, il conte s'avvicinò a lui. 
      "Ebbene?..." domandò a voce bassa. 
      "Il giovane è di là" rispose il cameriere con lo stesso tono. 
      "Bene! Dove lo avete fatto passare?" 
      "Nel salotto turchino come ordinò Vostra Eccellenza." 
      "A meraviglia, portate del vino d'Alicante e dei biscotti." 
      Battistino uscì. 
      "In  verità" disse il lucchese,  "vi do un incomodo che mi riempie 
      di confusione." 
      "Che dite mai!" disse Montecristo. 
      Battistino rientrò con i bicchieri, il vino ed i biscotti. 
      Il conte riempì un bicchiere,  e versò nell'altro soltanto  alcune 
      gocce  del  liquido  rubino  che  conteneva  la  bottiglia,  tutta 
      ricoperta di tela di ragno,  e di  altri  segni  che  indicano  la 
      vecchiaia  del vino,  molto più sicuramente che non le rughe sulla 
      fronte dell'uomo. 
      Il maggiore non s'ingannò nella scelta,  prese il bicchiere  pieno 
      ed un biscotto. 
      Il conte ordinò a Battistino di deporre la sottocoppa a portata di 
      mano   dell'ospite,   che   cominciò   a  gustare  l'Alicante  con 
      l'estremità delle  labbra,  facendo  una  smorfia  di  piacere  ed 
      intingendo delicatamente il biscotto nel bicchiere. 
      "Così,  signore"  disse Montecristo,  "voi abitate a Lucca,  siete 
      ricco,  siete nobile,  godete della  stima  universale,  possedete 
      tutto ciò che può formare un uomo felice?" 
      "Tutto,   Eccellenza"  disse  il  maggiore,  inghiottendo  il  suo 
      biscotto, "assolutamente tutto." 
      "E non manca che una sola cosa per fare la vostra felicità?" 
      "Una sola" disse il lucchese. 
      "Ritrovare vostro figlio?" 
      "Oh,  sì" fece il maggiore prendendo un  secondo  biscotto,  "solo 
      questo mi manca." 
      Il  degno  lucchese  alzò  gli occhi al cielo e si abbandonò ad un 
      sospiro. 
      "Vediamo,  signor Cavalcanti,  che cosa è questo figlio che  tanto 
      rimpiangete: mi fu detto che siete rimasto lungamente celibe." 
      "Lo credevano, signore" disse il maggiore, "ed io stesso..." 
      "Sì"  riprese  il  conte,  "e  voi stesso avete accreditata questa 
      voce. Un peccato che volevate nascondere agli occhi di tutti." 
      Il lucchese si ricompose,  cercò di  darsi  un  contegno,  abbassò 
      modestamente  gli  occhi,  sia  per rassicurare il conte sulla sua 
      condotta,  sia per studiarne le reazioni.  Ma il sorriso del conte 
      rivelava sempre la stessa benevola curiosità. 
      "Sì,  signore,  volevo  nascondere  questo  errore  agli  occhi di 
      tutti." 
      "Non per voi." 
      "Oh,  per me no certamente" disse  il  maggiore  con  un  sorriso, 
      scuotendo la testa. 
      "Ma per sua madre" replicò il conte. 
      "Per  sua  madre!"  gridò il lucchese prendendo il terzo biscotto, 
      "per la sua povera madre!" 
      "Bevete  dunque,  caro  signore"  disse  Montecristo  versando  al 
      lucchese un secondo bicchiere d'Alicante. "L'emozione vi soffoca." 
      "Per  la  sua  povera madre!" mormorò il lucchese,  trattenendo le 
      lacrime. "Che apparteneva ad una delle prime famiglie d'Italia..." 
      "Patrizia, di Fiesole, signor conte!" 
      "E si chiamava?" 
      "Desiderate saperne il nome?" 
      "E' inutile che me lo diciate, lo so." 
      "Il signor conte sa tutto" disse il lucchese inchinandosi. 
      "Oliva Corsinari, non è vero?" 
      "Oliva Corsinari!" 
      "Marchesa?" 
      "Marchesa!" 
      "Ed  avete  finito  col  sposarla,  malgrado  l'opposizione  della 
      famiglia." 
      "Mio Dio, sì, l'ho sposata." 
      "E avete le vostre carte in regola?" 
      "Quali carte?" domandò il lucchese. 
      "L'atto di matrimonio con Oliva Corsinari,  e l'atto di nascita di 
      vostro figlio?" 
      "La fede di nascita di mio figlio?" 
      "Sì,  l'atto di nascita di Andrea Cavalcanti...  Vostro figlio non 
      si chiama Andrea?" 
      "Credo di sì" disse il lucchese. 
      "Come, lo credete?" 
      "Diavolo, non oso affermarlo; è tanto tempo che l'ho perduto!" 
      "Avete  ragione"  disse  Montecristo.  "Avete  dunque tutte queste 
      carte?" 
      "Signore,  con  dispiacere  debbo  dirvi  che  non  essendo  stato 
      avvertito,  non  le  ho  portate  con  me.  Erano dunque documenti 
      necessari?" 
      "Indispensabili!" 
      Il lucchese si grattò la fronte. 
      "Ah, per Bacco" disse, "indispensabili!" 
      "Senza dubbio, se qui venissero mossi dei dubbi sulla legalità del 
      vostro matrimonio, sulla legittimità di vostro figlio!" 
      "E' giusto" disse il lucchese, "potrebbero insorgere dubbi." 
      "Sarebbe tormentoso per questo giovane." 
      "Sarebbe fatale." 
      "Ciò potrebbe mandargli a monte qualche magnifico matrimonio." 
      "Sarebbe terribile!" 
      "In Francia, lo sapete, vi è molto rigore: non sono riconosciuti i 
      matrimoni clandestini; in Francia c'è il matrimonio civile,  e per 
      maritarsi civilmente ci vogliono le carte d'identità." 
      "Ecco la disgrazia, non ho queste carte." 
      "Fortunatamente le ho io" disse Montecristo. 
      "Voi?" 
      "Sì." 
      "Ah"  disse  il  lucchese,  che,  vedendo lo scopo del suo viaggio 
      fallire per mancanza di queste carte,  temeva potessero  insorgere 
      difficoltà per i 48 mila franchi.  "Ecco, un altro vostro aiuto... 
      Sì" riprese, "perché io non ci avrei pensato." 
      "Per Bacco, lo credo bene,  non si può sempre pensare a tutto.  Ma 
      fortunatamente l'abate Busoni ci ha pensato al vostro posto." 
      "Guardate un po' quanto è amabile questo caro abate!" 
      "E' un uomo pieno di cautele." 
      "E' un uomo ammirabile!" disse il lucchese. "Ve le ha inviate?" 
      "Eccole qui..." 
      Il lucchese congiunse le mani in segno di ammirazione. 
      "Voi  avete  sposato  Oliva  Corsinari  a  Montecatini,   ecco  il 
      certificato." 
      "Sì,   davvero,   eccolo"  disse  il  maggiore,   guardandolo  con 
      meraviglia. 
      "Ed  ecco  la  fede  di  nascita  di  Andrea Cavalcanti lasciata a 
      Serravezza." 
      "Tutto è in regola" disse il maggiore. 
      "Allora, prendete queste carte,  delle quali non so che farne,  le 
      darete a vostro figlio che le custodirà con cura." 
      "Lo credo bene... S'egli le perdesse..." 
      "Ebbene, s'egli le perdesse?" domandò Montecristo. 
      "Allora"  rispose  il  lucchese,  "sarebbe  obbligato  a  scrivere 
      laggiù,  e vi sarebbero grandi  difficoltà  a  procurarsene  delle 
      altre." 
      "Infatti sarebbe difficilissimo" disse Montecristo. 
      "Quasi impossibile" riprese il lucchese. 
      "Sono ben contento che comprendiate il valore di queste carte." 
      "Vale a dire le considero impagabili." 
      "Ora, quanto alla madre del giovane..." 
      "Quanto   alla  madre  del  giovane..."  ripeté  il  maggiore  con 
      inquietudine. 
      "In quanto alla marchesa Corsinari..." 
      "Mio Dio" disse il lucchese nel timore che sorgessero  difficoltà. 
      "Si avrà forse bisogno di lei?" 
      "No, signore" rispose Montecristo, "d'altra parte non ha lei..." 
      "Certo" disse il maggiore, "lei ha..." 
      "Pagato il suo tributo alla natura." 
      "Ahimè, sì" disse vivamente il lucchese. 
      "Seppi" riprese il conte, "che è morta da dieci anni." 
      "Ed  io  ne piango ancora la perdita" disse il maggiore cavando di 
      tasca un fazzoletto a quadretti ed asciugandosi gli occhi. 
      "Che volete farci" disse Montecristo,  "noi tutti  siamo  mortali. 
      Ora capirete, mio caro, che è inutile che si sappia in Francia che 
      siete  stato  diviso  da  vostro  figlio per quindici anni.  Tutte 
      queste storie di  zingari  che  rapiscono  i  ragazzi,  non  hanno 
      credito presso di noi.  Voi lo avete inviato per la sua educazione 
      in un collegio di provincia,  e volete ch'egli la compia nel  gran 
      mondo di Parigi. Ecco perché avete lasciato Viareggio dove abitate 
      dopo la morte di vostra moglie. Ciò basterà!" 
      "Lo credete?" 
      "Certamente." 
      "Va benissimo allora." 
      "Se si scoprisse qualche cosa di questa separazione..." 
      "Ah, sì, e che dovrei dire allora?" 
      "Che  un  precettore  infedele,  venduto  ai  nemici  della vostra 
      famiglia..." 
      "Ai Corsinari?" 
      "Certamente...  Ha rapito questo figlio,  perché si estinguesse il 
      vostro nome." 
      "E giusto, perché è figlio unico..." 
      "Bene,  ora  che tutto è combinato,  che la vostra memoria è stata 
      rinfrescata,  avrete forse indovinato  che  vi  ho  preparato  una 
      sorpresa?" 
      "Gradevole?" domandò il lucchese. 
      "Ah"  disse  Montecristo,  "mi  accorgo  che  non si può ingannare 
      l'occhio, come non si può ingannare il cuore di un padre." 
      "Hum!" fece il maggiore. 
      "Vi  è  stata  fatta  qualche  rivelazione  indiscreta,   o  avete 
      indovinato che lui e di la..." 
      "Chi è di là?" 
      "Vostro figlio, il vostro Andrea." 
      "L'ho indovinato" rispose il lucchese con la più grande flemma del 
      mondo. "Così è qui?" 
      "In  questa stessa casa" disse Montecristo.  "Il cameriere poco fa 
      mi ha avvisato del suo arrivo." 
      "Ah,  benissimo,  benissimo!" disse il maggiore allacciandosi  gli 
      alamari della polacca. 
      "Mio  caro  signore"  disse  Montecristo,   "comprendo  la  vostra 
      emozione e bisogna accordarvi un po' di  tempo  per  rimettervi... 
      Voglio   pure   disporre   il  giovane  a  questo  incontro  tanto 
      desiderato, giacché presumo che non sia meno impaziente di voi." 
      "Lo credo" disse Cavalcanti. 
      "Ebbene fra un quarto d'ora saremo qui." 
      "Voi dunque lo avete davvero qui? Me lo portate voi stesso?" 
      "No,  non voglio pormi fra il padre e figlio,  sarete  soli...  Ma 
      state tranquillo,  nel caso che la voce del sangue rimanesse muta, 
      non potrete ingannarvi: egli entrerà da quella porta.  E'  un  bel 
      giovane  biondo,  forse un po' troppo biondo,  d'aspetto veramente 
      signorile..." 
      "A proposito" disse il maggiore, "sapete che non ho portato con me 
      che i duemila franchi che mi ha versato il buon abate  Busoni.  Su 
      questi bisogna togliere le spese di viaggio, e..." 
      "Ed avete bisogno di denaro,  è troppo giusto.  Prendete, ecco qui 
      una cifra tonda: otto biglietti da mille franchi.  Ora ve ne  devo 
      altri quarantamila." 
      Gli occhi del maggiore splendettero come fiamme. 
      "Vostra  Eccellenza  vuole  che  le  firmi  la ricevuta?" disse il 
      maggiore,  facendo scivolare i soldi  nella  tasca  interna  della 
      polacca. 
      "Per che farne?" disse il conte. 
      "Per darvene credito nel conto dell'abate Busoni." 
      "Ebbene,  mi  farete  una ricevuta generale quando vi sborserò gli 
      ultimi quarantamila franchi.  Fra galantuomini sono inutili queste 
      cautele." 
      "Ah, sì, è vero" disse il maggiore, "fra galantuomini..." 
      "Mi permetterete una piccola raccomandazione, non è vero?" 
      "E quale mai?" 
      "Non sarebbe mal fatto, se voi toglieste questa polacca." 
      "Davvero?" disse il maggiore,  guardando con una certa compiacenza 
      il suo soprabito. 
      "Sì,  questa a Viareggio si porta ancora,  ma è già gran tempo che 
      questo mantello, per quanto elegante, è passato di moda a Parigi." 
      "Mi rincresce..." disse il lucchese. 
      "Ma se ci siete affezionato, potrete rimetterla al ritorno." 
      "Ma intanto che mi metterò?" 
      "Ciò che troverete nei vostri bauli." 
      "Come, nei miei bauli? Non ho portato con me che il mantello." 
      "Vi credo,  perché avreste dovuto impacciarvi? Un vecchio militare 
      desidera marciare con un piccolo zaino." 
      "Ecco è proprio così..." 
      "Ma voi siete un uomo pieno di cautele,  e  perciò  avete  mandato 
      avanti i vostri bauli.  Sono giunti ieri all'albergo dei Principi, 
      rue Richelieu, ove avete fatto fissare il vostro alloggio." 
      "Allora in questi bauli..." 
      "Presumo che avrete avuto la precauzione di farvi rinchiudere  dal 
      vostro  cameriere  tutto  ciò  che  vi  poteva bisognare: abiti da 
      passeggio,  abiti  di  gala.   Nelle  grandi  occasioni  vestirete 
      l'uniforme,  il  che  va  sempre  bene.  Non  dimenticate  poi  le 
      decorazioni. In Francia, le portano sempre." 
      "Benissimo, benissimo, arcibenissimo!" disse il maggiore, passando 
      da una sorpresa ad un'altra. 
      "Ed ora che il vostro cuore si è rafforzato contro  le  sensazioni 
      troppo  vivaci,  preparatevi,  mio caro Cavalcanti,  a rivedere il 
      vostro Andrea." 
      E facendo  un  grazioso  saluto  al  lucchese  rapito  in  estasi, 
      Montecristo disparve dietro la porta. 
 
 
                                 Capitolo 55. 
                              ANDREA CAVALCANTI. 
 
 
      Il  conte di Montecristo entrò nel salotto vicino,  che Battistino 
      aveva indicato col  nome  di  salotto  turchino  e  dov'era  stato 
      preceduto  da  un  giovane  di  portamento  disinvolto vestito con 
      sufficiente eleganza,  che mezz'ora prima era smontato alla  porta 
      del palazzo da una carrozza di piazza. 
      Battistino  non  aveva faticato a riconoscerlo: era realmente quel 
      giovane alto coi  capelli  biondi,  di  un  bel  colorito  su  una 
      candidissima pelle,  come era stato detto dal padrone.  Il giovane 
      era negligentemente steso su un sofà e si  percuoteva  lo  stivale 
      con  un sottile bastoncino dal pomo dorato.  Scorgendo Montecristo 
      si alzò. 
      "Il signore è il conte di Montecristo?" disse. 
      "Sì, signore" rispose questi,  "e credo di aver l'onore di parlare 
      al conte Andrea Cavalcanti." 
      "Il  conte  Andrea  Cavalcanti" riprese il giovane,  accompagnando 
      queste parole con un saluto disinvolto. 
      "Dovete avere una lettera che vi accredita..." 
      "Non ne parlavo a causa della firma, molto strana." 
      "Sindbad il marinaio, non è così?" 
      "Precisamente,  e siccome non ho mai conosciuto altro  Sindbad  il 
      marinaio che quello delle Mille e una notte..." 
      "E'  uno  dei  suoi  discendenti,  ed è uno dei miei amici,  molto 
      ricco, un inglese, qualche cosa più che stravagante,  quasi pazzo, 
      il cui vero nome è lord Wilmore..." 
      "Ah,  ecco ciò mi spiega ogni cosa" disse Andrea, "allora tutto va 
      a meraviglia.  E' quello stesso inglese che  conobbi...  a...  sì, 
      benissimo. Signor conte vi sono servo." 
      "Se  ciò  che  avete  l'onore  di dirmi è vero,  spero che vorrete 
      favorirmi alcuni particolari sulla vostra famiglia..." 
      "Volentieri,  signor conte" rispose il giovane con una  volubilità 
      che  provava  la  sicurezza  della  sua  memoria.  "Io sono,  come 
      diceste,   il  conte  Andrea  Cavalcanti,   figlio  del   maggiore 
      Bartolomeo,  discendente dai Cavalcanti iscritti al libro d'oro di 
      Firenze. La nostra famiglia,  quantunque ancora ricca,  poiché mio 
      padre  gode  di  mezzo  milione di rendita,  ha provato moltissimi 
      infortuni,  ed io stesso,  signore,  all'età di cinque anni,  sono 
      stato  rapito da un tutore infedele;  di modo che da quindici anni 
      non ho più rivisto mio  padre.  Dacché  ho  l'età  della  ragione, 
      dacché  sono  libero  e padrone di me,  lo cerco,  ma inutilmente. 
      Finalmente questa lettera del vostro  amico  Sindbad  mi  annuncia 
      ch'egli è a Parigi,  e mi permette d'indirizzarmi a voi per averne 
      notizia." 
      "In  verità,  signore,   tutto  ciò  che  mi  raccontate  è  molto 
      importante"  disse  il  conte che guardava con tetra soddisfazione 
      questa  fisonomia  disinvolta,   di  una  beltà  simile  a  quella 
      dell'angelo  ribelle,  "ed  avete fatto benissimo a conformarvi in 
      tutto e per tutto all'invito del buon amico Sindbad, perché vostro 
      padre infatti è qui che vi cerca." 
      Il conte fin dall'entrata nel salotto non aveva perduto  di  vista 
      il  giovane,  ne aveva ammirato la sicurezza dello sguardo e della 
      voce,  ma a queste parole tanto naturali,  "vostro padre è qui che 
      vi cerca", il giovane Andrea fece un balzo gridando: 
      "Mio padre! mio padre qui!" 
      "Senza  dubbio"  rispose  Montecristo,  "vostro  padre il maggiore 
      Bartolomeo Cavalcanti." 
      L'impressione di terrore del giovane si cancellò quasi subito: 
      "Ah, sì,  è vero,  il maggiore Bartolomeo Cavalcanti.  E voi dite, 
      signor conte, che è qui, questo caro padre" 
      "Sì, signore, aggiungerò che l'ho lasciato in questo momento... La 
      storia  che  mi ha raccontata di questo prediletto figlio perduto, 
      mi ha molto  commosso.  I  suoi  dolori,  i  timori,  le  speranze 
      formerebbero  un poema commovente.  Finalmente un giorno ricevette 
      notizia che i rapitori di  suo  figlio  offrivano  di  renderlo  o 
      d'indicare dove era,  in cambio d'una forte somma. Nulla trattenne 
      questo  buon  padre,  la  somma  fu  inviata  alla  frontiera  del 
      Piemonte,  unitamente ad un passaporto regolare per l'Italia.  Voi 
      eravate nel mezzogiorno della Francia, credo..." 
      "Sì,  signore" rispose Andrea con impaccio,  "ero nel  mezzogiorno 
      della Francia." 
      "Una vettura doveva aspettarvi a Nizza?" 
      "Proprio  così,  signore;  essa mi condusse da Nizza a Genova,  da 
      Genova a Torino,  da Torino a Chambéry,  da  Chambéry  a  Pont-de- 
      Beauvoisin, e di lì a Parigi." 
      "Vostro  padre  sperava  sempre d'incontrarvi durante il tragitto, 
      poiché questa era la strada che faceva egli stesso,  ed ecco anche 
      perché il vostro itinerario era stato in tal modo tracciato." 
      "Ma" disse Andrea, "se questo caro padre mi avesse incontrato temo 
      non  mi  avrebbe riconosciuto;  sono molto cambiato da quando l'ho 
      perduto di vista." 
      "Oh, la voce del sangue" disse Montecristo. 
      "Ah,  sì,  è vero" rispose il giovane,  "non pensavo alla voce del 
      sangue!" 
      "Ora"  riprese  Montecristo,  "una  sola  cosa  agita  il marchese 
      Cavalcanti, ed è ciò che avete fatto durante la vostra lontananza, 
      ed il modo col quale siete stato trattato dai vostri  persecutori; 
      e  il  desiderio  di sapere se hanno avuto per la vostra nascita i 
      riguardi che le si dovevano;  infine se le sofferenze morali  alle 
      quali  siete stato esposto,  sofferenze cento volte peggiori delle 
      fisiche,  hanno indebolito le vostre facoltà,  e se credete  poter 
      sostenere nella società il rango che vi appartiene." 
      "Signore"   balbettò   il   giovane,   "spero   che  nessun  falso 
      rapporto..." 
      "Sentii parlare di voi per la prima volta dal mio  amico  Wilmore. 
      Seppi  che  vi  aveva  ritrovato in una situazione molto dolorosa, 
      però non so quale,  non avendogli fatta  alcuna  domanda,  essendo 
      poco curioso.  Le vostre disgrazie lo hanno interessato.  Mi disse 
      che voleva rendervi nel mondo la posizione  che  avevate  perduta, 
      che cercava vostro padre,  e che lo avrebbe ritrovato. Infatti c'è 
      riuscito,  a quanto sembra,  poiché è  di  là:  finalmente  mi  ha 
      avvertito ieri del vostro arrivo,  dandomi anche alcune istruzioni 
      relative alle vostre ricchezze...  Ecco tutto.  So che questo  mio 
      buon amico Wilmore è un originale, ma nello stesso tempo siccome è 
      un uomo sicuro,  ricco quanto una miniera d'oro, e per conseguenza 
      può soddisfare le sue originalità,  senza ch'esse lo rovinino,  ho 
      promesso  di  seguire  le  sue istruzioni.  Ora,  signore,  non vi 
      offendete della mia domanda.  Giacché sarò obbligato  a  farvi  un 
      poco  da  padre,  desidererei  sapere  se le disgrazie che vi sono 
      accadute,  disgrazie indipendenti dalla vostra volontà,  e che non 
      diminuiscono in alcun modo la stima che vi porto,  vi abbiano reso 
      estraneo a questo mondo nel quale le vostre ricchezze vi  chiamano 
      a fare una buona figura." 
      "Signore"  rispose  il  giovane riprendendo il suo contegno sicuro 
      man mano che il conte parlava,  "rassicuratevi su questo punto,  i 
      rapitori che mi hanno allontanato da mio padre, e che senza dubbio 
      avevano  per scopo di rendermi a lui più tardi,  come hanno fatto, 
      hanno calcolato che per cavare un buon guadagno da  me,  bisognava 
      lasciarmi  tutto  il  mio  valore  personale,  ed  anzi aumentarlo 
      ancora, se era possibile: ho dunque ricevuto una educazione e sono 
      stato trattato dai miei rapitori nello stesso modo, circa, con cui 
      nell'Asia Minore erano trattati gli schiavi dai loro  maestri  che 
      erano o grammatici,  o medici,  o filosofi, per venderli ad un più 
      caro prezzo al mercato di Roma." 
      Montecristo sorrise con soddisfazione; non aveva sperato tanto dal 
      signor Andrea Cavalcanti, a quanto sembrava. 
      "D'altra parte" riprese il giovane,  "se vi fosse qualche  difetto 
      nella  mia  educazione o piuttosto nelle abitudini di società,  si 
      avrà,  suppongo,  l'indulgenza di scusarmi in considerazione delle 
      disgrazie che hanno accompagnato la mia nascita, e perseguitata la 
      mia gioventù." 
      "Ebbene"  disse  Montecristo  negligentemente,   "farete  ciò  che 
      vorrete, perché voi siete il padrone, e spetta a voi decidere.  Ma 
      non direi una parola di tutte queste avventure. La vostra storia è 
      un  romanzo,  ed  il  mondo  che  adora  i  romanzi chiusi fra due 
      copertine di carta gialla,  diffida stranamente di quelli che vede 
      legati  in pergamena vivente,  fossero puranche dorati come potete 
      esserlo voi. Ecco la difficoltà che mi permetterò di farvi notare: 
      appena avrete raccontata a qualcuno la vostra  commovente  storia, 
      verrà del tutto snaturata nella società. Non sarete più un giovane 
      ritrovato;  ma un giovane perduto.  Sarete obbligato a prendere la 
      posizione di Antony,  ed il tempo degli Antony è un poco  passato. 
      Forse  godreste  di  un  momento di notorietà,  ma non tutti amano 
      farsi centro di curiosità,  argomento di commenti,  e ciò forse vi 
      stancherebbe troppo." 
      "Credo   abbiate   ragione,   signor   conte"   disse  il  giovane 
      impallidendo suo malgrado sotto lo sguardo di Montecristo: "questo 
      è un grande inconveniente." 
      "Oh,  non bisogna  però  esagerarlo"  disse  Montecristo,  "perché 
      allora per evitare un errore si cadrebbe in una follia. No, non si 
      tratta  che  di  stabilire  una  linea di condotta,  e per un uomo 
      intelligente come voi,  è tanto più facile in quanto è conforme ai 
      vostri  interessi.   Bisognerà  combattere  con  testimonianze  ed 
      onorevoli amicizie tutto ciò che può avere  di  oscuro  la  vostra 
      vita passata." 
      Andrea perdette visibilmente il coraggio. 
      "Mi  offrirei  volentieri per voi come garante" disse Montecristo. 
      "Ma in me è un'abitudine morale dubitare sempre dei miei  migliori 
      amici,  ed  un  bisogno  cercare  di far dubitare gli altri...  In 
      questa  occasione  io  rappresenterei  una  parte  fuori  del  mio 
      carattere, come dicono i tragici, e mi esporrei a farmi fischiare, 
      il che è inutile." 
      "Tuttavia,  signor  conte"  disse  Andrea  con  audacia,  "per  un 
      riguardo a lord Wilmore, che mi ha raccomandato a voi..." 
      "Sì,  certamente" rispose Montecristo,  "ma lord Wilmore non mi ha 
      lasciato  ignorare,  caro  signor  Andrea,  che  avete  avuto  una 
      gioventù alquanto procellosa...  Oh" disse  il  conte  vedendo  il 
      movimento che faceva Andrea,  "non vi domando delle confessioni... 
      D'altra parte,  perché non abbiate bisogno  di  nessuno  fu  fatto 
      venire da Lucca il signor marchese Cavalcanti vostro padre." 
      "Ah, voi mi tranquillizzate, signore! L'ho lasciato da lungo tempo 
      che non avevo più di lui alcun ricordo." 
      "E  poi  sapete che le molte ricchezze fanno chiudere un occhio su 
      tante cose." 
      "Mio padre è dunque realmente ricco, signore?" 
      "Milionario... Cinquecentomila lire di rendita." 
      "Allora" domandò il giovane con ansietà, "mi troverò ben presto in 
      una posizione... gradevole?" 
      "Delle più gradevoli,  mio caro signore: vi assegna  cinquantamila 
      lire di rendita per ogni anno che resterete a Parigi." 
      "Ma... in questo caso, vi resterò sempre?" 
      "Oh,  chi può rispondere dell'avvenire,  mio caro signore?  L'uomo 
      propone e Dio dispone." 
      Andrea mandò un sospiro. 
      "Ma infine per tutto il tempo che resterò a Parigi  e...,  nessuna 
      occasione me la farà abbandonare, questo denaro, di cui mi parlava 
      poco fa, mi sarà assicurato?" 
      "Oh, decisamente." 
      "Da mio padre?" domandò Andrea con inquietudine. 
      "Sì,  ma garantito da lord Wilmore,  che ha su richiesta di vostro 
      padre aperto un credito di cinquemila franchi al  mese  presso  il 
      signor Danglars, uno dei più sicuri banchieri di Parigi." 
      "E mio padre conta di restare lungamente a Parigi?" 
      "Soltanto  qualche  giorno" rispose Montecristo.  "Il suo servizio 
      non gli permette di assentarsi più di due o tre settimane." 
      "Oh,  che caro padre!" disse Andrea visibilmente lieto per  questa 
      pronta partenza. 
      "Per  cui"  soggiunse  Montecristo,   facendo  finta  d'ingannarsi 
      sull'accento di queste parole,  "non voglio ritardare di  un  solo 
      momento la vostra riunione.  Siete preparato ad abbracciare questo 
      degno signor Cavalcanti?" 
      "Spero che non ne dubiterete." 
      "Ebbene, entrate dunque nel salotto, mio giovane amico e troverete 
      vostro padre che vi aspetta." 
      Andrea fece un profondo saluto al conte, ed entrò nel salotto. 
      Il conte lo seguì con lo sguardo ed avendolo visto sparire, spinse 
      una molla corrispondente ad un quadro che,  scostandosi dal  muro, 
      lasciava  vedere  l'interno del salotto,  per mezzo di una fessura 
      magistralmente occultata. 
      Andrea chiuse la porta dietro a sé e si avanzò verso il  maggiore, 
      che si alzò appena inteso il rumore dei passi che si avvicinavano. 
      "Ah,  signore e caro padre" disse Andrea ad alta voce,  ed in modo 
      che il conte lo sentisse al  di  là  della  porta  chiusa,  "siete 
      veramente voi?" 
      "Buon giorno, caro figlio" disse con gravità il maggiore. 
      "Dopo  tanti  anni  di  separazione" ripeté Andrea,  continuando a 
      guardare dal lato della porta chiusa, "qual fortuna rivederci!" 
      "Difatti la separazione è stata lunga." 
      "E non ci abbracciamo, signore?" riprese Andrea. 
      "Come vi piace, figlio mio" soggiunse il maggiore. 
      E i due uomini si abbracciarono al modo degli  attori  del  teatro 
      francese, cioè posandosi reciprocamente la testa sopra le spalle. 
      "Eccoci dunque riuniti" disse Andrea. 
      "Eccoci riuniti" ripeté il maggiore. 
      "Per non separarci mai più!" 
      "Sia,  però credo,  caro figlio,  che ora considererete la Francia 
      come la vostra seconda patria." 
      "Il fatto è che sarei disperato se dovessi lasciare Parigi." 
      "Ed io,  capirete,  non saprei vivere fuori  di  Lucca;  ritornerò 
      dunque in Italia appena lo potrò." 
      "Ma, caro padre, prima di partire, mi consegnerete le carte con le 
      quali dimostrare la mia nobile nascita?" 
      "Senza dubbio,  sono venuto espressamente per questo, ho già molto 
      sofferto  per  ritrovarvi,  e  non  voglio  perdervi  una  seconda 
      volta... Soffrirei per il resto dei miei giorni." 
      "E le carte?" 
      "Eccole." 
      Andrea  afferrò  avidamente  l'atto  di  matrimonio di suo padre e 
      quello della sua nascita,  e li percorse con una  rapidità  e  una 
      disinvoltura  che  denotavano un colpo d'occhio esercitato,  ed un 
      vivo interesse. Appena terminato, un'indefinibile gioia gli brillò 
      sulla fronte, e guardando il maggiore con uno strano sorriso: 
      "E che!" diss'egli in buon toscano.  "Non vi sono  più  galere  in 
      Italia?" 
      Il maggiore si irrigidì. 
      "E perché?" disse. 
      "Perché  si  fabbricano  impunemente certificati simili...  Per la 
      metà di questo, caro padre, in Francia vi manderebbero a respirare 
      per cinque anni l'aria di Tolone." 
      "Come sarebbe a dire?" esclamò il lucchese, sforzandosi d'assumere 
      un tono maestoso. 
      "Mio caro signor Cavalcanti" disse Andrea stringendosi al  braccio 
      il maggiore, "quanto vi pagano per esser mio padre?" 
      Il  maggiore  voleva  parlare,  ma  Andrea soggiunse abbassando la 
      voce: 
      "Zitto,  sarò il primo a darvi l'esempio: a me danno cinquantamila 
      franchi  l'anno per essere vostro figlio;  di conseguenza capirete 
      bene che non sarò mai disposto a negare che voi siete mio padre." 
      Il maggiore guardò con inquietudine intorno a sé. 
      "Eh,  state pur tranquillo,  siamo soli" disse Andrea,  "e d'altra 
      parte noi parliamo in italiano." 
      "Ebbene" ripeté il lucchese, "a me danno cinquantamila franchi per 
      una sola volta" 
      "Signor Cavalcanti, credete ai racconti delle fate?" 
      "Prima non ci credevo, ma adesso bisogna che ci creda." 
      "Avete dunque avuto delle prove?" 
      Il maggiore cavò dal taschino un pugno di monete d'oro: 
      "Palpabili come vedete.  Credete dunque,  ch'io possa prestar fede 
      alle promesse fatte?" 
      "E questo brav'uomo del conte le manterrà?" 
      "Sicuramente, ma capirete che per giungere allo scopo, bisogna che 
      noi rappresentiamo bene la parte importante." 
      "In qual modo?" 
      "Io di tenero padre." 
      "Ed io di figlio rispettoso,  poiché desiderano che io discenda da 
      voi." 
      "Chi lo desidera?" 
      "Diavolo,  non  lo  so,  coloro  che  vi  hanno scritto: non avete 
      ricevuto una lettera?" 
      "Certamente." 
      "Da chi?" 
      "Da un certo abate Busoni." 
      "Che non conoscete?" 
      "Che non ho mai veduto." 
      "Che diceva questa lettera?" 
      "Voi non mi tradirete?" 
      "Me ne guarderei bene; abbiamo eguali interessi." 
      "Allora tenete" e il maggiore presentò la lettera al giovane. 
      Andrea lesse a voce bassa: 
 
      ''voi siete  povero,  un'infelice  vecchiaia  vi  attende,  volete 
      diventare,  se non ricco,  almeno felice?  Partite sul momento per 
      Parigi,  per reclamare dal conte  di  Montecristo,  Champs-Elysées 
      numero 30,  il figlio che avete avuto con la marchesa Corsinari, e 
      che vi fu rapito nell'età di 5 anni. 
      Egli si chiama Andrea Cavalcanti.  Perché non abbiate alcun dubbio 
      sulle  intenzioni  che il sottoscritto ha di rendersi a voi utile, 
      troverete qui uniti: Primo.  Un buono di duemilaquattrocento  lire 
      toscane,  pagabili  dal  signor  Gozzi  in Firenze;  Secondo.  una 
      lettera di presentazione per il signor conte  di  Montecristo  sul 
      quale vi apro un credito della somma di quarantottomila franchi. 
      Siate dal conte il 26 maggio alle sette pomeridiane. 
      Abate Busoni." 
 
      "E' questa, è questa..." 
      "Come, è questa? Che intendete dire?" domandò il maggiore. 
      "Dico che ne ho ricevuta una press'a poco come questa." 
      "Voi?" 
      "Sì, io." 
      "Dall'abate Busoni?" 
      "No." 
      "Da chi dunque?" 
      "Da un inglese, da un certo Wilmore, che prende il nome di Sindbad 
      il marinaio..." 
      "E che voi non conoscete più che io l'abate Busoni?" 
      "E' un fatto... Ma sono più addentro di voi..." 
      "L'avete veduto?" 
      "Sì, una volta." 
      "E dove?" 
      "Ecco ciò che appunto non posso dirvi;  voi ne sapreste quanto me, 
      e ciò è inutile." 
      "E quella lettera vi diceva?" 
      "Leggete." 
 
      "Voi siete povero, e non avete che un avvenire miserabile;  volete 
      un nome, esser ricco?" 
 
      "Perbacco!"  fece  il giovane rizzandosi sui talloni,  come se una 
      simile domanda gli fosse stata fatta proprio in quel momento. 
 
      "Prendete la carrozza di posta che troverete già allestita uscendo 
      da Nizza per la porta di Genova. Passate per Torino,  Chambéry,  e 
      Pont-de-Beauvoisin,  recatevi a Parigi.  Presentatevi al signor di 
      Montecristo, entrata degli Champs-Elysées, il 26 maggio alle sette 
      pomeridiane, e domandategli di vostro padre.  Voi siete figlio del 
      marchese Bartolomeo Cavalcanti,  e della marchesa Oliva Corsinari, 
      come attestano le carte che vi saranno rimesse dal marchese, e che 
      vi permetteranno di  potervi  presentare  con  questo  nome  nella 
      società  di  Parigi.  In  quanto  al vostro rango,  una rendita di 
      cinquanta mila lire l'anno vi metterà  in  condizione  di  poterlo 
      sostenere.  Unito  alla  presente troverete un buono di cinquemila 
      lire pagabile dal signor  Ferrea  di  Nizza,  ed  una  lettera  di 
      presentazione  al  conte  di  Montecristo,  incaricato  da  me  di 
      provvedere ai vostri bisogni. 
      Sindbad il marinaio." 
 
      "Hum!" fece il maggiore. "Benissimo! Avete veduto il conte?" 
      "L'ho lasciato or ora." 
      "Ed egli ha approvato...?" 
      "Tutto." 
      "Ne capite qualche cosa?" 
      "No, in fede mia." 
      "In questa faccenda c'è certamente un merlo." 
      "In ogni caso, non saremo né io, né voi." 
      "No, certamente." 
      "Ebbene, allora..." 
      "Poco c'importa, è vero?..." 
      "Precisamente,  ciò che volevo dire  anch'io,  andiamo  fino  alla 
      fine, e sempre uniti." 
      "Vedrete che sono degno di giocare la vostra partita." 
      "Non ne ho dubitato neppure un momento, caro padre." 
      "Voi mi fate onore, caro figlio." 
      Montecristo   scelse  questo  momento  per  entrare  nel  salotto. 
      Sentendo il rumore dei suoi passi, i due uomini si gettarono nelle 
      braccia l'uno dell'altro, il conte li trovò abbracciati. 
      "Ebbene,  marchese" diss'egli,  "sembra  che  abbiate  trovato  un 
      figlio consono al vostro cuore." 
      "Ah, conte, la gioia mi soffoca." 
      "E voi?" 
      "Ah, signore, la felicità mi opprime." 
      "Padre fortunato! Figlio avventuroso!" esclamò Montecristo. 
      "Una  sola  cosa mi rattrista" disse il maggiore: "la necessità di 
      dover così presto lasciar Parigi." 
      "Non partirete prima che vi abbia presentato a qualche amico." 
      "Sono agli ordini del signor conte" disse il maggiore. 
      "Or via, giovanotto, confidatevi." 
      "A chi?" 
      "A vostro padre;  ditegli qualche cosa sullo  stato  delle  vostre 
      finanze." 
      "Ah, diavolo!" disse Andrea. "Voi toccate la corda sensibile..." 
      "Capite, maggiore?" disse Montecristo. 
      "Senza dubbio." 
      "Egli dice che ha bisogno di denaro." 
      "E che volete che ci faccia io?" 
      "Che gliene diate, per Bacco!" 
      "Io?" 
      "Sì, voi!" 
      Montecristo si pose fra loro. 
      "Prendete" disse ad Andrea,  lasciandogli scorrere tra le mani dei 
      biglietti di banca. 
      "E che cos'è?" 
      "La risposta di vostro padre...  Non gli avete  fatto  capire  che 
      avevate bisogno di denaro?" 
      "Sì, ebbene?" 
      "Ebbene, egli m'incarica di darvi questi." 
      "In conto delle mie rendite?" 
      "No, per le spese d'una prima sistemazione." 
      "Oh, caro padre!" 
      "Silenzio!" disse Montecristo.  "Vedete bene che egli non vuole vi 
      dica che vengono da lui." 
      "Apprezzo  questa  delicatezza"  disse   Andrea,   nascondendo   i 
      biglietti nella tasca dei calzoni. 
      "Sta bene" disse Montecristo. "Ora andate!" 
      "E  quando avremo l'onore di rivedere il signor conte?" domandò il 
      maggiore. 
      "Sabato,  per favore...  Avrò parecchie persone a pranzo nella mia 
      casa  d'Auteuil,  rue  Fontaine  28;  fra esse il signor Danglars, 
      vostro banchiere.  Vi presenterò a lui: bisogna bene che faccia la 
      conoscenza di entrambi per sborsarvi il vostro danaro." 
      "In gran tenuta?" domandò a mezza voce il maggiore. 
      "Sì, uniforme, decorazioni e nastrini." 
      "Ed io?" domandò Andrea. 
      "Oh,  voi  con gran semplicità: calzoni neri,  stivali verniciati, 
      corpetto bianco,  abito  nero  o  turchino...  Andate  da  Blin  o 
      Véronique   per  abbigliarvi  se  non  ne  sapete  gli  indirizzi, 
      Battistino  ve  li  dirà...   Se  prendete  cavalli  servitevi  da 
      Devedeux; se comprate un carrozzino andate da Baptiste." 
      "A che ora potremo presentarci?" 
      "Alle sei e mezzo." 
      "Sta bene!" disse il maggiore, portando la mano al cappello. 
      I due Cavalcanti salutarono il conte e partirono. 
      Il  conte si avvicinò alla finestra,  e li vide che attraversavano 
      il cortile tenendosi sotto il braccio. 
      "In verità" disse,  "ecco due gran  miserabili!  Peccato  che  non 
      siano   veramente  padre  e  figlio!"  Dopo  un  momento  di  cupa 
      riflessione: "Andiamo  dai  Morrel;  credo  che  il  disprezzo  mi 
      amareggi ancor più dell'odio". 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 56. 
                           IL RECINTO DI TRIFOGLIO. 
 
 
      E'  necessario  che i nostri lettori ci permettano di ricondurli a 
      quel recinto che confina coll'abitazione del signor  Villefort,  e 
      dietro  il cancello investito dai castagni troveremo delle persone 
      di nostra conoscenza. 
      Questa volta  Massimiliano  era  giunto  per  primo.  Egli  teneva 
      l'occhio  contro  l'assito  cercando in fondo al giardino un'ombra 
      fra gli alberi,  ed attendendo il calpestìo  d'uno  stivaletto  di 
      seta  sulla  sabbia  dei  viali.  Finalmente  il  tanto desiderato 
      calpestìo si fece sentire,  ma invece di una furono due  le  ombre 
      che  si  avvicinarono.  Il  ritardo era causato dalla visita della 
      signora Danglars e di Eugenia,  che si era prolungata oltre  l'ora 
      in  cui  Valentina  era  attesa.  Allora  per  non  mancare al suo 
      appuntamento la ragazza aveva proposto alla signorina Danglars una 
      passeggiata nel giardino,  volendo far vedere a  Massimiliano  non 
      esser  lei  la  causa  del ritardo per il quale,  certamente,  lui 
      soffriva. 
      Il giovane capì tutto con  quella  rapidità  d'intuizione  propria 
      degli innamorati,  ed il suo cuore ne fu sollevato.  D'altra parte 
      senza  giungere  a  portata  di  voce,   Valentina  fece  la   sua 
      passeggiata  in  modo  che  Massimiliano potesse vederla passare e 
      ripassare;  e ad ogni sguardo dalla  parte  del  cancello,  e  dal 
      giovane raccolto, gli diceva: 
      "Abbiate pazienza, vedete che non è colpa mia." 
      Massimiliano   infatti  si  era  rassegnato  e  stava  notando  il 
      contrasto fra le due ragazze: la bionda dagli occhi languidi e dal 
      corpo leggermente flessuoso come un bel salice;  e la bruna  dagli 
      occhi  vivi  e  dal  corpo ritto come un pioppo.  Non è necessario 
      dirlo,  in questo contrasto tutto il vantaggio era per  Valentina, 
      almeno nel cuore del giovane. 
      Dopo  mezz'ora  di  passeggiata  le  due ragazze si allontanarono; 
      Massimiliano capì essere giunto  il  termine  della  visita  della 
      signora Danglars. 
      Un momento dopo comparve Valentina sola. 
      Per  timore  che  qualche  indiscreto  sguardo  non ne seguisse il 
      ritorno in giardino, lei veniva piano piano; ed invece d'avanzarsi 
      direttamente verso il cancello,  andò a sedersi su  una  panchina, 
      dopo  aver ammirato ogni gruppo di alberi ed aver contemplato fino 
      in fondo tutti i viali. Prese queste cautele corse al cancello. 
      "Buon giorno,  Massimiliano;  vi ho fatto attendere,  ma ne  avete 
      veduta la causa." 
      "Ho  visto  la signorina Danglars;  non vi credevo in così stretta 
      amicizia. 
      "E chi vi ha detto che siamo strette amiche?" 
      "Nessuno,  ma ho potuto intuirlo dal modo come vi tenevate per  il 
      braccio,   e   come   parlavate:   sembravate   due   compagne  di 
      conservatorio che si facevano le loro confidenze." 
      "Sì,  è vero,  infatti" disse Valentina,  "mi  confessava  la  sua 
      avversione  al  matrimonio  col  signor  Morcerf,  ed  io  la  mia 
      infelicità nel dover sposare il signor d'Epinay." 
      "Cara la mia Valentina!" 
      "Ecco perché,  amico  mio"  continuò  la  ragazza,  "avete  notato 
      quest'apparenza  di  intimità  fra me ed Eugenia;  perché parlando 
      dell'uomo che non posso amare, pensavo a quello che amo." 
      "Quanto siete buona,  mia Valentina,  avete un pregio che  Eugenia 
      non  avrà  mai:  emanate  quella  simpatia indefinibile che per la 
      donna è ciò che il profumo è  per  il  fiore,  il  sapore  per  il 
      frutto; poiché non è tutto in un fiore l'esser bello, in un frutto 
      l'esser buono." 
      "E l'amor vostro vi fa vedere in tal modo?" 
      "No,  Valentina,  ve lo giuro, poco fa vi guardavo entrambe, e sul 
      mio  onore,  rendendo  giustizia  alla  bellezza  della  signorina 
      Danglars,  non potevo comprendere come un uomo si possa innamorare 
      di lei." 
      "Lo dite  perché  c'ero  anch'io,  e  la  mia  presenza  vi  rende 
      ingiusto." 
      "No,  ma ditemi..., una domanda di semplice curiosità, e che viene 
      da certe idee che mi sono fatte della signorina Danglars..." 
      "Oh,  queste idee saranno certamente ingiuste,  sebbene non sappia 
      quali siano...  Quando giudicate voi uomini,  noi povere donne non 
      ci dobbiamo aspettare indulgenza." 
      "E' per ciò che siete tanto giuste  quando  vi  giudicate  fra  di 
      voi!" 
      "E'  perché  nei  vostri  giudizi  sono  quasi sempre mischiate le 
      passioni." 
      "E' forse perché la signorina Danglars ama qualche altro, che teme 
      il matrimonio col signor Morcerf?" 
      "Massimiliano, vi ho già detto che non sono la sua intima amica." 
      "Oh,  mio Dio,  senza essere amiche intime le ragazze si fan delle 
      confidenze...  Convenite  che  le  avete  fatto qualche domanda su 
      quest'argomento... Vi vedo sorridere..." 
      "Se potete vedere tanto bene, queste tavole sono davvero inutili!" 
      "Sentiamo cosa vi ha detto?" 
      "Mi ha detto che non amava alcuno" disse Valentina,  "che aveva in 
      orrore il matrimonio,  che la sua maggiore gioia sarebbe di vivere 
      una vita sola e felice,  e che  quasi  desiderava  che  suo  padre 
      perdesse  la  sua  fortuna per diventare artista come la sua amica 
      Luigia d'Armilly." 
      "Ah, vedete dunque..." 
      "Ebbene, ciò che cosa prova?" domandò Valentina. 
      "Nulla, è vero" rispose sorridendo Massimiliano. 
      "Allora" disse Valentina, "perché ora voi sorridete?" 
      "Ah, vedete bene che anche voi guardate" proseguì Massimiliano. 
      "Volete che mi allontani?" 
      "No, no, torniamo a noi." 
      "Sì è vero, perché abbiamo appena dieci minuti da stare insieme." 
      "Dio mio!" gridò costernato Massimiliano. 
      "Sì, avete ragione" disse malinconicamente Valentina, "avete in me 
      una povera amica...  Quale  meschina  esperienza  vi  faccio  fare 
      Massimiliano! Voi siete nato per esser felice. Credetemi; io me lo 
      rimprovero sempre amaramente." 
      "Ebbene  che v'importa,  se anche in tal modo mi sento felice?  Se 
      questo lungo aspettare viene compensato da cinque minuti,  in  cui 
      posso vedervi,  dalle poche parole che escono dalla vostra bocca e 
      da quell'intima e permanente convinzione  che  Dio  non  può  aver 
      creato  due  cuori  in  armonia quanto i nostri,  e riunirli direi 
      quasi miracolosamente, solo per separarli?" 
      "Grazie! Sperate per entrambi, Massimiliano: ciò mi rende in parte 
      felice." 
      "E che cosa accade ancora Valentina,  perché abbiate  a  lasciarmi 
      tanto presto?" 
      "Non lo so... La signora Villefort m'ha fatto dire di dovermi dare 
      una notizia dalla quale, dice, dipende metà della mia fortuna. Eh, 
      mio  Dio,  che  se  la prendano tutta,  sono ricca abbastanza,  ma 
      almeno,  dopo averla presa,  mi lascino  tranquilla!  Mi  amereste 
      ugualmente anche fossi povera, non è vero, Morrel?" 
      "Oh,  v'amerò  sempre!  Che m'importano la ricchezza o la povertà, 
      fossi certo che la mia Valentina  mi  sposa,  e  che  nessuno  può 
      togliermela?   Ma   questa   non  potrebbe  riguardare  il  vostro 
      matrimonio?" 
      "Non lo credo..." 
      "Però ascoltatemi Valentina,  ma non vi spaventate:  finché  vivo, 
      non sarò mai d'un'altra!" 
      "Credete di tranquillizzarmi, dicendomi questo, Massimiliano?" 
      "Scusate, avete ragione, sono un uomo brutale. Io volevo dirvi che 
      giorni fa ho incontrato il signor Morcerf." 
      "Ebbene?" 
      "Il signor Franz è suo amico, come voi ben sapete." 
      "Sì, ebbene?" 
      "Ebbene,  egli ha ricevuto da Franz una lettera con cui lo avverte 
      del suo prossimo ritorno." 
      Valentina impallidì, ed appoggiò la testa contro il cancello. 
      "Ah, mio Dio!" disse lei. "Fosse mai vero! Ma no, una tale notizia 
      non mi verrebbe dalla signora Villefort." 
      "Perché?" 
      "Perché...  non lo so...  Ma mi sembra che la  signora  Villefort, 
      senza   opporsi   apertamente,   non  abbia  simpatia  per  questo 
      matrimonio." 
      "Va  bene,   Valentina,   dovrò  finire  coll'adorare  la  signora 
      Villefort." 
      "Oh,  non v'affrettate, Massimiliano" disse Valentina con un amaro 
      sorriso. 
      "Alla fin fine, se è avversa a questo matrimonio,  non fosse altro 
      che per romperlo, forse darebbe ascolto a qualche altra proposta." 
      "Non lo credete;  la signora Villefort non esclude i mariti, ma il 
      matrimonio." 
      "Come il matrimonio?  Se tanto detesta il matrimonio,  perché si è 
      maritata?" 
      "Voi non mi capite, Massimiliano... Quando un anno fa le parlai di 
      ritirarmi  in  un  convento,  malgrado  le osservazioni che si era 
      creduta in dovere di farmi,  lei aveva accolta la mia proposta con 
      gioia,  e su sua istigazione mio padre aveva acconsentito;  non vi 
      fu che il povero nonno che  mi  trattenne.  Non  potete  figurarvi 
      quanta espressione vi sia negli occhi di questo povero vecchio che 
      non  ama  che me sola al mondo,  e che (Dio mi perdoni se dico una 
      bestemmia) in questo mondo, non è amato che da me sola! Se sapeste 
      quando apprese la mia risoluzione,  in qual modo mi  ha  guardato, 
      quanti rimproveri vi erano in quegli sguardi,  quanta disperazione 
      in quelle lacrime che scorrevano senza lamenti e senza sospiri  su 
      quelle guance immobili!  Ah! Massimiliano, io provai rimorso, e mi 
      gettai ai suoi  piedi  gridando:  "Perdono,  perdono,  nonno  mio, 
      faranno di me ciò che vorranno, ma io non vi lascerò mai!". Allora 
      alzò gli occhi al cielo...  Massimiliano, posso soffrire molto, ma 
      quello sguardo del mio buon vecchio nonno mi  ha  ricompensata  di 
      tutto ciò che soffrirò..." 
      "Cara Valentina,  siete un angelo,  ed io non so come abbia potuto 
      meritare pur avendo ucciso tanti uomini in questa guerra  crudele, 
      come  abbia  potuto  meritarmi  un  angelo  come voi...  Ma infine 
      vediamo,  Valentina,  da dove può venire un'opposizione così forte 
      della signora Villefort perché non abbiate a maritarvi?" 
      "Non  avete  inteso ciò che vi dicevo poco fa,  che cioè,  io sono 
      ricca,  Massimiliano,  troppo ricca?  Io ho da parte di mia  madre 
      quasi cinquanta mila franchi di rendita; mio nonno e mia nonna, il 
      marchese   e  la  marchesa  di  Saint-Méran,   devono  lasciarmene 
      altrettanto;  il signor Noirtier  ha  ugualmente  l'intenzione  di 
      farmi sua unica erede. Ne risulta dunque in rapporto a me, che mio 
      fratello  Edoardo,  che  non  può aspettarsi da parte di sua madre 
      alcuna ricchezza,  è povero.  Ora la signora Villefort ama  questo 
      ragazzo  fino  all'adorazione,   e  se  io  fossi  entrata  in  un 
      monastero,   tutti  i  miei  beni  riuniti  in  mio   padre,   che 
      erediterebbe  dal  marchese,  dalla  marchesa  e da me,  sarebbero 
      venuti a suo figlio." 
      "Questa cupidigia in una donna giovane e bella è molto strana!" 
      "Notate però che tutto ciò non è per se stessa,  Massimiliano,  ma 
      per  suo  figlio;  e  ciò che voi le rimproverate come un difetto, 
      visto dall'amor materno, è quasi una virtù." 
      "Ditemi,  Valentina" disse Morrel,  "se voi lasciaste una porzione 
      di questi beni a questo figlio?" 
      "Ma  quale  sarà  il  mezzo  per  fare  una simile proposta" disse 
      Valentina,  "ad una donna che  continuamente  ha  nella  bocca  la 
      parola disinteresse?" 
      "Valentina,  il mio amore mi è stato sempre sacro, e come tutte le 
      cose sacre io l'ho coperto col velo del rispetto: sta  chiuso  nel 
      mio cuore,  nessuno al mondo, neppure mia sorella dubita dunque di 
      questo amore che io non ho  confidato  a  nessuno.  Valentina,  mi 
      permettete di parlare di questo amore con un amico?" 
      Valentina fremette. 
      "Ad un amico?" disse.  "Mio Dio, Massimiliano, un timore mi prende 
      nel sentirvi parlar così!  "Ad un amico",  e chi è  dunque  questo 
      amico?" 
      "Ascoltate, Valentina avete mai sentito per qualcuno una di quelle 
      simpatie  irresistibili che fanno sì che,  vedendo una persona per 
      la prima volta,  credete conoscerla da lungo tempo,  e tanto  che, 
      non potendo ricordarvi né il luogo né il tempo, giungete a credere 
      che ciò fu in un mondo anteriore al nostro,  e che questa simpatia 
      non sia che una rimembranza che si risvegli?" 
      "Sì." 
      "Ebbene,  ecco ciò che ho provato la  prima  volta  che  ho  visto 
      quest'uomo straordinario." 
      "Un uomo straordinario!" 
      "Sì." 
      "Che voi conoscete da lungo tempo allora." 
      "Da otto o dieci giorni." 
      "E  chiamate  vostro  amico  un  uomo  che  conoscete da soli otto 
      giorni?  Oh,  Massimiliano,  vi credevo molto più geloso di questo 
      bel nome di "amico"." 
      "Voi avete ragione,  Valentina: ma,  dite ciò che volete, nulla mi 
      può  far  dubitare  di  questo  sentimento  istintivo.  Credo  che 
      quest'uomo avrà un ruolo in tutto ciò che potrà accadermi di buono 
      in  un  avvenire,  che  perfino  il  suo  sguardo  profondo sembra 
      conoscere e la sua mano possente dirigere." 
      "E' dunque un indovino?" disse sorridendo Valentina. 
      "In fede mia" disse Massimiliano,  "sono tentato  di  credere  che 
      spesso egli indovini... particolarmente il bene." 
      "Oh"  disse  Valentina tristemente,  "fatemi conoscere quest'uomo, 
      che io sappia da costui,  se  sarò  amata  abbastanza  per  essere 
      ricompensata di tutto ciò che ho sofferto." 
      "Povera amica! Ma voi lo conoscete." 
      "Io!" 
      "Sì,  è  colui  che  ha salvato la vita a vostra matrigna ed a suo 
      figlio." 
      "Il conte di Montecristo?" 
      "In persona." 
      "Oh!" gridò Valentina. "Non può mai essere mio amico,  lo è troppo 
      della mia matrigna." 
      "Il conte amico della vostra matrigna!  Valentina,  il mio istinto 
      mi avrebbe ingannato a  questo  punto?  Sono  sicuro  che  voi  vi 
      sbagliate." 
      "Oh sapeste, Massimiliano, non è più Edoardo che regna nella casa, 
      ma il conte, ricercato dalla signora Villefort, che vede in lui il 
      compendio delle umane conoscenze...  Ammirato, capite? Ammirato da 
      mio padre che dice di non aver  mai  udito  esporre  con  maggiore 
      eloquenza  le  idee  più sublimi;  idolatrato da Edoardo che,  pur 
      spaventato dai grandi occhi neri del conte, corre da lui appena lo 
      vede,  e  gli  apre  la  mano,   dove  trova  sempre  qualche  bel 
      giocattolo...  Il  signor  Montecristo,  quando  è  dalla  signora 
      Villefort, è come se fosse in casa propria." 
      "Ebbene, cara Valentina, se le cose sono così come dite dovete già 
      risentire,   o  risentirete  ben  presto  gli  effetti  della  sua 
      presenza. Egli incontra Alberto de Morcerf in Italia, e lo sottrae 
      dalle  mani  dei  briganti;  vede la signora Danglars,  e le fa un 
      regalo da re;  vostra matrigna e vostro fratello  passano  davanti 
      alla  sua porta,  e il suo moro salva loro la vita.  Quest'uomo ha 
      evidentemente  ricevuto  il  potere  di  avere   influenza   sugli 
      avvenimenti,  sugli  uomini e sulle cose.  Non ho mai veduto gusti 
      più semplici collegati ad una più alta signorilità. Il suo sorriso 
      quando guarda me,  è così dolce,  che io dimentico come gli  altri 
      trovino il suo sorriso amaro: ditemi,  Valentina, vi ha sorriso in 
      tal modo? Se lo ha fatto voi sarete felice." 
      "A me!" disse la ragazza. "Egli mi guarda appena, o piuttosto,  se 
      passo per caso,  volge lo sguardo altrove. Oh, non è generoso, non 
      ha quello sguardo profondo che legge nell'interno dei cuori, e che 
      voi gli supponete a torto;  poiché se avesse avuto questo sguardo, 
      avrebbe  visto  che  io  sono infelice;  perché se fosse generoso, 
      vedendomi sola e triste nel mezzo di questa famiglia,  mi  avrebbe 
      protetta  con  quella  influenza  che  egli  esercita;   e  poiché 
      rappresenta,  a quanto  pretendete,  la  parte  di  sole,  avrebbe 
      riscaldato  il  mio  cuore ad uno dei suoi raggi.  Voi dite che vi 
      ama,  Massimiliano;  che ne sapete?  Gli uomini fanno sempre  buon 
      viso  ad un ufficiale alto come voi,  che ha lunghi baffi,  ed una 
      grande sciabola, ma credono di potere schiacciare senza timore una 
      povera ragazza che piange." 
      "Valentina, v'ingannate, ve lo giuro!" 
      "Se fosse altrimenti, se mi trattasse come un uomo che vuole in un 
      modo o nell'altro padroneggiare la famiglia, mi avrebbe, non fosse 
      stato che una sola volta, onorata di quel sorriso che voi tanto mi 
      vantate... Ma invece ha capito come sono, ma capisce anche che non 
      posso essergli utile,  e allora non fa attenzione  a  me.  Chissà, 
      invece,  per fare la corte a mio padre,  alla signora Villefort, a 
      mio fratello,  che non mi perseguiti quanto sarà in suo potere  di 
      farlo?  Diciamolo francamente Massimiliano,  io non sono una donna 
      che si debba disprezzare così  senza  ragione;  voi  me  lo  avete 
      detto...  Ah! perdonate" continuò la giovane vedendo l'impressione 
      che producevano le sue parole su Massimiliano, "sono cattiva, e vi 
      dico su quest'uomo cose che non sapevo neppure di avere in  cuore. 
      Ascoltate...  Non nego che quest'influenza,  di cui mi parlate, vi 
      sia e che egli non la eserciti anche su me; ma s'egli la esercita, 
      è in modo nocivo e corruttore,  come lo vedete,  dai vostri  buoni 
      pensieri." 
      "Sta  bene,  Valentina"  disse  Morrel  con  un  sospiro,  "non ne 
      parliamo più, non gli dirò niente." 
      "Ahimè, amico mio" disse Valentina, "io vi affliggo, lo vedo... Oh 
      perché non posso stringervi la mano  per  domandarvi  perdono!  Ma 
      infine  non  chiedo  di  meglio che di esser convinta: dite che ha 
      dunque fatto per voi questo conte di Montecristo?" 
      "Voi mi mettete in un grande  impaccio  domandandomi  ciò  che  ha 
      fatto  il conte per me;  niente di grande è vero.  Vi ho già detto 
      che la mia affezione per lui è tutta d'istinto,  e che nulla ha di 
      ragionato.  Il  sole mi ha forse fatto qualche cosa!  No,  egli mi 
      riscalda e colla sua luce vedo,  ecco tutto.  Il tale o tal  altro 
      profumo  ha  fatto  qualche cosa per me?  No,  il suo odore ricrea 
      gradevolmente uno dei miei sensi,  non ho altro da dire quando  mi 
      si domanda perché io vanti quel tale profumo.  La mia amicizia per 
      lui è strana, com'è la sua per me.  Una voce segreta m'avverte che 
      vi  è  qualche  cosa  più  di  un  semplice caso in quest'amicizia 
      imprevista e reciproca,  trovo della correlazione perfino nei suoi 
      più  segreti pensieri,  fra le mie azioni ed i miei pensieri.  Voi 
      forse riderete di me,  Valentina,  ma da quando conosco quest'uomo 
      mi  è  venuta  l'assurda  idea che tutto ciò che mi accade di bene 
      provenga da lui benché abbia vissuto  trent'anni  senza  aver  mai 
      avuto bisogno di questo protettore. Sentite un esempio! 
      "Mi ha invitato a pranzo per sabato, questa è una cosa naturale al 
      punto in cui siamo,  non è vero?  Ebbene,  che ho saputo dopo? Che 
      vostro padre è invitato a  questo  pranzo,  che  vostra  madre  ci 
      verrà.  Chi  sa  ciò  che potrà risultare per l'avvenire da questo 
      incontro?  Ecco  delle  coincidenze  semplicissime  in  apparenza, 
      tuttavia  vi  scorgo  qualche cosa che mi sorprende,  vi porgo una 
      strana fiducia.  Io ho pensato che il conte,  quest'uomo singolare 
      che indovina tutto,  ha voluto farmi ritrovare col signore e colla 
      signora Villefort, e qualche volta cerco, ve lo giuro,  di leggere 
      nei suoi occhi se ha indovinato il mio amore." 
      Mio  buon  amico"  disse  Valentina,  "se  non  udissi  da voi che 
      ragionamenti simili vi prenderei per un visionario,  ed avrei  una 
      vera  paura  del  vostro  buon  senso.  Non  è  forse un puro caso 
      quest'incontro? In verità rifletteteci dunque. Mio padre,  che non 
      esce  mai,  è  stato dieci volte sul punto di negare questo invito 
      alla signora Villefort,  la quale al contrario arde dal  desiderio 
      di vedere la casa di questo straordinario nababbo,  ed a stento ha 
      ottenuto di essere accompagnata da lui. No no,  credetemi,  tranne 
      voi,  Massimiliano,  non  ho altri a cui chiedere soccorso che mio 
      nonno, un impotente, altr'appoggio che mia madre, un ombra..." 
      "Comprendo  che  avete  ragione,   Valentina,   e  che  il  vostro 
      ragionamento  è  giusto"  disse Massimiliano,  "ma la vostra dolce 
      voce, sempre così persuasiva per me, oggi non mi convince." 
      "E la vostra ancor meno" disse Valentina,  "e vi dirò che  se  non 
      avete altro esempio da citarmi..." 
      "Ne  ho  uno" disse Massimiliano esitando,  "ma,  Valentina,  sono 
      costretto a dirvi che è più assurdo del primo." 
      "Tanto peggio" disse sorridendo Valentina. 
      "Eppure" continuò Morrel,  "non è meno  importante  per  me,  uomo 
      d'istinto e di sentimento,  e che nei momenti più pericolosi della 
      mia vita militare mi  sono  salvato  proprio  per  uno  di  queste 
      sensazioni inconsce." 
      "Caro  Massimiliano,  perché  non  attribuire  alle  mie preghiere 
      quella salvezza? Quando siete in Africa, non prego più Dio per me, 
      né per mia madre, ma solo per voi." 
      "Sì, da quando vi conosco" disse sorridendo Morrel,  "ma prima che 
      vi conoscessi, Valentina?" 
      "Non  volete essermi debitore di cos'alcuna,  non è vero?  Tornate 
      dunque a questo esempio che voi stesso confessate assurdo." 
      "Ebbene,   guardate  fra  le  assi,   ed   osservate,   laggiù   a 
      quell'albero, il nuovo cavallo col quale sono venuto." 
      "Oh, che bestia ammirabile! Perché non lo avete condotto vicino al 
      cancello? Gli avrei parlato ed egli mi avrebbe intesa..." 
      "Infatti,   come  vedete  è  un  animale  di  gran  prezzo"  disse 
      Massimiliano. "Voi sapete che la mia rendita è limitata,  e che io 
      altro  non sono,  come si dice,  che un uomo ragionevole.  Ebbene, 
      avevo visto da un mercante di  cavalli  questo  magnifico  Medeah, 
      così  lo chiamo;  ne chiesi il prezzo,  mi fu risposto quattromila 
      cinquecento  franchi,   dovetti  astenermi,   come   ben   capite, 
      quantunque  tanto  bello,  e  partii  molto  spiaciuto,  perché il 
      cavallo mi aveva guardato teneramente, mi aveva accarezzato con la 
      testa,  ed aveva caracollato sotto di me nel modo più  elegante  e 
      grazioso.  La  stessa  sera  avevo in casa alcuni amici: il signor 
      Chateau-Renaud, il signor Debray, e cinque o sei altri,  che avete 
      la  fortuna  di  non  conoscere  neppure di nome.  Fu proposta una 
      partita di "bouillotte".  Non gioco mai perché non sono abbastanza 
      ricco  da  poter  perdere,  né abbastanza povero per desiderare di 
      vincere... Però ero in casa mia,  e non potevo ricusare,  così fui 
      costretto  a  mettermi al tavolino.  Poco dopo giunse il signor di 
      Montecristo,  si giocò ed  io  vinsi,  oso  appena  confessarvelo, 
      Valentina,   guadagnai   cinquemila   franchi.   Ci   lasciammo  a 
      mezzanotte,  e io non potei contenermi presi un  carrozzino  e  mi 
      feci condurre dal mercante di cavalli. Palpitante suonai, venne ad 
      aprirmi, e dovette prendermi per pazzo: irruppi e corsi dall'altra 
      parte  del cortile appena fu aperta la porta;  entrai in scuderia, 
      guardai alla rastrelliera. Oh, fortuna! Medeah era lì, rosicava il 
      fieno,  prendo una sella,  gliela metto sul dorso,  gli  pongo  le 
      redini;  poi  depositando i quattromila cinquecento franchi fra le 
      mani del mercante stupefatto, ritorno,  o piuttosto passo la notte 
      a passeggiare negli Champs-Elysées.  Ebbene, ho visto un lume alla 
      finestra del conte,  e mi è perfino sembrato di scorgerne  l'ombra 
      dietro la tenda.  Ora,  Valentina, giurerei che il conte ha saputo 
      che  desideravo  questo  cavallo,   e  ha  perduto   per   farmelo 
      comperare." 
      "Mio   caro   Massimiliano"   disse   Valentina,   "siete   troppo 
      fantastico...  Non mi amerete lungamente...  Un uomo così  poetico 
      non può avere costanza in una passione monotona come la nostra. Ma 
      sentite... mi chiamano..." 
      "Oh,  Valentina"  disse Massimiliano,  "il vostro dito più piccolo 
      ch'io possa baciarlo attraverso la fessura!" 
      "Avevamo detto, Massimiliano,  che saremmo stati l'una per l'altro 
      due voci, due ombre!" 
      "Come vi piace, Valentina..." 
      "Sareste felice, se facessi ciò che volete?" 
      "Sì sì." 
      Valentina  salì su una panchina,  e passò,  non il dito attraverso 
      l'apertura, ma la mano al disopra del recinto. 
      Massimiliano mandò un grido, e,  arrampicandosi con un balzo sullo 
      steccato,  afferrò  questa  mano adorata,  e v'impresse le ardenti 
      labbra; ma subito la piccola mano sfuggì dalle sue,  ed il giovane 
      vide fuggire Valentina, forse spaventata dalla sensazione provata. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 57. 
                        IL SIGNOR NOIRTIER VILLEFORT. 
 
 
      Ecco  ciò  che  accadde  nella casa del procuratore del re dopo la 
      partenza della  signora  Danglars  e  di  sua  figlia  durante  la 
      conversazione che abbiamo riferita. 
      Il signor Villefort era entrato nella camera di suo padre, seguito 
      dalla  signora  Villefort;  in  quanto  a  Valentina  noi sappiamo 
      dov'era. 
      Entrambi dopo  aver  salutato  il  vecchio  e  congedato  Barrois, 
      domestico  che  era al loro servizio da venticinque anni,  avevano 
      preso posto ai suoi lati. 
      Il signor Noirtier seduto in una gran  poltrona  a  rotelle,  dove 
      veniva  posto  la mattina e di dove era tolto la sera,  era seduto 
      davanti ad uno specchio che riflettendo tutto  l'appartamento  gli 
      permetteva  di  vedere,  impossibilitato  a muoversi,  chi entrava 
      nella sua camera, chi ne usciva, e tutto ciò che si faceva intorno 
      a lui. Il signor Noirtier, immobile come un cadavere, guardava con 
      occhi intelligenti  e  vivi  i  suoi  figli,  la  cui  cerimoniosa 
      reverenza gli annunciava qualche cosa di spiacevole ed inatteso. 
      La  vista  e  l'udito  erano i due soli sensi,  che come scintille 
      animavano questo corpo umano inerte,  ormai pronto per la tomba: e 
      lo sguardo che denunziava questa vita interna, era paragonabile ad 
      una  di  quelle luci lontane che,  durante la notte,  avvertono il 
      viaggiatore perduto in un  deserto  che  un  essere  umano  veglia 
      ancora in quel silenzio ed in quella oscurità. 
      Così  nell'occhio  nero  del  vecchio  Noirtier  sormontato  da un 
      sopracciglio nero, mentre la capigliatura,  lunga e pendente sulle 
      spalle, era bianca, in quest'occhio, come accade in ciascun organo 
      dell'uomo,  super esercitato a spese degli altri organi,  si erano 
      concentrate tutta la forza, tutta l'intelligenza di questo corpo e 
      di questo spirito. 
      Certamente mancavano il gesto del braccio,  il suono della voce  e 
      l'attitudine del corpo;  ma quell'occhio intenso suppliva a tutto: 
      comandava cogli occhi,  ringraziava cogli occhi;  era un  cadavere 
      cogli  occhi  vivi,  e  niente  poteva  essere  qualche  volta più 
      minaccioso o dolce di questo viso di marmo,  quando  si  accendeva 
      una collera o risplendeva una gioia. 
      Tre  persone soltanto sapevano comprendere il linguaggio di questo 
      povero paralitico: Villefort, Valentina ed il vecchio domestico di 
      cui abbiamo già parlato. Ma siccome Villefort non vedeva suo padre 
      che rare volte, o, per così dire, solo quando non ne poteva fare a 
      meno,  e siccome quando lo  vedeva,  non  cercava  di  compiacerlo 
      comprendendolo,  tutta  la  felicità del vecchio era riposta nella 
      nipote Valentina,  la quale era giunta a forza  di  affezione,  di 
      amore  e di pazienza a comprendere con lo sguardo tutti i pensieri 
      di Noirtier. 
      A questo linguaggio muto o  inintelligibile,  lei  rispondeva  con 
      tutta la sua voce,  tutta la sua fisonomia, tutta la sua anima: di 
      modo che si stabilivano dei dialoghi animati fra questa ragazza  e 
      questa forma di argilla quasi ritornata polvere,  e ancora uomo di 
      immenso sapere,  di  inaudita  penetrazione,  e  di  volontà  così 
      possente  quanto  un'anima racchiusa in un corpo su cui ha perduto 
      il potere e l'obbedienza. 
      Valentina era dunque riuscita a capire il pensiero del vecchio e a 
      fargli comprendere il  suo;  e  era  ben  raro  che  per  le  cose 
      ordinarie della vita,  non indovinasse con precisione il desiderio 
      di quest'anima vivente, o di questo cadavere per metà insensibile. 
      Quanto al domestico,  siccome serviva il  padrone  da  venticinque 
      anni,  conosceva  tanto  bene tutte le abitudini di lui ch'era ben 
      difficile che Noirtier avesse bisogno di domandare  qualche  cosa. 
      Villefort tuttavia non aveva bisogno dei soccorsi né dell'uno,  né 
      dell'altro,  per intavolare con suo padre la strana  conversazione 
      che stava per incominciare. 
      Egli stesso,  dicemmo,  conosceva perfettamente il vocabolario del 
      vecchio,  e se non se ne serviva più spesso,  era per noia  o  per 
      indifferenza.   Dunque  lasciò  scendere  Valentina  in  giardino, 
      allontanò Barrois,  e dopo aver preso posto  alla  destra  di  suo 
      padre, mentre la signora Villefort sedeva alla sinistra: 
      "Signore" disse, "non vi meravigliate che Valentina non sia salita 
      con   noi,   e  che  io  abbia  allontanato  Barrois,   perché  la 
      conversazione che stiamo per avere è una di  quelle  che  non  può 
      essere  fatta,  né  davanti  ad  una  ragazza,  né  davanti  ad un 
      domestico...  La signora Villefort ed io abbiamo una comunicazione 
      da farvi." 
      Il  viso  di  Noirtier restò impassibile durante questo preambolo, 
      mentre l'occhio  di  Villefort  sembrava  scrutare  fino  nel  più 
      profondo il cuore del vecchio. 
      "Questa  comunicazione"  continuò  il procuratore del re,  nel suo 
      solito tono gelido,  che non sembrava ammettere mai contestazioni, 
      "siamo sicuri che vi farà piacere." 
      L'occhio  del  vecchio  continuò  a restare immobile,  ascoltava e 
      niente più. 
      "Signore" riprese Villefort, "noi vogliamo maritare Valentina." 
      Una figura di cera non sarebbe a questa notizia rimasta più fredda 
      del vecchio. 
      "Il matrimonio avrà luogo fra tre mesi" riprese Villefort. 
      La signora Villefort prese a sua volta la parola e si affrettò  ad 
      aggiungere: 
      "Abbiamo pensato che questa notizia vi avrebbe toccato, da vicino, 
      signore,  giacché  Valentina  sembra aver attirato tutta la vostra 
      simpatia... Non ci rimane altro da dirvi,  che il nome del giovane 
      che le viene destinato.  E' uno dei più onorevoli partiti ai quali 
      possa aspirare Valentina:  ricchezze,  un  bel  nome,  e  garanzie 
      sicure  di  felicità  nella  condotta  e nei gusti di colui che le 
      destiniamo,  ed il cui nome non dev'esservi sconosciuto: il signor 
      Franz Quesnel, barone d'Epinay." 
      Villefort  durante  il  piccolo discorso di sua moglie fissava nel 
      vecchio uno sguardo più attento che mai. 
      Allorché la signora Villefort pronunziò il nome di Franz, l'occhio 
      di Noirtier,  che suo figlio conosceva tanto bene,  fremette e  le 
      pupille  dilatandosi  come  fossero state due labbra al momento di 
      dire una parola, lasciarono travedere una calda agitazione. 
      Il procuratore del re che sapeva gli antichi rapporti d'inimicizia 
      politica tra suo padre ed il padre di Franz,  capì questo fuoco  e 
      quest'agitazione,  ma  ciò  nonostante  lo lasciò passare come non 
      veduto, e riprendendo la parola ove sua moglie l'aveva lasciata: 
      "Signore" disse,  "è importante,  lo  capite  bene,  essendo  così 
      vicina a compiere i diciannove anni,  che Valentina sia finalmente 
      stabilita. Tuttavia non vi abbiamo dimenticato nelle trattative, e 
      ci hanno assicurato che il marito  di  Valentina  accetterebbe  di 
      vivere  se  non con noi,  la qual cosa incomoderebbe forse le loro 
      private faccende,  almeno con voi,  che  siete  il  prediletto  di 
      Valentina,  e  che per vostra parte sembrate portarle un'affezione 
      uguale.  Non perderete alcuna delle vostre abitudini,  ed  avreste 
      soltanto due figli che vi sorveglieranno invece di uno solo." 
      Il   lampo   dello   sguardo  di  Noirtier  divenne  sanguigno.... 
      Certamente passava qualche cosa di spaventoso nell'animo di questo 
      vecchio;  certamente il grido  del  dolore  o  della  collera  gli 
      salivano alla gola, e non potendo scoppiare lo soffocavano, perché 
      il viso divenne color di porpora e le labbra livide. 
      Villefort aprì tranquillamente una finestra dicendo: 
      "Fa troppo caldo qui, e questo calore fa male al signor Noirtier." 
      Poi ritornò, ma senza sedersi. 
      "Questo  matrimonio"  soggiunse  la  signora Villefort,  "piace al 
      signor d'Epinay ed alla sua famiglia,  la quale d'altra parte  non 
      si  compone che di uno zio e di una zia.  Sua madre morì nel darlo 
      alla luce,  suo padre morì assassinato nel 1815,  cioè  quando  il 
      figlio   aveva   due  anni  appena...   Franz  d'Epinay  dunque  è 
      indipendente." 
      "Assassinio misterioso" disse Villefort,  "di cui gli autori  sono 
      rimasti sconosciuti,  quantunque il sospetto si fosse sparso,  pur 
      senza soffermarsi sulla testa di precise persone." 
      Noirtier fece un tale sforzo che le labbra si contrassero come per 
      sorridere. 
      "Ora" continuò Villefort,  "i veri colpevoli,  quelli che sanno di 
      aver  commesso  il  delitto,  quelli  sui  quali può discendere la 
      giustizia degli uomini durante la loro vita, e la giustizia di Dio 
      dopo la loro morte, sarebbero ben felici di essere al nostro posto 
      e di avere una figlia da offrire  al  signor  Franz  d'Epinay  per 
      spegnere fino all'apparenza questo sospetto." 
      Noirtier  si  era  placato  con uno di quegli sforzi che non ci si 
      sarebbe aspettati da un uomo in quelle condizioni. 
      "Sì, comprendo" rispose egli con uno sguardo a Villefort, e questo 
      sguardo  esprimeva  anche  lo  sdegno  profondo   e   la   collera 
      intelligente. 
      Villefort  rispose  a  questo  sguardo,   nel  quale  aveva  letto 
      perfettamente, con una leggera stretta di spalle. 
      Quindi fece segno a sua moglie di alzarsi. 
      "Ora,  signore" disse la signora  Villefort,  "gradite  il  nostro 
      rispetto.  Permettete  che  Edoardo  venga  a  presentarvi  i suoi 
      ossequi?" 
      Era  convenuto  che  il  vecchio  esprimeva  la  sua  approvazione 
      chiudendo  gli  occhi,  ed  il  suo  rifiuto  socchiudendoli a più 
      riprese,  e quando li alzava al cielo era segno che aveva  qualche 
      desiderio  da  esprimere.  Quando  chiedeva  di  Valentina serrava 
      l'occhio  destro;   se  domandava  di  Barrois  chiudeva  l'occhio 
      sinistro. 
      Alla  proposta  della  signora Villefort socchiuse vivamente a più 
      riprese gli occhi. 
      Questa riconoscendo l'evidente rifiuto si morse le labbra. 
      "Vi manderò dunque Valentina" disse allora. 
      "Sì" fece il vecchio chiudendo gli occhi. 
      I signori Villefort salutarono il vecchio  ed  uscirono  ordinando 
      che  si  chiamasse  Valentina,  già  avvertita  che  avrebbe avuto 
      qualche cosa da fare nella giornata presso il signor Noirtier. 
      Quando uscirono, entrava Valentina ancor tutta rosa per l'emozione 
      provata. 
      Non le fu bisogno che uno sguardo  per  capire  come  soffriva  il 
      nonno e quante cose avrebbero dovuto dirsi. 
      "Oh caro nonno!" gridò.  "Che cosa ti è dunque accaduto?  Ti hanno 
      afflitto, non è vero? Tu sei in collera." 
      "Sì" fece egli chiudendo gli occhi. 
      "Contro chi dunque? Contro mio padre?... No... Contro di me?" 
      Il vecchio fece segno di sì. 
      "Contro di me?" riprese Valentina meravigliata. 
      Il vecchio rinnovò il segno affermativo. 
      "E che cosa  ti  ho  dunque  fatto,  caro  e  buon  nonno?"  gridò 
      Valentina. 
      Non ci fu alcuna risposta e lei continuò: 
      "Io  non  ti  ho  visto nella giornata,  ti hanno dunque riportato 
      qualche cosa sul conto mio?" 
      "Sì" disse lo sguardo del vecchio con vivacità. 
      "Vediamo dunque...  Mio Dio!  Ti giuro,  buon nonno...  Ah!...  Il 
      signore e la signora Villefort escono di qui, non è vero?" 
      "Ed essi ti hanno detto queste cose che ti dispiacciono?  Vuoi che 
      io vada a domandarle a loro,  per avere il mezzo di  scusarmi  con 
      te?" 
      "No, no" fece lo sguardo. 
      "Ma  tu  mi  spaventi!  Che  ti  hanno  potuto  dire,  mio Dio?" e 
      pensando: "Oh,  l'ho indovinato!" disse,  abbassando  la  voce  ed 
      avvicinandosi   al  vecchio:  "Ti  hanno  forse  parlato  del  mio 
      matrimonio?". 
      "Sì" replicò lo sguardo corrucciato. 
      "Capisco, tu ce l'hai con me per il mio silenzio... Oh,  vedi,  fu 
      perché mi avevano raccomandato di non dirti niente,  perché nulla, 
      ufficialmente,  mi avevano detto,  e soltanto avevo  strappato  di 
      soppiatto  qualche  allusione...   Ecco  perché  sono  stata  così 
      riservata con te. Perdonami, caro nonno!" 
      Ritornato fisso ed immobile, lo sguardo sembrava rispondere: 
      "Non è soltanto il tuo silenzio che mi affligge." 
      "Che cosa è dunque?" domandò la ragazza. "Credi forse che io possa 
      abbandonarti,  caro nonno,  e  che  il  mio  matrimonio  mi  renda 
      smemorata?" 
      "No" disse il vecchio. 
      "Allora  ti  hanno  detto  che il signor d'Epinay acconsentiva che 
      dimorassimo insieme." 
      "Sì." 
      "Allora perché sei in collera?" 
      Gli  occhi  del  vecchio  assunsero  un'espressione  di   infinita 
      dolcezza. 
      "Sì, capisco" disse Valentina, "perché mi ami." 
      Il vecchio fece segno di sì. 
      "E tu temi ch'io sia disgraziata?" 
      "Sì." 
      "Tu non ami il signor Franz." 
      Gli occhi ripeterono tre o quattro volte: 
      "No, no, no." 
      "Ma sei molto afflitto,  non è vero,  caro nonno?  Ebbene ascolta" 
      disse Valentina,  mettendosi in ginocchio  davanti  a  Noirtier  e 
      passandogli  le  braccia  intorno  al  collo,  "io pure sono molto 
      afflitta, poiché io pure non amo il signor Franz d'Epinay." 
      Un baleno di gioia passò negli occhi del nonno. 
      "Quando volli ritirarmi in convento,  ti ricordi di  essere  stato 
      tanto in collera?" 
      Una lacrima inumidì le aride palpebre del vecchio. 
      "Ebbene"  continuò  Valentina,  "lo  facevo  per  sfuggire  questo 
      matrimonio, che è la mia disperazione." 
      Il respiro di Noirtier divenne anelante. 
      "Allora questo matrimonio ti fa gran dispiacere,  buon nonno?  Oh, 
      mio Dio,  se tu potessi aiutarmi,  se noi due potessimo rompere il 
      loro disegno!  Ma sei senza forze contro di essi!  Tu che hai  uno 
      spirito così vivo,  e una volontà così ferma,  quando si tratta di 
      lottare sei tanto debole, ed anzi più debole di me.  Saresti stato 
      per  me  un protettore possente nei giorni della tua forza e della 
      tua salute,  ma ora non puoi fare altro che capirmi e rallegrarti, 
      o  affliggerti  con  me...  Questa è l'ultima fortuna che Iddio ha 
      voluto lasciarmi insieme con le altre." 
      A queste parole vi fu negli occhi di Noirtier una tale espressione 
      di malizia e di  profondità,  che  la  ragazza  credette  leggervi 
      queste parole: 
      "T'inganni, posso ancor molto per te." 
      "Puoi qualche cosa per me, caro e buon nonno?" tradusse Valentina. 
      "Sì." 
      Noirtier alzò gli occhi al cielo. 
      Questo era il segnale convenuto fra lui e Valentina,  quando aveva 
      bisogno di qualche cosa. 
      "Che vuoi, caro nonno? Vediamo..." 
      Valentina cercò un momento cosa potesse volere il nonno:  espresse 
      ad alta voce i suoi pensieri appena si presentavano, e vedendo che 
      a  tutto ciò che poteva dire,  il vecchio rispondeva costantemente 
      di no: 
      "Andiamo" disse,  "ricorriamo ad altri mezzi,  giacché  sono  così 
      stupida." 
      Allora  recitò  una  dopo  l'altra tutte le lettere dell'alfabeto, 
      dall'a fino alla enne, mentre interrogava l'occhio del paralitico. 
      Alla lettera enne, Noirtier fece segno di sì. 
      "Ah!" disse  Valentina.  "La  cosa  che  desideri  comincia  dalla 
      lettera  enne...  Ebbene,  vediamo ciò che si deve aggiungere alla 
      lettera enne. Na, ne, ni, no..." 
      "Sì, si, sì" fece il vecchio. 
      "Ah, è no" 
      "Sì". 
      Valentina andò a  cercare  un  dizionario,  che  poso  sul  leggio 
      davanti  a  Noirtier,  lo aprì,  e quando ebbe visti gli occhi del 
      vecchio fissarsi sui fogli,  il suo  dito  scorse  rapidamente  le 
      colonne dall'alto al basso. 
      L'esercizio  (da  sei anni Noirtier era caduto nel triste stato in 
      cui si trovava) aveva rese le prove così facili, che indovinava il 
      pensiero del vecchio,  come se lui stesso avesse potuto leggere  a 
      voce alta in un dizionario. 
      Alla parola notaio Noirtier fece segno di fermarsi. 
      "Notaio" disse lei. "Vuoi un notaio, caro nonno?" 
      Il vecchio fece segno che desiderava effettivamente un notaio. 
      "Bisogna dunque mandare a cercare un notaio?" domandò Valentina. 
      "Sì" fece il paralitico. 
      "Mio padre deve saperlo?" 
      "Sì." 
      "Hai fretta di avere questo notaio?" 
      "Sì." 
      "Allora vado a fartelo cercare sul momento,  caro nonno.  E' forse 
      questo ciò che vuoi?" 
      "Sì." 
      Valentina corse al campanello e chiamò un domestico per far venire 
      il signor Villefort in camera del nonno. 
      "Sei tu contento?" disse Valentina. 
      "Sì." 
      "Lo credo bene! Non è molto facile capirsi così bene." 
      E la ragazza sorrise al vecchio come avrebbe fatto ad un bambino. 
      Il signor Villefort rientrò condotto da Barrois. 
      "Che volete, signore?" domandò al paralitico. 
      "Mio nonno" fece Valentina, "domanda un notaio." 
      A  quella  strana,  e  soprattutto  inattesa  domanda,  il  signor 
      Villefort scambiò uno sguardo col paralitico. 
      "Sì"   fece  quest'ultimo  con  una  fermezza  che  indicava  che, 
      coll'aiuto di Valentina e  del  servitore,  che  già  sapeva,  era 
      pronto a sostenere la lotta. 
      "Voi domandate il notaio?" ripeté Villefort. 
      "Sì." 
      "Per che farne?" 
      Noirtier non rispondeva. 
      "Ma perché avete bisogno del notaio?" domandò Villefort. 
      "Ma  insomma"  disse  Barrois,  pronto  ad  insistere  con  quella 
      pazienza abituale ai vecchi domestici,  "se il  signore  vuole  un 
      notaio, è perché ne ha bisogno. Così lo vado a cercar subito." 
      Barrois non conosceva altro padrone che Noirtier,  e non ammetteva 
      che la sua volontà fosse contestata. 
      "Sì,  voglio un notaio" fece il vecchio chiudendo  gli  occhi  con 
      un'aria  di  sfida  e come se avesse detto: "Vediamo un poco se ci 
      sarà qualcuno che osi opporsi a ciò che voglio". 
      "Ci sarà un notaio, poiché lo volete assolutamente, signore...  Ma 
      mi  scuserò  con lui,  e scuserò voi stesso,  perché la scena sarà 
      molto ridicola." 
      "Non importa" disse Barrois, "vado subito a cercarlo." 
      E il vecchio uscì trionfante. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 58. 
                                IL TESTAMENTO. 
 
 
      Al  momento  che  Barrois  uscì,  Noirtier  guardò  Valentina  con 
      quell'interesse malizioso, che rivela ad un tempo tante cose. 
      La ragazza capì quello sguardo,  e lo capì anche Villefort, perché 
      oscurò la fronte ed aggrottò il ciglio. 
      Prese una sedia e si  sedette  nella  camera  del  paralitico  per 
      aspettare. 
      Noirtier  lo  guardava  con  la  più  perfetta  indifferenza,   ma 
      coll'angolo dell'occhio aveva già  ordinato  a  Valentina  di  non 
      inquietarsi e di restare lei pure. 
      Tre quarti d'ora dopo rientrò il domestico col notaio. 
      "Signore"  disse  Villefort dopo i primi saluti,  "voi siete stato 
      chiamato dal signor  Noirtier  Villefort  che  qui  vedete...  Una 
      paralisi  generale  gli ha tolto l'uso degli arti e della voce,  e 
      noi soltanto, ed a grande stento, giungiamo a capire qualche brano 
      dei suoi pensieri." 
      Noirtier fece coll'occhio un richiamo a Valentina,  richiamo  così 
      serio ed imperativo che lei intervenne sul momento: 
      "Io, signore, capisco tutto ciò che vuol dire mio nonno." 
      "E'  vero" soggiunse Barrois,  "tutto,  assolutamente tutto,  come 
      dicevo al signore venendo qua." 
      "Permettete,  signore,  e voi  pure  signorina"  disse  il  notaio 
      rivolgendosi a Villefort e a Valentina, "questo è uno di quei casi 
      in  cui  il pubblico ufficiale non può procedere sconsideratamente 
      senza assumersi una responsabilità pericolosa. La prima necessità, 
      perché l'atto sia valevole,  è che il notaio sia ben convinto  che 
      sia fedelmente interpretata la volontà di quello che l'ha dettata. 
      Ora   io   non  posso  essere  sicuro  dell'approvazione  o  della 
      disapprovazione di un cliente che non parla,  e siccome  l'oggetto 
      dei  suoi desideri e delle sue contrarietà non può essermi provato 
      chiaramente per il  suo  mutismo,  il  mio  ministero,  oltre  che 
      inutile, sarebbe esercitato illegalmente." 
      Il  notaio fece un passo per ritirarsi.  Un impercettibile sorriso 
      di trionfo si disegnò sulle labbra del procuratore del re. 
      Noirtier guardò Valentina con tale espressione di dolore  che  lei 
      si pose davanti al notaio. 
      "Signore" disse,  "il linguaggio,  ch'io parlo con mio nonno, è un 
      linguaggio che si può imparare facilmente, e come lo comprendo io, 
      sono in grado di poterlo in pochi minuti far  comprendere  a  voi. 
      Che vi abbisogna per soddisfare la piena legalità professionale?" 
      "E' necessaria,  affinché i nostri atti siano valevoli" rispose il 
      notaio,  "la certezza dell'approvazione.  Si  può  far  testamento 
      malato di corpo, ma bisogna sempre farlo sano di mente." 
      "Ebbene,  signore,  con due cenni voi acquisterete la certezza che 
      mio nonno ha sempre goduto fin qui la pienezza delle  sue  facoltà 
      intellettuali.  Il signor Noirtier privato della voce, privato dei 
      movimenti,  chiude gli occhi quando vuol dire di sì,  e  batte  le 
      palpebre  a più riprese quando vuol dire di no.  Voi ora ne sapete 
      abbastanza per parlare col signor Noirtier, provate..." 
      Lo sguardo che il vecchio lanciò a Valentina  era  così  pieno  di 
      tenerezza e di riconoscenza che fu capito dallo stesso notaio. 
      "Voi  avete  inteso  e  compreso  ciò  che ha detto vostra nipote, 
      signore?" domandò il notaio. 
      Noirtier chiuse dolcemente gli occhi e dopo un momento li riaprì. 
      "Ed approvate ciò che ha detto,  cioè che i cenni da lei  indicati 
      sono  quelli  per  mezzo  dei  quali  fate  comprendere  i  vostri 
      pensieri?" 
      "Sì" fece ancora il vecchio. 
      "Siete voi che mi avete fatto chiamare?" 
      "Sì." 
      "Per fare il vostro testamento?" 
      "Sì." 
      "E non volete che mi ritiri senza averlo fatto?" 
      Il paralitico batté fortemente  le  palpebre  degli  occhi  a  più 
      riprese. 
      "Ebbene, signore, lo capite ora?" domandò la ragazza. "E la vostra 
      coscienza potrà stare tranquilla?" 
      Ma  prima  che  il  notaio  avesse  potuto  rispondere,  il signor 
      Villefort lo tirò in disparte. 
      "Signore,  è possibile che un uomo possa impunemente sopportare un 
      colpo  così  terribile  quanto  quello  che  ha  provato il signor 
      Noirtier Villefort,  senza che il morale non  abbia  gravemente  a 
      risentirsene?" 
      "Non è precisamente ciò che m'inquieta,  ma mi chiedo in qual modo 
      giungeremo ad indovinare i pensieri e le risposte." 
      "Non vedete dunque ch'è impossibile?" disse Villefort. 
      Valentina ed il vecchio intesero questo dialogo. 
      Noirtier fermò il suo sguardo  così  fiero,  e  così  risoluto  su 
      Valentina, che questo sguardo esigeva evidentemente un intervento. 
      "Signore" disse lei,  "non v'inquietate per questo: per quanto sia 
      difficile, o piuttosto per quanto vi sembri difficile, scoprire il 
      pensiero di mio nonno,  ve lo rivelerò in modo da  togliervi  ogni 
      dubbio su questo argomento. Sono già sei anni ch'io sono presso il 
      signor Noirtier;  vi dica egli stesso, se in sei anni uno solo dei 
      suoi pensieri è rimasto sepolto nel suo  cuore  per  non  avermelo 
      potuto far comprendere." 
      "No fece il vecchio. 
      "Proviamo dunque" disse il notaio. "Accettate voi la signorina per 
      vostra interprete?" 
      Il paralitico fece segno di sì. 
      "Bene,  vediamo...  Signore,  che desiderate da me, e quale atto è 
      quello che volete che io faccia?" 
      Valentina  articolò  tutte  le  lettere  dell'alfabeto  fino  alla 
      lettera  ti.  A  questa  lettera l'eloquente occhio di Noirtier la 
      fermò. 
      "E' la lettera ti che il signore domanda, la cosa è chiara." 
      "Aspettate" disse Valentina,  poi voltandosi a suo  nonno:  "ta... 
      te...". 
      Il vecchio la fermò alla seconda di queste sillabe. 
      Allora   Valentina   prese   il   dizionario  e  sotto  gli  occhi 
      dell'attento notaio sfogliò le pagine. 
      "Testamento" sillabò,  il  dito  fermato  dal  colpo  d'occhio  di 
      Noirtier. 
      "Testamento" gridò il notaio. "La cosa è evidente, il signore vuol 
      fare testamento." 
      "Sì" fece Noirtier a più riprese. 
      "Ciò può dirsi veramente meraviglioso,  signore" disse il notaio a 
      Villefort stupefatto, "convenitene." 
      "Infatti"  replicò  egli,   "questo  testamento  sarà  ancora  più 
      meraviglioso;  poiché  gli  articoli  non  si potranno trascrivere 
      parola per parola senza l'intelligente ispirazione di mia  figlia. 
      Ora  Valentina  non  sarà  forse parte troppo interessata a questo 
      testamento,  per essere interprete oggettiva delle oscure  volontà 
      del signor Noirtier Villefort?" 
      "No, no, no" fece il paralitico. 
      "Come"  disse  il  signor  Villefort,  "Valentina  non è erede nel 
      vostro testamento?" 
      "No" fece Noirtier. 
      "Signore"  disse  il  notaio   convinto   di   questa   prova,   e 
      ripromettendosi  di  raccontare  in  società i particolari di quel 
      singolare episodio,  "signore,  nulla mi sembra più facile di quel 
      che  poco  fa  mi  sembrava  impossibile;  questo  testamento sarà 
      semplicemente un  testamento  mistico,  vale  a  dire  previsto  e 
      permesso  dalla  legge,   purché  letto  alla  presenza  di  sette 
      testimoni,  approvato dal testatore avanti ad essi,  e chiuso  dal 
      notaio sempre alla loro presenza.  In quanto al tempo, durerà poco 
      più  degli  ordinari  testamenti.  Dapprima  vi  sono  le  formule 
      consuete,  sempre  le  stesse...  In quanto ai particolari saranno 
      definiti dall'entità e qualità degli affari del  testatore,  e  da 
      voi,  che  avendoli  amministrati  li conoscerete.  D'altra parte, 
      perché quest'atto non possa essere contestato,  gli daremo la  più 
      compiuta autenticità: uno dei miei colleghi mi servirà d'aiutante, 
      e  contro  l'uso  assisterà  alla  dettatura.  Siete  soddisfatto, 
      signore?" terminò il notaio, volgendosi al vecchio. 
      "Sì" rispose Noirtier contento di essere capito. 
      "E che farà?" chiedeva a se stesso Villefort, cui l'alta posizione 
      imponeva discrezione, e che d'altra parte si sforzava di capire le 
      intenzioni di suo padre. 
      Si volse dunque per  mandare  a  cercare  il  secondo  notaio,  ma 
      Barrois  che  aveva  tutto  inteso,  e indovinato il desiderio del 
      padrone, era già partito. 
      Allora il procuratore del re fece dire a sua moglie di salire.  In 
      capo ad un quarto d'ora tutta la famiglia era riunita nella camera 
      del paralitico ed il secondo notaio era giunto.  In poche parole i 
      due ufficiali giudiziari si ritrovarono d'accordo. 
      Fu letta a Noirtier una formula di testamento vaga, insignificante 
      quindi, per indagare sulle sue facoltà, il primo notaio gli disse: 
      "Quando si fa testamento,  signore,  è in favore di qualcuno,  o a 
      pregiudizio di qualche altro." 
      "Sì" fece Noirtier. 
      "Avete qualche idea sull'entità dei vostri beni?" 
      "Sì." 
      "Vi  nominerò  alcune  cifre  che  saliranno progressivamente,  mi 
      fermerete quando sarò giunto a quella che credete possa essere  il 
      vostro ammontare." 
      "Sì." 
      In  questa procedura c'era una specie di solennità;  d'altra parte 
      la lotta dell'intelligenza contro la malattia  non  poteva  essere 
      più visibile,  e se questo non era uno spettacolo sublime,  per lo 
      meno era curioso. Fu fatto cerchio intorno a Noirtier,  il secondo 
      notaio  seduto ad un tavolo pronto a scrivere,  il primo notaio in 
      piedi davanti a Noirtier per interrogarlo. 
      "Il vostro patrimonio sorpassa i trecento mila franchi?" domandò. 
      Noirtier fece segno di sì. 
      "Possedete quattrocento mila franchi?" domandò il notaio. 
      Noirtier restò immobile. 
      "Cinquecento mila?" 
      La stessa immobilità. 
      "Seicento  mila?...   settecento   mila?...   ottocento   mila?... 
      novecento mila?" 
      Noirtier fece segno di sì. 
      "Dunque possedete novecentomila franchi?" 
      "Sì." 
      "In immobili?" domandò il notaio. 
      Noirtier fece segno di no. 
      "In cartelle di rendita?" 
      Noirtier fece segno di sì. 
      "Queste cartelle sono nelle vostre mani?" 
      Uno  sguardo  diretto  a Barrois fece uscire il vecchio servitore, 
      che ritornò un momento dopo con una piccola cassetta. 
      "Permettete che si apra la cassetta?" domandò il notaio. 
      Noirtier fece segno di sì. 
      Fu aperta la cassetta e si trovarono le cartelle per un  ammontare 
      di novecentomila franchi. 
      Il  primo  notaio  passò una dopo l'altra ciascuna cartella al suo 
      collega: la somma era quella anticipata da Noirtier. 
      "In realtà è così" disse il notaio.  "E ciò dimostra evidentemente 
      che la sua intelligenza è vivida e lucida." 
      Quindi volgendosi al paralitico: 
      "Dunque,  possedete novecentomila franchi di capitale che nel modo 
      con cui sono investiti devono produrvi circa quarantamila lire  di 
      rendita?" 
      "Sì' fece Noirtier. 
      "A chi desiderate lasciare questa fortuna?" 
      "Oh" disse la signora Villefort,  "su ciò non c'è dubbio il signor 
      Noirtier  ama  unicamente  sua  nipote,   la  signorina  Valentina 
      Villefort:  lei ne ha avuta tutta la cura per sei anni;  colla sua 
      assiduità ha saputo procurarsi l'affezione  di  suo  nonno,  direi 
      quasi  la  sua  riconoscenza...  E'  dunque giusto che raccolga il 
      premio della sua affezione." 
      L'occhio di Noirtier sfavillò come baleno,  per far capire che non 
      si  lasciava  facilmente  ingannare  dal  falso assenso dato dalla 
      signora Villefort alle intenzioni che in lui supponeva. 
      "E'  dunque  alla  signorina  Valentina  Villefort  che   lasciate 
      novecentomila  lire?"  domandò il notaio,  che credeva di non aver 
      più altro da fare che registrare  questa  clausola,  ma  che  però 
      voleva   essere  ben  sicuro  dell'assenso  di  Noirtier,   e  far 
      constatare  questo  assenso  a  tutti  i   testimoni   di   questa 
      straordinaria scena. 
      Valentina aveva fatto un passo indietro e piangeva ad occhi bassi. 
      Il  vecchio  la  guardò  un  momento  coll'espressione  della  più 
      profonda tenerezza,  poi voltandosi verso il notaio socchiuse  gli 
      occhi nel modo più significativo. 
      "No?"  disse  il  notaio.   "Come,  non  costituite  vostra  erede 
      universale la signorina Villefort?" 
      Noirtier fece segno di no. 
      "Non  vi  sbagliate?"  gridò   il   notaio   meravigliato.   "Dite 
      effettivamente di no?" 
      "No ripeté Noirtier. No! 
      Valentina  rialzò  la  testa:  era  stupefatta,   non  dell'essere 
      diseredata,  ma di aver eccitato quel sentimento  che  d'ordinario 
      detta simili atti. 
      Ma  Noirtier  la  guardava  con  una espressione di tenerezza così 
      profonda che lei gridò: 
      "Oh nonno caro,  non mi togliete che le vostre  ricchezze,  ma  mi 
      lasciate sempre il cuore?" 
      "Oh,  sì,  sì,  certamente"  dissero  gli  occhi  del  paralitico, 
      chiudendosi in una espressione senza equivoci. 
      "Grazie, grazie" mormorò la ragazza. 
      Questo  rifiuto  aveva  fatto  nascere  nel  cuore  della  signora 
      Villefort una inattesa speranza: e si avvicinò al vecchio. 
      "Allora  dunque  a  vostro  nipote  Edoardo  Villefort lasciate la 
      vostra fortuna, caro signor Noirtier?" domandò la madre. 
      Gli occhi di Noirtier si chiusero in un modo che  esprimeva  quasi 
      l'odio. 
      "No" disse il notaio. "Allora sarà a vostro figlio qui presente." 
      "No" replicò il vecchio. 
      I  due  notai  si  guardarono  stupefatti;  Villefort e sua moglie 
      arrossirono, l'uno per l'onta, l'altra per il dispetto. 
      "Ma che vi abbiamo dunque fatto,  nonno?"  disse  Valentina.  "Voi 
      dunque non ci amate più?" 
      Lo sguardo del vecchio passò rapidamente sul figlio,  sulla nuora, 
      e si fermò su Valentina con una espressione di profonda tenerezza. 
      "Ebbene" disse lei,  "se tu mi ami,  nonno mio,  cerca di dedicare 
      questo  amore  a  ciò  che  stai facendo in questo momento.  Tu mi 
      conosci,  sai che non ho mai pensato alle tue  ricchezze;  d'altra 
      parte  dicono  che io sia ricca da parte di mia madre,  fors'anche 
      troppo ricca... Spiegati dunque..." 
      Noirtier fissò l'ardente sguardo sulla mano di Valentina. 
      "La mia mano?" 
      "Sì" fece Noirtier. 
      "La sua mano" ripeterono tutti gli astanti. 
      "Ah, signori, vedete bene che tutto è inutile, e che il mio povero 
      padre è pazzo" disse Villefort. 
      "Oh!"  gridò  d'improvviso  Valentina.   "Ora  capisco,   il   mio 
      matrimonio, nonno non è vero?" 
      "Sì,  sì, sì" ripeté tre volte il paralitico con lampi negli occhi 
      ogni volta che li riapriva. 
      "Tu sei in collera per il mio matrimonio, non è vero?" 
      "Sì." 
      "Ma ciò è assurdo" disse Villefort. 
      "Mi scusi, signore" disse il notaio, "tutto ciò,  al contrario,  è 
      molto ragionevole,  e mi sembra si colleghi perfettamente a quanto 
      si sta facendo." 
      "Tu non vuoi che io sposi il signor Franz d'Epinay." 
      "No, non voglio" espresse l'occhio del vecchio. 
      "E diseredate vostra  nipote"  disse  il  notaio,  "perché  fa  un 
      matrimonio che non vi va a genio?" 
      "Sì" rispose Noirtier. 
      "Di modo che, senza questo matrimonio, sarebbe vostra erede?" 
      "Sì." 
      Un  profondo  silenzio  colse  allora  quelli  che circondavano il 
      vecchio.  I due notai  si  consultavano,  Valentina  con  le  mani 
      incrociate   guardava  suo  nonno  con  un  sorriso  riconoscente; 
      Villefort si mordeva le sottili labbra;  la signora Villefort  non 
      poteva  reprimere  un sentimento di gioia,  che suo malgrado le si 
      spandeva sul viso. 
      "Ma"  disse  finalmente  Villefort  rompendo  per   primo   questo 
      silenzio,  "mi  sembra che io sia il solo in grado di giudicare la 
      convenienza di questa unione, il solo che ha la potestà della mano 
      di mia figlia...  Voglio che sposi il signor Franz d'Epinay,  e lo 
      sposerà." 
      Valentina cadde piangendo sopra una sedia. 
      "Signore" disse il notaio indirizzandosi al vecchio,  "che contate 
      di fare dei vostri capitali nel caso che  la  signorina  Valentina 
      sposi il signor Franz?" 
      Il vecchio rimase immobile. 
      "Ciò non pertanto volete disporne?" 
      "Sì" fece Noirtier. 
      "In favore di qualcuno della vostra famiglia?" 
      "No." 
      "In favore dei poveri allora?" 
      "Sì." 
      "Ma"  disse il notaio,  "sapete che la legge si oppone che vengano 
      interamente spogliati i vostri figli?" 
      "Dunque non disponete che della parte che la legge vi autorizza  a 
      disporre." 
      Noirtier restò immobile. 
      "Continuate a voler disporre di tutto?" 
      "Sì." 
      "Ma dopo la vostra morte verrà contestato il vostro testamento." 
      "No." 
      "Mio  padre  mi  conosce" disse Villefort,  "sa che la sua volontà 
      sarà sacra per me; d'altra parte comprende che nella mia posizione 
      non posso far causa contro i poveri." 
      L'occhio di Noirtier espresse il trionfo. 
      "Che risolvete, signore?" domandò il notaio a Villefort. 
      "Niente: questa è una risoluzione presa da mio padre, ed io so che 
      mio padre non cambia le sue decisioni. Dunque mi rassegno.  Questi 
      novecentomila  franchi usciranno dalla famiglia per arricchire gli 
      ospedali; ma non cederò al capriccio del vecchio,  e mi comporterò 
      secondo la mia coscienza." 
      E  Villefort  si ritirò colla moglie lasciando suo padre libero di 
      testare come più gli piaceva. 
      Nello stesso giorno fu  fatto  il  testamento,  furono  trovati  i 
      testimoni,  fu approvato dal vecchio,  chiuso alla loro presenza e 
      deposto presso Deschamps, notaio della famiglia. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 59. 
                                IL TELEGRAFO. 
 
 
      I coniugi Villefort rientrando nel loro appartamento  seppero  che 
      il  conte  di  Montecristo,  venuto  a far loro visita,  era stato 
      introdotto nel salotto ove li aspettava. 
      La signora Villefort, troppo innervosita per presentarsi subito al 
      conte passò per la sua camera da letto, mentre il procuratore, più 
      padrone dei suoi nervi,  si avanzò direttamente verso il  salotto. 
      Ma per quanto sapesse dominare le sue sensazioni,  e ricomporre il 
      viso Villefort non poté allontanare tanto bene la nube  dalla  sua 
      fronte,  che  il  conte,  il  cui sorriso brillava raggiante,  non 
      notasse quell'aria tetra e pensierosa. 
      "Oh,  mio Dio" disse Montecristo dopo i  primi  complimenti,  "che 
      avete dunque, signor Villefort? Sono forse giunto in un momento in 
      cui stavate sostenendo qualche accusa troppo difficile?" 
      Villefort tentò di ridere. 
      "No,  signor conte" disse, "qui non c'è altra vittima fuor che me, 
      sono io che perdo la causa; ed il caso,  l'ostinazione,  la pazzia 
      hanno vibrata la sentenza." 
      "Che   intendete  dire?"  domandò  Montecristo  con  un  interesse 
      benissimo  dissimulato.   "Vi  è  forse  accaduta  qualche   grave 
      disgrazia?" 
      "Ah, signor conte" disse Villefort con una calma piena d'amarezza, 
      "non vale neppure la pena di parlarne; è un nonnulla, una semplice 
      perdita di denaro." 
      "Difatti" rispose Montecristo,  "una perdita di denaro è poca cosa 
      per chi gode una  fortuna  come  la  vostra,  e  per  uno  spirito 
      filosofico ed elevato come il vostro." 
      "Per  cui"  rispose  Villefort,  "non  è la perdita del denaro che 
      m'inquieta, quantunque novecentomila franchi possono ben valere un 
      dispiacere, ma mi risento particolarmente di questa disdetta della 
      sorte, del caso,  della fatalità,  non so come nominare la potenza 
      che mi perseguita,  che rovescia le mie speranze e distrugge quasi 
      l'avvenire di mia figlia,  per il capriccio di un vecchio  tornato 
      bambino." 
      "Eh,   mio   Dio,   ma   che  cosa  è  dunque?"  gridò  il  conte. 
      "Novecentomila franchi avete detto?  Questa somma merita che se ne 
      affligga anche un filosofo... E chi vi procura questo dispiacere?" 
      "Mio padre, di cui vi ho parlato." 
      "Il  signor Noirtier?  Davvero?  Non mi diceste che era colpito da 
      paralisi e che tutte le facoltà erano annientate?" 
      "Sì,  le sue facoltà  fisiche,  perché  non  può  né  muoversi  né 
      parlare;  tuttavia pensa,  vuole, opera come vedete. L'ho lasciato 
      da cinque minuti ed in questo momento  è  occupato  a  dettare  un 
      testamento a due notai." 
      "Ma allora dunque ha parlato?" 
      "Fa di più, si fa capire." 
      "E in che modo?" 
      "Per mezzo dello sguardo;  i suoi occhi hanno continuato a vivere, 
      e come vedete uccidono." 
      "Amico mio" disse  la  signora  Villefort,  che  entrava  in  quel 
      momento, "forse voi esagerate la vostra situazione." 
      "Signora..." disse il conte inchinandosi. 
      La signora Villefort lo salutò col più grazioso sorriso. 
      "Ma  che  cosa  dunque  mi  racconta il signor Villefort?" domandò 
      Montecristo, "e quale disgrazia incomprensibile?" 
      "Incomprensibile,  questa per l'appunto è la vera parola"  riprese 
      il  procuratore  del  re,  alzando  le  spalle,  "un  capriccio da 
      vecchio." 
      "E non vi è modo di farlo retrocedere dalla sua risoluzione?" 
      "Vi sarebbe" disse la signora Villefort,  "e dipende anzi  da  mio 
      marito,  che questo testamento, invece di essere fatto in danno di 
      Valentina, sia fatto in favore di lei." 
      Il conte, accorgendosi che i due sposi cominciavano a parlarsi per 
      allusioni, assunse l'apparenza dell'uomo distratto, e guardò colla 
      più profonda attenzione e colla più manifesta approvazione Edoardo 
      che versava dell'inchiostro nei beveratoi degli uccelli. 
      "Mia cara" disse Villefort, rispondendo a sua moglie,  "sapete che 
      amo poco il tono patriarcale in casa mia, e che non ho mai creduto 
      che  i  destini  dell'universo dipendessero da un mio movimento di 
      capo.   Tuttavia  è  necessario  che  le  mie  decisioni   vengano 
      rispettate  in  casa  mia,  e  che  la  follia  di un vecchio e il 
      capriccio di una ragazzina non rovescino un progetto stabilito  da 
      molti  anni.  Il  barone  d'Epinay  era mio amico,  lo sapete,  ed 
      un'alleanza con suo figlio era conveniente." 
      "Credete" disse la signora Villefort, "che Valentina sia d'accordo 
      con lui?...  Infatti...  lei è sempre  stata  contraria  a  questo 
      matrimonio,  e  non  sarei  meravigliata che tutto ciò che abbiamo 
      veduto  ed  inteso,   non  sia  che  l'esecuzione  di  un  disegno 
      concertato fra loro." 
      "Signora" disse Villefort,  "non si rinunzia così,  credetemi,  ad 
      una fortuna di novecentomila franchi." 
      "Lei rinunciava anche al mondo, signore,  poiché un anno fa voleva 
      entrare in un monastero." 
      "Ebbene" rispose Villefort, "io vi dico che questo matrimonio deve 
      farsi." 
      "Contro  la  volontà di vostro padre?" disse la signora Villefort, 
      toccando così un'altra corda. "Ciò è ben grave!" 
      Montecristo,  fingendo di non ascoltare,  non perdeva neppure  una 
      parola di ciò che dicevano. 
      "Non  importa"  riprese  Villefort.  "Posso  dire  che  ho  sempre 
      rispettato mio padre, perché al sentimento naturale si univa in me 
      la conoscenza della sua superiorità morale, perché infine un padre 
      è sempre sacro,  sacro  come  nostro  autore,  sacro  come  nostro 
      padrone;  ma oggi non posso riconoscere intelligenza in un vecchio 
      che,  per odio contro il padre,  perseguita il figlio in tal modo. 
      Sarebbe  dunque  ridicolo  uniformare  la  mia  condotta  ai  suoi 
      capricci: continuerò ad avere il più gran rispetto per  il  signor 
      Noirtier,  soffrirò senza lamentarmene la punizione pecuniaria che 
      m'infligge; ma resterò irremovibile nella mia volontà, ed il mondo 
      giudicherà da qual lato  sia  la  vera  ragione.  In  conseguenza, 
      mariterò  mia  figlia  al  barone  Franz  d'Epinay,  perché questo 
      matrimonio è,  a mio avviso,  buono ed onorevole,  e perché infine 
      voglio maritare mia figlia a chi più mi piace." 
      "Come"   disse   il   conte,   del   quale  il  procuratore  aveva 
      costantemente sollecitata l'approvazione collo sguardo, "come,  il 
      signor  Noirtier  disereda  la  signorina Valentina perché sta per 
      sposare il barone d'Epinay?" 
      "Eh,  mio Dio,  sì,  signore,  ecco la ragione!"  disse  Villefort 
      stringendosi nelle spalle. 
      "La ragione visibile almeno" soggiunse la signora Villefort. 
      "La vera ragione, signora. Credetemi, io conosco mio padre." 
      "E  come è possibile?" chiese la giovane sposa.  "In che il signor 
      d'Epinay può dispiacere più di un altro al signor Noirtier?" 
      "Infatti"  disse  il  conte,   "ho  conosciuto  il  signor   Franz 
      d'Epinay...  Il  figlio  del generale Quesnel,  non è vero,  fatto 
      barone d'Epinay dal re Luigi Diciottesimo?" 
      "Precisamente" rispose Villefort. 
      "Ebbene, è un giovane distinto, mi sembra." 
      "Per cui non è che un pretesto,  ne sono certa" disse  la  signora 
      Villefort.  "I vecchi sono tiranni nelle loro affezioni; il signor 
      Noirtier non vuole che sua nipote si mariti." 
      "Ma" disse Montecristo, "non conoscete la causa di quest'odio?" 
      "Eh, mio Dio, chi può saperla?..." 
      "Forse qualche contrarietà politica..." 
      "Infatti,  mio padre ed il padre d'Epinay hanno vissuto nei  tempi 
      burrascosi,  dei  quali non ho veduto che gli ultimi giorni" disse 
      Villefort. 
      "Vostro padre non  era  bonapartista?"  domandò  Montecristo.  "Mi 
      sembra ricordarmi che mi avete detto qualche cosa su ciò" 
      "Mio  padre  anzitutto fu giacobino,  e di una passione oltre ogni 
      prudenza,  e la toga di senatore che Napoleone gli  aveva  gettata 
      sulle  spalle  non  faceva  che mascherare il vecchio repubblicano 
      senza averlo cambiato.  Quando mio padre cospirava,  non  era  per 
      l'imperatore,  ma  contro i Borboni,  perché mio padre aveva in sé 
      questo di terribile,  che non  combatté  mai  per  le  utopie  non 
      realizzabili, ma per le cose possibili, e applicò alla riuscita di 
      queste le terribili teorie della Montagna, senza indietreggiare di 
      fronte a qualunque ostacolo." 
      "Ebbene"  disse  Montecristo,  "il  signor  Noirtier  ed il signor 
      d'Epinay si saranno  scontrati  sul  campo  della  politica...  Il 
      signor d'Epinay,  quantunque avesse servito sotto Napoleone, aveva 
      forse conservato in fondo al cuore qualche sentimento realista?  E 
      non è lo stesso che fu assassinato uscendo da un'adunanza, dov'era 
      stato attirato nella speranza di ritrovarvi un fratello?" 
      Villefort guardò il conte quasi con terrore. 
      "M'inganno forse?" domandò Montecristo. 
      "No,  signore"  disse  la signora Villefort,  "anzi è precisamente 
      così, ed appunto per quanto avete detto, per vedere estinti questi 
      odi antichi,  il Signor Villefort ha avuta l'idea di fare amare  i 
      figli dei padri che si erano odiati." 
      "Idea  sublime  e piena di carità,  ed alla quale tutti dovrebbero 
      consentire.  Infatti,  sarà stupendo sentire la signorina Noirtier 
      Villefort chiamarsi signora Franz d'Epinay." 
      Villefort  rabbrividì  e  guardò  Montecristo  come  avesse voluto 
      leggergli  nel  fondo  del  cuore  l'intenzione  con   cui   aveva 
      pronunciate  queste  parole.  Ma  il  conte  conservò  il benevolo 
      sorriso impresso sulle labbra, ed anche questa volta,  malgrado la 
      penetrazione del suo sguardo, il procuratore del re non vide al di 
      là dell'epidermide. 
      "Perciò" riprese Villefort, "quantunque sia una gran disgrazia per 
      Valentina  perdere  le  ricchezze  di  suo  nonno,  penso  che  il 
      matrimonio  sarà  fatto.   Non  credo  che  il   signor   d'Epinay 
      indietreggi per questo scacco pecuniario, vedrà che io valgo forse 
      più della somma,  io che la sacrifico al desiderio di mantenere la 
      mia parola. Calcolerà inoltre che Valentina è ricca anche coi soli 
      beni di sua madre,  amministrati dal signore e  dalla  signora  di 
      Saint-Méran,  suoi  avi  materni  che  la  prediligono  con  tanta 
      tenerezza." 
      "E che meritano di essere amati come Valentina ha amato il  signor 
      Noirtier"  disse  la  signora  Villefort.   "D'altra  parte,  essi 
      verranno a Parigi fra un mese al più,  e Valentina sarà dispensata 
      dal seppellirsi come ha fatto fin qui presso il signor Noirtier." 
      Il  conte  ascoltava con compiacenza la voce discordante di questi 
      amor propri feriti, e di questi interessi falliti. 
      "Ma mi sembra" disse,  dopo un momento di silenzio,  "e vi  chiedo 
      prima perdono di ciò che sto per dirvi, mi sembra che se il signor 
      Noirtier  disereda  la  signorina Villefort,  colpevole di volersi 
      maritare con un giovane di cui detesta  il  padre,  non  abbia  lo 
      stesso da rimproverare a questo caro Edoardo." 
      "Non  è  vero?"  gridò  la  signora  Villefort con una intonazione 
      impossibile a descriversi.  "Non è questa una odiosa  ingiustizia? 
      Questo povero Edoardo è nipote del signor Noirtier come Valentina, 
      e tuttavia se Valentina non avesse dovuto sposare il signor Franz, 
      il signor Noirtier le lasciava tutti i suoi beni, e in più Edoardo 
      porta il nome della famiglia,  e ciò non impedirebbe, quando anche 
      Valentina venisse diseredata dal nonno,  che lei fosse sempre  tre 
      volte più ricca di lui." 
      Lanciato questo colpo, il conte ascoltò, ma non parlò più. 
      "Basta"  riprese Villefort,  "basta,  signor conte,  cessiamo,  vi 
      prego,  d'intrattenerci su queste miserie  di  famiglia...  Sì,  è 
      vero,  la  mia  fortuna andrà ad ingrossare le rendite dei poveri, 
      che oggi sono i veri ricchi, sì,  mio padre mi avrà privato di una 
      legittima speranza e senza una ragione, ma io avrò operato da uomo 
      di sentimento, da uomo di cuore. Il signor d'Epinay al quale avevo 
      promesso la rendita di questa somma,  la riceverà, dovessi impormi 
      le più crudeli privazioni." 
      "Però" riprese la signora Villefort, ritornando alla sola idea che 
      torturava senza posa il suo cuore,  "sarebbe forse stato meglio il 
      confidare questa disavventura al signor d'Epinay, e ch'egli stesso 
      ritirasse la sua parola." 
      "Oh, questa sarebbe una gran disgrazia!" gridò Villefort. 
      "Una gran disgrazia?" ripeté Montecristo. 
      "Senza  dubbio"  riprese  Villefort  raddolcendosi: "un matrimonio 
      fallito, anche per causa d'interesse, è sempre sfavorevole per una 
      ragazza:  poi   le   vecchie   voci   ch'io   volevo   estinguere, 
      riprenderebbero  consistenza.  No,  il  signor  d'Epinay,  se è un 
      onest'uomo,  si sentirà ancor più impegnato dopo che  Valentina  è 
      stata diseredata,  altrimenti agirebbe per cupidigia... E questo è 
      impossibile." 
      "Io la penso come il signor Villefort" disse Montecristo, fissando 
      lo sguardo sopra la signora Villefort.  "E se fossi nel numero dei 
      suoi  amici  per permettermi di dargli un consiglio,  lo inviterei 
      (poiché il signor d'Epinay sarà in breve  di  ritorno  per  quanto 
      almeno  mi  è stato detto) ad annodare l'affare così strettamente, 
      che non si possa più sciogliere impegnerei  una  partita,  la  cui 
      riuscita sarebbe del tutto onorevole per il signor Villefort..." 
      Quest'ultimo  si alzò,  trasportato da una gioia visibile,  mentre 
      sua moglie impallidiva leggermente. 
      "Bene" diss'egli,  "ecco ciò che mi aspettavo da voi,  ed io terrò 
      conto  dell'opinione  di  un  consigliere  come  siete voi!" disse 
      stendendo  la  mano  a  Montecristo.   "Per  cui   dunque,   tutti 
      considerino  quel  che oggi è accaduto come non avvenuto,  nulla è 
      cambiato nei miei progetti." 
      "Signore" disse il conte, "il mondo,  per quanto sia ingiusto,  vi 
      sarà  grato  della  vostra  decisione:  i  vostri amici ne saranno 
      orgogliosi,  ed il  signor  d'Epinay,  dovesse  anche  sposare  la 
      signorina  Valentina  senza dote,  ciò che non potrà essere,  sarà 
      superbo di potere entrare in una famiglia dove  si  sa  innalzarsi 
      all'altezza di simili rinunzie per mantenere la parola data." 
      Dicendo  queste  parole  il  conte  s'era  alzato e si disponeva a 
      partire. 
      "Voi ci lasciate, signor conte?" disse la signora Villefort. 
      "Vi sono costretto,  signora,  io venivo soltanto a rammentarvi la 
      vostra promessa per sabato." 
      "Temevate che la dimenticassimo?" 
      "Siete  troppo  buona,  ma il signor Villefort ha occupazioni così 
      gravi, e qualche volta così urgenti." 
      "Mio marito ha dato la  sua  parola,  signore"  disse  la  giovane 
      sposa, "ed avete visto che la mantiene quand'anche vi è da perdere 
      tutto, a più forte ragione quando vi è tutto da guadagnare." 
      "L'incontro avrà luogo nella vostra casa agli Champs-Elysées?" 
      "No"  disse  Montecristo,  "e ciò renderà il vostro disturbo anche 
      più meritorio: è in campagna." 
      "In campagna?" 
      "Sì." 
      "E dov'è? vicino a Parigi?" 
      "Alle porte, ad una mezza lega dalla barriera, ad Auteuil." 
      "Ad Auteuil!" gridò Villefort.  "Ah,  è vero,  la signora mi disse 
      che  abitavate  ad  Auteuil,  poiché la trasportarono nella vostra 
      casa. E in quale posizione d'Auteuil?" 
      "Rue Fontaine." 
      "Rue Fontaine?" riprese Villefort con voce strozzata.  "Ed a quale 
      numero?" 
      "Al numero 28." 
      "Vi hanno dunque venduta la casa del signor di Saint-Méran?" 
      "Del  signor  di  Saint-Méran?" domandò Montecristo.  "Questa casa 
      apparteneva dunque al signor di Saint-Méran?" 
      "Sì" rispose la signora Villefort. "E credereste una cosa?" 
      "Quale?" 
      "Voi trovate bella questa casa, non è vero?" 
      "Graziosa!" 
      "Ebbene, mio marito non ha voluto mai abitarla." 
      "Oh!" riprese Montecristo.  "Questa in verità è una prevenzione di 
      cui non mi saprei render conto." 
      "Non  mi  piace  Auteuil,  signore" precisò il procuratore del re, 
      facendo uno sforzo su se stesso. 
      "Ma non sarò tanto  disgraziato,  spero"  disse  con  inquietudine 
      Montecristo, "che quest'antipatia mi privi del bene di ricevervi?" 
      "No, credetemi, farò tutto ciò che potrò" balbettò Villefort. 
      "Amici  miei" disse Montecristo,  "non ammetto scuse.  Sabato alle 
      sei vi aspetto,  e se non verrete,  crederò,  che so io?,  che  su 
      questa  casa  disabitata  graviti  da vent'anni qualche sanguinosa 
      leggenda." 
      "Vi verrò, signor conte" disse vivamente Villefort. 
      "Grazie" disse Montecristo.  "Ora bisogna che  mi  permettiate  di 
      prendere congedo da voi." 
      "Infatti  avevate  detto  di essere costretto a lasciarci,  signor 
      conte" disse la signora Villefort,  "e stavate ancora per  dircene 
      il motivo, quando siete stato interrotto..." 
      "In  verità,  signora"  disse Montecristo,  "non so se oserò dirvi 
      dove vado." 
      "Oh, dite pure." 
      "Vado, da vero allocco che sono, a visitare una cosa che spesso mi 
      ha fatto riflettere per delle ore intere." 
      "Quale?" 
      "Un telegrafo: ecco ve l'ho detto!" 
      "Un telegrafo?" ripeté la signora Villefort. 
      "Eh, mio Dio, sì,  un telegrafo.  Ho veduto spesso in fondo ad una 
      strada,  sopra un poggio, un giorno di bel sole, innalzarsi quelle 
      braccia  nere  e  smodate,   simili  alle  zampe  di  un   immenso 
      coleottero,  e ciò non fu mai senza emozione,  ve lo giuro, perché 
      pensavo che questi simboli bizzarri fendendo l'aria con decisione, 
      e portando a trecento leghe la  volontà  sconosciuta  di  un  uomo 
      seduto  ad  un tavolo ad un altr'uomo seduto,  all'altra estremità 
      della linea, davanti ad un altro tavolo, si stagliavano sul grigio 
      della nuvola,  o nell'azzurro dei cieli  per  la  sola  forza  del 
      volere  di questo capo possente.  Allora io credevo ai geni,  alle 
      silfidi, ai folletti,  infine a tutti i poteri occulti,  e ridevo. 
      Non  mi era mai venuta la voglia di vedere da vicino questi grossi 
      insetti dal ventre bianco, dalle zampe nere e magre, perché temevo 
      di ritrovare sotto le loro ali di pietra il piccolo genio  pedante 
      umano, saputo, riboccante di scienza, di cabala, o di facondia. Ma 
      ecco  che  un bel mattino capii che il motore di ciascun telegrafo 
      era un povero diavolo d'impiegato a milleduecento  franchi  l'anno 
      occupato   tutto   il  giorno  a  guardare,   non  il  cielo  come 
      l'astronomo, non l'acqua come il pescatore,  non il paesaggio come 
      un  perdigiorno,  ma  invece  l'insetto  dal ventre bianco e dalle 
      zampe nere,  suo corrispondente,  situato quattro o  cinque  leghe 
      lontano  da  lui.  Allora mi sono sentito prendere da un desiderio 
      curioso di  vedere  da  vicino  questa  crisalide  vivente,  e  di 
      assistere  alla  commedia  che  dal fondo della sua buccia essa dà 
      all'altra crisalide,  tirando gli uni dopo gli altri  alcuni  capi 
      della cordicella." 
      "E voi volete andare là?" 
      "Sì, ci vado." 
      "A  quale telegrafo,  quello del ministero dell'interno,  o quello 
      dell'osservatorio?" 
      "Oh,  no,  troverei là  persone  che  vorrebbero  costringermi  ad 
      imparare  cose  che  desidero  ignorare,  e che mi spiegherebbero, 
      contro mia voglia,  un mistero che essi  non  conoscono.  Diavolo, 
      voglio conservare le illusioni che ho sugli insetti;  è già troppo 
      che abbia perduto quelle che avevo sugli uomini.  Non andrò dunque 
      né   al   telegrafo  del  ministero  dell'interno,   né  a  quello 
      dell'osservatorio. Mi occorre il telegrafo in piena campagna,  per 
      ritrovarvi il solo buon uomo pietrificato nella sua torre." 
      "Siete singolare, signore" disse Villefort. 
      "Quale linea mi consigliate di studiare?" 
      "Quella che oggi è la più occupata." 
      "Bene, quella di Spagna dunque?" 
      "Precisamente.  Volete  una  lettera del ministero perché vi diano 
      delle spiegazioni?..." 
      "Ma no" disse Montecristo,  "vi ho già detto  che  non  ci  voglio 
      capire  niente.  Dal  momento in cui capissi qualche cosa,  non ci 
      sarebbe più che  un  segno  del  signor  Duchatel,  o  del  signor 
      Montalivet  trasmesso  al  prefetto  di Baiona,  travestito in due 
      parole greche: "telè, graphéin". E' la bestia dalle zampe nere, la 
      parola misteriosa che io voglio conservare in tutta la sua purezza 
      e in tutta la mia venerazione." 
      "Andate dunque,  perché fra due ore sarà notte,  e voi allora  non 
      vedreste più niente." 
      "Diavolo, voi mi spaventate! Qual è il più vicino?" 
      "Sulla strada di Baiona?" 
      "Sì, quello sulla strada di Baiona!" 
      "E' quello di Chatillon." 
      "E dopo quello di Chatillon?" 
      "Quello della torre Montlhéry, io credo." 
      "Grazie! E arrivederci! Sabato vi racconterò le mie impressioni." 
      Alla   porta  il  conte  s'incontrò  coi  due  notai  che  avevano 
      diseredata Valentina,  e che si  ritiravano  soddisfatti  di  aver 
      fatto  un  atto  che  avrebbe  certamente procurato loro un grande 
      onore. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 60. 
                       MEZZO DI LIBERARE UN GIARDINIERE 
                    DAI GHIRI CHE GLI MANGIANO LE PESCHE. 
 
 
      Non nella stessa sera come aveva detto, ma l'indomani mattina,  il 
      conte di Montecristo uscì dalla barriera d'Enfer,  prese la strada 
      di Orléans,  oltrepassò il villaggio di Linas  senza  fermarsi  al 
      telegrafo che, proprio nel momento in cui il conte passava, faceva 
      muovere  le  sue  lunghe  braccia scarne,  e raggiunse la torre di 
      Montlhéry situata,  come ognuno sa,  sul punto più  elevato  della 
      pianura che porta questo nome. 
      Ai  piedi  della  collina  il conte discese di carrozza,  e per un 
      piccolo sentiero circolare  largo  da  diciotto  a  venti  pollici 
      cominciò  a  salire  la  montagna;  giunto  alla  sommità si trovò 
      davanti ad una siepe su cui bacche verdi erano succedute ai  fiori 
      rosa e bianchi. 
      Montecristo cercò la porta del piccolo recinto,  e non tardò molto 
      a trovarla.  Era un piccolo  cancello  di  legno  che  girava  sui 
      cardini  di giunco,  e si chiudeva con un chiodo ed una funicella. 
      In un momento il conte capì il meccanismo,  e la porta fu  aperta. 
      Si  trovò  allora  in  un piccolo giardino di circa venti piedi di 
      lunghezza e dodici di larghezza, limitato da una parte dalla siepe 
      e dal cancelletto, e dall'altra da una vecchia torre tutta coperta 
      di ellera, e disseminata di garofani ed altri fiori. 
      Non si sarebbe detto,  vedendola così ornata e fiorita  (come  una 
      bisavola  che i piccoli nipoti colmino di doni il giorno della sua 
      festa) che potesse  raccontare  drammi  terribili,  avesse  potuto 
      avere  una  voce  oltre  le  orecchie  minacciose  che  un vecchio 
      proverbio attribuisce alle muraglie. 
      Si percorreva questo giardino lungo un piccolo viale ricoperto  di 
      sabbia  rossa,  sul  quale  sporgevano,  con  un  tono che avrebbe 
      rallegrato l'occhio di Delacroix,  moderno  Rubens  francese,  due 
      filari di bossi vecchi di molti anni.  Questo viale aveva la forma 
      di un otto e girava,  innalzandosi,  in modo  da  poter  fare  una 
      passeggiata di sessanta piedi in un giardino lungo venti. 
      Giammai Flora, la ridente e fresca dea dei giardinieri latini, era 
      stata  onorata  da  un  culto  così minuzioso e così puro,  quanto 
      quello che le veniva reso in questo piccolo recinto. 
      Infatti dei ventotto rosai che componevano il  giardino,  non  una 
      foglia  portava  la  traccia della mosca,  non un piccolo stelo di 
      gramigna verde che isterilisce e consuma le  piante.  Non  mancava 
      umidità a questo giardino,  la terra nera come la mota e l'opacità 
      del fogliame degli alberi lo provavano;  d'altra  parte  l'umidità 
      artificiale  avrebbe prontamente supplito alla naturale,  mediante 
      uno stagno  scavato  in  un  angolo  del  giardino,  e  nel  quale 
      gracchiavano  sopra  un panno verde una rana ed un rospo che,  per 
      l'incompatibilità  senza  dubbio  dei  loro  umori,  si  voltavano 
      sempre, e si mantenevano ai due punti opposti del circolo coi loro 
      dorsi voltati l'uno contro l'altro. 
      Non  un'erba  nei  viali,  non  una  pianta  parassita vicino alle 
      aiuole: una ragazza pulisce e monda con minor cura il suo geranio, 
      il cactus,  e gli altri fiori della sua giardiniera di porcellana, 
      di  quel  che  facesse  il  padrone,  fino allora invisibile,  del 
      piccolo recinto. 
      Montecristo si fermò,  dopo aver chiusa la  porta  agganciando  la 
      cordicella  al  chiodo,  e  con  uno  sguardo  abbracciò  tutto il 
      recinto. 
      "Sembra"  disse  tra  sé  "che  l'uomo  del  telegrafo  abbia  dei 
      giardinieri alle dipendenze,  o che si abbandoni appassionatamente 
      all'agricoltura. 
      D'improvviso, inciampò in qualche cosa dietro una carriola ripiena 
      di foglie: questo qualche cosa  si  raddrizzò  lasciando  sfuggire 
      un'esclamazione di stupore, e Montecristo si trovò davanti un uomo 
      di  circa  cinquant'anni che raccoglieva delle fragole che copriva 
      con foglie di vite. 
      Vi erano circa dodici foglie, e quasi altrettante fragole. 
      Il buon uomo nel rialzarsi, per poco non lasciò cadere le fragole, 
      le foglie ed il piatto. 
      "Fate la vostra raccolta?" disse Montecristo sorridendo. 
      "Mi scusi" rispose il buon uomo,  portando la mano alla  berretta, 
      "non  sono  lassù,  è vero,  ma ne sono disceso in questo medesimo 
      istante." 
      "Non voglio incomodarvi per niente;  raccogliete le vostre fragole 
      se ce ne sono ancora." 
      "Me  ne  rimangono ancora dieci" disse l'uomo,  "perché eccone qui 
      undici, e ne avevo ventuno, cinque di più dell'anno scorso. Ma non 
      c'è da stupirsi: quest'anno la primavera è  stata  calda,  e  alle 
      fragole  occorre  calore.  Ecco  perché invece di sedici dell'anno 
      passato,  quest'anno ne ho avute  dodici  già  raccolte,  tredici, 
      quattordici,     quindici,    sedici,    diciassette,    diciotto, 
      diciannove...  Ah,  mio Dio!  Me ne mancano due,  e c'erano ancora 
      ieri,  le ho contate,  ne sono sicuro... Il figlio di mamma Simona 
      me le avrà rubate; l'ho visto ronzare questa mattina. Ah,  piccola 
      birba  d'un  ladro di frutta,  non sa dunque a che lo può condurre 
      questo?" 
      "Infatti,  è grave" disse  Montecristo,  "ma  voi  compatirete  la 
      gioventù del discolo, e la sua ghiottoneria." 
      "Certamente"  disse  il  giardiniere.  "Tuttavia  non  è cosa meno 
      spiacevole.  Ma ancora una volta mi scusi signore: è forse un  mio 
      superiore  che  ho fatto tanto aspettare?" e intanto esaminava con 
      timore il conte ed il suo abito azzurro. 
      "Tranquillizzatevi,  amico mio" disse il conte con quel sorriso  a 
      sua discrezione tanto terribile e tanto benevolo, che questa volta 
      esprimeva  benevolenza,  "non sono un vostro superiore che viene a 
      fare un'ispezione,  ma  un  semplice  viaggiatore  condotto  dalla 
      curiosità,  e  che  già  comincia  a  rimproverarsi la sua visita, 
      vedendo che vi fa perdere il vostro tempo." 
      "Oh,  il mio tempo non è prezioso" replicò il buon  uomo,  con  un 
      sorriso di malinconia,  "però è il tempo del governo, e non dovrei 
      perderlo,  ma ho ricevuto il segnale che mi  annunziava  di  poter 
      riposare  un'ora"  e  gettò  uno  sguardo  sulla meridiana solare, 
      perché vi era di tutto nel recinto della torre di Montlhéry, anche 
      una meridiana solare,  "e,  voi vedete,  ho ancora dieci minuti... 
      D'altra parte, lo credereste signore? I ghiri le mangiano!" 
      "Davvero no,  non l'avrei creduto" rispose gravemente Montecristo. 
      "Sono cattivi vicini, signore, i ghiri per noi che non li mangiamo 
      cotti nel miele, come facevano i romani." 
      "Ah, i romani li mangiavano?" disse il giardiniere.  "Mangiavano i 
      ghiri?" 
      "Lo lessi in Petronio" disse il conte. 
      "Non  devono  esser  buoni,  quantunque  si  dica: "grasso come un 
      ghiro".  E non è meraviglioso,  signore,  che i ghiri siano grassi 
      visto che dormono tutta la santa giornata,  e non si svegliano che 
      per rosicare tutta  la  notte?  Osservate,  l'anno  passato  avevo 
      quattro albicocche, essi me ne rosicchiarono una; avevo una pesca, 
      una sola,  è vero che è un frutto raro,  ebbene,  l'hanno divorata 
      per metà dalla parte del muro...  Una pesca  superba,  eccellente: 
      non ne avevo mai mangiate delle migliori." 
      "Voi l'avete mangiata?" domandò Montecristo. 
      "Cioè,  la  metà  che  restava,  capirete  bene: era squisita!  Ah 
      peccato! Quei signori non scelgono il peggior boccone.  Fanno come 
      il  figlio  di  mamma  Simona  che  non  ha  scelto le più cattive 
      fragole! Ma quest'anno non andrà così,  state tranquillo;  ciò non 
      accadrà più, dovessi, quando i frutti stanno per maturare, passare 
      tutta la notte di sentinella." 
      Montecristo ne sapeva abbastanza. 
      Ciascun uomo ha la sua passione che lo rode internamente nel fondo 
      del cuore,  come ciascun frutto ha il suo verme;  quella dell'uomo 
      del telegrafo era l'orticultura. 
      Il conte si mise a raccogliere le foglie di vite che  nascondevano 
      i grappoli al sole, e così si conquistò il cuore del giardiniere. 
      "Il signore è venuto per vedere il telegrafo?" disse questi. 
      "Sì, se però non è proibito dai regolamenti." 
      "Oh, non è proibito affatto" disse il giardiniere, "giacché non vi 
      è niente di pericoloso...  Nessuno sa,  né può sapere, ciò che noi 
      diciamo." 
      "Mi è stato detto infatti" riprese il conte,  "che voi ripetete  i 
      segnali senza capirli voi stessi." 
      "Certamente,  e  sono  ben  contento  che  sia  così" disse con un 
      sorriso l'uomo del telegrafo. 
      "Perché siete contento che sia così?" 
      "Perché,  in questo modo,  non ho alcuna responsabilità,  sono una 
      macchina,  e nient'altro,  e purché faccia le mie funzioni, non mi 
      si domanda di più." 
      "Diavolo!" fece Montecristo fra sé. "Mi sarei forse imbattuto, per 
      caso,   in  un  uomo  senza  ambizione?   Per  Bacco  sarebbe  una 
      disgrazia." 
      "Signore"  disse  il giardiniere guardando la meridiana,  "i dieci 
      minuti stanno per scadere,  ed io  ritorno  al  mio  posto.  Avete 
      piacere a salire con me?" 
      "Vi seguo." 
      Montecristo  entrò  infatti  nella  torre  a  tre piani.  Il piano 
      terreno riparava alcuni arnesi agricoli, come zappe, rastrelliere, 
      annaffiatoi,   attaccati  al  muro;   e  queste  erano  tutte   le 
      suppellettili;  il secondo era l'abitazione ordinaria, o piuttosto 
      notturna dell'impiegato: era arredato con poveri mobili d'uso,  un 
      letto,  una  tavola,  due  sedie,  un vaso da attinger acqua;  più 
      alcune erbe secche attaccate al soffitto,  che il conte  riconobbe 
      per piselli da sementi,  fagioli di Spagna, dei quali il buon uomo 
      conservava i semi nella loro buccia. 
      Egli aveva messi i bigliettini a tutte queste sementi,  con quella 
      cura che potrebbe fare il botanico del Giardino delle Piante. 
      "Ci  vuol molto tempo a studiare la telegrafia,  signore?" domandò 
      Montecristo. 
      "Lo studio non è lungo, ma l'apprendistato sì..." 
      "E quanto si riceve di paga?" 
      "Mille franchi, signore." 
      "Non è gran cosa." 
      "No, ma, come vedete, si ha l'alloggio." 
      Montecristo guardò la camera. 
      "Purché non si abbiano pretese sull'alloggio." 
      Passarono al terzo piano; era la sede del telegrafo. 
      Montecristo guardò le due maniglie di ferro che servono a  mettere 
      in moto la macchina. 
      "Ciò  è  molto importante" diss'egli,  "ma alla lunga questa è una 
      vita che deve sembrare un po' noiosa." 
      "Sì,  in principio procura dei torcicolli per il troppo star fissi 
      a  guardare,  ma in capo ad un anno o due ci si fa l'abitudine,  e 
      poi abbiamo le nostre ore di ricreazione,  e i  nostri  giorni  di 
      riposo." 
      "I vostri giorni di riposo?" 
      "Sì." 
      "E quali?" 
      "Quelli in cui c'è nebbia." 
      "Ah, è giusto." 
      "Per me, quelli sono i miei giorni di festa; in quei giorni scendo 
      nel giardino, e pianto, taglio, accomodo, lego... Insomma il tempo 
      passa." 
      "Da quanto tempo siete qui?" 
      "Da dieci anni, e cinque anni da apprendista che fanno quindici." 
      "Quanti anni avete?" 
      "Cinquantacinque anni." 
      "Quanto tempo di servizio vi occorre per avere la pensione?" 
      "Oh, signore, venticinque anni." 
      "E quant'è questa pensione?" 
      "Cento scudi." 
      "Povera umanità!" mormorò Montecristo. 
      "Come dite, signore?" domandò l'impiegato. 
      "Dico che tutto ciò è importante." 
      "Che cosa?" 
      "Tutto  ciò  che mi mostrate...  E non capite assolutamente niente 
      dei vostri segni?" 
      "Assolutamente nulla." 
      "Voi non avete mai provato a capirli?" 
      "Mai! Per cosa farne?" 
      "Però ci sono dei segnali che inviano a voi particolarmente?" 
      "Senza dubbio." 
      "Questi li capite?" 
      "Sì, sono sempre gli stessi." 
      "E dicono?..." 
      "Niente di nuovo... o voi avete un'ora... o a domani." 
      "Queste sono cose assolutamente indifferenti...  Ma guardate,  non 
      vedete il vostro corrispondente che si mette in movimento?" 
      "Ah, è vero: grazie, signore." 
      "E che dice? E' qualche cosa che capite?" 
      "Sì, mi domanda se sono pronto." 
      "E voi gli rispondete?" 
      "Coi medesimi segnali, che nello stesso tempo che avvertono il mio 
      corrispondente   di  destra  che  io  sono  pronto,   invitano  il 
      corrispondente di sinistra a tenersi anch'egli preparato." 
      "E' molto ingegnoso" disse il conte. 
      "State a vedere" riprese con orgoglio il buon  uomo,  "fra  cinque 
      minuti parlerà." 
      "Allora ho cinque minuti" disse Montecristo,  "è più del tempo che 
      mi abbisogna. Mio caro signore" aggiunse,  "mi permettete di farvi 
      una domanda?" 
      "Dite." 
      "Amate molto l'agricoltura?" 
      "Con passione." 
      "E  sareste  felice,  se invece di avere un terreno di venti piedi 
      aveste un campo di due iugeri?" 
      "Signore, ne farei un paradiso terrestre." 
      "Coi vostri mille franchi vivete male?" 
      "Molto male, ma infine vivo." 
      "Sì, ma non avete che un miserabile giardino." 
      "Sì, è vero, il giardino non è grande." 
      "Ed anche popolato di ghiri che divorano tutto." 
      "Questo è il mio flagello." 
      "Ditemi,  se aveste la disgrazia di voltare  la  testa  quando  il 
      corrispondente di destra è in movimento?" 
      "Io non lo vedrei." 
      "Allora che accadrebbe?" 
      "Non potrei ripetere i segnali." 
      "E dopo?..." 
      "Mi  accadrebbe  che,  non  avendoli  ripetuti per negligenza,  mi 
      darebbero una multa." 
      "Di quanto?" 
      "Di cento franchi." 
      "Il decimo della vostra paga." 
      "Sì" fece l'impiegato. 
      "Non vi è mai accaduto?" chiese Montecristo. 
      "Una sola volta che potavo un rosaio." 
      "Bene,  e se vi venisse in mente  di  cambiare  un  segnale  o  di 
      trasmetterne un altro?" 
      "Allora è diverso: sarei licenziato, e perderei la pensione." 
      "Di cinquecento franchi?" 
      "Cento  scudi,  sì,  signore:  così  capirete bene che non lo farò 
      mai." 
      "Neppure per quindici anni della vostra paga? 
      Vediamo, ciò merita riflessione, eh?" 
      "Per quindici mila franchi? signore, voi volete tentarmi?" 
      "Precisamente quindici mila franchi, comprendete?" 
      "Signore, lasciatemi guardare il mio corrispondente di destra." 
      "Invece non guardate, ma guardate qui." 
      "Che cosa?" 
      "Come, non conoscete questi piccoli pezzi di carta?" 
      "Biglietti di banca!" 
      "Appunto da mille, e sono quindici." 
      "E per chi sono?" 
      "Per voi." 
      "Per me!" gridò l'impiegato soffocato. 
      "Oh, mio Dio, sì, vostri in piena proprietà." 
      "Ecco il corrispondente di destra che si muove." 
      "Lasciatelo muovere." 
      "Mi avete distratto, io sono già in multa." 
      "Questa vi costerà cento franchi,  vedete bene che ora avete tutta 
      la convenienza di prendere i quindici biglietti di banca." 
      "Signore, il mio corrispondente di dritta s'impazienta e raddoppia 
      i segnali." 
      "Lasciatelo fare e prendete." 
      Il conte mise l'involto nelle mani dell'impiegato. 
      "Ora,  ciò  non  è  tutto:  coi  vostri  quindici mila franchi non 
      vivreste." 
      "Avrò sempre il mio posto." 
      "No,  lo perderete,  perché ora farete un altro segno  diverso  da 
      quello del vostro corrispondente." 
      "Ah, signore, che mi proponete?" 
      "Una birbonata." 
      "Signore, a meno che non vi sia costretto..." 
      "E conto bene di costringervi, effettivamente." 
      E Montecristo cavò di tasca un altro pacchetto di banconote. 
      "Ecco  altri dieci mila franchi che coi quindici mila che avete in 
      tasca fanno venticinque mila.  Con cinque mila franchi  comprerete 
      una piccola casetta e due iugeri di terra, con altri venti mila vi 
      farete una rendita di mille franchi." 
      "Un giardino di due iugeri?" 
      "E mille franchi di rendita." 
      "Mio Dio, mio Dio!" 
      "Ma prendete dunque!" 
      E   Montecristo   mise   per  forza  i  dieci  biglietti  in  mano 
      all'impiegato. 
      "Che devo fare?" 
      "Niente di difficile!" 
      "Ma pure?" 
      "Ripetete i segni che qui vedete." 
      Montecristo cavò di tasca una carta su cui  erano  bene  disegnati 
      tre segnali, coi numeri che indicavano l'ordine col quale dovevano 
      essere fatti. 
      "E questo non sarà lungo, come vedete." 
      "Sì, ma..." 
      "Rammentatevi delle pesche;  se volete mangiarne delle buone, fate 
      quanto vi dico." 
      Il pensiero del raccolto la vinse. 
      Rosso per la febbre,  sudando grosse gocce,  il buon  uomo  eseguì 
      l'uno  dopo  l'altro  i  tre  segnali dati dal conte,  malgrado le 
      insistenti  chiamate  del  corrispondente  di  destra   che,   non 
      comprendendo il cambiamento, cominciava a credere che l'uomo delle 
      pesche  fosse  divenuto  pazzo.  In  quanto  al  corrispondente di 
      sinistra, ripeté coscienziosamente i segnali,  che furono raccolti 
      dal ministero dell'interno. 
      "Ora eccovi ricco" disse Montecristo. 
      "Sì" rispose l'impiegato, "ma a qual prezzo?" 
      "Ascoltate,  amico mio" disse Montecristo, "non voglio che abbiate 
      rimorsi;  credetemi dunque,  non avete fatto torto  ad  alcuno  ed 
      avete servito una buona causa." 
      L'impiegato guardava i biglietti di banca, li contava, li palpava, 
      ora pallido,  ora rosso;  infine si precipitò nella sua stanza per 
      bere un bicchier d'acqua,  ma non ebbe forza di giungere  fino  al 
      rubinetto, e svenne in mezzo ai fagioli secchi. 
      Cinque  minuti  dopo  la  notizia telegrafica giunse al ministero. 
      Debray  fece  attaccare  i  cavalli  al   suo   coupé,   e   corse 
      all'abitazione di Danglars. 
      "Vostro marito ha delle cartelle del prestito spagnolo?" 
      "Lo credo bene! Ne ha per sei milioni." 
      "Ch'egli le venda subito a qualunque prezzo." 
      "E perché?" 
      "Perché Don Carlo è fuggito da Bourges ed è rientrato in Spagna." 
      "E come lo sapete?" 
      "Per  Bacco!" disse Debray stringendosi nelle spalle.  "Come so le 
      notizie?" 
      La baronessa non se lo  fece  ripetere  due  volte,  e  corse  dal 
      marito,  il  quale si recò subito dal suo agente di cambio,  e gli 
      ordinò di vendere a qualunque prezzo. Quando si seppe che Danglars 
      vendeva, si abbassarono subito i titoli spagnoli. 
      Danglars perdette cinquecento mila franchi ma si sbarazzò di tutte 
      le cartelle. 
      La sera si lesse nel "Messager" il seguente dispaccio telegrafico: 
 
      ''Il re Don Carlo è sfuggito alla sorveglianza che  si  esercitava 
      su  lui a Bourges,  ed è rientrato in spagna dalla frontiera della 
      Catalogna. Barcellona si è sollevata in suo favore." 
 
      In tutta la serata non si parlò d'altro che  della  previdenza  di 
      Danglars  che  aveva vendute tutte le sue cartelle e della fortuna 
      del finanziere che non perdeva che soli cinquecento  mila  franchi 
      dopo un tale colpo. Quelli che avevano conservate le loro cartelle 
      e  le  avevano  comprate  da  Danglars,  si ritennero rovinati,  e 
      passarono una cattiva notte. 
      L'indomani si lesse nel "Moniteur": 
 
      "Senza alcun fondamento il 'Messager' ha ieri annunziata  la  fuga 
      di Don Carlo e la rivolta di Barcellona. 
      Il re Don Carlo non ha lasciato Bourges, e la penisola gode la più 
      perfetta tranquillità. Un segnale telegrafico, male interpretato a 
      causa della nebbia, ha causato questo errore." 
 
      I  titoli  risalirono  di  una cifra doppia di quella di cui erano 
      scesi. Ciò produsse, fra la perdita e la mancanza del guadagno, la 
      differenza di un milione per Danglars. 
      "Ottimo!" disse Montecristo a Morrel,  che si trovava  da  lui  al 
      momento  in  cui  venne  a conoscenza di questo strano rovescio di 
      Danglars.  "Con venticinque mila franchi ho fatto una scoperta che 
      avrei pagata centomila." 
      "Che avete dunque scoperto?" domandò Massimiliano. 
      "Ho  scoperto il modo di liberare un giardiniere dai ghiri che gli 
      mangiavano le pesche!" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 61. 
                                 I FANTASMI. 
 
 
      A prima vista, ed esaminata dal di fuori,  la casa d'Auteuil nulla 
      aveva  di  splendido,  né di tutto ciò che ci si sarebbe attesi da 
      una  casa  destinata  ad  abitazione  del   magnifico   conte   di 
      Montecristo;  ma  questa  semplicità  dipendeva  dalla volontà del 
      padrone,  che aveva ordinato che nulla fosse cambiato all'esterno; 
      e  per  convincersene,  c'era  bisogno  di  penetrare all'interno. 
      Infatti appena aperta la porta, lo spettacolo cambiava. 
      Bertuccio aveva superato se stesso per il gusto del mobilio.  e la 
      rapidità  dell'esecuzione:  come  in  altri  tempi il duca d'Antin 
      aveva fatto abbattere  in  una  notte  un  filare  di  alberi  che 
      disturbava  la  vista  di Luigi XIV,  così in tre giorni Bertuccio 
      aveva fatto piantare nel cortile interamente nudo,  dei bei pioppi 
      e  dei  sicomori,  fatti trapiantare colle loro enormi radici,  ad 
      ombreggiare la facciata principale  della  casa,  davanti  a  cui, 
      invece  del selciato,  mezzo guasto dall'erba,  si stendeva un bel 
      prato verde preparato quella stessa mattina, un vasto tappeto dove 
      brillavano ancora le gocce d'acqua di cui era stato annaffiato. 
      Il conte  stesso  aveva  dato  a  Bertuccio  un  disegno  ov'erano 
      indicati  il  numero delle piante ed il posto dove dovevano essere 
      situate,  la forma e lo spazio del prato che doveva sostituire  il 
      selciato. 
      Veduta  così,  la  casa era divenuta irriconoscibile,  e Bertuccio 
      stesso protestava che non l'avrebbe più  riconosciuta,  circondata 
      com'era da tanti alberi e da una così ricca vegetazione. 
      L'intendente  avrebbe  fatto  volentieri  qualche  cambiamento  al 
      giardino,  ma il conte aveva proibito che si  toccasse.  Bertuccio 
      fece però ornare di fiori le anticamere, le scale e i caminetti. 
      Ciò  che  rivelava la grande abilità dell'intendente e la profonda 
      scienza del padrone, l'uno nel servire, l'altro nel farsi servire, 
      era che questa casa,  deserta da vent'anni,  così cupa  e  trista, 
      ancora  il giorno prima tutta impregnata di un disgustoso odore di 
      vecchio,  aveva preso in un giorno,  coll'aspetto  della  vita,  i 
      profumi che preferiva il padrone, e perfino il tono della sua luce 
      favorita. Il conte, tornando a casa, aveva sotto i suoi occhi, fin 
      dalla anticamera,  i quadri che preferiva,  i cani di cui amava le 
      moine,  gli uccelli di cui amava  il  canto:  tutta  questa  casa, 
      risvegliata  dal  suo  lungo sonno come il palazzo della Bella del 
      bosco, viveva,  cantava,  si rallegrava,  come quelle case che noi 
      abitiamo,   lungamente  predilette,  e  nelle  quali,  quando  per 
      disgrazia le abbandoniamo, lasciamo una metà dell'anima nostra. 
      I domestici andavano e venivano allegri in quella bella corte: gli 
      uni occupavano  le  cucine,  e  correvano,  come  avessero  sempre 
      abitata  questa  casa,  su  e  giù  per scale restaurate il giorno 
      innanzi;  gli  altri  popolavano  le  rimesse,  ove  le  carrozze, 
      numerate e fissate,  sembravano istallate da cinquanta anni,  e le 
      scuderie ove i cavalli, schierati alle rastrelliere,  rispondevano 
      col loro nitrito ai palafrenieri che parlavano ad essi con maggior 
      rispetto di quanto molti domestici parlino coi loro padroni. 
      La  biblioteca  era  distribuita  in  due  scansìe alle due pareti 
      laterali di una grande sala,  e conteneva  circa  duemila  volumi; 
      tutto  un  settore  era  destinato  ai  romanzi moderni,  e quello 
      stampato  il  giorno  prima,  era  già  collocato  al  suo  posto, 
      pavoneggiandosi nella sua legatura rossa e oro. 
      Dall'altra parte della casa, in simmetria con la biblioteca, c'era 
      la serra,  ripiena di piante rare che si rallegravano in gran vasi 
      del Giappone, e in mezzo alla serra,  meraviglia ad un tempo degli 
      occhi  e dell'odorato,  un bigliardo che si sarebbe detto lasciato 
      da poco  dai  giocatori,  che  avevano  abbattuti  i  birilli  sul 
      tappeto. 
      Una  sola  stanza  era  stata  rispettata dal magnifico Bertuccio. 
      Davanti ad essa,  all'angolo del primo  piano,  a  cui  si  poteva 
      salire dalla scala maggiore,  e discendere dalla scala segreta,  i 
      domestici passavano con curiosità, e Bertuccio con terrore. 
      Il conte arrivò alle cinque precise, seguito da Alì,  davanti alla 
      casa d'Auteuil. Bertuccio aspettava quest'arrivo con un'impazienza 
      mista   ad  inquietudine:  egli  sperava  qualche  espressione  di 
      approvazione,  mentre temeva anche  il  solo  aggrottamento  delle 
      sopracciglia del conte. 
      Montecristo discese nel cortile, percorse tutta la casa, e fece un 
      giro  nel giardino,  silenzioso e senza dare il minimo segno né di 
      approvazione, né di malcontento. 
      Soltanto entrando nella  sua  camera  da  letto,  dirimpetto  alla 
      stanza  chiusa,  stese la mano al cassetto di un piccolo mobile di 
      legno rosa, che aveva già osservato in precedenza. 
      "Questo non può servire" disse, "che a mettervi dei guanti." 
      "Infatti Eccellenza" rispose tutto contento Bertuccio,  "aprite  e 
      vi troverete dei guanti." 
      Negli  altri  mobili il conte ritrovò ciò che contava di trovarvi: 
      bottiglie, sigari, gioielli ecc. 
      "Bene!" disse ancora. 
      E Bertuccio si ritirò soddisfatto  e  felice,  tanto  era  grande, 
      potente,  e  reale  l'influenza  di quest'uomo su tutto ciò che lo 
      circondava. 
      Alle sei precise s'intese scalpitare un cavallo davanti alla porta 
      d'ingresso.  Era il nostro capitano  degli  Spahis,  che  giungeva 
      sopra  Medeah.  Montecristo  l'aspettava nel vestibolo col sorriso 
      sulle labbra. 
      "Eccomi per primo,  ne sono sicuro" gridò Morrel.  "L'ho fatto per 
      avervi un momento tutto per me solo,  prima degli altri. Giulia ed 
      Emanuele vi mandano milioni di saluti. Ah, sapete che questo luogo 
      è magnifico?  Ditemi,  conte,  i vostri domestici avranno cura del 
      mio cavallo?" 
      "State tranquillo, se ne intendono." 
      "Ha  bisogno  di  essere ben bene strofinato...  Se sapeste di che 
      passo è venuto! E una vera saetta." 
      "Diavolo! Lo credo bene,  un cavallo da cinquemila franchi!" disse 
      Montecristo col tono di un padre che parli a suo figlio. 
      "Vi rincrescono?" disse Morrel con un franco sorriso. 
      "Io? Dio me ne guardi!" rispose il conte. "Mi spiacerebbe soltanto 
      che il cavallo non fosse buono." 
      "E tanto buono,  mio caro conte,  che Chateau-Renaud l'intenditore 
      di cavalli più raffinato di tutta la Francia, e Debray,  che monta 
      i  cavalli  arabi  del  ministro,  corrono  dietro  a me in questo 
      momento,  e sono un poco indietro come  vedete  seguiti  pure  dai 
      cavalli della baronessa Danglars,  che vanno di un trotto da poter 
      fare almeno sei leghe l'ora." 
      "Dunque sono vicini?" domandò Montecristo. 
      "A voi, eccoli." 
      Infatti nello stesso  momento  un  coupé  con  due  cavalli  tutti 
      fumanti,  e  due  cavalli  da  sella anelanti giunsero al cancello 
      della casa,  che si aprì davanti a  loro,  subito  dopo  il  coupé 
      descrisse  il  suo mezzo cerchio,  e venne a fermarsi davanti alla 
      gradinata seguito da due cavalieri. 
      D'un salto  Debray  mise  il  piede  a  terra,  e  si  trovò  allo 
      sportello.  Offrì la mano alla baronessa che scendendo gli fece un 
      gesto impercettibile a tutti,  meno che a Montecristo,  cui  nulla 
      sfuggiva;  egli  vide un piccolo biglietto bianco,  impercettibile 
      quanto il gesto,  che passò dalla mano della signora  Danglars  in 
      quella  del  segretario del ministro con una facilità dovuta certo 
      all'abitudine. 
      Dietro sua moglie scese il banchiere,  pallido come se  invece  di 
      uscire da un coupé fosse uscito da un sepolcro. 
      La  signora  Danglars  gettò  intorno  a  sé uno sguardo rapido ed 
      investigatore,  che Montecristo soltanto poté comprendere,  e  col 
      quale essa abbracciò il cortile, il peristilio e la facciata della 
      casa,  poi  reprimendo una leggera emozione che sarebbe certamente 
      comparsa  sul  suo  viso  se  fosse   stato   permesso   al   viso 
      d'impallidire, salì la scalinata, dicendo al signor Morrel: 
      "Signore,  se  foste  nel  numero  dei  miei amici vi chiederei se 
      voleste vendere il vostro cavallo." 
      Morrel fece un sorriso che molto rassomigliava ad una  smorfia,  e 
      si   voltò  verso  Montecristo  come  per  pregarlo  di  toglierlo 
      dall'impaccio in cui si trovava. 
      Il conte lo capì. 
      "Ah,  signora" disse,  "perché mai questa domanda non è diretta  a 
      me?" 
      "Con  voi,  signore" disse la baronessa,  "non si ha il diritto di 
      desiderare niente, perché si è troppo sicuri di ottenere. Così era 
      al signor Morrel..." 
      "Disgraziatamente" riprese  il  conte,  "sono  testimonio  che  il 
      signor  Morrel  non può cedervi il suo cavallo,  per una questione 
      d'onore." 
      "E per quale motivo, se posso?" 
      "Ha  scommesso  di  domare  Medeah  nello  spazio  di  sei   mesi. 
      Comprenderete ora, baronessa, che se egli se ne privasse prima del 
      termine  della scommessa,  non solo la perderebbe ma si direbbe in 
      più che ha avuto paura;  ed un capitano degli  Spahis,  anche  per 
      soddisfare un capriccio di una bella donna,  il che, a mio avviso, 
      è una delle cose più  sacre  di  questo  mondo,  non  può  lasciar 
      correre questa voce." 
      "Avete sentito, signora?" disse Morrel, indirizzando a Montecristo 
      un sorriso di riconoscenza. 
      "Mi  sembra  d'altra parte" disse Danglars,  con un tono rozzo mal 
      nascosto da un sorriso villano, "che abbiate abbastanza cavalli." 
      Non era abitudine della signora Danglars il lasciar passare simili 
      colpi senza  rispondervi,  e  tuttavia  con  gran  meraviglia  dei 
      giovani, finse di non capire e non rispose. 
      Montecristo sorrise a questo silenzio,  di una umiltà inusitata, e 
      si  affrettò  a  mostrare  alla  baronessa  due  immensi  vasi  di 
      porcellana  della Cina,  sui quali serpeggiavano delle vegetazioni 
      marine di una grossezza, e di forme così intricate e fantasiose da 
      esaltare la dovizia e il genio della natura. 
      La baronessa era meravigliata. 
      "Eh,  qui dentro si  potrebbe  piantare  uno  dei  castagni  delle 
      Tuileries!" disse. "Come hanno potuto far fabbricare simili enormi 
      oggetti?" 
      "Ah, signora" disse Montecristo, "non bisogna far simili domande a 
      noi,  fabbricanti di statuette, e di vetro appannato... E un'opera 
      di altra età,  e una specie di capolavoro dei geni della  terra  e 
      del mare." 
      "E come mai, e di quale epoca può essere?" 
      "Non lo so... Soltanto ho inteso dire che un imperatore della Cina 
      aveva  fatto  costruire  espressamente  un  forno  in cui uno dopo 
      l'altro aveva fatto  cuocere  dodici  vasi  come  questo.  Due  si 
      ruppero  sotto  l'ardore  del  fuoco;  gli  altri  furono calati a 
      trecento braccia nel fondo del mare. Il mare. come sapesse ciò che 
      si chiedeva,  gettò su essi delle liane,  contorse i suoi coralli, 
      incrostò  le  sue  conchiglie,  il tutto fu cementato per duecento 
      anni sotto profondità inaudite.  Poi una rivoluzione fece  deporre 
      l'imperatore  che aveva voluto fare questo esperimento,  e nessuno 
      pensò di recuperare i  vasi.  Rimase  soltanto  il  documento  che 
      parlava  della cottura e della calata in mare.  Dopo duecento anni 
      si ritrovò il documento, e si pensò di cercare i vasi. I nuotatori 
      andarono,  con l'aiuto di appositi congegni,  alla  ricerca  nella 
      baia  ove  erano  stati  gettati;  ma  di  dieci non ne furono più 
      ritrovati che tre,  gli altri erano stati o dispersi,  o rotti dai 
      flutti.  Io amo questi vasi,  nel fondo dei quali qualche volta mi 
      figuro che dei mostri  di  forme  spaventose  e  misteriose,  come 
      quelli  che  vedono  i  soli  nuotatori quando si immergono molto, 
      hanno fissato con meraviglia il loro sguardo sinistro e freddo,  e 
      nei  quali hanno dormito a miriadi piccoli pesci qui rifugiati per 
      salvarsi dalla persecuzione dei loro nemici." 
      Durante  questo  tempo  Danglars,   poco  amatore  di   curiosità, 
      strappava  distrattamente  l'uno  dopo  l'altro,  i  fiori  di  un 
      magnifico arancio: quando ebbe finito l'arancio,  si volse  ad  un 
      cactus,    che    meno    tollerante   dell'arancio,    lo   punse 
      oltraggiosamente.  Allora rabbrividì e si strofinò gli occhi  come 
      si svegliasse da un sonno. 
      "Signore"  disse Montecristo sorridendo,  "voi siete tanto amatore 
      di quadri,  ed avete delle  cose  magnifiche,  non  vi  raccomando 
      perciò i miei;  però, ecco due Hobbema un Paolo Potter, un Mieris, 
      due Gérard Dow, un Raffaello,  un Van Dyck,  un Zurbaran,  e due o 
      tre Murillo, degni di esservi presentati." 
      "Guarda" disse Debray, "un Hobbema che io riconosco." 
      "Ah, davvero?" 
      "Sì, vennero a proporlo al Museo." 
      "Che non ne ha, credo?" disse Montecristo. 
      "No, e ciò nonostante ha rifiutato di comprarlo." 
      "E perché?" domandò Chateau-Renaud. 
      "Siete ingenuo! Perché il governo non è abbastanza ricco." 
      "Ah,  scusate!"  disse Chateau-Renaud.  "Io sento dire simili cose 
      tutti i giorni da otto anni, e non mi ci posso abituare." 
      "Sarà per un'altra volta" disse Debray. 
      "Non lo credo" rispose Chateau-Renaud. 
      "Il maggiore Bartolomeo Cavalcanti,  il conte  Andrea  Cavalcanti" 
      annunziò Battistino. 
      Un  colletto  di  raso  nero che usciva dalle mani del sarto,  una 
      barba fatta di recente,  due baffi grigi,  un  occhio  sicuro,  un 
      abito  da  maggiore adorno di tre placche e cinque croci,  insomma 
      una tenuta irreprensibile di  vecchio  soldato,  tale  apparve  il 
      maggiore   Bartolomeo  Cavalcanti,   quel  tenero  padre  che  noi 
      conosciamo. 
      Accanto al padre,  vestito  di  abiti  nuovi,  col  sorriso  sulle 
      labbra,  il  conte  Andrea Cavalcanti,  quel rispettoso figlio che 
      ugualmente conosciamo. 
      I tre giovani parlavano insieme, e i loro sguardi si portarono dal 
      padre al figlio,  e si  fermarono  naturalmente  più  a  lungo  su 
      quest'ultimo, per bene esaminarlo. 
      "Cavalcanti!" fece Debray. 
      "Un bel nome" disse Morrel, "capperi." 
      "Sì"  disse  Chateau-Renaud,  "è  vero,  questi italiani hanno bei 
      nomi, ma vestono male." 
      "Siete difficile a contentare" riprese Debray,  "i suoi abiti sono 
      di un eccellente sarto, e del tutto nuovi." 
      "Ecco  precisamente  ciò  che  rimprovero loro.  Questo signore ha 
      l'aspetto di vestirsi oggi per la prima volta." 
      "Chi  sono  questi  signori?"  chiese   Danglars   al   conte   di 
      Montecristo. 
      "Non avete inteso? I Cavalcanti." 
      "Ciò non mi dice che il loro nome, e niente di più." 
      "Ah,  è vero, non siete al corrente della nostra nobiltà italiana: 
      chi dice Cavalcanti, dice razza di principi." 
      "Buon patrimonio?" domandò il banchiere. 
      "Favoloso." 
      "Che cosa fanno?" 
      "Provano a spenderlo  senza  potervi  riuscire.  Sono  accreditati 
      presso di voi, a quanto mi dissero l'altro giorno quando vennero a 
      farmi visita. Io anzi li ho invitati per voi, ve li presenterò." 
      "Ma  mi  sembra  che  parlino con molta purezza il francese" disse 
      Danglars. 
      "Il figlio è stato allevato in  un  collegio  del  mezzogiorno,  a 
      Marsiglia, o nelle vicinanze, lo ritroverete entusiasta." 
      "Di che cosa?" domandò la baronessa. 
      "Delle francesi,  signora...  Vuole assolutamente prender moglie a 
      Parigi." 
      "Bella idea!" disse Danglars, alzando le spalle. 
      La signora Danglars guardò suo marito con una espressione  che  in 
      un  altro momento avrebbe scatenato un uragano;  ma per la seconda 
      volta lei tacque. 
      "Il barone sembra molto tetro quest'oggi" disse  Montecristo  alla 
      signora Danglars. "Lo vogliono forse far ministro?" 
      "Non  ancora;  credo  invece  che abbia speculato in Borsa,  abbia 
      perduto, e non sa con chi prendersela." 
      "Il signore e la signora Villefort" gridò Battistino. 
      I  due  personaggi  annunziati  entrarono;  il  signor  Villefort, 
      nonostante il gran potere su se stesso, era visibilmente turbato. 
      Toccandogli la mano, Montecristo si accorse che tremava: 
      "Non  vi  sono  che  le donne per sapere dissimulare" disse fra sé 
      Montecristo,  guardando la  signora  Danglars,  che  sorrideva  al 
      procuratore, e che abbracciava la moglie di lui. 
      Dopo  i primi complimenti,  il conte vide Bertuccio che,  occupato 
      fino allora nelle sue mansioni,  entrava  in  un  piccolo  salotto 
      attiguo a quello nel quale erano tutti riuniti. 
      Andò da lui. 
      "Che volete, Bertuccio?" gli disse. 
      "Vostra   Eccellenza   non  mi  ha  detto  ancora  il  numero  dei 
      convitati." 
      "Ah, è vero." 
      "Quanti coperti?" 
      "Contate voi stesso." 
      "Sono giunti tutti, Eccellenza?" 
      "Sì." 
      Bertuccio introdusse lo sguardo  attraverso  la  porta  socchiusa. 
      Montecristo gli teneva fissi gli occhi in viso. 
      "Oh, mio Dio!" gridò Bertuccio. 
      "Che c'è dunque?" domandò il conte. 
      "Quella donna!... quella donna!..." 
      "Quale?" 
      "Quella vestita di bianco, e con tanti diamanti... la bionda!..." 
      "La signora Danglars?" 
      "Non so come si chiami. Ma è lei! Signore, è lei!" 
      "Chi?" 
      "La  donna  del  giardino!  Quella  che  era  incinta!  quella che 
      passeggiava aspettando... aspettando..." 
      Bertuccio rimase a bocca aperta, pallido, e coi capelli irti. 
      "Aspettando chi?" 
      Bertuccio senza rispondere,  mostrò Villefort col dito,  presso  a 
      poco nel medesimo gesto con cui Macbeth mostrò Banco. 
      "Oh!... Oh!..." mormorò finalmente: "Vedete?" 
      "Che? chi?" 
      "Lui!" 
      "Lui?... Il procuratore Villefort? Senza dubbio lo vedo." 
      "Dunque non l'ho ucciso?" 
      "Credo che diventiate pazzo, mio bravo Bertuccio." 
      "Dunque non morì?" 
      "Eh,  no  egli non morì,  lo vedete bene: invece di colpire fra la 
      sesta e settima costa sinistra come fanno  i  vostri  compatrioti, 
      avrete  colpito più alto o più basso;  e le persone di legge hanno 
      l'anima bene incavigliata al corpo...,  o,  piuttosto,  non è vero 
      ciò   che   mi   avete  raccontato,   fu  un  sogno  della  vostra 
      immaginazione,  un'allucinazione del vostro spirito...  Vi  sarete 
      addormentato avendo mal digerita la vostra vendetta,  essa vi avrà 
      pesato sullo stomaco, avrete avuto l'incubo, ecco tutto.  Vediamo, 
      richiamate  la  vostra  calma  e  contate: il signore e la signora 
      Villefort,  due;  il signore e la signora  Danglars,  quattro;  il 
      signor Chateau-Renaud,  il signor Debray, il signor Morrel, sette; 
      il maggiore Bartolomeo Cavalcanti, otto." 
      "Otto" ripeté Bertuccio. 
      "Aspettate dunque!  Avete troppa fretta di andarvene!  Dimenticate 
      uno  dei  miei  convitati,   che  diavolo!   Guardate  un  poco  a 
      sinistra... ecco là...  il signor Andrea Cavalcanti,  quel giovane 
      in  abito  nero  che  guarda  il  quadro di Murillo,  e che ora si 
      volge." 
      Questa volta Bertuccio stava per emettere un grido, che lo sguardo 
      di Montecristo gli spense sulle labbra: 
      "Benedetto!" mormorò egli a bassa voce. "Fatalità!" 
      "Ecco le sei e mezzo che suonano,  Bertuccio" disse severamente il 
      conte,  "questa è l'ora in cui ho dato l'ordine che si mettesse in 
      tavola; sapete che non amo aspettare." 
      E Montecristo rientrò  nel  salotto  ove  lo  aspettavano  i  suoi 
      convitati,  mentre  Bertuccio  rientrava  nella  sala  da  pranzo, 
      appoggiandosi contro le pareti. 
      Cinque minuti dopo, le due porte della sala si aprirono, Bertuccio 
      comparve,  e facendo come Vatel a Chantilly un  ultimo  ed  eroico 
      sforzo: 
      "Signor conte, in tavola" disse. 
      Montecristo offerse il braccio alla signora Villefort. 
      "Signor  Villefort"  disse,  "fate voi da cavaliere alla baronessa 
      Danglars, ve ne prego." 
      Villefort obbedì, e tutti passarono nella sala da pranzo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 62. 
                                  IL PRANZO. 
 
 
      Era evidente che nel passare  alla  sala  da  pranzo,  uno  stesso 
      sentimento animava tutti i convitati. Si chiedevano quale bizzarro 
      caso  li aveva radunati tutti in quella casa,  e per quanto alcuni 
      fossero inquieti e meravigliati  di  trovarvisi,  nessuno  avrebbe 
      voluto esservi. 
      Malgrado le relazioni di recente data,  la posizione eccentrica ed 
      isolata le  ricchezze  sconosciute  e  quasi  favolose  del  conte 
      imponessero  agli  uomini di essere circospetti,  ed alle donne di 
      non penetrare in una casa dove non c'era una moglie per riceverle; 
      pure  uomini  e  donne  avevano  passato  sopra,   gli  uni   alla 
      circospezione,  le  altre  alla convenienza: la curiosità,  che li 
      stuzzicava, ve li aveva condotti malgrado tutto. 
      Non c'era alcuno, fino ai Cavalcanti padre e figlio,  l'uno per la 
      rozzezza,   l'altro   per  la  disinvoltura,   che  non  sembrasse 
      preoccupato per trovarsi presso quest'uomo di  cui  ignoravano  lo 
      scopo, e insieme ad altri uomini che vedevano per la prima volta. 
      La  signora  Danglars  aveva  fatto  un movimento vedendo,  dietro 
      l'invito di Montecristo, il signor Villefort avvicinarsi a lei per 
      offrirle il braccio ed il signor Villefort aveva  sentito  il  suo 
      sguardo scomporsi sotto gli occhiali d'oro quando il braccio della 
      baronessa  si  posò  sul suo.  Nessuno di questi due movimenti era 
      sfuggito  al  conte,   e  già  in  quel  semplice  contatto  degli 
      individui,  c'era qualcosa di molto interessante per l'osservatore 
      di questa scena. 
      Il signor Villefort aveva alla sua destra la  baronessa  Danglars, 
      ed  a  sinistra  Morrel;  il  conte era fra la signora Villefort e 
      Danglars,  gli altri posti erano occupati  da  Debray  seduto  fra 
      Cavalcanti  padre e Cavalcanti figlio,  e da Chateau-Renaud seduto 
      fra la signora Villefort e Morrel. 
      Il pranzo fu magnifico. 
      Montecristo  si   era   proposto   di   rovesciare   completamente 
      l'etichetta parigina, e di saziare più la curiosità che l'appetito 
      dei  suoi  convitati.  Fu  un  banchetto  orientale  come potevano 
      esserlo i banchetti delle fate arabe. 
      Tutti i frutti,  che le quattro parti del  mondo  possono  versare 
      intatti  e  saporosi nel corno d'abbondanza d'Europa erano riuniti 
      ed ammonticchiati in piramidi entro vasi di Cina e sottocoppe  del 
      Giappone.  Gli uccelli rari,  colla parte più brillante delle loro 
      penne,  pesci mostruosi stesi su lastre d'argento,  tutti  i  vini 
      dell'Arcipelago,  dell'Asia Minore,  del Capo racchiusi in ampolle 
      di forme bizzarre,  la vista delle quali sembrava aggiungere anche 
      qualche   cosa  di  più  al  sapore  di  questi  vini,   passarono 
      successivamente (come una  di  quelle  girandole  di  portate  che 
      Apicio  faceva  passare  sui convitati) davanti a questi parigini, 
      che comprendevano potersi spendere mille luigi  in  un  pranzo  di 
      dieci persone, ma a condizione che, come Cleopatra, si mangiassero 
      delle perle,  o che,  come Lorenzo de' Medici, si bevesse dell'oro 
      fuso. 
      Montecristo vide lo stupore generale,  e si mise  a  ridere  ed  a 
      scherzare ad alta voce. 
      "Signori" disse,  "ammettete,  non è vero,  che giunti ad un certo 
      grado di fortuna, non vi è più,  di necessario,  che il superfluo, 
      come queste signore ammetteranno,  che giunti ad un certo grado di 
      esaltazione,  non vi  è  più,  di  positivo,  che  l'ideale?  Ora, 
      seguendo il ragionamento,  che cosa è il meraviglioso?  Quello che 
      non comprendiamo.  Qual  è  il  bene  che  crediamo  veramente  da 
      desiderarsi?  Quel che non possiamo avere. Ora, veder cose che non 
      posso comprendere, procurarmi cose impossibili ad aversi, questo è 
      lo scopo della mia vita.  Vi giungo con due mezzi: il denaro e  la 
      volontà...   Impiego,  per  conseguire  una  fantasia,  la  stessa 
      perseveranza che,  per esempio,  voi mettete,  signor Danglars,  a 
      creare  una  linea  ferroviaria;   voi  signor  Villefort,  a  far 
      condannare un uomo a morte;  voi signor Debray,  a  pacificare  un 
      regno;  voi signor Chateau-Renaud,  a piacere ad una donna,  e voi 
      Morrel,  a domare un cavallo che nessuno ha potuto montare.  Così, 
      per esempio, vedete questi due pesci nati, l'uno a cinquanta leghe 
      da  Pietroburgo,   l'altro  a  cinque  leghe  da  Napoli.   Non  è 
      dilettevole il poterli riunire sulla stessa tavola?" 
      "Quali sono dunque questi pesci?" domandò Danglars. 
      "Ecco qua, il signor Chateau-Renaud, che ha abitato in Russia,  vi 
      dirà  il  nome dell'uno,  ed il signor maggiore Cavalcanti,  che è 
      italiano, vi dirà il nome dell'altro." 
      "Questo qui" disse Chateau-Renaud, "è, credo, uno sterlet." 
      "E questo qua" disse Cavalcanti, "una lampreda, se non sbaglio." 
      "Ora,  signor Danglars,  domandate a questi  due  signori  ove  si 
      pescano questi due pesci..." disse Montecristo. 
      "Ma"  disse  Chateau-Renaud,  "gli sterlet si pescano soltanto nel 
      Volga." 
      "Ed io" disse Cavalcanti,  "non conosco che il Fusaro che fornisca 
      lamprede di questa grossezza." 
      "Ebbene,  precisamente!  L'uno  viene dal Volga e l'altro dal lago 
      del Fusaro." 
      "Impossibile!" gridarono ad un tempo tutti i convitati. 
      "Ecco appunto ciò che mi diverte" disse Montecristo. "Io sono come 
      Nerone,  "desidero l'impossibile"...  Ecco  ciò  che  diverte  voi 
      stessi  in  questo momento,  ed ecco infine che questa carne,  che 
      forse in realtà non vale quella del  salmone  e  del  persico,  in 
      breve   vi   parrà   squisita...   Nel  vostro  pensiero  sembrava 
      impossibile procurarvela: eppure eccola qua..." 
      "Ma come si fece a trasportare questi due pesci a Parigi?" 
      "Eh,  mio Dio!  Nulla di più semplice: questi due pesci sono stati 
      portati  ciascuno  entro  una gran tinozza imbottita internamente, 
      una di ramoscelli e d'erbe del fiume,  l'altra  di  giunchi  e  di 
      piante   del   lago;   sono   state  messe  in  un  furgone  fatto 
      espressamente,  ed in tal modo hanno  vissuto  lo  sterlet  dodici 
      giorni,  e  la  lampreda otto;  ed entrambi vivevano perfettamente 
      quando si è impadronito di loro il cuoco per farli morire, uno nel 
      latte, l'altro nel vino. Voi non lo credete, signor Danglars?" 
      "Almeno ne dubito" rispose Danglars col suo grossolano sorriso. 
      "Battistino" disse Montecristo,  "fate portare l'altro sterlet,  e 
      l'altra lampreda, cioè, quelli che sono venuti nelle altre tinozze 
      e che vivono ancora." 
      Danglars  aprì  due  occhi  inebetiti:  gli  invitati applaudirono 
      fragorosamente. 
      Quattro domestici portarono due tinozze guarnite di piante  marine 
      in  ciascuna  delle  quali  si  agitava un pesce simile ai due che 
      erano stati serviti in tavola. 
      "Ma perché due di ciascuna specie?" domandò Danglars. 
      "Perché uno poteva morire" rispose semplicemente Montecristo. 
      "Siete veramente  un  uomo  prodigioso"  disse  Danglars,  "ed  il 
      filosofo ha un bel dire, è una gran bella cosa essere ricchi!" 
      "E soprattutto aver delle idee" disse la signora Danglars. 
      "Oh,  non mi fate onore per questo, signora, ciò era molto in voga 
      presso i Romani;  e Plinio racconta che si mandavano  da  Ostia  a 
      Roma,  con  delle  mute  di  schiavi,  che li portavano sulla loro 
      testa,  dei pesci di quella specie che chiamavano "mulus",  e  che 
      dal ritratto che ne fa è probabilmente l'orata.  Era pure un lusso 
      d'averli vivi ed  uno  spettacolo  divertente  quello  di  vederli 
      morire,  perché  morendo  cambiavano tre o quattro volte il colore 
      delle loro scaglie,  come un arcobaleno che  evapori  passando  da 
      tutte le gradazioni del prisma; dopo di che li mandavano al cuoco. 
      La  loro  agonia faceva parte del loro merito;  se non li vedevano 
      vivi li disprezzavano morti." 
      "Sì" disse Debray,  "ma da Ostia a Roma non vi sono  che  sette  o 
      otto leghe." 
      "E'  vero!"  disse  Montecristo.  "Ma  dove  starebbe il merito di 
      venire milleottocento anni dopo Lucullo,  se non si facesse meglio 
      di lui?" 
      I  due Cavalcanti aprivano occhi enormi,  ma avevano il buon senso 
      di non dire una parola. 
      "Tutto ciò è ammirabile" disse Chateau-Renaud,  "perciò  quel  che 
      ammiro di più è,  lo confesso,  l'ammirabile prontezza colla quale 
      siete servito.  Non avete comprata questa casa appena cinque o sei 
      giorni fa?" 
      "Tutto al più, in fede mia" disse Montecristo. 
      "Ebbene,  sono  sicuro  che  in otto giorni ha subito una completa 
      trasformazione...  Se non  sbaglio  aveva  un'entrata  diversa  da 
      questa,  ed  il  cortile era selciato ed orrido,  mentre oggi è un 
      magnifico prato verde,  ornato di alberi che sembrano avere  cento 
      anni." 
      "Che volete" disse il conte, "amo il verde e l'ombra." 
      "Infatti"  disse  la  signora Villefort,  "prima si entrava da una 
      porta che si apriva sulla strada,  ed il giorno del mio  insperato 
      salvataggio,  fu  dalla  strada,  me  ne  ricordo,  che mi faceste 
      entrare in casa." 
      "Sì signora" disse Montecristo,  "ma dopo ho preferito un ingresso 
      che  mi  permettesse di guardare il Bois de Boulogne attraverso il 
      cancello." 
      "In quattro giorni" disse Morrel, "questo è un prodigio!" 
      "Infatti" disse Chateau-Renaud, "d'una vecchia casa farne una casa 
      nuova, è una cosa miracolosa,  perché era molto vecchia,  ed anche 
      molto triste. Mi ricordo d'essere stato incaricato da mia madre di 
      visitarla,  quando  il  signor  conte  di  Saint-Méran  la mise in 
      vendita, due o tre anni fa." 
      "Il signor di Saint-Méran?" disse la  signora  Villefort.  "Questa 
      casa  dunque  apparteneva  al signor di Saint-Méran,  prima che la 
      compraste voi, signor conte?" 
      "Pare di sì" rispose Montecristo. 
      "Come, non sapete da chi avete comprata questa casa?" 
      "In fede mia no;  è il mio intendente  che  si  occupa  di  questi 
      particolari." 
      "Da  circa dieci anni non era stata abitata" disse Chateau-Renaud. 
      "Faceva una grande tristezza vederla  sempre  colle  sue  persiane 
      chiuse,  le porte serrate ed il cortile pieno d'erba. In verità se 
      non fosse appartenuta al suocero di  un  procuratore  del  re,  si 
      sarebbe  potuta  prendere per una di quelle case maledette ove sia 
      stato consumato qualche delitto." 
      Villefort,  che fino allora non aveva ancora toccato  nessuno  dei 
      quattro o cinque bicchieri di vini straordinari davanti a lui,  ne 
      prese uno a caso e lo vuotò d'un sol fiato. 
      Montecristo lasciò passare un momento, poi, nel silenzio succeduto 
      alle parole di Chateau-Renaud: 
      "E' bizzarro, signor barone" disse,  "ma mi sono venuti gli stessi 
      pensieri  quando  vi  entrai per la prima volta;  e questa casa mi 
      parve così lugubre che non l'avrei mai comprata,  se  l'intendente 
      non  lo  avesse  già  fatto  per me.  Probabilmente il furbo aveva 
      ricevuto qualche senseria dal notaio." 
      "E' probabile" balbettò Villefort sforzandosi di  sorridere,  "ma, 
      credetemi,  non entro per niente in questa senseria. Il signore di 
      Saint-Méran ha voluto che questa casa,  parte della  dote  di  sua 
      nipote,  fosse  venduta,  perché,  rimanendo  tre  o  quattro anni 
      disabitata, sarebbe caduta in rovina." 
      Questa volta fu Morrel che impallidì. 
      "Vi era particolarmente una stanza..." continuò Montecristo.  "Oh, 
      mio  Dio,  ben  semplice  in  apparenza,  una stanza come tutte le 
      altre, parata di damasco rosso, che mi è sembrata,  non so perché, 
      drammatica all'estremo." 
      "E perché?" domandò Debray. "Perché drammatica?" 
      "Si  può  forse  render  conto  delle sensazioni d'istinto?" disse 
      Montecristo.  "Non vi sono forse delle località ove ci  sembra  di 
      respirare un'aria malinconica?  e perché? Non se ne sa niente: per 
      una concatenazione d'idee,  per un capriccio del sentimento che vi 
      trasporta ad altri luoghi,  che forse non hanno alcun rapporto coi 
      tempi ed i luoghi ove ci  troviamo...  Tutto  ciò  fa  che  questa 
      stanza  mi  ricordi  quella della marchesa di Ganges,  o quella di 
      Desdemona... Eh, in fede mia,  sentite,  giacché abbiamo finito di 
      pranzare,  bisogna che ve la mostri,  poi scenderemo in giardino a 
      prendere il caffè: dopo il pranzo, lo spettacolo." 
      Montecristo fece un segno per i convitati: la signora Villefort si 
      alzò,  Montecristo fece altrettanto,  e tutti  imitarono  il  loro 
      esempio. 
      Villefort e la signora Danglars rimasero ancora qualche tempo come 
      inchiodati sulle loro sedie; s'interrogavano con gli occhi freddi, 
      muti, agghiacciati. 
      "Avete sentito?" disse la signora Danglars. 
      "Bisogna  andarvi"  rispose  Villefort  alzandosi ed offrendole il 
      braccio. 
      Tutti si erano già sparsi per la  casa,  spinti  dalla  curiosità, 
      perché  tutti  pensavano  che  la visita non si sarebbe limitata a 
      questa stanza,  e che avrebbero visto tutto il resto  della  villa 
      dalla  quale Montecristo aveva saputo trarre un palazzo.  Ciascuno 
      dunque si lanciò per le porte aperte.  Montecristo aspettava i due 
      che ritardavano.  Quando a loro volta furono passati, li seguì con 
      un sorriso che, se si fosse potuto comprendere, avrebbe spaventato 
      i convitati molto più di quella camera  nella  quale  stavano  per 
      entrare. 
      Si  cominciò  infatti  col percorrere gli appartamenti.  Le camere 
      erano ammobiliate all'orientale  con  divani  e  cuscini  ovunque, 
      invece di letti pipe ed armi invece di mobili, i saloni adorni dei 
      più  bei  quadri  degli  antichi maestri,  gli studi tappezzati di 
      stoffe della Cina, a colori capricciosi,  a disegni fantastici,  a 
      tessuti meravigliosi, e infine si giunse alla famosa stanza. 
      Non  aveva  nulla  di  particolare,  se  non  che,  quantunque  al 
      declinare del giorno,  non era  illuminata,  ed  era  rimasta,  in 
      contrasto  con  tutto  il  resto  della  casa,  con le sue vecchie 
      decorazioni e i vecchi mobili. 
      Queste due particolarità bastavano per darle un'aria lugubre. 
      "Uh!" gridò la signora Villefort: "è spaventosa davvero!" 
      La signora Danglars provò  a  balbettare  alcune  parole  che  non 
      furono intese.  Molte osservazioni sorsero e s'incrociarono,  e il 
      risultato fu che la camera  di  damasco  rosso  aveva  un  aspetto 
      sinistro. 
      "Non è vero?" disse Montecristo. "Vedete come questo letto è posto 
      con  bizzarria,  quali  tetri  sanguinosi paramenti!  E questi due 
      ritratti a  pastello  che  l'umidità  ha  fatto  impallidire,  non 
      sembrano dire colle loro labbra smunte, e i loro occhi spaventati: 
      "Io ho visto"." 
      Villefort  divenne  livido:  la  signora  Danglars cadde sopra una 
      sedia presso il caminetto. 
      "Oh!" disse la signora Villefort,  sorridendo,  "avete il coraggio 
      di  sedervi  sopra questa sedia,  su cui forse è stato commesso un 
      delitto?" 
      La signora Danglars si alzò prestamente. 
      "E poi" disse Montecristo, "qui non c'è tutto." 
      "Che vi  è  dunque  ancora?"  domandò  Debray,  cui  non  sfuggiva 
      l'emozione della signora Danglars. 
      "Ah,  sì,  che vi è ancora?" domandò Danglars. "Perché fin qui non 
      trovo gran cosa... E voi signor Cavalcanti?" 
      "Noi" disse questi,  "abbiamo a Pisa la Torre d'Ugolino a  Ferrara 
      la prigione di Tasso, e a Rimini la camera di Paolo e Francesca." 
      "Sì,  ma non avete questa piccola scala segreta" disse Montecristo 
      aprendo una porta nascosta sotto la  tappezzeria.  "Guardatela,  e 
      dite ciò che ne pensate." 
      "Che scala sinistra!" disse Chateau-Renaud ridendo. 
      "Il fatto è" disse Debray,  "che non so se sia il vino di Chio che 
      concilia la malinconia,  ma certamente vedo tutta questa  casa  in 
      nero." 
      In  quanto  a  Morrel,  dopo  aver  sentito  parlare della dote di 
      Valentina,  era diventato triste,  e  non  aveva  pronunciato  una 
      parola. 
      "Non  v'immaginate" riprese Montecristo,  "un Otello,  o un Ganges 
      qualunque,   scendere  passo  a  passo,   in  una  notte  tetra  e 
      burrascosa,  questa  scala  con  qualche lugubre fardello,  che si 
      vuole nascondere alla vista degli uomini,  se non allo sguardo  di 
      Dio?" 
      La  signora  Danglars  si  appoggiò al braccio di Villefort,  egli 
      stesso costretto ad addossarsi al muro 
      "Mio  Dio,  signora"  gridò  Debray,   "che  avete  dunque?   Come 
      impallidite!" 
      "Che cos'ha?" disse la signora Villefort.  "E' semplice: il signor 
      Montecristo ci racconta delle storie  spaventose,  coll'intenzione 
      senza dubbio di farci morire dalla paura." 
      "Ma  sì"  disse Villefort,  "infatti conte,  voi spaventate queste 
      signore." 
      "Che avete dunque?"  ripeté  a  bassa  voce  Debray  alla  signora 
      Danglars. 
      "Niente" disse lei,  facendo uno sforzo,  "ho bisogno d'aria, ecco 
      tutto." 
      "Volete scendere in giardino?" domandò Debray offrendo il  braccio 
      alla signora Danglars ed avanzandosi verso la scala segreta. 
      "No!" disse lei. "Preferisco restare qui." 
      "Ma come?" disse Montecristo, "avreste paura sul serio?" 
      "No  conte"  disse  la  signora  Danglars,  "ma  avete  un modo di 
      supporre le cose che dà l'illusione della realtà." 
      "Oh,  mio Dio"  disse  Montecristo  sorridendo,  "tutto  questo  è 
      immaginazione!   Non  potrebbe  ugualmente  rappresentarsi  questa 
      camera come quella di una buona e onesta madre di famiglia? Questo 
      letto con le pareti color di porpora come un letto visitato  dalla 
      dea  Lucina?  E questa scala misteriosa,  come il passaggio per il 
      quale dolcemente,  e per  non  disturbare  il  sonno  confortatore 
      dell'addormentata,  passi  il  medico,  o  la nutrice,  o il padre 
      stesso portando il fanciullo che dorme?" 
      Questa volta la signora Danglars,  invece di rasserenarsi a questa 
      dolce pittura, gettò un gemito e svenne. 
      "La   signora  Danglars  sta  male"  balbettò  Villefort,   "forse 
      bisognerà trasportarla nella sua carrozza." 
      "Oh, mio Dio!" disse Montecristo. 
      "Ho dimenticata la boccettina!" 
      "Ho la mia" disse la signora Villefort,  e passò a Montecristo una 
      boccettina  con  un  liquore  rosso,  simile a quello che il conte 
      aveva usato per Edoardo. 
      "Ah!"  fece  Montecristo  prendendola  dalle  mani  della  signora 
      Villefort. 
      "Sì" mormorò questa, "dietro le vostre indicazioni ho provato." 
      "E vi è riuscito?" 
      "Lo credo." 
      La  signora  Danglars  era  stata trasportata nella camera vicina; 
      Montecristo le lasciò cadere sulle labbra una goccia  del  liquore 
      rosso, e lei ritornò subito in sé. 
      "Mio Dio" disse, "che sogno spaventoso!" 
      Villefort  le strinse fortemente il braccio,  per farle capire che 
      non aveva sognato. 
      Fu cercato il signor Danglars,  ma poco disposto alle  impressioni 
      poetiche,  egli  era  disceso  in  giardino  e  parlava col signor 
      Cavalcanti padre, di un progetto di ferrovia da Livorno a Firenze. 
      Montecristo sembrava disperato: prese  il  braccio  della  signora 
      Danglars,  e  la condusse in giardino,  ove fu ritrovato il signor 
      Danglars che prendeva il caffè fra i signori  Cavalcanti  padre  e 
      figlio. 
      "In verità, signora" le diss'egli, "non vi ho troppo spaventata?" 
      "No,  signore... Le cose fanno impressione secondo le disposizioni 
      di spirito in cui ci troviamo." 
      Villefort si sforzò di ridere. 
      "E allora" disse,  "capirete bene che basta una supposizione,  una 
      chimera..." 
      "E va bene" disse Montecristo,  "non mi credete,  se volete, ma ho 
      la convinzione che sia stato commesso un delitto in questa casa." 
      "Fate attenzione" disse la  signora  Villefort,  "abbiamo  qui  il 
      procuratore del re." 
      "In   fede  mia"  riprese  Montecristo,   "poiché  abbiamo  questa 
      occasione, ne approfitterò per fare la mia denuncia." 
      "La vostra denuncia?" disse Villefort. 
      "Sì, ed alla presenza di testimoni." 
      "Tutto ciò è molto importante" disse Debray, "e se vi fu realmente 
      delitto, faremo mirabilmente la digestione." 
      "Vi fu delitto" disse Montecristo.  "Venite qui,  signori,  signor 
      Villefort  venite...   Affinché  la  dichiarazione  sia  valevole, 
      dev'essere fatta alle autorità competenti..." 
      Montecristo prese il braccio  di  Villefort,  e  mentre  stringeva 
      sotto   il   suo  quello  della  signora  Danglars,   trascinò  il 
      procuratore fin sotto il platano ove l'ombra era più fitta.  Tutti 
      gli altri convitati li seguivano. 
      "Vedete"  disse  Montecristo,  "qui,  in  questo medesimo luogo" e 
      batteva col piede la terra,  "qui,  per ringiovanire questi alberi 
      già  vecchi,  ho fatto scavare il terreno,  e mettere del concime, 
      ebbene i miei lavoratori  nello  scavare  hanno  dissotterrato  un 
      piccolo forziere, o piuttosto le ferramenta di un baule, nel mezzo 
      delle  quali fu trovato uno scheletro di un neonato.  Questa non è 
      fantasia spero?" 
      Montecristo sentì intirizzirsi il braccio della signora  Danglars, 
      e fremere il pugno di Villefort. 
      "Un neonato..." ripeté Debray. "Diavolo! La cosa diventa seria, mi 
      sembra..." 
      "Ebbene" disse Chateau-Renaud,  "non mi sbagliavo quando, poco fa, 
      pretendevo che le cose avessero un'anima,  ed  un  viso  come  gli 
      uomini,  e  portassero  sulla  loro  faccia  il riverbero dei loro 
      intestini.  La casa era triste perché aveva  dei  rimorsi,  perché 
      nascondeva un delitto." 
      "E chi dice che sia stato un delitto?" riprese Villefort, tentando 
      un ultimo sforzo. 
      "Come,  un  neonato  seppellito  vivo  in  un  giardino,  non è un 
      delitto?" gridò  Montecristo.  "Come  chiamate  voi  quest'azione, 
      signor procuratore del re?" 
      "Ma chi dice che fu seppellito vivo?" 
      "Perché seppellirlo là,  se era morto? Questo giardino non è stato 
      mai un cimitero." 
      "Qual è la pena  per  gl'infanticidi  in  questo  paese?"  domandò 
      ingenuamente il maggiore Cavalcanti. 
      "Oh,  mio  Dio!  Si  taglia  loro  semplicemente il collo" rispose 
      Danglars. 
      "Ah, si taglia il collo?" disse Cavalcanti. 
      "Lo credo... Non è vero signor Villefort?" domandò Montecristo. 
      "Sì,  signor conte" rispose Villefort con un accento che non aveva 
      più dell'umano. 
      Montecristo  vide  che  questo  era  tutto  quel  che  poteva  far 
      sopportare ai due individui per i quali aveva preparata la  scena, 
      e non volendo spinger le cose oltre: 
      "Ma il caffè, signori!" disse. "Mi sembra che lo dimentichiamo." 
      E  ricondusse  i  convitati  verso  una tavola posta nel mezzo del 
      praticello. 
      "In verità, signor conte" disse la signora Danglars,  "ho vergogna 
      di confessare la mia debolezza,  ma tutte queste storie spaventose 
      mi hanno atterrita, vi prego di lasciarmi sedere." 
      E dicendo questo cadde sopra una sedia. 
      Montecristo la salutò e si avvicinò alla signora Villefort. 
      "Credo che la signora Danglars abbia ancora bisogno  della  vostra 
      boccettina" disse. 
      Ma  prima  che  la  signora Villefort si fosse avvicinata alla sua 
      amica,  il procuratore aveva già detto all'orecchio della  signora 
      Danglars: 
      "Bisogna che vi parli." 
      "Quando?" 
      "Domani." 
      "Dove?" 
      "Nel  mio  ufficio,  al tribunale,  se volete;  quello è ancora il 
      luogo più sicuro." 
      "Ci verrò." 
      In quel momento si avvicinò la signora Villefort. 
      "Grazie,  mia cara amica" disse la  signora  Danglars  provando  a 
      sorridere. "Non ho più niente, mi sento assai meglio!" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 63. 
                                 IL MENDICO. 
 
 
      La  serata s'inoltrava,  la signora Villefort aveva manifestato il 
      desiderio di tornare a Parigi,  cosa che non aveva osato  fare  la 
      signora Danglars, malgrado il malessere evidente che provava. Alla 
      domanda  di  sua  moglie,  il  signor Villefort dette per primo il 
      segnale della partenza;  offrì un  posto  nel  suo  "landau"  alla 
      signora  Danglars,  affinché  fosse  assistita  dalle  cure di sua 
      moglie.  Quanto al signor Danglars,  assorbito in  una  importante 
      conversazione d'affari col signor Cavalcanti,  non fece attenzione 
      a  tutto  ciò  che  accadeva.  Montecristo,  mentre  domandava  la 
      boccettina  alla  signora  Villefort  aveva  notato  che il signor 
      Villefort  si  era  avvicinato  alla  signora  Danglars,  e  aveva 
      indovinato ciò che le aveva detto, quantunque avesse parlato tanto 
      a  bassa voce che era molto se la signora Danglars stessa lo aveva 
      inteso.  Egli  lasciò  partire  senza  opporsi  Morrel,  Debray  e 
      Chateau-Renaud  a cavallo,  e montare le due dame nel "landau" del 
      signor Villefort;  Danglars,  sempre più entusiasta di  Cavalcanti 
      padre,  lo invitò a salire con lui nel suo coupé. Quanto ad Andrea 
      Cavalcanti, raggiunse il suo tilbury, che l'aspettava davanti alla 
      porta,  e di cui un groom,  che esagerava le maniere  all'inglese, 
      teneva,  rizzandosi  sulla  punta degli stivali,  l'enorme cavallo 
      grigio-ferro. 
      Andrea non aveva parlato molto durante il pranzo,  perché  era  un 
      giovane molto intelligente, e naturalmente aveva provato il timore 
      di  dire  qualche  sciocchezza  in  mezzo  a  convitati  ricchi  e 
      possenti,  fra i quali il suo occhio dilatato non discerneva senza 
      qualche  timore  un  procuratore  del  re.  In seguito,  era stato 
      accaparrato  dal  signor  Danglars,  che,  dopo  un  rapido  colpo 
      d'occhio  sul  vecchio  maggiore,  dal collo rigido,  e sul figlio 
      ancora un poco timido,  e riavvicinando tutti questi  elementi  al 
      fasto  dell'ospitalità di Montecristo aveva pensato di avere a che 
      fare con qualche nababbo venuto a Parigi  per  introdurre  il  suo 
      unico figlio nell'alta società. 
      Aveva dunque ammirato con indicibile compiacenza l'enorme diamante 
      che brillava al dito mignolo del maggiore,  poiché questi, da uomo 
      prudente e esperto, nel timore che gli fossero strappati anzitempo 
      i tanti denari ricevuti,  li aveva subito convertiti in un oggetto 
      di  valore.  Poi  dopo  il  pranzo,  sempre attorno agli argomenti 
      "industria" e "viaggio",  aveva interrogato il padre ed il  figlio 
      sulla  loro  maniera di vivere e costoro avvertiti che su Danglars 
      era stato aperto il loro  credito,  all'uno  di  quarantotto  mila 
      franchi,  all'altro  quello annuale di cinquantamila,  erano stati 
      gentili e pieni di affabilità col banchiere. 
      Una cosa soprattutto aumentò la considerazione, e diremmo quasi la 
      venerazione di Danglars per Cavalcanti. 
      Questi, fedele al detto d'Orazio, "non meravigliarti di nulla", si 
      era contentato,  come si è visto,  di far sfoggio di  cultura  nel 
      dire che da quel lago si estraevano le migliori lamprede;  indi ne 
      aveva mangiata la sua parte senza dire una parola.  Danglars aveva 
      dedotto   che   queste   specie   di  sontuosità  erano  familiari 
      all'illustre discendente dei Cavalcanti,  che forse  a  Lucca  non 
      mangiava  che  trote  fatte  venire  dalla  Svizzera,   o  locuste 
      inviategli dalla Bretagna per mezzo di contenitori simili a quelli 
      di cui il conte si era servito per far venire le lamprede dal lago 
      del Fusaro, e gli sterlet dal fiume Volga. 
      Così accolse con una benevolenza  particolare  queste  parole  del 
      Cavalcanti: 
      "Domani, signore, avrò l'onore di farvi una visita per affari." 
      "Ed  io,   signore"  aveva  risposto  Danglars,   "sarò  lieto  di 
      ricevervi." 
      Poi  aveva  proposto  a  Cavalcanti,  se  però  non  gli  spiaceva 
      separarsi dal figlio, di ricondurlo all'albergo dei Principi. 
      Cavalcanti  aveva  risposto  che  da  lungo tempo suo figlio aveva 
      l'abitudine di condurre la sua vita indipendente, e di conseguenza 
      aveva i suoi cavalli, e le sue carrozze, e che, non essendo venuti 
      insieme, non vedeva nessuna difficoltà nel ritornare divisi. 
      Il maggiore era dunque salito nella carrozza di  Danglars,  ed  il 
      banchiere si era seduto al suo fianco,  sempre più incantato dalle 
      idee di ordine, e dall'economia di quest'uomo,  che pur dava a suo 
      figlio  cinquantamila franchi l'anno,  ciò che faceva supporre una 
      fortuna di cinque o seicento mila franchi di rendita. 
      Quanto ad Andrea, cominciò, per darsi delle arie, col rimproverare 
      il suo groom,  perché invece di andare a prenderlo alla scalinata, 
      lo  aveva  aspettato  alla  porta del cortile,  cosa che gli aveva 
      procurato l'incomodo di fare una trentina di  passi  a  piedi  per 
      cercare  il  suo  tilbury.  Il  groom  ricevette il rimprovero con 
      umiltà,  colla mano sinistra prese  il  morso  per  trattenere  il 
      cavallo impaziente che batteva il terreno col piede, mentre con la 
      destra  offriva  le  redini  ad  Andrea,  che  le  prese,  e  posò 
      leggermente lo stivale verniciato sul montatoio.  In quel  momento 
      una  mano  si  appoggiò  sulla  sua  spalla.  Il  giovane si volse 
      pensando che Danglars,  o Montecristo avessero dimenticato qualche 
      cosa, e ritornassero a dirglielo al momento di partire. 
      Ma,  invece  dell'uno o dell'altro,  scoprì una strana figura arsa 
      dal sole,  con una barba ben curata,  occhi brillanti come carboni 
      accesi,  ed  un  sorriso  ironico  su  labbra  tra  cui brillavano 
      trentadue denti bianchi,  acuti ed affinati come quelli di un lupo 
      o di una iena. 
      Un  fazzoletto  a  quadretti  rossi  copriva  la testa con capelli 
      grigiastri e polverosi,  una giacca delle più sporche e stracciate 
      copriva il corpo magro ed osseo: sembrava che le ossa, come quelle 
      di uno scheletro,  dovessero scricchiolare camminando; la mano che 
      si appoggiava sulla spalla di Andrea,  e che fu la prima cosa  che 
      vide il giovane, gli pareva di una dimensione gigantesca. 
      Andrea  riconobbe questa figura al chiarore della lanterna del suo 
      tilbury,  o fu soltanto colpito dall'orribile  aspetto  di  questo 
      interlocutore?  Non  sapremmo dirlo,  il fatto è che fremette,  ed 
      indietreggiò immediatamente. 
      "Che volete da me?" disse. 
      "Mi scusi" riprese l'uomo,  portando la mano al fazzoletto  rosso, 
      "forse v'infastidisco, ma ho bisogno di parlarvi." 
      "La  sera  non si domanda l'elemosina" disse il groom tentando con 
      un movimento di sbarazzare il suo padrone da questo importuno. 
      "Io non domando l'elemosina, mio bel ragazzo" disse lo sconosciuto 
      al domestico con uno sguardo così  ironico,  ed  un  sorriso  così 
      spaventoso,  che questi si allontanò,  "desidero soltanto dire due 
      parole al vostro  padrone  che  quindici  giorni  or  sono  mi  ha 
      incaricato di una commissione." 
      "Vediamo" disse a sua volta Andrea,  con abbastanza forza,  perché 
      il domestico non si accorgesse del suo  turbamento,  "che  volete? 
      Dite presto, amico mio..." 
      "Io vorrei...  io vorrei" disse a bassa voce l'uomo dal fazzoletto 
      rosso,  "che mi risparmiassi l'incomodo  di  tornare  a  Parigi  a 
      piedi;  sono  molto  stanco,  e siccome non ho pranzato tanto bene 
      quanto te, appena posso tenermi in piedi." 
      Il giovane rabbrividì a questa strana famigliarità. 
      "Ma infine" gli disse, "vediamo, che cosa volete?" 
      "Voglio che mi  lasci  salire  nella  tua  bella  carrozza,  e  mi 
      riconduca in città." 
      Andrea impallidì, ma non rispose. 
      "Oh,  mio Dio, sì" disse l'uomo dal fazzoletto rosso immergendo le 
      mani nelle tasche,  e guardando il giovane con occhi  provocatori, 
      "questa è un'idea che mi è venuta, capisci mio caro Benedetto?" 
      A  questo  nome,  il  giovine  rifletté  senza  dubbio,  perché si 
      avvicinò al groom, e gli disse: 
      "Quest'uomo fu effettivamente incaricato di una commissione di cui 
      deve rendermi  conto.  Andate  a  piedi  fino  alla  barriera;  là 
      prenderete una carrozza per non ritardare troppo." 
      Il servitore rimase sorpreso, e si allontanò. 
      "Lasciami almeno andare in un posto sicuro" disse Andrea. 
      "Oh,  in  quanto a questo,  io stesso ti condurrò in un bel posto" 
      disse l'uomo dal fazzoletto rosso. 
      E preso il cavallo per il morso,  condusse il tilbury in un  luogo 
      dove  era  effettivamente  impossibile  vederli così familiarmente 
      insieme. 
      "Oh,  no" disse,  "non è per la gloria di montare nella tua  bella 
      carrozza,  no,  è soltanto perché sono stanco, e poi perché voglio 
      parlare un po' d'affari con te." 
      "Su, salite" disse il giovane. 
      Peccato che non fosse giorno,  perché sarebbe stato curioso vedere 
      questo  malandrino,  seduto  con  tutto  comodo  sopra  i  cuscini 
      ricamati vicino al conduttore del tilbury. 
      Andrea spinse il cavallo fino all'ultima casa del villaggio  senza 
      dire  una  sola parola al compagno,  che sorrideva e conservava il 
      silenzio come  fosse  lieto  di  passeggiare  su  una  così  bella 
      carrozza.  Una  volta fuori d'Auteuil,  Andrea guardò intorno a sé 
      per assicurarsi che nessuno poteva vederli né sentirli,  e allora, 
      fermando  il  cavallo,  ed incrociando le braccia davanti all'uomo 
      dal fazzoletto rosso: 
      "A noi" disse. "Perché venite a disturbarmi nella mia carrozza?" 
      "Ma tu stesso, ragazzo mio, perché diffidi di me?" 
      "E in che modo ho diffidato di voi?" 
      "In che modo?  E lo domandi?  Ci lasciammo al ponte del  Varo,  mi 
      dicesti che andavi in Piemonte ed in Toscana,  e,  niente di tutto 
      questo, tu vieni a Parigi." 
      "Ed in che cosa vi dà fastidio questo?" 
      "In niente spero anzi che mi sia utile!" 
      "Oh oh" disse Andrea, "voi volete ricattarmi!" 
      "Andiamo, ecco che già cominciamo coi paroloni..." 
      "Il fatto è che avete torto, padron Caderousse, ve ne prevengo." 
      "Eh, mio Dio,  non t'incomodare...  Devi però sapere che cosa è la 
      sorte...  Ebbene,  la sventura rende gelosi. Io ti credevo in giro 
      per il Piemonte e  la  Toscana,  costretto  a  farti  facchino,  o 
      cicerone, ti compiangevo dal fondo del cuore come un figlio... Sai 
      che ti ho sempre considerato come un figlio..." 
      "Avanti, avanti..." 
      "Pazienta, dunque, polvere da cannone che sei!" 
      "Ne ho della pazienza. Orsù, terminate." 
      "Ti  vedo  passare dalla barriera Bonshommes con un groom,  con un 
      tilbury,  con abiti nuovi fiammanti...  E che?  hai forse scoperto 
      una miniera, o comprato qualche agente di cambio?" 
      "Per cui, come confessate, siete geloso?" 
      "No,   sono  contento,   tanto  contento  che  ho  voluto  fare  i 
      complimenti al mio piccolo;  ma siccome non ero  vestito  come  si 
      deve,  dato  il  tuo  nuovo  rango ho preso le mie cautele per non 
      comprometterti." 
      "Belle  cautele..."  disse  Andrea.   "Mi   fermate   davanti   al 
      domestico..." 
      "Che vuoi,  figlio mio? Ti fermo quando posso afferrarti... Tu hai 
      un  cavallo  molto  vivace,  un  tilbury  molto  leggero,   guizzi 
      naturalmente  come un'anguilla...  Se non ti avessi fermato questa 
      sera, correvo il rischio di non poterti più raggiungere." 
      "Vedete bene che non mi nascondo." 
      "Sei ben fortunato, ed io vorrei poter dire altrettanto;  ma io mi 
      nascondo,   senza   contare   che  avevo  timore  che  tu  non  mi 
      riconoscessi... Ma tu mi hai riconosciuto" aggiunse Caderousse con 
      un sinistro sorriso, "sei molto gentile." 
      "Vediamo" disse Andrea: "che vi abbisogna?" 
      "Ah,  non mi dai più del tu!  E' una cattiva cosa,  Benedetto,  un 
      vecchio compagno! Attento, perché diventerò esigente..." 
      Questa minaccia fece cadere la collera al giovane;  il vento della 
      prepotenza vi aveva soffiato sopra.  Egli  rimise  il  cavallo  al 
      trotto. 
      "E'  male  per te stesso,  Caderousse" disse,  "prendertela in tal 
      modo con un vecchio compagno, come dicevi tu stesso poco fa...  Tu 
      sei marsigliese, io sono..." 
      "Lo sai dunque, ora, chi sei?" 
      "No, ma sono stato allevato in Corsica, tu sei vecchio e testardo, 
      io sono giovane e puntiglioso... Fra gente come noi le minacce non 
      vanno bene, e tutto deve combinarsi all'amichevole. E' forse colpa 
      mia,  se  la  sorte,  che continua ad essere cattiva per te,  è al 
      contrario buona per me?" 
      "E' dunque buona la sorte? Non è dunque un groom a prestito, non è 
      un tilbury a prestito quelli  che  abbiamo?  Bene,  tanto  meglio" 
      disse Caderousse, con occhi che brillavano di cupidigia. 
      "Oh,  lo  vedi  bene,  e  lo  sai,  giacché mi fermi" disse Andrea 
      animandosi sempre più.  "Se avessi avuto un fazzoletto come il tuo 
      sulla testa, una giacca unta e lacera sulle spalle e stivali rotti 
      ai piedi non mi avresti riconosciuto." 
      "Vedi bene che ora mi disprezzi,  piccolo, e hai torto: adesso che 
      ti ho ritrovato,  niente m'impedisce d'essere vestito a nuovo come 
      un altro, visto che conosco il tuo buon cuore: se tu hai due abiti 
      me  ne  darai  uno...  Io ti davo la mia porzione di minestra e di 
      fagioli quando avevi troppa fame." 
      "E' vero" disse Andrea. 
      "Che appetito avevi! Hai sempre buon appetito?" 
      "Ma sì" disse Andrea ridendo. 
      "Come devi aver mangiato, da quel principe..." 
      "Non è un principe, ma soltanto un conte!" 
      "Un conte, ma ricco, eh?" 
      "Sì, ma non fidartene, è un signore che non ha l'aria del merlo." 
      "Mio Dio, sta' pur tranquillo! Non ho progetti sul tuo conte, e te 
      lo  lascerò  tutto  per  te  solo.   Ma"   soggiunse   Caderousse, 
      riprendendo  quel sinistro sorriso,  "bisogna dar qualche cosa per 
      questo... Capisci?" 
      "Vediamo, che ti occorre?" 
      "Credo che con cento franchi al mese.... vivrei..." 
      "Cento franchi?" 
      "Ma male, capisci bene... Mentre con..." 
      "Con..." 
      "Con centocinquanta franchi, sarei contentissimo." 
      "Eccotene duecento" disse Andrea. 
      E mise nelle mani di Caderousse dieci luigi d'oro. 
      "Bene" fece Caderousse. 
      "Presentati dal portinaio, il primo di ogni mese,  e ne ritroverai 
      altrettanti." 
      "Andiamo, ecco che ancora tu mi umili." 
      "E in che modo?" 
      "Mi  metti  in  rapporto con dei servitori...  Mentre,  vedi,  non 
      voglio avere a che fare che con te." 
      "E così sia, domanda di me il primo di tutti i mesi, almeno fino a 
      tanto che riceverò la mia rendita, e tu riceverai la tua." 
      "Andiamo, andiamo, vedo bene che non m'ero ingannato, sei un bravo 
      ragazzo,  ed è una benedizione quando la fortuna  arriva  a  gente 
      come te... Vediamo raccontami la tua bella avventura." 
      "Che bisogno hai di saperla?" domandò Cavalcanti. 
      "Hai anche della diffidenza?" 
      "Ebbene, ho ritrovato mio padre." 
      "Un padre vero?" 
      "Diavolo, fin che pagherà..." 
      "Tu lo crederai,  e lo onorerai;  giusto...  Come lo chiami questo 
      tuo padre?" 
      "Il maggiore Cavalcanti." 
      "Ed egli si contenta di te?" 
      "Fino al presente pare che gli basti." 
      "E chi ti ha fatto ritrovare questo padre?" 
      "Il conte di Montecristo." 
      "Quello dal quale esci?" 
      "Sì." 
      "Orsù dunque,  cerca di collocarmi presso  di  lui  come  un  gran 
      parente, giacché ne tieni l'agenzia." 
      "Sia, gli parlerò di te; ma frattanto tu che farai?" 
      "Sei troppo buono a preoccuparti di questo" disse Caderousse. 
      "Mi  sembra,  giacché  tu  prendi  interesse  a  me,  che io possa 
      prendere qualche informazione" replicò Andrea. 
      "E' giusto...  Prenderò in affitto una camera in una casa  onesta, 
      mi  coprirò  di  abiti  decenti,  mi  farò radere la barba tutti i 
      giorni,  e andrò a leggere i giornali al caffè.  La sera andrò  in 
      qualche  teatro,  ed  avrò l'aspetto di un fornaio in ritiro: è il 
      mio sogno prediletto." 
      "Va benissimo!  Se vorrai realizzare solo questi progetti e  sarai 
      saggio, tutto andrà a meraviglia." 
      "Ecco che ora mi fai da Bossuet!...  E tu, che diventerai? Pari di 
      Francia?" 
      "Eh! eh!" disse Andrea. "Chissà?" 
      "Il signor Cavalcanti forse è maggiore...  Ma  disgraziatamente  è 
      abolita l'eredità militare..." 
      "Non parliamo di politica,  Caderousse!...  Ed ora che hai ciò che 
      vuoi, e siamo arrivati, salta giù, e sparisci!" 
      "No. amico caro." 
      "Come no?" 
      "Ma rifletti dunque, piccolo mio: un fazzoletto rosso sulla testa, 
      quasi senza scarpe,  senza carte  d'identità,  e  dieci  napoleoni 
      d'oro in tasca,  senza calcolare ciò che c'era prima,  e che fanno 
      precisamente duecento  franchi,  sarei  infallibilmente  arrestato 
      alla barriera!  Allora,  per giustificarmi, sarei costretto a dire 
      che sei stato tu che mi hai dato questi dieci napoleoni...  Subito 
      informazioni,  interrogatori:  apprendono  che  ho lasciato Tolone 
      senza il congedo, e vengo scortato di brigata in brigata fino alla 
      spiaggia del Mediterraneo,  ritorno puramente e  semplicemente  il 
      numero  centosei...  Allora addio al mio sogno di somigliare ad un 
      fornaio  in   ritiro!   No,   figlio   mio,   preferisco   restare 
      onorevolmente nella capitale." 
      Andrea  aggrottò  la  fronte.  Era,  come si vantava,  una perfida 
      testa,  il figlio putativo del maggiore Cavalcanti.  Si  fermò  un 
      momento gettò uno sguardo rapido intorno a sé, e quando terminò di 
      compiere  il  giro  investigatore,  la mano discese innocentemente 
      nella tasca,  dove  cominciò  ad  accarezzare  la  sicura  di  una 
      pistola.  Ma nel tempo stesso Caderousse, che non perdeva di vista 
      il compagno, passava le mani dietro il dorso, ed apriva dolcemente 
      un lungo coltello spagnolo che portava indosso per ogni evenienza. 
      I due  amici,  come  si  vede,  erano  degni  d'intendersi,  e  si 
      compresero:  la  mano  di  Andrea  uscì  inoffensiva dalla tasca e 
      risali fino ai baffi che accarezzò per qualche tempo. 
      "Buon Caderousse" disse, "dunque stai contento!" 
      "Farò tutto il possibile per esserlo"  replicò  l'albergatore  del 
      Ponte di Gard ripiegando la lama del coltello. 
      "Rientriamo  dunque  a  Parigi.  Ma  come  vuoi  fare a passare la 
      barriera senza destare sospetti?  Mi sembra che  abbigliato  così, 
      rischi più in carrozza che a piedi." 
      "Aspetta" disse Caderousse, "e vedrai..." 
      Prese la pellegrina ad alto colletto, che il groom allontanato dal 
      tilbury aveva lasciata al suo posto,  e se la mise indosso, quindi 
      il cappello di  Cavalcanti,  e  se  lo  pose  sulla  testa:  aveva 
      l'aspetto di un domestico di buona famiglia. 
      "Ed io" disse Andrea, "resterò senza niente in testa?" 
      "Poh!"  fece  Caderousse.  "Tira  tanto  vento che ben può esserti 
      caduto il cappello." 
      "Andiamo dunque" disse Andrea, "e finiamola." 
      "E chi è che ti ferma?" disse Caderousse. "Non io, spero?" 
      "Zitto!" fece Cavalcanti. 
      Passarono la barriera senza alcun  accidente.  Alla  prima  strada 
      traversa, Andrea fermò il cavallo, e Caderousse balzò a terra. 
      "Suvvia" disse Andrea,  "il mantello del mio domestico,  ed il mio 
      cappello..." 
      "Amico" sibilò  Caderousse,  "non  vorrai  certamente  che  io  mi 
      raffreddi." 
      "Ma io?" 
      "Tu   sei   giovane,   mentre   io  comincio  a  farmi  vecchio... 
      Arrivederci, Benedetto." 
      E s'internò nel viottolo e sparì. 
      "Ahimè!" disse Andrea mandando un sospiro.  "Non si  potrà  dunque 
      mai essere completamente felice in questo mondo?" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 64. 
                               SCENA CONIUGALE. 
 
 
      Sulla  piazza di Luigi Quindicesimo i tre giovani si erano divisi: 
      Morrel aveva preso per i boulevards,  Chateau-Renaud aveva voltato 
      sul  ponte  di  Grenelle,  e  Debray aveva seguito la via lungo il 
      fiume. 
      Morrel e Chateau-Renaud,  secondo ogni probabilità,  raggiunsero i 
      "domestici focolari",  come si dice dalla tribuna delle Camere nei 
      discorsi  eloquenti,  ed  al  teatro  della  rue  Richelieu  nelle 
      commedie bene scritte; ma non fece lo stesso Debray. 
      Giunto presso il Louvre, voltò a sinistra, traversò il Carrousel a 
      gran trotto, infilò per la rue Saint-Roch, sboccò per quella della 
      Michodière,  e giunse alla porta della signora Danglars al momento 
      in cui il landau  del  signor  Villefort,  dopo  aver  deposto  il 
      procuratore  del  re  e  la  moglie nel Faubourg Saint-Honoré,  si 
      fermava per fare scendere la baronessa alla sua abitazione. 
      Debray,  come familiare nella casa,  entrò nel cortile,  gettò  le 
      redini  nelle  mani  di  uno stalliere,  e ritornò alla portiera a 
      ricevere la signora Danglars,  alla quale  offrì  il  braccio  per 
      ricondurla nei suoi appartamenti. 
      "Che  avete dunque,  Erminia" disse Debray,  "e perché vi sentiste 
      tanto male al racconto di questa storia,  o piuttosto  favola  del 
      conte?" 
      "Perché  dopo  il pranzo ero terribilmente indisposta,  amico mio" 
      disse la baronessa. 
      "Ma no, Erminia" riprese Debray, "non mi farete credere questo; al 
      contrario,  eravate in ottime condizioni quando siete  giunta  dal 
      conte.  Il  signor Danglars era alquanto sguaiato,  è vero,  ma so 
      quanto caso facciate del  suo  malumore...  Qualcuno  deve  avervi 
      disgustata.  Raccontate, sapete bene ch'io non soffrirò mai che vi 
      sia fatta una qualche impertinenza." 
      "V'ingannate,   Luciano,   ve  ne  assicuro"  riprese  la  signora 
      Danglars, "e le cose sono come vi ho detto: fu il cattivo umore di 
      cui non vi siete accorto, e di cui non vi ho parlato, credendo non 
      ne valesse la pena." 
      Era  evidente  che la signora Danglars si trovava sotto l'influsso 
      di una di quelle irritazioni nervose,  di cui le donne spesso  non 
      sanno  rendersi  conto,  o,  come  aveva indovinato Debray,  aveva 
      provato qualche emozione nascosta che  non  voleva  confessare  ad 
      alcuno. Da uomo assuefatto a riconoscere i malumori come uno degli 
      elementi   della  vita  femminile,   non  volle  insistere  oltre, 
      aspettando il momento opportuno o di una nuova richiesta, o di una 
      confessione "motu proprio". 
      Alla porta della camera la baronessa  incontrò  Cornelia,  la  sua 
      cameriera personale. 
      "Che fa mia figlia?" domandò la signora Danglars. 
      "Ha  studiato tutta la sera" rispose Cornelia,  "quindi è andata a 
      letto." 
      "Mi sembrava d'avere udito suonare il pianoforte..." 
      "E' la signorina Luigia d'Armilly che suona, mentre la signorina è 
      a letto." 
      "Bene" disse la signora Danglars, "venite a spogliarmi." 
      Entrarono nella camera da letto,  Debray si stese  sopra  un  gran 
      canapè,  e  la  signora Danglars passò con Cornelia nel salotto di 
      toilette. 
      "Mio  caro  Luciano"  disse  la  signora  Danglars  attraverso  la 
      portiera del salottino, "vi lamentate sempre perché Eugenia non vi 
      rivolge la parola." 
      "Signora" disse Luciano, scherzando col cagnolino della baronessa, 
      che,  riconoscendo  in  lui l'amico di casa,  aveva l'abitudine di 
      fargli  mille  moine,   "non  sono  il  solo  che  faccia   simili 
      rimproveri, e credo di aver inteso Morcerf lagnarsi l'altro giorno 
      con  voi,  per  non poter cavare una sola parola di bocca alla sua 
      fidanzata." 
      "E' vero" disse la signora Danglars,  "ma credo che una di  queste 
      mattine  cambierà  tutto  ciò,  e  voi vedrete Eugenia entrare nel 
      vostro ufficio." 
      "Nel mio ufficio! Da me?" 
      "Vale a dire, in quello del ministro." 
      "E a che fare?" 
      "Per chiedervi una scrittura all'Opera. In verità non ho mai visto 
      un tale fanatismo per la musica...  E' ridicolo per una persona di 
      buona famiglia!" 
      Debray sorrise. 
      "E va bene" disse,  "venga col consenso del barone e del vostro, e 
      noi le faremo questa scrittura,  e  procureremo  sia  secondo  suo 
      merito,  quantunque  troppo  poveri per pagare come si conviene un 
      merito come il suo." 
      "Andate, Cornelia" disse la signora Danglars,  "non ho più bisogno 
      di voi." 
      Cornelia  uscì,  ed  un momento dopo la signora Danglars lasciò la 
      toilette con un elegante abito da camera, e venne a sedersi presso 
      Debray. Luciano la guardò per un momento in silenzio poi disse: 
      "Vediamo,   Erminia,   rispondete   francamente,    qualche   cosa 
      v'importuna, non è vero?" 
      "Nulla" ripeté la baronessa. 
      E  tuttavia  siccome  si  sentiva  soffocare,  si  alzò,  cercò di 
      sospirare, e andò a guardarsi in uno specchio. 
      "Sono da far paura questa sera" disse. 
      Debray  si  alzò  sorridendo  per  rasserenare  la  baronessa   su 
      quell'argomento,  quando d'improvviso la porta si aprì, e comparve 
      il signor Danglars, Debray si rimise a sedere. 
      Al rumore della porta la signora Danglars si voltò,  e guardò  suo 
      marito con una meraviglia, che non si curò di dissimulare. 
      "Buona  sera,  signora"  disse il banchiere,  "buona sera,  signor 
      Debray." 
      La baronessa credette senza dubbio che  quella  visita  imprevista 
      significasse  il  desiderio di riparare alle amare parole ch'erano 
      sfuggite al barone nella giornata. 
      Assunse  un'aria  dignitosa,  e  voltandosi  verso  Luciano  senza 
      rispondere a suo marito: 
      "Leggetemi dunque qualche cosa, signor Debray." 
      Debray  che  per  quell'improvvisata  si  era sulle prime alquanto 
      inquietato, si rimise alla calma della baronessa,  e stese la mano 
      verso il libro indicato, in mezzo al quale stava un tagliacarte di 
      tartaruga incrostato d'oro. 
      "Scusate"  disse  il  banchiere,  "ma  vi stancherete,  baronessa, 
      vegliando ad ora così tarda: sono le undici,  ed il signor  Debray 
      abita molto lontano di qui." 
      Debray  fu  colto  da stupore,  non perché il tono di Danglars non 
      fosse tranquillo e gentile, ma perché dietro quella calma e quella 
      gentilezza, si scorgeva una certa velleità, del tutto insolita, di 
      contrariare la volontà della moglie. 
      La baronessa pure fu sorpresa e manifestò la  sua  meraviglia  con 
      uno  sguardo che senza dubbio avrebbe dato a pensare a suo marito, 
      se questi non avesse avuto  gli  occhi  su  un  giornale,  su  cui 
      cercava  il  listino  dei titoli.  Questo sguardo tanto fiero andò 
      quindi a vuoto e non fece il suo effetto. 
      "Signor Luciano" disse la baronessa,  "sappiate che non ho la  più 
      piccola  volontà  di  dormire,  che  ho  mille cose da raccontarvi 
      questa sera,  e che voi passerete la notte  ascoltandomi,  doveste 
      pur dormire in piedi." 
      "Sono ai vostri ordini" rispose flemmaticamente Luciano. 
      "Mio  caro signor Debray" disse a sua volta il banchiere,  "non vi 
      affaticate,  vi prego,  ad ascoltare questa notte le follie  della 
      signora  Danglars,  perché  le  potrete ascoltare ugualmente anche 
      domani... Questa sera è per me, me la riserbo, e la consacrerò, se 
      permettete, per parlare di gravi interessi con mia moglie." 
      Questa volta il colpo era tanto ben diretto,  e cadeva come piombo 
      in  modo che ne rimasero storditi la baronessa e Luciano: entrambi 
      s'interrogarono collo sguardo come per chiedersi  aiuto  reciproco 
      contro quest'aggressione; ma l'irresistibile potere del padrone di 
      casa trionfò, e la forza rimase al marito. 
      "Non  vogliate  però  credere  che io vi scacci,  mio caro Debray" 
      continuò Danglars, "no, niente affatto; una circostanza imprevista 
      mi obbliga questa sera ad avere un colloquio con la baronessa, ciò 
      accade abbastanza di raro perché non si abbiano risentimenti." 
      Debray balbettò qualche  parola,  salutò  ed  uscì  urtando  negli 
      angoli, come Nathan nell'Atalia. 
      "E'  incredibile"  disse  quando fu chiusa la porta,  "come questi 
      mariti,  che pur troviamo tanto ridicoli,  prendano facilmente  il 
      sopravvento su noi!" 
      Partito  Luciano,  Danglars  s'installò  nel suo posto sul canapè, 
      chiuse il libro rimasto aperto,  e prendendo un atteggiamento  che 
      voleva essere disinvolto,  continuò a scherzare col cagnolino.  Ma 
      siccome il cane,  non avendo per lui la stessa  simpatia  che  per 
      Luciano,  lo voleva mordere,  lo prese per la collottola e lo posò 
      dall'altra parte della stanza sopra una poltrona. 
      L'animale gettò un guaito,  ma poi si appiattì dietro un  cuscino, 
      e,  stupefatto  di  questo  trattamento  al quale non era avvezzo, 
      stette muto e immoto. 
      "Sapete,  signore" disse la baronessa senza  batter  ciglio,  "che 
      fate dei progressi!  Ordinariamente non eravate che rozzo,  questa 
      sera siete brutale." 
      "E perché questa sera  sono  di  cattivo  umore  più  del  solito" 
      rispose Danglars. 
      Erminia  guardò  il  banchiere  con  sommo sdegno;  ordinariamente 
      queste occhiate esasperavano l'orgoglioso Danglars, ma questa sera 
      sembrava appena farvi attenzione. 
      "E  che  importa  a  me  il  vostro  cattivo  umore?"  rispose  la 
      baronessa,  irritata dall'impassibilità di suo marito.  "Tali cose 
      mi riguardano forse?  Chiudete i vostri cattivi umori  nel  vostro 
      appartamento,  o  lasciateli sui vostri banchi di pegno,  e poiché 
      avete dei commessi che pagate,  sfogate su loro i  vostri  cattivi 
      umori." 
      "No"  rispose Danglars,  "andate fuori strada coi vostri consigli, 
      signora, e non li seguirò. I miei banchi sono il mio Pactolo, come 
      dice, credo, Desmoutiers,  e non voglio né ostacolare il lavoro né 
      turbarne la quiete; i miei commessi sono uomini onesti, che mi fan 
      guadagnare  fior di quattrini,  e che pago al di sotto di quel che 
      meritano. Non posso dunque essere in collera con loro. Sono invece 
      in collera  con  le  persone  che  mangiano  i  miei  pranzi,  che 
      stroppiano i miei cavalli e rovinano il mio bilancio." 
      "E chi sono dunque queste persone che rovinano il vostro bilancio? 
      Spiegatevi più chiaramente, signore, ve ne prego." 
      "Oh  state  tranquilla  se  parlo  per enigmi,  non conto di farvi 
      cercare a lungo il significato delle mie parole" riprese Danglars. 
      "Le persone che rovinano  il  mio  bilancio  sono  quelle  che  vi 
      rapinano settecento mila lire in un ora." 
      "Non  vi  capisco"  disse  la  baronessa cercando di nascondere la 
      forte emozione della voce, e il rossore del suo viso. 
      "Voi al contrario mi capite  benissimo"  disse  Danglars,  "ma  se 
      continua  la  vostra  cattiva  volontà,  vi  dirò  che  ho perduto 
      settecento mila franchi sul prestito spagnolo." 
      "Ah!" disse  la  baronessa  beffeggiandolo.  "Sono  io  forse  che 
      rendete responsabile di questa perdita?" 
      "E perché no?" 
      "E colpa mia se avete perduto settecento mila franchi?" 
      "In ogni modo non fu mia." 
      "Una  volta per sempre,  signore" riprese aspramente la baronessa, 
      "vi ho detto di non  parlarmi  mai  di  bilancio...  Questo  è  un 
      linguaggio che non ho imparato né presso i miei parenti,  né nella 
      casa del mio primo marito." 
      "Lo credo bene" disse Danglars,  "non avevano un soldo né gli uni, 
      né l'altro!" 
      "Ragione  di  più  che  non abbia potuto imparare da essi il gergo 
      della banca,  che qui mi strazia le orecchie  dalla  mattina  alla 
      sera!  Questo  rumore  di scudi,  che si contano e ricontano,  m'è 
      odioso,  e non so se vi sia suono più disgustoso di quello,  se si 
      eccettua la vostra voce." 
      "In  verità"  disse Danglars,  "mi riesce strano!  Credevo che voi 
      pigliaste interesse alle mie operazioni!" 
      "Io! E chi ha potuto farvi credere simile sciocchezza?" 
      "Voi stessa." 
      "Ah, questa poi!" 
      "Senza dubbio." 
      "Vorrei proprio che mi faceste sapere in quale occasione..." 
      "Oh, mio Dio, è cosa facile.  Nel febbraio scorso mi avete parlato 
      per  prima  dei  fondi d'Haiti...  Avete sognato che un bastimento 
      entrava nel porto di Le Havre portando la notizia che un pagamento 
      che si credeva  rinviato  alle  calende,  si  sarebbe  effettuato: 
      conoscendo la lucidità del vostro senno feci dunque comprare sotto 
      mano tutte le polizze che ho potuto trovare del debito d'Haiti, ed 
      ho  guadagnato  quattrocento  mila franchi di cui ve ne sono stati 
      regolarmente rimessi cento.  Voi ne  avete  fatto  ciò  che  avete 
      voluto,  e  questo  non mi riguarda.  Nel mese di marzo si parlava 
      della concessione di una ferrovia.  Si  presentavano  tre  società 
      offrendo eguali garanzie.  Voi mi diceste che il vostro istinto (e 
      quantunque vi crediate estranea alle speculazioni, credo invece il 
      vostro istinto  molto  sviluppato  in  certe  materie)  vi  faceva 
      credere che il privilegio sarebbe stato accordato alla società del 
      mezzogiorno. Io mi sono fatto comprare i due terzi delle azioni di 
      questa  società.  Il  privilegio  le fu in realtà accordato;  come 
      avevo previsto,  le azioni hanno triplicato il loro valore,  ed io 
      ho  incassato  un  milione,  sul  quale  vi  sono stati retribuiti 
      duecentocinquanta  mila  franchi.   Come  avete  impiegati  questi 
      duecentocinquanta mila franchi? Ciò non mi riguarda affatto." 
      "E  a  cosa volete parare signore?" gridò la baronessa fremendo di 
      dispetto e d'impazienza. 
      "Pazienza, signora, ci arriverò." 
      "E' una fortuna!" 
      "In aprile foste a pranzo dal ministro, si parlò della Spagna, voi 
      ascoltaste una segreta conversazione;  si trattava di vari affari; 
      io  comprai  dei fondi spagnoli.  L'espulsione si effettuò,  ed il 
      giorno in cui Carlo  Quinto  ripassò  la  Bidassoa,  io  guadagnai 
      seicentomila franchi,  e vi furono pagati mille scudi;  essi erano 
      vostri, e ne avete disposto a seconda della vostra fantasia, ed io 
      non ve ne domando conto. Ma non è meno vero che voi avete ricevuto 
      quest'anno cinquecentomila lire..." 
      "Ebbene, il seguito signore?" 
      "Ah,  sì,  il seguito!  E' proprio in seguito che la cosa  diventa 
      scottante..." 
      "Voi avete certi modi di parlare... in verità..." 
      "Richiamano  le  mie  idee,  e  ciò  è  quanto mi abbisogna...  In 
      seguito,  fu tre giorni fa che questo  accadde...  Tre  giorni  fa 
      dunque,  avete  parlato  di  politica  al  signor  Debray ed avete 
      creduto di capire dalle sue parole che Don Carlo era rientrato  in 
      Spagna:  allora  io  vendo le mie cartelle,  la notizia si spande, 
      sorge un timor panico, non vendo più,  regalo: l'indomani si viene 
      a sapere che la notizia era falsa, e sopra questa falsa notizia ho 
      perduto settecento mila franchi." 
      "Ebbene?" 
      "Suvvia,  poiché  vi  regalo un quarto quando guadagno,  mi dovete 
      dunque un quarto  quando  perdo;  il  quarto  di  settecento  mila 
      franchi è centosessantacinque mila franchi." 
      "Ma questa è una stravaganza,  e non vedo come potete mischiare il 
      nome di Debray a tutta questa storia." 
      "Perché, se non aveste per caso i centosessantacinque mila franchi 
      che reclamo, li potreste prendere in prestito dai vostri amici, ed 
      il signor Debray è uno di loro." 
      "Finiamola!" gridò la baronessa. 
      "Oh, signora, non facciamo gesti, non facciamo drammi moderni,  se 
      no  mi  sforzerete  a  dirvi  che  di  qui  vedo  il signor Debray 
      sogghignare vicino ai cinquecento mila franchi che voi  gli  avete 
      contati  quest'anno,  e dire a se stesso che ha finalmente trovato 
      ciò che non hanno trovato i più esperti giocatori,  e vale a  dire 
      una  roulette  su  cui  si guadagna senza puntare,  e non si perde 
      quando si punta." 
      La baronessa non si contenne. 
      "Miserabile!" disse.  "Osereste dire che non sapevate ciò  di  cui 
      ora mi fate un rimprovero?" 
      "Non vi dico che sapevo,  né che non sapevo...  Vi dico: osservate 
      la mia condotta da quattro anni che siete mia moglie, e che io non 
      sono più vostro  marito,  e  vedrete  se  fu  sempre  conseguente. 
      Qualche  tempo  prima  della  nostra  rottura,   avete  desiderato 
      studiare musica con quel famoso baritono che ebbe  tanto  successo 
      nel teatro italiano;  io volli studiare il ballo con quella famosa 
      ballerina che fece tanto chiasso a Londra: ciò mi costò, tanto per 
      voi che per me,  circa cento mila franchi...  Non ho  detto  nulla 
      perché ci vuole l'armonia nelle famiglie: centomila franchi perché 
      la moglie impari a fondo la musica,  ed il marito il ballo,  non è 
      molto caro.  Ben presto eccovi disgustata del  canto,  e  vi  vien 
      voglia  di  studiare la diplomazia con un segretario del ministro; 
      vi lascio studiare...  D'altra parte,  non è affar mio,  visto che 
      pagate  di tasca vostra!  Ma ora m'accorgo che avete preso di mira 
      la mia,  e che il vostro  studio  mi  può  costare  settecentomila 
      franchi il mese... Alto là, signora, la cosa non può andare avanti 
      così,  o  il  diplomatico  darà le sue lezioni gratuite,  ed io lo 
      tollererò,  ovvero non metterà più piede in  casa  mia!  Ci  siamo 
      capiti, signora?" 
      "Oh,  questo è troppo!" gridò Erminia soffocata. "Voi andate al di 
      là dell'ignobile!" 
      "Ma" disse Danglars,  "vedo con piacere che non vi  siete  fermata 
      qua,  e che avete volontariamente obbedito all'assioma del codice: 
      "La moglie deve seguire il marito"." 
      "Ingiurie!" 
      "Avete ragione;  ma ragioniamo freddamente.  Io non  mi  sono  mai 
      mischiato  nei  vostri  affari che per il vostro bene;  farete voi 
      pure altrettanto. La mia cassa, voi dite che non vi riguarda? Sia, 
      ma operate colla vostra,  e non mi  empite,  né  vuotate  la  mia. 
      D'altra  parte,  chi  sa  che  ciò  non  sia  un colpo di stiletto 
      politico?  che il ministro furioso di vedermi  all'opposizione,  e 
      geloso delle simpatie popolari che suscito,  non se la intenda col 
      signor Debray per rovinarmi?" 
      "E come può essere possibile?" 
      "Chi ha mai visto una notizia telegrafica  falsa,  cioè  il  quasi 
      impossibile, dei segnali diversi dati dagli ultimi due uffici? Ciò 
      senza dubbio è stato fatto espressamente per me." 
      "Signore" disse più umilmente la baronessa,  "voi non ignorate che 
      quest'impiegato è stato cacciato,  e  sarebbe  stato  chiamato  in 
      giudizio se non si fosse salvato con la fuga,  il che prova la sua 
      follia, o la sua reità... 
      "Quest'è un errore." 
      "Sì,  che ha fatto ridere gli stupidi,  che ha fatto  passare  una 
      cattiva  notte  al  ministero,  che ha fatto coprire di nero molta 
      carta ai segretari di Stato,  ma che  a  me  costa  settecentomila 
      franchi." 
      "Ma,  signore"  riprese  d'improvviso  Erminia,  "poiché tutto ciò 
      deriva, a quanto sembra, dal signor Debray, perché invece di dirlo 
      a lui direttamente, lo dite a me?" 
      "Conosco forse il signor Debray,  io?  Lo voglio forse  conoscere? 
      voglio forse sapere se dà dei consigli?  li seguo forse? arrischio 
      io forse? Voi fate tutto questo, e non io!" 
      "Mi sembra però, che dal momento che ne approfittate..." 
      Danglars si strinse nelle spalle. 
      "Sono assai pazze creature queste donne che si credono geni perché 
      hanno saputo condurre una decina d'intrighi in modo da non  essere 
      esposte  alle chiacchiere di tutta Parigi!  Ma pensate dunque,  se 
      aveste nascosto le vostre sregolatezze allo stesso vostro  marito, 
      che è all'abbicì dell'arte, perché i mariti non vogliono vedere... 
      Sareste  stata  una  pallida  copia  di ciò che sono la metà delle 
      vostre amiche,  le donne di mondo.  Ma non è così per  me.  Io  ho 
      veduto,  ed ho veduto sempre,  in sedici anni circa,  voi forse mi 
      avrete nascosto un pensiero,  ma non un passo,  non un  atto,  uno 
      sbaglio. Mentre vi applaudivate della vostra furberia, e credevate 
      fermamente d'ingannarmi,  che cosa ne risultò? Che grazie alla mia 
      pretesa ignoranza, dal signor Villefort fino al signor Debray, non 
      vi fu mai uno dei vostri amici, che non tremasse davanti a me; non 
      ve ne fu uno che non mi trattasse da padrone di  casa,  mia  unica 
      pretesa  verso  di voi finalmente non ve ne fu uno che abbia osato 
      dirvi di me ciò che vi dico io stesso questa sera.  Io vi permetto 
      di  rendermi  odioso,  ma  v'impedirò di rendermi ridicolo,  ed in 
      particolare vi proibisco positivamente,  e sopra ogni altra  cosa, 
      di rovinarmi." 
      Fino  al  momento  in  cui  fu pronunziato il nome di Villefort la 
      baronessa aveva sostenuta una ferma apparenza;  ma a  questo  nome 
      era impallidita, ed alzandosi come mossa da una molla, aveva stese 
      le braccia come per scongiurare una apparizione, e fatti tre passi 
      verso suo marito,  come per strappargli quel segreto a lui ignoto, 
      ma che forse, per qualche odioso secondo fine,  come presso a poco 
      erano  tutti i calcoli di Danglars,  non voleva lasciarsi sfuggire 
      completamente. 
      "Il signor Villefort! Che significa ciò?" disse la baronessa. 
      "Vuol significare" riprese Danglars,  "che il signor de  Nargonne, 
      vostro primo marito,  non essendo né un filosofo, né un banchiere, 
      e forse essendo l'uno e l'altro,  e vedendo  che  non  vi  era  da 
      cavare  alcun  partito  da  un  procuratore  del  re,  è morto dal 
      dispiacere e dalla collera di  avervi  ritrovata  incinta  di  sei 
      mesi,  dopo nove mesi di lontananza...  Ma io sono troppo brutale, 
      non solamente lo so,  ma me ne vanto;  è uno dei  miei  espedienti 
      nelle  mie speculazioni di commercio...  Perché invece di uccidere 
      si fece uccidere?  Perché non aveva un bilancio da salvare,  ma io 
      mi  devo  conservare  per il mio bilancio.  Il signor Debray,  mio 
      socio,  mi ha fatto perdere  settecento  mila  franchi:  che  egli 
      sopporti  la sua porzione di perdita,  e noi continueremo i nostri 
      affari; se no,  si dichiari fallito per questi centosessantacinque 
      mila franchi, e sparisca... Eh, mio Dio, è un grazioso giovane, lo 
      so,  quando le sue notizie sono esatte;  ma quando non lo sono, ve 
      ne sono cinquanta al mondo che valgono più di lui!" 
      La signora Danglars era atterrita,  eppure fece un estremo  sforzo 
      per  rispondere a questo ultimo assalto.  Ma cadde sopra un divano 
      pensando a Villefort, alla scena del pranzo, a quella strana serie 
      di disgrazie che da qualche giorno  piombavano  una  dopo  l'altra 
      sulla  sua  casa,  e convertivano in scandalosi litigi la perfetta 
      quiete della sua famiglia. 
      Danglars non la guardò neppure,  quantunque lei facesse tutto quel 
      che  poteva  per  svenire.  Aprì  la  porta  della camera da letto 
      senz'aggiungere altra parola,  e ritornò nel suo appartamento.  Di 
      modo  che la signora Danglars,  rinvenendo dal suo semisvenimento, 
      poté credere che aveva soltanto fatto un cattivo sogno. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 65. 
                            DISEGNI DI MATRIMONIO. 
 
 
      Il giorno seguente,  nell'ora che Debray era solito scegliere  per 
      venire a fare una piccola visita alla signora Danglars nell'andare 
      al suo ufficio, il suo coupé non apparve nel cortile. 
      A quell'ora,  cioè mezz'ora dopo mezzogiorno,  la signora Danglars 
      ordinò la sua carrozza ed uscì; Danglars,  posto dietro una tenda, 
      aveva  spiato  questa  uscita  che  s'aspettava.   Dette  l'ordine 
      d'essere avvertito appena fosse ritornata la signora;  ma alle due 
      non era ancora rientrata. 
      Allora,  chiesta la sua carrozza,  si portò alla Camera, e si fece 
      inscrivere per parlare contro il "preventivo delle spese". 
      Dal mezzogiorno alle due,  Danglars era rimasto  nel  suo  ufficio 
      dissigillando dispacci,  e diventando sempre più tetro, ammassando 
      cifre,  e ricevendo visite,  fra  le  altre  quella  del  maggiore 
      Cavalcanti, che si presentò all'ora annunciata il giorno prima per 
      concludere il suo affare col banchiere. 
      Ritornando dalla Camera,  Danglars,  che aveva dati molti segni di 
      grande agitazione durante la seduta,  e che soprattutto era  stato 
      più  acido  che  mai contro il ministero,  risalì in carrozza,  ed 
      ordinò al cocchiere di condurlo all'ingresso degli  Champs-Elysées 
      al numero 30. 
      Montecristo era in casa, soltanto aspettava una persona, e pregava 
      Danglars di attenderlo un momento nel salone.  Mentre il banchiere 
      aspettava,  la porta si aprì e vide entrare  un  uomo  vestito  da 
      abate che, invece d'aspettare come lui, più familiare senza dubbio 
      alla casa, lo salutò, ed entrando nell'interno degli appartamenti, 
      sparì. 
      Un  momento dopo,  la porta per la quale era entrato il prete,  si 
      riaprì e comparve Montecristo. 
      "Mi scusi" disse,  "caro barone,  ma uno  dei  miei  buoni  amici, 
      l'abate Busoni, che avete potuto veder passare, è giunto a Parigi. 
      Era molto tempo che eravamo divisi,  e non ho avuto il coraggio di 
      lasciarlo subito...  Spero perciò che mi scuserete di avervi fatto 
      aspettare." 
      "Come?"  disse  Danglars.  "E'  una cosa naturale!  Sono io che ho 
      scelto male il momento. e mi ritiro." 
      "Niente affatto, anzi, al contrario, sedetevi. Ma,  buon Dio!  Voi 
      avete  un  aspetto  molto pensieroso,  in verità mi spaventate: un 
      capitalista afflitto è come una cometa,  presagisce sempre qualche 
      gran disgrazia al mondo." 
      "Eh,  mio  caro signore,  la cattiva fortuna pesa su me da qualche 
      giorno, e non ricevo che sinistre notizie!" 
      "Mio Dio! Avete forse avuto qualche altra perdita in borsa?" 
      "No,  ne sono  guarito,  almeno  per  qualche  giorno.  Si  tratta 
      semplicemente di un fallimento a Trieste." 
      "Davvero? Il banchiere fallito sarebbe fosse Jacopo Manfredi?" 
      "Precisamente!  Un  uomo  che  ogni anno,  non so da quanto tempo, 
      faceva affari con me per otto o novecento mila  franchi.  Non  mai 
      uno  sbaglio,  un ritardo,  un uomo dabbene che pagava...  come un 
      principe... che paga. Mi metto in credito di un milione con lui ed 
      il  mio  diavolo  non  vuole  che  Jacopo  Manfredi   sospenda   i 
      pagamenti?" 
      "Davvero?" 
      "E'  una  fatalità  inaudita.  Faccio  una  tratta  sopra  lui per 
      seicentomila lire che ritornano senz'essere pagate,  e di più sono 
      ancora pagabili alla fine del corrente mese dal suo corrispondente 
      di   Parigi:  siamo  al  30,   mando  a  riscuoterle...   sì!   il 
      corrispondente è sparito! Col mio affare di Spagna, fa un bel fine 
      di mese..." 
      "Ma è stata davvero una perdita il vostro affare di Spagna?" 
      "Nient'altro che settecento mila franchi fuori cassa." 
      "Come diavolo avete mai  fatto  un  simile  errore,  voi,  vecchio 
      conoscitore del mestiere?" 
      "Incredibile!  E'  stata  colpa di mia moglie.  Ha sognato che Don 
      Carlo era tornato in Spagna, e crede ai sogni. E' magnetismo, dice 
      lei,  e  quando  sogna  una  cosa,  questa  cosa,  assicura,  deve 
      infallibilmente accadere.  Su questa convinzione io le permetto di 
      arrischiare;  lei ha la sua cassetta ed il suo agente  di  cambio, 
      perde...  E'  vero  che non è denaro mio,  ma suo,  quello con cui 
      rischia,  ma non importa.  Capirete che quando  escono  settecento 
      mila  franchi  dalla  cassetta della moglie,  il marito ne patisce 
      sempre un poco. Come, non lo sapevate?  la cosa ha fatto un enorme 
      rumore..." 
      "E'  vero,  ne  avevo  inteso  parlare,  ma  non  ne  conoscevo  i 
      particolari; e poi non si può essere più ignorante di me in questi 
      affari di borsa." 
      "E voi non rischiate mai?" 
      "Io? e come volete che arrischi se ho già tanti guai nel tenere in 
      piedi le mie rendite?  Sarei costretto oltre il mio intendente,  a 
      prendere un commesso ed un cassiere.  Ma a proposito di Spagna, mi 
      sembra che la baronessa non avesse del tutto sognato il ritorno di 
      Don Carlo.  I giornali non hanno  detto  qualche  cosa  su  questo 
      argomento?" 
      "Voi dunque credete ai giornali!" 
      "Io?  Niente affatto!  Ma mi sembrava che questo onesto "Messager" 
      facesse eccezione alla regola e non annunziasse che notizie certe, 
      le notizie telegrafiche." 
      "Ecco ciò che  è  inesplicabile"  riprese  Danglars.  "Appunto  il 
      ritorno di Don Carlo era una notizia telegrafica." 
      "Di modo che" disse Montecristo,  "in questo mese perdete circa un 
      milione e settecento mila franchi." 
      "Non circa ma è proprio la cifra che perdo." 
      "Diavolo,  per una  fortuna  di  terz'ordine"  disse  Montecristo, 
      "questo è un brutto colpo." 
      "Di terz'ordine?" disse Danglars, "che diavolo intendete dire?" 
      "Senza  dubbio"  continuò Montecristo.  "Io divido i ricchi in tre 
      categorie: fortune di primo ordine,  fortune  di  secondo  ordine, 
      fortune  di  terzo  ordine.  Chiamo  di primo ordine quelle che si 
      compongono di tesori che si hanno sotto  le  mani,  le  terre,  le 
      miniere, le rendite sui grandi Stati come la Francia, l'Austria, e 
      l'Inghilterra,   purché  questi  tesori,  queste  miniere,  queste 
      rendite formino un totale  di  un  centinaio  di  milioni;  chiamo 
      fortune di second'ordine le imprese manifatturiere,  le imprese di 
      associazione,  i vice-reami i principati,  che non  sorpassano  un 
      milione  e  centomila  franchi  di  rendita,  il tutto formante un 
      capitale di un cinquanta milioni, infine,  chiamo fortune di terzo 
      ordine  i  capitali fruttiferi per interessi composti,  i guadagni 
      dipendenti dall'altrui volontà,  o dalle combinazioni della sorte, 
      che  un fallimento danneggia e una notizia telegrafica rovina;  le 
      banche,  le speculazioni  eventuali  le  operazioni  sottomesse  a 
      quelle combinazioni della fatalità, che si potrebbe chiamare forza 
      sotterranea,  paragonandola alla maggiore che è la forza naturale, 
      il tutto formante un capitale fittizio,  o reale  di  un  quindici 
      milioni circa. Non è questa la vostra posizione?" 
      "Ma diavolo, sì" rispose Danglars. 
      "Ne  risulta  che,   con  sei  fine  mese  come  questo"  continuò 
      Montecristo, "una casa di terzo ordine si troverebbe all'agonia." 
      "Oh" disse Danglars,  con un sorriso  molto  pallido,  "come  fate 
      presto!" 
      "Mettiamo  sette  mesi"  incalzò  Montecristo  nel  medesimo tono. 
      "Ditemi: avete mai  pensato  qualche  volta  che  sette  volte  un 
      milione  e  settecento mila franchi fanno dodici milioni circa?... 
      No?... Ebbene, avete ragione,  perché con simili riflessioni,  non 
      s'impegnerebbero mai i propri capitali, che sono per il finanziere 
      ciò  che  e la pelle per l'uomo.  Noi abbiamo i nostri abiti più o 
      meno sontuosi, questo è il nostro credito.  Ma quando l'uomo muore 
      non  ha  che  la  sua pelle,  di modo che uscendo dagli affari non 
      avete che il vostro capitale reale,  cinque o sei milioni al  più: 
      poiché le fortune di terzo ordine non rappresentano che il terzo o 
      il quarto delle loro apparenze, come la locomotiva della ferrovia, 
      che  svanito  il  fumo  che l'avvolge e l'ingrandisce,  rimane una 
      macchina più o meno forte. Ebbene,  su questi cinque o sei milioni 
      che  formano  il vostro attivo reale,  ne avete perduti circa due, 
      che diminuiscono d'altrettanto la vostra fittizia  fortuna,  o  il 
      vostro  credito:  vale  a dire,  mio caro Danglars,  che la vostra 
      pelle è stata aperta da un salasso  che  replicato  quattro  volte 
      porterebbe la morte.  Eh,  eh, fate attenzione... Avete bisogno di 
      denaro? Volete che ve ne presti?" 
      "Come siete un cattivo calcolatore!" gridò Danglars,  chiamando in 
      suo  soccorso  tutta  la  filosofia e tutta la dissimulazione.  "A 
      quest'ora il denaro è già rientrato  nel  mio  scrigno  con  altre 
      speculazioni  riuscite.  Il  sangue esce per i salassi,  e rientra 
      colla nutrizione: ho perduto una battaglia in Spagna,  sono  stato 
      battuto a Trieste,  ma la mia armata navale delle Indie avrà preso 
      qualche galeone,  i miei minatori  del  Messico  avranno  scoperto 
      qualche miniera." 
      "Benissimo!  benissimo!  Ma  la  cicatrice  resta,  ed  alla prima 
      perdita si riaprirà." 
      "No,  perché io cammino sulle certezze"  continuò  Danglars  colla 
      facondia  giocosa  del  ciarlatano,  che  cerca d'innalzare il suo 
      credito.   "Per  rovesciare  il  mio  credito   bisognerebbe   che 
      crollassero tre governi." 
      "Diavolo ciò si è veduto." 
      "Che la terra manchi di raccolto..." 
      "Ricordatevi le sette vacche grasse, e le sette vacche magre." 
      "...O che il mare si ritirasse come ai tempi di Faraone!  E poi vi 
      sono molti mari,  ed ai miei vascelli non accadrebbe altro se  non 
      di divenire carovane..." 
      "Tanto  meglio,  caro  signor Danglars" disse Montecristo,  "ed io 
      vedo che mi ero sbagliato,  e che voi rientrate nelle  fortune  di 
      secondo ordine." 
      "Credo  di  potere aspirare a questo onore" disse Danglars con uno 
      di quei sorrisi composti che facevano a Montecristo  l'effetto  di 
      una  di  quelle  lune  impiastricciate  di  cui  i cattivi pittori 
      intonacano le loro rovine.  "Ma giacché siamo a parlare  d'affari" 
      soggiunse,  contento  di  trovare  questo  mezzo  per  cambiare la 
      conversazione,  "ditemi dunque ciò che posso fare  per  il  signor 
      Cavalcanti." 
      "Dargli del denaro, se ha su voi un credito che vi sembri buono." 
      "Eccellente!  Si  è  presentato questa mattina con una cambiale di 
      quarantamila franchi  pagabile  a  vista  sopra  di  voi,  firmata 
      Busoni,  e  rimandata da voi a me colla vostra girata...  Capirete 
      che gli ho contati sul momento quaranta biglietti da mille." 
      Montecristo fece un segno di assenso. 
      "Ma non è tutto" continuava Danglars: "egli ha aperto a suo figlio 
      un credito presso di me." 
      "E quanto, se non sono indiscreto, ha assegnato al giovane?" 
      "Cinquemila franchi al mese." 
      "Sessantamila franchi l'anno. Io ne dubitavo..." disse Montecristo 
      alzando le spalle.  "Sono veri spilorci i  Cavalcanti...  Che  può 
      fare un giovane con cinquemila franchi al mese?" 
      "Ma  capirete  che se il giovane ha bisogno di qualche migliaio di 
      franchi in più..." 
      "Non ne fate niente,  il padre li lascerebbe in conto vostro!  Non 
      conoscete  questi  milionari d'oltralpe: sono veri Arpagoni.  E da 
      chi vi fu aperto il credito?" 
      "Oh, dalla casa Fenzi, una delle migliori di Firenze." 
      "Non voglio dire che ci perderete,  ma tenete i vostri conti negli 
      stretti limiti della lettera." 
      "Non avreste dunque fiducia in questi Cavalcanti?" 
      "Darei  dieci  milioni sulla loro firma.  La loro fortuna entra in 
      quelle di second'ordine di cui vi parlavo, mio caro Danglars..." 
      "E' tanto semplice, che lo avrei preso per un maggiore e niente di 
      più!" 
      "E voi gli avreste fatto onore,  perché avete  ragione,  egli  non 
      tiene alle apparenze.  Quando l'ho veduto per la prima volta mi ha 
      fatto l'effetto di un sottotenente ammuffito sotto le spalline. Ma 
      tutti questi tipi somigliano molto  a  vecchi  ebrei,  quando  non 
      risplendono come i magi d'Oriente." 
      "Il giovane è migliore" disse Danglars. 
      "Sì, forse un po' timido, ma in sostanza mi è sembrato compìto. Io 
      ne ero un poco inquieto." 
      "E perché?" 
      "Perché  voi  lo  avete  visto  al  suo primo ingresso in società, 
      almeno mi  è  stato  detto.  Prima  viaggiava  con  un  precettore 
      severissimo, e non era mai venuto a Parigi." 
      "Tutti   questi   italiani  della  nobiltà  hanno  l'abitudine  di 
      imparentarsi  fra  loro,  non  è  vero?"  domandò  negligentemente 
      Danglars. "Essi amano accumulare le loro fortune." 
      "Di  solito fanno così,  è vero,  ma Cavalcanti è un originale che 
      non fa niente come gli altri.  Nessuno mi toglie l'idea che  abbia 
      mandato in Francia suo figlio perché vi trovi moglie." 
      "Lo credete?" 
      "Ne sono sicuro." 
      "Ed avete sentito parlare della sua rendita?" 
      "Non  si  parla che di ciò in Italia...  gli uni li accreditano di 
      milioni, altri pretendono che non posseggano un paolo." 
      "E la vostra opinione?" 
      "Non bisogna farvi  sopra  alcun  fondamento,  essendo  del  tutto 
      personale." 
      "Ma infine..." 
      "La  mia opinione è che tutti questi vecchi podestà,  tutti questi 
      antichi condottieri,  poiché  questi  Cavalcanti  hanno  comandato 
      degli eserciti,  hanno comandato delle province,  la mia opinione, 
      dicevo,  è che abbiano seppellito dei milioni in luoghi conosciuti 
      soltanto dai loro antenati, e che rivelano ai loro primogeniti, di 
      generazione  in generazione,  e la prova è che sono tutti gialli e 
      secchi come i loro fiorini dei  tempi  della  repubblica,  di  cui 
      conservano il riverbero a forza di guardarli." 
      "Perfettamente" disse Danglars,  "e ciò è tanto vero in quanto non 
      si sa se abbiano un palmo di terra loro..." 
      "Almeno molto poco; non conosco dei Cavalcanti che il solo palazzo 
      che hanno in Lucca." 
      "Ah,  hanno un palazzo?" disse ridendo Danglars.  "E' già  qualche 
      cosa." 
      "Sì,  ed  anche  lo  danno  in  affitto al ministro delle finanze, 
      mentre il vecchio Cavalcanti abita in una casetta. Oh, ve l'ho già 
      detto, credo il buon uomo avaro..." 
      "Andiamo, andiamo, voi non l'adulate per niente." 
      "Ascoltate, lo conosco appena;  credo di averlo visto tre volte in 
      vita  mia...  Ciò che so,  è da parte dell'abate Busoni,  e da lui 
      stesso... Mi parlava, questa mattina,  dei suoi progetti sopra suo 
      figlio,  e mi lasciava intravedere che stanco di veder dormire dei 
      capitali considerevoli in Italia, vorrebbe trovare un mezzo sia in 
      Francia sia in Inghilterra,  di far fruttare i suoi  milioni.  Ma, 
      notate  bene,   che  quantunque  io  abbia  la  più  gran  fiducia 
      nell'abate Busoni, personalmente non rispondo di niente." 
      "Non importa,  grazie del cliente che mi avete procurato: questo è 
      un  gran  bel  nome  da  iscrivere  sui  miei  registri;  e il mio 
      cassiere, a cui ho spiegato chi erano i Cavalcanti, ne va superbo. 
      A proposito,  e questa  è  una  semplice  domanda:  quando  questi 
      personaggi danno moglie ai figlioli, assegnano loro una dote?" 
      "Eh,  mio Dio! Secondo le circostanze... Ho conosciuto un principe 
      italiano ricco come una miniera d'oro,  uno dei primi  nomi  della 
      Toscana, che quando i figli si ammogliavano a suo genio, assegnava 
      loro dei milioni,  e quando lo facevano contro il suo beneplacito, 
      si contentava di assegnar loro una  rendita  di  trenta  scudi  al 
      mese.  Ammettiamo  che  Andrea si ammogli secondo le vedute di suo 
      padre, allora gli assegnerà forse uno,  due,  tre milioni.  Se ciò 
      fosse colla figlia di un banchiere, per esempio, forse prenderebbe 
      un interesse nella casa del suocero di suo figlio...  Ma supponete 
      che la nuora gli dispiacesse...  Buona notte!  Il padre Cavalcanti 
      mette  mano  sulla  chiave  dello scrigno,  dà un doppio giro alla 
      serratura, ed ecco mastro Andrea obbligato a vivere come un figlio 
      di papà parigino, segnando le carte, o giocando a dadi falsi." 
      "Questo giovane troverà  una  principessa  bavarese  o  peruviana, 
      vorrà una corona chiusa, un Eldorado traversato dal Potosì." 
      "No,  tutti questi gran signori dall'altra parte dei monti sposano 
      frequentemente delle semplici mortali.  Ma perché  mi  fate  tutte 
      queste  domande,  caro signor Danglars?  Avete forse intenzione di 
      collocare Andrea?" 
      "In fede mia,  non mi sembrerebbe una cattiva speculazione,  e  io 
      sono uno speculatore." 
      "Ma non con la signorina Danglars, presumo: vorreste fare scannare 
      questo povero Andrea da Alberto?" 
      "Alberto..." disse Danglars alzando le spalle.  "Ah sì, bene! Egli 
      se ne cura ben poco!" 
      "Ma è fidanzato a vostra figlia, credo?" 
      "Cioè,  il signor Morcerf ed io abbiamo qualche volta  parlato  di 
      questo matrimonio, ma la signora Morcerf ed Alberto..." 
      "Non mi direte che non è un buon partito?" 
      "Eh! eh! La signorina Danglars vale bene un Morcerf, mi sembra!" 
      "La  dote  della  signorina Danglars sarà straordinaria,  e non ne 
      dubito, particolarmente se il telegrafo non fa nuove pazzie." 
      "Oh, non è soltanto la dote... Ma a proposito, ditemi dunque?" 
      "E che?" 
      "Per qual motivo non avete invitato al vostro pranzo Morcerf e  la 
      sua famiglia?" 
      "Lo  avevo già fatto,  ma mi ha addotto un viaggio a Tréport colla 
      signora Morcerf,  alla quale è  stato  raccomandato  di  respirare 
      l'aria di mare." 
      "Sì, sì" disse Danglars, ridendo, "quell'aria le deve far bene..." 
      "E perché?" 
      "Perché è l'aria che ha respirato nella sua gioventù." 
      Montecristo lasciò cadere l'indiscrezione senza mostrare di avervi 
      fatta attenzione. 
      "Ma tuttavia" disse il conte, "se Alberto non è così ricco come la 
      signorina  Danglars,  non  potete però negare che non porti un bel 
      nome?" 
      "Sia,  ma io amo altrettanto il mio,  che non vale di meno"  disse 
      Danglars. 
      "Certamente  il vostro nome è popolare,  ed ha ornato il titolo di 
      cui si è creduto ornarlo;  ma siete un uomo  troppo  intelligente, 
      per   non   aver  compreso  che,   per  alcuni  pregiudizi  troppo 
      profondamente radicati,  una nobiltà di cinque secoli  vale  molto 
      più di una nobiltà di venti anni." 
      "Ed  ecco  precisamente il perché" disse Danglars,  con un sorriso 
      che si sforzava di rendere sardonico,  "ecco perché io  preferirei 
      il signor Andrea Cavalcanti ad Alberto Morcerf." 
      "Oh  io non credo" disse Montecristo,  "che i Morcerf la cedano ai 
      Cavalcanti..." 
      "I Morcerf!?  Sentite,  mio caro conte,  siete un galantuomo,  non 
      vero?" 
      "Lo credo." 
      "E in più conoscitore di blasoni?" 
      "Un poco." 
      "Ebbene,  guardate  il  colore del mio;  è più solido di quello di 
      Morcerf." 
      "E perché?" 
      "Perché,  se io non sono  barone  di  nascita,  almeno  mi  chiamo 
      Danglars." 
      "E poi?" 
      "Mentre lui non si chiama Morcerf." 
      "Come, non si chiama Morcerf?" 
      "Niente affatto." 
      "Eh via, dunque!" 
      "Io da qualcuno sono stato fatto barone, di modo che lo sono; egli 
      si è fatto conte da sé, per cui non lo è." 
      "Impossibile!" 
      "Ascoltate,  mio caro conte" continuò Danglars, "il signor Morcerf 
      è mio amico,  o piuttosto  una  mia  conoscenza  di  trent'anni... 
      Sapete che faccio buon mercato dei miei stemmi,  poiché non ho mai 
      dimenticato da dove sono partito..." 
      "Questa è una prova" disse Montecristo, "o di grande umiltà,  o di 
      grande orgoglio." 
      "Ebbene,  quando  io  ero semplice commesso,  Morcerf era semplice 
      pescatore." 
      "E allora si chiamava?" 
      "Fernando." 
      "E poi?" 
      "Fernando Mondego." 
      "Ne siete sicuro?" 
      "Per Bacco, mi ha venduto abbastanza pesce perché lo conosca." 
      "Allora perché volevate dargli vostra figlia?" 
      "Perché Fernando e Danglars erano  due  nobili,  due  ricchi,  due 
      fortunati  di  fresca  data,  in  fondo uno valeva l'altro,  se si 
      eccettuino alcune cose che si sono dette di lui, e che non si sono 
      mai potute dire di me." 
      "Che dunque?" 
      "Niente." 
      "Ah,  sì,  ora capisco,  ciò che dite mi rinfresca  la  memoria  a 
      proposito del nome di Fernando Mondego.  Ho sentito questo nome in 
      Grecia." 
      "A proposito dell'affare di Alì-Pascià?" 
      "Precisamente." 
      "Ecco il mistero" riprese  Danglars,  "e  vi  confesso  che  avrei 
      pagato molto per scoprirlo." 
      "Non era difficile, se ne aveste avuta voglia." 
      "Ed in che modo?" 
      "Senza dubbio avrete qualche corrispondente in Grecia..." 
      "Per Bacco!" 
      "A Giannina?" 
      "Ne ho dappertutto." 
      "Ebbene,   scrivete  al  vostro  corrispondente  di  Giannina,   e 
      domandategli quale parte ha avuta nella catastrofe di  Alì-Tebelen 
      un francese chiamato Fernando." 
      "Avete ragione!" gridò Danglars alzandosi con vivacità.  "Scriverò 
      oggi stesso." 
      "Fatelo." 
      "Vado a scrivere." 
      "E se avete qualche notizia scandalosa..." 
      "Ve la comunicherò." 
      "Mi farete un piacere." 
      Danglars si  slanciò  fuori  dall'appartamento,  e  non  fece  che 
      correre fino alla sua carrozza. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 66. 
                      L'UFFICIO DEL PROCURATORE DEL RE. 
 
 
      Lasciamo il banchiere andarsene al gran trotto dei suoi cavalli, e 
      seguiamo la signora Danglars nella sua escursione mattutina. 
      Mezz'ora dopo mezzogiorno, aveva ordinato i cavalli, ed era uscita 
      in  carrozza.  Si  diresse dalla parte del Faubourg Saint-Germain, 
      prese la strada lungo la Senna,  e fece fermare al  passaggio  del 
      Ponte Nuovo; qui discese, e traversò il passaggio. 
      Era  vestita  con  molta  semplicità come si conviene ad una donna 
      elegante che esce la mattina. In rue Guénégaud salì su una vettura 
      da nolo indicando come termine della corsa rue Harlay. 
      Appena entrata in carrozza,  levò di  tasca  un  velo  nero  molto 
      fitto,  che attaccò al suo cappello di paglia; quindi si rimise il 
      cappello in testa, e vide con piacere, guardandosi in uno specchio 
      tascabile, che non si poteva discernere di lei che la pelle bianca 
      e la pupilla scintillante. 
      La carrozza prese per il  Ponte  Nuovo  ed  entrò  per  la  piazza 
      Dauphine nel cortile di Harlay: il cocchiere fu pagato nell'aprire 
      la  portiera  e la signora Danglars,  affrettandosi verso la scala 
      che salì con leggerezza giunse ben  presto  alla  sala  dei  Passi 
      Perduti. 
      Quella  mattina  vi  erano  molti affari,  ed ancora maggior gente 
      affaccendata al Palazzo.  Le  persone  affaccendate  non  guardano 
      molto  le  donne;  la  signora  Danglars  traversò  dunque la sala 
      senz'essere osservata più di altre donne che stavano ad  aspettare 
      i loro avvocati. 
      Vi  era folla nell'anticamera del signor Villefort,  ma la signora 
      Danglars non ebbe neppure il bisogno di pronunciare il  suo  nome; 
      appena arrivata un usciere si alzò,  si avvicinò a lei,  le chiese 
      se fosse la persona  a  cui  il  procuratore  del  re  aveva  dato 
      convegno,  e sulla sua risposta affermativa,  la condusse,  per un 
      corridoio riservato, nell'ufficio del signor Villefort. 
      Il magistrato seduto sopra un seggio, scriveva,  tenendo le spalle 
      voltate  alla  porta;  la  intese  aprirsi,  e l'usciere pronunciò 
      queste parole: 
      "Entrate, signora." 
      La porta si richiuse senza che egli avesse fatto  il  più  piccolo 
      movimento  ma  appena  sentì  allontanarsi  il  rumore  dei  passi 
      dell'usciere, si alzò, mise il catenaccio,  tirò le tende,  visitò 
      tutti gli angoli dell'ufficio.  Quindi allorché ebbe acquistata la 
      certezza che non poteva essere né veduto né  udito  da  alcuno  si 
      fermò. 
      "Grazie, signora" disse, "grazie della vostra esattezza." 
      E  le  offrì  una  sedia che la signora Danglars accettò perché il 
      cuore le  batteva  tanto  fortemente,  che  si  sentiva  vicina  a 
      soffocare. 
      "Ecco"   disse  il  procuratore  sedendo  egli  pure,   e  facendo 
      descrivere un mezzo cerchio al suo seggio,  in  modo  da  trovarsi 
      dirimpetto  alla signora Danglars,  "ecco passato ben lungo tempo, 
      signora,  da che non ho avuto la fortuna di parlare  da  solo  con 
      voi,  e  con mio sommo dispiacere ci ritroviamo per intavolare una 
      conversazione molto dolorosa." 
      "Tuttavia, signore, avete visto che sono venuta, quantunque questa 
      conversazione debba riuscire assai più dolorosa a me che a voi." 
      Villefort sorrise amaramente. 
      "E' dunque vero" disse,  rispondendo piuttosto al proprio pensiero 
      che  alle  parole  della  signora  Danglars,  "che tutte le nostre 
      azioni lasciano le loro tracce, le une tetre le altre luminose nel 
      nostro passato? E' dunque vero che tutti i passi della nostra vita 
      somigliano allo strisciare del rettile sulla  sabbia  e  fanno  un 
      solco? Ahimè, per molti questo solco è quello delle loro lacrime." 
      "Signore,  voi comprendete la mia emozione,  non è vero?" disse la 
      signora Danglars.  "Abbiatemi dunque dei riguardi,  ve  ne  prego. 
      Questa  camera  entro  cui  sono  stati tanti colpevoli tremanti e 
      vergognosi, questo seggio su cui mi trovo a mia volta vergognosa e 
      tremante!...  Oh,  io ho bisogno di tutta la mia ragione  per  non 
      vedere  in  me  una  donna  molto colpevole,  ed in voi un giudice 
      minaccioso." 
      Villefort scosse la testa, e mandò un sospiro, poi disse: 
      "Ed io dico a me stesso,  che il mio posto non è  sul  seggio  del 
      giudice, ma sul banco dell'accusato." 
      "Voi!" disse la signora Danglars meravigliata. 
      "Sì, io." 
      "Credo,  signore,  che  il  vostro  puritanismo  esageri" disse la 
      signora Danglars,  il cui bell'occhio si  illuminò  di  passeggera 
      luce.  "Questi  solchi di cui parlavate sono stati tracciati dalla 
      vita di una gioventù ardente.  Nel fondo delle passioni al  di  là 
      dei  piaceri,  vi  è  sempre  un  po' di rimorso;  è perciò che il 
      Vangelo,  questa  eterna  risorsa  degli  infelici,  ha  dato  per 
      conforto  a  noi  povere donne l'ammirabile parabola della giovane 
      peccatrice,  e  della  donna  adultera.  Così,   ve  lo  confesso, 
      riportandomi  agli errori della mia gioventù,  qualche volta penso 
      che Dio me li perdonerà, poiché se essi non possono trovare scusa, 
      troveranno pietà, in compenso dei patimenti sofferti dopo.  Ma voi 
      che avete da temere da tutto ciò?  voi uomini, che il mondo scusa, 
      e che lo scandalo rende celebri?" 
      "Signora" replicò  Villefort,  "voi  mi  conoscete,  non  sono  un 
      ipocrita,   o  perlomeno  non  faccio  l'ipocrita,  senza  qualche 
      ragione.  Se  la  mia  fronte  è  severa,  i  molti  infortuni  la 
      offuscarono,  se il mio cuore si è pietrificato, è stato per poter 
      sopportare i colpi  che  ho  ricevuto:  non  ero  così  nella  mia 
      gioventù,  non  lo  ero  nella  sera del mio fidanzamento,  quando 
      eravamo tutti seduti intorno ad una tavola del Corso a  Marsiglia. 
      Ma da quel tempo tutto è cambiato in me,  ed intorno a me.  La mia 
      vita si è consumata a conseguire cose difficili,  e ad  infrangere 
      nelle    difficoltà   tutti   coloro   che   volontariamente,    o 
      involontariamente,   per  determinata  intenzione  o   per   caso, 
      incontrai  sulla mia strada a suscitarmi difficoltà.  E' difficile 
      che ciò che si desidera ardentemente non sia  conteso  tenacemente 
      da  quelli  che  hanno  voluto  ottenerlo,  e ai quali si tenta di 
      strapparlo.  Così,  la maggior parte delle  cattive  azioni  degli 
      uomini sono venute loro incontro, mascherate dalle sembianze della 
      necessità;  quindi  commessa  la  cattiva  azione  in  un  momento 
      d'esaltazione,  di timore,  o di delirio,  si vede che si  sarebbe 
      potuto  passarle  vicino  evitandola.  Il  mezzo che sarebbe stato 
      buono, e che non si è veduto,  ciechi come si era,  si presenta ai 
      nostri  occhi  facile e semplice,  e diciamo a noi stessi: "E come 
      mai non ho fatto questo, invece di fare quest'altro?".  Voi donne, 
      al  contrario,  ben  difficilmente  siete  tormentate dai rimorsi, 
      perché raramente la scelta viene da voi;  le  vostre  sventure  vi 
      sono  quasi  sempre  imposte,  i vostri sbagli sono quasi sempre i 
      delitti degli altri." 
      "In ogni modo,  signore,  convenitene,  se ho commesso un  errore" 
      disse la signora Danglars, "anche personale, ieri sera ho ricevuto 
      una severa punizione." 
      "Povera  donna!"  disse  Villefort  stringendole la mano.  "Troppo 
      severa per le vostre forze;  per due volte c'è  mancato  poco  che 
      crollaste... Eppure..." 
      "Ebbene?" 
      "Devo dirvelo?... Raccogliete tutto il vostro coraggio, perché non 
      siete ancora alla fine..." 
      "Mio Dio!" esclamò la signora Danglars tutta spaventata. "Che vi è 
      dunque ancora?" 
      "Voi  non  vedete che il passato,  signora,  certamente tetro,  ma 
      figuratevi  un  avvenire...  spaventoso  certamente...  sanguinoso 
      forse!..." 
      La  baronessa conosceva la calma di Villefort,  fu così spaventata 
      dalla sua esaltazione, che aprì la bocca per gridare,  ma il grido 
      le si estinse in gola. 
      "E   come  mai  è  risorto  questo  terribile  passato?"  proseguì 
      Villefort.  "Come mai dal fondo della tomba,  dal fondo dei nostri 
      cuori ove dormiva è uscito come un fantasma,  per fare impallidire 
      le nostre guance ed arrossire le nostre fronti?" 
      "Ahimè" disse Erminia. "Senza dubbio il caso..." 
      "Il caso!" riprese Villefort. "No, no, non è il caso!" 
      "Ma sì,  fu una  coincidenza  fatale,  è  stato  il  caso  che  ha 
      operato...  Non  fu  per  caso  che il conte di Montecristo comprò 
      quella casa? Non fu per caso ch'egli fece scavare la terra? Non fu 
      per  caso  finalmente   che   quel   disgraziato   bambino   fosse 
      dissotterrato  ai  piedi  di  quell'albero?  Povera  ed  innocente 
      creatura! Nata da me, cui non ho potuto mai dare un bacio,  ma per 
      la quale ho sparso tante lacrime!  Ah, il mio cuore è volato verso 
      il conte quando ha parlato di quella cara spoglia ritrovata  sotto 
      i fiori." 
      "Ebbene  no,  signora,  ecco  quanto  avevo di terribile da dirvi" 
      disse Villefort con sorda voce.  "Non si è trovata alcuna  spoglia 
      sotto i fiori, no, non vi è stato alcun neonato dissotterrato, no, 
      non bisogna piangere, no, non bisogna gemere... Bisogna tremare!" 
      "Che volete dire?" gridò la signora Danglars rabbrividendo. 
      "Voglio dire che il signor di Montecristo,  nello scavare ai piedi 
      di quell'albero, non ha potuto trovare né scheletro di neonato, né 
      ferramenta di cassetta,  perché sotto quell'albero non c'erano  né 
      l'uno né l'altra." 
      "Non  c'erano  né  l'uno né l'altra?" replicò la signora Danglars, 
      fissando  sul  procuratore  certi   occhi,   la   cui   spaventosa 
      dilatazione  indicava  il  terrore,  "né l'uno né l'altra?" ripeté 
      come una persona che tenta di fissare le sue idee per mezzo  delle 
      parole e del suono della voce. 
      "Sì" disse il regio procuratore,  lasciandosi cadere la fronte fra 
      le mani: "Non c'era neonato, non c'era cassetta..." 
      "Non fu dunque là il  luogo  ove  deponeste  la  povera  creatura? 
      Perché ingannarmi? Con quali intenzioni? Orsù dite..." 
      "Fu  là,  ma ascoltatemi,  e compiangerete me,  che per vent'anni, 
      senza dirvene la più piccola parte,  ho portato il peso dei dolori 
      che sto per narrarvi." 
      "Mio Dio, mi spaventate! Ma non importa, vi ascolto." 
      "Sapete  cosa  accadde  quella notte dolorosa,  in cui voi eravate 
      svenuta sul vostro letto,  in quella camera di  damasco  rosso,  e 
      mentre  io,   non  meno  anelante  di  voi,  aspettavo  la  vostra 
      rianimazione?   Il  fanciullo  nacque,   mi  fu  consegnato  senza 
      movimenti, senza respiro, senza voce: lo credemmo morto." 
      La  signora  Danglars  fece  un  movimento rapido,  come se avesse 
      voluto lanciarsi dalla sedia.  Ma Villefort la fermò giungendo  le 
      mani, come per implorarne l'attenzione. 
      "Noi  lo  credemmo morto" ripeté.  "Io lo misi in una cassetta che 
      doveva essere la sua bara, scesi in giardino, scavai una fossa, lo 
      seppellii in fretta. Terminavo appena di coprirlo di terra, che il 
      braccio del corso si stese contro di me.  Vidi un'ombra drizzarsi, 
      un lampo sfolgorare.  Sentii un dolore,  volli gridare, un brivido 
      mi percorse tutta le membra,  e mi serrò la gola...  Caddi,  e  mi 
      credetti  in  fin  di vita: non dimenticherò mai il vostro sublime 
      coraggio,  quando tornato in me,  mi trascinai fino ai piedi della 
      scala,  dove,  a  stento  voi pure,  veniste incontro a me...  Era 
      necessario custodire il silenzio sulla terribile catastrofe... Voi 
      aveste il coraggio di tornare in casa, sostenuta dalla nutrice; un 
      duello fu il pretesto della mia ferita. 
      Contro ogni aspettativa,  il silenzio fu mantenuto.  Trasportato a 
      Versailles per tre mesi lottai con la morte;  quando sembrò che mi 
      riattaccassi alla vita,  mi fu  ordinato  il  sole  e  l'aria  del 
      mezzogiorno.  Quattro  uomini  mi  portarono  da Parigi a Chalons, 
      facendo sei leghe al  giorno.  La  signora  Villefort  seguiva  la 
      barella  nella sua carrozza.  A Chalons fui imbarcato sulla Saona, 
      quindi passai sul Rodano,  e per  la  sola  forza  della  corrente 
      discesi fino ad Arles, poi da Arles ripresi la lettiga e continuai 
      la strada per Marsiglia.  La mia convalescenza durò sei mesi.  Non 
      sentivo più parlare di voi, non osavo informarmi di ciò che ne era 
      avvenuto.  Quando ritornai a Parigi,  sentii che vedova del signor 
      de Nargonne, avevate sposato il signor Danglars. 
      A  che  cosa  avevo  sempre  pensato  dal momento che recuperai la 
      conoscenza?  Incessantemente alla stessa cosa,  a quel cadavere di 
      bambino,  che  ogni  notte  nei  miei sonni sorgeva dal seno della 
      terra,  e si fermava al di sopra della fossa,  minacciandomi collo 
      sguardo e col gesto.  Per cui appena tornato a Parigi mi informai: 
      la casa non era  stata  frequentata  né  visitata  da  alcuno  dal 
      momento  che  ne eravamo usciti,  ma era stata data in affitto per 
      nove anni.  Andai a trovare quello che l'aveva presa  in  affitto, 
      finsi di aver gran desiderio di non veder passare in mani estranee 
      una  casa  che  apparteneva  al padre ed alla madre di mia moglie, 
      offersi una buona uscita perché fosse  sciolto  il  contratto:  mi 
      furono chiesti seimila franchi...  Ne avrei dati diecimila,  anche 
      ventimila.  Li avevo con me: feci sottoscrivere su  due  piedi  la 
      rinunzia;  e  quando  fui  in  possesso di questa tanto desiderata 
      cessione, partii al galoppo per Auteuil. Nessuno era entrato nella 
      casa  dal  momento  che  ero  uscito  io.  Erano  le  cinque  dopo 
      mezzogiorno; salii nella camera rossa, ed aspettai la notte. 
      Là,   tutto  ciò  che  mi  ripetevo  da  un  anno  nella  continua 
      disperazione,  si presentò al mio pensiero più minaccioso che mai. 
      Quel  corso  che  mi  aveva giurato la sua vendetta,  che mi aveva 
      seguito da Nimes a Parigi, quel corso,  che nascosto nel giardino, 
      mi aveva ferito, aveva certamente visto scavare la fossa, mi aveva 
      visto seppellire il bambino,  poteva giungere a conoscervi,  forse 
      vi conosceva già...  Non vi avrebbe  un  giorno  fatto  pagare  il 
      segreto  di  questo terribile affare?...  Non sarebbe stata questa 
      per lui una ben dolce vendetta,  quando avesse saputo che  io  non 
      ero  morto  della  sua pugnalata?  Era dunque urgente che prima di 
      ogni altra cosa, a qualsiasi rischio, facessi sparire le tracce di 
      questo fatto,  che distruggessi le  eventuali  prove  materiali... 
      Sarebbe sempre rimasta abbastanza realtà nella mia memoria... 
      Giunse la notte: lasciai che diventasse buio fondo. Io stavo senza 
      lume in quella camera,  dove i soffi del vento agitavano le tende, 
      dietro cui mi pareva sempre vedere nascondersi qualche  spia;  ero 
      anche  agitato  da fremiti,  mi sembrava,  dietro a me,  e in quel 
      letto, sentire i vostri lamenti: non osavo voltarmi.  Il mio cuore 
      batteva  nel  silenzio  così  violentemente che pensavo si sarebbe 
      riaperta la mia ferita...  Finalmente intesi  spegnersi,  gli  uni 
      dopo gli altri, tutti i rumori della campagna. Capii che non avevo 
      più niente da temere, che non potevo essere né veduto né inteso, e 
      decisi di scendere. 
      Ascoltate, Erminia: mi credo tanto coraggioso quanto un altro uomo 
      ma  quando  mi  sfilai dal petto questa piccola chiave della scala 
      segreta che avevo ritrovata nei miei abiti,  che entrambi  amavamo 
      tanto,  e che voi voleste attaccare ad un anello d'oro... Allorché 
      aprii la porta,  quando  dalla  finestra  vidi  una  pallida  luna 
      filtrare  sugli  scalini  a chiocciola una striscia di luce bianca 
      simile ad uno spettro,  mi trattenni al  muro,  stetti  quasi  per 
      gridare;  mi  sembrava  di  diventar  pazzo.  Finalmente riuscii a 
      calmarmi.  Discesi la scala gradino per gradino;  la sola cosa che 
      non avevo potuto vincere era uno strano tremore che mi aveva preso 
      le  ginocchia;  mi aggrappai alla balaustra,  l'avessi lasciata un 
      momento, sarei precipitato.  Giunsi alla porta da basso: fuori una 
      zappa  era  appoggiata  al  muro;  la  presi e m'inoltrai verso il 
      gruppo d'alberi. Mi ero munito di una lanterna cieca,  in mezzo al 
      prato mi fermai per accenderla, poi continuai il cammino. Novembre 
      stava  per finire,  tutta la vegetazione del giardino era sparita, 
      gli alberi non erano più che scheletri con lunghe braccia  scarne, 
      e  le  foglie  morte  scricchiolavano  con  la sabbia sotto i miei 
      piedi. 
      La paura mi prese così forte il cuore  che  nell'avvicinarmi  agli 
      alberi cavai una pistola di tasca e la caricai;  credevo sempre di 
      vedere la figura del corso  comparire  tra  i  rami.  Scrutai  nei 
      luoghi  più  folti con la lanterna cieca: erano vuoti.  Gettai gli 
      occhi ovunque intorno a me,  ero  realmente  solo:  nessun  rumore 
      turbava  il  silenzio della notte,  se non il canto della civetta. 
      Attaccai la lanterna ad un ramo forcuto che avevo notato  un  anno 
      prima,  nella  stessa posizione dove mi ero fermato per scavare la 
      fossa.  L'erba durante l'estate era cresciuta moltissimo in questo 
      luogo, e, giunto l'autunno, nessuno era venuto per tagliarla. Però 
      un luogo meno erboso attirò la mia attenzione; era evidente che là 
      avevo  scavato la fossa: mi misi all'opera.  Era finalmente giunta 
      quell'ora  che  aspettavo  da  un  anno!  Ma  speravo,   lavoravo, 
      esaminavo   ogni  zolla  di  terra,   credendo  di  sentire  della 
      resistenza all'estremità della mia  zappa:  niente!  Eppure  avevo 
      fatto una buca due volte più grande della prima. 
      Credetti  di  essermi ingannato,  di avere sbagliato il posto.  Mi 
      orizzontai,   guardai  gli  alberi,   cercai  di   riconoscere   i 
      particolari  che  mi  avevano colpito.  Una brezza fredda ed acuta 
      fischiava attraverso i  rami  spogli,  e  tuttavia  il  sudore  mi 
      grondava dalla fronte.  Mi ricordai che avevo ricevuto il colpo di 
      pugnale nel momento in  cui  stavo  pestando  la  terra  per  fare 
      sparire  le  tracce  della  fossa.  Mentre pestavo questa terra mi 
      appoggiavo ad un falso ebano,  dietro a me una roccia  artificiale 
      destinata  a panchina: cadendo la mia mano aveva lasciata la zappa 
      e sentito il freddo della pietra... Mi lasciai andare nella stessa 
      posizione, mi rialzai,  e mi rimisi a scavare allargando la fossa: 
      niente, sempre niente, la cassetta non c'era più!..." 
      "La cassetta non c'era più?" mormorò la signora Danglars soffocata 
      dall'ansia. 
      "Non  crediate che mi limitassi a questo tentativo: esaminai tutto 
      attorno,  pensai  che  l'assassino,   dissotterrata  la  cassetta, 
      credendo fosse un tesoro, avesse voluto impadronirsene, e l'avesse 
      portata  via  ma  poi  accorgendosi dell'errore avesse scavato una 
      nuova fossa, e ve l'avesse deposta: niente. Mi venne allora l'idea 
      che  senza   prendere   tante   cautele   l'avesse   puramente   e 
      semplicemente  gettata in qualche angolo.  Quest'ultima ipotesi mi 
      costringeva ad aspettare il  giorno  per  fare  le  mie  ricerche: 
      risalii nella camera ed aspettai. 
      Venne il giorno,  scesi di nuovo la mia prima ispezione fu intorno 
      al gruppo d'alberi;  speravo di ritrovarvi delle  tracce  sfuggite 
      nell'oscurità.  Avevo  rivoltata  la terra sopra una superficie di 
      venti piedi quadrati,  e per una profondità di più di  due  piedi; 
      una  giornata  sarebbe  appena bastata ad un operaio salariato per 
      far  ciò  che  io  avevo  fatto  in  un'ora:   niente   non   vidi 
      assolutamente niente.  Allora mi misi alla ricerca della cassetta. 
      Secondo le supposizioni fatte,  doveva  essere  sul  sentiero  che 
      conduceva  alla  porticina  d'uscita,  ma  questa nuova ricerca fu 
      inutile quanto la prima.  Col cuore serrato,  tornai agli  alberi, 
      che pure non mi lasciavano più alcuna speranza." 
      "Oh!" gridò la signora Danglars. "C'era da diventar pazzi!" 
      "Lo  sperai  un  momento"  disse  Villefort,  "ma  non ebbi questa 
      fortuna...  Però richiamando la mia forza,  e le mie idee: "Perché 
      quest'uomo  avrebbe  portato  via  quel  cadavere?" domandavo a me 
      stesso." 
      "Voi lo avete detto, per avere una prova." 
      "Oh,  no,  signora,  non poteva più essere...  Non si conserva  un 
      cadavere  per  un  anno;  si  porta ad un magistrato,  e si fa una 
      deposizione. Non era accaduto niente di tutto ciò..." 
      "Ebbene, allora?" domandò Erminia palpitante. 
      "Allora? Vi era qualche cosa di più terribile,  di più fatale,  di 
      più  spaventoso per noi,  che il bambino fosse ancora vivo,  e che 
      l'assassino lo avesse salvato." 
      La  signora  Danglars  mandò  un  grido,  afferrando  le  mani  di 
      Villefort. 
      "Mio  figlio  vivo,  signore!  Avete  seppellito  mio figlio vivo, 
      signore! Non eravate sicuro che era morto,  e lo avete seppellito! 
      Ah!..." 
      La  signora  Danglars  si  era  alzata,  e  stava ritta davanti al 
      procuratore del re,  di cui teneva strette  le  mani  fra  le  sue 
      delicate, quasi minacciosa. 
      "Che ne so io?  Vi dico ciò come vi direi qualunque altra cosa..." 
      rispose Villefort con una immobilità di sguardo che  indicava  che 
      quest'uomo  così  potente  era  vicino  a toccare la follia,  o la 
      disperazione. 
      "Ah, figlio mio,  mio povero figlio!" gridò la baronessa ricadendo 
      sulla sedia, e soffocando i singulti col fazzoletto. 
      Villefort  ritornò  in sé,  e comprese che per divergere l'uragano 
      che si accumulava sulla sua testa,  bisognava  far  passare  nella 
      signora Danglars il terrore che egli stesso provava. 
      "Comprendete   che  se  la  cosa  è  così"  disse,   alzandosi  ed 
      avvicinandosi alla baronessa per parlare a voce anche  più  bassa, 
      "siamo perduti!  Questo ragazzo vive, e qualcuno sa che egli vive, 
      qualcuno è in possesso del nostro segreto...  E poiché Montecristo 
      parla  di  un neonato dissotterrato là dove questo neonato non c'è 
      più, lui è certamente in possesso di questo segreto." 
      "Dio giusto! Dio vendicatore!" mormorò la signora Danglars. 
      Villefort non rispose che con una specie di ansito. 
      "Ma questo figlio, signore?" riprese la madre ostinata. 
      "Oh,  quanto l'ho cercato!" rispose  Villefort,  contorcendosi  le 
      braccia. "Quante volte l'ho chiamato, nelle mie lunghe notti senza 
      sonno,  quante  volte  ho  desiderato  una  ricchezza  da re,  per 
      acquistare un milione di segreti da un  milione  d'uomini,  e  per 
      trovare  il mio segreto nel loro!  Finalmente un giorno che per la 
      centesima volta riprendevo la zappa, domandando a me stesso per la 
      centesima volta ciò che quel corso avesse potuto fare del bambino, 
      pensai  che  un  neonato  impaccia  un  fuggitivo,   che,   forse, 
      accorgendosi che era ancora vivo lo aveva gettato nel fiume." 
      "Oh,  impossibile!"  gridò  la signora Danglars.  "Si assassina un 
      uomo per vendetta, ma non si annega a sangue freddo un bambino!" 
      "Forse" continuò Villefort,  "lo aveva portato  all'ospizio  degli 
      abbandonati." 
      "Oh, sì! sì!" gridò la baronessa. "Mio figlio è là, signore!" 
      "Io corsi all'ospizio, ed intesi che quella notte stessa, la notte 
      del  20  settembre,  un  neonato  era  stato  deposto  nella ruota 
      avviluppato in una mezza salvietta di  tela  fina,  stracciata  ad 
      arte.  Questa  metà  di  salvietta  portava  una metà di corona da 
      barone, e la lettera Elle." 
      "E'  quello,  è  quello!"  gridò  la  signora  Danglars.  "La  mia 
      biancheria  era  marcata  in tal modo;  il signore de Nargonne era 
      barone,  e si chiamava Luigi,  le salviette erano tutte marcate in 
      tal modo. Grazie, mio Dio, mio figlio non è morto!" 
      "No, non è morto." 
      "E voi me lo dite?  Mi dite questo senza temere di farmi morire di 
      gioia, signore? Dov'è, mio figlio?" 
      Villefort alzò le spalle. 
      "Lo so io forse? E credete che se lo sapessi, vi farei passare per 
      tutte queste prove,  e per tutte queste gradazioni come farebbe un 
      drammaturgo,  o un romanziere? No, non lo so. Una donna, circa sei 
      mesi dopo, era stata a reclamare il bambino, coll'altra metà della 
      salvietta.  Questa donna aveva date tutte le garanzie che esige la 
      legge, e le fu consegnato." 
      "Ma bisognava informarsi di questa donna..., scoprirla..." 
      "E  di  che  credete  mi  sia occupato,  signora?  Ho simulato una 
      istruzione giudiziaria, ed ho messo in moto, ed in azione,  quanto 
      la  polizia  possiede  in  sagaci  e destri agenti.  Le sue tracce 
      furono ritrovate a Chalons; ma a Chalons si sono perdute." 
      "Perdute?" 
      "Sì, perdute, perdute per sempre." 
      La  signora  Danglars  aveva  ascoltato  questo  racconto  con  un 
      sospiro, dando una lacrima, un grido per ciascun particolare. 
      "E qui sta il tutto? E vi siete limitato a ciò?" 
      "Oh  no"  disse  Villefort,  "non  ho  mai cessato di cercare,  di 
      continuare ad informarmi,  però dopo due o tre  anni  avevo  molto 
      diradate  le  ricerche,  e  infine le avevo esaurite...  Oggi però 
      tornerò a riprenderle,  e con maggior accanimento che  mai,  e  vi 
      riuscirò,  giacché non è più la coscienza che mi spinge,  bensì la 
      paura." 
      "Ma" riprese la signora Danglars,  "il conte di Montecristo non sa 
      niente... Se no, perché ambirebbe alla nostra amicizia come fa?" 
      "Oh,  la  perversità degli uomini è profonda" disse Villefort,  "e 
      più profonda della bontà di Dio...  Avete osservato gli  occhi  di 
      quest'uomo mentre ci parlava." 
      "No." 
      "L'avete qualche volta esaminato profondamente?" 
      "Senza  dubbio  è  bizzarro ecco tutto...  Una cosa soltanto mi ha 
      colpita ed è che di tutto quello squisito pranzo che  ci  ha  dato 
      non mangiò niente." 
      "Sì,  sì!" disse Villefort. "Io pure l'ho notato. Se avessi saputo 
      ciò che so ora, non avrei toccato niente; avrei creduto che avesse 
      voluto avvelenarci." 
      "E vi sareste sbagliato, ben lo vedete." 
      "Sì,  senza  dubbio;  ma  credetemi,   quest'uomo  nasconde  altri 
      scopi... 
      Ecco perché vi ho voluta vedere,  ecco perché ho voluto premunirvi 
      contro tutti,  ma particolarmente contro di lui.  Ditemi" continuò 
      Villefort,   fissando   gli   occhi   sulla  baronessa  ancor  più 
      profondamente,  "ditemi,  non avete parlato del nostro legame  con 
      nessuno?" 
      "Mai con nessuno." 
      "Mi  capite?"  riprese  affettuosamente  Villefort.  "Quando  dico 
      nessuno, perdonatemi questa insistenza, intendo nessuno al mondo!" 
      "Oh,   sì,   sì,   comprendo  perfettamente"  disse  la  baronessa 
      arrossendo: "mai, ve lo giuro!" 
      "Non  avete  l'abitudine di scrivere la sera ciò che vi è accaduto 
      nel giorno? Non tenete un vostro diario?" 
      "No, ahimè! La mia vita passa; passa trasportata dalle frivolezze, 
      e la dimentico io stessa." 
      "Non parlate sognando?" 
      "Ho un sonno da bambina... Non lo rammentate?" 
      Un rosso porpora salì al viso della baronessa,  mentre il  pallore 
      invase quello di Villefort. 
      "E' vero" diss'egli a voce tanto bassa che appena fu udito. 
      "Ebbene?" domandò la baronessa. 
      "Ebbene,  capisco  ciò  che  mi  resta da fare" riprese Villefort. 
      "Prima di otto giorni,  saprò chi è questo signor di  Montecristo, 
      di  dove  viene,  dove  va,  e  per  quale ragione parla in nostra 
      presenza di neonati dissotterrati nel suo giardino." 
      Villefort pronunciò queste parole con un accento che avrebbe fatto 
      fremere il conte se lo avesse potuto sentire.  Quindi  strinse  la 
      mano alla baronessa che non fu pronta a dargliela, e la ricondusse 
      con rispetto fino alla porta. 
      La  signora  Danglars  prese  un'altra  vettura  da  nolo  che  la 
      ricondusse  al  passaggio,  alla  parte  opposta  ritrovò  la  sua 
      carrozza    ed   il   cocchiere,    che   aspettandola,    dormiva 
      tranquillamente al suo posto. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 67. 
                             UN BALLO IN ESTATE. 
 
 
      Nello stesso giorno, verso l'ora in cui la signora Danglars stava, 
      come abbiamo descritto,  nell'ufficio del procuratore del re,  una 
      carrozza  da  viaggio  entrando in rue Helder s'introduceva per la 
      porta numero 27 e si fermava nel cortile. 
      Un momento dopo si  apriva  lo  sportello  e  la  signora  Morcerf 
      scendeva  appoggiandosi  al braccio di suo figlio.  Appena Alberto 
      ebbe accompagnata la madre alle sue  stanze  dopo  aver  fatto  un 
      bagno  e fatti attaccare i cavalli,  si fece condurre agli Champs- 
      Elysées dal conte di Montecristo. 
      Il  conte  lo  ricevette  col  suo  abituale  sorriso.   La   cosa 
      straordinaria  era  che  nessuno sembrava potesse fare un passo in 
      avanti nel cuore di quest'uomo.  Quelli  che  volevano,  per  così 
      dire, forzare il passaggio della sua intimità, trovavano un muro. 
      Morcerf,  che accorreva a lui a braccia aperte,  lasciò, vedendolo 
      ad onta del suo sorriso amichevole,  cadere  le  braccia,  ed  osò 
      appena stendergli la mano.  Dal canto suo Montecristo gliela toccò 
      come faceva sempre, ma senza stringerla. 
      "Ebbene, eccomi" disse Alberto, "caro conte." 
      "Siete il benvenuto." 
      "Sono arrivato da un'ora." 
      "Da Dieppe?" 
      "No, da Tréport, la prima visita è per voi." 
      "Ve ne ringrazio" disse Montecristo,  nel  modo  con  cui  avrebbe 
      detto qualunque altra cosa. 
      "Suvvia, vediamo che novità ci sono?" 
      "Novità? E le chiedete a me ad uno straniero?" 
      "So ben io: quando chiedo novità, vi chiedo se avete fatto qualche 
      cosa per me." 
      "Mi   avete  dunque  incaricato  di  qualche  commissione?"  disse 
      Montecristo, fingendo d'esser inquieto. 
      "Via, via" disse Alberto, "non simulate indifferenza!  Si dice che 
      le  sensazioni  simpatiche  attraversino  le distanze...  Ebbene a 
      Tréport ho ricevuto la mia scossa elettrica: se non avete  operato 
      per me, almeno avete pensato a me." 
      "Ciò è possibile" disse Montecristo. "Ho infatti pensato a voi, ma 
      la corrente elettrica operava,  ve lo confesso,  indipendentemente 
      dalla mia volontà." 
      "Davvero? Raccontatemi, ve ne prego." 
      "E' facile... Il signor Danglars ha pranzato da me." 
      "Lo so bene,  poiché per fuggire la sua presenza,  mia madre ed io 
      partimmo." 
      "Ma ha pranzato anche col signor Andrea Cavalcanti." 
      "Il vostro principe italiano." 
      "Non  esageriamo,  il  signore  Andrea si dà soltanto il titolo di 
      conte." 
      "Sì dà, dite voi?" 
      "Dico, si dà." 
      "Dunque non lo è?" 
      "E lo so io forse?  Egli se lo dà,  io lo do a lui,  tutti  glielo 
      danno... Non è come se lo avesse?" 
      "Che uomo strano siete... Ma mi preme sapere... Il signor Danglars 
      ha dunque pranzato qui?" 
      "Sì." 
      "Col vostro conte Andrea Cavalcanti?" 
      "Col conte Andrea Cavalcanti,  il marchese suo padre, e la signora 
      Danglars e la signora Villefort,  il signor  Debray,  Massimiliano 
      Morrel,  e  poi chi altro ancora?...  Aspettate...  Ah,  il signor 
      Chateau-Renaud." 
      "Si è parlato di me?" 
      "Non se n è detta una parola." 
      "Tanto peggio." 
      "Perché tanto peggio? Mi pare che, se siete stato dimenticato,  fu 
      quel che desideravate." 
      "Mio  caro conte,  se non si è parlato di me,  è segno che mi si è 
      pensato molto; ed allora sono alla disperazione." 
      "Che v'importa, quando la signorina Danglars non era nel numero di 
      quelli che qui vi pensavano?  Ah,  è vero,  lei poteva pensarvi da 
      casa sua." 
      "Oh,  in quanto a questo, no, ne sono sicuro, o se lei mi pensava, 
      fu certo allo stesso modo ch'io pensavo a lei." 
      "Commovente simpatia!" disse il conte. "Allora vi detestate?" 
      "Ascoltate" disse Morcerf.  "Se la signorina Danglars fosse  donna 
      da  prendere  pietà  del  martirio  ch'io  soffro  per  lei  e  da 
      ricompensarmene  al  di  fuori  delle  conversazioni  matrimoniali 
      stabilite   fra  le  nostre  due  famiglie,   ciò  mi  andrebbe  a 
      meraviglia.  Alle corte,  credo che la signorina Danglars  sarebbe 
      una graziosissima amica, ma come moglie, diavolo..." 
      "Bravo!"  disse  Montecristo ridendo.  "Questo è il vostro modo di 
      pensare sulla vostra fidanzata?" 
      "Un poco brutale,  è vero,  ma  perlomeno  sincero.  Ora,  giacché 
      questo  sogno  non  si  può  convertire  in realtà,  e siccome per 
      giungere ad un certo scopo bisogna che la  signorina  diventi  mia 
      moglie,  vale  a  dire  venga a vivere con me,  che pensi,  canti, 
      vicino a me,  che componga versi e musica a dieci passi da  me,  e 
      tutto  questo  durante  tutta  la mia vita,  allora mi spaventa... 
      Un'amica, mio caro conte,  si lascia,  ma la moglie,  capperi!,  è 
      un'altra cosa;  vale a dire si conserva eternamente, e da vicino e 
      da lontano." 
      "Siete difficile, visconte." 
      "Sì, perché spesso penso ad una cosa impossibile." 
      "A quale?" 
      "A trovarmi per moglie una donna come  quella  che  mio  padre  ha 
      trovato per se stesso." 
      Montecristo  impallidì,  e  guardò Alberto che scherzava con delle 
      magnifiche pistole,  delle quali  faceva  rapidamente  scattare  i 
      grilletti. 
      "Dunque vostro padre è stato molto felice?" disse. 
      "Sapete  la mia opinione sul conto di mia madre,  signor conte: un 
      angelo del cielo! Ed è come voi la vedete: bella ancora, spiritosa 
      sempre,  più buona che mai.  Giungo da Tréport...  Per  tutt'altro 
      figlio,   eh,   mio  Dio!,  accompagnare  sua  madre  sarebbe  una 
      compiacenza o un sacrificio. Ma io, passo quattro giorni da solo a 
      solo con lei,  più soddisfatto,  più  entusiasta  ancora,  che  se 
      avessi accompagnato a Tréport la regina Mab, o Titama." 
      "Questa  è  una  perfezione che dispera,  e voi date,  a quanti vi 
      sentono, gran voglia di restare celibi." 
      "Ecco precisamente" rispose Morcerf, "perché sapendo che esiste al 
      mondo una donna perfetta,  non mi curo  di  sposare  la  signorina 
      Danglars.  Avete  mai  notato  come  il nostro egoismo riveste dei 
      colori più brillanti tutto ciò che ci appartiene?  Il diamante che 
      luccicava  nella  vetrina  di  Marlé o di Fossin diventa più bello 
      ancora dopo che è nostro,  ma se l'evidenza ci sforza a  conoscere 
      che  ce  n'è  un  altro  di  un'acqua  più  pura,  e che voi siete 
      condannato  a  portare  eternamente  questo   diamante   inferiore 
      all'altro,  capite  quanto dev'essere il soffrire!  Ecco perché io 
      balzerò di gioia  il  giorno  in  cui  la  signorina  Danglars  si 
      accorgerà  che  non  sono  che un meschino atomo,  e che ho appena 
      tante centinaia di mille franchi per quanti milioni ha lei." 
      "Montecristo sorrise. 
      "Io avevo ben pensato ad una cosa" continuò Alberto. "Franz ama le 
      cose  eccentriche;   volevo  che  s'innamorasse  della   signorina 
      Danglars,  ma  malgrado  quattro  lettere che gli ho scritte nello 
      stile più insinuante, mi ha imperturbabilmente risposto: 
      "Io sono eccentrico,  è vero,  ma la mia eccentricità  non  giunge 
      fino a ritirare la mia parola quando l'ho impegnata"." 
      "Ecco ciò che io chiamo trasporto d'amicizia, dare ad un altro per 
      moglie  la  donna  che non si vorrebbe per sé che nella condizione 
      d'amica." 
      Alberto sorrise: 
      "A proposito, è in arrivo questo caro Franz...  Ma poco v'importa, 
      perché credo non lo vediate tanto di buon occhio." 
      "Io?" disse Montecristo. "Mio caro visconte, e da cosa arguite che 
      non amo il signor Franz? Caro visconte, io amo ogni persona..." 
      "Ed io sono compreso da ogni persona... Grazie!" 
      "Oh,    non    confondiamo"   disse   Montecristo.    "Amo   tutti 
      cristianamente;   ma  non  odio  che  certe  determinate  persone. 
      Ritorniamo al signor Franz: dite che ritorna?" 
      "Sì,  chiamato  dal  signor Villefort anche lui accanito a ciò che 
      sembra nel voler maritare la signorina Valentina,  quanto Danglars 
      nel maritare la signorina Eugenia.  Pare che lo stato più faticoso 
      sia quello di essere padre di ragazze in età da marito: sembra che 
      dia loro la febbre,  e che il loro polso batta  ottanta  volte  il 
      minuto fin tanto che se ne siano sbarazzati." 
      "Ma  il  signor  d'Epinay non vi assomiglia;  sembra prenda il suo 
      male con pazienza." 
      "Anche meglio,  lo prende sul serio,  si  mette  già  la  cravatta 
      bianca  e  parla  della  sua famiglia.  Del resto ha per Villefort 
      grandissimo rispetto." 
      "Meritato, non è vero?" 
      "Lo credo,  il signor Villefort  è  sempre  passato  per  un  uomo 
      severo, ma giusto." 
      "Alla buon'ora, eccone finalmente uno" disse Montecristo, "che non 
      trattate come quel povero Danglars." 
      "Forse  dipenderà  dal  non essere obbligato a sposarne la figlia" 
      disse Alberto ridendo. 
      "In verità,  mio caro signore" ripeté Montecristo,  "siete di  una 
      frivolezza mostruosa." 
      "Io?" 
      "Sì voi... Prendete un sigaro?" 
      "Ben volentieri, e perché sono frivolo?" 
      "Ma perché state a difendervi, a dibattervi per non volere sposare 
      la signorina Danglars.  Oh,  mio Dio! Lasciate scorrere le cose, e 
      forse non sarete il primo a ritirare la vostra parola." 
      "Bah!" fece Alberto, aprendo due grandi occhi. 
      "Eh, senza dubbio, signor visconte, non vi si metterà per forza la 
      testa fra le porte, che diavolo! Via, sul serio,  avete la volontà 
      di sciogliervi da questo matrimonio?" 
      "Pagherei centomila franchi per questo." 
      "Ebbene siete fortunato; il signor Danglars è disposto a pagare il 
      doppio per giungere alla stessa meta." 
      "Ed è vera questa fortuna?" disse Alberto, senza però impedire che 
      passasse  una  impercettibile  nube  sul suo viso.  "Ma,  mio caro 
      conte, il signor Danglars ha dunque dei motivi?..." 
      "Ah, eccoti, natura orgogliosa ed egoista! Alla buon'ora,  ritrovo 
      l'uomo  che  vuole  lacerare l'amor proprio degli altri a colpi di 
      mannaia, e che grida quando si fora il suo con una spilla." 
      "No, ma perché mi sembra che il signor Danglars..." 
      "Dovesse essere contentissimo di voi, non è vero? Ebbene il signor 
      Danglars è un uomo di cattivo gusto, ma è ancor più contento di un 
      altro..." 
      "E di chi dunque?" 
      "Non lo so... Studiate,  guardate,  afferrate le allusioni al loro 
      passaggio, e ricavatene profitto per voi..." 
      "Certo,  capisco...  Ascoltate, mia madre... no, non mia madre, mi 
      sbaglio, mio padre ha concepito l'idea di dare una festa da ballo. 
      "Una festa da ballo in questa stagione dell'anno?" 
      "I balli in estate sono di moda." 
      "Se non fossero di moda, la contessa non dovrebbe che desiderarlo, 
      e lo diventerebbero." 
      "Non  c'è  male...  Capirete  che  questi  sono  balli  di  sangue 
      purissimo:  quelli  che  restano  a Parigi nel mese di giugno sono 
      veri parigini.  Vorreste incaricarvi di un invito  per  i  signori 
      Cavalcanti?" 
      "Fra quanti giorni avrà luogo questo ballo?" 
      "Sabato." 
      "Il signor Cavalcanti padre sarà partito." 
      "Ma il signor Cavalcanti figlio rimane.  Volete voi incaricarvi di 
      accompagnarvelo?" 
      "Sentite, visconte, non lo conosco." 
      "Non lo conoscete?" 
      "No, l'ho veduto per la prima volta tre o quattro giorni fa, e non 
      ne rispondo per niente." 
      "Ma voi però lo ricevete..." 
      "Per me è un'altra cosa; mi è stato raccomandato da un bravo abate 
      che   potrebbe   anche   essere   stato   ingannato.    Invitatelo 
      direttamente, sta bene, ma non mi chiedete di presentarvelo; se in 
      seguito  dovesse sposare la signorina Danglars,  mi accusereste di 
      maneggio,  e mi vorreste tagliar la gola.  D'altra parte non so se 
      ci verrò io stesso." 
      "Dove?" 
      "Al vostro ballo." 
      "E perché non ci verrete?" 
      "Innanzitutto non mi avete ancora invitato." 
      "Vengo espressamente per portarvi l'invito." 
      "Oh, siete troppo gentile; ma posso esserne impedito." 
      "Quando  vi  avrò  detta  una  cosa,  sarete abbastanza amabile da 
      sacrificare tutti i vostri impedimenti." 
      "Dite." 
      "Mia madre ve ne prega." 
      "La contessa Morcerf?" riprese Montecristo rabbrividendo. 
      "Ah,  conte" disse Alberto,  "vi prevengo che la  signora  Morcerf 
      parla con me liberamente,  e se non avete sentito scricchiolare le 
      fibre simpatetiche di cui vi parlavo,  è segno che  ne  siete  del 
      tutto  privo:  per quattro giorni non abbiamo fatto che parlare di 
      voi." 
      "Di me? Voi mi colmate di gioia!..." 
      "E' il privilegio della vostra posizione,  quando si è  un  enigma 
      vivente!" 
      "Ah,  sono  dunque  un  enigma anche per vostra madre?  In verità, 
      l'avrei creduta troppo ragionevole per abbandonarsi a simili  voli 
      d'immaginazione!" 
      "Mio caro conte,  siete un enigma,  per tutti,  per mia madre come 
      per tutti gli altri; enigma accettato ma non ancora sciolto... Mia 
      madre,  soltanto,  mi chiede sempre come mai siete  così  giovane. 
      Credo  che in sostanza,  mentre la contessa G.  vi prende per lord 
      Rutwen,  mia madre vi prende per Cagliostro o per il conte di  San 
      Germano.  Nella  prima  visita  che  farete  alla signora Morcerf, 
      confermatela in quest'opinione. Ciò non sarà difficile a voi,  che 
      possedete la pietra filosofale dell'uno e lo spirito dell'altro." 
      "Vi  ringrazio  d'avermene  avvisato"  disse  il conte sorridendo. 
      "Cercherò di prepararmi a far fronte ad ogni supposizione." 
      "Così, verrete sabato?" 
      "Poiché la signora Morcerf me lo comanda." 
      "Siete atteso." 
      "Ed il signor Danglars?" 
      "Oh,  ha già ricevuto il suo triplice invito;  mio  padre  se  n'è 
      incaricato.  Cercheremo  pure di avere il signor Villefort,  ma ne 
      disperiamo ancora." 
      "Non bisogna mai disperare di niente, dice il proverbio." 
      "Danzate, caro conte?" 
      "Io?" 
      "Sì, voi... Che vi sarebbe di strano se danzaste?" 
      "Infatti sinché non si siano oltrepassati  i  quarant'anni...  No, 
      non danzo; ma amo veder danzare. E la signora Morcerf danza?" 
      "Mai!  Parlerete,  ha  tanta  voglia di parlare con voi!  Siete il 
      primo uomo per il  quale  mia  madre  ha  manifestato  una  simile 
      curiosità." 
      Alberto  prese il cappello e si alzò,  il conte lo ricondusse sino 
      alla porta. 
      "Mi faccio un rimprovero"  diss'egli  fermandolo  sull'alto  della 
      scalinata. 
      "E quale?" 
      "Sono stato indiscreto; non dovevo parlarvi del signor Danglars." 
      "Al contrario,  parlatemene pure,  spesso, sempre, ma nello stesso 
      modo." 
      "Bene! A proposito, quando arriverà d'Epinay?" 
      "Fra cinque o sei giorni al più." 
      "E quando prenderà moglie?" 
      "Appena arriveranno il signore e la signora di Saint-Méran." 
      "Conducetemelo  dunque,   appena   sarà   a   Parigi.   Quantunque 
      pretendiate   che  non  l'ami,   vi  confido  che  sarò  lieto  di 
      rivederlo." 
      "Benissimo, i vostri ordini saranno eseguiti." 
      "Arrivederci." 
      "Sabato, in ogni caso, sicuramente... Non è vero?" 
      "Certo, ho data la mia parola." 
      Il conte seguì con  gli  occhi  Alberto  salutandolo  colla  mano: 
      quando fu risalito sul suo calesse, si voltò, e trovando Bertuccio 
      dietro di sé: 
      "Ebbene?" gli domandò. 
      "Lei è andata al palazzo" rispose l'intendente. 
      "E vi si è fermata lungo tempo?" 
      "Un'ora e mezzo." 
      "Ed è rientrata in casa sua?" 
      "Direttamente." 
      "Ebbene,  caro  Bertuccio"  disse  il  conte,  "se ora mi resta un 
      consiglio da darvi,  è di vedere se in  Normandia  potete  trovare 
      quella piccola terra di cui vi ho parlato." 
      Bertuccio  salutò  il  conte  e  siccome  i suoi desideri erano in 
      perfetta armonia coll'ordine  che  aveva  ricevuto,  partì  quella 
      stessa sera. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 68. 
                               LE INFORMAZIONI. 
 
 
      Villefort   mantenne   la   parola   alla   signora  Danglars,   e 
      particolarmente a se stesso nel cercare di sapere in qual modo  il 
      conte  di  Montecristo aveva potuto conoscere la storia della casa 
      di Auteuil: scrisse nello stesso giorno  ad  un  certo  signor  de 
      Boville,  che,  dopo  essere  stato in altri tempi ispettore delle 
      prigioni,  era impiegato con un grado superiore nella  polizia  di 
      sicurezza,  per  avere  le  informazioni  che  desiderava e questi 
      chiese due giorni per sapere con esattezza da chi  avrebbe  potuto 
      informarsi. 
      Passati i primi giorni, Villefort ricevette la seguente nota: 
 
      "La  persona  che  si  chiama il conte di Montecristo e conosciuta 
      particolarmente da lord Wilmore,  ricco inglese che qualche  volta 
      si  vede  a  Parigi,  e  che  presentemente  vi  si trova;  egli è 
      conosciuto ugualmente dall'abate Busoni, prete siciliano di grande 
      reputazione in Oriente, dove ha fatto moltissime buone opere." 
 
      Villefort  rispose  coll'ordine  di  prendere  sopra  questi   due 
      stranieri le informazioni più sollecite e più precise;  l'indomani 
      sera i suoi ordini erano eseguiti,  ed ecco  le  informazioni  che 
      ricevette. 
      L'abate, il quale non era a Parigi che per un mese, abitava dietro 
      Saint-Sulpice,  in  una piccola casa composta di un sol piano e di 
      un piano terreno: quattro camere,  due in alto  e  due  in  basso, 
      formavano tutta l'abitazione, di cui egli era l'unico inquilino. 
      Le  due camere al piano terra si componevano di una sala da pranzo 
      con tavola,  sedie,  e credenza di noce,  e di un salotto tinto in 
      bianco senza ornamenti, senza tappeto, e senza orologio a pendolo. 
      Si  vedeva  che  l'abate  si  limitava  agli  oggetti  di  stretta 
      necessità. 
      E' vero che preferiva  abitare  il  primo  piano  composto  di  un 
      salotto, tutto ricoperto di libri di teologia, e di pergamene, fra 
      le  quali  lo si vedeva studiare,  al dire del suo cameriere,  per 
      mesi interi,  e in realtà era  piuttosto  una  biblioteca  che  un 
      salotto.  Questo  cameriere guardava i visitatori da una specie di 
      feritoia, ed allorché la loro figura gli era sconosciuta e non gli 
      piaceva,  rispondeva che il signor abate non  era  a  Parigi;  ciò 
      contentava  molti,  sapendo  che  l'abate viaggiava spesso,  e che 
      qualche volta restava assente lungo tempo.  Del resto che  sia  in 
      casa,  o  no,  che  si  trovi a Parigi o al Cairo,  l'abate regala 
      sempre,  e la feritoia  serve  di  ruota  alle  elemosine  che  il 
      cameriere distribuisce incessantemente a nome del suo padrone. 
      L'altra camera,  situata vicino alla biblioteca, era una camera da 
      letto.  Un letto senza tende,  quattro  sedie,  ed  un  canapè  di 
      velluto d'Utrecht giallo, formavano, con un inginocchiatoio, tutto 
      il mobilio. 
      Quanto a lord Wilmore, abitava rue Fontaine-Saint-Georges. Era uno 
      di  quegli inglesi "touristes" che consumano tutta la loro fortuna 
      in viaggi: prendeva in affitto e mobigliato l'appartamento in  cui 
      abitava, e nel quale passava solo due ore nel giorno, e vi dormiva 
      raramente.  Una  delle  sue  manie era di non volere assolutamente 
      parlare la lingua francese, che però scriveva, si assicurava,  con 
      molta purezza. 
      Il giorno dopo in cui erano giunte queste preziose informazioni al 
      procuratore del re,  un uomo,  che scendeva di carrozza all'angolo 
      della rue Féron,  venne a bussare ad una piccola  porta  tinta  di 
      verde oliva, e domandò dell'abate Busoni. 
      "L'abate è uscito fin da questa mattina" rispose il cameriere. 
      "Potrei  non  contentarmi di questa risposta" disse il visitatore, 
      "poiché vengo da parte di una persona, per la quale si è sempre in 
      casa. Ma vogliate rimettere all'abate Busoni..." 
      "Vi ho già detto che non c'è" riprese il cameriere. 
      "Allora,  quando tornerà,  consegnategli  questa  carta  e  questo 
      foglio  sigillato.  Questa  sera alle otto il signor abate sarà in 
      casa?" 
      "Oh,  senza dubbio,  a meno che non sia occupato nei suoi  lavori, 
      perché allora è come se fosse uscito." 
      "Ritornerò  dunque  questa  sera  all'ora  convenuta"  riprese  il 
      visitatore, e si ritirò. 
      Infatti all'ora indicata,  lo stesso  uomo  ritornò  colla  stessa 
      carrozza, ma questa volta, invece di fermarsi all'angolo della rue 
      Féron, si fermò davanti alla porta verde. 
      Bussò, gli fu aperto ed entrò. 
      Ai  segni di rispetto di cui fu prodigo il cameriere verso di lui, 
      comprese che la lettera aveva fatto l'effetto desiderato. 
      "Il signor abate è in casa?" 
      "Sì,  lavora nella sua biblioteca,  ma aspetta il signore" rispose 
      il servitore. 
      Lo  straniero  salì una scala abbastanza ripida,  e davanti ad una 
      tavola,  la cui superficie era inondata  dalla  luce  di  un  gran 
      paralume,   mentre  il  resto  dell'appartamento  era  nell'ombra, 
      scoperse l'abate in abito ecclesiastico,  colla testa  coperta  da 
      una di quelle grandi cocolle sotto le quali nascondevano il cranio 
      i saggi del medio evo. 
      "Ho l'onore di parlare all'abate Busoni?" domandò il visitatore. 
      "Sì, signore" disse l'abate. "E voi siete la persona che il signor 
      de Boville, antico intendente delle prigioni, m'invia da parte del 
      signor prefetto di polizia?" 
      "Precisamente signore." 
      "Uno   degli  ufficiali  incaricati  alla  pubblica  sicurezza  di 
      Parigi?" 
      "Sì, signore" rispose lo straniero,  con una specie di esitazione, 
      e soprattutto con un poco di rossore. 
      L'abate si accomodò i grandi occhiali che gli coprivano gli occhi, 
      e  si  mise  a  sedere,   facendo  segno  al  visitatore  di  fare 
      altrettanto. 
      "Vi ascolto,  signore"  disse  l'abate  con  un  accento  italiano 
      pronunciato. 
      "La  missione  di  cui sono stato incaricato,  signore" riprese il 
      visitatore,  calcando sopra ciascuna parola come se avessero fatto 
      fatica  ad  uscire,  "è una missione confidenziale tanto per colui 
      che la compie, che per colui per mezzo del quale si compie." 
      L'abate s'inchinò. 
      "Sì" riprese lo straniero,  "la vostra probità,  signor  abate,  è 
      tanto   conosciuta   dal  prefetto  di  polizia,   ch'egli,   come 
      magistrato,  vuole sapere una cosa che importa a  questa  pubblica 
      sicurezza  a nome della quale sono stato eletto deputato: speriamo 
      dunque, che non vi saranno né legami d'amicizia, né considerazioni 
      umane  che  possano  impegnarvi  a  nascondere  la   verità   alla 
      giustizia." 
      "Purché,  signore,  le cose che vi interessano sapere non tocchino 
      in alcun modo gli scrupoli della mia coscienza;  sono prete,  ed i 
      segreti della confessione devono rimanere fra me e la giustizia di 
      Dio, e non fra me e la giustizia umana." 
      "Oh,  state  tranquillo,  signor abate,  in ogni modo metteremo al 
      sicuro la vostra coscienza." 
      A queste parole,  l'abate spostando il  paralume,  lo  alzò  dalla 
      parte opposta,  in modo che,  illuminando il viso dello straniero, 
      il suo rimaneva sempre nell'ombra. 
      "Perdonate, signor abate" disse l'inviato del prefetto di polizia, 
      "ma questa luce mi stanca terribilmente la vista." 
      L'abate abbassò il cartone verde. 
      "Ora, signore, vi ascolto; parlate." 
      "Eccomi al fatto. Conoscete il signor conte di Montecristo?" 
      "Volete parlare del signor Zaccone, presumo?" 
      "Zaccone? Non si chiama dunque Montecristo?" 
      "Montecristo è il nome di una terra, o piuttosto di uno scoglio, e 
      non il nome di famiglia." 
      "Ebbene,  sia,  non discutiamo sulle parole,  e poiché  il  signor 
      Montecristo ed il signor Zaccone sono lo stesso uomo..." 
      "Assolutamente lo stesso." 
      "Parliamo del signor Zaccone." 
      "Sia." 
      "Vi domandavo se lo conoscete?" 
      "Molto bene." 
      "Chi è?" 
      "É il figlio di un ricco armatore di Malta." 
      "Sì, lo so bene, questo è quanto si dice, ma, capirete, la polizia 
      non può contentarsi di un "si dice"." 
      "Tuttavia"  riprese  l'abate,  con  un sorriso del tutto affabile, 
      "quando questo "si dice" è la verità, bisogna bene che tutti se ne 
      contentino, e che la polizia faccia come gli altri." 
      "Ma siete sicuro di ciò che dite?" 
      "Come, se ne sono sicuro?" 
      "Faccio notare,  signore,  che non ho alcun sospetto sulla  vostra 
      buona fede. Vi dico, siete sicuro?" 
      "Ascoltate:  ho  conosciuto il signor Zaccone padre,  e quando ero 
      piccolo ho  giocato  un  mucchio  di  volte  con  suo  figlio  nei 
      cantieri." 
      "Ma questo titolo di conte?" 
      "Sapete bene che si può comprarlo..." 
      "In Italia?" 
      "Dappertutto." 
      "Ma queste ricchezze immense, a quanto si dice?" 
      "Oh, in quanto a ciò, immense è una parola." 
      "Quanto credete che possegga?" 
      "Avrà da centocinquanta a duecento mila lire di rendita." 
      "Ah,  ecco,  è ragionevole" disse il visitatore, "ma si parlava di 
      tre quattro milioni." 
      "Duecentomila lire  di  rendita,  fanno  appunto  un  capitale  di 
      quattro milioni." 
      "Ma si parlava di tre o quattro milioni di rendita." 
      "Oh, non è credibile..." 
      "E voi conoscete la sua isola di Montecristo?" 
      "Certamente...  Chiunque venga da Palermo, da Napoli, o da Roma in 
      Francia per via mare, la conosce perché le è passato vicino e l'ha 
      veduta passando." 
      "E' un soggiorno incantevole, a quanto si assicura." 
      "Non è che un semplice scoglio." 
      "E perché dunque il conte ha comprato uno scoglio?" 
      "Per esser conte.  In  Italia  per  diventare  conte,  c'è  ancora 
      bisogno di una contea." 
      "Avrete  senza dubbio inteso parlare delle avventure giovanili del 
      signor Zaccone?" 
      "Il padre?" 
      "No, il figlio." 
      "Ah, ecco dove cominciano le mie incertezze,  perché lì ho perduto 
      di vista il mio giovane amico." 
      "Ha fatto la guerra?" 
      "Credo sia stato di leva." 
      "In quale arma?" 
      "La marina." 
      "Non siete il suo confessore?" 
      "No, signore; lo credo luterano." 
      "Come luterano?" 
      "Dico,  credo non affermo.  D'altra parte,  credevo che in Francia 
      fosse stata stabilita la libertà dei culti." 
      "Senza dubbio,  per cui non ci occupiamo in questo  momento  delle 
      sue credenze,  ma delle sue azioni; in nome del signor prefetto di 
      polizia, v'intimo di dire tutto ciò che sapete." 
      "Egli passa per un uomo molto caritatevole.  A Roma è stato  fatto 
      cavaliere  del Cristo,  per gli eminenti servizi resi ai cristiani 
      d'Oriente; ed ha cinque o sei croci per servizi resi ai principi o 
      agli stati." 
      "E non le porta?" 
      "No,  ma ne va superbo,  dice di amare più le ricompense  date  ai 
      benefattori  dell'umanità,  che  quelle  accordate  ai distruttori 
      degli uomini." 
      "E dunque una specie di quacquero." 
      "Precisamente." 
      "Si sa se abbia amici?" 
      "Sì, perché ha per amici tutti quelli che lo conoscono." 
      "Ma insomma avrà qualche nemico?" 
      "Uno solo." 
      "Come si chiama?" 
      "Lord Wilmore." 
      "Dov'è?" 
      "In questo momento si trova a Parigi." 
      "E può darmi informazioni?" 
      "Preziose. Era in India nello stesso tempo di Zaccone." 
      "Sapete dove abiti?" 
      "In qualche parte della Chaussée d'Antin;  ma non so né il numero, 
      né la strada." 
      "Siete in urto con questo inglese!" 
      "Io amo Zaccone,  egli lo detesta,  perciò siamo freddi per questa 
      ragione." 
      "Signor abate,  credete che il conte di Montecristo sia mai  stato 
      in Francia, prima di questo viaggio a Parigi?" 
      "Posso  assicurarvelo: non c'è mai stato.  Si è rivolto a me,  sei 
      mesi fa, per avere le informazioni che desiderava.  Ma siccome non 
      sapevo  io  stesso  quando  sarei  tornato a Parigi,  gli ho fatto 
      conoscere il signor Cavalcanti." 
      Andrea?" 
      "No, Bartolomeo, il padre." 
      "Benissimo,  signore;  non ho più da chiedervi  che  una  cosa,  e 
      v'intimo,  in nome dell'onore,  dell'umanità e della religione, di 
      rispondermi senza giri di parole." 
      "Dite pure, signore." 
      "Sapete con quale scopo il signore di Montecristo ha comprato  una 
      casa ad Auteuil?" 
      "Certamente, perché me lo ha detto." 
      "Con quale scopo, signore?" 
      "Quello  di  fondarvi  un ospizio per gli alienati,  del genere di 
      quello fondato a  Palermo  dal  barone  Pisani.  Conoscete  questo 
      ospizio?" 
      "Di fama sì, signore." 
      "E' una istituzione magnifica." 
      E  con questo,  l'abate salutò lo straniero come per fargli capire 
      che voleva riprendere il lavoro interrotto.  Il visitatore sia che 
      capisse  il  desiderio dell'abate,  sia che fosse al termine delle 
      sue domande, si alzò a sua volta.  L'abate lo ricondusse fino alla 
      porta: 
      "Voi  fate  delle  splendide  elemosine"  disse il visitatore,  "e 
      quantunque si dica siate ricco, oserei offrirvi qualche cosa per i 
      vostri poveri... Sdegnereste la mia offerta?" 
      "Grazie,  signore,  non c'è che una sola cosa di cui io sia geloso 
      in  questo  mondo,  ed  è  che  la  beneficenza  la devo pagare di 
      persona..." 
      "Ma pure..." 
      "Questa è una  decisione  irrevocabile.  Ma  cercate,  signore,  e 
      troverete:  purtroppo  sul  sentiero di ciascun ricco,  si urta in 
      molte miserie!" 
      L'abate salutò un'ultima volta  aprendo  la  porta:  lo  straniero 
      salutò anch'egli ed uscì. La carrozza lo condusse direttamente dal 
      signor  Villefort.  Un'ora  dopo,  la carrozza uscì nuovamente,  e 
      questa volta si diresse verso  la  rue  Fontaine-Saint-George:  là 
      abitava lord Wilmore. 
      Lo  straniero  aveva  scritto  a  lord  Wilmore per domandargli un 
      convegno che questi aveva fissato  per  le  dieci.  Così,  siccome 
      l'inviato  del  prefetto  di polizia era giunto dieci minuti prima 
      delle dieci,  gli fu risposto che lord Wilmore,  l'esattezza e  la 
      puntualità  in persona,  non era ancora rientrato,  ma che sarebbe 
      rientrato al battere delle dieci. 
      Il visitatore aspettò nella sala, che nulla aveva di notevole,  ed 
      era  come  tutte  le  sale  degli  appartamenti  ammobigliati.  Un 
      caminetto con due vasi di Sèvres moderni,  un orologio  a  pendolo 
      con  un  Amore che tendeva l'arco,  uno specchio in due parti;  da 
      ciascun lato di questo specchio un'incisione,  una  rappresentante 
      Omero  cieco  condotto da una Musa,  l'altra Belisario questuante; 
      una carta grigia sul muro, un tavolo ricoperto da un tappeto rosso 
      stampato in nero: tale era la sala di lord Wilmore. 
      Era illuminata da due globi di vetro appannato che non  spandevano 
      che  una  debolissima  luce,  disposta espressamente per gli occhi 
      stanchi dell'inviato dal signor prefetto di  polizia.  In  capo  a 
      dieci  minuti  suonarono  le dieci;  al quinto colpo,  la porta si 
      aprì, e comparve lord Wilmore. 
      Era un uomo piuttosto alto,  aveva le basette  rade  e  rosse,  la 
      pelle  bianca,  ed  i  capelli biondi grigiastri;  era vestito con 
      tutta la eccentricità inglese, cioè, un abito turchino coi bottoni 
      d'oro e col colletto  alto  e  imbottito,  un  gilè  di  cachemire 
      bianco,  ed un pantalone di nanchino, tre pollici troppo corto, ma 
      a cui i sottopiedi della stessa stoffa impedivano di risalire fino 
      alle ginocchia. 
      La sua prima parola entrando fu: 
      "Sapete, signore, che io non parlo il francese." 
      "So almeno  che  non  amate  parlare  la  nostra  lingua"  ribatté 
      l'inviato del prefetto di polizia. 
      "Ma  potete  parlarla"  riprese  lord  Wilmore,  "perché se non la 
      parlo, la capisco." 
      "Ed io" riprese il visitatore, cambiando idioma, "parlo abbastanza 
      facilmente l'inglese per  sostenere  la  conversazione  in  questa 
      lingua. Non v'incomodate dunque, signore." 
      L'inviato  del  prefetto  di  polizia  gli  presentò la lettera di 
      presentazione. 
      "Ah!" fece lord Wilmore con quella freddezza  che  non  appartiene 
      che  ai  figli  più puri dell'Inghilterra,  poi lesse con tutta la 
      flemma anglicana, e quando ebbe terminato: 
      "Capisco" disse in inglese, "capisco benissimo." 
      Allora cominciarono le domande,  che furono pressappoco le  stesse 
      di quelle rivolte all'abate Busoni. 
      Ma  siccome  lord  Wilmore,  nemico del conte di Montecristo,  non 
      aveva la stessa discrezione dell'abate,  furono molto più  estese. 
      Raccontò la gioventù di Montecristo, che, secondo lui, era entrato 
      al  servizio  all'età  di  dieci  anni  presso uno di quei piccoli 
      sovrani dell'India che fanno la guerra agl'inglesi;  là  lo  aveva 
      incontrato per la prima volta,  ed avevano combattuto l'uno contro 
      l'altro.  In questa guerra Zaccone era stato fatto prigioniero,  e 
      mandato  in Inghilterra,  adibito al lavoro sui ponti delle navi e 
      da una di esse era fuggito a nuoto.  Allora aveva  incominciato  i 
      suoi  duelli,  le  sue  avventure...  Durante l'insurrezione della 
      Grecia,  aveva servito nelle file dei greci.  Mentre era  al  loro 
      servizio,  aveva  scoperto  una  miniera di argento nelle montagne 
      della  Tessaglia,   ma  si  era  ben  guardato  dal  parlarne  con 
      chicchessia.  Dopo la battaglia di Navarrino,  e quando il governo 
      greco fu consolidato,  domandò al re Ottone un privilegio  per  lo 
      scavo  di questa miniera,  e gli fu accordato.  Di là venne quella 
      immensa fortuna che poteva, secondo lord Wilmore, calcolarsi a due 
      milioni di rendita, la quale però poteva d'improvviso cessare,  se 
      la miniera si fosse esaurita. 
      "Ma" domandò il visitatore, "sapete perché sia venuto in Francia?" 
      "Vuole  speculare  sulle  ferrovie"  disse  lord Wilmore,  "e poi, 
      essendo un valente chimico,  ed un fisico non  meno  distinto,  ha 
      scoperto un nuovo telegrafo di cui cerca l'applicazione." 
      "Quanto spenderà circa ogni anno?" domandò l'inviato. 
      "Oh,  cinque  o  seicentomila  franchi  tutt'al  più"  disse  lord 
      Wilmore. "Egli è avaro." 
      Era evidente che l'odio  faceva  parlare  l'inglese,  e  che,  non 
      sapendo  qual cosa rimproverare al conte,  gli rimproverava la sua 
      avarizia. 
      "Sapete qualche cosa della sua casa di Auteuil?" 
      "Sì, certamente." 
      "Ebbene che ne sapete?" 
      "Domandate con quale scopo l'ha comprata?" 
      "Sì." 
      "Ebbene,  il conte è uno speculatore che certamente si rovinerà in 
      esperimenti ed in utopie: pretende che ad Auteuil, nelle vicinanze 
      della casa che ha comprato, vi sia una corrente di acqua minerale, 
      che  può  rivaleggiare  con  le  acque  di Bagnères-de-Luchon e di 
      Cauterets.  Egli vuol fare del suo acquisto una  "bad-haus",  come 
      dicono  in Germania: ha già due o tre volte zappata tutta la terra 
      del giardino, per ritrovare la famosa corrente d'acqua;  e siccome 
      non  l'ha potuta scoprire,  vedrete che in breve comprerà tutte le 
      case che circondano la sua.  Adesso,  per il bene che gli  voglio, 
      spero  che  con  la sua ferrovia,  col suo telegrafo elettrico,  o 
      colla sua speculazione possa rovinarsi.  Lo aspetto al  varco  per 
      godere della sua sconfitta che non può tardare a venire,  o presto 
      o tardi!" 
      "E perché l'odiate?" domandò il visitatore. 
      "L'odio" rispose lord Wilmore, "perché passando in Inghilterra, ha 
      sedotto la moglie di uno dei miei amici." 
      "Ma se l'odiate, perché non cercate di vendicarvi di lui?" 
      "Mi sono già battuto tre volte col  conte;  la  prima  volta  alla 
      pistola, la seconda alla spada, la terza alla sciabola." 
      "E quale fu il risultato di questi duelli?" 
      "La  prima  volta  mi  ha  rotto  un  braccio,  la  seconda  mi ha 
      traversato il polmone,  la  terza  mi  ha  fatto  questa  ferita." 
      L'inglese voltò il colletto della camicia che gli saliva fino alle 
      orecchie, e mostrò la cicatrice di una recente ferita. 
      "Per  cui  ce l'ho con lui sempre più" ripeté l'inglese,  "ed egli 
      certamente non morirà che per mia mano." 
      "Ma" disse l'inviato,  "a me sembra che non abbiate scelto la  via 
      più giusta per ucciderlo." 
      "Oh"  esclamò  l'inglese,  "vado  tutti  i giorni al bersaglio,  e 
      prendo lezioni da Gurfier ogni due giorni!" 
      Ciò era quanto voleva sapere il visitatore,  o piuttosto tutto ciò 
      che gli sembrava sapesse l'inglese.  Egli dunque si alzò,  e, dopo 
      avere salutato lord Wilmore,  che gli rispose con quella rigidezza 
      e pulitezza propria degli inglesi, si ritirò. 
      Dal  suo  canto lord Wilmore dopo avere sentito chiudersi la porta 
      di strada,  rientrò nella camera da dove,  con due rapidi  tocchi, 
      perdette i capelli biondi,  le basette rosse, la falsa mascella, e 
      la cicatrice, per ritrovare i capelli neri, il colorito pallido, e 
      i denti di perla del conte di Montecristo. 
      E' vero che il signor Villefort,  e non l'inviato del prefetto  di 
      polizia,  fu  colui  che rientrò in casa del signor Villefort.  Il 
      procuratore si era alquanto calmato con quella doppia  visita,  la 
      quale,  benché nulla gli offrisse di rassicurante, non gli procurò 
      neppure nuove inquietudini.  Per la prima volta,  dopo  il  pranzo 
      d'Auteuil, dormì un poco più tranquillo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 69. 
                              LA FESTA DA BALLO. 
 
 
      Eravamo  giunti  alle  più  calde  giornate  del  mese  di luglio, 
      allorché venne quel sabato in cui doveva aver luogo il  ballo  del 
      signor Morcerf. 
      Erano  le  dieci  della  sera:  i  grandi  alberi del giardino del 
      palazzo del conte si ergevano  con  vigore,  sotto  un  cielo  ove 
      scorrevano,  in un fondo azzurro disseminato di stelle d'oro,  gli 
      ultimi vapori di un uragano che  aveva  minacciosamente  mormorato 
      tutta la giornata. 
      Nelle  sale del pian terreno si sentiva il rumore della musica,  e 
      lo strisciare del valzer e dei  galop,  mentre  i  raggi  luminosi 
      delle lampade passavano attraverso le aperture delle persiane. Nel 
      giardino  si  scorgevano  una  decina  di  servitori,  ai quali la 
      padrona  di  casa,   rassicurata  dal  tempo  che  sempre  più  si 
      rasserenava, aveva dato ordine di preparare la cena. 
      Fino  a quel momento si era esitato se la cena dovesse farsi nella 
      sala da pranzo, o sotto una lunga tenda di traliccio innalzata sul 
      prato.  Quel bel cielo azzurro,  tutto  sparso  di  stelle,  aveva 
      risolto  il  problema  a  favore  della  tenda  e  del  prato.  Si 
      illuminavano i viali del giardino con lampioni a colori,  come  si 
      usa  in  Italia,  e  si  sovraccaricava  di  candele e di fiori la 
      tavola,  come si usa in tutti i paesi in cui si  intende  il  vero 
      lusso della tavola, rarissimo quando si vuole ottenerlo completo. 
      Nell'istante in cui la contessa Morcerf rientrava nelle sale, dopo 
      aver  dato  gli  ultimi  ordini,  queste  cominciavano a riempirsi 
      d'invitati attirati  dalla  graziosa  ospitalità  della  contessa, 
      molto  più  che dalla distinta posizione del conte;  perché si era 
      certi che questa festa avrebbe offerto,  grazie al buon  gusto  di 
      Mercedes,  qualche particolare degno di essere raccontato,  o,  al 
      bisogno, imitato. 
      La signora Danglars,  cui  gli  avvenimenti  che  abbiamo  narrato 
      avevano  ispirato  una  profonda  inquietudine,  esitava ad andare 
      dalla signora  Morcerf,  quando  nella  mattina  la  sua  carrozza 
      incontrò quella di Villefort, il quale le aveva fatto un segno, le 
      due carrozze si erano avvicinate, e dai finestrini: 
      "Andate  dalla  signora  Morcerf,  non è vero?" aveva domandato il 
      procuratore del re. 
      "No!" aveva risposto la signora Danglars. "Soffro troppo." 
      "Avete torto, sarebbe importante che vi ci vedessero." 
      "Ebbene, vi andrò." 
      E le due carrozze ripresero il loro corso in senso opposto. 
      La signora Danglars era dunque venuta non  solamente  bella  della 
      sua  bellezza,  ma abbagliante per il lusso: entrava da una porta, 
      nel momento in cui Mercedes entrava dall'altra. 
      La  contessa  mandò  avanti  Alberto  ad  incontrare  la   signora 
      Danglars;  Alberto  si  avanzò,  fece alla baronessa i complimenti 
      meritati per la sua toilette, e le prese il braccio per condurla a 
      quel posto che le sarebbe piaciuto scegliere. 
      Alberto guardò intorno a sé. 
      "Voi cercate mia figlia?" disse sorridendo la baronessa. 
      "Lo confesso... Avreste avuto la crudeltà di non condurla?..." 
      "Rassicuratevi,  ha incontrato la signorina  Villefort,  e  ne  ha 
      preso  il  braccio,  osservate,  ci seguono tutte e due vestite di 
      bianco, l'una con un mazzetto di camelie,  l'altra con un mazzetto 
      di miosotis; ma ditemi dunque..." 
      "Che cercate voi pure?" domandò sorridendo Alberto. 
      "Questa sera non avete con voi il conte di Montecristo?" 
      "Diciassette!" disse Alberto. 
      "Che intendete dire?" 
      "Voglio dire che così va bene" rispose il visconte ridendo, "e che 
      voi  siete la diciassettesima persona che mi fa la stessa domanda. 
      Fortunato conte!... Voglio fargli i miei complimenti." 
      "E rispondete a tutti come a me?" 
      "Ah,  è vero,  non vi ho risposto...  Tranquillizzatevi,  signora, 
      avremo l'uomo alla moda, siamo fra i suoi privilegiati." 
      "Eravate all'Opera ieri sera?" 
      "No." 
      "Lui c'era." 
      "Davvero? L'eccentrico ha fatto qualche follia?" 
      "Può  farsi  vedere senza farne?  Ballava la Elssller nel "Diavolo 
      zoppo";  la principessa greca era in estasi.  Dopo la "cachoucha", 
      ha infilato un anello magnifico di brillanti nel nastro che legava 
      il suo mazzetto di fiori, e lo ha gettato alla graziosa ballerina, 
      la quale, al terzo atto, per fargli onore, si è presentata col suo 
      anello al dito. E la sua principessa greca verrà questa sera?" 
      "No,  bisogna  farne a meno: la sua posizione nella casa del conte 
      non è del tutto ufficiale..." 
      "Basta lasciatemi qui e salutate la signora  Villefort"  disse  la 
      baronessa, "vedo che muore dal desiderio di parlarvi." 
      Alberto  salutò  la  signora  Danglars,  e s'avvicinò alla signora 
      Villefort: 
      "Scommetto" disse Alberto interrompendola,  "che so ciò che volete 
      dirmi..." 
      "Ah, per esempio?" disse la signora Villefort. 
      "Se indovino, ne converrete?" 
      "Sì." 
      "Stavate per chiedermi se veniva il conte di Montecristo." 
      "Niente  affatto.  Non  è  di lui che mi occupo in questo momento. 
      Volevo chiedervi se avete notizie di Franz." 
      "Sì, da ieri." 
      "Che vi diceva?" 
      "Che partiva contemporaneamente alla lettera." 
      "Bene. Ora il conte?..." 
      "Il conte verrà, state tranquilla." 
      "Sapete che Montecristo ha un altro nome?" 
      "No, non lo sapevo." 
      "Montecristo è il nome di un'isola,  ma egli ha anche un  nome  di 
      famiglia." 
      "Non l'ho mai sentito dire, da lui." 
      "Io sono più informata di voi, si chiama Zaccone." 
      "E' possibile." 
      "So anche che è maltese." 
      "Ciò pure è possibile." 
      "Figlio di un armatore." 
      "Oh,  dovreste raccontare simili cose ad alta voce,  otterreste un 
      grandissimo successo!" 
      "Ha servito nelle Indie,  possiede  una  miniera  d'argento  nella 
      Tessaglia,  e viene a Parigi per fondare uno stabilimento di acque 
      minerali ad Auteuil." 
      "Ebbene" disse Morcerf,  "ecco delle  notizie!  Mi  permettete  di 
      divulgarle?" 
      "Sì,  ma a poco a poco,  ad una ad una,  senza dire che vengono da 
      me." 
      "E perché?" 
      "Perché è quasi un segreto sottratto." 
      "A chi?" 
      "Alla polizia." 
      "Allora queste notizie da chi le avete sapute?" 
      "Ieri sera,  in casa del prefetto.  Parigi si è stupita,  capirete 
      bene,  alla vista di un lusso così straordinario,  e la polizia ha 
      preso le sue informazioni." 
      "Ma bene!  Non sarebbe mancato altro  che  avessero  arrestato  il 
      conte come vagabondo, sotto il pretesto che è troppo ricco!" 
      "Era  quanto  poteva  accadergli,  se  le informazioni non fossero 
      state così favorevoli." 
      "Povero conte! Egli non pensa neppure al pericolo che ha corso." 
      "Lo credo bene." 
      "Allora bisogna avvertirlo." 
      "Al suo arrivo non mancherò." 
      In quel momento un bel giovane dagli occhi vivi, i capelli neri, i 
      baffi  lucidi,   venne  a  salutare  rispettosamente  la   signora 
      Villefort. 
      Alberto gli stese la mano. 
      "Signora" disse, "ho l'onore di presentarvi il signor Massimiliano 
      Morrel,  capitano degli Spahis, uno dei nostri buoni e soprattutto 
      bravi ufficiali." 
      "Ho già avuto il piacere d'incontrare il signore  ad  Auteuil,  in 
      casa  del  conte  di Montecristo..." rispose la signora Villefort, 
      voltandosi con una marcata freddezza. 
      Questa risposta, e soprattutto il tono con cui fu fatta, strinsero 
      il cuore del povero Morrel,  ma gli era preparato un compenso: nel 
      voltarsi, vide sul limite della porta una bella e bianca figura, i 
      suoi grandi occhi turchini,  senza un'apparente espressione, erano 
      fissi su di lui,  mentre le labbra si posavano su un  mazzetto  di 
      miosotis.  Questo  saluto fu così bene inteso,  che Morrel,  colla 
      stessa espressione, avvicinò anch'egli il fazzoletto alla bocca: i 
      due innamorati il cui cuore batteva fortemente  sotto  l'apparente 
      calma dei visi, separati l'uno dall'altra dalla vastità della sala 
      dimenticarono   un   momento   se   stessi,   o  per  dir  meglio, 
      dimenticarono la folla in questa  muta  contemplazione.  Sarebbero 
      potuti restar così per lungo tempo perduti l'una nell'altro, senza 
      che  nessuno  s'accorgesse  del loro oblio.  Ma entrava appunto il 
      conte di Montecristo. 
      Lo abbiamo già detto,  fosse prestigio  fittizio  o  naturale,  il 
      conte   attirava  l'attenzione  generale  in  qualunque  luogo  si 
      presentasse. Non era il suo abito,  irreprensibile nel taglio,  ma 
      semplice  e  senza  decorazioni,  né  il  gilè  bianco senza alcun 
      ricamo, né il calzone che cadeva su un piede di forma delicata, ad 
      attirare l'attenzione,  ma il colorito  pallido,  i  capelli  neri 
      ondulati,  il  viso  tranquillo  e  sereno,  l'occhio  profondo  e 
      malinconico,  la bocca disegnata con finezza meravigliosa,  e  che 
      prendeva  tanto  facilmente  l'espressione dell'alto sdegno: tutti 
      gli occhi poco dopo erano fissi su di lui. 
      Vi potevano essere uomini più belli,  ma non ve ne potevano essere 
      più  interessanti (ci sia permessa questa espressione).  Tutto nel 
      conte voleva dire qualche cosa,  ed aveva valore: l'abitudine  del 
      pensare  aveva  dato ai lineamenti,  all'espressione del viso e al 
      più   insignificante   dei   suoi   gesti,   grazia   e   fermezza 
      incomparabili.  E  poi la società parigina è così strana che forse 
      non si sarebbe fatto attenzione a  tutto  ciò,  se  non  vi  fosse 
      stata,  sotto  a  tutto questo,  una misteriosa storia,  dorata da 
      un'immensa ricchezza. 
      Entrò nella sala sotto gli sguardi di  tutti  e  scambiando  brevi 
      saluti,  sino  alla  signora  Morcerf,  che  in  piedi  davanti al 
      caminetto ornato  di  fiori,  lo  aveva  visto  comparire  da  uno 
      specchio  posto  di  faccia  alla  porta,  e  si  era  preparata a 
      riceverlo. Dunque si voltò verso di lui,  con un sorriso composto, 
      nello stesso momento che egli s'inchinava davanti a lei. 
      Senza  dubbio  pensò invece che sarebbe stata lei a rivolgergli la 
      parola, ma tutt'e due restarono muti,  tanto sembrava loro indegna 
      d'entrambi  una  finzione;  e  dopo  essersi  scambiato il saluto, 
      Montecristo si diresse verso  Alberto,  che  gli  veniva  incontro 
      stendendogli la mano. 
      "Avete veduto mia madre?" domandò Alberto. 
      "Ho  avuto l'onore di salutarla" disse il conte,  "ma non ho visto 
      il vostro signor padre." 
      "Eccolo laggiù,  che parla di politica in quel piccolo  gruppo  di 
      grandi celebrità." 
      "Davvero?"   disse  Montecristo.   "Quei  signori  che  vedo  sono 
      celebrità? Non l'avrei pensato.  E di quale specie?  Vi sono delle 
      celebrità di ogni specie, come sapete." 
      "Primo  uno scienziato,  quel signore grande e secco;  ha scoperto 
      nella campagna romana una specie di lucertola che ha una  vertebra 
      di  più  delle  altre,  ed  è  tornato per informare l'istituto di 
      questa scoperta.  La cosa fu per lungo tempo contestata,  ma  alla 
      fine  il  vantaggio  è  rimasto all'uomo secco.  La vertebra aveva 
      fatto un gran fracasso nel mondo sapiente,  il  signore  grande  e 
      secco,  che  era  solamente  cavaliere  della  Legion d'Onore,  fu 
      nominato ufficiale." 
      "Alla buon'ora!" disse Montecristo.  "Ecco una croce che mi sembra 
      data  saggiamente;  se  ritrova  una seconda vertebra,  lo faranno 
      commendatore!" 
      "E' probabile" disse Morcerf. 
      "E quell'altro,  che ha avuto la singolare idea di imbacuccarsi in 
      un abito turchino orlato di verde, che può mai essere?" 
      "Non  è sua l'idea di paludarsi in quell'abito ma dello Stato che, 
      come sapete, è sempre poco artista,  e,  volendo dare una uniforme 
      agli accademici, pregò David di disegnare loro un abito." 
      "Ah, davvero? Così vestito quel signore è un accademico?" 
      "Da otto giorni fa parte della dotta assemblea." 
      "E qual è il suo merito, la sua specialità?" 
      "La  sua  specialità?  Credo  conficchi  gli  aghi nella testa dei 
      conigli,  faccia mangiare della robbia ai polli,  ed estragga  con 
      ossa di balena la midolla spinale ai cani." 
      "E per questo è dell'Accademia delle scienze?" 
      "No, dell'Accademia di Francia." 
      "Ma  che  cosa ha dunque a che fare l'Accademia francese con tutto 
      questo?" 
      "Ve lo dirò, sembra..." 
      "Che queste esperienze abbiano  fatto  fare  un  gran  passo  alla 
      scienza, senza dubbio..." 
      "No, ma che scriva con molto buono stile." 
      "Ciò  deve"  disse  Montecristo,   "lusingare  enormemente  l'amor 
      proprio dei cani ai quali venne tolta la midolla spinale!" 
      Alberto si mise a ridere. 
      "E quell'altro?" domandò il conte. 
      "Ah, l'abito turchino fiordaliso?" 
      "Sì." 
      "E'  un  collega  del  conte,   quello  che  si  è   opposto   più 
      calorosamente   alla   proposta  che  la  Camera  dei  Pari  abbia 
      un'uniforme.  Ha avuto un gran successo  alla  tribuna  su  questo 
      argomento;  era in pessima luce presso i giornali liberali,  ma la 
      sua nobile opposizione ai desideri della corte, lo ha riconciliato 
      con loro... Si dice che verrà nominato ambasciatore." 
      "E quali sono i suoi titoli per essere divenuto Pari?" 
      "Ha scritto due o tre opere comiche,  ha preso  quattro  o  cinque 
      azioni  al  "Siècle",  e ha dato il voto in favore del governo per 
      cinque o sei anni." 
      "Bravo  visconte"  disse  Montecristo  ridendo,   "voi  siete  uno 
      spiritoso cicerone... Ora mi farete un favore, non è vero?" 
      "Quale?" 
      "Non  mi  presenterete  a  quei  signori,  e  se domandano essermi 
      presentati, mi preverrete." 
      In quel momento il conte sentì una mano posarsi sul  suo  braccio; 
      si voltò, era Danglars. 
      "Siete voi, barone?" diss'egli. 
      "Perché  mi chiamate barone?  Sapete bene che non do importanza al 
      mio titolo.  Non sono come voi,  visconte,  voi ci tenete,  non  è 
      vero?" 
      "Certamente"  disse  Alberto,  "perché se non fossi visconte,  non 
      sarei più niente, mentre voi potreste sacrificare il vostro titolo 
      di barone, e restereste sempre milionario." 
      "Ch'è il più bel titolo, sotto il governo di luglio." 
      "Disgraziatamente" disse Montecristo, "non si è sempre milionari a 
      vita, come si può essere barone, Pari di Francia, o accademico, ne 
      facciano fede i milionari Frank  e  Poulmann  di  Francoforte  che 
      hanno fatto bancarotta." 
      "Davvero?" disse Danglars impallidendo. 
      "Sulla  mia  parola,  ho  ricevuto  la  notizia  questa sera da un 
      corriere: avevo qualche cosa,  circa un milione sul loro conto ma, 
      avvertito  in  tempo,  ho  fatto esigere il rimborso circa un mese 
      fa." 
      "Ah,  mio Dio!" esclamò Danglars.  "Hanno spiccato tratta su di me 
      per duecentomila franchi." 
      "Ebbene, eccovi avvisato: la loro firma non vale più che il cinque 
      per cento." 
      "Sì, ma io sono avvertito troppo tardi... Ho fatto onore alla loro 
      firma." 
      "Bravo!"  disse Montecristo.  "Ecco altri duecentomila franchi che 
      sono andati a raggiungere..." 
      "Zitto" disse Danglars,  "non  parlate  di  questi  affari..."  e, 
      avvicinandosi  a  Montecristo,  "particolarmente  in  presenza del 
      signor Cavalcanti figlio" aggiunse il banchiere, che, pronunciando 
      queste parole, si volse sorridendo dalla parte del giovane. 
      Morcerf aveva lasciato il conte per parlare a sua madre.  Danglars 
      lo  lasciò per salutare Cavalcanti figlio.  Montecristo si ritrovò 
      per un momento solo.  Frattanto il  caldo  cominciava  a  divenire 
      eccessivo.  I  camerieri  circolavano  per  le sale con sottocoppe 
      cariche  di  frutta  e  di  gelati.  Montecristo  si  asciugò  col 
      fazzoletto il viso bagnato di sudore,  ma quando la sottocoppa gli 
      passò davanti, non prese nulla per rinfrescarsi. 
      La signora Morcerf non  lo  perdeva  di  vista,  vide  passare  la 
      sottocoppa e notò il suo rifiuto: afferrò perfino il movimento che 
      fece nell'allontanarsi. 
      "Alberto" disse, "avete osservato una cosa?" 
      "Quale, madre mia?" 
      "Che  il  conte  non  ha mai voluto accettare un pranzo dal signor 
      Morcerf." 
      "Sì,  ma ha accettato una colazione da me,  e per questa colazione 
      ha fatto il suo ingresso nella società." 
      "Da  voi  non  è dal conte" mormorò Mercedes,  "e da quando è qui, 
      l'ho osservato..." 
      "E allora?" 
      "Non ha ancora preso nulla." 
      "Il conte è molto sobrio." 
      Mercedes sorrise tristemente. 
      "Riavvicinatevi a lui" disse, "ed alla prima sottocoppa che passa, 
      insistete." 
      "E perché, madre mia?" 
      "Fatemi questo piacere, Alberto" disse Mercedes. 
      Alberto baciò la mano di sua madre, e andò accanto al conte. Passò 
      un'altra sottocoppa carica come le precedenti:  lei  vide  Alberto 
      insistere   presso   il   conte,   prendere   anche  un  gelato  e 
      presentarglielo, ma il conte rifiutare ostinatamente. 
      "Ebbene" disse, "vedete, ha rifiutato." 
      "Ma in cosa può preoccuparvi questo?" 
      "Lo sapete,  Alberto,  le donne sono singolari.  Avrei  visto  con 
      piacere  il  conte prendere qualche cosa in casa mia,  fosse anche 
      stato un solo grano  di  melagrana.  Del  resto  forse  non  saprà 
      adattarsi  ai  costumi  francesi,  forse  preferirà  qualche altra 
      cosa." 
      "Mio Dio,  no,  l'ho veduto in Italia  mangiare  di  tutto;  senza 
      dubbio questa sera sarà indisposto." 
      "Poi" disse la contessa, "avendo sempre abitato nei climi ardenti, 
      forse sarà meno sensibile di un altro a questo caldo." 
      "Non lo credo,  poiché si lagnava di sentirsi soffocare. Domandava 
      anzi perché,  avendo già aperte le finestre,  non aprano  pure  le 
      persiane." 
      "Infatti  questo  è il mezzo per assicurarmi se questa astinenza è 
      un disegno prestabilito." 
      Ed uscì dalla sala. 
      Un momento dopo si aprirono le persiane e si  poté,  attraverso  i 
      gelsomini  e  le  clematidi  che tappezzavano le finestre,  vedere 
      tutto il giardino illuminato con lanterne,  e  la  cena  imbandita 
      sotto una tenda.  Ballerini e ballerine, giocatori e conversatori, 
      mandarono un grido di gioia,  tutti respiravano con delizia l'aria 
      che entrava a torrenti. 
      Nello stesso punto ricomparve Mercedes,  più pallida di quando era 
      uscita,  ma con quella fermezza ch'era in lei  notevole  in  certe 
      occasioni.  Andò  direttamente  al gruppo di cui suo marito era il 
      centro. 
      "Non   trattenete   questi   signori,    signor   conte"    disse, 
      "preferiranno,   se  non  giocano,   respirare  nel  giardino  che 
      soffocare in questa sala." 
      "Ah,  signora" disse un vecchio generale,  molto galante,  che nel 
      1809  aveva cantato "Nel partire per la Siria",  "non andremo soli 
      nel giardino." 
      "Sia" disse Mercedes, "vi darò il buon esempio." 
      E voltandosi verso Montecristo. 
      "Signor conte" disse, "fatemi l'onore di offrirmi il braccio." 
      Il conte quasi vacillò a queste semplici  parole;  poi  guardò  un 
      momento  Mercedes,  questo  momento  ebbe  la  rapidità del lampo, 
      eppure sembrò alla contessa che durasse un secolo,  tanti pensieri 
      aveva  Montecristo  espressi  in questo sguardo.  Offrì il braccio 
      alla contessa, che vi si appoggiò, o,  per meglio dire,  lo sfiorò 
      colla  sua  piccola mano,  ed entrambi discesero dai gradini dalla 
      scalinata. Dietro ad essi,  e per l'altra parte della scalinata si 
      slanciarono  nel  giardino  colle  più  rumorose  esclamazioni  di 
      piacere, una ventina d'invitati. 
                                 Capitolo 70. 
                              IL PANE E IL SALE. 
 
 
      La signora Morcerf entrò col suo compagno sotto un arco di  foglie 
      da un viale di tigli che conduceva ad una serra. 
      "Faceva  troppo caldo nella sala,  non è vero,  signor conte?" gli 
      disse. 
      "Sì,  signora,  ed è stata una eccellente idea la vostra  di  fare 
      aprire le porte e le persiane." 
      Terminando  queste  parole  il  conte  s'accorse  che  la  mano di 
      Mercedes tremava. 
      "Ma voi" disse,  "con questa veste leggera e senz'altro  al  collo 
      che questa sciarpa di velo, avrete freddo?" 
      "Sapete  dove vi conduco?" disse la contessa senza rispondere alla 
      domanda di Montecristo. 
      "No, signora, ma, lo vedete, non faccio resistenza." 
      "A quella serra che vedete là, in fondo al viale." 
      Il conte guardò Mercedes come per interrogarla: ma lei continuò il 
      cammino senza dir parola, e Montecristo divenne muto. 
      Giunsero alla serra colma di frutti magnifici, che al principio di 
      luglio giungono alla loro maturità in  questa  temperatura  sempre 
      calcolata per sostituire il calore del sole. 
      La contessa lasciò il braccio di Montecristo,  e colse un grappolo 
      di uva moscatella. 
      "Prendete, signor conte" disse, con un sorriso fatto più triste da 
      due lacrime che le spuntavano dagli occhi,  "prendete,  la  nostra 
      uva di Francia non è paragonabile, lo so, alle vostre di Sicilia e 
      di Cipro, ma sarete indulgente col nostro debole sole del Nord." 
      Il conte s'inchinò, e fece un passo indietro. 
      "La rifiutate?" disse Mercedes con voce tremante. 
      "Signora" rispose Montecristo, "vi prego umilmente di scusarmi, ma 
      non mangio mai uva." 
      Mercedes lasciò cadere il grappolo sospirando. 
      Una  pesca  magnifica pendeva da una spalliera vicina,  riscaldata 
      pure dal calore artificiale della stufa.  Mercedes si avvicinò  al 
      frutto vellutato e lo colse. 
      "Allora prendete questa pesca" disse. 
      Ma il conte fece lo stesso gesto di rifiuto. 
      "Oh,  ancora!"  disse  lei,  con  accento così doloroso da potersi 
      capire che soffocava un singhiozzo. "In verità sono sfortunata..." 
      Un lungo silenzio seguì questa scena;  la pesca,  come il grappolo 
      d'uva, era rotolata al suolo. 
      "Signor conte" riprese Mercedes,  guardando Montecristo con occhio 
      supplichevole,  "vi è un  commovente  costume  in  Arabia  che  fa 
      eternamente  amici  quelli  che hanno fra loro diviso il pane e il 
      sale sotto il medesimo tetto." 
      "Lo conosco,  ma noi siamo in Francia  e  non  in  Arabia;  ed  in 
      Francia  non  vi  è divisione di pane e di sale,  come non vi sono 
      amicizie eterne." 
      "Ma infine" disse la contessa palpitante con gli  occhi  fissi  in 
      quelli  di Montecristo,  del quale riafferrava il braccio con ambe 
      le mani, "noi siamo amici, non è vero?" 
      Il sangue affluì al cuore del conte,  che divenne pallido come  la 
      morte, poi rifluendo dal cuore alla gola, ne colorì le guance; gli 
      occhi  nuotarono  nel vago per qualche secondo,  come quelli di un 
      uomo colpito da improvviso bagliore. 
      "Certamente che siamo amici,  signora" replicò  egli.  "E  d'altra 
      parte perché non dovremmo esserlo?" 
      Questo  convegno  era talmente diverso da quello che desiderava la 
      madre  d'Alberto,   che  si  volse  per  esalare  un  sospiro  che 
      rassomigliava ad un gemito. 
      "Grazie" disse e si rimise a camminare. 
      "Signore" riprese, dopo dieci minuti di silenziosa passeggiata, "è 
      vero che avete veduto tanto, tanto viaggiato, e tanto sofferto?" 
      "Ho sofferto moltissimo, signora" rispose Montecristo. 
      "Ma ora siete felice?" 
      "Senza dubbio, nessuno può dire che io mi lamenti." 
      "E la vostra felicità presente vi fa l'anima più dolce?" 
      "No, eguaglia la mia passata miseria." 
      "Non siete ammogliato?" domandò la contessa. 
      "No,  non  sono ammogliato" rispose Montecristo fremendo.  "Chi ha 
      potuto dirvi una cosa simile?" 
      "Non mi fu detto,  ma più di una volta siete stato visto  condurre 
      all'Opera una bella e giovane donna." 
      "E'  una  schiava  che  comprai a Costantinopoli,  la figlia di un 
      principe,  che tengo con me come  una  figlia,  non  avendo  altre 
      affezioni in questo mondo." 
      "Vivete dunque solo?" 
      "Vivo solo." 
      "Non avete sorelle... figli... padre?" 
      "Non ho alcuno." 
      "Come  potete  vivere  così,   senza  nessun  vincolo,  senza  una 
      donna...?" 
      "Non è colpa mia,  signora.  A Malta amavo una donna,  e stavo per 
      sposarla, quando sopraggiunse la guerra e mi portò lontano da lei, 
      rapito  come  da un turbine.  Credevo che lei mi amasse abbastanza 
      per aspettarmi,  per  restarmi  fedele  sino  alla  tomba.  Quando 
      ritornai era maritata.  Questa è la storia di tutti gli uomini che 
      sono passati per i vent'anni: avevo  forse  il  cuore  più  debole 
      degli  altri,  ed  ho  sofferto  più di quello che altri avrebbero 
      fatto al mio posto." 
      La contessa si fermò un momento come se avesse  avuto  bisogno  di 
      fermarsi per respirare. 
      "Sì"  disse,  "e quest'amore vi è rimasto nel cuore...  Non si ama 
      davvero che una sola volta...  Ed avete mai  più  riveduta  quella 
      donna?" 
      "Mai!" 
      "Mai?" 
      "Non sono più ritornato nel paese dove lei stava." 
      "A Malta?" 
      "Sì a Malta." 
      "Dunque, è a Malta?" 
      "Lo penso." 
      "E le avete perdonato quanto vi fece soffrire?" 
      "A lei sì." 
      "Ma  a  lei soltanto?  Odiate sempre quelli che vi hanno diviso da 
      lei?" 
      "Io no... Perché dovrei odiarli?" 
      La contessa si pose di fronte a Montecristo,  e cogliendo un altro 
      grappolo d'uva: 
      "Prendete" disse. 
      "Non mangio mai uva, signora." 
      La  contessa  gettò  il grappolo nel cespuglio più vicino,  con un 
      gesto di dispetto. 
      "E' inflessibile!" mormorò. 
      Montecristo restò impassibile come  se  il  rimprovero  non  fosse 
      stato diretto a lui. 
      Alberto accorreva in quel momento. 
      "Oh, madre mia!" disse. "Una gran disgrazia!" 
      "Che   cosa   è   accaduto?"   domandò  la  contessa  allarmata  e 
      scuotendosi,  come se dopo il sogno fosse giunta la  realtà,  "una 
      disgrazia, avete detto? Infatti poteva accadere!" 
      "Il signor Villefort è qui." 
      "Ebbene?" 
      "Viene a cercare sua moglie e sua figlia." 
      "E perché?" 
      "Perché la marchesa di Saint-Méran è giunta a Parigi,  portando la 
      notizia che il signor di Saint-Méran  è  morto  alla  prima  posta 
      lasciando  Marsiglia.  La  signora Villefort ch'era molto allegra, 
      non voleva né comprendere  né  credere  questa  disgrazia;  ma  la 
      signorina Valentina,  alle prime parole, per quante cautele avesse 
      preso suo padre,  ha indovinato tutto: questo colpo l'ha atterrata 
      come un fulmine, ed è caduta svenuta." 
      "E  che cos'è il conte di Saint-Méran per la signorina Villefort?" 
      chiese il conte. 
      "Suo nonno materno.  Veniva per concludere il  matrimonio  di  sua 
      nipote con Franz." 
      "Ah,  davvero!  Ecco il matrimonio di Franz rinviato... Ah, perché 
      Saint-Méran non è anche nonno della signorina Danglars!..." 
      "Alberto!   Alberto!"  disse  la  signora  Morcerf  in   tono   di 
      rimprovero.   "Che  dite?   Ah,  conte,  voi,  per  cui  ha  tanta 
      considerazione,  ditegli dunque che  non  sono  cose  da  pensarsi 
      queste!" 
      Lei fece qualche passo in avanti. 
      Montecristo  la  guardò  così  stranamente,  e con così affettuosa 
      ammirazione, che lei ritornò indietro,  gli prese la mano,  mentre 
      stringeva quella del figlio, ed unendole entrambe: 
      "Noi siamo amici, non è vero?" disse. 
      "Oh,  vostro  amico,  signora,  non  ho  questa pretesa!" disse il 
      conte.   "In  ogni  caso  sono   sempre   vostro   rispettosissimo 
      servitore." 
      La  contessa partì con un inesprimibile stringimento di cuore,  e, 
      prima che avesse fatto dieci passi,  il conte la vide mettersi  il 
      fazzoletto agli occhi. 
      "E che, non siete forse in accordo con mia madre?" domandò Alberto 
      meravigliato. 
      "Al  contrario"  rispose il conte,  "giacché,  come avete sentito, 
      siamo amici." 
      Rientrarono nella sala che era stata allora lasciata da Valentina, 
      dal signore e dalla signora Villefort. 
      E' superfluo dire che Morrel partì dopo di loro. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 71. 
                          LA SIGNORA DI SAINT-MERAN. 
 
 
      Una scena lugubre in casa del signor Villefort. 
      Dopo la partenza delle due signore per la festa da  ballo,  a  cui 
      tutte  le  insistenze  della  signora Villefort non avevano potuto 
      determinare il marito ad accompagnarla,  il  procuratore  del  re, 
      secondo  il suo costume,  si era chiuso in ufficio con un filza di 
      carte che avrebbe sgomentato chiunque, ma non Villefort che era un 
      lavoratore. 
      Questa volta la filza di carte conteneva cose di pura firma. 
      Villefort non si rinchiudeva per lavorare,  ma per riflettere;  e, 
      chiusa  la  porta,  ordinò  di  non essere disturbato che per cose 
      importanti: si sedette e ripercorse nella memoria tutto  ciò  che, 
      da sette o otto giorni,  faceva straripare la coppa dei suoi tetri 
      dispiaceri, dei suoi amari ricordi. 
      Allora,  invece di portar la mano sul  monte  di  carte  ammassate 
      davanti a lui, aprì un cassetto dello scrittoio, fece scattare uno 
      stipo  e  cavò fuori un plico che conteneva le sue note personali, 
      manoscritto prezioso, nel quale aveva classificato e distinto, con 
      cifre conosciute da lui solo,  i nomi di tutti coloro  che,  nella 
      sua  carriera  politica,  nei  suoi affari d'interesse pecuniario, 
      nelle sue cause criminali  o  nei  suoi  misteriosi  amori,  erano 
      diventati  suoi nemici.  Il numero era molto elevato e con nomi da 
      incutere  paura.   E  tuttavia  tutti  questi  nomi,   per  quanto 
      minacciosi  o  temibili  fossero,  lo  avevano  fatto  molte volte 
      sorridere,  come sorride il viaggiatore che dalla montagna  guarda 
      ai suoi piedi gli acuti picchi,  le strade impraticabili, gli orli 
      dei precipizi per i quali si è arrampicato per  poter  giungere  a 
      quell'altezza. 
      Quando  ebbe  ripassati  ben bene tutti questi nomi nella memoria, 
      quando li ebbe bene commentati sulle sue liste, scosse la testa: 
      "No"  mormorò,   "nessuno  di   questi   nemici   avrebbe   atteso 
      pazientemente  ed inoperosamente fino al giorno in cui siamo,  per 
      venirmi ora a schiacciare con questo segreto. Qualche volta,  come 
      dice  Amleto,  il  rumore  delle cose più profondamente seppellite 
      sotto terra sorge,  e,  come i fuochi fatui,  corre follemente per 
      l'aria;  ma  queste  sono fiamme che illuminano per un momento per 
      quindi spegnersi.  La storia sarà stata  raccontata  dal  corso  a 
      qualche  prete,  che  l'avrà a sua volta raccontata.  Il signor di 
      Montecristo l'avrà saputa, e per venirne in chiaro... Ma con quale 
      vantaggio venirne in chiaro?" riprendeva Villefort dopo un momento 
      di riflessione.  "Per quale motivo il signor  di  Montecristo,  il 
      signor Zaccone, il figlio di un armatore di Malta, il proprietario 
      di  una miniera d'argento nella Tessaglia,  che viene per la prima 
      volta in Francia,  vuole chiarire un fatto  cupo,  misterioso,  ed 
      inutile come questo?  In mezzo alle informazioni incoerenti che mi 
      sono state date da quell'abate Busoni, e da quel lord Wilmore,  da 
      quell'amico  e  da  questo  nemico,  una  sola cosa spicca chiara, 
      precisa,  ai miei occhi: in nessun caso,  in nessuna occasione può 
      avere avuto il più piccolo contatto con me." 
      Ma  Villefort  ripeteva  spesso  queste  parole  a se stesso senza 
      credere  a  quanto  diceva.   Terribile  per  lui  non   era   una 
      rivelazione,   perché   poteva   negare,   od   anche  rispondere: 
      s'inquietava poco di  quel  "Mane,  Tekel,  Phares"  che  appariva 
      d'improvviso in lettere di sangue sul muro;  ciò che lo tormentava 
      era conoscere il corpo al quale apparteneva la mano che  le  aveva 
      tracciate. 
      Mentre  tentava  di  tranquillizzare  se  stesso,   e,  invece  di 
      quell'avvenire politico che nei sogni  d'ambizione  aveva  qualche 
      volta  intravisto,  nel      timore  di  svegliare  questo  nemico 
      addormentato da lungo tempo,  si componeva un  avvenire  ristretto 
      alle gioie della famiglia,  il rumore di una carrozza rimbombò nel 
      cortile,  intese sulla scala passi di una persona anziana poi  dei 
      singhiozzi e dei sospiri. 
      Si  affrettò  a levare il chiavistello alla porta dell'ufficio,  e 
      ben presto, senza essere annunciata entrò una vecchia signora, con 
      lo scialle sul braccio ed il cappello in mano.  I capelli  bianchi 
      coprivano  una  fronte scura come l'avorio ingiallito e gli occhi, 
      appesantiti dalle rughe dell'età,  sparivano quasi del tutto sotto 
      il gonfiore prodotto dal pianto. 
      "Oh,  signore" disse,  "quale disgrazia! Io pure ne morrò! Oh! sì, 
      certo ne morrò..." 
      E  cadendo  sulla  sedia  più  vicina  alla  porta,   proruppe  in 
      singhiozzi. 
      I  domestici,  in  piedi sulla soglia,  non osavano venire avanti: 
      guardavano il vecchio servitore di Noirtier  che,  avendo  sentito 
      questo rumore dalla camera del padrone,  era accorso egli pure,  e 
      si teneva dietro gli altri. 
      Villefort si alzò, e corse incontro a sua suocera. 
      "Mio Dio, signora" domandò, "che è accaduto? che cosa vi sconvolge 
      così? Ed il signor di Saint-Méran?" 
      "E' morto"  disse  la  vecchia  marchesa  senza  preamboli,  senza 
      espressione e con una specie di stupore. 
      Villefort  indietreggiò  di  un  passo  e batté le mani una contro 
      l'altra. 
      "Morto!... Morto così... improvvisamente?" 
      "Sono otto giorni" continuò la signora di Saint-Méran,  "che  dopo 
      avere  pranzato montammo insieme in carrozza.  Il signor di Saint- 
      Méran era indisposto da qualche giorno; però l'idea di rivedere la 
      nostra cara Valentina lo rendeva coraggioso,  e,  malgrado i  suoi 
      dolori,  aveva voluto partire,  quando,  a sei leghe da Marsiglia, 
      dopo aver mangiato le consuete pastiglie,  fu preso  da  un  sonno 
      profondo   che  non  mi  sembrava  naturale;   tuttavia  esitai  a 
      svegliarlo,  quando mi sembrò che il viso diventasse rosso,  e  le 
      arterie  delle tempie battessero più del solito.  Ma,  siccome era 
      sopraggiunta la notte, ed io non vedevo altri sintomi,  lo lasciai 
      dormire... A un certo punto mandò un grido sordo e straziante come 
      quello di un uomo che soffre un incubo, e con improvviso movimento 
      rovesciò la testa all'indietro. Chiamai il cameriere, feci fermare 
      il  postiglione,  invocai  il  signor  di  Saint-Méran,  gli  feci 
      respirare la mia boccetta di sali...  Tutto era finito: era morto. 
      A fianco del suo cadavere giunsi fino ad Aix." 
      Villefort rimase stupefatto e colla bocca aperta. 
      "E voi senza dubbio chiamaste un medico?" 
      "Nello  stesso  momento,  ma,  come  vi  ho già detto,  era troppo 
      tardi." 
      "Ma almeno poteva dirvi  di  che  malattia  era  morto  il  povero 
      marchese." 
      "Mio  Dio,  sì,  me  l'ha  detto:  sembra  sia stata un'apoplessia 
      fulminante." 
      "Ed allora che avete fatto?" 
      "Il signor di Saint-Méran aveva sempre detto che se moriva lontano 
      da Parigi desiderava che il suo corpo fosse ricondotto nella tomba 
      di famiglia;  l'ho fatto mettere in una  cassa  di  piombo,  e  lo 
      precedo di pochi giorni." 
      "Oh, mio Dio, povera madre!" disse Villefort. "Simili cure dopo un 
      tale colpo alla vostra età!" 
      "Dio  mi  ha  dato forza sino alla fine,  il caro marchese avrebbe 
      fatto per me ciò che ho fatto per lui.  E' vero che dal momento in 
      cui  l'ho  lasciato  laggiù,  mi  sembra di esser pazza: non posso 
      piangere, alla mia età non ci sono più lacrime; anche se mi sembra 
      che fino a che si soffre, si deve poter piangere. Dov'è Valentina, 
      signore? E per lei che ritorniamo, voglio vedere Valentina." 
      Villefort  pensò  che  sarebbe  stato  orribile   rispondere   che 
      Valentina  era  al  ballo;  disse alla marchesa che sua nipote era 
      uscita con la matrigna, e che avrebbe mandato ad avvertirla. 
      "Mandate subito, signore, ve ne supplico!" 
      Villefort offrì il  braccio  alla  signora  di  Saint-Méran  e  la 
      condusse al suo appartamento. 
      "Riposatevi" disse, "madre mia." 
      La  marchesa  alzò la testa a queste parole,  e vedendo quell'uomo 
      che le ricordava la figlia tanto pianta, e che riviveva per lei in 
      Valentina, si sentì colpita da questo nome di madre; si sciolse in 
      lacrime, e cadde in ginocchio,  comprimendo su una poltrona la sua 
      testa venerabile. 
      Villefort  la  raccomandò  alle  cure  delle cameriere,  mentre il 
      vecchio Barrois risaliva tutto ansante  dal  suo  padrone.  Niente 
      spaventa  tanto  i  vecchi  come  quando  la morte li abbandona un 
      momento per colpire un altro vecchio. 
      Intanto  Villefort,  mentre  la  signora  di  Saint-Méran,  sempre 
      inginocchiata,  pregava  dal fondo del cuore,  mandò a cercare una 
      carrozza di piazza,  e andò egli  stesso  in  casa  della  signora 
      Morcerf, per ricondurre a casa sua moglie e la figlia. 
      Era  tanto  pallido,  quando apparve sulla soglia della sala,  che 
      Valentina corse a lui gridando: 
      "Oh, padre mio, quale disgrazia è accaduta?" 
      "Vostra nonna, è arrivata..." disse Villefort. 
      "E mio nonno?" domandò la ragazza tremante. 
      Il signor Villefort non rispose,  se non offrendo il braccio a sua 
      figlia.  Era  tempo: Valentina,  presa da vertigine vacillava;  la 
      signora Villefort si affrettò a sostenerla,  ed aiutò suo marito a 
      trascinarla verso la carrozza, dicendo: 
      "Tutto ciò è terribile! Chi avrebbe potuto pensarlo?" 
      E  quella  famiglia  desolata  se  ne  fuggiva  così,  gettando la 
      tristezza come un velo nero su quella che  avrebbe  dovuto  essere 
      una festa. 
      In fondo alla scala Valentina trovò Barrois che l'aspettava. 
      "Il  signor Noirtier desidera vedervi questa sera stessa..." disse 
      a bassa voce. 
      "Ditegli che andrò da  lui  quando  uscirò  dalla  camera  di  mia 
      nonna." 
      Nella  delicatezza  della sua anima,  la ragazza capì bene che chi 
      aveva più di tutti bisogno di lei in quell'ora,  era la signora di 
      Saint-Méran. 
      Valentina  ritrovò  la  nonna  a  letto:  mute  carezze,   sospiri 
      interrotti, lacrime ardenti, ecco i soli particolari da narrare di 
      questa  conversazione,  alla  quale  assisteva,  stando  sotto  il 
      braccio  di suo marito,  la signora Villefort,  piena di rispetto, 
      almeno apparente, per la povera vedova. 
      Dopo un momento, si accostò all'orecchio del marito. 
      "Col vostro permesso" disse,  "è  meglio  che  mi  ritiri,  perché 
      sembra che la mia vista affligga ancor più vostra suocera." 
      La signora di Saint-Méran l'intese. 
      "Sì,  sì" disse all'orecchio di Valentina,  "che se ne vada, ma tu 
      resta." 
      La signora Villefort uscì, e Valentina rimase sola vicino al letto 
      della nonna. Il procuratore costernato da questa morte improvvisa, 
      seguì la moglie. 
      Barrois era salito la prima volta dal  vecchio  Noirtier,  questi, 
      inteso  tutto  il  rumore che si faceva in casa,  aveva inviato il 
      vecchio servitore ad informarsi.  Al ritorno quell'occhio  vivo  e 
      soprattutto intelligente, interrogò il messaggero: 
      "Ah,  signore" disse Barrois, "è accaduta una grande disgrazia. E' 
      giunta la signora di Saint-Méran, e suo marito è morto." 
      Saint-Méran e  Noirtier  non  erano  mai  stati  legati  da  buona 
      amicizia, eppure Noirtier lasciò cadere la testa pensieroso. 
      "La signorina Valentina?" disse Barrois. 
      Noirtier fece segno di sì. 
      "E' ad un ballo, il signore lo sa bene, è venuta a dirgli addio in 
      gran toilette." 
      Noirtier chiuse l'occhio sinistro. 
      "Sì, volete vederla?" 
      Il vecchio fece segno che ciò era quanto desiderava. 
      "Ebbene,  avranno  già  mandato  a cercarla,  senza dubbio,  dalla 
      signora Morcerf;  l'aspetterò al suo ritorno,  e le dirò di salire 
      da voi. Va bene?" 
      "Sì" accennò il paralitico. 
      Barrois  aveva  dunque  aspettato il ritorno di Valentina,  e come 
      abbiamo visto, al ritorno di lei espose il desiderio del nonno. 
      Valentina salì dal  signor  Noirtier,  dopo  essere  uscita  dalle 
      stanze della signora di Saint-Méran,  che per quanto fosse agitata 
      aveva finalmente finito col soccombere alla fatica,  e dormiva  di 
      un  sonno  febbrile.  Le  avevano avvicinato a portata di mano una 
      piccola tavola sulla quale  era  una  caraffa  di  aranciata,  sua 
      bibita abituale, ed un bicchiere. La ragazza lasciò il letto della 
      marchesa per salire dal signor Noirtier. 
      Valentina  venne  ad  abbracciare  il  vecchio che la guardò tanto 
      teneramente che la ragazza sentì di nuovo salire le lacrime. 
      Il vecchio insisteva col suo sguardo. 
      "Sì, sì" disse Valentina,  "vuoi dire che ho sempre un buon nonno, 
      non è vero?" 
      Il  vecchio fece segno che era quanto aveva voluto esprimere collo 
      sguardo. 
      "Senza di te che cosa ne sarebbe di me? Mio Dio!" 
      Era l'una dopo mezzanotte. 
      Barrois, che aveva voglia di andarsene a letto, fece osservare che 
      dopo una serata così dolorosa, tutti avevano bisogno di riposo. Il 
      vecchio non volle dire che il suo riposo era  vedere  sua  nipote: 
      congedò  Valentina sul cui viso si vedevano dipinti il dolore e la 
      fatica di chi soffre. 
      L'indomani entrando nella camera di sua nonna la ritrovò a  letto, 
      la  febbre  non si era sedata,  anzi,  un fuoco nascosto trapelava 
      dagli occhi della vecchia marchesa,  che sembrava in preda ad  una 
      violenta irritazione nervosa. 
      "Oh,  mio  Dio!  Mia  buona  nonna,  soffrite anche di più?" gridò 
      Valentina notando quei brutti sintomi. 
      "No,  figlia  mia,  no"  disse  la  signora  di  Saint-Méran,  "ma 
      aspettavo con impazienza che tu giungessi,  per mandare a chiamare 
      tuo padre." 
      "Mio padre?" domandò Valentina inquieta. 
      "Sì, voglio parlargli." 
      Valentina non osò opporsi al  desiderio  della  nonna,  del  quale 
      d'altra  parte  non  conosceva la causa,  ed un momento dopo entrò 
      Villefort. 
      "Signore" disse la signora di Saint-Méran  senza  impiegare  alcun 
      giro di parole,  e come se le mancasse il tempo, "mi avete scritto 
      che si tratta di un progetto di matrimonio per questa ragazza?" 
      "Sì,  signora" rispose Villefort,  "è anzi più che un progetto,  è 
      già un impegno." 
      "Vostro genero si chiama Franz d'Epinay?" 
      "Sì, signora." 
      "E figlio del generale d'Epinay,  che è dei nostri,  non è vero? e 
      che  fu  assassinato  qualche  giorno   prima   che   l'usurpatore 
      ritornasse dall'Elba?" 
      "Sì, egli stesso." 
      "Questa parentela con la nipote di un giacobino, non gli ripugna?" 
      "Le  nostre  dispute civili si sono fortunatamente estinte,  madre 
      mia" disse Villefort.  "Il signor d'Epinay era  quasi  un  bambino 
      alla morte di suo padre;  conosce pochissimo il signor Noirtier, e 
      lo vedrà, se non con piacere, almeno con indifferenza." 
      "E' un partito conveniente?" 
      "Sotto  tutti  i  rapporti,   e  il  giovane  gode   della   stima 
      universale." 
      "E' buono?" 
      "E' uno degli uomini più distinti che io conosca." 
      Durante tutta questa conversazione Valentina era rimasta muta. 
      "Ebbene,  signore"  disse  dopo  qualche secondo di riflessione la 
      signora di Saint-Méran, "bisogna far presto,  perché poco mi resta 
      da vivere." 
      "Voi,  signora, voi, buona nonna!" gridarono ad un tempo il signor 
      Villefort e Valentina. 
      "So quel che dico, bisogna dunque sbrigarsi, affinché,  non avendo 
      più   sua   madre,   abbia   almeno  una  nonna  per  benedire  il 
      matrimonio...  Sono la sola che le resto  dal  lato  della  povera 
      Renata, che voi signore, avete così presto dimenticata." 
      "Ah, signora" disse Villefort, "dimenticate che bisognava dare una 
      madre a questa povera ragazza, che non l'aveva più!" 
      "Una  matrigna  non è una madre,  signore.  Ma non è di ciò che si 
      tratta,   si  tratta  di  Valentina,   lasciamo  dunque  i   morti 
      tranquilli." 
      Tutto  ciò era detto con una tale volubilità,  ed un tale accento, 
      che c'era in questa conversazione qualche cosa di delirante. 
      "Sarà fatto tutto secondo i vostri desideri" disse  Villefort,  "e 
      tanto  più che il vostro desiderio è in armonia col mio;  e appena 
      arriva a Parigi il signor d'Epinay..." 
      "Mia buona nonna, le convenienze il lutto così recente... Vorreste 
      fare un matrimonio sotto così tristi auspici?" 
      "Figlia mia" interruppe vivamente la nonna,  "non facciamo  queste 
      inutili  riflessioni  che impediscono agli spiriti indipendenti di 
      fabbricare solidamente  il  loro  avvenire.  Io  pure  sono  stata 
      maritata  al  letto  di  morte di mia madre,  e non sono stata per 
      questo infelice." 
      "Ancora questa idea di morte" riprese Villefort. 
      "Ancora? Sempre!... Vi dico che sto per morire. Intendete? Ebbene, 
      prima  di  morire,   voglio  vedere  mio  genero,   voglio  infine 
      conoscerlo, per venire poi a ritrovarlo dal fondo della mia tomba, 
      se non sarà quel che deve essere quel che bisogna ch'egli sia." 
      "Signora" disse Villefort, "bisogna che allontaniate da voi queste 
      idee  esaltate,  che quasi toccano la follia;  i morti,  una volta 
      rinchiusi nella tomba, ci rimangono senza muoversi più." 
      "Oh, sì, cara nonna, calmati!" disse Valentina. 
      "Ed io vi dico, signore,  che la cosa non è così come voi credete. 
      Questa  notte  ho  dormito...  ma  d'un  sonno terribile perché mi 
      vedevo in qualche modo dormire,  come  la  mia  anima  avesse  già 
      sciolto  i legami col corpo: gli occhi,  che mi sforzavo d'aprire, 
      si richiudevano mio malgrado,  tuttavia so bene che  ciò  sembrerà 
      impossibile a voi,  ma io,  coi miei occhi chiusi,  ho visto,  nel 
      luogo ove siete, ho visto da quell'angolo dov'è la porta che mette 
      nella toilette della signora Villefort,  ho  visto  entrare  senza 
      rumore un'ombra bianca." 
      Valentina mandò un grido. 
      "Era la febbre che vi agitava" disse Villefort. 
      "Dubitatene  quanto  volete,  io  però  sono sicura di quel che vi 
      dico. Ho veduto un'ombra bianca, e quasi che Dio avesse temuto che 
      non prestassi fede alla testimonianza di uno solo dei miei  sensi, 
      ho  sentito  rimescolare entro il mio bicchiere...,  quello stesso 
      che è lì, sulla tavola..." 
      "Oh, cara nonna, questo era un sogno!" 
      "Era  tanto  poco  un  sogno,  che  ho  steso  la  mano  verso  il 
      campanello,  ed  a questo gesto l'ombra fuggì.  La cameriera entrò 
      allora con un lume." 
      "Ma avete veduto qualcuno?" 
      "I fantasmi non si mostrano che a quelli che devono  vederli:  era 
      l'anima di mio marito. Ebbene se l'anima di mio marito ritorna per 
      chiamarmi,  perché non dovrò tornare per difendere mia nipote?  Il 
      vincolo è ancora più diretto, mi sembra." 
      "Oh,  signora,  non date retta a queste lugubri idee,  voi vivrete 
      lungamente felice, amata, onorata, e vi faremo dimenticare..." 
      "No, mai! mai! Quando ritorna il signor d'Epinay?" 
      "Lo aspettiamo da un momento all'altro." 
      "Sta bene: appena arriva avvisatemi.  E noi sbrighiamoci... Vorrei 
      pure avere un notaio per  assicurarmi  che  tutti  i  nostri  beni 
      passeranno a Valentina." 
      "Oh,   nonna   mia"   mormorò   Valentina  appoggiando  le  labbra 
      sull'ardente fronte della vecchia,  "dunque volete  farmi  morire? 
      Voi avete la febbre.  Non è un notaio che bisogna chiamare,  ma un 
      medico!" 
      "Un medico? Io non soffro; ho sete, ecco tutto." 
      "Che bevete, cara nonna?" 
      "Come sempre, tu lo sai bene, la mia aranciata.  Il bicchiere è lì 
      su quella tavola... Dammelo, Valentina." 
      Questa versò l'aranciata dalla bottiglia nel bicchiere, e lo prese 
      con  un  certo  spavento  per porgerlo a sua nonna,  perché era lo 
      stesso bicchiere, a quanto pretendeva, toccato dall'ombra. 
      La marchesa vuotò il bicchiere d'un sol fiato,  poi si rivoltò sul 
      cuscino, ripetendo: 
      "Il notaio! il notaio!" 
      Il  signor  Villefort  uscì,  Valentina si sedette vicino al letto 
      della nonna.  La povera ragazza sembrava  aver  gran  bisogno  lei 
      stessa del medico.  Un rossore simile ad una fiamma le bruciava le 
      guance, la respirazione era anelante,  ed il polso le batteva come 
      se  avesse  avuto  la  febbre.  La  povera  giovane  pensava  alla 
      disperazione di Massimiliano, quando avrebbe saputo che la signora 
      di Saint-Méran,  invece di essere una loro alleata,  operava senza 
      saperlo, come se fosse stata una nemica. 
      Più  di  una  volta Valentina aveva pensato di svelare tutto a sua 
      nonna, e non avrebbe esitato un sol momento se Massimiliano Morrel 
      si fosse chiamato  Alberto  Morcerf,  o  Raul  Chateau-Renaud,  ma 
      Morrel  era di estrazione plebea,  e Valentina sapeva il disprezzo 
      che l'orgogliosa marchesa di Saint-Méran portava a tutto quel  che 
      non era della sua casta. 
      Il suo segreto,  nel momento in cui stava per svelarlo, era dunque 
      ricacciato nel cuore: svelarlo a suo padre e  alla  sua  matrigna, 
      sarebbe stato solo dannoso. 
      Due ore circa passarono così. 
      La signora di Saint-Méran dormiva d'un sonno ardente ed agitato. 
      Fu  annunciato  il  notaio.  Quantunque quest'annunzio fosse fatto 
      molto a bassa voce la signora  di  Saint-Méran  si  alzò  dal  suo 
      origliere: 
      "Il notaio!" disse. "Che venga, che venga!" 
      Il notaio era alla porta, ed entrò. 
      "Vattene,  Valentina" disse la signora di Saint-Méran, "e lasciami 
      col notaio." 
      "Oh, nonna." 
      "Va'." 
      La ragazza baciò la nonna in fronte,  ed uscì col  fazzoletto  tra 
      gli occhi.  Alla porta trovò il cameriere;  le disse che il medico 
      aspettava nella sala. 
      Valentina scese rapidamente. 
      Il medico era un amico di famiglia,  ed uno dei più  abili:  amava 
      molto  Valentina  da  lui vista nascere: aveva una figlia dell'età 
      circa della signorina Villefort, ma nata da una madre tisica,  per 
      cui era in continuo timore per la vita di sua figlia. 
      "Oh"  disse Valentina,  "caro d'Avrigny,  vi aspettavamo con molta 
      impazienza.   Ma  prima  di  tutto,   come  stanno   Maddalena   e 
      Antonietta?" 
      Il signor d'Avrigny sorrise tristemente. 
      "Benissimo  Antonietta" disse,  "ed abbastanza bene Maddalena.  Ma 
      voi cara ragazza,  mi avete mandato a  chiamare?  Non  è,  né  per 
      vostro  padre,  né  per  la  signora  Villefort.  In quanto a voi, 
      quantunque veda bene che siete sempre nervosa, non presumo abbiate 
      bisogno di me che per raccomandarvi di non lasciare che la  vostra 
      immaginazione corra troppo..." 
      Valentina  arrossì;  il signor d'Avrigny spingeva l'intuizione fin 
      quasi al miracolo, perché era uno di quei medici che curava sempre 
      il fisico attraverso la psiche. 
      "No" disse, "è per la mia povera nonna: sapete la disgrazia che ci 
      è accaduta, non è vero?" 
      "Non so niente" disse il signor d'Avrigny. 
      "Ahimè" riprese Valentina, comprimendo i singhiozzi,  "mio nonno è 
      morto." 
      "Il signor di Saint-Méran?" 
      "Sì." 
      "Improvvisamente?" 
      "Un attacco d'apoplessia fulminante." 
      "Di apoplessia?" ripeté il medico. 
      "Sì,  di  modo  che  la  povera  nonna è colpita dall'idea che suo 
      marito,  che lei non aveva mai lasciato,  la chiami,  e che  andrà 
      presto  a  raggiungerlo.  Oh,  signor d'Avrigny,  ve la raccomando 
      moltissimo, la mia nonna." 
      "Dove si trova?" 
      "Nella sua camera col notaio." 
      "Ed il signor Noirtier?" 
      "Sempre  lo  stesso,   una  lucidità  perfetta;   ma  la  medesima 
      immobilità, lo stesso mutismo." 
      "E lo stesso amore per voi, è vero, cara ragazza?" 
      "Sì" disse Valentina sospirando, "mi ama molto." 
      "E chi non vi amerebbe?" 
      Valentina sorrise tristemente. 
      "E che cosa si sente la nonna?" riprese d'Avrigny. 
      "Un'esaltazione nervosa particolare,  un sonno agitato e strano... 
      Pretendeva questa mattina che durante il sonno, la sua anima s'era 
      disgiunta dai legami del  corpo,  e  di  aver  visto  un  fantasma 
      entrare  nella  camera,  ed inteso il rumore che faceva il preteso 
      fantasma nel toccare il suo bicchiere." 
      "E' singolare" disse il dottore,  "non sapevo che  la  signora  di 
      Saint-Méran fosse soggetta a queste allucinazioni." 
      "E' la prima volta che la vedo in tale stato" disse Valentina,  "e 
      questa mattina mi ha fatto gran paura: l'ho creduta folle... E mio 
      padre, voi signor d'Avrigny,  conoscete certamente l'indole di mio 
      padre,   ebbene,   lo   stesso  padre  mio  mi  è  sembrato  molto 
      impressionato." 
      "Ma andiamo a vederla" disse il  signor  d'Avrigny.  "Ciò  che  mi 
      raccontate mi sembra molto strano." 
      Il  notaio  discendeva,  e  vennero ad avvertire Valentina che sua 
      nonna era sola. 
      "Salite" disse lei al dottore. 
      "E voi?" 
      "Non ho coraggio: mi aveva proibito di mandarvi a chiamare, e poi, 
      come  dite,  io  stessa  sono  molto  agitata,  febbricitante,   e 
      indisposta,   vado  a  fare  un  piccolo  giro  nel  giardino  per 
      rimettermi." 
      Il dottore strinse la mano a Valentina,  e mentre  saliva  da  sua 
      nonna la ragazza scendeva dalla scalinata. 
      Non  abbiamo  bisogno  di  dire  qual  fosse  la parte di giardino 
      favorita di  Valentina.  Dopo  aver  fatto  due  o  tre  giri  sul 
      praticello che circondava la casa, dopo aver raccolto una rosa per 
      metterla alla cintura,  o nei capelli,  s'inoltrava sotto il viale 
      ombroso  che  conduceva  alla  panchina,  poi  dalla  panchina  al 
      cancello. 
      Questa volta Valentina fece,  secondo la sua abitudine,  due o tre 
      giri in mezzo ai fiori, ma senza raccoglierli. Il lutto del cuore, 
      che non aveva  avuto  ancora  il  tempo  di  giungere  alla  piena 
      coscienza,  tuttavia  rifiutava  istintivamente  la  giocosità dei 
      fiori.. Poi s'incamminò verso il viale. 
      Mentre s'inoltrava,  le parve sentire una voce che pronunziasse il 
      suo nome;  si fermò meravigliata.  Questa volta la voce giunse più 
      distinta al suo orecchio, e lei riconobbe quella di Massimiliano. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 72. 
                                 LA PROMESSA. 
 
 
      Era infatti Morrel che dalla sera precedente non viveva  più.  Con 
      quell'istinto  particolare agli innamorati,  ed alle madri,  aveva 
      indovinato che in seguito a questo ritorno della signora di Saint- 
      Méran, e alla morte del marchese, sarebbe accaduto qualche cosa in 
      casa  Villefort,   qualcosa  che  riguardava  il  suo  amore   per 
      Valentina. I suoi presentimenti si erano avverati; non era più una 
      semplice  inquietudine  quella  che  lo conduceva così sconvolto e 
      tremante al cancello dei castagni. 
      Ma Valentina non era avvertita dei presagi di Morrel;  questa  non 
      era l'ora in cui ordinariamente si vedevano,  e fu un puro caso, o 
      meglio una combinazione simpatetica che la condusse  al  giardino. 
      Quando comparve, Morrel la chiamò, e lei corse al cancello. 
      "Voi, a quest'ora?" disse. 
      "Sì, vengo a cercare e a portare cattive notizie." 
      "E' dunque il giorno delle disgrazie?  Parlate,  anche se la somma 
      dei miei dolori è sufficiente." 
      "Cara  Valentina"  disse  Morrel,  cercando  di  rimettersi  dalla 
      propria  emozione,  per  parlare  pacatamente,  "ascoltatemi bene, 
      perché tutto ciò che sto per dirvi è solenne.  Quando  contano  di 
      maritarvi?" 
      "Non è il momento" disse Valentina,  "ma nulla voglio nascondervi, 
      Massimiliano.  Questa mattina hanno parlato del mio matrimonio,  e 
      mia  nonna,  sulla  quale  contavo per un appoggio,  non solo si è 
      dichiarata per il matrimonio,  ma lo desidera a tal punto,  che la 
      sola lontananza del signor Franz lo ritarda,  e l'indomani del suo 
      arrivo il contratto sarà firmato." 
      Un penoso sospiro uscì dal petto del giovane che guardò lungamente 
      e tristemente la sua diletta. 
      "Ah!"  disse  a  voce  bassa.   "E'  spaventoso  il  sentir   dire 
      tranquillamente  dalla  donna  che  si ama: "Il momento del nostro 
      supplizio è fissato;  fra poche ore avrà luogo".  Ma non  importa, 
      bisogna sia così, e dal canto mio non opporrò ostacoli. Poiché non 
      si  aspetta  che l'arrivo del signor d'Epinay per sottoscrivere il 
      contratto, e voi sarete sua l'indomani del suo arrivo,  domani voi 
      apparterrete a lui, perché egli è giunto a Parigi questa mattina." 
      Valentina mandò un grido. 
      "Ero  dal  conte  di  Montecristo,  un'ora  fa..."  disse  Morrel. 
      "Parlavamo,  egli del dolore della vostra casa,  ed io del  dolore 
      vostro,  quando  d'improvviso  si  sente  una carrozza in cortile. 
      Ascoltate! Io non credevo ai presentimenti,  ma ora bisogna che vi 
      creda:  al  rumore  di  quella carrozza sono stato investito da un 
      fremito in tutto il corpo;  ben  presto  intesi  dei  passi  sulla 
      scala.  Finalmente  si  apre  la  porta: Alberto Morcerf entra per 
      primo;  stavo  per  dubitare  di  me  stesso,  stavo  per  credere 
      d'essermi  ingannato,  quando  dietro  a  lui  s'avanza  un  altro 
      giovane, ed il conte esclama: 
      "Ah, barone Franz d'Epinay!" 
      Quanto ho di forza e di coraggio lo raccolsi per contenermi. Forse 
      sono impallidito,  forse ho tremato,  ma certo  sono  rimasto  col 
      sorriso sulle labbra... Cinque minuti dopo sono uscito senza avere 
      udito una parola di ciò che fu detto,  in quei cinque minuti,  ero 
      annientato." 
      "Povero Massimiliano!" mormorò Valentina. 
      "Guardatemi,  Valentina.  Vediamo,  rispondete come ad un uomo  al 
      quale la vostra risposta deve dare la vita o la morte: che contate 
      di fare?" 
      Valentina abbassò la testa; era oppressa. 
      "Ascoltate"  disse  Morrel.  "Non è la prima volta che voi pensate 
      alla nostra situazione: ora è grave, è pressante,  è suprema!  Non 
      credo sia il momento di abbandonarsi ad uno sterile dolore,  buono 
      per quelli che vogliono soffrire a loro agio,  e bere in  pace  le 
      loro  lacrime...  Ci  sono  di  queste  persone,  e Dio certamente 
      ricompenserà nel cielo  la  loro  rassegnazione  sulla  terra,  ma 
      chiunque si sente la volontà di lottare, non perde tempo prezioso, 
      e  rende  immediatamente alla sorte il colpo col quale fu colpito. 
      Avete  la  volontà  di  lottare  contro  l'avversa  sorte?   Dite, 
      Valentina, questo è quanto vi domando..." 
      Valentina fremette, e guardò Morrel con occhi spaventati. 
      L'idea di resistere a sua nonna,  infine a tutta la famiglia,  non 
      le era ancor venuta. 
      "Che mi dite,  Massimiliano?  e  cosa  chiamate  una  lotta?  Dite 
      piuttosto  un sacrilegio.  Che?  io lottare contro l'ordine di mio 
      padre,  contro il desiderio della mia nonna  moribonda?  Questo  è 
      impossibile." 
      Morrel fece un movimento; Valentina continuò: 
      "Voi  avete  un  cuore  troppo  nobile per non comprendermi,  e mi 
      comprendete tanto bene,  che vi ho ridotto al  silenzio.  Lottare, 
      io?  Dio me ne salvi! No, no, serbo tutta la mia forza per lottare 
      contro me stessa, e per bere le mie lacrime,  come voi dite...  In 
      quanto  ad  affliggere  mio padre,  in quanto a turbare gli ultimi 
      momenti di mia nonna, mai!" 
      "Avete ragione" disse freddamente Morrel. 
      "Mio Dio, in qual modo me lo dite!" gridò Valentina offesa. 
      "Vi dico ciò, come un uomo che vi ammira, signorina!" 
      "Signorina!" gridò Valentina. "Signorina! Oh!  l'egoista!  Mi vede 
      alla disperazione, e finge di non capirmi..." 
      "V'ingannate,  anzi  vi  capisco  perfettamente.  Voi  non  volete 
      contrariare il  signor  Villefort,  non  volete  disobbedire  alla 
      marchesa, e domani sottoscriverete il contratto che deve unirvi al 
      vostro sposo." 
      "Mio Dio! Come potrei fare altrimenti?" 
      "Non  bisogna  appellarsi a me,  perché sono un cattivo giudice in 
      questa causa,  ed il mio egoismo mi accecherebbe" rispose  Morrel, 
      la  cui  voce  cupa  e  i  pugni  stretti  indicavano la crescente 
      esasperazione. 
      "Che mi avreste dunque proposto,  Morrel,  se  mi  aveste  trovata 
      disposta ad accettare la vostra follia?  Sentiamo, rispondete, non 
      si tratta di dire "fate male", si tratta di dare un consiglio." 
      "Dite ciò seriamente, Valentina? E devo io darvi questo consiglio, 
      dite?" 
      "Certamente, caro Massimiliano, perché se è buono,  io lo seguirò: 
      sapete bene quanto vi amo." 
      "Valentina"  disse  Morrel  terminando  di  staccare  un'asse  già 
      sconnessa,  "datemi la vostra mano in pegno che perdonate  la  mia 
      collera...  Ho la testa sconvolta,  vedete bene, da un'ora le idee 
      più insensate hanno percorso una per volta il  mio  cervello.  Oh, 
      nel caso che rifiutaste il mio consiglio..." 
      "Ebbene, questo consiglio?" 
      "Ebbene, Valentina." 
      La giovane alzò gli occhi al cielo e mandò un sospiro. 
      "Io sono libero" rispose Massimiliano,  "sono abbastanza ricco per 
      noi due,  vi giuro innanzi all'Eterno che sarete mia moglie  prima 
      che le mie labbra si siano posate sulla vostra fronte..." 
      "Voi mi fate tremare" disse la giovane. 
      "Seguitemi"  continuò  Morrel,  "vi  condurrò da mia sorella che è 
      degna di essere anche vostra  sorella...  Poi  c'imbarcheremo  per 
      Algeri,  per l'Inghilterra,  o per l'America o,  se preferite,  ci 
      ritiriamo in qualche provincia, dove aspetteremo che qualche amico 
      abbia vinta la resistenza della vostra famiglia." 
      Valentina scosse la testa. 
      "Io  me  l'aspettavo,  Massimiliano"  disse  lei.   "Questo  è  un 
      consiglio insensato,  e sarei ancor più insensata di voi se non vi 
      fermassi   con   queste   sole   parole:   impossibile,    Morrel, 
      impossibile!" 
      "Soffrirete  dunque  la  sorte  come  si  presenta,  senza neppure 
      tentare di combatterla?" domandò Morrel con cupo accento. 
      "Sì, dovessi anche morire!" 
      "Valentina,  vi ripeterò di nuovo che avete  ragione;  infatti  io 
      sono un pazzo, e voi mi provate che la passione acceca gli spiriti 
      più retti. Grazie, dunque, a voi che ragionate senza passione. Sia 
      dunque  così,   è  cosa  intesa:  domani  sarete  irrevocabilmente 
      promessa  al  signor  d'Epinay,   non  già  con  quella  formalità 
      immaginata  per  sciogliere gli intrecci delle commedie,  e che si 
      chiama "sottoscrizione  del  contratto",  ma  per  vostra  propria 
      volontà." 
      "Ancora  una  volta  mi gettate nella disperazione,  Morrel" disse 
      Valentina, "e ancora una volta ricacciate il pugnale nella ferita! 
      Che fareste,  dite,  se vostra  sorella  ascoltasse  un  consiglio 
      uguale a quello che mi date?" 
      "Signorina" rispose Morrel, con amaro sorriso, "sono un egoista, e 
      nella  mia  qualità d'egoista,  non penso a quel che farebbero gli 
      altri nella mia posizione,  ma a quel che conto di fare io.  Penso 
      che  vi conosco da un anno,  che ho riposto,  dal giorno in cui vi 
      conobbi,  tutte le possibili felicità nel vostro amore,  che venne 
      un  giorno  in  cui mi diceste che mi amavate,  che da quel giorno 
      fissai le sorti del mio avvenire sul vostro possesso,  giacché  il 
      possedervi è per me la vita. Ora non penso più a niente: dico solo 
      a me stesso che le cose sono cambiate, che credevo aver guadagnato 
      la felicità, e l'ho invece perduta. Ciò accade sempre al giocatore 
      che perde non solo quel che aveva, ma quello che non aveva." 
      Morrel pronunciò queste parole colla più perfetta calma. Valentina 
      lo  guardò  un  momento  con  i  suoi grandi occhi scrutatori,  e, 
      cercando di non far comprendere a Morrel quanto  era  agitata  nel 
      cuore, disse: 
      "Ma infine, che farete?" 
      "Ho  l'onore di dirvi addio,  signorina,  chiamando testimone Dio, 
      che sente le mie parole,  e legge nel fondo del mio cuore,  che vi 
      auguro una vita molto calma e felice,  e tanto piena in gioie, che 
      non vi rimanga posto per la mia memoria." 
      "Oh!" mormorò Valentina. 
      "Addio, Valentina, addio!" disse Morrel inchinandosi. 
      "Dove andate?" gridò, allungando la mano attraverso il cancello ed 
      afferrando  Massimiliano  per  l'abito.   Valentina   comprendeva, 
      dall'interna  agitazione,  che  la  calma  del  suo innamorato non 
      poteva essere reale. "Dove andate?" 
      "Vado ad occuparmi di non arrecare un nuovo dispiacere alla vostra 
      famiglia,  a dare un esempio che potranno seguire tutte le  oneste 
      persone che si troveranno nella mia posizione." 
      "Prima di lasciarmi ditemi ciò che volete fare?" 
      Il giovane sorrise con tristezza. 
      "Oh, parlate! parlate!" disse Valentina, "ve ne prego! 
      "La vostra decisione è forse cambiata, Valentina?" 
      "Non  può  cambiarsi,  infelice!  Voi  ben  lo sapete!" esclamò la 
      giovane. 
      "Allora, addio, Valentina!" 
      Questa scosse il cancello con una forza  di  cui  non  si  sarebbe 
      creduta capace, e siccome Morrel si allontanava, passò le due mani 
      attraverso le sbarre, congiungendo e contorcendo le braccia. 
      "Che andate a fare? Voglio saperlo! Dove andate?" 
      "Oh,  state tranquilla" disse Massimiliano, fermandosi a tre passi 
      dalla porta,  "la mia intenzione non è di prendermela con un altro 
      uomo per una sorte che riguarda me solo.  Un altro minaccerebbe di 
      andare a trovare il signor Franz, provocarlo,  e battersi con lui: 
      tutto ciò sarebbe da insensato.  Che ha a che fare il signor Franz 
      con tutto ciò?  Lui mi ha visto questa mattina per la prima volta, 
      ha  già  dimenticato  di  avermi visto;  non sapeva neppure che io 
      esistessi quando furono  presi  gli  accordi  fra  le  vostre  due 
      famiglie:  non  ho  dunque  a  che fare col signor Franz,  e ve lo 
      giuro, non me la prenderò con lui." 
      "Ma con chi ve la prenderete? con me?" 
      "Con voi, Valentina?! Oh, Dio me ne guardi!  La donna che si ama è 
      un idolo..." 
      "Con voi stesso allora, disgraziato, con voi stesso!" 
      "Sono io il colpevole, non è vero?" disse Morrel. 
      "Massimiliano" disse Valentina, "venite qui, lo voglio!" 
      Massimiliano  si  avvicinò  col suo dolce sorriso,  e se non fosse 
      stato il pallore del viso si sarebbe detto che era come sempre. 
      "Ascoltatemi,  mia adorata  Valentina"  disse  con  voce  grave  e 
      melodiosa:  "le  persone  come  noi,  che  non  hanno mai avuto un 
      pensiero di cui abbiano ad arrossire davanti al mondo,  davanti ai 
      parenti,  e  a  Dio,  possono  leggere  nel cuore l'uno dell'altro 
      apertamente.  Io non ho mai fatto il romantico,  non sono un  eroe 
      malinconico,  non  rappresento  né un Manfredi,  né un Antony;  ma 
      senza parole, senza proteste,  senza giuramenti,  ho messo la vita 
      in  voi,  voi mi venite meno,  ed avete ragione di agire così,  ve 
      l'ho detto, ve lo ripeto, ma infine voi mi tradite,  e la mia vita 
      è  perduta.  Dal momento che vi allontanate da me,  Valentina,  io 
      resto solo al mondo.  Mia sorella è felice  con  suo  marito;  suo 
      marito  non  è  che  un mio cognato,  vale a dire,  un uomo che le 
      convenzioni sociali soltanto uniscono a me;  nessuno dunque  sulla 
      terra  ha  bisogno della mia esistenza divenuta inutile.  Ecco ciò 
      che io farò: aspetterò fino all'ultimo,  che voi  siate  maritata, 
      perché  non  voglio  perdere  nemmeno  l'ombra  di  una  di quelle 
      inattese eventualità che qualche  volta  ci  riserba  il  destino, 
      perché anche di qui a quel momento Franz d'Epinay può morire,  nel 
      momento in cui  vi  avvicinerete  a  lui  il  fulmine  può  cadere 
      sull'altare: tutto sembra credibile al condannato a morte, per lui 
      tutto  è  possibile:  invoca,  aspetta  un  miracolo per lui solo, 
      giacché si tratta della sua salvezza,  della sua vita.  Io  dunque 
      aspetterò fino all'ultimo momento, e quando la mia infelicità sarà 
      certa,  senza rimedio,  senza speranze, scriverò una lettera a mio 
      cognato,  un'altra lettera al prefetto di  polizia  per  dar  loro 
      avviso del mio progetto,  e nell'oscurità di qualche bosco,  sulla 
      riva di qualche fosso,  sulla sponda di  qualche  fiume,  mi  farò 
      saltare  le  cervella,  quanto  è  vero che sono il figlio del più 
      onesto uomo che abbia vissuto in Francia." 
      Un tremito agitò le membra di Valentina,  lasciò il  cancello  che 
      teneva con ambe le mani,  le braccia ricaddero abbandonate,  e due 
      grosse lacrime le scesero sulle guance. 
      Il giovane rimase davanti a lei, tetro e risoluto. 
      "Oh, per pietà" disse lei, "vivrete, non è vero?" 
      "No,  sul mio onore" disse Massimiliano.  "Ma che importa  a  voi? 
      Avrete fatto il vostro dovere, e vi rimarrà la vostra coscienza." 
      Valentina  cadde  in  ginocchio  comprimendosi il cuore che pareva 
      volesse scoppiarle. 
      "Massimiliano" disse,  "amico mio,  mio fratello sulla terra,  mio 
      sposo nel cielo,  te ne prego,  fa' come faccio io, vivi e soffri, 
      un giorno forse saremo riuniti." 
      "Addio Valentina" replicò Morrel. 
      "Mio Dio!" esclamò Valentina,  alzando le mani  al  cielo  in  una 
      sublime  espressione.  "Voi  lo vedete,  ho fatto tutto ciò che ho 
      potuto per restare una figlia sottomessa, ho pregato,  supplicato, 
      implorato...  Costui  non  ha  ascoltato le mie preghiere,  le mie 
      suppliche, le mie lacrime. Ebbene" continuò asciugando le lacrime, 
      e riprendendo la sua  fermezza,  "ebbene,  non  voglio  morire  di 
      rimorsi,  amo piuttosto morire di vergogna: vivrete, Massimiliano, 
      ed io non sarò di alcuno fuorché vostra.  A  quale  ora?  In  qual 
      momento volete? Subito, parlate, ordinate, sono pronta." 
      Morrel  che  aveva  già fatto qualche passo per allontanarsi,  era 
      tornato di nuovo, pallido di gioia, col cuore commosso, afferrando 
      attraverso il cancello nelle sue mani quelle di Valentina. 
      "Valentina" disse,  "amica cara,  non è così che bisogna parlarmi, 
      altrimenti bisogna lasciarmi morire.  Perché dovrò ottenervi colla 
      violenza,  se mi amate come vi amo?  Mi costringete a  vivere  per 
      umanità? Ecco tutto: in questo caso, amo piuttosto morire." 
      "Infatti" disse Valentina,  "chi mi ama in questo mondo? Chi mi ha 
      consolato in tutti i miei dolori? Su chi riposano le mie speranze? 
      Su chi si ferma la mia vista sconvolta? Su chi riposa il mio cuore 
      sanguinante?  Su di voi,  sempre  su  di  voi!  Ebbene  voi  avete 
      ragione,  Massimiliano,  vi seguirò,  abbandonerò la casa paterna, 
      tutto!  Oh,  ingrata che  sono!"  gridò  Valentina  singhiozzando. 
      "Tutto, anche il mio buon nonno che dimenticavo!" 
      "No" disse Massimiliano,  "non lo lascerete. Non mi diceste che il 
      signor Noirtier sembrò nutrire qualche simpatia  per  me?  Ebbene, 
      prima  di fuggire gli direte tutto,  vi farete scudo davanti a Dio 
      del suo consenso poi, subito dopo maritati, egli verrà con noi, e, 
      invece di uno, avrà due nipoti. Voi mi avete detto che vi parla, e 
      come gli rispondete;  imparerò ben presto  quel  muto  linguaggio. 
      Andate, Valentina... Ve lo giuro, invece della disperazione che ci 
      aspettava, forse avremo la felicità..." 
      "Vedete, Massimiliano, vedete qual è il vostro potere su di me? Mi 
      fate  quasi credere quel che mi dite,  eppure è insensato,  perché 
      mio padre  mi  maledirà,  giacché  io  lo  conosco,  ha  il  cuore 
      inflessibile,  non mi perdonerà mai.  Eppure, Massimiliano, se per 
      artificio, per le nostre preghiere, per buonasorte, che so io,  se 
      infine  per  un caso qualsiasi si può ritardare il matrimonio,  mi 
      aspetterete, non è vero? Non farete pazzie?" 
      "Sì,  ve lo giuro!  Così voi dovrete giurarmi che questo sacrilego 
      matrimonio  non  si  farà mai,  e che quand'anche vi trascinassero 
      davanti al magistrato o davanti al prete,  voi  direte  sempre  di 
      no!" 
      "Ve lo giuro,  Massimiliano,  per tutto ciò che ho di più sacro al 
      mondo, per mia madre!" 
      "Allora, aspettiamo" disse Morrel. 
      "Sì,  aspettiamo"  confermò  Valentina,  che  respirava  a  questa 
      parola. 
      "Tante cose possono accadere e salvare due infelici come noi." 
      "Mi affido a voi,  Valentina" disse Morrel,  "tutto ciò che farete 
      sarà ben fatto.  Soltanto se non si ascoltano le vostre preghiere, 
      se  vostro  padre,  se  la  signora  di Saint-Méran esigono che il 
      signor d'Epinay sia chiamato domani a firmare il contratto..." 
      "Allora avete la mia parola, Morrel." 
      "Invece di firmare..." 
      "Vengo a raggiungervi, e fuggiremo;  ma fino allora,  non tentiamo 
      Iddio...  Morrel,  è  meglio che non ci vediamo più,  giacché è un 
      miracolo,  è una provvidenza che non siamo stati ancora  sorpresi; 
      se  lo  fossimo,  se  si sapesse come ci vediamo,  non avremmo più 
      alcuna risorsa..." 
      "Avete ragione, Valentina... Ma come sapete...?" 
      "Dal notaio, il signor Deschamps." 
      "Io lo conosco." 
      "E da me stessa, vi scriverò." 
      "Oh grazie,  adorata Valentina!" esclamò Morrel.  "Allora tutto  è 
      convenuto:  una  volta  che  io  sappia  l'ora,  accorro qui,  voi 
      sorpasserete questo muro fra  le  mie  braccia,  una  carrozza  ci 
      aspetterà alla porta del recinto, vi monterete con me, vi condurrò 
      da mia sorella. A casa nostra, nascosti, se così vi piace, facendo 
      strepito  se  lo  desiderate,  avremo  la  coscienza  dalla nostra 
      libertà,  e non ci faremo scannare come l'agnello,  che non oppone 
      resistenza che con i suoi belati." 
      "Sia  così"  disse Valentina.  "Io pure dirò: tutto ciò che farete 
      sarà ben f atto." 
      "Oh!" 
      "Ebbene siete contento di vostra  moglie?"  disse  tristemente  la 
      ragazza. 
      "Mia adorata Valentina, è ben poco dir di sì." 
      "Ditelo sempre." 
      Valentina  si  era  avvicinata,  o  piuttosto  aveva avvicinate le 
      labbra al cancello,  e le sue parole passavano come un soffio fino 
      alle  labbra  di  Morrel  che  teneva la bocca attaccata all'altra 
      parte del freddo ed inesorabile cancello. 
      "Arrivederci" disse Valentina,  togliendosi con uno  sforzo  dalla 
      sua felicità, "arrivederci." 
      "Io avrò dunque una vostra lettera?" 
      "Sì." 
      "Grazie, mia cara sposa, arrivederci." 
      Il  suono  di  un  bacio  innocente  e perduto si fece sentire,  e 
      Valentina fuggì sotto i tigli. 
      Morrel ascoltò gli ultimi rumori della sua veste fluttuante contro 
      i cespugli,  dei piedi che facevano scricchiolare la sabbia,  alzò 
      gli  occhi  al  cielo con un ineffabile sorriso,  per ringraziarlo 
      perché permetteva che fosse amato in tal modo,  e anche lui  corse 
      via. 
      Il giovane rientrò in casa sua,  ed aspettò durante tutto il resto 
      della sera, ed il giorno seguente senza nulla ricevere. 
      Finalmente il secondo giorno verso le dieci  del  mattino,  mentre 
      stava   per   andare  da  Deschamps,   ricevette  dalla  posta  un 
      bigliettino, che riconobbe di Valentina, quantunque non avesse mai 
      veduto un suo scritto. 
      Era così concepito: 
 
      "Lacrime, suppliche, preghiere, nulla hanno ottenuto. Ieri per due 
      ore sono stata alla chiesa di Saint-Philippe de Roule  e  per  due 
      ore  ho  pregato Dio dal fondo della mia anima;  Dio non ha voluto 
      esaudirmi,  e le firme del contratto sono fissate per questa  sera 
      alle  nove.  Non  ho che una parola sola,  come non ho che un solo 
      cuore; Morrel,  questa parola è impegnata con voi,  questo cuore è 
      vostro. 
      Questa sera dunque, alle nove meno un quarto al cancello. 
      Vostra sposa Valentina Villefort. 
      Post scriptum. La mia povera nonna va di male in peggio: ieri sera 
      la sua esaltazione giunse al delirio;  oggi il suo delirio è quasi 
      una  pazzia:  mi  amerete,   per  farmi  dimenticare  che   l'avrò 
      abbandonata  in questo stato?  Io credo che nascondano a mio nonno 
      Noirtier che la firma del contratto deve aver luogo questa sera." 
 
      Morrel non si limitò alle informazioni  che  gli  dava  Valentina: 
      andò  dal  notaio,  che  gli  confermò la notizia che la firma del 
      contratto era fissata per le nove della sera. 
      Quindi passò da Montecristo,  e là ne  seppe  di  più:  Franz  era 
      venuto ad annunziargli questa cerimonia;  dal canto suo la signora 
      Villefort aveva scritto un biglietto al  conte,  per  pregarlo  di 
      scusarla  se  non  lo  invitava,  ma la morte del signor di Saint- 
      Méran,  e lo stato in cui si trovava la  vedova  stendevano  sopra 
      questa  unione un velo di tristezza,  di cui non voleva attristare 
      il conte, cui augurava ogni sorta di felicità. 
      La sera prima Franz era stato presentato alla  signora  di  Saint- 
      Méran, che aveva lasciato il letto per questa cerimonia, ma che vi 
      ritornò subito dopo. 
      Morrel,  è  cosa  facile  a  comprendersi,  era  in  uno  stato di 
      agitazione che non poteva sfuggire ad un occhio tanto  penetrante, 
      quanto  quello  del  conte;  per  cui  Montecristo  fu con lui più 
      affettuoso  che  mai,   tanto  affettuoso  che  due  o  tre  volte 
      Massimiliano fu sul punto di confessargli tutto,  ma si ricordò la 
      formale promessa data a Valentina,  ed il segreto  rimase  sepolto 
      nel fondo del suo cuore. 
      Massimiliano  lesse e rilesse venti volte nel corso della giornata 
      la lettera di Valentina.  Era la prima volta che gli scriveva,  ed 
      in quale occasione! 
      Ogni volta che rileggeva quella lettera,  rinnovava a se stesso il 
      giuramento di render felice Valentina.  Infatti quale diritto  non 
      ha  una  donna  che prenda una così coraggiosa risoluzione?  Quale 
      affetto  non  merita  da  parte  di  colui  al  quale   ha   tutto 
      sacrificato?  Come può non essere per il suo amante il primo ed il 
      più caro oggetto,  degno di tutta la sua venerazione?  Ne è ad  un 
      tempo  la regina e la sposa,  e non basta un'anima per adorarla ed 
      amarla. Morrel pensava,  con una inesprimibile agitazione,  a quel 
      momento in cui Valentina sarebbe arrivata dicendogli: 
      "Eccomi, Massimiliano." 
      Egli  aveva  disposto  tutto  per  la  fuga: due scale erano state 
      nascoste nel piccolo fabbricato del  recinto;  un  calessino,  che 
      doveva  guidare  lo  stesso  Massimiliano,  lo  aspettava;  nessun 
      domestico,  nessun lume;  alla prima voltata di strada,  avrebbero 
      acceso i fanali,  perché non bisognava, per un eccesso di cautele, 
      cadere nelle mani della polizia. 
      Ogni tanto dei fremiti scorrevano per tutto il  corpo  di  Morrel; 
      egli  pensava al momento,  in cui dall'alto di quel muro,  avrebbe 
      protetto la fuga di Valentina,  e l'avrebbe  sentita  tremante  ed 
      abbandonata  fra le sue braccia,  proprio lei di cui non aveva mai 
      stretto che la mano, né baciato che la punta di un dito. Ma quando 
      fu oltrepassato il mezzogiorno,  quando Morrel  sentì  avvicinarsi 
      l'ora,  provò  il bisogno di restar solo,  il sangue bolliva nelle 
      vene,  le semplici domande,  la sola voce di un amico  l'avrebbero 
      irritato. Si rinchiuse in casa sua, provò a leggere, ma lo sguardo 
      strisciò  sulle  pagine senza nulla capire,  e finì col gettare il 
      libro, per tornare a meditare per la decima volta il suo piano, le 
      scale,  il recinto.  Finalmente l'ora si  avvicinò.  Mai  un  uomo 
      veramente innamorato ha lasciato fare all'orologio il suo pacifico 
      cammino; Morrel tormentò tanto il suo che finì col segnare le otto 
      e mezzo quando non erano ancora le sei. 
      Allora  disse a se stesso che era giunta l'ora di partire,  che le 
      nove era effettivamente l'ora della firma del contratto,  ma  che, 
      secondo  ogni probabilità,  Valentina non avrebbe aspettato questa 
      inutile cerimonia;  di conseguenza,  Morrel,  dopo essere  partito 
      dalla  rue  Meslay  alle otto e mezzo del suo orologio,  entrò nel 
      recinto quando le otto suonavano a Saint-Philippe de Roule. 
      Il cavallo ed il calessino  furono  nascosti  dietro  una  piccola 
      casetta  in  rovina,  nella  quale  Morrel  aveva  l'abitudine  di 
      celarsi. A poco a poco si fece notte,  e le foglie del giardino si 
      tramutarono in grossi massi di un nero opaco. 
      Allora Morrel uscì dal nascondiglio,  e col cuore palpitante venne 
      a guardare alle fessure del cancello: non  c'era  ancora  nessuno. 
      Suonarono le otto e mezzo. 
      Una  mezz'ora  passò nell'aspettare: Morrel passeggiava in lungo e 
      in largo, poi, ad intervalli sempre più vicini, veniva ad applicar 
      l'occhio alle assi.  Il giardino si oscurava sempre più  ma  nella 
      oscurità  cercava  invano la veste bianca,  nel silenzio ascoltava 
      inutilmente il rumore dei passi. 
      La casa,  che si scopriva attraverso il fogliame,  restava tetra e 
      silenziosa,  e  non  tradiva alcun segno di una casa in cui stanno 
      per accadere fatti eccezionali, quanto la firma di un contratto di 
      matrimonio e la fuga di una fidanzata. 
      Morrel consultò l'orologio,  che suonò le nove e tre  quarti,  ma, 
      quasi subito dopo, il suono dello stesso orologio già inteso due o 
      tre volte, rettificò l'errore, e suonò le nove e mezzo. 
      Era  già  mezz'ora  in  più  di  quel  che aveva fissato la stessa 
      Valentina: lei aveva detto le nove, anzi piuttosto prima che dopo. 
      Questo fu il momento più terribile per il cuore del  giovane,  sul 
      quale  a ogni secondo cadeva un martello di piombo.  Il più debole 
      rumore di foglie, il più piccolo soffio di vento richiamava la sua 
      attenzione,  e gli  procurava  un  freddo  sudore;  allora,  tutto 
      tremante, accomodava la scala, e, per non perder tempo, metteva il 
      piede sul primo scalino. 
      In mezzo a queste alternative di timore e di speranze,  in mezzo a 
      tali dilatazioni e  stringimenti  di  cuore,  suonarono  le  dieci 
      all'orologio della chiesa. 
      "Oh" mormorò Massimiliano con terrore, "è impossibile che la firma 
      di  un  contratto  duri  così  a  lungo,  a  meno  che avvenimenti 
      imprevisti  non  siano  sopraggiunti;   ho   misurato   tutte   le 
      possibilità, calcolato il tempo di durata di tutte le formalità, è 
      dunque accaduto qualche cosa." 
      Ed  ora  un po' passeggiava davanti al cancello,  un po' veniva ad 
      appoggiare la fronte bruciante sul gelido ferro. 
      Valentina sarebbe forse svenuta dopo il contratto? o sarebbe stata 
      fermata mentre fuggiva?  Erano le due  sole  ipotesi  sulle  quali 
      poteva soffermarsi il giovane, entrambe terribili. 
      L'idea  però  che  più  lo convinse fu che a metà della fuga fosse 
      venuta meno la forza a Valentina,  e che fosse caduta  svenuta  in 
      mezzo a qualche viale. 
      "Oh,  se  fosse così" gridò slanciandosi alla sommità della scala, 
      "la perderei, e per mia colpa!" 
      Il demone che gli aveva soffiato questo  pensiero  non  lo  lasciò 
      più,  e  ronzò  al  suo orecchio con quella perseveranza che fa di 
      alcuni dubbi dopo pochi momenti,  per la forza  del  ragionamento, 
      radicate convinzioni. 
      I  suoi  occhi,  che  cercavano  di fendere la crescente oscurità, 
      credevano di vedere sotto l'ombroso viale un oggetto steso, Morrel 
      s'arrischiò perfino a chiamare, e gli sembrò che il vento portasse 
      fino a lui un lamento inarticolato. 
      Finalmente  passò  un'altra  mezz'ora,   era   impossibile   poter 
      pazientare più lungamente,  tutto accresceva l'ansia: le tempie di 
      Massimiliano  battevano  con  forza;   scavalcò  il  muro,   saltò 
      dall'altra parte. 
      Egli  era  nella  proprietà  di Villefort,  vi penetrava per mezzo 
      d'una scala.  Pensò allora alle conseguenze che poteva  avere  una 
      simile  azione,   ma  non  era  arrivato  tant'oltre  per  tornare 
      indietro. Per qualche tratto andò rasente il muro, e,  traversando 
      il  viale  con un salto,  si lanciò nel folto degli alberi.  In un 
      momento fu all'estremità del  boschetto.  Dal  punto  in  cui  era 
      giunto, si poteva scorgere la casa. 
      Allora Morrel si assicurò di quanto aveva già potuto sospettare, e 
      fu  che  invece  dei  lumi  che  si credeva di veder risplendere a 
      ciascuna finestra,  com'è naturale nei giorni  di  cerimonia,  non 
      vide altro che una massa grigia e velata ancora da un grande stato 
      d'ombra che proiettava un'immensa nube distesa davanti alla luna. 
      Un  lume  scorreva a tratti come perduto,  e passava davanti a tre 
      finestre del primo piano.  Queste erano  quelle  dell'appartamento 
      della  signora  di  Saint-Méran.  Un  altro  lume restava immobile 
      dietro un tendaggio rosso,  che  era  quello  della  camera  della 
      signora Villefort. Morrel indovinò tutto questo. 
      Tante  volte,  per  seguire Valentina col pensiero in tutte le ore 
      del giorno,  si era fatto descrivere  questa  casa  che  conosceva 
      senza  averla  mai  vista.  Fu  ancora  più  spaventato  da questo 
      silenzio, di quel che fosse stato per l'assenza di Valentina. 
      Perduto,  folle di dolore,  risoluto a tentare tutto per  rivedere 
      Valentina,   ed   assicurarsi   dell'infortunio   che  presentiva, 
      qualunque fosse,  Morrel arrivò  all'estremità  del  boschetto,  e 
      s'accingeva  ad  attraversare  di  corsa il prato,  del tutto allo 
      scoperto, quando gli giunse il suono di voci assai lontane, che il 
      vento gli portava. 
      A questo rumore fece un passo indietro,  già uscito dal  fogliame, 
      si   celò   completamente,   e   restò  immobile  e  muto  avvolto 
      nell'oscurità.  La sua decisione era presa: se Valentina era sola, 
      l'avrebbe  richiamata  sottovoce mentre passava;  se Valentina era 
      accompagnata,  almeno l'avrebbe vista,  e si sarebbe accertato che 
      non  le era accaduta alcuna disgrazia;  se fossero stati estranei, 
      avrebbe udito qualche parola della loro conversazione,  e  sarebbe 
      riuscito a chiarire un mistero per lui inesplicabile. 
      La  luna uscì dalle nubi che la nascondevano,  e sulla porta della 
      scalinata Morrel vide comparire il signor Villefort  in  compagnia 
      di  un  uomo  vestito  di  nero.   Essi  scesero  gli  scalini,  e 
      s'inoltrarono nel boschetto.  Non  avevano  ancora  fatto  quattro 
      passi,  che nell'uomo vestito di nero Morrel aveva riconosciuto il 
      dottore d'Avrigny. 
      Il giovane,  vedendoli venire,  indietreggiò macchinalmente fino a 
      che  urtò  nel  tronco  di  un  albero  che  formava il centro del 
      boschetto; là fu costretto a fermarsi.  Ben presto la sabbia cessò 
      di stridere sotto i piedi dei due che stavano sopraggiungendo. 
      "Ah  caro dottore" stava dicendo il procuratore del re,  "ecco che 
      il cielo si rivela avverso alla mia  casa.  Qual  morte  orribile! 
      qual colpo di fulmine!  Non cercate di consolarmi,  ahimè!  Non ci 
      sono consolazioni per simili disgrazie,  la piaga è troppo viva  e 
      troppo profonda: morta! morta!" 
      Un  sudor freddo fece agghiacciare la fronte del giovane e battere 
      i denti.  Chi dunque era morto  in  quella  casa,  che  lo  stesso 
      Villefort diceva maledetta? 
      "Mio caro signor Villefort" rispose il medico,  con un accento che 
      raddoppiò il terrore del giovane,  "non vi  ho  condotto  qui  per 
      consolarvi, anzi tutto il contrario." 
      "Che volete dire?" domandò il procuratore spaventato. 
      "Voglio dirvi che, dietro alla disgrazia che vi è accaduta, ce n'è 
      un'altra forse anche maggiore." 
      "Oh  mio Dio!" mormorò Villefort,  giungendo le mani.  "Che volete 
      dirmi ancora?" 
      "Siamo ben sicuri d'essere soli?" 
      "Oh,   sì,   siamo  soli...   Ma  che  significano  tutte   queste 
      precauzioni?" 
      "Significano  ch'io ho una confidenza terribile da farvi" disse il 
      dottore. "Sediamoci." 
      Villefort cadde piuttosto  che  sedersi  sopra  una  panchina.  Il 
      dottore  rimase in piedi davanti a lui,  tenendogli una mano sopra 
      una spalla. Morrel,  agghiacciato dallo spavento,  con una mano si 
      reggeva  la fronte,  coll'altra si teneva compresso il cuore quasi 
      temesse  che  si  sentissero  le  sue  pulsazioni.  Morta!  morta! 
      ripeteva  nel  pensiero  colla  voce del cuore,  ed egli stesso si 
      sentiva morire. 
      "Parlate,  dottore,  vi ascolto"  disse  Villefort,  "e  poi  sono 
      preparato a tutto." 
      "La  signora di Saint-Méran era in età avanzata,  non vi è dubbio, 
      ma godeva ancora di una eccellente salute." 
      Morrel per la prima volta respirò dopo dieci minuti. 
      "Il dolore l'ha  uccisa"  disse  Villefort,  "sì,  il  dispiacere, 
      dottore! L'abitudine per quaranta anni di vivere col marchese..." 
      "Non  fu  il  dispiacere,  caro  Villefort"  disse il dottore.  "I 
      dispiaceri possono uccidere,  quantunque i casi siano molto  rari, 
      ma non uccidono in un giorno, in un'ora, in dieci minuti." 
      Villefort  nulla  rispose,  soltanto alzò la testa che fino allora 
      aveva tenuta bassa, e guardò il dottore con occhi atterriti. 
      "Eravate là, durante l'agonia?" domandò il dottor d'Avrigny. 
      "Senza dubbio" rispose il procuratore.  "Mi diceste a  bassa  voce 
      che non mi allontanassi." 
      "Avete osservato i sintomi del male sotto cui ha dovuto soccombere 
      la signora di Saint-Méran?" 
      "Certamente, ha avuto tre attacchi successivi, a qualche minuto di 
      distanza gli uni dagli altri, e ciascuna volta fra loro più vicini 
      e più forti. Quando siete giunto, già da qualche minuto la signora 
      di Saint-Méran era anelante;  ha avuto una crisi che ho creduto un 
      semplice assalto  nervoso,  e  non  ho  cominciato  a  spaventarmi 
      realmente che quando l'ho vista sollevarsi sul letto, con gli arti 
      ed il collo irrigiditi.  Allora dal vostro viso ho compreso che la 
      cosa era più grave di quel  che  io  credevo.  Cessata  la  crisi, 
      cercavo  i  vostri  occhi,  essi non s'incontrarono coi miei.  Voi 
      tenevate fra le dita il suo  polso,  contavate  le  pulsazioni,  e 
      comparve la seconda crisi,  che non v'eravate ancora rivolto dalla 
      mia parte.  Quella è stata più terribile della prima;  gli  stessi 
      movimenti  nervosi si sono riprodotti e la bocca si è contratta ed 
      è divenuta violetta." 
      "Alla terza, è spirata." 
      "Avevo già riconosciuto il  tetano  fin  dalla  fine  della  prima 
      crisi; voi mi confermaste in questa opinione." 
      "Sì,  alla presenza di tutti" disse il dottore,  "ma ora noi siamo 
      soli." 
      "Che cosa volete dirmi, mio Dio?" 
      "Che i sintomi del  tetano  e  dell'avvelenamento  colle  sostanze 
      vegetali, sono assolutamente gli stessi." 
      Villefort si rizzò in piedi,  poi dopo un minuto d'immobilità e di 
      silenzio, ricadde sulla panchina. 
      "Mio Dio, dottore, pensate bene a quel che dite!" 
      Morrel non sapeva se faceva un sogno o vegliava. 
      "Ascoltate,  conosco la gravità delle mie parole,  ed il carattere 
      della persona cui le dico." 
      "Parlate all'amico o al magistrato?" domandò Villefort. 
      "All'amico soltanto, in questo momento... I rapporti fra i sintomi 
      del  tetano  e  quelli  dell'avvelenamento colle sostanze vegetali 
      sono talmente identici,  che se mi bisognasse  firmare  quanto  vi 
      dico,  vi  dichiaro che esiterei.  Per cui ve lo ripeto,  non è al 
      magistrato ch'io parlo, ma all'amico. Ebbene,  dico all'amico: nei 
      tre  quarti  d'ora  che  è  durata,   ho  studiato  l'agonia,   le 
      convulsioni,  e la morte della  signora  di  Saint-Méran,  e  sono 
      convinto,  non  solo  che  è morta avvelenata,  ma anche con quale 
      veleno è stata uccisa." 
      "Signore! Signore!" 
      "Tutto  coincide:  sonnolenza   interrotta   da   crisi   nervose, 
      sopraeccitazione  del cervello.  La signora di Saint-Méran è morta 
      per una dose violenta di brucnina o di stricnina che senza  dubbio 
      per caso, o forse per errore, le fu somministrata." 
      Villefort afferrò la mano del dottore: 
      "Oh,  è impossibile" disse.  "Sogno, mio Dio, sogno! E' spaventoso 
      sentire simili cose da un uomo come voi! In nome del cielo,  ve ne 
      supplico, caro dottore, ditemi che potete esservi ingannato!" 
      "Senza dubbio lo posso, ma..." 
      "Ma?..." 
      "Ma non lo credo." 
      "Dottore,  abbiate pietà di me! Da qualche giorno mi accadono cose 
      tanto inaudite, che io credo alla possibilità di diventar pazzo." 
      "La signora di Saint-Méran è stata visitata da un altro medico?" 
      "Da nessuno." 
      "E' stata presa alla spezieria altra ricetta che non mi sia  stata 
      fatta vedere?" 
      "Nessuna." 
      "La signora di Saint-Méran aveva qualche nemico?" 
      "Non ne conosco alcuno." 
      "C'è qualcuno che possa desiderare la sua morte?" 
      "Ma no, mio Dio, ma no, mia figlia è la sola ereditiera, Valentina 
      sola...   Oh,   se  mi  potesse  venire  un  simile  pensiero,  mi 
      conficcherei un pugnale nel cuore per punirlo di aver potuto,  per 
      un sol momento, fermarsi sopra tal pensiero." 
      "Oh!" gridò a sua volta d'Avrigny.  "Caro amico, non piaccia a Dio 
      che io accusi qualcuno... Non parlo che di un accidente, o errore: 
      il fatto è là che parla a bassa voce nella mia coscienza, la quale 
      esige però che ve lo dichiari. Prendete le vostre informazioni." 
      "Da chi? Come? Su che cosa?" 
      "Vediamo,  Barrois il vecchio domestico si  sarebbe  sbagliato,  e 
      dato  alla signora di Saint-Méran qualche bevanda preparata per il 
      suo padrone?" 
      "Per mio padre?" 
      "Sì." 
      "Ma  come  una  bevanda  preparata  per  il  signor  Noirtier  può 
      avvelenare la signora di Saint-Méran?" 
      "Niente  di  più  semplice:  sapete che in certe malattie i veleni 
      divengono rimedi;  la paralisi è una di queste malattie.  Da circa 
      tre  mesi,  per esempio,  e dopo aver tutto tentato per rendere la 
      parola al signor Noirtier, ho tentato un ultimo mezzo: lo curo con 
      la brucnina.  Nell'ultima bevanda che  ho  ordinato  per  lui,  ce 
      n'erano   sei   centigrammi;   questi,   innocui  per  gli  organi 
      paralizzati del signor Noirtier,  bastano per  uccidere  qualunque 
      altra persona." 
      "Mio   caro   dottore,   non   c'è   nessuna   comunicazione   fra 
      l'appartamento del signor Noirtier,  e  quello  della  signora  di 
      Saint-Méran,  e  Barrois  non  è  mai  entrato nella camera di mia 
      suocera. Quantunque vi conosca per l'uomo più abile, e soprattutto 
      più coscienzioso del mondo,  quantunque in tutt'altra  congiuntura 
      la  vostra parola sarebbe stata per me una fiaccola pari alla luce 
      del  sole  ora  ho  bisogno,   malgrado  questa  convinzione,   di 
      appoggiarmi su questo assioma: "Sbagliare è umano"." 
      "Ascoltate  Villefort"  disse il dottore,  "conoscete uno dei miei 
      confratelli nel quale possiate  avere  la  stessa  confidenza  che 
      avete in me?" 
      "Perché dite ciò? E che volete concluderne?" 
      "Chiamatelo,  gli dirò ciò che ho veduto,  ciò che ho osservato, e 
      poi faremo l'autopsia." 
      "E troverete le tracce dell'avvelenamento?" 
      "No,  non ho detto questo,  ma  constateremo  la  contrazione  dei 
      nervi,  riconosceremo  l'asfissia  patente,  incontestabile,  e vi 
      diremo, caro Villefort: se fu per negligenza,  vegliate sui vostri 
      servi; se fu per odio, vegliate sui vostri nemici!" 
      "Oh,  mio Dio,  che mi proponete mai,  d'Avrigny?" disse Villefort 
      abbattuto.  "Dal  momento  che  ci  sarà  un  altro  oltre  voi  a 
      conoscenza  del  segreto,  ci vorrà un processo,  ed in casa mia è 
      impossibile! Tuttavia" continuò il regio procuratore, guardando il 
      dottore con inquietudine,  "se lo esigete assolutamente,  lo farò. 
      Infatti, dovrò dare seguito a quest'affare, il mio carattere me lo 
      comanda.  Ma,  dottore,  mi  vedete,  già accasciato di tristezza, 
      introdurre nella mia casa un così grande scandalo,  dopo  un  così 
      grande  dolore?  Oh,  mia  moglie,  e  mia  figlia  ne morrebbero! 
      Dottore,  lo sapete,  un uomo non è stato procuratore del  re  per 
      venti anni senza essersi fatto un buon numero di nemici, ed i miei 
      sono  molti.  Quest'affare scandaloso sarà per essi un trionfo che 
      li farà esultare di gioia, e coprirà me di vergogna... Perdonatemi 
      queste idee mondane. Se foste un prete,  non oserei parlarvi così, 
      ma siete un uomo,  conoscete gli altri uomini...  Dottore,  non mi 
      avete detto niente, non è vero?" 
      "Mio caro signor Villefort" rispose il  dottore,  costernato,  "il 
      mio  primo  dovere  è  l'umanità.  Se avessi salvata la signora di 
      Saint-Méran,  se la scienza avesse avuto il potere di farlo...  ma 
      lei  è  morta,  ed io devo dedicarmi ai vivi.  Seppelliamo nel più 
      profondo dei nostri cuori questo terribile segreto...  Permetterò, 
      se  gli  occhi di qualcuno si dovessero aprire su questa tragedia, 
      che sia imputato a mia ignoranza il silenzio che avrò  conservato. 
      Però,  signore,  cercate sempre, ed operosamente, perché forse ciò 
      non si fermerà qui... E quando avrete trovato il colpevole, se pur 
      lo ritroverete,  vi dirò:  voi  siete  magistrato,  fate  ciò  che 
      volete!" 
      "Oh,  grazie,  grazie  dottore!"  disse Villefort,  con indicibile 
      gioia. "Non ho mai avuto amico migliore di voi." 
      E quasi che avesse temuto che il dottore d'Avrigny non si pentisse 
      di questa promessa,  si alzò e trascinò  il  dottore  dalla  parte 
      della casa.  Essi si allontanarono.  Morrel,  come se avesse avuto 
      bisogno di respirare,  mise fuori la testa dai tigli,  e  la  luna 
      illuminò  quel viso tanto pallido,  che si sarebbe potuto prendere 
      per un fantasma. 
      "Dio mi protegge in un palese, ma terribile modo!" diss'egli.  "Ma 
      Valentina, povera amica! resisterà a tanti dolori?" 
      Dicendo queste parole guardava,  alternativamente, la finestra con 
      le tende rosse,  e le tre finestre con le tende bianche.  La  luce 
      era  quasi  completamente  sparita  dalla  finestra con le tendine 
      rosse. Senza dubbio la signora Villefort aveva spento il suo lume, 
      ed il solo lume da  notte  mandava  qualche  riflesso  sui  vetri. 
      All'estremità  del palazzo,  al contrario,  vide aprirsi una delle 
      tre finestre con le tende bianche. Una candela posta sul caminetto 
      mandò al di fuori  qualche  raggio  della  sua  pallida  luce,  ed 
      un'ombra venne per un momento ad appoggiarsi al balcone. 
      Morrel fremette; gli sembrò avere inteso un singulto. 
      Non   c'era  da  stupirsi  che  quest'anima  ordinariamente  tanto 
      coraggiosa e forte,  ora sconvolta ed  esaltata  dalle  più  forti 
      passioni  dell'uomo  l'amore  e  la paura,  si fosse indebolita al 
      punto da subire allucinazioni superstiziose. 
      Quantunque fosse impossibile nascosto come  era  che  l'occhio  di 
      Valentina  lo  distinguesse,  pure  gli  parve di vedersi chiamato 
      dall'ombra della finestra; il suo spirito sconvolto glielo diceva, 
      il cuore ardente glielo ripeteva.  Questo doppio  impulso  divenne 
      realtà  irresistibile,  e per uno di quegli slanci incomprensibili 
      della gioventù, balzò fuori dal suo nascondiglio,  e in due salti, 
      col  pericolo di essere veduto,  di spaventare Valentina,  di dare 
      l'allarme,   se  alla  giovinetta  sfuggiva   un   qualche   grido 
      involontario, traversò il prato, che la luna faceva largo e chiaro 
      come un lago,  e raggiunta la fila degli aranci davanti alla casa, 
      giunse ai gradini della scalinata, che salì rapidamente, spinse la 
      porta, che si aprì senza alcuna resistenza davanti a lui. 
      Valentina non  lo  aveva  visto,  gli  occhi  seguivano  una  nube 
      d'argento  che  solcava  l'azzurro  del cielo,  e la cui forma era 
      quella di un'ombra che sale, il suo spirito poetico ed esaltato le 
      diceva che quella era l'ombra di sua nonna. 
      Frattanto Morrel aveva  traversato  l'anticamera  e  ritrovato  la 
      rampa della scala, i tappeti stesi sugli scalini resero silenziosi 
      i  suoi  passi:  era  giunto  a un grado di esaltazione che non lo 
      avrebbe spaventato la presenza stessa del signor Villefort. Se gli 
      fosse comparso davanti,  la risoluzione  era  presa:  gli  avrebbe 
      confessato  tutto  pregandolo  di scusare ed approvare quest'amore 
      che lo univa a sua figlia... Morrel era pazzo. 
      Per  fortuna  non  incontrò  nessuno.  Le  informazioni  avute  da 
      Valentina sul piano interno della casa gli giovarono: giunse senza 
      alcun  incidente  in cima alla scala e arrivato là non sapendo che 
      fare, udì un singhiozzo, che riconobbe, e gii indicò il cammino da 
      prendere; si voltò: una porta era socchiusa, e lasciava giungere a 
      lui il riflesso di una lampada, ed il suono della voce che gemeva. 
      Spinse questa porta ed entrò. 
      Nel fondo di un'alcova,  sotto un bianco drappo che  ricopriva  la 
      testa,  e  tutta  la  forma  del  corpo,  giaceva  la  morta,  più 
      spaventosa  ancora  agli  occhi  di  Morrel  dopo  la  rivelazione 
      segreta. 
      Di  fianco al letto in ginocchio,  colla testa sepolta nei cuscini 
      di  una  larga  poltrona,   Valentina  tremante  e  singhiozzante, 
      stendeva al di sopra della testa,  che non si vedeva, ambo le mani 
      giunte ed irrigidite: aveva lasciata la finestra aperta, e pregava 
      ad alta voce con accenti  che  avrebbero  commosso  il  cuore  più 
      insensibile;   la   parola  le  sfuggiva  dalle  labbra,   rapida, 
      incoerente,  inintelligibile,  tanto il dolore le serrava la gola. 
      La luna,  strisciando attraverso l'apertura delle persiane, faceva 
      impallidire la luce della lampada,  e dava un fondo  azzurro  alle 
      funebri tinte di questo quadro di desolazione. 
      Morrel non poté resistere a questo spettacolo; egli non era di una 
      pietà  esemplare,  non  era  facile  alle  emozioni,  ma Valentina 
      sofferente,  piangente e torcentesi le braccia,  davanti  ai  suoi 
      occhi era più di quanto poteva sopportare in silenzio. 
      Emise  un  sospiro,  mormorò  un  nome,  e  il volto bagnato dalle 
      lacrime, si volse verso di lui. 
      Valentina lo vide, e non manifestò alcuna meraviglia. 
      Non vi sono più emozioni intermedie per un cuore gonfio di supremo 
      dolore. Morrel le stese la mano,  Valentina gli indicò il cadavere 
      che giaceva sotto il funebre drappo, e ricominciò a singhiozzare. 
      Né l'uno, né l'altra osavano parlarsi. 
      Esitavano a rompere il silenzio che sembrava venisse imposto da un 
      fantasma, col dito sulle labbra. 
      Finalmente Valentina osò parlare per prima. 
      "Amico mio" disse, "come mai siete qui? Ahimè, vi direi: "siate il 
      ben  venuto",  se non fosse la morte che vi avesse aperta la porta 
      di questa casa." 
      "Valentina" disse Morrel con voce tremante,  e con le mani giunte, 
      "ero  là  dalle  otto  e  mezzo,  non  vi vedevo venire: fui preso 
      dall'inquietudine,   ho  saltato  il  muro,   sono  penetrato  nel 
      giardino, allora delle voci che parlavano del fatale accidente..." 
      "Quali voci?" domandò Valentina. 
      Morrel  fremette  perché  tutta  la conversazione fra il dottore e 
      Villefort gli tornava alla mente, e attraverso il drappo,  credeva 
      vedere  quelle  braccia  contorte,  quel collo irrigidito,  quelle 
      labbra livide. 
      "Le voci dei vostri domestici" disse, "mi hanno rivelato tutto." 
      "Ma venir fin qui,  è lo stesso che  perderci,  amico  mio"  disse 
      Valentina senza collera e senza spavento. 
      "Perdonatemi" rispose Morrel, col medesimo tono, "mi ritiro." 
      "No" disse Valentina, "incontrereste qualcuno, restate." 
      "Ma se venissero qui?..." 
      La giovane scosse la testa e rispose: 
      "Nessuno verrà, state tranquillo, ecco la nostra salvaguardia." 
      E  mostrò  la  forma  del  cadavere  modellata  dal  drappo che la 
      copriva. 
      "Ma che è accaduto del signor d'Epinay? Ditemelo,  ve ne supplico" 
      riprese Morrel. 
      "Il  signor  Franz è venuto per firmare il contratto al momento in 
      cui mia nonna rendeva l'ultimo respiro." 
      "Ahimè!" esclamò Morrel con un sentimento egoista,  perché pensava 
      che quella morte ritardava il matrimonio di Valentina. 
      "Ma  ciò  che  raddoppia  il  mio  dolore è che questa povera cara 
      nonna,  morendo,  mi ordinò che si facesse il  matrimonio  il  più 
      presto possibile..." 
      "Ascoltate!" disse Morrel. 
      I due giovani fecero silenzio.  S'intese una porta aprirsi,  e dei 
      passi fecero scricchiolare il pavimento del corridoio ed i gradini 
      della scala. 
      "E' mio padre che esce dal suo ufficio" disse Valentina. 
      "E che riconduce il dottore" soggiunse Morrel. 
      "Come sapete che è il dottore?" domandò Valentina meravigliata. 
      "Lo presumo" disse Morrel. 
      Valentina guardò il giovane.  Frattanto s'intese chiudere la porta 
      di strada.  Il signor Villefort andò inoltre a dare un doppio giro 
      di chiave a quella del  giardino,  poi  risalì  le  scale.  Giunto 
      nell'anticamera  si  fermò  un  momento,  come esitando se dovesse 
      entrare nel suo appartamento,  o nella  camera  della  signora  di 
      Saint-Méran. 
      Morrel  si  nascose dietro una portiera.  Valentina non fece alcun 
      movimento: si sarebbe detto che il sommo dolore la  poneva  al  di 
      sopra degli ordinari timori. 
      Ma Villefort entrò nelle sue stanze. 
      "Ora"  disse Valentina,  "non potete più uscire né dalla porta del 
      giardino, né da quella di strada." 
      Morrel guardò la giovane con meraviglia. 
      "Ora" continuò lei,  "non c'è più che un'uscita sicura e permessa, 
      ed è quella dell'appartamento di mio nonno." 
      Si alzò. 
      "Venite" disse. 
      "E dove?" domandò Massimiliano. 
      "Da mio nonno." 
      "Io, dal signor Noirtier!?" 
      "Sì." 
      "Pensateci bene, Valentina," 
      "Ci  penso,  e  da  lungo tempo.  Non ho più che questo vecchio al 
      mondo, ed entrambi abbiamo bisogno di lui... Venite." 
      "Rifletteteci,  Valentina" disse Morrel,  esitando a fare ciò  che 
      gli  ordinava  la  ragazza,  "state attenta,  la benda mi è caduta 
      dagli occhi. Venendo qui, ho commesso un atto di pazzia. Avete voi 
      stessa tutta la vostra ragione, amica cara?" 
      "Sì" disse Valentina, "e non ho che uno scrupolo al mondo,  quello 
      di lasciar soli questi ultimi resti della mia povera nonna, che mi 
      sono incaricata di vegliare." 
      "Valentina" disse Morrel, "la morte è sacra per se stessa." 
      "Sì" rispose la giovane, "d'altronde, sarà per poco, venite." 
      Valentina  traversò il corridoio,  e discese una piccola scala che 
      conduceva dal signor Noirtier.  Morrel  la  seguiva  in  punta  di 
      piedi. Giunti sul pianerottolo trovarono il vecchio domestico. 
      "Barrois"  disse  Valentina  "chiudete  la  porta,  e non lasciate 
      entrare nessuno." 
      Lei entrò per prima.  Noirtier,  ancora  seduto  nel  suo  seggio, 
      attento  al più piccolo rumore,  istruito dal vecchio servitore di 
      tutto ciò che accadeva,  fissò gli sguardi avidi all'entrata della 
      camera, vide Valentina, ed il suo occhio brillò. 
      C'era  nel portamento,  nell'attitudine della ragazza qualche cosa 
      di grave e di  solenne  che  sorprese  il  vegliardo:  e  però  lo 
      sguardo, che era brillante, divenne interrogativo. 
      "Caro  nonno" disse lei a bassa voce,  "ascoltami bene: tu sai che 
      la buona nonna di Saint-Méran è morta un'ora  fa,  e  che  adesso, 
      eccetto te, non ho più alcuno che mi ami in questo mondo." 
      Un'espressione d'infinita tenerezza passò negli occhi del vecchio. 
      "E' dunque a te solo,  non è vero,  che io debbo confidare tutti i 
      miei dispiaceri e le mie speranze?" 
      Il paralitico fece segno di sì. 
      Valentina prese Massimiliano per la mano. 
      "Allora" disse lei, "guarda bene questo signore." 
      Il vecchio fissò lo sguardo scrutatore, e leggermente meravigliato 
      su Morrel. 
      "Questi, è il signor Massimiliano Morrel" disse lei, "il figlio di 
      quell'onesto negoziante di Marsiglia di cui tu avrai senza  dubbio 
      inteso parlare." 
      "Sì" fece il vecchio. 
      "E'  un nome irreprensibile,  che Massimiliano è in via di rendere 
      ancora più stimabile, perché a trent'anni è capitano degli Spahis, 
      ed ufficiale della Legion d'Onore." 
      Il vecchio fece segno che se ne ricordava. 
      "Ebbene,  caro nonno" disse Valentina,  mettendosi in ginocchio  e 
      mostrando  Massimiliano  con una mano,  "io l'amo,  e non sarò mai 
      d'altri che di lui!  Se mi costringeranno a sposare  un  altro  mi 
      lascerò morire, o mi ucciderò." 
      Gli  occhi  del  paralitico  esprimevano  una  folla  di  pensieri 
      tumultuosi. 
      "Tu  ami  il  signor  Morrel,   non  è  vero  nonno?"  domandò  la 
      giovinetta. 
      "Sì" fece il vecchio immobile. 
      "E vuoi tu proteggerci, noi siamo tuoi figli, contro la volontà di 
      mio padre?" 
      Noirtier  fissò  lo  sguardo intelligente su Morrel,  quasi avesse 
      voluto dire: 
      "Per questo vedremo." 
      Massimiliano capì. 
      "Signorina" disse,  "voi avete un sacro dovere da  compiere  nella 
      camera  di vostra nonna...  Volete permettermi di avere l'onore di 
      parlare un momento col signor Noirtier?" 
      "Sì,  sì,  lo voglio" indicava l'occhio del  vecchio;  poi  guardò 
      Valentina con inquietudine. 
      "Come farà egli per intenderti, vuoi dire, buon nonno?" 
      "Sì." 
      "Oh, sta' tranquillo, abbiamo tanto spesso parlato di te, che egli 
      sa bene il modo..." 
      Poi,  volgendosi a Morrel con un adorabile sorriso, velato però da 
      una profonda tristezza. 
      "Egli sa tutto quel che so io" disse. 
      Valentina si alzò,  avvicinò una sedia per Morrel raccomandando  a 
      Barrois di non lasciare entrare nessuno,  e dopo avere teneramente 
      abbracciato suo nonno,  e detto addio tristemente a  Massimiliano, 
      partì.   Allora  Morrel  per  provare  a  Noirtier  che  aveva  la 
      confidenza di Valentina,  e che conosceva tutti  i  suoi  segreti, 
      prese il dizionario,  la penna e la carta,  e pose tutto sopra una 
      tavola su cui stava il lume. 
      "Ma per prima  cosa"  disse  Morrel,  "permettetemi,  signore,  di 
      raccontarvi chi sono io,  come amo la signorina Valentina, e quali 
      sono le mie intenzioni su di lei." 
      "Ascolto" accennò Noirtier. 
      Era uno spettacolo  curioso  vedere  questo  vecchio,  inutile  in 
      apparenza,  divenuto il solo protettore, il solo appoggio, il solo 
      giudice dei due giovani innamorati, belli e ardenti, che entravano 
      nella vita.  La sua figura nobile ed austera incuteva  rispetto  a 
      Morrel,  che  cominciò  il  racconto  tremando.  Narrò  come aveva 
      conosciuta,  come aveva amato Valentina,  e come  questa  nel  suo 
      isolamento,  e  nella sua infelicità aveva accolta l'offerta della 
      sua  devozione.  Gli  disse  qual  era  la  sua  nascita,  la  sua 
      posizione,  la sua fortuna, e più d'una volta interrogò lo sguardo 
      del paralitico che gli rispondeva: 
      "Sta bene, continuate." 
      "Ora" disse Morrel,  quando ebbe finita questa prima parte del suo 
      racconto,  "ora,  che  vi ho detto signore,  il mio amore e le mie 
      speranze debbo dirvi i miei progetti?" 
      "Sì" fece il vecchio. 
      "Ebbene, ecco ciò che noi avevamo deciso." 
      Allora raccontò tutto a Noirtier,  che un calessino aspettava  nel 
      recinto,  come contava rapire Valentina,  condurla da sua sorella, 
      sposarla, e,  in rispettosa attesa,  sperare il perdono del signor 
      Villefort. 
      "No" accennò Noirtier. 
      "No" ripeté Morrel, "non è così che si deve fare?" 
      "No." 
      "Questo progetto non ha il vostro assenso?" 
      "No." 
      "Ebbene. C'è un altro mezzo" disse Morrel. 
      Lo sguardo interrogatore del vecchio domandò: 
      "Quale?" 
      "Andrò" continuò Morrel, "a trovare il signor Franz d'Epinay, sono 
      contento   di  potervi  dir  questo  in  assenza  della  signorina 
      Villefort;  mi condurrò in modo da obbligarlo ad  essere  un  uomo 
      d'onore." 
      Lo sguardo di Noirtier continuò ad interrogare. 
      "Ciò che io farò?" 
      "Sì." 
      "Ecco,  come  vi  dicevo,  io  andrò a trovarlo,  gli racconterò i 
      legami che  mi  uniscono  alla  signorina  Valentina.  Se  è  uomo 
      d'onore,  lo proverà rinunciando alla mano della sua fidanzata,  e 
      la mia amicizia  e  devozione  gli  sono  dovute  per  sempre;  se 
      rifiuta,  sia  che  lo  spinga  l'interesse,  sia  che un ridicolo 
      orgoglio lo faccia  persistere,  dopo  avergli  provato  che  egli 
      violenterebbe la mia sposa,  che Valentina mi ama, e non può amare 
      altri che me,  mi batterei con lui,  dandogli tutti i vantaggi,  e 
      l'ucciderò o egli ucciderà me: se lo uccido non sposerà Valentina, 
      se mi uccide sono ben sicuro che Valentina non lo sposerà." 
      Noirtier   considerava   con   piacere  questa  nobile  e  sincera 
      fisonomia,  sulla quale si dipingevano tutti i sentimenti  che  la 
      sua  lingua  esprimeva,  aggiungendovi  coll'espressione di un bel 
      viso,  tutto ciò che il colorito aggiunge ad un disegno  solido  e 
      vero. 
      Quando Morrel ebbe finito di parlare,  Noirtier chiuse gli occhi a 
      più riprese che era il suo modo d'esprimere il no. 
      "No?" disse Morrel.  "Voi dunque disapprovate anche questo secondo 
      progetto?" 
      "Sì, io lo disapprovo" accennò il vecchio. 
      "Ma che fare allora,  signore?" domandò Morrel.  "Le ultime parole 
      della signora di Saint-Méran hanno affrettato il matrimonio di sua 
      nipote... Debbo lasciar compiere le cose?" 
      Noirtier rimase immobile. 
      "Comprendo" riprese Morrel. "Debbo aspettare?" 
      "Sì." 
      "Ma ogni  ritardo  può  perderci,  signore"  obiettò  il  giovane. 
      "Valentina  è  sola,  senza  difesa,  e  vi sarà costretta come un 
      bambino.   Entrato  qui  per  sapere  che  cosa  accade,   ammesso 
      miracolosamente  alla  vostra presenza,  ragionevolmente non posso 
      sperare che si rinnovi  un'occasione  così  bella.  Credetemi,  di 
      buono  non  vi  è  che  l'uno  o  l'altro  dei due progetti che vi 
      propongo (perdonate questa vanità  alla  mia  giovinezza),  ditemi 
      quale  dei  due  preferireste:  autorizzereste  voi  la  signorina 
      Valentina ad affidarsi al mio cuore?" 
      "No." 
      "Preferite che io vada a trovare il signor d'Epinay?" 
      "Ma,  mio Dio,  da chi verrà il soccorso che noi  aspettiamo?  dal 
      cielo?" 
      Il  vecchio  sorrise  cogli  occhi,  come  aveva abitudine di fare 
      quando gli si parlava di cielo: nelle idee del  vecchio  giacobino 
      era sempre rimasto un po d'ateismo. 
      "Dal caso?" riprese Morrel. 
      "No." 
      "Da voi?" 
      "Sì." 
      "Da voi?" 
      "Sì" ripeté il vecchio. 
      "Capite bene ciò che domando,  signore? Scusate la mia insistenza, 
      la mia vita sta nella vostra risposta: la nostra salvezza ci verrà 
      da voi?" 
      "Sì." 
      "Ne siete sicuro?" 
      "Sì." 
      "Lo garantite voi?" 
      "Sì." 
      E in quello sguardo affermativo c'era una fermezza da non  lasciar 
      dubbi sulla volontà, se non sul potere. 
      "Oh,  grazie, signore, mille volte grazie! Ma in qual modo, a meno 
      che un miracolo del Signore non vi renda la parola,  il gesto,  il 
      moto,  in  qual  modo potrete voi,  inchiodato su quella seggiola, 
      muto  ed  immobile,   in  qual  modo  potrete  opporvi  a   questo 
      matrimonio?" 
      Un  sorriso rischiarò la faccia del vecchio,  sorriso strano com'è 
      quello degli occhi sopra un volto immobile. 
      "Debbo dunque aspettare?" 
      "Sì." 
      "Ma il contratto?" 
      Il medesimo sorriso. 
      "Volete dirmi che il contratto non sarà firmato?" 
      "Sì" indicò il vecchio. 
      "Il  contratto  dunque  non  sarà  firmato!"  gridò  Morrel.  "Oh, 
      perdonatemi,  signore,  ma all'annunzio d'una gran felicità, è ben 
      permesso dubitare... Il contratto dunque non sarà firmato?" 
      "No fece il vecchio paralitico. 
      Malgrado tale assicurazione, Morrel esitava a credere: la promessa 
      di un vecchio impotente era così strana,  che invece di  provenire 
      da  forza di volontà,  pareva emanare da indebolimento di facoltà. 
      Non è forse naturale che l'insensato,  ignaro  della  sua  follia, 
      pretenda  di realizzare cose al disopra del suo potere?  Il debole 
      parla dei pesi che innalza, il timido dei giganti che affronta, il 
      povero del  tesoro  che  maneggia,  l'infimo  dei  contadini,  per 
      orgoglio,   si   chiama  Giove.   Sia  che  Noirtier  comprendesse 
      l'indecisione del giovane,  sia che  non  prestasse  completamente 
      fede alla docilità che aveva mostrata, lo guardò fissamente. 
      "Che  cosa  volete,  signore?"  domandò  Morrel,  "che  rinnovi la 
      promessa di non tentar nulla?" 
      Lo sguardo di Noirtier rimase fermo e immoto,  come per  dire  che 
      una promessa non bastava, quindi passò dal viso alla mano. 
      "Volete che giuri, signore?" domandò Massimiliano. 
      "Sì" indicò il paralitico colla stessa solennità, "lo voglio." 
      Morrel  capì  che  il  vecchio  annetteva  grande importanza a tal 
      giuramento, per cui, stesa la mano: 
      "Sul mio onore" disse, "vi giuro che aspetterò la vostra decisione 
      prima d'agire contro il signor d'Epinay." 
      "Bene" indicarono gli occhi del vecchio. 
      "Ora, signore" domandò Morrel, "volete che mi ritiri?" 
      "Sì." 
      "Senza rivedere Valentina?" 
      "Sì." 
      Morrel fece un gesto per significare che era pronto ad obbedire. 
      "Ora" continuò Morrel, "permettete voi, signore, che vostro figlio 
      vi abbracci, come ha fatto vostra figlia?" 
      L'occhio  di  Noirtier  si  atteggiò  ad  un'espressione  che  non 
      lasciava  dubbio.  Il giovane posò sulla fronte del vecchio le sue 
      labbra dove la ragazza  aveva  deposte  le  sue,  e  salutato  una 
      seconda volta il vecchio, partì. 
      Sul   pianerottolo   ritrovò  il  vecchio  servitore  avvisato  da 
      Valentina,  che aspettava Morrel,  e lo condusse per un  corridoio 
      oscuro alla porticina del giardino.  Là giunto, Morrel si portò al 
      cancello,  arrampicandosi sopra una spalliera di  carpini,  giunse 
      rapidissimo alla sommità del muro e per mezzo di una scala,  in un 
      secondo,  fu nel recinto di trifoglio,  ove lo aspettava ancora il 
      calessino.  Salì,  e  pieno  di  tante emozioni,  ma col cuore più 
      libero,  verso mezzanotte rientrò nella rue Meslay.  Gettatosi sul 
      letto,  dormì  come  se  si  trovasse  in  uno  stato  di profonda 
      ubriachezza. 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 73. 
                      LA TOMBA DELLA FAMIGLIA VILLEFORT. 
 
 
      Due giorni dopo questi avvenimenti,  una folla di  persone  affluì 
      verso le sei del mattino,  alla porta del signor Villefort, ed una 
      lunga fila di carrozze a lutto e di carrozze private confluì lungo 
      tutto il Faubourg Saint-Honoré e la rue Pépinière. Fra le carrozze 
      se ne  distingueva  una  di  forma  particolare,  e  che  sembrava 
      arrivare  da lontano: era una specie di carrettone coperto,  tinto 
      di nero, giunto fra i primi al convegno.  Si chiesero informazioni 
      e  si  seppe  che,  per  una  strana coincidenza,  quel carrozzone 
      racchiudeva il corpo del signor di Saint-Méran e  che  quelli  che 
      erano venuti per un solo funerale, avrebbero seguito due cadaveri. 
      Il  concorso  di  gente  era grande.  Il signor marchese di Saint- 
      Méran,  uno dei  più  zelanti  e  fedeli  dignitari  di  re  Luigi 
      Diciottesimo,  e  di  re  Carlo  Decimo,  aveva conservato un gran 
      numero  di  amici,  che,  uniti  alle  persone  in  relazione  con 
      Villefort,  formavano un numero considerevole. Avvertite subito le 
      autorità,  si ottenne che i due carri funebri fossero avviati  nel 
      medesimo  tempo.  Una  seconda  carrozza,  addobbata con la stessa 
      pompa  mortuaria,  fu  condotta  davanti  alla  porta  del  signor 
      Villefort,  e  la  cassa  dal  carrettone  di posta fu messa nella 
      carrozza funebre.  I due  corpi  dovevano  essere  seppelliti  nel 
      cimitero del Père-Lachaise, ove da lungo tempo il signor Villefort 
      aveva  fatto erigere la tomba destinata alla sepoltura di tutta la 
      sua famiglia. In quella tomba era già stato deposto il corpo della 
      povera Renata,  che suo padre e sua madre venivano  a  raggiungere 
      dopo dieci anni di separazione. 
      Parigi,  sempre curiosa,  sempre commossa per ogni evento funebre, 
      vide con religioso silenzio passare  lo  splendido  corteggio  che 
      accompagnava  alla  loro  ultima  dimora  due  nomi  della vecchia 
      aristocrazia, tra i più celebri per spirito di tradizione, fortuna 
      di commercio e ferma devozione ai principi. 
      Nella stessa carrozza da lutto Beauchamp, Alberto e Chateau-Renaud 
      discorrevano su queste morti quasi subitanee. 
      "Ho veduto la signora di Saint-Méran l'anno  scorso  a  Marsiglia" 
      diceva  Chateau-Renaud,  "ritornava  dall'Algeria;  pareva  avesse 
      ancora da vivere cent'anni,  tanto era in lei perfetta la  salute, 
      pronta la mente, e prodigiosa l'attività. Quanti anni aveva?" 
      "Sessantasei"  rispose  Alberto,  "almeno  per  quanto Franz mi ha 
      assicurato.  Ma non è morta per gli anni,  bensì per il dispiacere 
      sofferto  a cagione della morte del marchese,  per cui fu talmente 
      addolorata  che  pare  non  abbia  ripreso  completamente  la  sua 
      ragione." 
      "Di  una  congestione  cerebrale,   a  quanto  sembra,  o  di  una 
      apoplessia fulminante." 
      "Non è forse lo stesso?" 
      "Sì,  pressappoco" disse Beauchamp,  "è difficile a  credersi.  La 
      signora  di Saint-Méran,  che io pure ho veduto una o due volte in 
      vita mia, era piccola, gracile, di temperamento nervoso, piuttosto 
      che linfatico; le apoplessie prodotte da dispiaceri sono rarissime 
      in un corpo di tempra simile a  quello  della  signora  di  Saint- 
      Méran." 
      "In  ogni  caso"  disse  Alberto,  "qualunque sia la malattia o il 
      medico che l'ha uccisa,  ecco il signor Villefort,  o piuttosto la 
      signorina  Valentina,  o  meglio  ancora  il nostro amico Franz in 
      possesso di una magnifica eredità: ottantamila franchi di rendita, 
      credo." 
      "Eredità che sarà quasi raddoppiata alla  morte  di  quel  vecchio 
      giacobino di Noirtier." 
      "Quello  è  un  nonno  tenace" disse Beauchamp: "tenacem propositi 
      virum..." Ha scommesso con la morte,  che avrebbe visto seppellire 
      tutti i suoi eredi,  e sulla mia parola ci riuscirà.  E' sempre lo 
      stesso convenzionale del '93,  che diceva a  Napoleone  nel  1814: 
      "Voi  cedete  perché  il  vostro  impero  è  come un giovane stelo 
      indebolito per il soverchio crescere: prendete la  repubblica  per 
      tutore,  e  ritorniamo  con  una  buona  costituzione sui campi di 
      battaglia,  e  vi  garantisco  cinquecentomila  soldati,  un'altra 
      Marengo  ed  una  seconda  Austerlitz.  Le idee non muoiono,  sire 
      sonnecchiano talvolta, si risvegliano poi più forti di prima"." 
      "Sembra" disse Alberto,  "che gli uomini siano  per  lui  come  le 
      idee;  ciò  che  mette  in  pensiero  è  che vorrei sapere come si 
      comporterà Franz d'Epinay col vecchio nonno,  che non può  fare  a 
      meno della sua sposa... Ma, a proposito, Franz dov'è?" 
      "Nella  prima carrozza col signor Villefort,  che lo considera già 
      come membro di famiglia." 
      In ciascuna delle carrozze che  formavano  il  corteo  funebre,  i 
      discorsi  erano  pressappoco simili.  Meravigliati tutti di quelle 
      due morti,  rapide e vicine,  nessuno però sospettava il terribile 
      segreto  svelato  quella  notte  dal  dottore  d'Avrigny al signor 
      Villefort. 
      In capo ad un'ora di cammino circa,  giunsero al cimitero: era una 
      giornata  calma  ma  cupa,  e  per  conseguenza  in armonia con la 
      funebre cerimonia che  vi  si  compiva.  Fra  le  persone  che  si 
      avviavano   verso  il  sepolcro  della  famiglia,   Chateau-Renaud 
      riconobbe  Morrel,   che  era  venuto  solo  ed   in   carrozzino: 
      passeggiava  pallidissimo e silenzioso sul sentiero costeggiato da 
      bossi. 
      "Voi qui?" disse Chateau-Renaud,  passando il braccio sotto quello 
      del capitano.  "Conoscete dunque il signor Villefort? Com'è quindi 
      che non vi ho mai incontrato in casa sua?" 
      "Non è il  signor  Villefort  che  conosco"  rispose  Morrel,  "ma 
      conoscevo la signora di Saint-Méran." 
      In quel momento li raggiunse Alberto con Franz. 
      "Il  luogo  non è bello per una presentazione" disse Alberto,  "ma 
      non importa, bando alle superstizioni.  Signor Morrel,  permettete 
      ch'io vi presenti il signor Franz d'Epinay, eccellente compagno di 
      viaggio  col quale ho fatto il giro d'Italia.  Mio caro Franz,  il 
      signor Massimiliano Morrel è un eccellente amico acquistato in tua 
      assenza,  e del quale tu  udrai  spesso  ripetersi  il  nome  ogni 
      qualvolta ti parlerò di coraggio, di spirito e di amabilità." 
      Morrel  rimase indeciso un momento,  chiedendosi se fosse un segno 
      di riprovevole ipocrisia il  salutare  amichevolmente  quell'uomo, 
      che  detestava  di  cuore:  ma  si  ricordò  della  gravità  della 
      circostanza e del suo giuramento,  per cui si sforzò  di  non  far 
      trasparire il rancore, e salutò Franz contegnoso. 
      "La  signorina  Villefort  è  molto afflitta,  non è vero?" chiese 
      Debray a Franz. 
      "Oh,  signore" rispose  Franz,  "di  un'afflizione  inesprimibile! 
      Stamattina era così abbattuta, che appena l'ho riconosciuta!" 
      Tali  parole,  in apparenza semplicissime,  lacerarono il cuore di 
      Morrel. Franz aveva dunque visto Valentina, e parlato con lei.  Il 
      giovane  e fervido ufficiale ebbe allora bisogno di tutte le forze 
      per resistere al desiderio di mancare al suo giuramento, e,  preso 
      sotto  braccio  Chateau-Renaud,  lo  trascinò rapidamente verso la 
      tomba,  davanti a cui gli incaricati delle pompe  funebri  avevano 
      deposto le due casse. 
      "Magnifica  abitazione!"  disse  Beauchamp  dando  uno  sguardo al 
      mausoleo: "palazzo d'estate e palazzo  d'inverno.  Verrà  pure  la 
      vostra  volta  di venirci ad abitare caro d'Epinay,  perché sarete 
      ben presto della famiglia.  Io,  nella mia  qualità  di  filosofo, 
      voglio  una  casetta  di  campagna,  una  capanna laggiù sotto gli 
      alberi, e non voglio tanti macigni sul mio povero corpo.  Morendo, 
      dirò a quelli che mi saranno d'intorno ciò che scriveva Voltaire a 
      Piron: "Vado in campagna, e tutto sarà finito..." Orsù, per Bacco, 
      Franz, ci vuole coraggio, vostra moglie eredita." 
      "Davvero,  Beauchamp" disse Franz, "siete divenuto insopportabile. 
      La politica vi ha dato l'abitudine di scherzare su tutto, come gli 
      uomini che maneggiano gli affari hanno quella  di  non  credere  a 
      niente.  Ma  finalmente,  quando  vi  trovate  con  uomini comuni, 
      lasciate per un momento la  politica,  cercate  di  riprendere  il 
      vostro cuore, che lasciate nel vestibolo della Camera dei deputati 
      o della Camera dei Pari." 
      "Eh, mio Dio che cosa è la vita, una fermata nell'anticamera della 
      morte..." 
      "Io  colgo Beauchamp in fallo" disse Alberto,  e si ritirò quattro 
      passi  dietro  Franz,   lasciando  Beauchamp  continuare  le   sue 
      dissertazioni filosofiche con Debray. 
      Il  sepolcro  della  famiglia  Villefort  formava  una  specie  di 
      quadrato di pietre bianche dell'altezza di circa  venti  piedi,  e 
      l'interno si divideva in due parti, una destinata alla famiglia di 
      Saint-Méran  l'altra alla famiglia Villefort,  e ciascuna aveva la 
      sua porta d'ingresso.  Non si vedevano,  come nelle  altre  tombe, 
      quelle  ignobili  cassette sovrapposte che racchiudono i morti con 
      una iscrizione somigliante ad un'etichetta,  si vedeva sulle prime 
      un'anticamera cupa e scura,  con in fondo un muro tombale,  in cui 
      si aprivano le due porte di cui parlammo,  e che comunicavano  coi 
      sepolcri dei Villefort e dei Saint-Méran.  Là si poteva dare sfogo 
      al dolore senza che gli spensierati passanti,  che  fanno  di  una 
      visita al cimitero una gita di campagna o un appuntamento amoroso, 
      venissero a disturbare col canto,  con le grida o con le corse, la 
      muta contemplazione o la preghiera o le lacrime di chi  visita  il 
      sepolcro. 
      I due cadaveri furono collocati nella tomba a destra, quella della 
      famiglia   di   Saint-Méran.   Entrambi  furono  deposti  sopra  i 
      cavalletti,  che aspettavano da  qualche  tempo  le  loro  spoglie 
      mortali:  Villefort,  Franz  ed  alcuni prossimi parenti entrarono 
      soli nel famedio.  Siccome le cerimonie funebri si erano  compiute 
      alla  porta,  e  non  c'era  discorso  da  recitare,  gli amici si 
      separarono subito: Chateau-Renaud,  Alberto e Morrel si ritirarono 
      da una parte, e Debray e Beauchamp da un'altra. 
      Franz rimase col signor Villefort. Alla porta del cimitero, Morrel 
      si  fermò  con  un  pretesto  e  vedendo  uscire Franz e il signor 
      Villefort in carrozza a lutto, ne fu inquietato.  Ritornò dunque a 
      Parigi, e quantunque fosse nella stessa carrozza di Chateau-Renaud 
      e Alberto, non udì parola di quel che dissero i suoi due amici. 
      Infatti,   nell'atto  che  Franz  stava  per  lasciare  il  signor 
      Villefort: 
      "Signor barone" aveva detto questi, "quando potrò rivedervi?" 
      "Quando vorrete, signore" aveva risposto Franz. 
      "Il più presto possibile." 
      "Sono ai vostri ordini, signore... Se v'aggrada,  possiamo tornare 
      insieme." 
      "Se non vi disturba." 
      "No, assolutamente." 
      Così  il  futuro  suocero e il futuro genero salirono nella stessa 
      carrozza,  ed ecco come Morrel,  vedendoli passare,  concepì gravi 
      inquietudini.  Villefort  e  Franz  tornarono  al  Faubourg Saint- 
      Honoré. Il regio procuratore, senza veder alcuno, senza parlare né 
      alla moglie, né alla figlia, condusse il giovane nel suo studio e, 
      mostrandogli una sedia: 
      "Signor d'Epinay" disse,  "debbo ricordarvi,  né il momento è fuor 
      di proposito, come potrebbe credersi a tutta prima per il rispetto 
      dovuto  ai  morti,  debbo dunque ricordarvi il voto espresso dalla 
      signora di Saint-Méran  sul  suo  letto  di  morte,  che  cioè  al 
      matrimonio  di  Valentina  non  si  ponga ritardo.  Sapete che gli 
      affari  della  defunta  sono  in  perfetta  regola,   che  il  suo 
      testamento  assicura  a  Valentina  l'eredità dei Saint-Méran;  il 
      notaio mi ha mostrato ieri questi atti, che permettono di redigere 
      in modo definitivo il contratto di matrimonio.  Potete andare  dal 
      notaio, e dirgli, per parte mia, che vi mostri queste carte. E' il 
      signor Deschamps, piazza Beauvau, Faubourg Saint-Honoré." 
      "Signore" rispose d'Epinay,  "per la signorina Valentina,  immersa 
      com'è nel dolore,  non è forse  questo  il  momento  opportuno  di 
      pensare ad uno sposo... In verità io temerei..." 
      "Valentina"  interruppe  il signor Villefort,  "non avrà desiderio 
      più intenso di quello di compiere le ultime volontà di sua  nonna, 
      ed io vi sono garante che da parte sua non sorgeranno difficoltà." 
      "In tal caso, signore" rispose Franz, "siccome non ne insorgeranno 
      neppure  dalla  mia,  potete  fare  ciò  che  più vi accomoda;  ho 
      impegnata la parola, e l'adempirò." 
      "Allora" disse Villefort, "non abbiamo più nulla che impedisca: il 
      contratto doveva esser firmato tre giorni fa,  lo troveremo dunque 
      già preparato, e potremo sottoscriverlo oggi stesso." 
      "Ma il lutto?" disse esitando Franz. 
      "State  tranquillo,  signore" riprese Villefort,  "non in casa mia 
      certamente  verranno  trascurate  le  convenienze.   La  signorina 
      Villefort potrà ritirarsi,  durante i tre mesi richiesti,  nel suo 
      podere di Saint-Méran...  Dico suo podere,  perché da oggi  quella 
      proprietà  è sua.  Ma,  fra otto giorni,  se lo desiderate,  senza 
      rumore,  senza lusso,  sarà concluso  il  matrimonio  civile.  Era 
      desiderio della signora di Saint-Méran che sua nipote si maritasse 
      in  quella  terra:  concluso  il  matrimonio,   signore,   potrete 
      ritornare a Parigi,  mentre vostra moglie  passerà  il  tempo  del 
      lutto in compagnia della sua matrigna." 
      "Come vi piace, signore" disse Franz. 
      "Allora" riprese il signor Villefort.  "compiacetevi di aspettare, 
      fra mezz'ora Valentina scenderà  in  salotto.  Manderò  a  cercare 
      Deschamps,  leggeremo e firmeremo il contratto in una sola seduta, 
      e fin da questa sera la signora Villefort condurrà Valentina nella 
      sua terra, ove fra otto giorni noi andremo a raggiungerla." 
      "Signore" disse Franz, "ho una domanda da farvi." 
      "E quale?" 
      "Desidero che Alberto di Morcerf e Rolando di Chateau-Renaud siano 
      presenti a questa  firma:  come  sapete,  essi  sono  i  miei  due 
      testimoni." 
      "Una  mezz'ora  basta  ad  avvertirli;  volete andare voi stesso a 
      cercarli, o volete mandar qualcuno?" 
      "Preferisco andarvi io, signore." 
      "Vi aspetto dunque fra mezz'ora,  e fra  mezz'ora  Valentina  sarà 
      pronta." 
      Franz salutò il signor Villefort, e uscì. 
      Appena  chiusa  la  porta  di strada dietro al giovane,  Villefort 
      mandò ad  avvertire  Valentina  che  scendesse  in  salotto  entro 
      mezz'ora, perché si aspettavano il notaio e i testimoni del signor 
      d'Epinay.  Tale inaspettata notizia produsse gran sensazione nella 
      famiglia. La signora Villefort non voleva crederci, e Valentina ne 
      rimase atterrita come da un colpo di fulmine: guardò intorno a sé, 
      come per cercare a chi potesse domandare soccorso.  Volle scendere 
      da suo nonno; ma incontrò per la scala il signor Villefort, che la 
      prese  per  un  braccio,  e  la condusse in sala.  Nell'anticamera 
      Valentina incontrò Barrois,  e  gettò  al  vecchio  servitore  uno 
      sguardo di disperazione. 
      Poco  dopo  Valentina,  la signora Villefort entrò nel salotto col 
      piccolo Edoardo.  Si vedeva chiaro  che  la  giovane  sposa  aveva 
      grandemente  condiviso  i dispiaceri di famiglia;  era pallida,  e 
      sembrava oltremodo stanca.  Si sedette,  prendendo  Edoardo  sulle 
      ginocchia e, a tratti, comprimeva, con moti quasi convulsi, contro 
      il  petto  il  ragazzino,  sul  quale  sembrava concentrarsi tutta 
      intera la sua vita.  Ben presto s'udirono due carrozze entrare nel 
      cortile.  Una  era quella del notaio,  l'altra quella di Franz con 
      gli  amici;  in  un  istante  furono  tutti  riuniti  nella  sala. 
      Valentina era così pallida, che si vedevano le vene turchine delle 
      tempie,  intorno  agli  occhi  e  lungo le guance.  Franz non poté 
      esimersi  dal  provare  una  forte  commozione;  Chateau-Renaud  e 
      Alberto  si  guardavano  in viso con meraviglia;  la cerimonia che 
      stava per cominciare non era meno triste di quella a  cui  avevano 
      assistito poco prima.  La signora Villefort si era posta all'ombra 
      di una tenda di velluto,  e siccome stava sempre china  sopra  suo 
      figlio,  era  difficile  leggerle in viso ciò che accadeva nel suo 
      cuore. 
      Il signor Villefort si mostrava, come sempre, impassibile. 
      Il  notaio,  dopo  avere,  secondo  la  consuetudine  dei  legali, 
      distribuito sulla tavola le carte,  preso posto sul suo seggio,  e 
      inforcati gli occhiali, si voltò verso Franz: 
      "Siete voi il signor Franz di Quesnel, barone di Epinay?" domandò, 
      quantunque lo sapesse perfettamente. 
      "Sì, signore" rispose Franz. 
      Il notaio gli fece un inchino. 
      "Debbo prevenirvi,  signore" disse,  "e ciò per parte  del  signor 
      Villefort  che  il  matrimonio  progettato  fra voi e la signorina 
      Villefort,  ha fatto cambiare le  disposizioni  testamentarie  del 
      signor   di   Noirtier  verso  sua  nipote,   poiché  egli  aliena 
      interamente tutta  la  sostanza  che  le  doveva  trasmettere.  Ci 
      affrettiamo però ad aggiungere" continuò il notaio, "che avendo il 
      testatore alienata tutta la sua sostanza, mentre in diritto poteva 
      alienarne  soltanto  una  parte,  il testamento non resisterà agli 
      attacchi, e sarà dichiarato nullo e come non avvenuto." 
      "Sì"  disse  Villefort,  "vi  prevengo  però  fin  d'ora,   signor 
      d'Epinay,  che  finché vivrò,  il testamento di mio padre non sarà 
      mai messo in  discussione;  la  mia  posizione  mi  proibisce  fin 
      l'ombra di questo scandalo." 
      "Signore" disse Franz,  "sono dolente che si sia intavolata simile 
      questione presente la signorina Valentina.  Io  non  mi  sono  mai 
      informato dell'ammontare del suo patrimonio,  che per quanto possa 
      venire diminuito,  sarà sempre maggiore del mio.  Nelle trattative 
      col  signor Villefort la mia famiglia ha avuto di mira il suo nome 
      stimabile, ed io cerco la felicità." 
      Valentina fece un segno impercettibile di  ringraziamento,  mentre 
      due silenziose lacrime le scorrevano sulle guance. 
      "Del  resto,  signore"  disse  Villefort  al  suo  futuro  genero, 
      "prescindendo dalla perdita di parte  delle  vostre  speranze,  in 
      questo  inatteso  testamento  non  c'è  nulla che debba offendervi 
      personalmente,  è giustificato  dalla  debolezza  di  spirito  del 
      signor  Noirtier.  Il dispiacere di mio padre non è che mia figlia 
      si sposi con voi, ma che mia figlia prenda marito;  una unione con 
      qualunque altro gli sarebbe ugualmente dispiaciuta. La vecchiaia è 
      egoista,  signore,  e  la  signorina Villefort faceva al signor di 
      Noirtier fedele compagnia,  cosa  che  non  potrà  mai  fargli  la 
      baronessa d'Epinay. Lo stato infelice nel quale si trova mio padre 
      fa  che  gli  si  parli raramente di affari,  la debolezza del suo 
      spirito non gli permette di occuparsene e sono ampiamente convinto 
      che a quest'ora,  mentre sa che  sua  nipote  si  marita,  non  si 
      ricorda  neppure  il  nome  di  quello  che  sta per diventare suo 
      nipote." 
      Appena terminate dal signor Villefort queste  parole,  alle  quali 
      Franz rispondeva con un inchino,  d'un tratto si aprì la porta del 
      salotto, e comparve Barrois. 
      "Signori,  signori" disse,  con una voce stranamente sicura per un 
      servitore  che  parla  ai  suoi  padroni  in  una circostanza così 
      solenne,  "signori,  il signor Noirtier Villefort desidera parlare 
      sul momento al signor Franz di Quesnel barone di Epinay." 
      Egli  pure,  come  aveva  fatto  il  notaio,  affinché non potesse 
      nascere alcun errore di persona,  aveva dato al fidanzato tutti  i 
      suoi  titoli.  Villefort  rabbrividì,  la signora Villefort lasciò 
      scivolare il figlio giù dalle ginocchia, Valentina si alzò pallida 
      e muta come una statua. Alberto e Chateau-Renaud si scambiarono un 
      secondo sguardo più meravigliati ancora di prima. Il notaio guardò 
      Villefort. 
      "E' impossibile" disse il regio  procuratore,  "d'altra  parte  il 
      signor d'Epinay non può in questo momento lasciare la sala." 
      "E' precisamente in questo momento" riprese Barrois, con la stessa 
      fermezza,  "che il signor Noirtier,  mio padrone, desidera parlare 
      di affari importanti al signor Franz d'Epinay." 
      "Parla forse adesso il nonno Noirtier?" domandò Edoardo con la sua 
      solita impertinenza. 
      Ma questo lazzo non fece  ridere  neppure  la  signora  Villefort, 
      tanto  gli  spiriti  erano preoccupati,  tanto il momento sembrava 
      solenne. 
      "Dite al signor Noirtier" disse Villefort,  "che non possiamo fare 
      com'egli domanda." 
      "Allora  il  signor  Noirtier  previene  questi  signori"  riprese 
      Barrois, "che si farà subito portare lui stesso nel salotto." 
      Lo stupore era al colmo. Una specie di sorriso si disegnò sul viso 
      della signora Villefort. Valentina, quasi involontariamente,  alzò 
      gli occhi al soffitto per ringraziare il cielo. 
      "Valentina"  disse il signor Villefort,  "andate un po' a sentire, 
      vi prego, che nuova fantasia è questa di vostro nonno." 
      Valentina fece subito qualche  passo  per  uscire,  ma  il  signor 
      Villefort cambiò parere. 
      "Aspettate" disse, "v'accompagnerò." 
      "Scusate,  signore" disse Franz, a sua volta, "mi pare che, avendo 
      il  signor  Noirtier  fatto  chiedere  di  me,   tocchi  a  me  in 
      particolare  arrendermi  ai  suoi  desideri.  D'altra  parte sarei 
      fortunato di potergli  presentare  i  miei  rispetti,  non  avendo 
      ancora avuto l'occasione di procurarmi questa fortuna." 
      "Oh,  mio Dio!" disse Villefort,  con visibile inquietudine,  "non 
      v'incomodate." 
      "Scusatemi, signore" disse Franz, col tono d'uomo che ha preso una 
      risoluzione: "desidero non perdere questa occasione per provare al 
      signor Noirtier quanto avrebbe torto  di  concepire  verso  di  me 
      delle   antipatie   che  sono  deciso  a  vincere,   con  profonda 
      devozione." 
      E senza lasciarsi trattenere più da Villefort,  Franz si  alzò,  e 
      seguì Valentina, la quale scendeva già la scala con la gioia di un 
      naufrago che afferra con la mano una corda. Il signor Villefort li 
      seguì  entrambi.  Chateau-Renaud e Morcerf si scambiarono un terzo 
      sguardo ancora più stupiti. 


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