Biblioteca elettronica "Freinet"
Agenzia educativa Tangram
Avvertenza: il seguente testo è a disposizione 
esclusivamente per iniziative didattiche e/o per
attività di sostegno per i non vedenti.

 
 
      Traduzioni telematiche a cura di 
      Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo 
      (Casa di reclusione - Opera) 
 
 
 
                           IL CONTE DI MONTECRISTO. 
                             di Alessandro Dumas. 
 
                                VOLUME TERZO. 
 
 
 
 
 
 
                                    INDICE 
 
 
      Capitolo 74.  Processo verbale:                        pagina   5. 
      Capitolo 75.  Progressi del signor Cavalcanti figlio:  pagina  26. 
      Capitolo 76.  Haydée:                                  pagina  45. 
      Capitolo 77.  Ci scrivono da Giannina:                 pagina  79. 
      Capitolo 78.  La limonata:                             pagina 112. 
      Capitolo 79.  L'accusa:                                pagina 132. 
      Capitolo 80.  La stanza del fornaio in ritiro:         pagina 142. 
      Capitolo 81.  Rottura:                                 pagina 175. 
      Capitolo 82.  Giustizia di Dio:                        pagina 200. 
      Capitolo 83.  Beauchamp:                               pagina 212. 
      Capitolo 84.  Viaggio:                                 pagina 224. 
      Capitolo 85.  Il giudizio:                             pagina 244. 
      Capitolo 86.  La sfida:                                pagina 269. 
      Capitolo 87.  L'insulto:                               pagina 281. 
      Capitolo 88.  La notte:                                pagina 298. 
      Capitolo 89.  L'incontro:                              pagina 312. 
      Capitolo 90.  Madre e figlio:                          pagina 333. 
      Capitolo 91.  Suicidio:                                pagina 345. 
      Capitolo 92.  Valentina:                               pagina 361. 
      Capitolo 93.  Confessione:                             pagina 375. 
      Capitolo 94.  Padre e figlia:                          pagina 396. 
      Capitolo 95.  Contratto di nozze:                      pagina 411. 
      Capitolo 96.  La strada del Belgio:                    pagina 430. 
      Capitolo 97.  L'osteria della Campana 
                    e della Bottiglia:                       pagina 441. 
      Capitolo 98.  La legge:                                pagina 463. 
      Capitolo 99.  L'apparizione:                           pagina 480. 
      Capitolo 100. Locusta:                                 pagina 492. 
      Capitolo 101. Valentina:                               pagina 502. 
      Capitolo 102. Massimiliano:                            pagina 513. 
      Capitolo 103. La firma di Danglars:                    pagina 529. 
      Capitolo 104. Il cimitero Lachaise:                    pagina 549. 
      Capitolo 105. La separazione:                          pagina 572. 
      Capitolo 106. La fossa dei leoni:                      pagina 599. 
      Capitolo 107. Il giudice:                              pagina 613. 
      Capitolo 108. Le assise:                               pagina 631. 
      Capitolo 109. L'atto d'accusa:                         pagina 643. 
      Capitolo 110. L'espiazione:                            pagina 657. 
      Capitolo 111. La partenza:                             pagina 672. 
      Capitolo 112. La casa dei viali di Meillan:            pagina 680. 
      Capitolo 113. Il passato:                              pagina 695. 
      Capitolo 114. Peppino:                                 pagina 718. 
      Capitolo 115. La carta di Luigi Vampa:                 pagina 737. 
      Capitolo 116. Il perdono:                              pagina 750. 
      Capitolo 117. Il 5 ottobre:                            pagina 760. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 74. 
                              PROCESSO VERBALE. 
 
 
      Noirtier aspettava, vestito di nero, ed installato nella sua sedia 
      a braccioli.  Entrate  le  tre  persone  che  calcolava  dovessero 
      venire, guardò la porta, che fu subito chiusa dal suo cameriere. 
      "Badate"  disse  sottovoce  Villefort a Valentina,  che non poteva 
      celare la sua gioia,  "che se il signor Noirtier vi comunica  cose 
      che  possano  impedire  il  vostro matrimonio,  io vi proibisco di 
      rivelarle." 
      Valentina  arrossì  ma  non  rispose.   Villefort  si  avvicinò  a 
      Noirtier. 
      "Ecco  il  signor  Franz d'Epinay" gli disse.  "Voi lo avete fatto 
      chiamare signore,  ed egli si è arreso ai vostri  desideri.  Senza 
      dubbio  noi  desideravamo  farvi  questa visita da lungo tempo,  e 
      sarei contento se questa vi provasse  quanto  poco  è  fondata  la 
      vostra opposizione ad un tal matrimonio." 
      Noirtier rispose con un sguardo che fece correre un brivido per le 
      vene  a  Villefort.   Fece  con  l'occhio  segno  a  Valentina  di 
      accostarsi.  In un momento,  con i mezzi cui  era  abituata  nelle 
      conversazioni  con suo nonno lei trovò la parola "chiave".  Allora 
      consultò lo sguardo del paralitico,  che si  fissò  alla  cassetta 
      d'un  piccolo  mobile  posto  fra  le  due  finestre  e  aperta la 
      cassetta,  ritrovò effettivamente una chiave.  Quando ebbe  quella 
      chiave,  e  il  vecchio le fece segno che era veramente quella che 
      domandava,  gli occhi del paralitico si diressero verso un armadio 
      dimenticato  da molti anni,  e che si credeva non racchiudesse che 
      delle cartacce inutili. 
      "Volete che apra l'armadio?" domandò Valentina. 
      "Sì" indicò il vecchio. 
      "Che apra i cassetti?" 
      "Sì." 
      "I laterali?" 
      "No." 
      "Quello di mezzo?" 
      "Sì." 
      Valentina aprì, e ne cavò un fascicolo di carte. 
      "E' quello che desiderate, mio buon nonno?" disse lei. 
      "No." 
      Cavò  allora  tutte  le  altre  carte,   fino  a  che  non  rimase 
      assolutamente nulla nel cassetto. 
      "Ma il cassetto è vuoto ora" disse. 
      Gli occhi del vecchio erano fissi sul dizionazio. 
      "Sì, buon nonno, vi capisco" disse la giovane. 
      E ripeté una dopo l'altra tutte le lettere dell'alfabeto; Noirtier 
      si fermò alle lettera esse.  Aprì il dizionario, e cercò fino alla 
      parola "segreto". 
      "Oh, è uno stipo segreto?" disse Valentina. 
      "Sì" indicò Noirtier,  poi guardò verso la porta dalla  quale  era 
      uscito il domestico. 
      "Barrois?" disse lei. 
      "Sì" rispose Noirtier. 
      "Volete che lo chiami?" 
      "Sì." 
      Valentina andò alla porta,  e chiamò Barrois. Durante questo tempo 
      il sudore dell'impazienza rigava le guance di Villefort,  e  Franz 
      rimaneva stupefatto per la meraviglia. 
      Il vecchio servitore ricomparve. 
      "Barrois"  disse Valentina,  "mio nonno mi ha ordinato di prendere 
      la chiave da quel mobile,  di aprire questo armadio e di tirare il 
      cassetto: ora, in questo cassetto vi è uno stipo segreto, e sembra 
      che voi dobbiate conoscerlo: apritelo." 
      Barrois guardò il vecchio. 
      "Obbedite" disse l'occhio intelligente di Noirtier. 
      Barrois  obbedì,  e,  aperto un doppio fondo,  apparve un plico di 
      carte annodate con un nastro nero. 
      "E' questo che volete, signore?" domandò Barrois. 
      "Sì" indicò Noirtier. 
      "A chi volete che si diano queste carte? al signor Villefort?" 
      "No." 
      "Alla signorina Valentina?" 
      "No." 
      "Al signor Franz d'Epinay?" 
      "Sì." 
      Franz attonito s'avanzò d'un passo dicendo: 
      "A me, signore?" 
      Franz ricevette il plico dalle mani di  Barrois,  e  gettando  gli 
      occhi sulla soprascritta lesse: 
      "Da  essere  depositato  dopo  la mia morte presso il mio amico il 
      generale Durand;  egli stesso morendo lascerà a suo figlio  questo 
      plico  con  l'ingiunzione di conservarlo come contenente un foglio 
      della più alta importanza. 
      "Ebbene, signore" domandò Franz, "quale uso volete ch'io faccia di 
      questo plico?" 
      "Che voi, certo,  lo conserviate sigillato come si trova" disse il 
      regio procuratore. 
      "No, no" fece segno prontamente Noirtier. 
      "Desiderate forse che il signore lo legga?" domandò Valentina. 
      "Sì" rispose il vecchio. 
      "Intendete,  signor  barone?  Mio nonno vi prega di leggere quella 
      carta disse Valentina. 
      "Sì" confermò il vecchio. 
      "Allora sediamoci" disse Villefort,  con  impazienza,  "perché  ci 
      vorrà del tempo." 
      "Sedetevi" indicò con l'occhio il vecchio. 
      Villefort  si  sedette,  ma  Valentina  restò  in piedi accanto al 
      nonno,  appoggiata alla sua seggiola,  e Franz in piedi davanti  a 
      lui, tenendo il misterioso foglio fra le mani. 
      "Leggete" dissero gli occhi del vecchio. 
      Franz  dissigillò il plico e si fece un gran silenzio nella camera 
      quando cominciò a leggere: 
      "Estratto dei processi verbali di una seduta del club bonapartista 
      della rue Saint-Jacques tenutasi il 5 febbraio 1815." 
      Franz si fermò. 
      "Il  5  febbraio  1815  fu  il  giorno  in  cui  mio  padre  venne 
      assassinato!" disse. 
      Valentina  e  Villefort rimasero muti.  Il solo occhio del vecchio 
      diceva chiaramente: 
      "Continuate." 
      "Ma fu nell'uscire da quel club" continuò  Franz  "che  mio  padre 
      scomparve!" 
      Lo sguardo di Noirtier continuò ad esprimere: 
      "Leggete." 
      Egli riprese: 
 
      "I  sottoscritti Luigi-Giacomo Beaurepaire luogotenente colonnello 
      d'artiglieria;  Stefano Duchampy generale di  brigata,  e  Claudio 
      Lecharpal,  direttore  delle acque e foreste,  dichiarano che il 4 
      febbraio  1815  giunse  una   lettera   dall'isola   d'Elba,   che 
      raccomandava  alla  benevolenza  e  fiducia  dei  membri  del club 
      bonapartista il generale Flaviano di Quesnel, che,  avendo servito 
      l'imperatore dal 1804 al 1815, doveva essere tutto dedito alla sua 
      causa  malgrado  il  titolo di barone che Luigi Diciottesimo aveva 
      aggiunto alla sua terra d'Epinay.  In conseguenza  fu  scritto  un 
      biglietto  al generale Quesnel,  in cui lo si pregava di assistere 
      alla seduta dell'indomani 5.  Il  biglietto  non  indicava  né  la 
      strada, né il numero della casa in cui si teneva la riunione e non 
      portava  alcuna firma,  ma avvertiva il generale,  che se aderiva, 
      sarebbero andati a prenderlo alle nove della sera. La seduta aveva 
      luogo dalle nove di sera a mezzanotte. Il presidente del club alle 
      nove si  presentò  al  generale,  il  generale  lo  aspettava.  Il 
      presidente   gli  disse  che  una  delle  condizioni  per  la  sua 
      ammissione era l'ignoranza del luogo della riunione,  e che perciò 
      avrebbe  dovuto  lasciarsi  bendare  gli  occhi  giurando  di  non 
      togliersi mai la benda. Il generale Quesnel accettò le condizioni, 
      e promise sul suo onore,  che non avrebbe tentato di conoscere  il 
      luogo  dove  lo conducevano.  Il generale aveva fatto preparare la 
      sua carrozza,  ma il presidente disse che non potevano  servirsene 
      poiché  sarebbe stato inutile bendare gli occhi al padrone,  se il 
      cocchiere doveva conoscere le strade per cui passava. 
      "Come fare allora?" domandò il generale. 
      "Ci attende la mia carrozza" rispose il presidente. 
      "Siete dunque così sicuro del vostro cocchiere da  confidargli  un 
      segreto che giudicate imprudente far conoscere al mio?" 
      "Il  nostro cocchiere è un membro del club" rispose il presidente, 
      "saremo guidati da un consigliere di Stato." 
      "Allora"  aggiunse  ridendo  il  generale,   "corriamo  un   altro 
      pericolo, quello di rovesciarci con la carrozza!" 
      Noi trascriviamo questo scherzo come una prova che il generale non 
      è  stato minimamente forzato ad assistere alla seduta,  e che vi è 
      intervenuto  di  sua  piena  volontà.   Saliti  in  carrozza,   il 
      presidente  ricordò  al  generale  la  promessa fatta di lasciarsi 
      bendare gli occhi.  Il generale non si  oppose:  fu  adoperato  un 
      fazzoletto che stava nella carrozza.  Lungo la via,  il presidente 
      s'accorse che il generale cercava di guardare sotto la benda,  gli 
      ricordò il suo giuramento. 
      "Ah, è vero" disse il generale. 
      La  carrozza  si  fermò  all'ingresso  d'un viale della rue Saint- 
      Jacques.   Il  generale  scese  appoggiandosi   al   braccio   del 
      presidente,  che  non  gli  era  noto,  e  che  supponeva fosse un 
      semplice membro del club,  attraversarono il viale,  salirono  una 
      scala, ed entrarono nella sala delle deliberazioni. 
      La   seduta   era   cominciata.   I  membri  del  club,   avvisati 
      dell'individuo che doveva  esser  presentato  quella  sera,  erano 
      presenti al gran completo.  Giunto in mezzo alla sala, il generale 
      fu invitato a togliersi la  benda:  ubbidì  subito  all'invito,  e 
      parve  molto  stupito  che  un  così gran numero di persone di sua 
      conoscenza appartenessero ad una società di cui fino ad allora non 
      aveva neppure sospettata l'esistenza.  Fu  interrogato  sulle  sue 
      opinioni,  ma  si  limitò  a  rispondere che le lettere dell'isola 
      d'Elba avrebbero già dovuto farle conoscere..." 
      Franz s'interruppe. 
      "Mio padre era realista" disse,  "non c'era bisogno d'interrogarlo 
      sulle sue opinioni poiché erano note." 
      "E  da  ciò"  disse  Villefort,  "ebbe origine la mia amicizia con 
      vostro padre, mio caro Franz, come accade quando si condividono le 
      stesse opinioni." 
      "Leggete" indicò l'occhio del vecchio. 
      Franz continuò: 
 
      "Il presidente prese allora la parola per impegnare il generale  a 
      spiegarsi  esplicitamente:  ma  il  signor  di Quesnel rispose che 
      prima di tutto desiderava sapere che cosa volessero da lui. Allora 
      fu comunicata al generale la  lettera  dell'isola  d'Elba  che  lo 
      raccomandava  al  club  come uomo sul soccorso del quale si poteva 
      contare.  Un paragrafo tutto intero esponeva il probabile  ritorno 
      dall'isola   e   prometteva   un'altra   lettera  con  più  minuti 
      particolari  all'arrivo  del  Faraone,   bastimento   appartenente 
      all'armatore Morrel di Marsiglia,  il cui capitano era interamente 
      devoto all imperatore.  Durante quella lettura,  il generale,  sul 
      quale  si era creduto di poter contare come su un fratello,  dette 
      invece segni visibili di malcontento e di disaccordo. Terminata la 
      lettura, stette silenzioso e con le sopracciglia aggrottate. 
      "Ebbene" domandò il presidente, "che ne dite, signor generale?" 
      "Io dico che è troppo poco tempo che abbiamo  prestato  giuramento 
      al  re  Luigi Diciottesimo da violarlo di già a beneficio dell'ex- 
      imperatore." 
      Questa  volta  la  risposta  era  chiarissima  perché  si  potesse 
      dubitare dei suoi sentimenti. 
      Generale  disse  il presidente,  "per noi non vi è più né re Luigi 
      Diciottesimo  né  ex-imperatore.   Vi  è   soltanto   Sua   Maestà 
      l'Imperatore  e Re,  allontanato da dieci mesi dalla Francia,  suo 
      impero, dalla violenza e dal tradimento." 
      "Scusate,  signori,  può darsi che per voi non esista un re  Luigi 
      Diciottesimo, ma per me sì, visto che mi fece barone e maresciallo 
      di campo, ed io non dimenticherò mai che devo questi due titoli al 
      suo fortunato ritorno in Francia." 
      "Signore"  disse  il  presidente  alzandosi e col tono più severo, 
      "badate a ciò che dite!  Le vostre parole ci dimostrano chiaro che 
      all'isola  d'Elba si sono ingannati sul conto vostro,  e che hanno 
      ingannato noi!  L'invito vi è stato fatto a motivo  della  fiducia 
      che  voi ispiravate,  e quindi di un sentimento per voi onorevole. 
      Noi però eravamo in errore,  un titolo ed un grado vi hanno  fatto 
      partigiano  del nuovo governo che vogliamo rovesciare.  Noi non vi 
      costringeremo a prestarci il vostro aiuto,  giacché non arruoliamo 
      nessuno contro la propria coscienza e volontà,  ma vi forzeremo ad 
      agire da galantuomo, anche qualora non ne foste disposto. 
      "Ah, chiamate essere galantuomo conoscere la vostra cospirazione e 
      non denunziarla! Io chiamo ciò essere vostro complice.  Vedete che 
      sono ancora più franco di voi..." 
      "Ah!  Padre mio!" disse Franz interrompendosi. "Capisco ora perché 
      ti hanno assassinato." 
      Valentina non poté fare a meno di volgere uno sguardo a Franz;  il 
      giovane   era  veramente  bello  nel  suo  entusiasmo.   Villefort 
      passeggiava su e giù dietro a lui.  Noirtier osservava  l'emozione 
      di ciascuno, e conservava la sua attitudine dignitosa e severa. 
      Franz riprese il manoscritto, e continuò: 
      "Signore" disse il presidente,  "foste pregato di portarvi in seno 
      all'assemblea, e non vi foste trascinato per forza; vi fu proposto 
      che vi lasciaste bendare gli occhi,  e  accettaste.  Quando  avete 
      acconsentito  a  questo doppio invito,  sapevate benissimo che non 
      era nostra intenzione d'assicurare il trono a Luigi  Diciottesimo, 
      senza di che non ci saremmo prese tante precauzioni di nasconderci 
      alla  polizia.  Ora,  come  ben  capirete  sarebbe una cosa troppo 
      comoda potersi mettere una maschera  per  sorprendere  il  segreto 
      delle persone,  e poi togliersi questa maschera per perdere quelli 
      che si sono fidati di voi.  No,  no,  per prima cosa dovrete  dire 
      francamente  se siete per il re che ora governa,  o per Sua Maestà 
      l'Imperatore." 
      "Sono  realista  rispose  il  generale,   "ho  giurato  per  Luigi 
      Diciottesimo; manterrò il mio giuramento." 
      Queste  parole  furono seguite da un mormorio generale e si poteva 
      capire dalla concitazione di molti membri componenti il club,  che 
      discutevano  il  modo  di far pentire il signor d'Epinay di quelle 
      imprudenti parole.  Il presidente si alzò di  nuovo  e  impose  il 
      silenzio. 
      "Signore"  diss'egli,  "siete troppo assennato per non comprendere 
      le conseguenze della situazione in cui ci  troviamo,  gli  uni  in 
      faccia  agli  altri,  e  la  vostra  stessa franchezza ci detta le 
      condizioni che dobbiamo proporvi. Dovete dunque giurare sul vostro 
      onore di non rivelar nulla  di  tutto  ciò  che  avete  veduto  ed 
      udito." 
      Il generale portò la mano alla spada, e gridò: 
      "Se parlate di onore, cominciate col non travisare le sue leggi, e 
      non imponete nulla con la violenza. 
      "E  voi  signore"  continuò  il  presidente,  con  calma forse più 
      terribile della collera del generale, "non toccate la spada, vi do 
      questo consiglio." 
      Il generale volse intorno sguardi,  da cui trapelava un  principio 
      d'inquietudine. Però non cedette; al contrario, richiamando il suo 
      coraggio: 
      "Io non giurerò" diss'egli. 
      "Allora,   signore,   voi   morrete"  rispose  tranquillamente  il 
      presidente. 
      Il signor d'Epinay divenne pallidissimo,  guardò una seconda volta 
      intorno  a  sé:  molti membri del club brandivano o cercavano armi 
      sotto i loro mantelli. 
      "Generale" disse il presidente, "state tranquillo,  siete in mezzo 
      a uomini d'onore che tenteranno ogni via per persuadervi, prima di 
      ricorrere  all'estremo  contro  di  voi,  ma come ben diceste,  vi 
      trovate pure in mezzo a cospiratori,  e bisogna che ci restituiate 
      il segreto di cui siete in possesso." 
      Un  silenzio  significante  seguì  queste  parole,  e  siccome  il 
      generale non rispondeva: 
      "Chiudete le porte" disse il presidente agli uscieri. 
      Un eguale silenzio di morte seguì queste altre parole.  Allora  il 
      generale si avanzò e facendo un violento sforzo su di sé 
      "Ho  un  figlio"  disse,  "e  devo pensare a lui nel ritrovarmi in 
      mezzo ad assassini." 
      "Generale" disse con nobiltà il capo dell'assemblea, "un uomo solo 
      ha sempre il diritto d'insultarne cinquanta, è il privilegio della 
      debolezza;  fa però male a servirsi di questo diritto.  Credete  a 
      me, generale, giurate e non insultate." 
      Il  generale,  vinto anche questa volta dalla superiorità del capo 
      dell'assemblea, esitò un istante; ma finalmente,  avvicinandosi al 
      banco del presidente disse: 
      "Qual è la formula?" 
      "Eccola: 
      Io  giuro sul mio onore di non rivelare a chicchessia al mondo ciò 
      che ho veduto ed udito il 5 febbraio 1815 fra le nove e  le  dieci 
      di  sera,  e  mi  dichiaro  meritevole di morte se infrango il mio 
      giuramento." 
      Il generale parve provare un  tremito  nervoso,  che  per  qualche 
      secondo  gli  impedì  di  rispondere,  finalmente,  vincendo  ogni 
      riluttanza,  pronunciò il richiesto giuramento ma con voce  bassa, 
      che a grande stento fu udita, cosicché molti membri vollero che lo 
      ripetesse a voce più alta e più distinta, il che fu fatto. 
      "Ora  desidero  ritirarmi"  disse  il  generale.  "Sono finalmente 
      libero?" 
      Il presidente  si  alzò,  scelse  tre  membri  dell'assemblea  per 
      accompagnarlo  salì  in carrozza col generale dopo avergli bendato 
      gli occhi.  Tra questi tre membri c'era il cocchiere che li  aveva 
      condotti; gli altri membri del club si separarono in silenzio. 
      Dove volete che vi conduciamo?" domandò il presidente 
      "Ovunque  possa  essere  libero  dalla vostra presenza" rispose il 
      signor d'Epinay. 
      "Signore" riprese allora il presidente, "badate! Voi qui non siete 
      più nell'assemblea,  non avete più a che fare se  non  con  uomini 
      isolati,  non insultate dunque,  se non volete essere responsabile 
      dell'insulto." 
      Ma invece di capire tale linguaggio il signor d'Epinay rispose: 
      "Il motivo per cui siete tanto  coraggioso  sia  in  carrozza  che 
      nell'assemblea,  signore,  è perché quattro uomini sono sempre più 
      forti di uno solo." 
      Il presidente fece fermare la carrozza,  erano precisamente  nelle 
      vicinanze dello scalo degli Ormes. 
      "Perché vi fermate qui?" domandò il generale d'Epinay. 
      "Perché, signore" disse il presidente, "avete insultato un uomo, e 
      quest'uomo  non  vuole  fare  un  passo di più senza chiedervi una 
      leale riparazione." 
      "Un altro genere d'assassinio!"  disse  il  generale  stringendosi 
      nelle spalle. 
      "Non  fate  chiacchiere,  signore" replicò il presidente,  "se non 
      volete che consideri voi pure come uno di  coloro  che  definivate 
      poco  fa,  un vile che prende scudo della sua stessa viltà.  Siete 
      solo, ed uno solo vi risponderà; avete una spada al fianco,  io ne 
      ho  una  in  questo  bastone,  non avete testimoni,  uno di questi 
      signori sarà il vostro. Ora, se vi aggrada, toglietevi la benda." 
      "Finalmente" disse, "saprò con chi ho a che fare." 
      Fu aperta la carrozza; tutti e quattro scesero..." 
      Franz s'interruppe un'altra volta,  e si asciugò un freddo  sudore 
      che  gli grondava dalla fronte.  Faceva spavento vedere un figlio, 
      tremante e pallido leggere ad alta voce i particolari, fino allora 
      ignoti, della morte di suo padre. Valentina congiunse le mani come 
      se mormorasse una preghiera al cielo;  Noirtier guardava Villefort 
      con una espressione quasi di sublime disprezzo ed orgoglio. 
      Franz continuò: 
      "Era come abbiamo detto il 5 febbraio. Da tre mesi gelava a cinque 
      o  sei  gradi;  la  scalinata  era tutta ricoperta di ghiaccio: il 
      generale era alto e grosso,  il presidente gli additò i punti  per 
      discendere.  I due testimoni li seguivano. La notte era oscura. In 
      fondo alla scalinata, in riva al fiume c'erano molta neve e brina; 
      si vedeva l'acqua scorrere nera,  profonda,  trasportando massi di 
      ghiaccio.  Uno  dei  testimoni  andò a cercare una lanterna in una 
      chiatta di carbone,  ed al suo chiarore furono esaminate le  armi. 
      La spada del presidente,  consistente appena, come aveva detto, in 
      uno stocco che portava nel bastone,  era cinque pollici più  corta 
      di  quella  del  suo  avversario,  e  senza  guardia.  Il generale 
      d'Epinay propose di tirare a sorte  le  spade,  ma  il  presidente 
      rispose che essendo lui il provocatore, pretendeva che ciascuno si 
      servisse  delle  proprie armi.  I testimoni vollero insistere,  il 
      presidente impose loro silenzio. 
      Posta la lanterna al suolo,  i due avversari si misero ai due lati 
      e  cominciò il combattimento.  Le due spade guizzavano al chiarore 
      della lanterna come due lampi,  ma le persone appena  si  potevano 
      discernere,  tanto  era  oscura  quella notte.  Il signor generale 
      d'Epinay era stimato il migliore spadaccino dell'esercito,  ma  fu 
      stretto tanto vivamente, che fino dalle prime botte indietreggiò e 
      cadde.  I due testimoni lo credettero ucciso, ma il suo avversario 
      che sapeva di non averlo ferito, gli presentò la mano per aiutarlo 
      ad alzarsi.  Questa circostanza  invece  di  calmarlo,  irritò  il 
      generale,  che  piombò a sua volta sull'avversario.  Ma questi non 
      cedette d'un palmo il terreno,  e ricevendolo per tre volte  sulla 
      sua  spada,  per tre volte costrinse il generale a indietreggiare; 
      finalmente alla terza ricadde senza alzarsi.  Dapprima i testimoni 
      credettero che avesse ancora posto piede in fallo,  ma vedendo che 
      non si rialzava, corsero per rialzarlo, però,  quello che lo aveva 
      afferrato,  sentì  la mano umida e calda: era sangue.  Il generale 
      che era quasi svenuto, riprese i sensi. 
      "Ah" disse, "mi hanno mandato qualche spadaccino,  qualche maestro 
      di reggimento." 
      Il  presidente,  senza  rispondere  si  avvicinò  a quello dei due 
      testimoni che teneva la lanterna, e, sollevando la manica,  mostrò 
      il  braccio  traforato  da  due colpi di spada;  poi slacciando il 
      soprabito ed il panciotto, scoperse il fianco insanguinato per una 
      terza ferita.  Il generale d'Epinay spirò dopo un'agonia di cinque 
      minuti." 
      Franz lesse queste ultime parole con voce soffocata, che appena si 
      poteva  intendere,  e  dopo aver letto si fermò,  portando la mano 
      agli occhi,  come per scacciare una nube.  Ma dopo un  istante  di 
      silenzio continuò: 
      "Il  presidente  risalì  la  scala  dopo aver rimesso la spada nel 
      bastone; una striscia di sangue segnava il suo cammino sulla neve. 
      Non era ancora giunto in cima alla scalinata,  che  udì  un  sordo 
      tonfo  nell'acqua:  era  il  corpo  del generale,  che i testimoni 
      avevano gettato nel fiume dopo averne verificata la morte. In fede 
      di che, abbiamo sottoscritto la presente per ristabilire la verità 
      dei fatti,  per  tema  che  arrivi  un  momento  in  cui  uno  dei 
      personaggi  di  quella  terribile  scena  non si trovi accusato di 
      omicidio premeditato o di violazione delle leggi d'onore. 
      Sottoscritti: Beaurepaire, Duchampy e Lecharpal." 
 
      Quando Franz ebbe terminata la  lettura,  così  terribile  per  un 
      figlio,  quando Valentina,  pallida per l'emozione, ebbe asciugata 
      una lacrima,  quando Villefort,  tremante  e  rannicchiato  in  un 
      canto,  ebbe tentato di scongiurare l'uragano per mezzo di sguardi 
      supplichevoli diretti al vecchio implacabile: 
      "Signore" disse d'Epinay a Noirtier,  "poiché voi conoscete questa 
      terribile storia in tutti i suoi particolari, dacché l'avete fatta 
      testificare  da firme onorevoli;  poiché sembrate prendere cura di 
      me,  quantunque la vostra premura non si sia ancora  rivelata  che 
      per mezzo del dolore, non mi rifiutate un ultimo desiderio, ditemi 
      il  nome del presidente del club,  che io conosca finalmente colui 
      che ha ucciso il mio povero padre." 
      Villefort cercò,  come un mentecatto,  la  maniglia  della  porta; 
      Valentina,  che  aveva  compreso  prima  di  tutti la risposta del 
      vecchio e che spesso aveva osservato sull'avambraccio del nonno le 
      cicatrici di due ferite, indietreggiò d'un passo. 
      "In nome del cielo,  signorina" disse Franz rivolgendosi alla  sua 
      fidanzata,  "unitevi a me, che io sappia il nome di quell'uomo che 
      mi ha reso orfano a due anni." 
      Valentina restò immobile e muta. 
      "Uditemi,  signore" disse Villefort,  "credetemi,  non  prolungate 
      questa  orribile scena...  I nomi del resto sono stati nascosti ad 
      arte.   Mio  padre  stesso  non  conosce  questo   presidente,   e 
      quand'anche lo conoscesse non potrebbe dirlo, perché i nomi propri 
      non si trovano nel dizionario." 
      "Oh,  sventura!"  gridò  Franz.  "La  sola  speranza durante tutta 
      questa lettura,  che mi ha dato la forza  di  giungere  sino  alla 
      fine,  era  di conoscere almeno il nome di colui che ha ucciso mio 
      padre! Signore" esclamò volgendosi a Noirtier, "in nome del cielo! 
      Fate tutto ciò che potete... cercate, ve ne supplico,  d'indicarmi 
      o farmi comprendere..." 
      "Sì" fece cenno Noirtier. 
      "Oh,  signorina!"  gridò  Franz.  "Vostro nonno ha fatto segno che 
      vuole indicarmi...  questo uomo...  aiutatemi...  Voi lo capite... 
      concedetemi il vostro soccorso..." 
      Noirtier  guardò  il  dizionario.  Franz  lo  prese con un tremito 
      convulsivo e pronunciò successivamente  le  lettere  dell'alfabeto 
      fino alla vocale i. A questa lettera il vecchio fece segno di sì. 
      "I?" ripeté Franz. 
      Il  dito  del giovane strisciò sulle parole,  ma a tutte le parole 
      Noirtier faceva un segno negativo.  Valentina nascondeva la  testa 
      fra le mani. Finalmente Franz giunse alla parola "io". 
      "Sì" indicò il vecchio. 
      "Voi!"  gridò  Franz,  e gli si drizzarono i capelli sulla fronte. 
      "Voi, signor Noirtier, siete voi che avete ucciso mio padre?" 
      "Sì" replicò Noirtier, fissando sul giovane uno sguardo maestoso. 
      Franz cadde sopra una seggiola.  Villefort aprì la porta e  fuggì, 
      perché  lo  tormentava  un  terribile  pensiero,  il  pensiero  di 
      soffocare quel lume di vita  che  ancora  restava  nel  corpo  del 
      vecchio. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 75. 
                   PROGRESSI DEL SIGNOR CAVALCANTI FIGLIO. 
 
 
      Il  signor  Cavalcanti  padre  era  partito  per riprendere il suo 
      servizio,   non  già  nell'esercito  di  Sua  Maestà  l'imperatore 
      d'Austria,  ma al Casinò di Bagni di Lucca, di cui era uno dei più 
      assidui. Non occorre dire che aveva ritirato con la più scrupolosa 
      esattezza fino all'ultimo paolo della  somma  che  gli  era  stata 
      destinata  per  il  viaggio e quale ricompensa del modo maestoso e 
      solenne col quale aveva rappresentata la parte di padre. 
      Il signor Andrea aveva ricevuto alla sua partenza tutte  le  carte 
      comprovanti  aver  egli  avuto  l'onore  di  essere  il figlio del 
      marchese Bartolomeo e della marchesa Oliva Corsinari,  era  dunque 
      quasi  introdotto  in  quella  società  parigina,  tanto facile ad 
      accogliere gli stranieri ed a considerarli,  non  per  quello  che 
      sono,  ma per ciò che appaiono. D'altra parte che cosa si richiede 
      a un giovane a Parigi?  Di  parlare  la  lingua  francese,  essere 
      vestito elegantemente, essere buon giocatore, e pagare in oro. Non 
      occorre  dire  che  si  esige  meno  da  un  forestiero  che da un 
      parigino. 
      Andrea  dunque  in  quindici  giorni  s'era  procacciato  un  buon 
      credito;  lo  chiamavano  il  signor  conte,  si diceva che avesse 
      cinquantamila lire di rendita,  e si parlava degli immensi  tesori 
      sepolti   da   suo  padre  nei  sotterranei  di  Serravezza.   Uno 
      scienziato,  alla cui presenza si facevano  tali  discorsi,  disse 
      d'avere  veduto  i sotterranei di cui si parlava,  il che dette un 
      gran peso alle asserzioni fino allora dubbie,  che da quel momento 
      presero l'aspetto della realtà. 
      Le  cose  erano quindi a tal punto presso il mondo parigino,  dove 
      abbiamo introdotto i nostri lettori,  allorché il  conte  venne  a 
      fare visita al signor Danglars.  Il signor Danglars era uscito, ma 
      quando fu detto al conte che la baronessa era visibile egli entrò. 
      Non era mai senza una specie di brivido nervoso,  che  la  signora 
      Danglars udiva pronunziare il nome di Montecristo,  dopo il pranzo 
      d'Auteuil e gli avvenimenti che ne erano seguiti.  Se il conte non 
      si  fosse presentato,  la sensazione dolorosa sarebbe divenuta più 
      intensa; se invece fosse comparso, la sua fisonomia aperta, i suoi 
      occhi brillanti,  la sua amabilità e galanteria verso  la  signora 
      Danglars,  avrebbero  scacciato ben presto fino all'ultimo timore. 
      Sembrava impossibile alla  baronessa  che  un  uomo  così  gentile 
      all'esterno potesse nutrire contro di lei malvagi disegni; d'altra 
      parte,  i cuori più corrotti non possono credere al male, se non è 
      eccitato da qualche interesse:  il  male  inutile  e  senza  causa 
      ripugna come una anomalia. 
      Montecristo  entrò  dunque  nel  salotto,  ove noi abbiamo già una 
      volta introdotto i nostri lettori,  e dove la baronessa  esaminava 
      con occhio inquietissimo alcuni disegni che le porgeva sua figlia, 
      dopo averli guardati col signor Cavalcanti figlio: la sua presenza 
      produsse l'ordinario effetto, e calmato lo sconvolgimento prodotto 
      in lei all'udire il suo nome,  la baronessa ricevette il conte con 
      un sorriso. Questi, dal canto suo, indovinò tutto con uno sguardo. 
      Vicino alla baronessa,  e quasi stesa sopra una poltroncina  stava 
      Eugenia,  e  in piedi Cavalcanti,  vestito di nero come un eroe di 
      Goethe,  scarpe verniciate e calze di seta  bianca  a  giorno.  Il 
      giovane  passava  una  mano  molto  bianca  e pulita fra i capelli 
      biondi, facendo scintillare un diamante, che,  malgrado i consigli 
      del  conte  di  Montecristo,  il vanitoso giovane non aveva potuto 
      resistere al desiderio di infilarsi al dito mignolo. Quel moto era 
      accompagnato da sguardi infocati lanciati alla signorina Danglars, 
      e da sospiri inviati al medesimo indirizzo.  La signorina Danglars 
      era sempre la stessa,  vale a dire bella, fredda e motteggiatrice. 
      Non le sfuggiva un sospiro,  uno sguardo d'Andrea,  ma si  sarebbe 
      detto  che  scivolassero  sulla  corazza  di Minerva;  corazza che 
      alcuni filosofi pretendono che qualche volta ricopra il  petto  di 
      Saffo. 
      Eugenia  salutò  freddamente  il  conte,  e  approfittò  del primo 
      momento in cui vide impegnato il discorso,  per ritirarsi nel  suo 
      studio,  da dove presto uscirono due voci forti e scherzose, miste 
      ai primi accordi di un clavicembalo,  che rivelarono a Montecristo 
      come  la signorina preferisse alla sua e a quella di Cavalcanti la 
      compagnia della signorina Luigia d'Armilly sua maestra  di  canto. 
      Fu allora, particolarmente, che, parlando con la signora Danglars, 
      e  fingendo  d'essere  tutto  assorto in quel colloquio,  il conte 
      osservò la premura del signor Andrea Cavalcanti,  il suo  modo  di 
      andare   ad  ascoltare  la  musica  alla  porta,   che  non  osava 
      oltrepassare, e di manifestare la sua ammirazione. 
      Il banchiere non tardò a comparire: il suo primo  sguardo  fu  per 
      Montecristo,  è vero, ma il secondo fu per Andrea. In quanto a sua 
      moglie, la salutò nel modo che molti mariti salutano le proprie, e 
      di cui i celibi non potranno capacitarsi  fino  a  che  non  venga 
      pubblicato un codice estesissimo sullo stato coniugale. 
      "Queste  signorine non vi hanno forse invitato a cantare insieme?" 
      domandò Danglars ad Andrea. 
      "Ahimè,  no,  signore" rispose Andrea con un sospiro più  profondo 
      ancora degli altri. 
      Danglars si avvicinò alla porta di comunicazione, e l'aprì: allora 
      si  videro  le due donne sedute sulla medesima seggiola davanti al 
      pianoforte, suonando ciascuna con una mano,  esercizio al quale si 
      erano  abituate  per  fantasia,  e  nel  quale  erano riuscite con 
      sorprendente valentia. 
      La  signorina  d'Armilly  formava  con  Eugenia,   nella   cornice 
      dell'uscio,  uno  di quei quadri viventi alla maniera tedesca,  ed 
      era di una bellezza notevole o,  a dir meglio,  di una  gentilezza 
      squisita,  sottile e bionda come una fata, con due gran ciocche di 
      ricci sul collo,  un po' troppo  lungo,  come  pecca  talvolta  il 
      Perugino   nelle  sue  figure,   e  gli  occhi  velati  quasi  per 
      stanchezza.  Si diceva che avesse il petto  debole,  e  che,  come 
      Antonia,  nel  "Violino  di  Cremona",  sarebbe  morta  un  giorno 
      cantando. 
      Montecristo volse un rapido sguardo a quel gineceo: era  la  prima 
      volta  che  vedeva  la  signorina  d'Armilly,  di  cui aveva udito 
      parlare spesso in quella casa. 
      "Ebbene" domandò il banchiere a sua figlia, "perché noialtri siamo 
      esclusi?" 
      E condusse il giovane nella saletta,  e,  fosse caso  o  arte,  la 
      porta  fu  spinta  dietro Andrea in modo che,  dal luogo ove erano 
      seduti Montecristo e la baronessa, non si potesse vedere nulla. Ma 
      siccome il banchiere aveva seguito Andrea, la signora Danglars non 
      parve badare a tale circostanza. Poco dopo il conte udì la voce di 
      Andrea accordarsi al piano, e cantare una canzone corsa. 
      Mentre il conte  ascoltava  sorridendo  quella  canzone,  che  gli 
      faceva dimenticare Andrea per ricordarsi di Benedetto,  la signora 
      Danglars vantava a Montecristo la forza d'animo di suo marito, che 
      in quella mattina aveva perduto  altri  tre  o  quattrocento  mila 
      franchi  in  un  fallimento di Milano.  E difatti l'elogio era ben 
      meritato; perché se il conte non lo avesse saputo dalla baronessa, 
      o per uno di quei mezzi che forse aveva per sapere tutto, il volto 
      del barone non ne avrebbe dato il più piccolo indizio. 
      "Bene!" pensò Montecristo.  "E' già arrivato  al  punto  di  dover 
      tenere nascoste le perdite. un mese fa se ne vantava." 
      Quindi alzando la voce: 
      "Oh,  signora"  disse  il conte,  "il signor Danglars conosce così 
      bene la Borsa, che potrà sempre guadagnarvi ciò che perde in altra 
      parte." 
      "Vedo che condividete l'errore comune" disse la signora Danglars. 
      "E quale errore?" disse Montecristo. 
      "Che il signor Danglars speculi  sui  fondi,  mentre  non  specula 
      mai." 
      "Ah,  è  vero,  signora,  mi  ricordo  che  Debray  mi disse...  A 
      proposito,  che cosa n'è di Debray?  Sono tre o quattro giorni che 
      non lo vedo." 
      "Io pure" disse la signora Danglars con mirabile indifferenza. "Ma 
      voi avete cominciato una frase che è rimasta interrotta." 
      "E quale?" 
      "Il signor Debray mi disse..., avete detto." 
      "Ah,  è  vero...  Il  signor  Debray  mi  disse  che eravate voi a 
      sacrificare al demone dell'azzardo." 
      "Ho avuto questo capriccio per qualche tempo, lo confesso,  ma ora 
      non l'ho più." 
      "E avete torto,  signora.  Mio Dio!  I capricci della fortuna sono 
      precari, e se fossi stato donna, e la combinazione mi avesse fatto 
      moglie di un  banchiere,  qualunque  fiducia  avessi  avuto  nella 
      prospera  sorte  di  mio  marito,   avrei  sempre  cominciato  con 
      l'assicurarmi  uno  stato  indipendente,   avessi   dovuto   anche 
      acquistare questa fortuna affidando i miei interessi in mani a lui 
      ignote." 
      La signora Danglars arrossì suo malgrado. 
      "Vedete" disse Montecristo,  come se non se ne fosse accorto,  "si 
      parla di un bel colpo  che  è  stato  fatto  ieri  sui  titoli  di 
      Napoli." 
      "Io  non  ne ho" disse prontamente la baronessa,  "e non ne ho mai 
      avuti...  Ma,  in verità,  abbiamo parlato  abbastanza  di  Borsa, 
      signor conte: sembriamo due agenti di cambio.  Parliamo un po' dei 
      poveri Villefort così tormentati dal destino." 
      "Che cosa  è  loro  accaduto?"  domandò  Montecristo  con  la  più 
      perfetta calma. 
      "Ma  lo  saprete già: dopo aver perduto il signore di Saint-Méran, 
      tre o quattro giorni dopo la  partenza  da  Marsiglia,  hanno  ora 
      perduto la marchesa, tre o quattro giorni dopo il suo arrivo." 
      "Ah,  è vero" disse Montecristo, "l'ho udito raccontare... ma come 
      dice Claudio ad Amleto,  è una legge di natura;  i loro padri sono 
      morti  prima  di  loro,  e essi li avevano pianti;  essi moriranno 
      prima dei loro figli, e questi li piangeranno." 
      "Ma non sta qui il tutto." 
      "Come! Non è qui il tutto?" 
      "No, voi sapete che dovevano maritare la loro figlia." 
      "Al  signor  Franz  d'Epinay...   E'  forse  andato  in  fumo   il 
      matrimonio?" 
      "Ieri mattina, a quanto sembra, Franz ha ritirato la sua parola." 
      "Ah, davvero?... E si conoscono i motivi di quella rottura?" 
      "No." 
      "Che cosa mi raccontate,  buon Dio,  signora... E come sopporta il 
      signor Villefort tali disgrazie?" 
      "Sempre con filosofia." 
      Furono interrotti dal ritorno di Danglars. 
      "Ebbene" disse la baronessa,  "lasciate il signor  Cavalcanti  con 
      vostra figlia?" 
      "E  la  signorina  d'Armilly" soggiunse il banchiere,  "per chi la 
      prendete dunque?" 
      Poi volgendosi a Montecristo: 
      "Che  cortese  giovane,   vero,   signor  conte,   è  il  principe 
      Cavalcanti?... Ma è veramente principe?" 
      "Io non posso garantirlo" disse Montecristo. "Mi fu presentato suo 
      padre  come  marchese,  egli sarebbe conte...  Ma io credo ch'egli 
      stesso non dia gran importanza a questo titolo." 
      "Perché?" disse il banchiere.  "Se è principe,  ha  torto  di  non 
      vantarsene.  A  ciascuno ciò che è di diritto.  Io non ho caro chi 
      rinnega la propria origine." 
      "Ah,   voi  non  siete  troppo  democratico"   disse   Montecristo 
      sorridendo. 
      "Ma,  vedete"  disse la baronessa,  "a che cosa vi esponete se per 
      caso venisse il signor Morcerf? Troverebbe il signor Cavalcanti in 
      una stanza,  dove lui,  fidanzato d'Eugenia,  non ha mai avuto  il 
      permesso d'entrare." 
      "Fate bene a dire se per caso, poiché, in verità, si vede tanto di 
      rado,  che  si  può  proprio  dire che è stato il caso che ce l'ha 
      condotto." 
      "Ma infine,  se venisse e trovasse questo giovane vicino a  vostra 
      figlia, potrebbe esserne malcontento." 
      "Lui?  Oh,  mio  Dio,  v'ingannate...  Il signor Alberto non ci fa 
      l'onore d'essere geloso della sua fidanzata,  non l'ama abbastanza 
      da arrivare a tal punto. D'altra parte, che importa a me se egli è 
      malcontento?" 
      "Però, al punto in cui siamo..." 
      "Sì  al punto in cui siamo...  Volete sapere a che punto siamo?  A 
      questo,  che alla festa di sua madre ha ballato una volta sola con 
      mia figlia,  ed il signor Cavalcanti ha ballato con lei tre volte, 
      senza che neppure se ne sia accorto." 
      "Il signor visconte Alberto Morcerf" annunziò il cameriere. 
      La baronessa si alzò  prontamente,  voleva  passare  nella  stanza 
      della figlia, quando Danglars la trattenne per il braccio: 
      "Lasciate" disse. 
      Lei  lo guardò meravigliata;  Montecristo finse di non aver veduto 
      quella scena. 
      Alberto entrò: era molto leggiadro ed allegro, salutò la baronessa 
      con rispetto, Danglars con familiarità, Montecristo con affezione. 
      Poi, volto verso la baronessa: 
      "Volete permettermi, signora" le disse,  "di chiedervi come sta la 
      signorina Danglars?" 
      "Benissimo,  signore"  rispose  allegramente Danglars.  "In questo 
      momento sta provando della musica,  nel suo salottino in compagnia 
      del signor Cavalcanti." 
      Alberto  conservò la sua aria calma e indifferente;  forse sentiva 
      internamente  un  po'  di  dispetto,   ma  vedeva  lo  sguardo  di 
      Montecristo fisso su di lui. 
      "Il signor Cavalcanti ha una bellissima voce di tenore" disse,  "e 
      la signorina Eugenia è un magnifico  soprano,  senza  contare  che 
      suona  il  pianoforte come un Thalberg: dev'essere un sorprendente 
      concerto." 
      "Il fatto è" disse Danglars, "che vanno perfettamente d'accordo." 
      Alberto parve non raccogliere quel gioco di parole grossolano, per 
      cui la signora Danglars arrossì. 
      "Io pure" continuò il giovane, "sono musicante,  per quanto dicono 
      almeno  i  miei maestri.  Ebbene,  cosa strana,  non ho mai potuto 
      accordare la mia voce con alcun'altra,  e molto  meno  ancora  con 
      voci da soprano." 
      Danglars  fece  un piccolo sorriso che significava: "Ma inquietati 
      dunque." 
      "Così" soggiunse,  sperando di  spingere  le  cose  al  punto  che 
      desiderava,   "il  principe  e  mia  figlia  ieri  hanno  raccolto 
      l'ammirazione generale. Non c'eravate ieri, signore di Morcerf?" 
      "Quale principe?" domandò Alberto. 
      "Il principe Cavalcanti" rispose Danglars che si ostinava a  voler 
      dar sempre questo titolo a quel giovane. 
      "Ah,  scusate" disse Alberto, "non sapevo che fosse principe. Così 
      il principe Cavalcanti ha cantato ieri con Eugenia? Sarà stata una 
      cosa da destar entusiasmo,  e mi  dispiace  vivamente  non  averli 
      uditi.  Ma  io  non  ho potuto accettare il vostro invito,  avendo 
      dovuto accompagnare la signora Morcerf dalla  baronessa  madre  di 
      Chateau-Renaud ove cantavano i tedeschi." 
      Poi, dopo un breve silenzio, come si fosse di nulla parlato: 
      "Mi sarà permesso" soggiunse Morcerf, "di presentare i miei omaggi 
      alla signorina Danglars?" 
      "Oh,  aspettate,  aspettate  ve  ne  supplico!" disse il banchiere 
      fermando il giovane. "Udite la deliziosa cavatina? Ta, ta, ta, ti, 
      ta,  ti ta...  Trasporta!  Sta  per  finire...  Un  solo  secondo. 
      Perfettamente! Bravo! Bravi! brava!" 
      Ed il banchiere si mise ad applaudire con frenesia. 
      "Infatti"  disse  Alberto,  "è squisita.  E' impossibile esprimere 
      meglio del principe Cavalcanti la musica del proprio paese.  Avete 
      detto principe,  è vero?  D'altra parte se non è principe, si farà 
      fare. In Italia è cosa facile.  Ma per tornare ai nostri adorabili 
      cantanti,  dovreste farci un piacere,  signor Danglars,  senza dir 
      loro che  vi  sia  un  estraneo,  dovreste  pregare  la  signorina 
      Danglars ed il signor Cavalcanti di cominciare un altro pezzo.  E' 
      una cosa così deliziosa godere la musica ad un po' di distanza, in 
      una mezza luce,  senz'essere visti,  senza vedere e di conseguenza 
      senza disturbare i cantanti,  che possono lasciarsi trasportare da 
      tutto l'istinto del genio e da tutto lo slancio del cuore!" 
      Danglars questa volta fu sconcertato dalla flemma del giovane,  e, 
      preso Montecristo in disparte: 
      "Conte" disse, "che ve ne pare del nostro innamorato?" 
      "Diavolo,  mi sembra un po' freddo, non c'è dubbio: ma che volete? 
      Vi siete impegnato." 
      "Senza dubbio mi sono impegnato,  ma a dare mia figlia ad un  uomo 
      che  l'ami,  e non ad un uomo che non l'ama affatto.  Vedetelo là, 
      freddo come  marmo,  orgoglioso  come  suo  padre...  Fosse  ricco 
      almeno,  avesse  la  fortuna  del  Cavalcanti,  si potrebbe passar 
      sopra... In fede mia,  non ho ancora consultato mia figlia,  ma se 
      lei avesse buon senso..." 
      "Beh"  disse  Montecristo,  "non  so se sia la mia amicizia che mi 
      acceca,  ma vi assicuro che il signor  Morcerf  è  un  giovane  di 
      qualità che presto o tardi riuscirà in qualche cosa, e, infine, la 
      posizione di suo padre è eccellente!" 
      "Hum!" fece Danglars. 
      "Perché questo dubbio?" 
      "Vi è sempre il passato... passato oscuro." 
      "Ma il passato del padre non ha niente a che fare coi figli." 
      "Sì è vero però..." 
      "Orsù, non vi scaldate la testa... Un mese fa questo matrimonio vi 
      pareva  un  eccellente affare...  Ma,  come ben capirete,  io sono 
      afflittissimo: fu in casa mia  che  voi  avete  incontrato  questo 
      giovane Cavalcanti, che io non conosco, ve lo ripeto." 
      "Lo conosco io" disse Danglars, "e basta così." 
      "Voi lo conoscete? Avete dunque preso informazioni sul suo conto?" 
      domandò Montecristo. 
      "E c'è bisogno di questo?  Non si conosce subito a prima vista con 
      chi si ha a che fare?... Prima di tutto è ricco..." 
      "Non lo assicuro." 
      "Voi però rispondete per lui." 
      "Di una miseria, di cinquantamila franchi." 
      "Ha un'educazione distinta." 
      "Hum!" fece a sua volta Montecristo. 
      "Conosce la musica." 
      "Tutti gli italiani la conoscono." 
      "Vedete, conte, siete ingiusto con questo giovane." 
      "Ebbene, sì, lo confesso... Vedo a malincuore, conoscendo i vostri 
      impegni coi Morcerf,  che quello venga in tal modo  a  incagliare, 
      abusando del nome e della sua fortuna..." 
      Danglars si mise a ridere. 
      "Oh,  come  siete  puritano!" esclamò.  "Ma questo avviene tutti i 
      giorni nel mondo." 
      "Voi però non potete rompere così,  mio caro Danglars;  i  Morcerf 
      contano su tale matrimonio." 
      "Ci contano?" 
      "Io credo." 
      "Allora  si  spieghino!  Dovreste spendere due parole col padre su 
      questo argomento,  caro conte,  voi che siete  tanto  nelle  buone 
      grazie della famiglia..." 
      "Io, e come diavolo potete assicurarlo?" 
      "Oh,  dopo  il loro ballo,  sì.  Come?  La contessa,  l'orgogliosa 
      Mercedes,  la sdegnosa catalana,  che si degnò appena di rivolgere 
      la  parola  alle  sue  più antiche conoscenze,  vi ha preso per il 
      braccio, è uscita con voi nel giardino,  si è internata nei viali, 
      e non è ricomparsa che mezz'ora dopo." 
      "Ah,  barone, barone! Voi c'impedite di udire" disse Alberto. "Per 
      un melomane come voi, questa è una vera barbarie!" 
      "Sta bene, sta bene, signor motteggiatore" disse Danglars. 
      Quindi volgendosi a Montecristo: 
      "V'incaricate di parlare al padre?" 
      "Volentieri, se lo desiderate." 
      "Ma questa  volta  si  faccia  in  modo  esplicito  e  definitivo; 
      soprattutto  mi  domandi mia figlia,  fissi un'epoca,  dichiari le 
      condizioni per il denaro, finalmente si stabilisca o si rompa: ma, 
      capite bene, non più dilazioni." 
      "Ebbene, la dichiarazione sarà fatta." 
      "Non dirò che l'aspetto  con  piacere,  ma  infine  l'aspetto:  un 
      banchiere lo sapete, deve essere obbediente alla sua parola." 
      E  Danglars  mandò fuori uno di quei sospiri sul tipo di quelli di 
      Cavalcanti mezz'ora prima. 
      "Bravi, bravo, brava" gridò Morcerf, facendo parodia al banchiere, 
      e applaudendo alla fine  del  pezzo.  Danglars  cominciava  già  a 
      guardare Alberto di traverso, quando gli vennero a dire due parole 
      all'orecchio. 
      "Ritorno"  disse il banchiere a Montecristo,  "aspettatemi,  forse 
      dovrò dirvi due parole fra poco." 
      Ed uscì. 
      La baronessa approfittò dell'assenza di suo marito per  aprire  la 
      porta dello studio di sua figlia, e vide il signor Andrea, che era 
      seduto davanti al pianoforte con la signorina Eugenia,  alzarsi in 
      fretta. Alberto salutò sorridendo la signorina Danglars che, senza 
      mostrarsi turbata,  gli rese il saluto con la consueta  freddezza. 
      Cavalcanti parve evidentemente imbarazzato; salutò Morcerf che gli 
      rese il saluto col fare più impertinente del mondo. 
      Allora  Alberto  cominciò  a  effondersi in elogi sulla voce della 
      signorina Danglars,  e sul dispiacere che  provava  per  non  aver 
      potuto  assistere  alla  serata  del  giorno innanzi.  Cavalcanti, 
      lasciato solo, prese a parte Montecristo. 
      "Orsù" disse  la  signora  Danglars.  "Tregua  alla  musica  e  ai 
      complimenti... Volete prendere il tè?" 
      "Vieni, Luigia" disse la signorina Danglars all'amica. 
      Passarono nel salotto vicino, dove infatti era preparato il tè. Al 
      momento  in  cui  si  cominciava,  all'uso  inglese,  a lasciare i 
      cucchiaini entro le tazze,  la porta si riaprì,  ed entrò Danglars 
      agitatissimo.  Montecristo  più  di tutti notò quell'agitazione ed 
      interrogò il banchiere con l'occhio. 
      "Accidenti!" disse Danglars.  "Ricevo in  questo  momento  il  mio 
      corriere dalla Grecia." 
      "Oh,  oh!"  disse  il  conte.  "E'  per  questo  che  siete  stato 
      chiamato?" 
      "Sì." 
      "Come sta il re Ottone?" domandò Alberto col tono più scherzoso. 
      Danglars lo guardò di traverso senza rispondergli,  e  Montecristo 
      si  volse  per  nascondere  il senso di commiserazione che gli era 
      comparso sul viso. 
      "Noi ce ne andremo assieme, non è vero?" disse Alberto al conte. 
      "Sì, se volete" rispose questi. 
      Alberto non poteva capir nulla del contegno del banchiere,  quindi 
      volgendosi verso Montecristo che aveva perfettamente capito: 
      "Avete visto" disse, "come mi ha guardato?" 
      "Sì" rispose il conte, "ma trovate qualche cosa di particolare nel 
      suo sguardo?" 
      "C'è qualcosa di ostile...  Ma che vuol dire con le sue notizie di 
      Grecia?" 
      "E come volete che lo sappia io?" 
      "Perché, a quanto presumo, avete delle relazioni in quel paese." 
      Montecristo sorrise,  come sorride sempre chi vuole  esimersi  dal 
      rispondere. 
      "Osservate" disse Alberto, "eccolo che vi si avvicina... Io vado a 
      fare  i  miei  complimenti alla signorina Danglars sul suo cammeo, 
      intanto il padre potrà parlarvi." 
      "Se le fate dei complimenti,  fateli almeno sulla sua voce"  disse 
      Montecristo. 
      "No, perché è quello che fanno tutti." 
      "Mio   caro   visconte"  disse  Montecristo,   "avete  la  fatuità 
      dell'impertinenza." 
      Alberto si avanzò verso Eugenia col sorriso sulle labbra, Danglars 
      si accostò all'orecchio del conte. 
      "Voi mi avete dato un eccellente consiglio" disse.  "C'è un'intera 
      ed orribile storia sopra le due parole Fernando e Giannina." 
      "Ah, bah!" esclamò Montecristo. 
      "Sì, vi racconterò tutto, ma conducete via il giovane. Mi troverei 
      troppo imbarazzato a restare ora con lui." 
      "E quel che faccio, mi accompagna. Ora, è ancora necessario che vi 
      mandi suo padre?" 
      "Sì, più che mai." 
      "Bene." 
      Il conte fece un segno ad Alberto. Entrambi salutarono le signore, 
      e  uscirono:  Alberto  con  aria  del  tutto  indifferente  per la 
      freddezza della signorina Danglars,  Montecristo  rinnovando  alla 
      signora  Danglars  il  consiglio  sulla prudenza che deve avere la 
      moglie di un banchiere,  nell'assicurarsi il proprio avvenire.  Il 
      signor Cavalcanti rimase padrone del campo di battaglia. 
 
 
 
 
                                 Capitolo 76. 
                                   HAYDEE. 
 
 
      Non  appena  i  cavalli del conte voltarono l'angolo del bastione, 
      Alberto si volse al conte scoppiando in una risata  così  rumorosa 
      da non parer naturale. 
      "Amico" gli disse, "io vi domanderò come re Carlo Nono domandava a 
      Caterina  de'  Medici  dopo la giornata di San Bartolomeo: come vi 
      pare che abbia rappresentata la mia parte?" 
      "A quale proposito?" domandò Montecristo. 
      "Ma a proposito della installazione del mio  rivale  in  casa  del 
      signor Danglars..." 
      "Quale rivale?" 
      "Per  Bacco,  quale rivale?  Il vostro protetto,  il signor Andrea 
      Cavalcanti." 
      "Lasciate  da  parte  gli  scherzi,  visconte,   io  non  proteggo 
      assolutamente il signor Andrea, almeno presso il signor Danglars." 
      "Vi  farei  forse  un rimprovero,  se il giovane avesse bisogno di 
      protezione? Ma, fortunatamente per me, può farne senza." 
      "Come, voi credete che le faccia la corte?" 
      "Ve ne assicuro io! Fa girate d'occhi da spasimante, e modula note 
      da innamorato: aspira alla mano della orgogliosa Eugenia." 
      "Che importa, se pensa a voi?" 
      "Non dite questo, mio caro conte,  mi si scava il terreno sotto da 
      due parti." 
      "Come da due parti?" 
      "Sicuro!  La  signorina  Eugenia  mi  ha  risposto  appena,  e  la 
      signorina d'Armilly non mi ha dato nemmeno risposta." 
      "Sì, ma il padre vi adora" disse Montecristo. 
      "Lui? Mi ha piantato mille pugnali nel cuore,  pugnali con la lama 
      che  rientra  nel  manico,  pugnali da tragedia,  ma ch'egli crede 
      taglienti e ben penetranti." 
      "La gelosia scopre l'amore." 
      "Sì, ma io non sono geloso." 
      "Lo è ben lui." 
      "Di chi? di Debray?" 
      "No, di voi." 
      "Di me?  Ci scommetto che prima di otto giorni  mi  ha  chiuso  la 
      porta sul naso." 
      "V'ingannate, mio caro visconte." 
      "Una prova." 
      "La volete?" 
      "Sì." 
      "Sono  incaricato  di pregare il conte Morcerf di fare una domanda 
      definitiva al barone." 
      "Da chi?" 
      "Dallo stesso barone." 
      "Oh!" disse Alberto con tutta la storditezza di  cui  era  capace. 
      "Voi non lo farete, è vero, mio caro conte?" 
      "V'ingannate, Alberto, io lo farò, poiché l'ho promesso." 
      "Allora"  disse Alberto con un sospiro,  "pare che vi stia molto a 
      cuore ch'io prenda moglie." 
      "Io ho a cuore di stare in buon accordo con tutti.  Ma a proposito 
      di Debray: non lo vedo più dalla baronessa..." 
      "C'è del torbido." 
      "Con la signora?" 
      "No, col signore." 
      "Si è dunque accorto di qualche cosa?" 
      "Ah, che bella facezia!" 
      "Credete  che  già  ne  sospettasse?"  disse Montecristo con finta 
      ingenuità. 
      "Ma da dove venite, voi dunque, mio caro conte?" 
      "Dal Congo, se volete." 
      "Non è ancora abbastanza lontano." 
      "Conosco forse i vostri mariti parigini?" 
      "Eh, mio caro conte, i mariti sono eguali dappertutto. Dal momento 
      che in un paese ne avete studiato un campione, ne avete conosciuto 
      la razza." 
      "Ma allora che cosa ha potuto causare questo malinteso fra  Debray 
      e Danglars? Pareva che andassero d'accordo!" disse Montecristo con 
      la stessa ingenuità. 
      "Ah,  ecco,  noi rientriamo nei misteri d'Iside, ed io non sono un 
      iniziato.  Quando il signor Cavalcanti sarà della famiglia potrete 
      domandarlo a lui." 
      La carrozza si fermò. 
      "Eccoci  arrivati"  disse  Montecristo.  "Non  sono che le dieci e 
      mezzo, salite da me." 
      "Ben volentieri." 
      "La carrozza vi accompagnerà a casa." 
      "No, grazie, il mio calesse deve averci seguiti." 
      "Infatti, eccolo" disse Montecristo saltando a terra. 
      Tutti e due entrarono in casa, e quindi nella sala già illuminata. 
      "Ordinate il tè, Battistino" disse Montecristo. 
      Battistino uscì senza dir parola;  due secondi dopo ricomparve con 
      una sottocoppa completamente servita,  e che,  come nelle commedie 
      di fate, sembrava sorgere da sottoterra. 
      "Davvero" disse Morcerf,  "quello che  ammiro  in  voi  non  è  la 
      ricchezza,  vi sono forse persone più ricche di voi,  e neanche lo 
      spirito, Beaumarchais ne aveva tanto quanto voi, bensì il modo con 
      cui siete servito,  senza che vi sia  risposta  una  parola...  al 
      minuto,  al secondo... Come se si indovinasse dal modo che suonate 
      quello che desiderate,  e come se tutto ciò che desiderate  avere, 
      sia già tutto pronto." 
      "Ciò che dite è in parte vero.  Conoscono le mie abitudini...  Per 
      esempio,  osservate: desiderate fare qualche cosa mentre bevete il 
      tè?" 
      "Per Bacco, desidero fumare." 
      Montecristo si avvicinò al campanello,  e batté un colpo.  Dopo un 
      secondo si aprì una porta riservata,  e comparve Alì con due  pipe 
      turche piene di eccellente "latakiè". 
      "E' una cosa mirabile!" disse Morcerf. 
      "Anzi semplicissima" riprese Montecristo. "Alì sa che prendendo il 
      tè, o il caffè, ordinariamente io fumo, sa che ho domandato il tè, 
      sa  che  sono  tornato  con  voi,  viene chiamato e non dubita del 
      perché,  e siccome è di un paese in cui l'ospitalità  si  esercita 
      particolarmente  con la pipa,  invece di un "chibouque",  ne porta 
      due." 
      "Questa certamente è una spiegazione come le  altre,  non  è  però 
      meno vero che siete soltanto voi... Oh, ma che cosa mai ascolto?" 
      E  Morcerf  s'inchinò  verso la porta,  dalla quale effettivamente 
      emanavano suoni simili a quelli di una chitarra. 
      "Davvero,  mio caro visconte,  siete destinato  ad  udire  musica; 
      fuggite  il pianoforte della signorina Danglars,  per cadere nella 
      "guzla" d'Haydée." 
      "Haydée!  Che nome adorabile!  Vi  sono  dunque  delle  donne  che 
      veramente  si chiamano Haydée,  oltre quelle che sono nominate nei 
      poemi di lord Byron?" 
      "Certamente; Haydée è un nome rarissimo in Francia, ma comunissimo 
      in Albania e nell'Epiro;  è come  se  voi  diceste,  per  esempio, 
      Castità, Pudore, Innocenza, è una specie di nome di battesimo come 
      dicono i cristiani." 
      "Oh,  quanto è grazioso!" disse Alberto. "Quanto vedrei volentieri 
      le nostre francesi chiamarsi signorina Bontà,  signorina Silenzio, 
      signorina Carità Cristiana! Dite dunque, se la signorina Danglars, 
      invece  di  chiamarsi Chiara-Maria-Eugenia,  come la chiamano,  si 
      chiamasse signorina Castità-Pudore-Innocenza  Danglars,  diavolo!, 
      che effetto farebbe nelle pubblicazioni matrimoniali!" 
      "Pazzo!" disse il conte.  "Non scherzate così ad alta voce! Haydée 
      potrebbe udirvi." 
      "E se ne inquieterebbe?" 
      "No" rispose il conte, con la sua aria grave. 
      "E' buona?" domandò Alberto. 
      "Non è bontà, è dovere: una schiava non deve inquietarsi contro il 
      suo padrone." 
      "Orsù,  via,  adesso non scherzate!  Forse ci  sono  ancora  degli 
      schiavi?" 
      "Senza dubbio, poiché Haydée è mia schiava." 
      "Infatti  voi non fate niente,  e non avete niente come gli altri. 
      Schiava del signor conte di Montecristo! E succede in Francia!  Al 
      modo  con  cui  rimescolate  l'oro,  è un impiego che deve costare 
      almeno centomila scudi l'anno." 
      "Centomila scudi!  La povera ragazza ne ha posseduti ben altri che 
      questi:  è  venuta al mondo,  e ha dormito sopra tesori tali,  che 
      quelli delle Mille e una notte sono ben poca cosa." 
      "E' dunque proprio una principessa?" 
      "Lo avete detto, ed è anche una delle più grandi del suo paese." 
      "Non ne dubitavo.  Ma in che modo una gran principessa è  divenuta 
      schiava?" 
      "In  qual  modo  Dionigi il tiranno diventò maestro di scuola?  La 
      guerra, mio caro visconte, e il capriccio della sorte." 
      "E il suo nome è un segreto?" 
      "Per tutti sì, ma non per voi, mio caro visconte. Siete mio amico, 
      e tacerete, non è vero? Se lo promettete..." 
      "Oh, sul mio onore!" 
      "Conoscete voi la storia del Pascià di Giannina?" 
      "D'Alì-Tebelen?  Senza dubbio,  poiché fu al suo servizio che  mio 
      padre ha fatto fortuna." 
      "E' vero, me n'ero dimenticato." 
      "Ebbene, che cosa è Haydée rispetto ad Alì-Tebelen?" 
      "Non altro che sua figlia." 
      "Come, la figlia di Alì-Pascia!..." 
      "Sì, e della bella Valisiki." 
      "Ed è vostra schiava?" 
      "Oh, mio Dio, sì." 
      "In che modo?" 
      "Diavolo,  un giorno sono passato sul mercato di Costantinopoli, e 
      l'ho comprata." 
      "Cosa meravigliosa! Con voi,  mio caro conte,  non si vive,  ma si 
      sogna.  Ora  ascoltate,  forse  però  la  mia  domanda sarà troppo 
      indiscreta..." 
      "Dite pure." 
      "Ma poiché uscite con lei, poiché la conducete all'Opera..." 
      "E poi?" 
      "Posso bene arrischiare di domandarvelo?" 
      "Potete arrischiare di domandarmi tutto quello che volete." 
      "Ebbene, mio caro conte, presentatemi ad Haydée." 
      "Volentieri, ma a due condizioni." 
      "Le accetto subito." 
      "La  prima  è  che  voi  non  confiderete  mai  ad  alcuno  questa 
      presentazione." 
      "Benissimo" disse Morcerf, "lo prometto." 
      E stese la mano. 
      "La  seconda  è  che  non direte che vostro padre abbia servito il 
      suo." 
      "Prometto anche questo." 
      "A meraviglia, visconte... Non dimenticherete queste due promesse, 
      non è vero?" 
      "Oh!" esclamò Alberto. 
      "Benissimo. So che siete un uomo d'onore." 
      Il conte batté di nuovo sul campanello. Alì ricomparve. 
      "Avvertite Haydée" gli disse,  "che vado a prendere  il  caffè  da 
      lei,   e   fatele  comprendere  che  le  domando  il  permesso  di 
      presentarle uno dei miei amici." 
      Alì s'inchinò, e uscì. 
      "In  tal  modo,  è  convenuto,   nessuna  domanda  diretta,   caro 
      visconte...  Se  desiderate sapere qualche cosa,  domandatelo a me 
      che la chiederò." 
      "Siamo d'accordo." 
      Alì ricomparve per la terza volta,  e tenne la portiera  sollevata 
      per indicare al suo padrone e ad Alberto, che potevano passare. 
      "Entriamo" disse Montecristo. 
      Alberto si passò una mano nei capelli, e si arricciò i baffi, e il 
      conte riprese il cappello,  si mise i guanti, e precedette Alberto 
      nell'appartamento,  che era sorvegliato da Alì e difeso dalle  tre 
      cameriere francesi agli ordini di Myrtho. 
      Haydée  aspettava  nella  prima stanza,  che era la sala,  con due 
      grand'occhi  dilatati  dallo  stupore:  era  la  prima  volta  che 
      giungeva fino a lei un uomo,  oltre Montecristo.  Era seduta sopra 
      un sofà, in un angolo,  colle gambe in croce al disotto,  e si era 
      fatto,  per  così  dire,  un  nido delle stoffe di seta broccate e 
      rigate, le più ricche d'Oriente.  Vicino a lei la "guzla",  il cui 
      suono  aveva  colpito  Morcerf:  in quella posa era graziosissima. 
      Vedendo Montecristo,  si sollevò con quel doppio sorriso di figlia 
      e  di  amante che era tutto suo;  Montecristo le si accostò,  e le 
      stese la mano,  sulla quale,  come d'uso,  lei appoggiò le labbra. 
      Alberto  era  rimasto  sulla  soglia,  preso dal fascino di quella 
      strana bellezza, così estranea alla Francia. 
      "Chi mi porti?" domandò in greco la  giovane  a  Montecristo,  "un 
      fratello, un amico, una semplice conoscenza, o un nemico?" 
      "Un amico" rispose Montecristo nella stessa lingua. 
      "Il suo nome?" 
      "Il conte Alberto, quello stesso che a Roma liberai dalle mani dei 
      banditi." 
      "In quale lingua vuoi che gli parli?" 
      Montecristo si voltò ad Alberto. 
      "Sapete il greco moderno?" domandò al giovane. 
      "Ahimè" disse Alberto,  "neppure il greco antico,  mio caro conte! 
      Mai Omero e Platone hanno avuto uno scolaro più duro e direi quasi 
      più sdegnoso, di me." 
      "Allora" disse Haydée,  provando con la domanda stessa  che  aveva 
      capito  la  domanda  di Montecristo e la risposta di Alberto,  "io 
      parlerò in francese o in italiano: se il  mio  signore  vuole  che 
      parli." 
      Montecristo rifletté un istante. 
      "Parlerai in italiano" disse. 
      Poi volgendosi ad Alberto: 
      "Mi  spiace che non intendiate il greco moderno o il greco antico, 
      Haydée li parla entrambi mirabilmente...  La povera  ragazza  sarà 
      costretta a parlarvi in italiano, cosa che forse vi darà una falsa 
      idea di lei." 
      Egli fece un segno a Haydée. 
      "Sia  benvenuto l'amico che viene col mio signore e padrone" disse 
      la giovane in eccellente toscano,  e con quel dolce accento romano 
      che rende sonora la lingua di Dante al pari di quella d'Omero. 
      "Alì, portate il caffè e le pipe." 
      E  Haydée  fece  un  gesto  con la mano ad Alberto di avvicinarsi, 
      mentre Alì si ritirava per eseguire gli ordini  della  padroncina. 
      Montecristo  mostrò  ad  Alberto  due "pliant",  e ciascuno andò a 
      prendere il suo per avvicinarlo ad una specie di  candelabro,  con 
      un paniere al centro,  sovraccarico di fiori naturali, di disegni, 
      di album e di musica. 
      Alì rientrò, portando il caffè e le pipe;  in quanto a Battistino, 
      questa parte dell'appartamento gli era interdetta. Alberto rifiutò 
      la pipa che gli presentava il moro. 
      "Oh,  prendete,  prendete" disse Montecristo. "Haydée è incivilita 
      quasi al pari di una parigina:  il  fumo  degli  avana  le  riesce 
      ingrato,  perché non ama i cattivi odori,  ma come ben sapete,  il 
      tabacco d'Oriente è un profumo." 
      Alì uscì.  Le tazze di caffè erano  già  preparate;  soltanto  era 
      stata  aggiunta una zuccheriera per Alberto.  Montecristo e Haydée 
      bevevano il liquore arabo alla maniera  degli  arabi,  cioè  senza 
      zucchero.  Haydée allungò la mano,  e presa con la punta delle sue 
      dita rosee ed affilate la tazza di porcellana del Giappone,  se la 
      portò  alle  labbra  con  l'ingenuo piacere di un bimbo che beve o 
      mangia una cosa che gli piace.  Nello stesso tempo  entrarono  due 
      donne,  portando due sottocoppe piene di gelati e di sorbetti, che 
      deposero sopra due tavolini da dessert. 
      "Mio caro ospite,  e voi,  signora"  disse  Alberto  in  italiano, 
      "scusate  il  mio  stupore.   Sono  tutto  stordito,   ed  è  cosa 
      naturalissima, poiché mi trovo in Oriente,  nel vero Oriente,  non 
      come  l'avrei  potuto vedere,  ma come lo sogno,  in piena Parigi, 
      dove poco fa udivo scorrere gli omnibus, e tintinnare i campanelli 
      dei mercanti di limonata. Oh,  signora,  perché mai non so parlare 
      il greco!  La vostra conversazione,  con tutto ciò che vi circonda 
      d'incantevole,  darebbe la piena armonia a una serata  di  cui  mi 
      ricorderei per sempre." 
      "Io  parlo  abbastanza  bene  l'italiano  per  discorrere con voi, 
      signore" disse tranquillamente Haydée.  "Se  vi  piace  l'Oriente, 
      farò del mio meglio perché lo troviate qui." 
      "Di   che   cosa  debbo  parlare?"  domandò  sottovoce  Alberto  a 
      Montecristo. 
      "Di tutto ciò che volete: del suo paese,  della sua gioventù,  dei 
      suoi ricordi,  oppure,  se così preferite, di Roma, di Napoli o di 
      Firenze." 
      "Oh" disse Alberto,  "sarebbe un'indegnità  avere  davanti  questa 
      bella  greca,  e  parlare  come  si  parlerebbe  ad  una parigina! 
      Lasciate ch'io le parli dell'Oriente..." 
      "Fate pure, mio caro Alberto, è il discorso a lei più gradevole." 
      Alberto si voltò verso Haydée. 
      "A quale età la signora ha lasciato la Grecia?" domandò. 
      "A cinque anni" rispose Haydée. 
      "Vi ricordate ancora della vostra patria?" domandò Alberto. 
      "Quando chiudo gli occhi,  rivedo tutto ciò che ho visto.  Vi sono 
      due  sguardi,  lo sguardo del corpo può qualche volta dimenticare, 
      quello dell'anima non dimentica mai." 
      "Qual è l'epoca più lontana di cui vi ricordate?" 
      "Io camminavo appena,  mia  madre  che  si  chiamava  Vasiliki,  e 
      Vasiliki vuol dire reale" aggiunse la giovane donna, sollevando la 
      testa,  "mia madre mi prendeva per mano, ed entrambe coperte da un 
      velo,  dopo aver messo nel  fondo  della  borsa  tutto  l'oro  che 
      possedevamo,  andavamo  a domandare l'elemosina per i prigionieri, 
      dicendo: "Chi dà ai poveri, presta all'Eterno". Quindi, siccome la 
      nostra borsa era piena,  ritornavamo  al  palazzo,  e,  senza  dir 
      niente  a  mio  padre,  mandavamo  tutto  il  denaro della questua 
      all'elemosiniere del convento che lo divideva fra i prigionieri." 
      "Ed a quell'epoca quanti anni avevate?" 
      "Tre anni" rispose Haydée. 
      "Allora vi ricorderete di tutto ciò  che  accadde  intorno  a  voi 
      all'età di tre anni?" 
      "Di tutto." 
      "Conte"   disse   sottovoce   Morcerf  a  Montecristo,   "dovreste 
      permettere alla signora di  raccontarci  qualche  cosa  della  sua 
      storia.  Voi mi avete proibito di parlarle di mio padre,  ma forse 
      me ne parlerà lei stessa,  e voi non potete comprendere come sarei 
      felice di udire il nostro nome proferito da una bocca così bella." 
      Montecristo  si  volse ad Haydée,  e con un segno di sopracciglio, 
      col quale le indicava di  prestare  la  maggiore  attenzione  alla 
      raccomandazione che stava per farle, le disse in greco: 
      "Raccontaci  la  sorte  di tuo padre,  ma guardati dal nominare il 
      traditore e il tradimento." 
      Haydée mandò un lungo sospiro,  e una tetra nube passò  su  quella 
      fronte pura. 
      "Che cosa le avete detto?" domandò sottovoce Morcerf. 
      "Le  ho ripetuto che siete un mio amico,  e che non nasconda nulla 
      davanti a voi." 
      "Dunque il vostro pio pellegrinaggio" disse  Alberto,  "in  favore 
      dei prigionieri, è il vostro primo ricordo... E che cosa ricordate 
      poi?" 
      "Poi?  Io mi vedo sotto l'ombra dei sicomori, vicina ad un lago, e 
      ne scorgo ancora,  attraverso il fogliame,  il  tremulo  specchio: 
      appoggiato  al  più  vecchio e più fronzuto,  mio padre era seduto 
      sopra cuscini ed io,  debole creatura,  mentre mia madre  gli  era 
      stesa  ai  piedi,  io giocavo con la barba bianca che gli scendeva 
      sul petto e col "cancjar" dalla impugnatura di diamanti,  che  gli 
      pendeva  dalla  cinta...  Ogni  tanto  gli  si  presentavano degli 
      albanesi dicendogli parole a cui io non prestavo attenzione,  e  a 
      cui  lui rispondeva sempre con lo stesso tono di voce: "Uccidete!" 
      o "fate grazia!"." 
      "E' strano" disse Alberto,  "udire cose simile uscire dalla  bocca 
      di  una  giovane  donna in tutt'altro luogo che a teatro,  e dover 
      dire "non è una finzione"." 
      Quindi le chiese: 
      "Con  un  orizzonte   così   poetico,   con   queste   rimembranze 
      meravigliose, che impressione può farvi la Francia?" 
      "Io credo che sia un bel paese" disse Haydée.  "Ma vedo la Francia 
      com'è,  perché la vedo con gli occhi di donna,  mentre ho visto il 
      mio paese con occhi di bambina,  e sempre avvolto da nebbia tetra, 
      o luminosa,  a seconda che i ricordi mi richiamino alla  mente  la 
      patria come luogo di dolcezze o di amari patimenti." 
      "Così giovane,  signora" disse Alberto,  cedendo suo malgrado alla 
      forza  della  leggerezza,  "come  avete,   così  piccola,   potuto 
      soffrire?" 
      Haydée  voltò  gli  occhi  verso  Montecristo,  che  con  un segno 
      impercettibile, mormorò: 
      "Eipè (racconta)." 
      "Nulla  è  così  scolpito  in  fondo  all'anima,   come  le  prime 
      rimembranze,  e tranne le due che vi ho dette, tutte le altre sono 
      tristissime." 
      "Parlate,  parlate,  signora" disse  Alberto,  "vi  giuro  che  vi 
      ascolto con inesprimibile trasporto." 
      Haydée sorrise mestamente. 
      "Volete dunque che vi racconti gli altri miei ricordi?" disse. 
      "Ve ne supplico" insistette Alberto. 
      "Dunque,  noi eravamo nel palazzo di Giannina, quando una sera fui 
      svegliata da mia madre. Nell'aprirsi,  i miei occhi s'incontrarono 
      nei suoi pieni di lacrime: mi prese coi cuscini sui quali dormivo, 
      e mi trasportò fuori senza dir parola.  Vedendola piangere,  stavo 
      io pure per lasciarmi andare al pianto. 
      "Silenzio, bimba mia" disse lei. 
      Spesso, malgrado le consolazioni o le minacce materne, capricciosa 
      come tutti i bambini, continuavo a piangere, ma quella volta c'era 
      negli occhi  della  mia  povera  madre  una  tale  espressione  di 
      terrore,  che tacqui nel medesimo istante.  Lei camminava a rapidi 
      passi. Mi accorsi allora che scendevamo una larga scala, davanti a 
      noi tutte le donne di mia madre, portando bauli, sacchetti oggetti 
      di ornamento, gioielli e borse d'oro,  scendevano,  o piuttosto si 
      precipitavano.  Dietro  alle  donne  veniva  una  scorta  di venti 
      uomini,  armati di lunghi fucili  e  di  pistole,  e  vestiti  con 
      quell'abito  che conoscete in Francia dopo che la Grecia è tornata 
      nazione.  C'era qualcosa di sinistro,  credetelo" soggiunse Haydée 
      scuotendo la testa e impallidendo a tale ricordo, "in quella lunga 
      fila di schiavi e di donne oppresse dal sonno, o almeno tali me le 
      figuravo, io, che forse credevo gli altri addormentati, perché non 
      ero  ben desta.  Per le scale correvano ombre gigantesche,  che le 
      torce di frassino facevano tremolare sopra le volte. 
      "Affrettiamoci!" disse una voce dal fondo della galleria. 
      Quella voce fece incurvare tutti,  come il  vento  passando  sulla 
      pianura  fa curvare un campo di spighe.  Io invece ne rabbrividii: 
      era la voce di mio padre. Ci seguiva,  ultimo,  con indosso le sue 
      splendide  vesti,  tenendo in mano la carabina,  che gli era stata 
      regalata dal vostro imperatore; e, appoggiato al suo fedele Selim, 
      ci spingeva avanti, come fa un pastore col suo gregge sparso.  Mio 
      padre" disse Haydée,  rialzando la testa, "era quell'uomo illustre 
      che l'Europa ha conosciuto sotto il nome d'Alì-Tebelen,  pascià di 
      Giannina, e davanti al quale la Turchia ha tremato." 
      Alberto,  senza  sapere  perché,  fremeva nell'udire queste parole 
      pronunciate con un accento indefinibile di fermezza e di  dignità, 
      gli  pareva che qualche cosa di sinistro e spaventevole tralucesse 
      dagli occhi della giovane donna,  quando,  simile a pitonessa  che 
      evoca  uno  spettro,  rammentò  quella  insanguinata figura che la 
      morte   fece   comparire   gigantesca   agli   occhi   dell'Europa 
      contemporanea. 
      "Presto" continuò Haydée,  "si sospese la marcia: eravamo ai piedi 
      della scala e sulla riva del lago.  Mia madre mi premeva contro il 
      petto ansante,  ed io vidi,  due passi dietro a noi, mio padre che 
      girava da ogni lato lo  sguardo  inquieto.  Ci  rimanevano  ancora 
      quattro scalini da scendere,  e al termine del quarto ondulava una 
      barca. Dal luogo dove eravamo,  si vedeva innalzarsi nel mezzo del 
      lago  una  massa  nera:  era  l'isola  verso cui stavamo fuggendo. 
      Quest'isola   mi   sembrava   molto   lontana,   forse   a   causa 
      dell'oscurità.  Scendemmo  nella barca.  Mi ricordo che i remi non 
      facevano alcun rumore fendendo l'acqua.  Mi chinai per  guardarli: 
      erano  fasciati  con le cinture dei nostri palicari.  Nella barca, 
      oltre i rematori, stavano soltanto le donne, mio padre, mia madre, 
      Selim ed io. I palicari erano rimasti sulla riva del lago,  pronti 
      a  proteggere  la  ritirata,  inginocchiati  sull'ultimo  gradino, 
      facendosi riparo degli altri tre, nel caso fossero stati assaliti. 
      La nostra barca vogava come spinta dal vento. 
      "Perché la barca va così veloce?" domandai a mia madre. 
      "Zitta, figlia mia" disse, "perché noi fuggiamo." 
      Io non capii perché mio padre fuggisse,  lui  così  potente,  lui, 
      davanti  al  quale  fuggivano  gli altri,  lui che aveva preso per 
      divisa: "Mi odiano, dunque mi temono!. 
      Era infatti una fuga che mio padre faceva sul lago.  Mi  fu  detto 
      poi che la guarnigione del castello di Giannina,  stanca del lungo 
      servizio..." 
      Qui Haydée fermò il suo sguardo espressivo su Montecristo,  i  cui 
      occhi  non si erano staccati dai suoi.  La giovane continuò dunque 
      lentamente come fa chi inventa o modifica. 
      "Dicevate,  signora" riprese Alberto,  che poneva  la  più  grande 
      attenzione  a  quel  racconto,  "che  la  guarnigione di Giannina, 
      stanca del lungo servizio..." 
      "Aveva trattato con il generale Kourchid,  inviato dal sultano per 
      impadronirsi  di  mio  padre.  Fu  allora  che  mio padre prese la 
      risoluzione  di  ritirarsi,  dopo  avere  inviato  al  sultano  un 
      ufficiale   francese  in  cui  aveva  riposta  tutta  la  fiducia, 
      nell'asilo ch'egli stesso si era preparato da lungo  tempo  e  che 
      chiamava "kataphygion", cioè il suo rifugio." 
      "Vi  ricordate  il  nome  di  quest'ufficiale,  signora?"  domandò 
      Alberto. 
      Montecristo scambiò con la giovane donna uno sguardo  rapido,  che 
      rimase inosservato a Morcerf. 
      "No"  disse  lei,  "non  me  ne ricordo,  ma forse più tardi me ne 
      ricorderò, e lo dirò." 
      Alberto stava per pronunciare  il  nome  di  suo  padre,  allorché 
      Montecristo  alzò  dolcemente  il  dito  in segno di silenzio.  Il 
      giovane si ricordò il giuramento, e tacque. 
      "Era verso un palazzo sull'isola che noi vogavamo.  Un pianterreno 
      ornato di arabeschi,  che bagnava i suoi terrazzi nell'acqua, e un 
      primo piano che guardava sul lago,  ecco quanto il palazzo offriva 
      di   visibile   agli   occhi.   Ma  al  disotto  del  pianterreno, 
      prolungandosi nell'isola, c'era un sotterraneo,  una vasta caverna 
      dove fummo condotti,  mia madre, io e le nostre donne e dove erano 
      accatastati sessantamila borse e più di duecento barili. In queste 
      borse c'erano venticinque milioni in oro,  e nei barili trentamila 
      libbre di polvere. Vicino a quei barili stava Selim il favorito di 
      mio padre,  di cui vi ho parlato.  Vegliava giorno e notte, con la 
      lancia stretta in pugno,  all'estremità  della  quale  ardeva  una 
      miccia  accesa;  aveva  ordine  di  far saltare palazzo,  guardie, 
      pascià,  donne e oro al primo segnale di mio padre.  Io mi ricordo 
      che   i  nostri  schiavi,   conoscendo  quel  terribile  progetto, 
      passavano il giorno e la  notte  a  piangere,  pregare  e  gemere. 
      Quanto a me,  vedo sempre il giovane soldato, col colorito pallido 
      e l'occhio nero, e,  quando l'angelo della morte scenderà verso di 
      me, sono sicura che in lui tornerò ad incontrare Selim. 
      Non  vi  saprei  dire  quanti  giorni siamo rimasti in tale stato, 
      allora ignoravo  che  cosa  fosse  il  tempo.  Qualche  volta,  ma 
      raramente, mio padre faceva chiamare me e mia madre sulla terrazza 
      del palazzo. Erano per me ore di festa, poiché nel sotterraneo non 
      vedevo che ombre gementi, e la lancia ardente di Selim. Mio padre, 
      seduto  davanti  ad una grande apertura,  fissava un tetro sguardo 
      sul lontano orizzonte,  osservando a lungo ciascun punto nero  che 
      compariva  sul  lago,  mentre  mia  madre,  stesa  vicina  a  lui, 
      appoggiava la testa sulla sua spalla, ed io giocavo ai suoi piedi, 
      ammirando, con la meraviglia propria dell'infanzia che ingrandisce 
      sempre  gli  oggetti,   il   pendio   del   Pindo   che   s'ergeva 
      all'orizzonte,  i  castelli  di  Giannina che apparivano bianchi e 
      acuti sulle  acque  azzurre  del  lago,  i  cespugli  verdi  scuri 
      attaccati  come licheni alle rocce della montagna,  che di lontano 
      sembravano muschio,  ed erano invece  giganteschi  abeti  e  mirti 
      immensi. 
      Mio  padre  una  mattina ci fece chiamare.  Mia madre aveva pianto 
      tutta la notte,  e noi trovammo mio  padre  assai  calmo,  ma  più 
      pallido del consueto. 
      "Abbi pazienza,  Vasiliki" disse.  "Oggi tutto sarà finito, giunge 
      l'ordine del sultano,  e la mia sorte sarà decisa.  Se la grazia è 
      totale,  ritorneremo  trionfanti  a  Giannina:  se le notizie sono 
      cattive, fuggiremo stanotte." 
      "Ma se non ci lasciano fuggire?" soggiunse mia madre. 
      "Oh sta' tranquilla" rispose sorridendo,  "Selim e la  sua  lancia 
      accesa mi rispondono di loro;  vorrebbero bene che io morissi,  ma 
      non a condizione dl morire con me." 
      Mia madre non rispondeva che con sospiri a quelle parole  che  non 
      partivano dal cuore di mio padre.  Gli preparò l'acqua ghiacciata, 
      che mio padre beveva ad ogni istante,  poiché dopo la ritirata nel 
      palazzo era arso da febbre ardente; gli profumò la bianca barba, e 
      gli  accese la pipa,  di cui,  qualche volta per ore intere,  egli 
      seguiva con gli occhi il fumo a spire nell'aria. Ad un tratto fece 
      un gesto  così  rapido,  ch'io  ebbi  gran  paura.  Quindi,  senza 
      staccare gli occhi dal punto che fissava, domandò il cannocchiale. 
      Mia  madre  glielo  consegnò,  più pallida della statua contro cui 
      stava appoggiata. Vidi la mano di mio padre tremare. 
      "Una barca!... due!... tre!..." mormorò mio padre, "quattro!..." 
      E si alzò brandendo le armi,  e versando,  me  ne  ricordo,  della 
      polvere nelle sue pistole. 
      "Vasiliki"  disse  a  mia  madre,   con  visibile  tremito,  "ecco 
      l'istante che decide di noi: fra mezz'ora avremo la risposta della 
      Sublime Porta. Ritirati nel sotterraneo con Haydée." 
      "Io non voglio lasciarvi" disse Vasiliki.  "Se  voi  morrete,  mio 
      signore, voglio morire con voi." 
      "Andate presso Selim!" gridò mio padre. 
      "Addio,  signore" mormorò mia madre,  obbediente e rassegnata come 
      all'avvicinarsi della morte. 
      "Portate con voi Vasiliki!" disse mio padre ai suoi palicari. 
      Ma io, che ero dimenticata, corsi a lui, stendendogli le mani.  Mi 
      vide,  e chinandosi su di me, premette la mia fronte contro le sue 
      labbra. Oh,  quel bacio!  Fu l'ultimo,  ed è sempre impresso sulla 
      mia fronte. 
      Scendendo  distinguemmo,  attraverso le inferriate della terrazza, 
      le barche che ingrandivano sul  lago,  e,  simili  a  punti  neri, 
      sembravano  uccelli  radenti  la  superficie delle acque.  In quel 
      punto, nel palazzo, venti palicari, seduti ai piedi di mio padre e 
      nascosti dai cespugli,  spiavano con occhio sanguinoso l'arrivo di 
      quei  battelli,  e tenevano pronti i loro lunghi fucili incrostati 
      d'avorio e di argento;  cartucce in gran numero erano  sparse  sul 
      terreno.  Mio  padre  guardava  il  suo orologio e passeggiava con 
      angoscia.  Ecco ciò che mi colpì quando  lasciai  mio  padre  dopo 
      l'ultimo bacio che ricevetti da lui. 
      Mia  madre  ed io traversammo il sotterraneo.  Selim era sempre al 
      suo  posto;  ci  sorrise  con  tristezza.   Cercammo  dei  cuscini 
      dall'altra  parte  della  caverna,  e  sedemmo vicino a Selim: nei 
      grandi pericoli si cercano le persone affezionate, e sebbene fossi 
      piccola,  sentivo per istinto che una  gran  disgrazia  stava  per 
      avvenire." 
      Alberto aveva spesso udito raccontare,  non già da suo padre,  che 
      non ne parlava mai,  ma da due forestieri,  gli ultimi momenti del 
      pascià  di Giannina: aveva letto diversi racconti sulla sua morte: 
      ma quella storia divenuta palpitante racconto,  e  la  voce  della 
      giovane  donna,  quel vivo accento e quella lamentevole elegia gli 
      facevano provare un incanto ed un orrore inesprimibili. 
      In  quanto  ad  Haydée,   tutta  immersa   nelle   sue   terribili 
      rimembranze,  aveva  per un momento fatto silenzio: la sua fronte, 
      come fiore che si piega sotto l'uragano,  si era  inclinata  sulla 
      sua  mano,  ed  i  suoi  occhi  erranti sembravano scorgere ancora 
      all'orizzonte il Pindo verdeggiante,  e le acque azzurre del  lago 
      di Giannina,  specchio magnifico che rifletteva il tetro quadro di 
      cui faceva lo schizzo.  Montecristo la guardava  con  indefinibile 
      espressione di affetto e di pietà. 
      "Continua, figlia mia" disse il conte in lingua greca. 
      Haydée  rialzò  la  fronte,  come  se  le  parole  di  Montecristo 
      l'avessero tolta ad un sogno, e riprese: 
      "Erano le quattro della sera: ma,  benché il giorno fosse chiaro e 
      lucente  al  di  fuori,  noi  stavamo  immersi  nell'oscurità  del 
      sotterraneo. Una sola luce brillava nella caverna, come una stella 
      risplendente in un nero cielo,  ed era la  miccia  di  Selim.  Mia 
      madre era cristiana, e pregava. Selim ripeteva di tratto in tratto 
      queste  sante  parole:  "Dio  è  grande!".  Mia madre però nutriva 
      ancora  qualche  speranza.  Nel  discendere  le  era  sembrato  di 
      riconoscere il francese che era stato inviato a Costantinopoli,  e 
      nel quale mio padre aveva riposta ogni fiducia,  perché sapeva che 
      i  soldati  del re francese sono ordinariamente nobili e generosi: 
      si avanzò di qualche passo verso la scala ed ascoltò. 
      "Si avvicinano" disse. "Purché portino la pace e la vita!" 
      "Che temi,  Vasiliki?" disse Selim con la  voce  soave  e,  ad  un 
      tempo,  fiera.  "Se non portano la pace, daremo loro la guerra; se 
      non portano la vita, daremo loro la morte." 
      E destava il fuoco attaccato alla sua lancia con un gesto  che  lo 
      faceva somigliare a Dionisio nell'antica Creta. 
      Ma  io,  che ero così piccola e così ingenua,  avevo paura di quel 
      coraggio che trovavo feroce ed insensato,  e atterrivo  di  quella 
      morte  spaventosa nell'aria e fra le fiamme.  Mia madre provava le 
      stesse emozioni, perché la sentivo fremere. 
      "Mio Dio, mio Dio, mamma" gridai io. "Dobbiamo forse morire?" 
      Alla mia voce raddoppiarono i pianti e le preghiere degli schiavi. 
      "Fanciulla" mi disse Vasiliki,  "Dio ti salvi dal dovere un giorno 
      desiderare questa morte che oggi ti spaventa." 
      Quindi a bassa voce disse: 
      "Selim, qual è la consegna che hai ricevuto dal tuo signore?" 
      "S'egli  m'invia  il  pugnale,  è  segno che il sultano rifiuta di 
      fargli grazia, ed io do fuoco;  se m'invia l'anello è segno che il 
      sultano gli perdona, ed io libero la polveriera." 
      "Amico" riprese mia madre,  "quando giungerà l'ordine del padrone, 
      se t'invia il pugnale,  invece di ucciderci  entrambe  con  quella 
      morte che ci spaventa, ci ucciderai con quel pugnale?" 
      "Sì, Vasiliki" rispose tranquillamente Selim. 
      Ad  un tratto sentimmo come grandi grida;  ascoltammo: erano grida 
      di  gioia!   Il  nome  del  francese  che  era  stato  inviato   a 
      Costantinopoli  echeggiava  ripetuto  dai  nostri  palicari: certo 
      portava la  risposta  della  Sublime  Porta,  e  la  risposta  era 
      propizia..." 
      "E  non  ricordate il suo nome?" disse Morcerf pronto a soccorrere 
      la memoria della narratrice. 
      "Non me ne ricordo" rispose Haydée.  "Il  rumore  raddoppiava,  si 
      sentivano  passi  più  vicini,  qualcuno  scendeva  la  scala  del 
      sotterraneo.  Selim preparò la sua  lancia.  Ben  presto  comparve 
      un'ombra  nell'incerto  crepuscolo,  formato  da  quella  luce che 
      penetrava fin nell'ingresso del sotterraneo.  "Chi sei tu?"  gridò 
      Selim. "Chiunque tu sia, non fare un passo di più." 
      "Gloria  al  sultano"  disse  l'ombra.  "E'  fatta piena grazia al 
      pascià Alì,  e non solo ha salva la vita,  ma gli vengono  resi  i 
      beni e le sostanze." 
      Mia madre mandò un grido di gioia, e mi strinse al cuore. 
      "Fermati"  le  disse  Selim,  vedendo  che si slanciava di già per 
      uscire. "Tu sai che mi abbisogna l'anello." 
      "E' vero" disse mia madre. 
      E cadde in ginocchio levandomi verso  il  cielo,  come  se,  nello 
      stesso  tempo  che  pregava  Dio per me,  volesse anche sollevarmi 
      verso di Lui..." 
      E per la seconda volta Haydée si fermò, vinta da tale emozione che 
      il sudore le grondava dalla pallida fronte,  e la  voce  soffocata 
      sembrava non poterle uscire dall'arida gola.  Montecristo versò un 
      po' d'acqua gelata in un bicchiere,  e glielo  offerse,  dicendole 
      con una dolcezza da cui trapelava un'ombra di comando: 
      "Coraggio, figlia mia." 
      "Allora  i  nostri  occhi,   abituati  all'oscurità,   riconobbero 
      l'inviato del sultano; era un amico.  Selim lo aveva riconosciuto, 
      ma il bravo giovane non sapeva che una cosa: obbedire! 
      "In nome di chi vieni tu?" disse Selim. 
      "In nome del nostro padrone Alì-Tebelen." 
      "Se vieni in nome di Tebelen, saprai che cosa devi consegnarmi. 
      "Sì" rispose l'inviato, "ti porgo il suo anello." 
      E nello stesso tempo alzò la mano al di sopra della testa,  ma era 
      troppo lontana,  e faceva troppo buio perché  Selim  potesse,  dal 
      luogo ov'era distinguere e conoscere l'oggetto che gli presentava. 
      "Io non vedo ciò che tieni" disse Selim. 
      ' Avvicinati disse il messaggero, o mi avvicinerò io. 
      "Né  l'uno,  né  l'altro" rispose il giovane soldato.  "Deponi nel 
      posto ove sei,  sotto quel raggio di luce,  l'oggetto  che  tu  mi 
      mostri, e ritirati fino a che io l'abbia veduto. 
      "Ecco" disse il messaggero. 
      E  si  ritirò  dopo  aver  deposto  il  segno  convenuto nel luogo 
      indicato. Il nostro cuore palpitava,  perché l'oggetto ci sembrava 
      effettivamente  un  anello.  Ma  era quello l'anello di mio padre? 
      Selim,  tenendo  sempre  in  mano  la  miccia  accesa,   s'accostò 
      all'apertura,  e,  chinatosi sotto il raggio di luce,  raccolse il 
      segnale 
      "L'anello del mio signore" diss'egli baciandolo, "sta bene!" 
      E, rovesciando la miccia contro terra, vi pestò sopra il piede,  e 
      la spense. Il messaggero mandò un grido di gioia, e batté le mani. 
      A quel segnale accorsero quattro soldati del generale Kourchid,  e 
      Selim cadde trapassato da cinque colpi di pugnale.  Ebbri  per  il 
      loro  delitto,  quantunque ancora pallidi per la paura,  irruppero 
      nel  sotterraneo,   cercando  dappertutto  se  vi  era  fuoco,   e 
      rotolandosi sui sacchi d'oro. 
      Intanto mia madre mi prese nelle sue braccia,  e,  agile, correndo 
      per anditi ignoti, giunse fino alla scala segreta del palazzo, nel 
      quale regnava uno spaventoso tumulto.  Le  sottoposte  sale  erano 
      interamente  ripiene  di  "tchodoars" di Kourchid,  vale a dire di 
      nostri nemici,  e mentre mia madre stava per spingere la porticina 
      udimmo  la  voce del pascià risuonare terribile e minacciosa.  Mia 
      madre si pose in ascolto, e guardava dalle fessure d'un assito. 
      "Che cosa volete?" diceva mio padre a persone che tenevano in mano 
      una carta con caratteri d'oro. 
      "Che cosa vogliamo?" rispondeva una voce.  "Comunicarvi la volontà 
      di Sua Altezza. Vedi l'ordine?" 
      "Lo vedo" disse mio padre. 
      "Ebbene, leggi: domanda la tua testa!" 
      Mio  padre  ebbe  uno  scoppio di riso feroce,  e non aveva ancora 
      cessato,  che due colpi di pistola avevano ucciso  due  uomini.  I 
      palicari,  tutti  distesi intorno a mio padre con la faccia contro 
      il suolo, si alzarono allora, e fecero fuoco. La sala si riempì di 
      frastuono,  di fumo e di fiamme.  Nel medesimo  istante  il  fuoco 
      cominciò  dall'altro  lato,  e  le  pallottole  vennero  a  forare 
      l'assito intorno a noi. Oh, quanto era bello! quanto era grande il 
      pascià Alì-Tebelen,  mio padre,  in mezzo alle pallottole,  con la 
      scimitarra  alla  mano,  il viso annerito dalla polvere: oh!  come 
      fuggivano i suoi nemici! 
      "Selim!  Selim!  guardiano del fuoco!" gridò  egli,  "fa'  il  tuo 
      dovere!" 
      "Selim  è  morto"  rispose un'altra voce che sembrava uscire dalle 
      palizzate del palazzo, "e tu, Alì, sei perduto!" 
      Nello stesso tempo si udì una sorda  detonazione,  ed  il  recinto 
      saltò in schegge tutto intorno a mio padre. I "tchodoars" tiravano 
      attraverso  la  palizzata di legno: tre o quattro palicari caddero 
      feriti.  Mio padre  ruggì,  introdusse  le  dita  nei  fori  della 
      palizzata,  e strappò un'asse tutta intera.  Ma, nel tempo stesso, 
      venti colpi di moschetto partirono da quell'apertura, e la fiamma, 
      uscendo come da un cratere di vulcano, si appiccò alle tende, e in 
      mezzo a quelle grida  terribili,  due  colpi  più  distinti  degli 
      altri,  due  grida  più straziate delle altre mi agghiacciarono di 
      terrore.  Quei due colpi avevano ferito mio  padre;  quelle  grida 
      erano sue.  Però era rimasto in piedi, aggrappato ad una finestra. 
      Mia madre squassava la porta per correre a morire al  suo  fianco, 
      ma la porta era chiusa dal di dentro.  Intorno a lui i palicari si 
      contorcevano morenti;  due o tre che erano senza ferite,  o feriti 
      leggermente,  si lanciarono dalle finestre.  Nello stesso tempo il 
      palazzo di legno scricchiolò: mio padre cadde sopra un  ginocchio, 
      e  subito  venti  braccia  si  stesero sopra il suo capo armate di 
      sciabole,  di pistole e di pugnali: venti colpi  colpirono  ad  un 
      tratto,  e mio padre,  trafitto, scomparve in un turbine di fuoco, 
      attizzato da quei demoni ruggenti,  come  se  l'inferno  si  fosse 
      aperto sotto i suoi piedi.  Io mi sentii rotolare a terra; era mia 
      madre che cadeva svenuta." 
      Haydée lasciò cadere le braccia mandando un gemito, e guardando il 
      conte,  come per domandargli s'era contento della sua  obbedienza. 
      Il  conte  si  alzò,  andò a lei,  la prese per mano e le disse in 
      greco: 
      "Riposati cara ragazza, e riprendi coraggio,  pensando che vi è un 
      Dio per punire i traditori." 
      "Ecco una storia raccapricciante,  conte" disse Alberto, atterrito 
      dal pallore d'Haydée,  "ed ora  mi  pento  di  essere  stato  così 
      crudelmente indiscreto." 
      "Non è nulla" rispose Montecristo. 
      Quindi,  mettendo  una  mano  sulla  testa  della  giovane  donna: 
      "Haydée" continuò,  "è una donna coraggiosa  e  qualche  volta  ha 
      trovato sollievo nel racconto delle sue sventure." 
      "Perché,  mio signore" disse vivamente la giovane,  "perché le mie 
      sventure mi ricordano i tuoi benefici." 
      Alberto la guardò con tenerezza,  perché non aveva ancora  narrato 
      quello  che  più  desiderava  di sapere,  vale a dire in qual modo 
      fosse divenuta schiava del conte. 
      Haydée vide questo desiderio espresso tanto negli occhi d'Alberto, 
      quanto in quelli del conte, per cui continuò: 
      "Quando mia  madre  recuperò  i  sensi,  noi  eravamo  davanti  al 
      generale. 
      "Uccidetemi" disse lei, "ma rispettate la vedova di Alì." 
      "Non è a me che tu devi rivolgerti" disse Kourchid. 
      "E a chi dunque?" 
      "Al tuo nuovo signore." 
      "Quale?" 
      "Eccolo. 
      E  Kourchid  ci  mostrò uno di quelli che avevano contribuito alla 
      morte di mio  padre"  continuò  la  giovane  donna  con  una  cupa 
      collera. 
      "Allora" domandò Alberto, "voi diveniste schiava di quest'uomo?" 
      "No"  rispose  Haydée,  "non  osò  ritenerci,  ci  vendette  a dei 
      mercanti di schiavi che andavano a Costantinopoli.  Traversammo la 
      Grecia,  e  giungemmo  morenti  alla porta imperiale,  ingombra di 
      curiosi che ci facevano ala per lasciarci passare,  quando  ad  un 
      tratto  mia madre seguì con lo sguardo la direzione degli occhi di 
      tutti,  e gettato un grido cadde mostrando una testa al disopra di 
      quella  porta.  Al  disopra di quella testa,  erano scritte queste 
      parole: 
      ECCO LA TESTA DEL PASCIA' DI GIANNINA. 
      Cercai piangendo di rialzare mia madre; era morta!  Fui portata al 
      bazar:  un ricco armeno mi comperò,  mi fece istruire,  mi procurò 
      dei maestri,  e quando ebbi tredici anni mi  vendette  al  sultano 
      Mahmoud." 
      "Dal  quale" disse Montecristo,  "io la riscattai,  come vi dissi, 
      Alberto,  con uno smeraldo eguale a questo in  cui  metto  le  mie 
      pasticche di hashish." 
      "Ah,  tu  sei  buono,  tu  sei grande,  mio signore" disse Haydée, 
      baciando la mano a Montecristo,  "e io sono ben felice  di  essere 
      tua." 
      Alberto era rimasto stordito per quanto aveva sentito. 
      "Terminate  di bere il caffè" gli disse Montecristo,  "la storia è 
      finita." 
                                 Capitolo 77. 
                           CI SCRIVONO DA GIANNINA. 
 
 
      Franz aveva abbandonata la camera  di  Noirtier  così  tremante  e 
      fuori  di  sé,  che  Valentina  stessa ne aveva avuto compassione. 
      Villefort,  che non  aveva  articolato  che  poche  e  disordinate 
      parole, e ch'era fuggito nel suo studio, ricevette due ore dopo il 
      seguente scritto: 
 
      "Dopo  la  rivelazione  di  questa  mattina,  il  signor  Noirtier 
      Villefort non potrà supporre che un parentado sia possibile fra la 
      sua famiglia e quella del signor Franz d'Epinay.  Il signor  Franz 
      d'Epinay  sente orrore pensando che il signor Villefort che doveva 
      conoscere gli avvenimenti raccontati questa mattina,  non lo abbia 
      prevenuto in tale pensiero." 
 
      Chiunque  avesse  visto  allora il magistrato,  oppresso dalla sua 
      sciagura,  non avrebbe potuto credere  che  l'avesse  prevista,  e 
      difatti  egli  non aveva mai pensato che suo padre fosse capace di 
      spingere la franchezza,  o piuttosto l'ardimento sino al punto  di 
      raccontare quella storia.  Vero è che il signor Noirtier, sdegnoso 
      dell'opinione di suo figlio,  non si era occupato  di  chiarire  i 
      fatti  agli occhi di Villefort,  e che questi aveva sempre creduto 
      che il generale Quesnel,  o barone d'Epinay,  secondo che si vorrà 
      chiamare  o  col  nome  che  si era fatto o con quello che gli era 
      stato dato,  fosse morto assassinato e  non  ucciso  lealmente  in 
      duello. 
      Quella  lettera  così  pungente  di  un  giovane fino allora tanto 
      rispettoso,   feriva  mortalmente  l'orgoglio  di  un  uomo   come 
      Villefort. Appena fu nello studio, entrò sua moglie. 
      La  partenza di Franz,  chiamato da Noirtier,  aveva tanto stupito 
      gli astanti,  che la posizione della  signora  Villefort,  rimasta 
      sola  col notaio e i testimoni,  si fece di momento in momento più 
      imbarazzante.  Allora la signora Villefort aveva  deciso  d'uscire 
      dicendo  che andava a raccogliere notizie.  Il signor Villefort si 
      contentò di dirle che,  in seguito ad alcune spiegazioni fra  lui, 
      il  signor Noirtier ed il signor Franz d'Epinay,  il matrimonio di 
      Valentina con Franz era rotto.  Non era conveniente riportare tale 
      ambasciata a coloro che aspettavano; per cui la signora Villefort, 
      rientrando,  si  limitò a dire che avendo avuto il signor Noirtier 
      all'inizio del colloquio una  specie  d'attacco  d'apoplessia,  il 
      contratto era stato differito di qualche giorno. Tale notizia, per 
      quanto  fosse  falsa,  era così sorprendente in seguito alle altre 
      due disgrazie dello stesso genere,  che gli uditori si  guardarono 
      sorpresi, e si ritirarono senza dir parola. 
      Intanto  Valentina,  felice  e spaventata dopo avere abbracciato e 
      ringraziato il vecchio,  che aveva in tal modo rotto ad un  tratto 
      la catena che ormai lei considerava indissolubile, aveva domandato 
      di ritirarsi nelle sue camere per rimettersi,  e Noirtier le aveva 
      accordato il permesso.  Ma  Valentina,  una  volta  uscita,  prese 
      invece il corridoio, e, uscendo dalla piccola porticina, si lanciò 
      nel giardino. In mezzo a tutti gli avvenimenti che si accumulavano 
      gli  uni  sugli  altri,  un  sordo  terrore le aveva costantemente 
      compresso il cuore:  si  aspettava  da  un  momento  all'altro  di 
      vedersi  comparire Morrel,  pallido e minaccioso,  come il sire di 
      Ravenswood al contratto di Lucia di Lammermoor. 
      Massimiliano che  aveva  sospettato  quel  che  sarebbe  accaduto, 
      quando  aveva  visto  Franz  lasciare il cimitero in compagnia del 
      signor Villefort,  lo  aveva  seguito,  poi,  dopo  averlo  veduto 
      entrare,  lo  aveva  anche veduto uscire e rientrare nuovamente in 
      compagnia di Alberto e Chateau-Renaud.  Per lui non  c'era  dunque 
      più alcun dubbio: allora si era gettato nel suo recinto,  pronto a 
      qualunque avvenimento, ben certo che,  al primo attimo di libertà, 
      Valentina sarebbe corsa a lui.  Non s'era ingannato; il suo occhio 
      applicato alle assi, vide infatti comparire la ragazza che,  senza 
      prendere  le  solite  precauzioni,  correva al cancello.  Al primo 
      sguardo Massimiliano fu tranquillizzato;  alla  prima  parola  che 
      pronunciò, balzò di gioia. 
      "Salvi!" disse Valentina. 
      "Salvi" ripeté Morrel,  non potendo credere a tanta felicità.  "Ma 
      per opera di chi?" 
      "Di mio nonno. Oh, amatelo molto, Morrel!" 
      Morrel giurò d'amare il vecchio con tutta l'anima  sua;  e  questo 
      giuramento non gli costava niente a farlo,  perché in quel momento 
      non si sentiva solo di amarlo come amico,  come padre,  lo adorava 
      quasi come Dio. 
      "Ma  cosa  è  successo,  come mai?" domandò Morrel.  "Quale strano 
      espediente ha trovato?" 
      Valentina aprì la bocca per raccontare  tutto,  ma  pensò  che  in 
      fondo  c'era  un  segreto terribile che non apparteneva soltanto a 
      suo nonno. 
      "Più tardi" disse, "vi racconterò tutto." 
      "Ma quando?" 
      "Quando sarò vostra moglie." 
      Era sviare la conversazione in un modo che rendeva facile a Morrel 
      concedere tutto; e infatti capì che doveva accontentarsi di quanto 
      sapeva e che per quel giorno ciò bastava.  Però non  acconsentì  a 
      ritirarsi   che  sulla  promessa  che  Valentina  sarebbe  tornata 
      l'indomani sera. Valentina promise quanto volle Morrel.  Tutto era 
      cambiato  ai loro occhi,  e certo per Valentina era meno difficile 
      adesso credere di poter maritarsi con Massimiliano,  di quello che 
      fosse un'ora prima non dover sposare il signor Franz. 
      Frattanto  la  signora  Villefort  era salita dal signor Noirtier. 
      Noirtier la guardò con  occhio  cupo  e  severo,  come  usava  nel 
      riceverla. 
      "Signore"  gli  disse  lei,  "non  ho  bisogno  di  dirvi  che  il 
      matrimonio di Valentina è rotto,  poiché tale  rottura  fu  decisa 
      qui." 
      Noirtier rimase impassibile. 
      "Ma"  continuò  la  signora  Villefort,  "quello  che  non sapete, 
      signore,  è che io sono sempre stata contraria a questo matrimonio 
      e che si faceva mio malgrado." 
      Noirtier guardò la nuora come chi aspetta una spiegazione. 
      "Ora  poiché  questo matrimonio,  per il quale conoscevo la vostra 
      opposizione,  è rotto,  vengo a  farvi  una  rimostranza  che  non 
      possono farvi né il signor Villefort, né Valentina." 
      Gli occhi di Noirtier chiesero quale fosse questa rimostranza. 
      "Vengo a pregarvi, signore" riprese la signora Villefort, "come la 
      sola  che  ne  abbia  il  diritto,  perché  sono la sola a cui non 
      frutterà niente,  vengo a pregarvi di rendere,  non dirò le vostre 
      grazie,  che  le  ha sempre godute,  ma la vostra eredità a vostra 
      nipote." 
      Gli occhi di  Noirtier  rimasero  un  istante  incerti:  cercavano 
      evidentemente  i  motivi  di  quella rimostranza,  e non li poteva 
      trovare. 
      "Posso  sperare"  disse  la  signora  Villefort,  "che  le  vostre 
      intenzioni siano in armonia con la preghiera che vi faccio?" 
      "Sì" fece Noirtier. 
      "In tal caso,  signore,  io mi ritiro,  riconoscente ad un tempo e 
      felice." 
      E salutando il signor Noirtier, si ritirò. 
      Infatti,  il giorno  dopo  Noirtier  fece  venire  il  notaio:  fu 
      stracciato il primo testamento,  ne fu fatto un secondo, nel quale 
      lasciava tutta la sua sostanza a Valentina,  sotto condizione  che 
      non  si  fosse separata da lui.  Alcune persone allora calcolarono 
      che la  signorina  Villefort,  ereditiera  del  marchese  e  della 
      marchesa  di  Saint-Méran,  e rientrata nella grazia di suo nonno, 
      avrebbe un giorno potuto godere di  una  rendita  di  trecentomila 
      franchi annui. 
      Mentre si rompeva questo matrimonio presso i Villefort,  il signor 
      conte Morcerf aveva ricevuto la visita di Montecristo,  e per  far 
      vedere  la  sua premura a Danglars,  indossò la grande uniforme di 
      luogotenente generale che aveva  fatto  ornare  di  tutte  le  sue 
      decorazioni,  e ordinò i migliori cavalli. Morcerf così abbigliato 
      si fece condurre  alla  rue  Chaussée  d'Antin,  ed  annunziare  a 
      Danglars,  che stava facendo il suo bilancio di fine mese. Non era 
      quello il momento adatto per trovare il banchiere di  buon  umore. 
      Così,  all'apparire  del  vecchio  amico,  Danglars  prese un'aria 
      misteriosa, e si accomodò meglio sulla sua seggiola.  Morcerf,  di 
      solito  così serio,  aveva assunto un'aria sorridente ed affabile: 
      per cui,  sicuro d'essere ben accolto fino dalle sue prime parole, 
      non  fece  il  diplomatico,  e  andò  direttamente e di colpo allo 
      scopo. 
      "Barone" disse,  "eccomi da  voi.  Da  lungo  tempo  ci  aggiriamo 
      attorno alle parole..." 
      Morcerf  si aspettava di veder rasserenarsi il viso del banchiere, 
      il cui sussiego attribuiva al proprio silenzio,  ma  al  contrario 
      egli divenne,  e pareva quasi impossibile,  più indifferente e più 
      freddo. Ecco perché Morcerf si era fermato a metà della frase. 
      "Quali parole, signor conte?" domandò il banchiere,  come cercasse 
      invano  nella  sua  mente  la spiegazione di quanto voleva dire il 
      generale. 
      "Oh" disse il conte,  "siete  amante  delle  formalità,  mio  caro 
      signore, e mi rammentate che il cerimoniale deve eseguirsi secondo 
      tutti i riti. Benissimo, in fede mia. Perdonate, ma siccome non ho 
      che  un  solo  figlio,  e  questa  è  la  prima volta che penso ad 
      ammogliarlo, io sono ancor novizio, orsù, mi adatto..." 
      E Morcerf,  con un sorriso forzato,  si alzò e fatta una  profonda 
      riverenza a Danglars gli disse: 
      "Signor  barone,  ho l'onore di domandarvi la mano della signorina 
      Eugenia Danglars vostra figlia, per mio figlio il visconte Alberto 
      Morcerf." 
      Ma Danglars,  invece d'accogliere queste  parole  col  favore  che 
      Morcerf  si  aspettava da lui,  aggrottò le sopracciglia,  e senza 
      invitare il conte, rimasto in piedi, a sedersi di nuovo: 
      "Signor conte" disse,  "prima di potervi rispondere ho bisogno  di 
      riflettere." 
      "Di   riflettere?"   riprese   Morcerf  sempre  più  meravigliato. 
      "Non'avete dunque avuto tempo di riflettervi in  otto  anni  circa 
      che parliamo di questo matrimonio?" 
      "Signor  conte  tutti  i giorni accadono cose sulle quali non si è 
      mai riflettuto abbastanza." 
      "Come? Io non vi comprendo più, barone!" 
      "Voglio   dire,   signore,    che   da   quindici   giorni   nuove 
      circostanze..." 
      "Permettete"  disse  Morcerf.  "Non  è  una  commedia  quella  che 
      rappresentiamo..." 
      "E perché dovrebbe essere una commedia?" 
      "Già, spieghiamoci fino in fondo." 
      "Non chiedo di meglio." 
      "Avete visto il signor conte di Montecristo?" 
      "Lo vedo spessissimo" disse Danglars scuotendosi il merletto della 
      camicia, "è uno dei miei amici." 
      "Ebbene, una delle ultime volte che lo avete visto,  voi gli avete 
      detto  ch'io  sembravo  smemorato,  irresoluto sul conto di questo 
      matrimonio?" 
      "E' vero." 
      "E allora eccomi.  Io non sono né  irresoluto,  né  smemorato,  lo 
      vedete vengo a domandare che manteniate la vostra parola." 
      Danglars non rispose. 
      "Avete cambiato idea" soggiunse Morcerf, "o provocate soltanto per 
      darvi il piacere d'umiliarmi?" 
      Danglars  comprese  che,  continuando il discorso sul tono con cui 
      l'aveva cominciato, la cosa poteva mettersi male per lui. 
      "Signor conte, dovete essere a buon diritto meravigliato della mia 
      ritenutezza,   lo  capisco...   Credetemi,   sono  il   primo   ad 
      affliggermene,  e,  ve  l'assicuro,  mi  è  imposta da circostanze 
      imperiose." 
      "Queste sono parole vane,  mio caro signore" disse  il  conte,  "e 
      tutt'al  più  potrebbe  esserne contento il primo arrivato,  ma il 
      conte Morcerf non è un primo arrivato,  e quando un uomo come  lui 
      viene a trovare un uomo come voi per ricordargli la parola data, e 
      questo  uomo  manca  alla sua parola,  ha diritto di esigere,  sul 
      momento, che almeno gli venga addotta una buona scusa." 
      Danglars era vile, ma non voleva sembrarlo,  fu punto dal tono che 
      aveva preso Morcerf. 
      "Non è certo una buona ragione quella che mi manca" rispose. 
      "Che cosa pretendete dire?" 
      "Che la buona ragione l'ho, ma che è difficile da dirsi." 
      "Però  capirete"  disse  Morcerf,  "che  non posso appagarmi delle 
      vostre reticenze, ed una cosa in ogni modo mi sembra chiara,  ed è 
      che rifiutate la mia parentela." 
      "No,  signore" disse Danglars, "io sospendo la mia decisione, ecco 
      tutto." 
      "Ma non avrete però la pretesa,  credo,  che debba  sottostare  ai 
      vostri  capricci al punto d'aspettare tranquillamente ed umilmente 
      il ritorno del vostro favore?" 
      "Allora,  signor conte,  se non potete aspettare,  consideriamo  i 
      nostri progetti come non fatti." 
      Il  conte  si morse le labbra a sangue per non andare sulle furie, 
      come avrebbe comportato il suo carattere  superbo  ed  irritabile, 
      però, sapendo che in simile circostanza gli sarebbe caduto addosso 
      il  ridicolo,  aveva già cominciato ad accostarsi alla porta della 
      sala, quando, pentendosi,  tornò indietro.  Una fosca nube gli era 
      passata sulla fronte,  lasciandogli,  invece dell'offeso orgoglio, 
      una vaga inquietudine. 
      "Orsù" disse, "mio caro Danglars, noi ci conosciamo da molti anni, 
      e quindi dobbiamo aver riguardo l'uno per l'altro.  Voi mi  dovete 
      una   spiegazione:   ch'io   sappia  almeno  a  quale  disgraziata 
      circostanza mio figlio sia debitore  della  perdita  delle  vostre 
      buone intenzioni." 
      "Non  è  affare personale del visconte,  ecco cosa posso dirvi..." 
      rispose  Danglars  che  tornava   impertinente   vedendo   Morcerf 
      addolcirsi. 
      "E  di  chi  sarebbe  dunque  affare?"  domandò  con voce alterata 
      Morcerf la cui fronte si coprì di pallore. 
      Danglars, cui non sfuggiva alcuno di quei sintomi, fissò su di lui 
      uno sguardo più sicuro di quanto non osasse abitualmente. 
      "Ringraziatemi, se non mi spiego maggiormente" disse. 
      Un tremito  convulso,  certo  eccitato  dalla  collera  soffocata, 
      agitava Morcerf. 
      "Io ho diritto" rispose facendosi forza, "io ho diritto di esigere 
      che  vi  spieghiate:  è dunque contro la signora Morcerf che avete 
      qualche rancore?  Non sono abbastanza ricco?  Sono  forse  le  mie 
      opinioni, contrarie alle vostre?..." 
      "Nulla  di  ciò,  signore"  disse  Danglars,  "e  sarebbe  per  me 
      imperdonabile,  giacché mi sono  impegnato  conoscendo  quanto  mi 
      dite. No, non cercate di più... Sono mortificato di costringervi a 
      fare  questo  esame di coscienza...  Fermiamoci qui,  credetemi... 
      Prendiamo un termine medio,  che non sia né  una  rottura,  né  un 
      impegno.  Niente ci fa fretta,  mio Dio! Mia figlia ha diciassette 
      anni,  e vostro figlio ventuno.  Il tempo passerà,  ciò che sembra 
      oscuro  oggi,  può  divenir chiaro domani: qualche volta basta una 
      parola per distruggere le più crudeli calunnie." 
      "Calunnie diceste,  signore?" gridò  Morcerf,  diventando  livido. 
      "Sono io forse calunniato?" 
      "Signor conte, vi dico: non parliamone più." 
      "Per cui, signore, dovrei subire tranquillamente questo rifiuto?" 
      "Penoso soprattutto per me, signore. Sì, più penoso per me che per 
      voi,  perché  io  contavo sulla vostra parentela,  e un matrimonio 
      andato a  monte,  fa  sempre  più  torto  alla  fidanzata  che  al 
      fidanzato." 
      "Vi riverisco, signore, non ne parliamo più" disse Morcerf. 
      E strofinandosi i guanti per la rabbia, uscì. 
      Danglars  osservò  che  neppure  una  volta  Morcerf  aveva  osato 
      domandare se il matrimonio si rendeva nullo per causa sua. La sera 
      ebbe una  lunga  conversazione  con  molti  amici,  ed  il  signor 
      Cavalcanti,  che  si  era  costantemente  fermato nella sala delle 
      signore, uscì per ultimo dalla casa del banchiere. 
      L'indomani svegliandosi,  Danglars domandò  i  giornali,  che  gli 
      furono portati: ne sfogliò tre o quattro,  e scelse "L'impartial". 
      Era quello di cui era redattore Beauchamp.  Ruppe  rapidamente  la 
      fascetta   aprendolo   con  precipitazione  convulsa,   e  passato 
      sdegnosamente sul "Premier Paris",  giunto ai "Fatti diversi",  si 
      fermò  col  suo finissimo sorriso sopra un periodo virgolato,  che 
      cominciava con questa parole: "Ci scrivono da Giannina". 
      "Bene" disse,  dopo averlo letto,  "ecco un piccolo trafiletto sul 
      colonnello  Fernando,   che,  secondo  tutte  le  probabilità,  mi 
      dispenserà dal dare spiegazioni al signor conte Morcerf." 
      Nella stessa mattina,  mentre battevano le nove,  Alberto Morcerf, 
      vestito di nero,  abbottonato diligentemente, agitato, e con brevi 
      parole, si presentò alla casa degli Champs-Elysées. 
      "Il signor conte è uscito, sarà una mezz'ora" disse il portinaio. 
      "Ha condotto con sé Battistino?" domandò Morcerf. 
      "No, signor visconte." 
      "Chiamate Battistino: voglio parlargli." 
      Il portinaio andò di persona a cercare il cameriere,  e un istante 
      dopo ritornò con lui. 
      "Amico   mio"   disse   Alberto,   "vi   chiedo  scusa  della  mia 
      indiscrezione ma ho voluto domandare a voi  stesso  se  il  vostro 
      padrone è realmente uscito." 
      "Sì, signore" rispose Battistino. 
      "Anche per me?" 
      "Io so quanto il mio padrone è contento di ricevere il signore,  e 
      mi guarderei bene di usare col signore una scusa qualsiasi." 
      "Avete ragione,  giacché io debbo parlargli di  un  affare  serio. 
      Credete che tarderà a tornare?" 
      "No, perché ha ordinato la colazione per le dieci." 
      "Bene,  vado  a fare un giro agli Champs-Elysées,  alle dieci sarò 
      qui.  Se il signor conte rientra dopo di me,  ditegli che lo prego 
      di aspettarmi." 
      "Non mancherò, il signore può star tranquillo." 
      Alberto lasciò alla porta del conte il calessino da nolo che aveva 
      preso, e andò a passeggiare a piedi. 
      Passando  davanti  al viale delle Vedove,  gli parve riconoscere i 
      cavalli del conte,  fermi davanti alla porta del tiro al bersaglio 
      di  Gosset;   si  avvicinò,  e,  dopo  averli  riconosciuti  bene, 
      riconobbe il cocchiere. 
      "Il signor conte è al tiro al bersaglio?" gli domandò Morcerf. 
      "Sì, signore" rispose il cocchiere. 
      Infatti,  molti colpi regolari si erano uditi  mentre  Morcerf  si 
      accostava al recinto del bersaglio. 
      Entrò. Nel primo giardino stava l'inserviente. 
      "Scusate"  diss'egli,  "ma  il  signor  visconte abbia la bontà di 
      aspettare un momento." 
      "E perché,  Filippo?" domandò Alberto,  che essendo uno di  quelli 
      che  frequentavano  spesso  il bersaglio,  si meravigliava di quel 
      divieto inconcepibile. 
      "Perché la persona che si esercita in questo momento ha  preso  il 
      bersaglio tutto per sé, e non tira mai in presenza di alcuno." 
      "Neppure presente voi, Filippo?" 
      "Lo vedete, signore, io sono alla porta della mia loggia." 
      "E chi gli carica le pistole?" 
      "Il suo domestico." 
      "Un moro?" 
      "Sì, un negro." 
      "E' lui." 
      "Voi dunque conoscete questo signore?" 
      "Vengo a cercarlo; è amico mio." 
      "Oh, allora è tutt'altra cosa; entrerò per avvertirlo." 
      E Filippo,  spinto dalla propria curiosità,  entrò nel capannuccio 
      di assi. Un secondo dopo, Montecristo comparve solo sulla soglia. 
      "Scusate se vi perseguito fin qui,  mio caro conte" disse Alberto. 
      "Ma comincio col dirvi che non è colpa della vostra servitù, e che 
      io  solo  sono  l'indiscreto.   Mi  sono  presentato  alla  vostra 
      abitazione,  e mi fu detto  che  eravate  a  passeggiare,  ma  che 
      sareste  rientrato alle dieci per fare colazione.  Mi sono messo a 
      passeggiare io pure per aspettare  le  dieci,  e  passeggiando  ho 
      riconosciuto i vostri cavalli e la vostra carrozza." 
      "Ciò  che  mi  dite,  mi  fa sperare che veniate a invitarvi a una 
      colazione." 
      "No, grazie,  non si tratta di far colazione a quest'ora...  Forse 
      faremo colazione più tardi, ma in cattiva compagnia, per Bacco!" 
      "Che diavolo dite?" 
      "Mio caro, oggi mi batto." 
      "Voi? e per far che?" 
      "Per battermi, per Dio." 
      "Sì,  capisco,  ma  a cagione di che?  Possiamo batterci per tante 
      cause, capite bene..." 
      "Per causa d'onore." 
      "Ah, è cosa seria." 
      "Tanto seria, che vengo a pregarvi di farmi un favore." 
      "E quale?" 
      "Quello di essere mio testimonio." 
      "Allora la cosa diventa grave...  Non parliamone qui,  torniamo  a 
      casa mia. Alì, dammi dell'acqua." 
      Il conte si rimboccò le maniche, e passò nel piccolo vestibolo che 
      precedeva  il  luogo  del  bersaglio,  ed  ove  i tiratori avevano 
      l'abitudine di lavarsi le mani. 
      "Entrate dunque, signor visconte, e vedrete una cosa singolare..." 
      disse a bassa voce Filippo ad Alberto. 
      Morcerf entrò.  Sulla  placca  del  bersaglio  invece  di  esservi 
      attaccati i soliti segni, vi erano incollate delle carte da gioco. 
      Da lontano Morcerf credette riconoscere un gioco intero, dall'asso 
      fino al dieci. 
      "Oh,   oh!"   esclamò  Alberto.   "Avevate  voglia  di  giocare  a 
      picchetto?" 
      "No, avevo voglia di fare un gioco di carte." 
      "E in che modo?" 
      "Erano degli assi e dei due: le mie pallottole li hanno convertiti 
      in tre, in quattro, in cinque, in sei, in nove e dieci." 
      Alberto  si  avvicinò.  Infatti  le  pallottole  avevano  a  linee 
      ugualmente  distanti  e  perfettamente  esatte  riempito  i  segni 
      mancanti, e forate le carte nel posto ove dovevano essere dipinte. 
      Avvicinandosi alla placca, Morcerf raccolse diverse rondinelle che 
      avevano avuto l'imprudenza di passare a portata delle pistole  del 
      conte, e che il conte aveva atterrate. 
      "Diavolo!" esclamò Morcerf. 
      "Che  volete,  caro  visconte" disse Montecristo,  asciugandosi le 
      mani con biancheria portata da Alì,  "bisogna bene  che  occupi  i 
      miei momenti d'ozio. Ma venite, vi aspetto." 
      Entrambi  montarono  nella  carrozza di Montecristo,  che in pochi 
      istanti li depose alla porta numero 30. 
      Montecristo condusse Morcerf nel  suo  studio  e  gli  mostrò  una 
      sedia. Tutti e due sedettero. 
      "Ora parliamo tranquillamente" disse il conte. 
      "Vedete ch'io sono perfettamente tranquillo." 
      "Con chi volete battervi?" 
      "Con Beauchamp." 
      "Uno dei vostri amici?" 
      "Non è sempre con gli amici che ci battiamo?" 
      "Ma ci vuole almeno una ragione." 
      "E l'ho." 
      "Che cosa vi ha fatto?" 
      "C'è nel suo giornale di ieri sera... Ma, prendete, leggete." 
      E  Alberto  presentò  a  Montecristo  un giornale ove lesse queste 
      parole: 
 
      "Ci scrivono da Giannina: E' giunto a nostra conoscenza  un  fatto 
      fin  qui  ignorato,  o  per  lo  meno  inedito.  Le  fortezze  che 
      difendevano la città furono vendute  ai  turchi  da  un  ufficiale 
      francese  nel  quale  il  visir Alì-Tebelen aveva riposta tutta la 
      fiducia, e che si chiamava Fernando." 
      "Ebbene" disse Montecristo,  "che  ci  trovate  di  offensivo  qua 
      dentro?" 
      "Come, che ci trovo?" 
      "Sì, che importa a voi che i forti di Giannina siano stati venduti 
      da un ufficiale francese di nome Fernando?" 
      "M'importa perché mio padre,  il conte Morcerf, si chiama Fernando 
      per nome di battesimo." 
      "E vostro padre serviva Alì-Pascià?" 
      "Vale a dire,  combatteva per l'indipendenza  della  Grecia:  ecco 
      dov'è la calunnia." 
      "Ora a noi, mio caro visconte, parliamo ragionevolmente." 
      "Non chiedo altro." 
      "Ditemi un po': chi diavolo sa in Francia che l'ufficiale Fernando 
      è lo stesso nome del conte Morcerf, e chi si occupa a quest'ora di 
      Giannina, che è stata presa nel 1822 o 1823, io credo?" 
      "Ecco  precisamente  dov'è la perfidia: hanno lasciato scorrere un 
      gran tempo,  e oggi tornano su avvenimenti  dimenticati  per  fare 
      sorgere uno scandalo che può pregiudicare un nome.  Ebbene,  erede 
      del nome di mio padre,  non voglio che su questo nome cada neppure 
      ombra  di  sospetto.  Invierò  a  Beauchamp,  il  cui  giornale ha 
      pubblicato questa nota, due testimoni, e la ritratterà." 
      "Beauchamp non ritratterà." 
      "Allora ci batteremo." 
      "No,  non  vi  batterete,   perché  Beauchamp  vi  risponderà  che 
      nell'esercito  greco ci potevano essere cinquanta ufficiali che si 
      chiamavano Fernando." 
      "Ci batteremo malgrado questa risposta...  Oh,  voglio che  questa 
      notizia  sia smentita...  Mio padre,  un così nobile soldato,  una 
      illustre carriera..." 
      "Ovvero inserirà: "Abbiamo tutte le ragioni di credere che  questo 
      Fernando  non abbia niente in comune col signor conte Morcerf,  il 
      cui nome di battesimo è ugualmente Fernando"." 
      "Mi occorre una ritrattazione piena ed intera,  non mi  contenterò 
      di questa!" 
      "E volete mandargli i vostri testimoni?" 
      "Sì." 
      "Avete torto." 
      "Vale a dire che mi negate il servizio che venivo a chiedervi?" 
      "Voi  conoscete  le  mie  teorie  sui  duelli,  vi ho fatto la mia 
      professione di fede a Roma: ve ne ricordate?" 
      "Però,  caro conte,  questa mattina,  anzi poco fa,  vi ho trovato 
      occupato  in  un  esercizio  che  non sta in armonia con le vostre 
      teorie." 
      "Perché,  amico caro,  capirete,  non bisogna mai essere fanatici. 
      Quando si vive con dei pazzi, bisogna anche fare scuola di follia: 
      da un momento all'altro,  qualche cervello bollente,  che non avrà 
      maggior ragione di muovermi querela di quello che ne  abbiate  voi 
      contro  Beauchamp,  mi  verrà  a trovare per una frivolezza,  o mi 
      manderà i suoi testimoni,  o m'insulterà  in  un  luogo  pubblico: 
      ebbene,  questo  cervello  bollente  bisogna bene che io lo sappia 
      uccidere!" 
      "Ammettete dunque che voi stesso vi battereste?" 
      "Per difendermi." 
      "Ebbene, perché dunque non volete che mi batta io?" 
      "Io non dico che non vi dobbiate battere,  dico  soltanto  che  il 
      duello è cosa grave, e sulla quale bisogna riflettere." 
      "Ha egli riflettuto nell'insultare mio padre?" 
      "Se non ci ha riflettuto,  e ve lo confessa,  non bisogna avercela 
      con lui." 
      "Ah, mio caro conte, voi siete troppo indulgente." 
      "E voi troppo severo.  Orsù,  io suppongo...  Ascoltate  bene,  io 
      suppongo... Ma non andate in collera per quel che vi dico!" 
      "Ascolto." "Io suppongo che il fatto raccontato sia vero..." 
      "Un  figlio  non  può  ammettere  tale  supposizione,  che offende 
      l'onore di suo padre." 
      "Eh, mio Dio, siamo in un'epoca in cui si ammettono tante cose!" 
      "E' precisamente il difetto dell'epoca." 
      "Avreste voi la pretesa di riformarla?" 
      "Sì, per quanto mi riguarda." 
      "Eh, mio Dio! Siete pur rigorista, caro amico." 
      "Sono fatto così." 
      "Siete inaccessibile ai buoni consigli?" 
      "No, quando mi vengono da un amico." 
      "E mi credete vostro amico?" 
      "Sì." 
      "Ebbene,   prima  d'inviare  i  vostri  testimoni   a   Beauchamp, 
      informatevi." 
      "E da chi?" 
      "Da Haydée, per esempio." 
      "Immischiare una donna in questo affare! Che può farci?" 
      "Dichiarare,  per  esempio,  che  vostro  padre non ha avuto parte 
      nella disfatta e nella morte del suo,  ossia chiarirvi  su  questo 
      argomento, nel caso che vostro padre avesse avuto la disgrazia..." 
      "Vi  ho  già  detto,  caro conte,  che io non posso ammettere tale 
      supposizione." 
      "Voi rifiutate dunque questo mezzo?" 
      "Lo rifiuto." 
      "Assolutamente?" 
      "Assolutamente." 
      "Allora un ultimo consiglio." 
      "Sia! Ma l'ultimo." 
      "Non lo volete?" 
      "Al contrario, ve lo domando." 
      "Non mandate i vostri testimoni a Beauchamp." 
      "Come?" 
      "Andate voi stesso a trovarlo." 
      "E' contro tutti gli usi." 
      "Il vostro affare non è affare comune." 
      "E perché debbo andare io stesso? Sentiamo." 
      "Perché in tal modo la cosa resterà fra voi e Beauchamp." 
      "Spiegatevi." 
      "Certo, se Beauchamp è disposto a ritirarsi, bisogna lasciargli il 
      merito della buona  volontà.  Se  rifiuta,  al  contrario,  farete 
      sempre in tempo ad ammettere due estranei al vostro segreto." 
      "Non saranno due estranei, saranno due amici." 
      "Gli amici d'oggi sono i nemici di domani." 
      "E chi, per esempio?" 
      "Beauchamp." 
      "E dunque..." 
      "Dunque vi raccomando prudenza." 
      "Per cui credete che debba andare io stesso a trovare Beauchamp?" 
      "Sì." 
      "Solo?" 
      "Solo.  Quando si vuole ottenere qualche cosa dall'amor proprio di 
      un uomo, bisogna salvargli questo stesso suo amor proprio." 
      "Credo che abbiate ragione." 
      "Ah, è una fortuna!" 
      "Ci andrò solo." 
      "Andate, ma fareste anche meglio non andandovi." 
      "E' impossibile." 
      "Fate dunque così,  sarà sempre  meglio  di  quello  che  volevate 
      fare." 
      "Ma,  orsù,  se  dopo tutte le mie precauzioni,  tutti i riguardi, 
      avessi un duello, mi fareste da testimonio?" 
      "Mio caro visconte" disse Montecristo  con  la  maggiore  gravità, 
      "voi avete esperimentato che a tempo e luogo io vi sono dedito, ma 
      il  favore  che mi chiedete esce dalla cerchia di quelli che posso 
      rendervi." 
      "E perché?" 
      "Forse lo saprete un giorno." 
      "E frattanto?..." 
      "Domando la vostra indulgenza per il mio segreto." 
      "Sia. Prenderò Franz e Chateau-Renaud." 
      "Prendete Franz e Chateau-Renaud, e andrà a meraviglia." 
      "Ma infine,  se dovrò  battermi,  mi  darete  almeno  una  piccola 
      lezione di spada o di pistola." 
      "No, anche questo è impossibile." 
      "Siete  pur  un  uomo  singolare!  Orsù,  allora  voi  non  volete 
      immischiarvi per niente?" 
      "Per niente assolutamente." 
      "Allora non parliamone più. Addio, conte." 
      "Addio, visconte." 
      Morcerf prese il  cappello,  e  uscì.  Alla  porta  trovò  il  suo 
      calessino,  e contenendo meglio che poteva la sua collera, si fece 
      condurre a casa di Beauchamp.  Beauchamp era all'ufficio  del  suo 
      giornale. Alberto si fece condurre là. 
      Beauchamp  era  in  uno  studio oscuro e polveroso,  come sono sin 
      dalla loro fondazione tutti gli uffici dei giornali.  Nel sentirsi 
      annunciare Alberto Morcerf, si fece ripetere due volte l'annuncio, 
      quindi non convinto ancora, gridò: 
      "Entrate!" 
      Alberto comparve. 
      Beauchamp mandò un'esclamazione di sorpresa,  vedendo il suo amico 
      oltrepassare i pacchi dei giornali,  e pestare con piede maldestro 
      i fogli di tutte le grandezze che tappezzavano i mattoni rossi del 
      pavimento. 
      "Per di qui! Per di qui, mio caro Alberto!" diss'egli stendendo la 
      mano  al giovane.  "Che diavolo vi conduce?  Vi siete perduto come 
      Pollicino,  o  venite  bonariamente  a  chiedermi  una  colazione? 
      Procuratevi una sedia,  laggiù,  vicino a quel geranio,  che, solo 
      qui, mi ricorda esservi una immensità di foglie che non sono fogli 
      di carta." 
      "Beauchamp" disse Alberto, "vengo a parlarvi del vostro giornale." 
      "Voi, Morcerf? Che desiderate?" 
      "Desidero una rettifica." 
      "Voi,  una rettifica!  A proposito  di  che,  Alberto?  Ma  sedete 
      dunque..." 
      "Grazie"  rispose  Alberto per la seconda volta,  e con un leggero 
      segno di testa. 
      "Spiegatevi." 
      "Una rettifica sopra un fatto che offende  l'onore  di  un  membro 
      della mia famiglia." 
      "Orsù, dunque!" disse Beauchamp sorpreso. "Che fatto?" 
      "Il fatto che vi pervenne da Giannina." 
      "Da Giannina?" 
      "Sì,  da  Giannina...  Ma  ignorate  davvero  il  motivo che mi ha 
      condotto qui?" 
      "Sul  mio  onore!...   Battista,   un  giornale  di  ieri!"  gridò 
      Beauchamp. 
      "E' inutile, vi porto il mio." 
      Beauchamp lesse brontolando: "Ci scrivono da Giannina ecc., ecc." 
      "Voi  comprenderete  che  il  fatto  è grave" disse Morcerf,  come 
      Beauchamp ebbe finito. 
      "Quest'ufficiale è dunque vostro parente?" domandò il giornalista. 
      "Sì" disse Alberto arrossendo. 
      "Ebbene,  che cosa  volete  che  faccia  per  compiacervi?"  disse 
      Beauchamp con dolcezza. 
      "Io vorrei, mio caro Beauchamp, che voi ritrattaste questo fatto." 
      Beauchamp  guardò  Alberto  con  attenzione  non  priva  di  molta 
      benevolenza. 
      "Vediamo"  disse:  "ci  impegnerà  in  una  lunga  questione!  Una 
      ritrattazione è sempre cosa grave... Sedetevi, io rileggerò queste 
      tre o quattro righe." 
      Alberto  si sedette,  e Beauchamp rilesse le righe incriminate con 
      più attenzione della prima volta. 
      "Ebbene lo vedete" disse Alberto con fermezza anzi  con  asprezza, 
      "nel  vostro  giornale  si  insulta  uno  della mia famiglia ed io 
      voglio una ritrattazione." 
      "Voi volete?" 
      "Sì voglio." 
      "Permettetemi di dirvi che non siete buon  diplomatico,  mio  caro 
      visconte." 
      "Non  voglio  esserlo" replicò il giovane alzandosi.  "Io esigo la 
      ritrattazione del fatto che avete annunziato ieri, e l'otterrò. Mi 
      siete  abbastanza  amico"  continuò  Alberto  coi  denti  serrati, 
      vedendo  che dal canto suo Beauchamp cominciava ad alzare la testa 
      sdegnoso,  "mi siete abbastanza amico,  e come tale,  mi capite  a 
      sufficienza,  lo  spero,  per  conoscere la mia fermezza in simili 
      circostanze." 
      "Se io sono  vostro  amico,  Morcerf,  voi  finirete  per  farmelo 
      dimenticare  con  tali parole...  Ma orsù,  non ci disgustiamo,  o 
      almeno per ora... Voi siete inquieto,  irritato e offeso...  Dite, 
      chi è questo parente che si chiama Fernando?" 
      "E' mio padre" disse Alberto. "Egli stesso, e non altri, il signor 
      Fernando  Mondego  conte  Morcerf,  vecchio militare che ha veduto 
      venti campi di battaglia,  e del  quale  si  vogliono  coprire  le 
      nobili cicatrici col fango!" 
      "Vostro  padre!"  disse  Beauchamp.  "Allora  è tutt'altro affare! 
      Capisco la  vostra  indignazione,  mio  caro  Alberto.  Rileggiamo 
      dunque..." 
      E tornò a leggere la nota, meditando questa volta ciascuna parola. 
      "Ma come provate voi" domandò Beauchamp,  "che questo Fernando del 
      giornale sia vostro padre?" 
      "Non lo so bene,  ma lo proveranno altri.  E perciò voglio che  il 
      fatto sia smentito." 
      Alla  parola  "voglio" Beauchamp alzò gli occhi sopra Morcerf,  e, 
      abbassandoli quasi subito, rimase un istante pensieroso. 
      "Voi smentirete questo  fatto,  non  è  vero,  Beauchamp?"  ripeté 
      Morcerf con collera crescente, quantunque sempre concentrata. 
      "Sì" disse Beauchamp. 
      "Alla buon'ora!" disse Alberto. 
      "Ma quando sarò sicuro che sia falso." 
      "In qual modo?" 
      "Sì, la cosa vale la pena d'essere messa in chiaro, e la metterò." 
      "Ma  che  avete  da  mettere  in  chiaro,  signore?" disse Alberto 
      alterato fuori misura.  "Se non credete che sia mio padre,  ditelo 
      subito, se invece credete che sia lui, rendetemene ragione." 
      Beauchamp guardò Alberto con un sorriso particolare. 
      "Signore" ripeté, "poiché credo di aver a che fare con un signore, 
      se  siete  venuto  qui  per  domandarmi  ragione,  dovevate  farlo 
      dall'inizio,  e non venire a parlare d'amicizia e  di  altre  cose 
      inutili,  come  quelle  che  ho  la pazienza d'ascoltare da più di 
      mezz'ora.  Dobbiamo camminare su questo terreno d'ora  in  avanti? 
      Rispondete." 
      "Sì, se non ritrattate l'infame calunnia!" 
      "Freno alle minacce,  vi prego,  signor Alberto Mondego,  visconte 
      Morcerf che io non ne tollero dai nemici,  molto meno dagli amici! 
      Desiderate che io smentisca il fatto del generale Fernando,  fatto 
      al quale non ho, vi assicuro avuta alcuna parte?" 
      "Sì, lo voglio!" disse Alberto,  la cui testa non era più in grado 
      di ragionare. 
      "Altrimenti  ci  batteremo?"  continuò  Beauchamp  con la medesima 
      calma. 
      "Sì" rispose Alberto alzando la voce. 
      "Ebbene" disse Beauchamp, "ecco la mia risposta, mio caro signore: 
      questo trafiletto non fu pubblicato da me,  che non lo  conoscevo, 
      ma  voi  con  la vostra protesta avete attirato la mia attenzione, 
      per cui verrà stampato fino a che non venga smentito, o confermato 
      da chi di diritto." 
      "Signore!" disse Alberto alzandosi.  "Avrò l'onore di  mandarvi  i 
      miei testimoni, coi quali sceglierete il luogo e le armi." 
      "Accetto, mio caro signore." 
      "E  stasera,  se  vi  piace,  o  domani  mattina  al più tardi noi 
      c'incontreremo." 
      "No! no! Io sarò sul terreno quando sarà il tempo,  e a mio avviso 
      (ho  diritto  della scelta poiché sono stato io che ho ricevuta la 
      sfida), e, a mio avviso, ripeto, l'ora non è ancora giunta. So che 
      voi tirate benissimo di spada, io invece appena passabilmente;  so 
      che voi cogliete tre volte sopra cinque nel segno,  questa abilità 
      è quasi uguale alla mia;  so che un duello fra noi sarà un  duello 
      serio,  perché siete coraggioso,  ed io... io lo sono altrettanto. 
      Non voglio dunque espormi ad uccidervi,  o essere ucciso io stesso 
      da  voi  senza  una  causa.  Sono io ora,  che sto a mia volta per 
      mettere in campo la questione ca-te-go-ri-ca-men-te.  Esigete  voi 
      questa  ritrattazione  a  costo  di  uccidermi  se  non la faccio, 
      quantunque vi abbia detto, ripetuto e affermato sul mio onore, che 
      non ne sapevo nulla,  quantunque  vi  dichiari  finalmente  essere 
      impossibile   a   tutt'altri   che  a  un  don  Japhet  come  voi, 
      d'indovinare che sotto il  nome  di  Fernando  si  celi  il  conte 
      Morcerf?" 
      "Lo voglio assolutamente." 
      "Ebbene,   mio  caro  signore,   acconsento,  ma  concedetemi  tre 
      settimane. Fra tre settimane vi rivedrò per dirvi: "Sì, il fatto è 
      falso, e io lo cancello", oppure: "Sì, il fatto è vero, e io snudo 
      la spada, o afferro le pistole, a vostra scelta"." 
      "Tre settimane!?" gridò Alberto. "Ma tre settimane sono tre secoli 
      di disonore!" 
      "Se non mi aveste tolta la vostra amicizia, vi direi: "Amico, abbi 
      pazienza ancora un poco",  ma poiché vi dichiarate invece  nemico, 
      vi risponderò francamente: "E che importa a me, signore?"." 
      "Sia fra tre settimane,  lo concedo!  Ma pensateci bene,  dopo tre 
      settimane non ammetterò altra dilazione,  né sotterfugio che possa 
      dispensarvi..." 
      "Signor  Alberto Morcerf" disse Beauchamp,  alzandosi a sua volta, 
      "non posso gettarvi dalla finestra che fra tre settimane,  vale  a 
      dire fra ventiquattro giorni, e voi non avete diritto d'insultarmi 
      che in quell'epoca.  Ora siamo al ventinove del mese di agosto, al 
      ventuno dunque del mese di settembre... Fin là, credetemi, ed è un 
      consiglio da gentiluomo che vi do,  fin là non latriamo,  come due 
      cani mastini incatenati ad una certa distanza." 
      E Beauchamp salutando gravemente il giovane,  gli voltò le spalle, 
      ed entrò nella stamperia. 
      Alberto si vendicò  sopra  una  massa  di  giornali  che  disperse 
      frustandoli  a  gran colpi con la bacchettina,  dopo di che partì, 
      non senza essersi voltato due o tre volte  verso  la  porta  della 
      stamperia.   Mentre   Alberto  attraversava  nel  suo  calesse  il 
      boulevard,  vide Morrel,  che col capo alto,  l'occhio aperto e le 
      braccia  sciolte,  passava davanti ai bagni cinesi,  venendo dalla 
      parte di Saint-Martin e andando verso la Madeleine. 
      "Ah" esclamò Alberto sospirando, "ecco un uomo felice." 
      Per caso Alberto diceva il vero. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 78. 
                                 LA LIMONATA. 
 
 
      Morrel era  infatti  felicissimo.  Il  signor  Noirtier  lo  aveva 
      mandato a cercare, ed era così ansioso di sapere che cosa volesse, 
      che  non  aveva preso il calessino,  fidandosi molto più delle sue 
      gambe,  che delle quattro di un  cavallo  da  piazza.  Era  dunque 
      partito correndo dalla rue Meslay, e si portava al Faubourg Saint- 
      Honoré. 
      Morrel camminava con passo svelto,  e il povero Barrois lo seguiva 
      alla meglio: Morrel aveva trentun'anni, Barrois ne aveva sessanta; 
      Morrel era ebbro d'amore,  Barrois era trafelato  per  l'eccessivo 
      calore.  Questi  due  uomini  diversi  per  interessi  e  per  età 
      somigliavano alle due linee che formano un triangolo,  allontanate 
      alla  base  e  riunite  alla sommità: la sommità era Noirtier,  il 
      quale aveva mandato a  cercare  Morrel,  raccomandandogli  di  far 
      presto,  raccomandazione che Morrel adempiva scrupolosamente,  con 
      gran disperazione di Barrois. 
      Giungendo,  Morrel non era neppure trafelato;  l'amore somministra 
      le  ali;  ma  Barrois,  che da lungo tempo non era più innamorato, 
      Barrois nuotava nel sudore.  Il  vecchio  servitore  fece  entrare 
      Morrel  dalla  porta  segreta,  chiuse  quella  dello studio e ben 
      presto il fruscio di una veste sul pavimento annunziò la visita di 
      Valentina: Valentina era oltremodo bella nel suo  abito  a  lutto. 
      L'incanto  era così dolce,  che Morrel si sarebbe anche dispensato 
      dal colloquio col signor Noirtier,  ma la poltroncina del  vecchio 
      s'udì rotolare ben presto sul pavimento, ed egli entrò. 
      Noirtier  accolse  con  uno  sguardo  benevolo i ringraziamenti di 
      Morrel per il meraviglioso intervento che aveva salvato  Valentina 
      e  lui  dalla  disperazione.  Valentina  intanto,  timida e seduta 
      lontano da Morrel, aspettava di essere costretta a parlare. 
      Noirtier la guardò anche lui. 
      "Devo dunque dire ciò di cui mi avete incaricata?" domandò. 
      "Sì" indicò Noirtier. 
      "Signor Morrel" disse allora Valentina al giovane, che la divorava 
      con gli occhi,  "il mio buon nonno Noirtier aveva  mille  cose  da 
      dirvi,  e  in questi tre giorni le ha dette a me.  Oggi vi manda a 
      cercare perché ve le ripeta;  ve le ripeterò dunque,  poiché mi ha 
      scelta per suo interprete, senza cambiarne una parola." 
      "Oh,   io  ascolto  con  molta  impazienza"  rispose  il  giovane. 
      "Parlate, signorina, parlate." 
      Valentina abbassò gli occhi; questo fu un presagio che parve dolce 
      a Morrel, Valentina non era timida che nella felicità. 
      "Mio padre vuole  abbandonare  questa  casa"  disse.  "Barrois  si 
      occupa di cercargli un comodo appartamento." 
      "Ma,  voi,  signorina"  disse  Morrel,  "voi che siete così cara e 
      necessaria al signor Noirtier... Voi che..." 
      "Io" riprese la ragazza,  "non  lascerò  mio  nonno,  è  cosa  già 
      convenuta fra lui e me.  Il mio appartamento sarà vicino al suo... 
      O avrò il consenso del signor Villefort per andare ad abitare  con 
      il nonno, o me lo rifiuterà: nel primo caso io parto fin da questo 
      momento;  nel secondo,  aspetto la mia maggior età,  che viene fra 
      dieci mesi.  Allora io sarò libera,  avrò uno stato  indipendente, 
      e..." 
      "E?..." domandò Morrel. 
      "E, con l'autorizzazione del nonno, manterrò la promessa che vi ho 
      fatto." 
      Valentina pronunciò queste ultime parole con voce così bassa,  che 
      Morrel non avrebbe potuto udirle senza l'interesse  che  aveva  di 
      divorarle. 
      "Non  ho  così  espresso  il vostro pensiero,  caro nonno?" chiese 
      Valentina a Noirtier. 
      "Sì" confermò il vecchio. 
      "Una volta in casa di mio nonno" aggiunse  Valentina,  "il  signor 
      Morrel  potrà venire a vedermi in presenza di questo buono e degno 
      protettore...  Se il legame  che  unisce  i  nostri  cuori,  forse 
      ignoranti  o  capricciosi,  sarà  durevole  e  offrirà garanzie di 
      futura felicità (ahimè,  si dice che  i  cuori,  infiammati  dagli 
      ostacoli,  si  raffreddino  nelle  abituali  certezze),  allora il 
      signor Morrel potrà chiedermi in sposa, io lo aspetterò." 
      "Oh!" gridò Morrel,  tentando d'inginocchiarsi davanti al  vecchio 
      come  davanti  a  un  nume,  davanti a Valentina come davanti a un 
      angelo. "Oh,  che mai ho fatto di bene nella mia vita da meritarmi 
      tanta felicità?" 
      "Fino a quel momento" continuò la giovinetta, con la sua voce pura 
      e severa, "noi rispetteremo le convenienze, e anche la volontà dei 
      nostri  parenti,  purché  questa volontà non tenda a separarci per 
      sempre. In una parola,  la ripeto questa parola perché dice tutto, 
      noi aspetteremo." 
      "E i sacrifici che questa parola impone,  signorina" disse Morrel, 
      "vi giuro che li  compirò,  non  già  con  rassegnazione,  ma  con 
      felicità." 
      "Così"  continuò  Valentina,  con  uno  sguardo  dolce al cuore di 
      Massimiliano,  "non più imprudenze,  amico mio,  non compromettete 
      colei  che,  da  questo momento,  si considera destinata a portare 
      onorevolmente e degnamente il vostro nome." 
      Morrel si appoggiò la mano sul cuore. 
      Noirtier li guardava entrambi con tenerezza,  e Barrois,  che  era 
      rimasto nel fondo,  sorrideva asciugandosi le grosse gocce che gli 
      cadevano dalla fronte calva. 
      "Oh,  mio  Dio,   com'è  trafelato  questo  buon  Barrois!"  disse 
      Valentina. 
      "Ah" disse Barrois,  "è perché ho corso molto.  Vedete, signorina, 
      il signor Morrel, debbo rendergli giustizia,  correva ancor più di 
      me." 
      Noirtier  indicò  con  l'occhio  una  sottocoppa,  sulla quale era 
      preparata una bottiglia di  limonata  ed  un  bicchiere.  Ciò  che 
      mancava nella bottiglia era stato bevuto mezz'ora prima dal signor 
      Noirtier. 
      "Prendi buon Barrois" disse la ragazza,  "prendi,  poiché già vedo 
      che vagheggi con gli occhi questa bottiglia." 
      "Il fatto è" rispose Barrois,  "che muoio di  sete,  e  berrò  ben 
      volentieri un bicchiere di limonata alla vostra salute." 
      "Bevi dunque" disse Valentina, "e ritorna subito." 
      Barrois  portò  via  la  sottocoppa,  e  appena  fu nel corridoio, 
      attraverso la porta che aveva dimenticato di  chiudere,  fu  visto 
      rovesciare indietro la testa per vuotare il bicchiere empitogli da 
      Valentina. 
      Valentina  e  Morrel si stavano salutando in presenza di Noirtier, 
      quando s'udì suonare il campanello della scala di  Villefort.  Era 
      il segnale di una visita. Valentina guardò l'orologio a pendolo. 
      "E'  mezzogiorno"  disse,  "e oggi è sabato,  caro nonno,  è senza 
      dubbio il dottore." 
      Noirtier fece segno che doveva esser lui. 
      "Egli viene qui... Bisogna che il signor Morrel se ne vada.  Non è 
      vero nonno?" 
      "Sì" accennò Noirtier. 
      "Barrois!" chiamò Valentina, "Barrois, venite!" 
      S'udì la voce del vecchio servitore che rispondeva: 
      "Vengo, signorina." 
      "Barrois  vi  accompagnerà  fino  alla  porta"  disse  Valentina a 
      Morrel. "Ed ora ricordatevi una cosa,  signor ufficiale,  ed è che 
      il  nonno  vi  raccomanda  di  non  tentare  alcuna cosa capace di 
      compromettere la nostra felicità." 
      "Ho promesso di aspettare, ed aspetterò." 
      In questo momento entrò Barrois. 
      "Chi ha suonato?" domandò Valentina. 
      "Il dottor d'Avrigny" disse Barrois, traballando sulle gambe. 
      "Ebbene, che avete dunque, Barrois?" domandò Valentina. 
      Il  vecchio  non  rispose:  guardava  il  padrone  con  gli  occhi 
      stravolti,  mentre con la mano cercava un appoggio per rimanere in 
      piedi. 
      "Ma sta per cadere!" gridò Morrel. 
      Infatti,  il  tremito,   da  cui  Barrois  era  preso,   aumentava 
      visibilmente,  i  tratti del viso,  alterato dai moti convulsi dei 
      muscoli della faccia,  preannunciavano una crisi nervosa delle più 
      violente.  Noirtier,  vedendo Barrois sconvolto,  rivelava con gli 
      sguardi tutte le emozioni che gli agitavano il cuore. 
      Barrois fece qualche passo verso il suo padrone. 
      "Ah, mio Dio! mio Dio! Signore" disse, "ma che ho mai?... Soffro.. 
      non ci vedo più...  la mia testa è  trafitta  da  mille  punte  di 
      fuoco. Oh, non mi toccate, non mi toccate!" 
      Infatti  i  suoi  occhi  divennero sporgenti e incerti la testa si 
      rovesciava all'indietro,  mentre la parte inferiore del  corpo  si 
      irrigidiva.  Valentina spaventata mandò un grido.  Morrel la prese 
      nelle sue braccia,  come se volesse difenderla da  qualche  ignoto 
      pericolo. 
      "Signor  d'Avrigny!  signor  d'Avrigny!"  gridò Valentina con voce 
      soffocata. "Soccorso!" 
      Barrois si volse,  facendo tre passi indietro,  vacillò,  e andò a 
      cadere  ai piedi di Noirtier,  sul ginocchio del quale appoggiò la 
      sua mano gridando: 
      "Padrone mio! padrone mio!" 
      Allora il signor Villefort,  attirato dalle grida,  comparve sulla 
      soglia  della  camera.  Morrel lasciò Valentina semisvenuta,  e si 
      nascose in un angolo della camera dietro una tenda.  Pallido  come 
      se  avesse  veduto  uno  spettro  sorgere  davanti a sé,  fissò lo 
      sguardo sull'infelice moribondo. 
      Noirtier ardeva d'impazienza e di terrore;  la sua anima volava in 
      soccorso  al  povero  vecchio,   suo  amico,   piuttosto  che  suo 
      domestico.  Si vedeva la lotta terribile della vita e della  morte 
      riflettersi sulla sua fronte. Barrois con la faccia sconvolta, gli 
      occhi  sanguigni,  il collo rovesciato indietro,  giaceva bocconi: 
      una  leggera  schiuma  colava  dalle  sue  labbra,   e   respirava 
      affannosamente. 
      Villefort stupefatto contemplò un istante quel quadro. Dopo quella 
      muta contemplazione, durante la quale il pallore gli illividiva il 
      viso: 
      "Dottore!  dottore!"  gridò slanciandosi verso la porta.  "Venite! 
      venite!" 
      "Signora!  signora!" gridò Valentina,  chiamando  la  matrigna,  e 
      urtando  nelle  pareti della scala.  "Accorrete,  accorrete con la 
      boccettina dei sali." 
      "Che cosa è accaduto?" domandò la voce metallica e dignitosa della 
      signora Villefort. 
      "Oh, venite! venite!" 
      "Ma dov'è dunque il dottore?" gridò Villefort, "dov'è?" 
      La signora Villefort discese lentamente,  facendo scricchiolare le 
      assi  sotto  i  suoi piedi,  tenendo in una mano il fazzoletto col 
      quale si asciugava il viso,  nell'altra  la  boccettina  dei  sali 
      inglesi. 
      Il  suo  primo  sguardo,  entrando,  lo  volse a Noirtier,  il cui 
      aspetto,  salva l'emozione,  era calmo  e  fermo;  il  secondo  al 
      moribondo. 
      "Ma in nome del cielo, signora, dov'è andato dunque il dottore? E' 
      entrato da voi.  Questa è una apoplessia, come vedete bene, con un 
      salasso di sangue si può salvare." 
      La signora impallidì, ed il suo occhio si volgeva dal servitore al 
      padrone. 
      "Ha mangiato da poco?" domandò la signora  Villefort  eludendo  la 
      domanda. 
      "Non  ha fatto colazione" disse Valentina,  "ma ha camminato molto 
      questa mattina,  per  eseguire  una  commissione  di  cui  l'aveva 
      incaricato mio nonno. Al ritorno soltanto ha preso una limonata." 
      "Ah!"  gridò la signora Villefort.  "Perché non ha preso del vino? 
      Non fa bene una limonata." 
      "La limonata era là, nella bottiglia del nonno;  il povero Barrois 
      aveva sete, ha bevuto ciò che ha trovato." 
      La  signora  Villefort  fremette,  Noirtier  la guardò con attento 
      sguardo.  "Come ha il collo torto!" disse lei guardando con orrore 
      Barrois. 
      "Signora" disse Villefort,  "vi domando dov'è il signor d'Avrigny: 
      in nome del cielo, rispondete!" 
      "Nella camera d'Edoardo che si trova un po' indisposto" rispose la 
      signora Villefort,  che  non  poteva  eludere  più  lungamente  la 
      domanda. 
      Villefort  si  lanciò  su  per la scala per andare a cercarlo egli 
      stesso. 
      "Prendete" disse la  giovane  sposa  dando  la  sua  boccettina  a 
      Valentina.  "Fra poco gli faranno senza dubbio un salasso: ritorno 
      nelle mie stanze poiché non posso sopportare la vista del sangue." 
      E seguì suo marito. 
      Morrel uscì dal nascondiglio. 
      "Presto, partite, Massimiliano" gli disse Valentina, "ed aspettate 
      che io vi richiami. Andate!" 
      Morrel  consultò  Noirtier  con  un  gesto.  Noirtier,  che  aveva 
      conservato  tutta  la  sua  calma,  gli  fece segno di sì.  Allora 
      strinse la mano di Valentina contro  il  suo  cuore,  e  uscì  dal 
      corridoio  mentre  Villefort  e il dottore rientravano dalla parte 
      opposta. 
      Barrois cominciava a ritornare in  sé;  anzi  essendo  passata  la 
      crisi, si era sollevato sopra un gomito, mandando profondi gemiti. 
      D'Avrigny e Villefort lo portarono sopra un sofà. 
      "Che cosa ordinate, dottore?" domandò Villefort. 
      "Fatemi portare dell'acqua e dell'etere, se ce n'è in casa." 
      "Sì." 
      "Mandate a prendere dell'olio di trementina e dell'emetico." 
      "Andate!" disse Villefort. 
      "Ora, si ritirino tutti." 
      "Io pure?" domandò timidamente Valentina. 
      "Sì, signorina, voi sopra tutti!" disse burberamente il dottore. 
      Valentina  guardò  il  signor  d'Avrigny con meraviglia,  baciò in 
      fronte il signor Noirtier, e uscì.  Dietro a lei il dottore chiuse 
      la porta con aria cupa. 
      "Osservate,  osservate,  dottore,  eccolo  che  rinviene;  era  un 
      attacco di nessuna importanza." 
      Il signor d'Avrigny sorrise mestamente. 
      "Come vi sentite, Barrois?" domandò il dottore. 
      "Un po' meglio, signore." 
      "Potete bere un bicchiere di questo etere?" 
      "Mi proverò, ma non mi toccate." 
      "Perché?" 
      "Perché mi sembra che se mi toccaste, foss'anche con la sola punta 
      di un dito, l'accesso mi ritornerebbe." 
      "Bevete." 
      Barrois prese il bicchiere, se l'avvicinò alle labbra violacee,  e 
      ne vuotò circa la metà. 
      "Dove soffrite?" domandò il dottore. 
      "Dappertutto, provo spaventosissimi crampi." 
      "Avete un tremito all'occhio?" 
      "Sì." 
      "Tintinnio alle orecchie?" 
      "Spaventoso." 
      "Quando vi è cominciato?" 
      "Poco fa." 
      "Rapidamente?" 
      "Come il fulmine." 
      "Niente ieri? ieri l'altro?" 
      "Niente." 
      "Neppure sonnolenza? peso?" 
      "No." 
      "Che cosa avete mangiato quest'oggi?" 
      "Non ho mangiato niente, ho bevuto soltanto un po' di limonata del 
      signore, ecco tutto." 
      E  Barrois  fece  colla testa un segno per indicare Noirtier,  che 
      immobile sulla sedia contemplava  quella  terribile  scena,  senza 
      perderne motto, senza che alcuna parola gli sfuggisse. 
      "Dov'è la limonata?" domandò vivamente il dottore. 
      "In una bottiglia." 
      "Dov'è?" 
      "In  cucina.   Volete  che  vada  a  cercarla,  dottore?"  domandò 
      Villefort. 
      "No, restate qui, e cercate di far bere al malato il resto di quel 
      bicchiere d'acqua." 
      "Ma la limonata..." 
      "Vado io stesso." 
      D'Avrigny fece un salto,  ed aperta la porta,  si lanciò giù dalle 
      scale, poco mancando che non rovesciasse la signora Villefort, che 
      anch'essa  scendeva in cucina,  per cui mandò un grido.  D'Avrigny 
      non vi fece attenzione, assorto come era in una sola idea: saltò i 
      primi tre o quattro scalini,  e  scoperse  la  bottiglia  per  tre 
      quarti  vuota  sulla  sua sottocoppa.  Vi piombò sopra come aquila 
      sulla sua preda quindi, ansante,  risalì,  e rientrò nella camera. 
      La  signora  Villefort  risaliva lentamente la scala che conduceva 
      alle sue stanze. 
      "Era questa la bottiglia che era qui?" domandò d'Avrigny. 
      "Sì, signor dottore." 
      "Questa limonata è la stessa che avete bevuta?" 
      "Lo credo." 
      "Che gusto ci avete sentito?" 
      "Un gusto amaro." 
      Il dottore versò qualche goccia di limonata nel cavo  della  mano, 
      l'aspirò colle labbra, e dopo avere sciacquata la bocca come si fa 
      quando si vuole gustare il vino, sputò il liquido nel caminetto. 
      "E' la stessa" disse. "E voi, signor Noirtier, ne avete bevuto?" 
      Il vecchio fece segno di sì. 
      "Le avete trovato il medesimo gusto amaro?" 
      Il vecchio ripeté ancora di sì. 
      "Ah, signor dottore" gridò Barrois, "ecco che il male mi riprende! 
      mio Dio, Signore, abbiate pietà di me!" 
      Il dottore corse al malato. 
      "Questo emetico, Villefort, guardate se viene." 
      Villefort si slanciò gridando: 
      "L'emetico!  l'emetico!  L'hanno portato?" Nessuno rispose. Il più 
      profondo terrore regnava nella casa. 
      "Se potessi soffiargli dell'aria  nei  polmoni"  disse  d'Avrigny, 
      guardandosi intorno,  "avrei il mezzo di prevenire l'asfissia.  Ma 
      no! niente! niente!" 
      "Ah,   signore"  gridava  Barrois,   "mi  lascerete  morire  senza 
      soccorso? Oh, io muoio! mio Dio, io muoio!" 
      "Una penna! una penna!" gridò il dottore. 
      Ne  afferrò una sulla tavola,  e tentò d'introdurla nella gola del 
      malato, che si contorceva,  ma le mascelle erano talmente strette, 
      che  la penna non poté passarvi.  Barrois,  in preda ad un attacco 
      nervoso anche più intenso del primo, era scivolato giù dal sofà, e 
      si contorceva sul pavimento.  Il dottore  lo  lasciò  in  preda  a 
      questo  accesso,  al  quale  non  poteva  portare  un sollievo,  e 
      ritornando a Noirtier: 
      "Come vi sentite voi?" gli disse,  precipitosamente e sotto  voce, 
      "bene?" 
      "Sì." 
      "Leggero di stomaco, o pesante? Leggero?" 
      "Sì." 
      "E' stato Barrois che ha fatto la vostra limonata?" 
      "Sì." 
      "L'avete sollecitato voi a berne?" 
      "E' stato il signor Villefort?" 
      "No." 
      "La signora?" 
      "No." 
      "Fu dunque Valentina, allora?" 
      "Sì." 
      Un sospiro di Barrois,  uno sbadiglio che gli faceva scricchiolare 
      le ossa della mascella,  richiamarono l'attenzione  di  d'Avrigny; 
      lasciò il signor Noirtier, e corse al malato. 
      "Barrois" disse il dottore, "potete parlare?" 
      Barrois balbettò qualche parola inintelligibile. "Fate uno sforzo, 
      amico mio." Barrois riaprì gli occhi. 
      "Chi ha fatto la limonata?" 
      "Io." 
      "L'avete portata subito al vostro padrone, dopo averla fatta?" 
      "No." 
      "L'avete lasciata in qualche luogo allora?" 
      "Nella credenza; fui chiamato." 
      "Chi la portò qui?" 
      "La signorina Valentina." 
      D'Avrigny  si  batté la fronte.  "Oh,  mio Dio,  mio Dio!" mormorò 
      egli. 
      "Dottore!"  gridò  Barrois,   che  sentiva  avvicinarsi  un  terzo 
      accesso. "Ma non porteranno mai questo emetico?" gridò il dottore. 
      "Eccone un bicchiere già preparato" disse Villefort rientrando. 
      "Da chi?" 
      "Dal giovane della farmacia che è venuto con me." 
      "Bevete." 
      "Impossibile,  dottore,  è  troppo  tardi;  io  ho  la gola che si 
      restringe!  Oh,  il mio cuore!  Oh,  la mia  testa!...  Oh,  quale 
      inferno!... E dovrò soffrire a lungo così?" 
      "No,  no,  amico  mio"  disse  il  dottore,  "ben  presto  voi non 
      soffrirete più." 
      "Ah, vi capisco! Mio Dio, abbiate pietà di me!" 
      E,  gettando un grido,  cadde,  come se fosse stato colpito da  un 
      fulmine.  D'Avrigny  gli  mise una mano sul cuore,  e avvicinò uno 
      specchio alle labbra. 
      "Ebbene?" domandò Villefort. 
      "Andate a dire in cucina che mi portino subito dello  sciroppo  di 
      viole." 
      Villefort scese immediatamente. 
      "Non vi spaventate,  signor Noirtier" disse d'Avrigny.  "Trasporto 
      il malato in un'altra camera, per cavargli sangue;  davvero questa 
      sorta d'accessi sono un triste spettacolo a vedersi." 
      E,  prendendo Barrois sotto le braccia,  lo trascinò in una camera 
      vicina, ma subito dopo rientrò dal signor Noirtier per prendere il 
      resto della limonata. Noirtier chiuse l'occhio diritto. 
      "Valentina, è vero? voi volete Valentina?  Ordino subito che ve la 
      mandino." 
      Villefort risaliva; d'Avrigny lo incontrò nel corridoio. 
      "Ebbene?" domandò Villefort. 
      "Venite" disse d'Avrigny. 
      E lo condusse nella camera. 
      "Sempre svenuto?" domandò il regio procuratore. 
      "Morto!" 
      Villefort  indietreggiò  due o tre passi,  si congiunse le mani al 
      disopra della testa, e con una commiserazione non equivoca: 
      "Morto così all'improvviso?" diss'egli, guardando il cadavere. 
      "Sì,  d'improvviso,  è vero?" disse d'Avrigny.  "Ma ciò  non  deve 
      sorprendere:  il  signore  e  la signora di Saint-Méran sono morti 
      essi pure così prontamente.  Oh,  si muore alla  spiccia  in  casa 
      vostra, signor Villefort." 
      "Che?"   gridò   il   magistrato,   con   accento  d'orrore  e  di 
      costernazione. "Voi ritornate alla vostra terribile idea?" 
      "Sempre, signore,  sempre" disse d'Avrigny con solennità,  "perché 
      essa  non  mi  ha  abbandonato  un  istante...  E perché siate ben 
      convinto che questa volta non mi inganno ascoltatemi bene,  signor 
      Villefort." 
      Villefort tremava terribilmente. 
      "C'è  un  veleno  che ammazza senza quasi lasciare traccia.  Io lo 
      conosco,  io l'ho studiato in tutti  gli  incidenti,  in  tutti  i 
      fenomeni  che produce.  Questo veleno io l'ho riconosciuto poco fa 
      nel povero Barrois,  come già prima nella signora di  Saint-Méran. 
      C'è  un modo di riconoscerne la presenza: ridona il colore azzurro 
      alla carta di tornasole arrossata con un acido,  e tinge in  verde 
      lo  sciroppo  di violette.  Non abbiamo la carta di tornasole,  ma 
      adesso porteranno lo sciroppo di violette che ho ordinato." 
      Infatti si udivano  dei  passi  nel  corridoio:  il  dottore  aprì 
      alquanto la porta,  prese dalle mani della cameriera un vaso,  nel 
      fondo del quale vi  erano  due  o  tre  cucchiai  di  sciroppo,  e 
      richiuse la porta. 
      "Guardate"  disse  al  regio  procuratore,  a cui il cuore batteva 
      fortemente,  "ecco in questa tazza lo sciroppo di violette,  ed in 
      questa  bottiglia  il  rimanente della limonata che si sono bevuta 
      Noirtier e Barrois.  Se la  limonata  è  pura  e  inoffensiva,  lo 
      sciroppo conserverà il suo colore, se la limonata è avvelenata, lo 
      sciroppo deve diventar verde. Osservate!" 
      Il  dottore  versò  lentamente  qualche  goccia  di limonata nella 
      tazza,  e si vide nello stesso istante formarsi  nel  fondo  della 
      tazza un cambiamento di colore da prima azzurro,  poi zaffiro, poi 
      opale, indi smeraldo; l'esperimento non lasciava più alcun dubbio. 
      "L'infelice Barrois è stato avvelenato colla  falsa  angustura,  o 
      con  la  noce di Sant'Ignazio" disse d'Avrigny.  "Ora lo asserirei 
      davanti agli uomini e davanti a Dio." 
      Villefort muto alzò le braccia al cielo, aprì gli occhi stravolti, 
      e cadde sopra una sedia. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 79. 
                                  L'ACCUSA. 
 
 
      Il dottore  tolse  ben  presto  il  magistrato  dal  suo  profondo 
      abbattimento:  era  tale il pallore del suo viso,  che sembrava un 
      altro cadavere in quella funebre stanza. 
      "Oh, la morte è nella mia casa" gridò Villefort. 
      "Dite piuttosto il delitto!" ripeté il dottore. 
      "Signor d'Avrigny" esclamò Villefort,  "io  non  posso  esprimervi 
      tutto  ciò  che  provo in me in questo momento: spavento,  dolore, 
      follìa." 
      "Sì" disse il signor d'Avrigny,  con una calma imponente,  "ma  io 
      credo che sia il tempo di agire, credo che sia tempo di mettere un 
      argine  a  questo  torrente di mortalità.  In quanto a me,  non mi 
      sento capace di poter portare più a lungo un tale segreto senza la 
      speranza di averne giustizia, a soddisfazione della società intera 
      e delle vittime." 
      "In casa mia" mormorò Villefort, "in casa mia?!" 
      "Riflettiamo, magistrato" disse d'Avrigny, "siate uomo! interprete 
      della legge! Onoratevi con un reale sacrificio!" 
      "Immolarmi!?  Che  dite?   Dunque  i  vostri  sospetti  cadono  su 
      qualcuno... Mi fate fremere, dottore." 
      "Io non ho alcun sospetto, ma la morte batte alla vostra porta, né 
      entra cieca, ma intelligente, passa di camera in camera... Ebbene, 
      io  seguo le sue tracce,  riconosco il suo passaggio...  Adotto la 
      saggezza degli antichi vado a tastoni,  perché la mia amicizia per 
      la  vostra  famiglia,  il rispetto per voi sono come due bende che 
      porto agli occhi... Ebbene..." 
      "Oh! parlate, parlate, dottore, avrò coraggio." 
      "Ebbene,  signore,  in casa vostra,  nel seno forse  della  vostra 
      famiglia  accade  uno di quegli orribili e misteriosi fenomeni che 
      sono accaduti anche nella storia...  Locusta e  Agrippina,  perché 
      vivevano nel medesimo tempo,  erano un'eccezione che provava l'ira 
      del destino per perdere l'impero romano, lordato da tanti delitti. 
      Brunehaut e Fredegonda sono i risultati del lavoro  penoso  di  un 
      incivilimento alla sua genesi, nel quale l'uomo impara ad assopire 
      lo spirito,  fosse pure per inviarlo alle tenebre.  Ebbene,  tutte 
      queste donne erano giovani e belle: sulla loro fronte era impresso 
      lo stesso fiore d'innocenza che sta sulla fronte  della  colpevole 
      che è in casa vostra." 
      Villefort mandò un grido,  congiunse la mani,  e guardò il dottore 
      con un gesto supplichevole. Questi continuò senza interrompersi: 
      "Bada  a  chi  è  utile   il   delitto,   dice   un   assioma   di 
      giurisprudenza." 
      "Dottore"  gridò  Villefort,  "ahimè,  dottore,  quante  volte  la 
      giustizia degli uomini si è ingannata sopra queste funebri parole! 
      Io non so, ma mi sembra che questo delitto..." 
      "Ah, lo confessate dunque finalmente che c'è un delitto?" 
      "Sì,  lo riconosco,  ma lasciatemi continuare: mi sembra,  dicevo, 
      che questo delitto cada soltanto sopra di me, e non sulle vittime. 
      Io prevedo qualche sciagura, sotto tutti questi strani eventi." 
      "Oh,  uomo"  mormorò  d'Avrigny,  "che ti mostri il più egoista di 
      tutti gli animali,  che puoi credere che sempre  soltanto  per  te 
      giri la terra,  brilli il sole,  e si affatichi la morte,  formica 
      che mormora della provvidenza  dall'alto  di  un  filo  d'erba!  E 
      quelli  che  hanno  perduto la vita non hanno pure perduto qualche 
      cosa?  Il signore di Saint-Méran,  la signora di  Saint-Méran,  il 
      signor Noirtier..." 
      "Come, il signor di Noirtier..." 
      "Sì,  credete voi, per esempio, che abbiano voluto uccidere questo 
      disgraziato servitore? No,  no...  come il Polonio di Shakespeare, 
      egli  è  morto  per  un  altro,  perché era il signor Noirtier che 
      doveva bere la  limonata,  è  Noirtier  che  l'ha  bevuta  secondo 
      l'ordine  logico  delle  cose...  L'altro  non l'ha bevuta che per 
      accidente,  e,  quantunque sia stato Barrois quello che  è  morto, 
      pure era Noirtier quello che doveva morire." 
      "Ma allora come è che mio padre non ha sofferto!" 
      "Ve  l'ho  già detto una sera,  nel giardino,  dopo la morte della 
      signora di Saint-Méran: perché il suo corpo è divenuto  quasi  uno 
      stesso veleno,  perché la dose per lui insignificante, era mortale 
      per un altro, perché infine nessuno sa, e neppure l'assassino, che 
      da un anno  io  curo  con  la  brucnina  la  paralisi  del  signor 
      Noirtier,  mentre l'assassino non ignora, e se ne è assicurato con 
      l'esperienza, che la brucnina è un veleno violento." 
      "Mio Dio mio Dio!" mormorò Villefort, contorcendosi le braccia. 
      "Seguite le fila del delitto: esso  uccide  il  signor  di  Saint- 
      Méran..." 
      "Oh, dottore?" 
      "Lo  giurerei,  ciò  che  mi  è stato detto dai sintomi si accorda 
      troppo bene con ciò che  ho  veduto  io  stesso  coi  miei  propri 
      occhi." 
      Villefort cessò di fare obiezioni, e mandò un gemito. 
      "Uccide  il signore di Saint-Méran" ripeté il dottore,  "uccide la 
      signora di Saint-Méran: doppia eredità da raccogliere." 
      Villefort asciugò il sudore che gli grondava dalla fronte. 
      "Ascoltate bene." 
      "Ahimè!" balbettò Villefort. "Non perdo neppure una parola." 
      "Il signor Noirtier" ripeté con la sua voce implacabile il  signor 
      d'Avrigny,  "il  signor  Noirtier  aveva  non  da  molto  fatto un 
      testamento contro di voi, contro la vostra famiglia, in favore dei 
      poveri: il signor Noirtier viene risparmiato perché nulla si spera 
      da lui. Ma ha appena distrutto il suo primo testamento, e fatto un 
      secondo,  che per timore che si penta e  ne  faccia  un  terzo,  è 
      assalito:  il  testamento fu fatto ieri l'altro,  io credo: voi lo 
      vedete, non hanno perduto tempo." 
      "Oh, grazia, signor d'Avrigny." 
      "Nessuna grazia,  signore!  Il medico ha una missione sacra  sulla 
      terra,  e, per adempire a tale missione, risale fino alle sorgenti 
      della vita,  e discende  nelle  misteriose  tenebre  della  morte. 
      Quando il delitto è stato commesso,  e Dio, sdegnato senza dubbio, 
      rivolge  il  suo  sguardo  sul  delinquente,   spetta  al   medico 
      denunziarlo." 
      "Grazia per mia figlia, signore..." esclamò Villefort. 
      "Voi stesso l'avete nominata, voi, suo padre!" 
      "Grazia per Valentina! Sentite, è impossibile! Preferirei accusare 
      me   stesso!   Valentina,   un   cuore  di  diamante,   un  giglio 
      d'innocenza!" 
      "Nessuna grazia, signor regio procuratore! Il delitto è flagrante. 
      La  signorina  Villefort  ha  impacchettato  colle  sue   mani   i 
      medicamenti  che  furono  inviati  al signor di Saint-Méran,  e il 
      signor di Saint-Méran è morto. La signorina Villefort ha preparato 
      l'aranciata alla signora di Saint-Méran,  e la signora  di  Saint- 
      Méran  è  morta.  La  signorina  Villefort  ha preso dalle mani di 
      Barrois,  che si è mandato fuori,  la bottiglia di limonata che il 
      vecchio  ordinariamente  beve  la  mattina,  ed  il  vecchio non è 
      sfuggito  che  per  un  miracolo.  La  signorina  Villefort  è  la 
      colpevole,  è  l'avvelenatrice!  Signor  regio procuratore,  io vi 
      denunzio la signorina Villefort! Fate il vostro dovere!" 
      "Dottore, io non resisto più, non mi difendo più, vi credo, ma per 
      pietà, risparmiate la mia vita, il mio onore!" 
      "Signor Villefort" riprese il dottore  con  forza  crescente,  "vi 
      sono  circostanze  che  oltrepassano  tutti i limiti della sciocca 
      circospezione umana.  Se vostra figlia avesse commesso soltanto un 
      primo  delitto,  e  la  vedessi  meditarne  un secondo,  vi direi: 
      "Avvertitela, punitela,  che ella passi il resto della sua vita in 
      un  ritiro,  in  un  convento  a  piangere  e pregare".  Se avesse 
      commesso un secondo delitto, vi direi: "Prendete signor Villefort, 
      ecco un veleno ignoto all'avvelenatrice,  un veleno di cui non  si 
      conosce  alcun antidoto,  pronto come il pensiero,  rapido come il 
      lampo, mortale come il fulmine; datele questo veleno, raccomandate 
      la sua anima a Dio,  e salvate così il vostro  onore  e  i  vostri 
      giorni,  perché ora sta a voi il divenire la vittima, e io la vedo 
      avvicinarsi al vostro capezzale coi suoi sorrisi ipocriti e le sue 
      dolci esortazioni. Voi infelice signor Villefort,  se non siete il 
      primo a colpire!". Ecco che cosa vi direi se non avesse ucciso che 
      due persone;  ma lei ha visto l'agonia di tre,  ha contemplato tre 
      moribondi,  si è inginocchiata vicino a tre cadaveri: al  patibolo 
      l'avvelenatrice!  al patibolo!  Voi parlate del vostro onore? Fate 
      ciò che vi dico, e l'immortalità vi aspetta." 
      Villefort cadde in ginocchio. 
      "Aspettate" disse, "io non ho la forza che avete voi,  o piuttosto 
      che  neppure  voi avreste,  se invece di mia figlia Valentina,  si 
      trattasse di vostra figlia Maddalena." 
      Il dottore impallidì. 
      "Dottore,  ogni uomo è figlio di donna,  è  nato  per  soffrire  e 
      morire; io soffrirò e aspetterò la morte." 
      "Guardatemi"  disse  il  signor d'Avrigny,  "sarà lenta...  questa 
      morte...  Voi la vedrete avvicinarsi dopo che avrà colpito  vostro 
      padre, vostra moglie, e forse vostro figlio anche..." 
      Villefort, soffocando, strinse il braccio del dottore. 
      "Ascoltatemi!" gridò. "Compiangetemi, soccorretemi. No, mia figlia 
      non  è  colpevole.  Trascinatela davanti ad un tribunale,  io dirò 
      sempre: "No, mia figlia non è colpevole". Non vi è delitto in casa 
      mia;  perché quando il delitto entra da qualche parte,  è come  la 
      morte:  non  entra mai solo.  Ascoltate,  che importa a voi che io 
      muoia assassinato?... No, voi siete un medico!... Ebbene, io ve lo 
      dico: no,  mia figlia non sarà trascinata da  me  nelle  mani  del 
      carnefice! Ah, quest'idea mi divora, mi spinge come un insensato a 
      lacerarmi  il  petto  colle  unghie!...  E  se  voi  v'ingannaste, 
      dottore?  Se fosse altri invece di mia figlia?...  Se un giorno io 
      venissi  pallido  come  uno  spettro  a dirvi: 'Assassino!  tu hai 
      ucciso  mia  figlia!...".  Vedete,  se  ciò  accadesse,   io  sono 
      cristiano, signor d'Avrigny, e ciò nonostante mi ucciderei!" 
      "Sta  bene"  disse  il  dottore,  dopo  un  istante  di  silenzio, 
      "aspetterò." 
      Villefort lo guardò come se dubitasse ancora delle sue parole. 
      "Soltanto" continuò d'Avrigny,  con  voce  lenta  e  solenne,  "se 
      qualcuno  della vostra casa cade malato,  se voi stesso vi sentite 
      male,  non mi chiamate,  perché io non verrò più.  Io dividerò con 
      voi questo segreto terribile...  ma non voglio che la vergogna e i 
      rimorsi vadano fruttificando e ingrandendo  nella  mia  coscienza, 
      come il delitto e l'infelicità si ingrandiranno e fruttificheranno 
      nella vostra casa." 
      "Cosicché, dottore, voi mi abbandonate?" 
      "Sì,  perché non posso seguirvi più oltre, e mi fermo ai piedi del 
      patibolo.  Verrà qualche altra rivelazione a mettere fine a questa 
      terribile tragedia. Addio." 
      "Dottore ve ne supplico!" 
      "Tutti gli orrori che turbano la mia mente mi fanno la vostra casa 
      odiosa e fatale. Addio, signore." 
      "Una parola,  una parola sola ancora,  dottore! Voi mi lasciate in 
      tutto l'orrore della  situazione,  orrore  che  avete  accresciuto 
      colla rivelazione fattami... Ma che si dirà della morte istantanea 
      di questo povero vecchio servitore?" 
      "E' vero" disse d'Avrigny, "accompagnatemi." 
      Il  dottore  uscì  per  primo,  seguito  dal  signor Villefort;  i 
      domestici inquieti erano nel corridoio e sulle scale  dove  doveva 
      passare il medico. 
      "Signore" disse d'Avrigny a Villefort,  parlando ad alta voce e in 
      modo che lo udissero tutti, "il povero Barrois era da qualche anno 
      troppo sedentario.  Abituato in altri  tempi  a  correre  col  suo 
      padrone,  a  cavallo  o  in  carrozza  per tutta l'Europa,  questo 
      servizio monotono, intorno ad una poltroncina, gli è stato fatale. 
      Il sangue è divenuto pesante, era pingue,  aveva il collo grosso e 
      corto,  è  stato  colpito da un'apoplessia fulminante,  ed io sono 
      stato avvertito troppo tardi...  A proposito" aggiunse poi a bassa 
      voce,  "abbiate  cura  di  gettare nelle ceneri quella tazza collo 
      sciroppo di violette." 
      Il dottore senza toccar la mano di  Villefort,  senza  tornare  un 
      istante su ciò che aveva detto,  uscì accompagnato dalle lacrime e 
      dai lamenti di tutte le persone di casa. 
      La sera stessa,  tutti i domestici di Villefort che erano radunati 
      in cucina, e che avevano lungamente parlato fra di loro, vennero a 
      domandare  alla  signora  Villefort  il  permesso di ritirarsi dal 
      servizio. 
      Nessuna  istanza,   nessuna  proposta  di  aumento  di  paga  poté 
      trattenerli: a tutte le parole rispondevano: 
      "Noi vogliamo andarcene, perché la morte è entrata nella casa." 
      Partirono dunque,  malgrado le preghiere,  testimoniando vivissimo 
      dispiacere  per  dovere  abbandonare   così   buoni   padroni,   e 
      particolarmente  la signorina Valentina,  tanto buona,  benefica e 
      affabile. 
      Villefort,  a queste  parole,  guardò  Valentina:  piangeva,  cosa 
      strana!  In  mezzo  all'emozione  che  gli  fecero  provare quelle 
      lacrime,  guardò anche la signora Villefort,  e gli sembrò vederle 
      passare sulle labbra sottili un sorriso fuggitivo e sinistro, come 
      quelle meteore che si vedono strisciare, funeste, fra due nubi nel 
      fondo di un cielo tempestoso. 
 
                                 Capitolo 80. 
                       LA STANZA DEL FORNAIO IN RITIRO. 
 
 
      La  sera  stessa  del giorno in cui il conte Morcerf era uscito da 
      Danglars con vergogna e furore,  per il rifiuto del banchiere,  il 
      signor  Andrea  Cavalcanti,  coi  capelli arricciati e lucenti,  i 
      baffi appuntati, i guanti bianchi, era entrato, quasi in piedi sul 
      suo carrozzino,  nel cortile del banchiere della Chaussée d'Antin. 
      In  capo  a dieci minuti di presentazione nel salone aveva trovato 
      il mezzo di isolare Danglars nel vano di una finestra, e là,  dopo 
      astuto preambolo,  aveva esposto i tormenti della sua vita dopo la 
      partenza del suo nobile padre. Dopo questa partenza,  diceva nella 
      famiglia  del  banchiere,  ove  era  stato ricevuto come un figlio 
      aveva trovato tutte le garanzie di felicità,  a  cui  deve  sempre 
      badare  l'uomo prima che al capriccio della passione,  e in quanto 
      alla passione stessa aveva avuto la felicità di trovarla nei begli 
      occhi della signorina Danglars. 
      Danglars ascoltava con la più profonda attenzione; erano già due o 
      tre giorni che aspettava questa dichiarazione, e quando finalmente 
      giunse l'occhio gli si dilatò,  quanto si era corrugato ascoltando 
      Morcerf.  Non  volle peraltro accogliere la profferta del giovane, 
      senza fare qualche osservazione coscienziosa. 
      "Signor Andrea" gli disse, "non siete ancora un po' troppo giovane 
      per pensare ad ammogliarvi?" 
      "Oh, no signore" riprese Cavalcanti, "almeno non lo credo,  poiché 
      in Italia i gran signori,  in generale, si sposano giovani; questo 
      è un costume logico: la vita è così piena di triboli,  che bisogna 
      afferrare la fortuna appena capita." 
      "Però,   signore"  disse  Danglars,   "ammettendo  che  le  vostre 
      proposte,  per me onorevoli,  siano gradite a mia moglie e  a  mia 
      figlia,  con  chi  dovremo  noi trattare le questioni d'interesse? 
      Questo mi sembra un affare importante,  che  i  soli  padri  sanno 
      convenientemente trattare per la felicità dei loro figli." 
      "Signore,  mio padre è uomo saggio,  pieno di prudenza e di senno; 
      ha previsto che io potessi provare il desiderio di  stabilirmi  in 
      Francia,   per  cui  partendo,  mi  ha  lasciato  tutte  le  carte 
      concernenti la  mia  persona,  ed  una  lettera,  colla  quale  mi 
      assicura,  nel  caso che io faccia una scelta che gli sia gradita, 
      centocinquantamila lire di rendita dal giorno del mio  matrimonio. 
      Da  quanto  posso  giudicare,  è  il  quarto  delle rendite di mio 
      padre." 
      "Ma" disse Danglars,  "io ho sempre avuto intenzione di dare a mia 
      figlia cinquecentomila franchi, maritandola: lei è inoltre l'unica 
      mia erede." 
      "Benissimo!"   disse  Andrea.   "Le  cose  vanno  per  il  meglio, 
      supponendo che la mia domanda non  sia  respinta  dalla  baronessa 
      Danglars  e  dalla  signorina  Eugenia:  eccoci  ad  un  totale di 
      centosettantacinquemila lire di rendita.  Supponiamo  che  ottenga 
      dal marchese, invece di pagarmi la rendita, di cedermi il capitale 
      (cosa  che non sarà facile,  lo so bene,  ma neppure impossibile), 
      voi farete fruttare questi due o tre milioni, e due o tre milioni, 
      fra le vostre abili mani,  possono sempre produrre  il  dieci  per 
      cento." 
      "Io  non prendo mai che il quattro" disse il banchiere,  "ed anche 
      il tre e mezzo.  Ma  a  mio  genero  prenderò  il  cinque,  e  poi 
      divideremo gli utili." 
      "Ebbene,  a  meraviglia,  suocero"  disse Cavalcanti,  lasciandosi 
      trasportare alquanto da quella volgare  natura,  che,  malgrado  i 
      suoi  sforzi,  faceva spesso oscurare la vernice aristocratica con 
      cui cercava di coprirla. 
      Ma ricomponendosi riprese: 
      "Oh, mi scusi,  signore,  la sola speranza mi rende quasi pazzo... 
      Cosa dovremo fare, dunque?" 
      "Ma"  disse Danglars,  che non si accorgeva come questo colloquio, 
      disinteressato sulle prime,  si  riduceva  di  colpo  a  questione 
      d'affari,  "vi  è  senza dubbio una porzione del vostro patrimonio 
      che vostro padre non può rifiutarvi?" 
      "E quale?" domandò il giovane. 
      "Quella che proviene da vostra madre." 
      "Eh,   certamente,   quella  che  viene  da  mia  madre   Eleonora 
      Corsinari." 
      "E a quanto può ammontare?" 
      "E' vero" disse Andrea,  "vi assicuro,  signore, che non ci ho mai 
      pensato... Stimo che possa esser di due milioni..." 
      Danglars sentì quella specie di soffocamento inebriante, che prova 
      l'avaro trovando il tesoro perduto,  o l'uomo vicino ad  annegarsi 
      toccando sotto i piedi la terra solida, invece del vuoto nel quale 
      stava per essere ingoiato. 
      "Ebbene,  signore" disse Andrea, salutando il banchiere con tenero 
      rispetto, "posso sperare?..." 
      "Signor Andrea" disse Danglars,  "sperate,  e siate certo  che  se 
      nessun  ostacolo  da  parte  vostra  arresta l'andamento di questo 
      affare, si può ritenere concluso." 
      "Voi mi colmate di gioia, signore!" disse Andrea. 
      "Ma"  disse  Danglars  riflettendo,   "come  mai   il   conte   di 
      Montecristo,  vostro  protettore  nel  bel  mondo parigino,  non è 
      venuto con voi a farmi questa domanda?" 
      "Vengo appunto da  casa  del  conte"  rispose  Andrea,  arrossendo 
      impercettibilmente.    "E'   un   uomo   cortese,   ma   originale 
      infinitamente. Ha tutto approvato. Mi ha detto anzi di non credere 
      che mio padre avrebbe esitato a darmi  il  capitale  invece  della 
      rendita, e mi ha promesso la sua influenza per ottenerlo da lui... 
      Ma  ha  dichiarato  che  personalmente non aveva mai preso,  e non 
      prenderebbe mai sopra di sé la responsabilità di fare una  domanda 
      di  matrimonio.  Ma  debbo  rendergli  giustizia:  si è degnato di 
      aggiungere che se aveva mai deplorato questa  occasione,  era  per 
      una  promessa fatta a se stesso,  poiché pensava che la progettata 
      unione sarebbe stata felice e bene assortita.  Del resto,  se  non 
      vuol  fare passi ufficialmente,  si riserva di risponderne,  mi ha 
      detto, quando gli parlerete voi." 
      "Ah, benissimo." 
      "Ora" disse Andrea col suo grazioso sorriso, "ho finito di parlare 
      al suocero, e mi rivolgo al banchiere." 
      "Che volete da lui, vediamo?" disse Danglars, ridendo anch'egli. 
      "Dopodomani devo riscuotere qualche cosa,  un quattromila  franchi 
      da  voi,  ma  il  conte  ha capito che il mese prossimo comporterà 
      forse più spese per le quali non sarebbe bastante la  mia  piccola 
      rendita da celibe ed ecco un assegno di ventimila franchi,  che mi 
      ha,  non dirò regalato,  ma offerto.  E firmato di sua mano,  come 
      vedete... Vi conviene?" 
      "Portatemene  per  un  milione,  e  ve  li  prendo" disse Danglars 
      mettendoselo in tasca. "Ditemi a che ora vi accomoda domani,  e il 
      mio  giovane  di  cassa passerà da voi coll'ammontare di ventimila 
      franchi." 
      "Alle dieci di mattina,  se vi va bene;  se però si potesse prima, 
      sarebbe meglio... Domani vorrei andare in campagna." 
      "Vada per le dieci. Siete sempre all'albergo dei Principi?" 
      "Sì." 
      All'indomani,  con  una esattezza che faceva onore alla puntualità 
      del banchiere,  i ventiquattromila franchi erano dal  giovane,  il 
      quale  uscì  poi  effettivamente,  lasciando  al portiere duecento 
      franchi per Caderousse.  Scopo di quella  partenza,  da  parte  di 
      Andrea,  era  principalmente  quello  di evitare il suo pericoloso 
      amico;  per cui rientrò la sera il più tardi possibile.  Ma appena 
      messo  piede  sul  lastricato  del cortile,  si ritrovò davanti il 
      portinaio dell'albergo, che lo aspettava col berretto in mano. 
      "Signore" diss'egli, "è venuto quell'uomo." 
      "Che  uomo?"  domandò  negligentemente  Andrea,   come  se  avesse 
      dimenticato colui che, al contrario, ricordava benissimo. 
      "Quello a cui vostra eccellenza ha fatto quel piccolo assegno." 
      "Ah,  sì"  disse  Andrea,  "quell'antico  servitore  di mio padre. 
      Ebbene, gli avete dato duecento franchi che vi ho lasciati?" 
      "Sì, eccellenza." 
      Andrea si faceva chiamare eccellenza. 
      "Ma" continuò il portinaio, "non ha voluto prenderli." 
      Andrea impallidì. 
      "Come, non ha voluto prenderli?" disse con voce alterata. 
      "No,  voleva parlare a vostra eccellenza.  Ho risposto che eravate 
      uscito, ha insistito, ma finalmente è parso convinto, e mi ha dato 
      questa lettera che portava con sé sigillata." 
      "Vediamo" disse Andrea. 
      E lesse al chiarore del fanale del carrozzino: 
      "Tu sai dove abito, domani ti aspetto alle nove di mattina." 
      Andrea  guardò  il  sigillo per vedere se era stato forzato,  e se 
      sguardi indiscreti avevano  potuto  penetrare  nell'interno  della 
      lettera,  ma era piegata con tal lusso di pieghe e di angoli,  che 
      per  leggerla  bisognava  romperne  il  sigillo,   e  questo   era 
      perfettamente intatto. 
      "Benissimo" disse. "Pover'uomo! E' un'eccellente creatura." 
      E lasciò il portinaio edificato da quelle parole,  non sapendo chi 
      dovesse ammirare di più,  se  il  giovane  padrone  o  il  vecchio 
      servitore. 
      "Fate presto e salite da me" disse Andrea al valletto. 
      E  in due salti il giovane fu nella sua camera,  bruciò la lettera 
      di Caderousse, di cui fece scomparire perfino le ceneri. Terminava 
      quest'operazione all'entrare del domestico. 
      "Tu sei della mia stessa corporatura, Pietro" gli disse. 
      "Ho quest'onore, eccellenza" rispose il servitore. 
      "Devi avere un'altra livrea nuova che ti fu portata ieri." 
      "Sì signore." 
      "Ho alcune cosucce da sbrigare con una  crestaia  alla  quale  non 
      posso dire né il mio nome,  né la mia condizione;  prestami la tua 
      livrea,  e dammi pure le tue  carte,  affinché  io  possa,  se  fa 
      bisogno, dormire in albergo." 
      Pietro obbedì. 
      Cinque minuti dopo,  Andrea completamente travestito,  prendeva un 
      calessino e si  faceva  condurre  all'albergo  del  Caval-Rosso  a 
      Picpus. Il giorno dopo uscì dall'albergo del Caval-Rosso, come era 
      partito  dall'albergo  dei  Principi,  vale  a  dire  senza essere 
      notato; discese il Faubourg Saint-Antoine, seguì il boulevard fino 
      a rue Menilmontant,  e fermandosi alla porta della  terza  casa  a 
      sinistra,  si fermò a riflettere, in mancanza di portinaio, da chi 
      dovesse prendere informazioni. 
      "Che cosa cercate,  mio bel giovanotto?" domandò la  fruttivendola 
      di faccia. 
      "Il signor Pailletin, per favore, mamma" rispose Andrea. 
      "Un fornaio in pensione?" domandò la fruttivendola. 
      "Precisamente." 
      "In fondo al cortile, a sinistra, terzo piano." 
      Andrea prese la strada indicata,  e al terzo piano trovò una zampa 
      di lepre, che tirò a sé di cattivo umore, in modo che di quel moto 
      precipitato ne risentì  lo  stesso  campanello.  Un  momento  dopo 
      dietro  alla  gelosia  praticata  all'uscio  comparve  il volto di 
      Caderousse. 
      "Ah, sei puntuale" disse. 
      E così dicendo tolse i catenacci. 
      "Eccomi!" disse Andrea entrando. 
      E gettò avanti a sé il  berretto  da  livrea,  che  non  essendovi 
      sedie,  cadde a terra, facendo il giro della camera rotoloni su se 
      stesso. 
      "Orsù" disse Caderousse, "non t'inquietare, mio piccino, guarda un 
      po' che  colazione  avremo:  nientemeno  che  tutte  cose  che  ti 
      piacciono." 
      Andrea  sentì  infatti,  annusando,  un  odore  di  cucina,  i cui 
      grossolani aromi non mancavano di certa attrattiva per uno stomaco 
      affamato: era  la  mescolanza  dello  strutto  e  dell'aglio,  che 
      distinguono   la   cucina   provenzale  di  classe  inferiore,   e 
      soprattutto l'aspro profumo della noce  moscata  e  del  garofano. 
      Tutto  ciò esalava da due piatti pieni e coperti,  posti sopra due 
      fornelli, e da una casseruola che arrostiva nel forno da campagna. 
      Nella stanza vicina,  Andrea vide inoltre una tavola  pulitissima, 
      preparata con due piatti,  due bottiglie di vino sigillato,  l'una 
      di verde,  l'altra di rosso,  di una buona misura di acquavite  in 
      una  bottiglia,  e  di  una  fruttiera  in  forma di una foglia di 
      cavolo, posta con arte sopra una salvietta pulita. 
      "Che te ne sembra, mio piccino?" disse Caderousse. "Ehm, che odore 
      balsamico! Ah diavolo,  lo sai bene,  laggiù ero cuoco: ti ricordi 
      come  si leccavano le dita alla mia cucina?  E tu per primo ne hai 
      gustati dei miei intingoli, e non li disprezzavi, credo..." 
      E si mise a preparare un supplemento di cipolle. 
      "Sta bene,  sta bene" disse  Andrea,  con  malumore.  "Se  mi  hai 
      scomodato  solo  perché  venissi  a  far colazione con te,  che il 
      diavolo ti porti!" 
      "Figlio mio"  disse  sentenziosamente  Caderousse,  "mangiando  si 
      parla; e poi, ingrato che sei!, non hai dunque piacere a vedere un 
      po' il tuo amico? Io piango di felicità." 
      Caderousse infatti piangeva realmente; benché fosse difficile dire 
      se  la  leggera  irritazione  alla  glandola lacrimale dell'antico 
      albergatore del Ponte di Gard fosse cagionata dalla gioia o  dalle 
      cipolle. 
      "Taci dunque, ipocrita!" disse Andrea. "Mi sei amico?" 
      "Sì,  io ti sono amico,  o il diavolo mi porti!  E' una debolezza" 
      disse Caderousse, "lo so bene, ma è più forte di me." 
      "Eppure mi hai certamente fatto venir qui per qualche perfidia." 
      "Orsù dunque!" disse Caderousse, asciugando col grembiale un largo 
      coltello.  "Se non t'amassi,  sopporterei forse la vita miserabile 
      che  mi fai fare?  Guarda un po',  tu hai sulle spalle l'abito del 
      tuo domestico,  dunque hai un domestico  io  non  ne  ho,  e  sono 
      costretto a pulirmi i legumi da solo;  tu disprezzi la mia cucina, 
      perché pranzi, o alla tavola rotonda,  o all'albergo dei Principi, 
      o  al  Caffè di Parigi.  Ebbene,  io pure potrei avere domestico e 
      calesse,  io pure potrei pranzare ove volessi...  Perché dunque me 
      ne privo?  Per non farti dispiacere, mio piccolo Benedetto. Parla, 
      confessa soltanto che lo potrei, eh?" 
      E uno sguardo perfettamente chiaro di Caderousse terminò il  senso 
      della frase. 
      "Allora"  disse Andrea,  "ammettiamo che tu mi voglia bene: perché 
      esigi che io venga a far colazione con te?" 
      "Ma per vederti, mio piccino." 
      "Per vedermi?  E a che serve,  se abbiamo fissato in precedenza le 
      nostre condizioni?..." 
      "Eh, caro amico" disse Caderousse, "ci sono forse testamenti senza 
      codicilli?  Ma tu sei venuto innanzitutto per far colazione, non è 
      vero? Orsù, via, sediamoci, e cominciamo con queste alici e questo 
      burro fresco,  che ho messo sopra foglie di vite espressamente per 
      te,  cattivello.  Ah,  sì, tu guardi la mia camera, le mie quattro 
      sedie di paglia,  le mie stampe da tre franchi l'una,  compresa la 
      cornice. Diavolo! Non siamo mica all'albergo dei Principi..." 
      "Orsù,  tu sei già disgustato del presente e non sei più contento, 
      tu che domandavi soltanto di parere un fornaio in ritiro..." 
      Caderousse mandò un sospiro. 
      "Ebbene,  che hai da dirmi?  Il tuo sogno ha avuto effetto,  e sei 
      già deluso?" 
      "Ho  da  dirti  che fu un sogno: un fornaio in ritiro,  mio povero 
      Benedetto, è ricco, cioè ha rendite." 
      "Accidenti, tu ne hai delle rendite!" 
      "Io?" 
      "Sì, tu, poiché ti ho assegnato duecento franchi al mese." 
      Caderousse si strinse nelle spalle. 
      "E' una umiliazione" disse,  "ricevere in tal modo del denaro dato 
      di malavoglia,  del denaro effimero,  che può mancare da un giorno 
      all'altro.  Poi devi ben capire che son costretto a  fare  qualche 
      risparmio,  per il caso in cui la tua prosperità non durasse.  Eh, 
      amico mio,  la fortuna è incostante,  come  diceva  l'elemosiniere 
      del... reggimento. Io so bene, scellerato, che la tua prosperità è 
      immensa: tu stai per sposare la figlia di Danglars!" 
      "Come, Danglars?" 
      "Eh  certamente,  di Danglars!  Vi è forse bisogno che io dica del 
      barone  Danglars?   Sarebbe  lo  stesso  che  dicessi  del   conte 
      Benedetto...  Era  mio  amico  Danglars,  e se non avesse avuto la 
      memoria così debole,  avrebbe dovuto  invitarmi  alle  sue  nozze, 
      visto che è venuto alle mie...  Sì, sì, sì, alle mie, diavolo! Non 
      era così superbo in quei tempi, quando era piccolo commesso presso 
      l'ottimo signor Morrel.  Ho pranzato più d'una volta con lui e col 
      conte Morcerf... Tu vedi che io ho straordinarie conoscenze, e che 
      se volessi coltivarle un po',  ci potremmo incontrare nelle stesse 
      combriccole." 
      "Suvvia! La tua gelosia ti fa vedere l'arcobaleno, Caderousse." 
      "Sta bene, Benedetto mio, so quel che dico.  Forse un giorno potrò 
      mettermi  l'abito  da  festa,  e andare a dire ad un gran portone: 
      "Una decorazione, per favore!". Intanto, siedi e mangiamo." 
      Caderousse dette l'esempio,  e si mise a far  colazione  con  buon 
      appetito,  mentre  faceva l'elogio di tutte le vivande che metteva 
      in tavola davanti al suo ospite. Questi sembrava aver preso la sua 
      decisione,  sturò bravamente le  bottiglie,  e  attaccò  la  carne 
      arrostita ed il merluzzo condito con aglio e olio. 
      "Ah,  compare" disse Caderousse, "sembra che ti riaccomodi col tuo 
      antico padrone di locanda eh?" 
      "In fede mia, sì" rispose Andrea,  che giovane e vigoroso com'era, 
      si lasciava sempre vincere dall'appetito. 
      "E trovi che è buono, birba?" 
      "Così  buono che non capisco come un uomo che cucina e mangia così 
      buoni bocconi possa trovare che la vita è cattiva." 
      "Vedi?" disse Caderousse.  "E' perché  tutta  la  mia  felicità  è 
      guastata da un solo pensiero." 
      "E quale?" 
      "Quello  di  vivere alle spese di un amico,  io che mi sono sempre 
      guadagnato la mia esistenza da solo." 
      "Oh. oh! Non dartene pensiero" disse Andrea, "ne ho abbastanza per 
      due, non t'incomodare." 
      "No,  davvero!  Sei padrone di non credermi,  ma alla fine  d'ogni 
      mese provo dei rimorsi." 
      "Buon Caderousse!" 
      "Al punto che ieri non ho voluto prendere i duecento franchi." 
      "Sì,  perché  tu  volevi  parlare  con  me...  Ma  fu veramente il 
      rimorso?" 
      "Vero rimorso... E poi mi era venuta un'idea..." 
      Andrea fremette;  egli  fremeva  sempre  quando  venivano  idee  a 
      Caderousse. 
      "E'  una  cosa  triste,  vedi"  continuò questi,  "quella di dover 
      sempre aspettare la fine del mese." 
      "Eh!" disse filosoficamente Andrea,  deciso a far parlare  il  suo 
      amico. "Forse non passiamo la vita sempre aspettando? Faccio forse 
      altra cosa io! Eppure ho pazienza, non è vero?" 
      "Sì,  perché  invece di aspettare duecento miserabili franchi,  ne 
      aspetti cinque o seimila,  fors'anche  diecimila,  perché  sei  un 
      individuo  misterioso...  Laggiù avevi sempre qualche cosuccia che 
      cercavi  di  nascondere  a  questo  povero   amico   Caderousse... 
      Fortunatamente,  l'amico Caderousse di cui si parla, aveva il naso 
      fino." 
      "Orsù,  ecco che ti metti di nuovo a  cambiar  discorso..."  disse 
      Andrea,  "...a parlare e riparlare sempre del passato...  Ma a che 
      pro rivangare certe cose?" 
      "Perché, se tu, che hai ventun anni,  puoi dimenticare il passato, 
      io però, che ne ho cinquanta, sono costretto a ricordarmene... Ma, 
      non importa ritorniamo agli affari..." 
      "Sì." 
      "Io volevo dire che se fossi in te..." 
      "Ebbene?" 
      "Realizzerei..." 
      "Come, realizzeresti...?" 
      "Sì,   domanderei  un  semestre  anticipato,   sotto  pretesto  di 
      diventare elettore, o di voler comprare una fattoria,  poi col mio 
      semestre me ne scapperei." 
      "Io? Ma guarda!" disse Andrea, "non è forse mal pensata." 
      "Mio caro amico" soggiunse Caderousse,  "mangia alla mia cucina, e 
      segui i miei consigli! Non te ne verrà male,  né al fisico,  né al 
      morale." 
      "Benissimo"  disse  Andrea.  "Ma  perché  non seguire tu stesso il 
      consiglio che mi dai? Perché non realizzare un semestre,  od anche 
      un anno,  e ritirarti a Bruxelles?  Invece di parere un fornaio in 
      ritiro,  sembreresti un  fallito  sfuggito  ai  creditori:  è  ben 
      pensata anche questa." 
      "Ma come diavolo vuoi che mi ritiri con milleduecento franchi?" 
      "Ah, Caderousse" disse Andrea, "come diventi esigente! Due mesi fa 
      morivi di fame." 
      "Col  mangiare  viene  l'appetito"  disse Caderousse,  mostrando i 
      denti come una scimmia quando ride,  o una tigre quando  ruggisce. 
      "Quindi"  aggiunse,  troncando  con  questi  medesimi denti,  così 
      bianchi e acuti malgrado l'età,  un enorme boccone  di  pane,  "ho 
      stabilito il mio piano." 
      I  piani  di  Caderousse  spaventavano Andrea ancora più delle sue 
      idee;   le  idee  non  erano  che  il  germe,   il  piano  era  la 
      realizzazione. 
      "Vediamo questo piano" disse, "deve essere bello." 
      "E  perché  no?  Il piano per cui abbiamo lasciato lo stabilimento 
      del signor Chose,  da chi veniva,  ehm?  Da me,  suppongo,  né era 
      cattivo, mi pare, poiché siamo qua!" 
      "Io  non dico" riprese Andrea,  "che qualche volta tu non ne abbia 
      dei buoni; ma infine vediamo il tuo piano." 
      "Vediamo" proseguì Caderousse,  "puoi,  senza sborsare  un  soldo, 
      farmi  avere  una  quindicina di migliaia di franchi?...  No,  non 
      basta  una  quindicina  di  migliaia  di  franchi,  io  non  posso 
      ritornare galantuomo per meno di trentamila franchi." 
      "No" rispose seccamente Andrea, "no, non posso." 
      "Tu  non  mi  hai  capito,  a  quanto  pare"  rispose  freddamente 
      Caderousse, con aspetto tranquillo, "io ti ho detto senza sborsare 
      un soldo." 
      "Non vorrai certamente che io rubi,  per  guastare  tutto  il  mio 
      affare,  e col mio anche il tuo, e perché abbiano poi a rimandarci 
      laggiù?" 
      "Oh io!" disse Caderousse.  "Per me è lo stesso che mi riprendano, 
      o no.  Io sono molto originale,  m annoia,  qualche volta, perfino 
      esser lontano dai compagni;  non sono come te,  uomo senza  cuore, 
      che non vorresti rivederli più!" 
      Andrea fece più che fremere, questa volta impallidì. 
      "Vediamo, Caderousse, non facciamo bestialità" disse. 
      "Eh,  no,  sta' tranquillo, mio caro Benedetto! Indicami piuttosto 
      qualche mezzo per  guadagnare  questi  trentamila  franchi,  senza 
      immischiarti di niente: tu mi lascerai fare, ecco tutto!" 
      "Ebbene, vedrò, cercherò..." disse Andrea. 
      "Ma  mentre  aspetto,  porterai la mia mesata almeno a cinquecento 
      franchi,  non è vero?  Io ho  una  smania,  vorrei  prendermi  una 
      governante!" 
      "Ebbene,  avrai  i  cinquecento  franchi"  disse Andrea.  "Ma sarà 
      troppo pesante, per me, mio povero Caderousse... Tu abusi..." 
      "Bah!" disse Caderousse. "Tu attingi in casse senza fondo!" 
      "Questa è la verità"  rispose  Andrea,  "e  il  mio  protettore  è 
      eccellente con me." 
      "Questo  caro  protettore" disse Caderousse,  "non ti fa dunque un 
      assegno mensile di...?" 
      "Cinquemila franchi" disse Andrea. 
      "Quante  migliaia,   quante  centinaia  vuoi  darmi...?"   riprese 
      Caderousse.  "Davvero che i bastardi sono i soli ad avere fortuna. 
      Cinquemila franchi al mese...  Che diavolo  puoi  farne  di  tutta 
      questa somma?" 
      "Eh,  mio Dio!  E' ben presto spesa.  Quindi la penso anch'io come 
      te, preferirei avere il mio capitale." 
      "Un capitale!...  Sì...  capisco,  tutti desidererebbero avere  un 
      capitale." 
      "Ebbene, me ne verrà dato uno." 
      "E chi te lo darà? Il tuo principe?" 
      "Sì, il mio principe... Disgraziatamente bisogna che aspetti." 
      "Aspettare che cosa?" domandò Caderousse. 
      "La sua morte." 
      "La morte del tuo principe?" 
      "Sì." 
      "Ed in che modo?" 
      "Perché sono stato nominato nel suo testamento." 
      "Davvero?" 
      "Parola d'onore!" 
      "Per quanto?" 
      "Per cinquecentomila franchi." 
      "Niente altro che questo? Grazie del poco!" 
      "La cosa sta come te la dico." 
      "Suvvia, non è possibile!" 
      "Caderousse, mi sei amico?" 
      "E in che modo! Per la vita e per la morte." 
      "Ebbene, ti dirò un segreto." 
      "Di'." 
      "Ascoltami." 
      "Oh, accidenti, muto come un pesce." 
      "Ebbene, io credo..." Andrea si fermò guardando intorno. 
      "Che cosa credi?... Non aver paura! siamo soli." 
      "Io credo di aver ritrovato mio padre." 
      "Il tuo vero padre?" 
      "Sì." 
      "Non il padre Cavalcanti?" 
      "No, poiché quello è partito, il vero, come tu dici." 
      "E questo padre è?..." 
      "Ebbene, Caderousse, è il conte di Montecristo." 
      "Bah!" 
      "Sì, come vedi, allora si spiega tutto. Egli non può confessarmelo 
      ad  alta  voce,  a quanto sembra,  ma mi fa riconoscere dal signor 
      Cavalcanti, e gli regala a tale effetto cinquantamila franchi." 
      "Cinquantamila  franchi  per  essere  tuo  padre!?   Ma  io  avrei 
      accettato  per  la  metà  del  prezzo,  forse  per ventimila,  per 
      quindicimila... E come non hai pensato a me?" 
      "E lo sapevo io?  Tutto quello che si è combinato,  lo fu senza di 
      me, mentre eravamo laggiù." 
      "Ah, è vero... E tu dici che nel suo testamento?..." 
      "Egli mi lascia cinquecentomila lire." 
      "Ne sei sicuro?" 
      "Me lo ha mostrato, ma non è qui tutto." 
      "Ci sarà un codicillo, come dicevo poco fa." 
      "Probabilmente." 
      "E in questo codicillo?" 
      "Egli mi riconosce." 
      "Oh,  che  buon  uomo  è  tuo  padre!  Che  bravo  uomo!"  esclamò 
      Caderousse,   facendo  volare  una   salvietta   per   l'aria,   e 
      riprendendola poi con le mani.  "Ecco,  di' ora che ho dei segreti 
      per te." 
      "No, e la tua confidenza ti onora ai miei occhi. E il tuo principe 
      padre è dunque ricco, ricchissimo?" 
      "Lo credo. Non sa a quanto ammonti la sua sostanza." 
      "E' possibile?" 
      "Diamine! Lo vedo bene, io, che sono ricevuto ad ogni ora! L'altro 
      giorno c'era un giovane di banca a portargli cinquantamila franchi 
      in un portafoglio grosso come un piatto; ieri il suo banchiere con 
      centomila franchi in oro." 
      Caderousse era stupefatto;  gli pareva che le parole  del  giovane 
      avessero  il  suono  del  metallo,  e  di sentire il tintinnio dei 
      luigi. 
      "E tu vai in quella casa?" gridò con ingenuità. 
      "Quando voglio." 
      Caderousse rimase pensieroso un istante.  Era  facile  vedere  che 
      ruminava nella mente qualche pensiero. Poi ad un tratto: 
      "Quanto amerei vedere tutto ciò" gridò, "come deve esser bello!" 
      "Il fatto è" disse Andrea, "che è magnifico." 
      "E non abita all'entrata degli Champs-Elyseés?" 
      "Al numero trenta." 
      "Ah," disse Caderousse, "al numero trenta?" 
      "Sì, una bella casa isolata fra il cortile ed il giardino: non c'è 
      che quella." 
      "Può darsi: ma l'esterno a me non importa,  m'importa l'interno... 
      i bei mobili ehm! Che cosa ci dev'essere mai là dentro!" 
      "Hai visto qualche volta le Tuileries?" 
      "No." 
      "Ebbene, è ancor più bello." 
      "Dici davvero,  Andrea?  Sarà già una  fortuna  abbassarsi  quando 
      questo buon signore di Montecristo si lascia cadere la borsa!" 
      "Mio  Dio,  non  vale  la  pena  di  aspettare tale momento" disse 
      Andrea: "il denaro abbonda in quella casa  come  i  frutti  in  un 
      giardino." 
      "Di' dunque, tu dovresti condurmici un poco con te." 
      "Com'è possibile? e con qual titolo?" 
      "Tu  hai ragione,  ma mi hai fatto venire l'acquolina in bocca,  e 
      bisogna assolutamente che io veda tutto ciò; troverò io un mezzo." 
      "Non facciamo sciocchezze, Caderousse." 
      "Mi presenterò come spazzino." 
      "Non ne ha bisogno, perché vi sono tappeti in ogni luogo." 
      "Ah,  peccato!  Allora bisogna che mi  accontenti  di  immaginarmi 
      colla fantasia tutta quella roba." 
      "E' quanto puoi fare di meglio, credimi." 
      "Cerca almeno di farmi capire la pianta dell'edificio." 
      "Cosa vuoi fare?" 
      "Niente di più facile... E' grande il palazzo?" 
      "Né troppo grande, né troppo piccolo." 
      "Ma come sono distribuite le stanze?" 
      "Diamine, ci vorrebbe dell'inchiostro e della carta per fartene la 
      pianta." 
      "Eccone!" disse avidamente Caderousse. 
      Ed  andò  a  cercare sopra un vecchio scrittoio un foglio di carta 
      bianca, l'inchiostro ed una penna. 
      "Prendi" disse Caderousse,  "tracciami  il  disegno  sulla  carta, 
      figlio mio." 
      Andrea prese la penna con un impercettibile sorriso, e cominciò: 
      "La casa, come ti ho detto, è posta fra un giardino ed il cortile; 
      eccone il disegno." 
      E Andrea fece la pianta del giardino, del cortile e della casa. 
      "Le mura sono alte?" 
      "No, otto o dieci piedi al più." 
      "Non è una cosa troppo prudente..." disse Caderousse. 
      "Nel cortile vi sono dei grandi vasi d'aranci, dei praticelli, dei 
      fiori, dei cespugli." 
      "Ma non lacci da lupo?" 
      "No." 
      "E le scuderie?" 
      "Di  fianco  dalle  due parti del cancello...  Vedi qui?" E Andrea 
      continuava la sua pianta. 
      "Vediamo il piano terreno" disse Caderousse. 
      "Al pian terreno, sala da pranzo,  due salotti,  sala da biliardo, 
      scala nel vestibolo, e piccola scala segreta." 
      "Le finestre?" 
      "Finestre magnifiche, così belle e larghe, che, in fede mia, credo 
      che  un  uomo  della  mia statura passerebbe per il vano di uno di 
      quei cristalli." 
      "E perché diavolo  si  fa  uso  di  scale  quando  si  hanno  tali 
      finestre?" 
      "Che vuoi farci, è un lusso." 
      "Ma ci sono persiane?" 
      "Sì,  persiane,  ma  non  se  ne  servono mai.  Montecristo è così 
      originale, che vuol vedere il cielo anche di notte." 
      "E dove dormono i domestici?" 
      "Hanno la loro casa separata. Figurati, un bel padiglione entrando 
      a  destra,  dove  stanno  i  custodi  delle  scale,  sopra  questo 
      padiglione  c'è  una  quantità di stanze per i domestici,  con dei 
      campanelli corrispondenti alle camere." 
      "Oh diavolo, dei campanelli!" 
      "Che dici?" 
      "Io, niente. Dico che costerà caro mettere questi campanelli.  E a 
      cosa servono?" 
      "In  altri  tempi  c'era  un  cane  che  passeggiava  la notte nel 
      cortile,  ma lo hanno condotto alla casa  di  Auteuil,  sai  bene, 
      quella dove sei venuto..." 
      "Sì." 
      "Io glielo dicevo anche ieri: "E' un'imprudenza la vostra,  signor 
      conte,  perché  quando  andate  ad  Auteuil,  e  conducete  via  i 
      domestici, la casa resta sola". 
      "Ebbene" disse, "e poi?" 
      "E poi un qualche giorno vi deruberanno." 
      "E che cosa ha risposto?" 
      "Che cosa ha risposto?" 
      "Sì." 
      "Ha  risposto:  "Ebbene,  che  danno  me  ne  viene se qualcuno mi 
      deruba?" 
      "Andrea, avrà un qualche armadio con ripostigli segreti..." 
      "Ed in che modo?" 
      "Sai,  una di quelle trappole che prendono il ladro in un laccio e 
      te  lo  tirano  in  aria...   Mi  è  stato  detto  che  all'ultima 
      esposizione ce n'erano, di questo genere." 
      "Lui ha appena un semplice armadio di acagiù al  quale  ho  sempre 
      visto attaccata una chiave." 
      "E non gli hanno rubato mai?" 
      "No, le persone di servizio gli sono tutte affezionate." 
      "Quanto ci sarà in quell'armadio, ehm!, quanto denaro?" 
      "Vi sarà forse... Non si può sapere quanto ci sarà." 
      "E dov'è questo armadio?" 
      "Al primo piano." 
      "Fammi  dunque  la pianta del primo piano,  piccolo mio,  come hai 
      fatto quella del piano terreno." 
      "E' facile." 
      E Andrea riprese la penna. 
      "Al primo piano,  vedi?,  c'è l'anticamera,  gran sala,  a  destra 
      della sala,  biblioteca e stanza da lavoro, a sinistra della sala, 
      una camera da  letto,  e  una  toilette...  Il  famoso  armadio  è 
      precisamente nella toilette." 
      "C'è qualche finestra nella toilette?" 
      "Due, una qui e l'altra qua." 
      E  Andrea  disegnò  due finestre alla stanza che stava nell'angolo 
      del primo piano,  figurando un quadrato meno grande,  aggiunto  al 
      quadrato lungo della camera da letto. 
      Caderousse divenne pensieroso. 
      "E va spesso ad Auteuil?" domandò. 
      "Due o tre volte la settimana; domani per esempio, deve passare la 
      giornata e la notte là." 
      "Ne sei ben sicuro?" 
      "Mi ha invitato ad andarvi a pranzo." 
      "Alla  buon'ora,   questo  sì,   che  si  può  dir  vivere"  disse 
      Caderousse: "casa in città, casa in campagna." 
      "Ecco che cosa vuol dire esser ricchi." 
      "E ci andrai a pranzo?" 
      "Probabilmente." 
      "Quando vai là a pranzo, ci stai anche a dormire?" 
      "Quando mi fa piacere.  In casa del conte sono come  se  fossi  in 
      casa mia." 
      Caderousse  guardò  il  giovane come per strappargli la verità dal 
      fondo del cuore. Ma Andrea cavò un portasigari di tasca,  ne prese 
      uno  avana,   l'accese  tranquillamente,   e  cominciò  a  fumarlo 
      senz'affettazione. 
      "Quand'è  che  vuoi  i  tuoi  cinquecento  franchi?"   domandò   a 
      Caderousse. 
      "Ma anche subito, se li hai." 
      Andrea tirò fuori di tasca venticinque luigi. 
      "Dei gialletti?" disse Caderousse. "No, grazie." 
      "Adesso li disprezzi?" 
      "Al contrario li stimo, ma non ne voglio." 
      "Guadagnerai  nel  cambio,  imbecille: l'oro ha un aggio di cinque 
      soldi." 
      "Sarà, ma poi il cambiavalute fa seguire l'amico Caderousse, e poi 
      gli mettono le mani sopra,  e poi bisognerà che dica quali sono  i 
      fattori  che  gli  pagano  queste  rendite  in  oro.  Non facciamo 
      bestialità,  piccolo mio:  argento  semplicemente,  pezzi  rotondi 
      coll'effigie  di  un  principe  qualunque.  Tutti al mondo possono 
      avere un pezzo da cinque franchi." 
      "Tu capisci bene che non posso avere indosso  cinquecento  franchi 
      in argento: ci vorrebbe un facchino." 
      "Ebbene,  lasciali  dunque al portinaio;  è un brav'uomo,  andrò a 
      prenderli da lui." 
      "Oggi?" 
      "No, domani, oggi non ho tempo." 
      "E sia, domani glieli lascerò nel partire per Auteuil." 
      "Posso contarci?" 
      "Perfettamente." 
      "Se è così, vado a prendere fin d'ora una governante." 
      "Prendila pure... Ma non ci saranno altri fastidi, è vero?  Non mi 
      tormenterai più?" 
      "Giammai." 
      Caderousse  era  diventato così pensieroso,  che Andrea temette di 
      rivelare che s'era accorto di questo cambiamento. Raddoppiò dunque 
      la sua allegria e indifferenza. 
      "Come  sei  allegro"  disse  Caderousse,  "si  direbbe  quasi  che 
      possiedi  già  la  tua eredità." "No,  disgraziatamente!...  Ma il 
      giorno in cui la riceverò..." 
      "Ebbene?" 
      "Ebbene, mi ricorderò degli amici, non ti dico altro." 
      "Sì, colla buona memoria che hai..." 
      "Che vuoi? Io credevo che volessi rimproverarmi." 
      "Io? Oh,  che idea!  Al contrario,  ti voglio dare un consiglio da 
      amico..." 
      "E quale?" 
      "Quello di lasciar qui quel diamante che hai al dito.  Vuoi dunque 
      farci prendere tutti e due, che fai simili bestialità?" 
      "E perché?" disse Andrea. 
      "Come! Prendi una livrea, ti travesti da servitore,  e conservi al 
      dito un diamante di quattro cinquemila franchi!" 
      "Peste! Come stimi giusto! Perché non fai l'esperto di gioielli?" 
      "Io conosco il valore dei diamanti, perché ne ho avuti." 
      "Sì, fai bene a vantartene" disse Andrea, che, senza corrucciarsi, 
      come  temeva Caderousse,  per questa nuova estorsione,  lasciò con 
      compiacenza l'anello. 
      Caderousse lo guardò tanto da vicino da far capire chiaramente che 
      esaminava se gli spigoli del taglio erano ben vivi. 
      "E' un diamante falso" disse Caderousse. 
      "Suvvia" disse Andrea, "tu scherzi?" 
      "Oh, non ti adontare, si può provare." 
      E Caderousse andò alla finestra,  e strisciando  il  diamante  sul 
      vetro s'intese crepitare. 
      "Confiteor!" disse Caderousse mettendosi l'anello al dito mignolo. 
      "Mi  sono sbagliato;  ma questi ladri di gioiellieri imitano tanto 
      bene le pietre vere, che non si ha più coraggio di andare a rubare 
      nelle  loro  botteghe,   ed  ecco  un   altro   ramo   d'industria 
      paralizzato." 
      "Ebbene"  disse  Andrea,  "hai finito?  Hai ancora qualche cosa da 
      domandarmi?  ti abbisogna il mio vestito,  il  mio  berretto?  Su, 
      parla, parla liberamente." 
      "No,  alla fine sei un bravo compagno.  Non ti trattengo di più, e 
      cercherò di guarire la mia ambizione." 
      "Ma bada che nel vendere questo diamante,  non ti accada  ciò  che 
      temevi ti accadesse per le monete d'oro." 
      "Non lo venderò, sta' pure tranquillo." 
      "Non da oggi a domani almeno" pensò il giovane. 
      "Fortunato  furbacchione!"  disse  Caderousse.  "Tu  te  ne  vai a 
      trovare i tuoi servitori, i tuoi cavalli, la tua carrozza e la tua 
      fidanzata..." 
      "Ma sì" disse Andrea. 
      "Di' dunque,  spero che mi farai un bel regalo di nozze il  giorno 
      che sposerai la figlia dell'amico Danglars." 
      "Ti ho già detto che questa è una fantasia della tua testa." 
      "E quanto di dote?" 
      "Ma se ti dico..." 
      "Un milione?" 
      Andrea alzò le spalle. 
      "Sia  per  un milione" disse Caderousse.  "Non ne avrai mai tanti, 
      quanti te ne auguro io." 
      "Grazie" disse il giovane. 
      "Oh,  di buon cuore" aggiunse Caderousse,  ridendo  del  suo  riso 
      grossolano. "Aspetta che ti accompagni." 
      "Non ne val la pena." 
      "Tutt'altro." 
      "E perché?" 
      "Oh,  perché  alla porta vi è un piccolo segreto;  una precauzione 
      che ho creduto di  dovere  adottare:  serratura  Huret  e  Fichet, 
      riveduta  e corretta da Gaspare Caderousse.  Te ne fabbricherò una 
      simile, quando diventerai capitalista." 
      "Grazie" disse Andrea, "ti farò avvertire otto giorni prima." 
      Essi si separarono.  Caderousse restò sul pianerottolo fino a  che 
      ebbe veduto Andrea, non solo scendere i tre piani, ma attraversare 
      il cortile.  Allora rientrò precipitosamente, richiuse l'uscio con 
      cura e si mise a studiare,  come un esperto architetto,  la pianta 
      lasciatagli da Andrea. 
      "A  questo  caro  Benedetto" disse,  "non rincrescerà,  credo,  di 
      ereditare, e colui che solleciterà il giorno in cui deve intascare 
      i suoi cinquecentomila franchi non sarà il suo peggiore amico." 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 81. 
                                   ROTTURA. 
 
 
      L'indomani del giorno in cui ebbe luogo  il  dialogo  che  abbiamo 
      descritto,  il  conte  di  Montecristo  partì per Auteuil con Alì, 
      diversi domestici e alcuni cavalli che voleva provare.  Il  motivo 
      che  aveva  determinato  questa  partenza,  alla quale non pensava 
      nemmeno il giorno innanzi,  ed alla quale neppure  Andrea  pensava 
      più di lui,  fu soprattutto l'arrivo di Bertuccio,  che, ritornato 
      dalla Normandia,  portava le notizie della casa e della  corvetta. 
      La  casa  era arredata,  e la corvetta,  giunta da otto giorni era 
      all'àncora,  in un piccolo porticciolo,  dove,  adempite tutte  le 
      formalità,  era  pronta,  con  i  suoi sei uomini d'equipaggio,  a 
      riprendere il mare. 
      Il conte lodò  lo  zelo  di  Bertuccio,  e  lo  invitò  a  tenersi 
      preparato ad una pronta partenza,  non dovendo il suo soggiorno in 
      Francia prolungarsi al di là di un mese. 
      "Ora" gli disse,  "posso aver bisogno di  andarmene  da  Parigi  a 
      Tréport  in una notte.  Voglio dei cambi di cavalli disposti sulla 
      strada, che mi permettano di fare cinquanta leghe in dieci ore." 
      "Vostra Eccellenza aveva già manifestato questo desiderio" rispose 
      Bertuccio,  "e i cavalli sono già appostati.  Li ho  appostati  io 
      stesso  nei  luoghi più convenienti;  vale a dire in quei villaggi 
      ove ordinariamente non si ferma nessuno." 
      "Sta bene" soggiunse Montecristo,  "io resto qui un giorno o  due, 
      per conseguenza preparatevi." 
      Mentre Bertuccio stava per uscire e ordinare l'occorrente per quel 
      soggiorno,  Battistino aprì la porta; portava una lettera sopra un 
      piatto di argento dorato. 
      "Che cosa venite a fare qui?" domandò il  conte,  vedendolo  tutto 
      coperto di polvere. "Non vi ho certo fatto chiamare, credo?" 
      Battistino  senza rispondere si avvicinò al conte,  presentandogli 
      la lettera. 
      "Importante e pressante" disse. 
      Il conte aprì la lettera, e lesse: 
 
      "Il Conte di Montecristo è avvisato che questa notte,  un uomo  si 
      introdurrà nella sua casa degli Champs-Elyseés per sottrarre delle 
      carte,  ch'egli  crede  chiuse  nell'armadio  della  toilette.  Lo 
      scrivente conosce abbastanza  il  coraggio  del  signor  conte  di 
      Montecristo,  da  sapere  che  non  ricorrerà all'intervento della 
      polizia,  intervento che  potrebbe  compromettere  grandemente  lo 
      stesso  scrivente.  Il signor conte,  sia da un'apertura che mette 
      dalla camera da letto  nella  toilette,  sia  nascondendosi  nella 
      toilette,  potrà farsi giustizia da sé. Se scorgesse molte persone 
      e precauzioni,  il malfattore certamente si allontanerebbe,  e  il 
      signor  di  Montecristo  perderebbe  l'occasione  di  conoscere un 
      nemico,  che il caso ha fatto scoprire alla  persona  che  gli  dà 
      quest'avviso,  avviso  che  non  avrebbe  forse più l'occasione di 
      rinnovare,  se  andando  a  vuoto  questa  prima  intrapresa,   il 
      malfattore ne ritentasse un'altra." 
 
      Il  primo  pensiero  del  conte fu quello di credere che fosse una 
      furberia del ladro,  un laccio grossolano  che  gli  scoprisse  un 
      pericolo  mediocre per esporlo ad uno più grave.  Stava dunque per 
      far portar la lettera ad un commissario di  polizia,  malgrado  la 
      raccomandazione dell'anonimo, quando ad un tratto gli venne l'idea 
      che  poteva  essere effettivamente qualche suo nemico particolare, 
      ch'egli solo poteva riconoscere e dal quale,  se la cosa era così, 
      egli solo poteva trarre partito, come aveva fatto Fieschi del Moro 
      che aveva voluto assassinarlo. 
      Noi  conosciamo il conte,  non ci occorre quindi dire ch'era pieno 
      d'audacia e di vigore,  e che  non  si  sarebbe  ritirato  nemmeno 
      davanti  all'impossibile,  quella  energia  ch'è la caratteristica 
      degli uomini eminenti.  Per la  vita  che  aveva  condotto,  e  la 
      decisione  presa di non indietreggiare mai,  il conte era giunto a 
      gustare gioie sconosciute nelle lotte contro la natura e contro il 
      mondo. 
      "Non  vogliono  rubarmi  le  carte"  disse   Montecristo,   "bensì 
      uccidermi;  non  sono  ladri,  ma  assassini.  Non  voglio  che il 
      prefetto  di  polizia  si  immischi  nei  miei  affari;   io  sono 
      abbastanza  ricco,  da  sgravare di tale spesa il preventivo della 
      sua amministrazione." 
      Il conte richiamò Battistino, ch'era uscito dalla camera dopo aver 
      dato la lettera. 
      "Ritornerete a Parigi" gli  disse,  "e  condurrete  qui  tutta  la 
      servitù  che  è  rimasta lassù.  Ho bisogno che tutti siano qui ad 
      Auteuil." 
      "Ma non deve restare  nessuno  in  casa,  signor  conte?"  domandò 
      Battistino. 
      "No, rimarrà il portinaio." 
      "Ma  il  signor  conte  rifletterà  che l'alloggio del portinaio è 
      assai distante dalla casa..." 
      "Ebbene?" 
      "Si potrebbero svaligiare tutti  gli  appartamenti  senza  che  il 
      portinaio sentisse il minimo rumore." 
      "E chi lo farebbe?" 
      "I ladri." 
      "Voi  siete  uno  sciocco,  signor  Battistino...  Che  i ladri mi 
      svaligino tutta la casa, non mi dispiace tanto, quanto un servizio 
      fatto male." 
      Battistino s'inchinò. 
      "Voi mi avete capito" disse il conte: "conducete  qui  tutti,  dal 
      primo  fino  all'ultimo  servo,  ma  tutto  resti  come al solito: 
      chiuderete le persiane del pianterreno, e nient'altro." 
      "E quelle del primo?" 
      "Sapete bene che non si chiudono mai. Andate." 
      Il conte fece dire che pranzava nella sua  camera,  e  che  voleva 
      essere  servito soltanto da Alì.  Pranzò con tranquillità e con la 
      solita sobrietà,  e,  dopo il pranzo,  facendo  segno  ad  Alì  di 
      seguirlo, uscì dalla porticina, raggiunse il Bois de Boulogne come 
      se passeggiassero, e presa senza affettazione la strada di Parigi, 
      al cader della notte si trovò dirimpetto alla sua casa vicino agli 
      Champs-Elysées. 
      Tutto era oscuro, soltanto una debole lampada ardeva nell'alloggio 
      del portinaio,  distante una quarantina di passi circa dalla casa, 
      come aveva detto Battistino. Frattanto Montecristo si addossava ad 
      un albero,  e con quel colpo  d'occhio  che  sbagliava  raramente, 
      esplorò il doppio viale, esaminò quelli che passavano, e spinse lo 
      sguardo  nelle  strade  vicine.   In  capo  a  dieci  minuti,   fu 
      perfettamente convinto che nessuno lo disturbava. Corse alla porta 
      con Alì, entrò precipitosamente,  e per una piccola scala segreta, 
      di  cui  aveva la chiave,  rientrò nella sua camera da letto senza 
      aprire,  né smuovere una tenda,  senza che  il  portinaio  potesse 
      neppure  dubitare  che  nella  casa,  da  lui  creduta vuota,  era 
      ritornato il suo  principale  abitante.  Giunto  nella  camera  da 
      letto,  il conte fece segno ad Alì di fermarsi, quindi entrò nella 
      toilette, passandola in esame: tutto era nello stato abituale.  Il 
      prezioso  armadio  era al suo posto,  e la chiave dentro;  egli lo 
      chiuse a doppio giro,  e presa la chiave,  ritornò nella camera da 
      letto,  tolse  la  ribattitura  degli  occhielli al catenaccio,  e 
      rientrò. 
      In quell'istante,  Alì portava su una tavola le armi che il  conte 
      stesso  gli aveva richieste,  cioè una carabina corta,  un paio di 
      pistole a doppio tiro le cui  canne  sovrapposte  permettevano  di 
      prendere  la  mira  come fossero state pistole da bersaglio.  Così 
      armato il conte poteva tenere fra le sue mani la  vita  di  cinque 
      nemici.  Erano le nove e mezzo circa, il conte e Alì mangiarono in 
      fretta del pane, e bevvero un bicchiere di vino di Spagna,  quindi 
      Montecristo  fece  scorrere  uno  di  quei quadri mobili,  che gli 
      permettevano di vedere una stanza stando nell'altra.  Aveva  assai 
      vicino  le pistole e la carabina,  e Alì,  in piedi presso di lui, 
      teneva alla mano una di quelle azze arabe,  che non  hanno  ancora 
      cambiato  forma  dall'epoca delle crociate.  Da una finestra della 
      camera da letto,  simile a quella della toilette,  il conte poteva 
      vedere la strada. 
      In tal modo passarono due ore;  regnava l'oscurità più profonda, e 
      tuttavia Alì per la sua  natura  selvaggia,  e  il  conte  per  la 
      facoltà  acquistata  distinguevano  in  quella  notte  fin  la più 
      piccola oscillazione degli alberi nei cortile.  Da lungo tempo  il 
      lume nella stanza del portinaio era stato spento.  Era presumibile 
      che l'attacco, se ci doveva essere un attacco, avrebbe avuto luogo 
      alla scalinata del  pianterreno,  e  non  scalando  una  finestra. 
      Nell'idea  che  i malfattori attentassero alla sua vita,  e non al 
      denaro,  Montecristo pensava che  mirassero  alla  sua  camera  da 
      letto,  potendovi  giungere  sia  dalla  scala segreta,  sia dalla 
      finestra della toilette. 
      Mise Alì davanti alla  porta  della  scala,  ed  egli  continuò  a 
      sorvegliare la toilette. 
      Le  undici  e tre quarti suonarono all'orologio degli Invalidi: il 
      vento  di  ponente  portava  col  suo  umido  soffio  la   lugubre 
      vibrazione  dei  tre  colpi.  Allorché  stava per svanire il suono 
      dell'ultimo tocco,  il conte credette di sentire un rumore leggero 
      dalla  parte  della  toilette;  questo  primo rumore,  o piuttosto 
      questo primo scricchiolio,  fu seguito da un secondo,  poi  da  un 
      terzo;  al quarto il conte sapeva già che cos'era.  Una mano ferma 
      ed esercitata era intenta a tagliare i quattro lati  di  un  vetro 
      per mezzo di un diamante. 
      Il conte sentì battere più rapidamente il cuore. 
      Per  quanto  l'uomo  sia  indurito  nel pericolo,  e ben prevenuto 
      contro di esso, capisce sempre dal fremito del cuore e dal brivido 
      della carne l'enorme differenza che  esiste  fra  il  sogno  e  la 
      realtà,  fra il progetto e l'esecuzione. Però Montecristo non fece 
      che un cenno per prevenire Alì,  il  quale,  comprendendo  che  il 
      pericolo  era  dalla  parte  della  toilette,  fece  un  passo per 
      avvicinarsi al suo padrone. 
      Montecristo era avido di sapere con quali e quanti uomini aveva  a 
      che fare. La finestra su cui lavoravano era di fronte all'apertura 
      da  cui  il  conte  guardava  nella toilette.  I suoi occhi dunque 
      fissarono  la  finestra;   vide  un'ombra  disegnarsi  più   densa 
      nell'oscurità;  quindi  un vetro diventò del tutto opaco,  come vi 
      fosse stato sovrapposto dal di fuori un foglio di  carta,  poi  il 
      vetro crepitò senza cadere. 
      Dall'apertura  praticata  s'introdusse  un  braccio che cercava il 
      catenaccio: dopo un secondo l'invetriata girò sui  cardini,  e  un 
      uomo entrò. Era solo. 
      "Ecco un birbante ardito..." mormorò il conte. 
      In  quel  momento  sentì  Alì toccargli leggermente la spalla;  si 
      voltò e Alì gli mostrò la finestra della  camera  dov'erano  loro, 
      che guardava sulla strada. 
      Montecristo  fece  tre  passi  verso  quella  finestra;  conosceva 
      l'acutezza dei sensi del suo fedele  servitore.  Infatti  vide  un 
      altro  uomo  che  si  staccava  da  una porta,  e salendo sopra un 
      sostegno, sembrava cercare di vedere che cosa accadeva in casa del 
      conte. 
      "Bene" disse, "sono in due, l'uno agisce, l'altro sta di guardia." 
      Fece segno ad Alì di non perdere di vista l'uomo della  strada,  e 
      ritornò a quello della toilette. 
      Il  tagliatore  di vetri era entrato,  e camminava a tentoni colle 
      braccia tese in avanti.  Finalmente parve essersi orizzontato;  vi 
      erano due porte nella stanza, egli andò a mettere il catenaccio ad 
      entrambe.  Allorché  si  avvicinò  a quella della camera da letto, 
      Montecristo pensò volesse entrare da quella,  e preparò una  delle 
      pistole;  ma non intese che il rumore dei catenacci fatti scorrere 
      nei loro anelli di rame. Era una precauzione,  e niente altro;  il 
      visitatore  notturno,  ignorando l'operazione fatta in antecedenza 
      dal conte di togliere le sicure dei ganci,  poteva ormai  credersi 
      in casa sua, e agire con tutta tranquillità. 
      Solo e libero in tutti i suoi movimenti,  l'uomo cavò allora dalla 
      sua larga sacca qualche cosa che il conte  non  poté  distinguere, 
      posò  qualche  cosa  sopra  un tavolino,  quindi andò direttamente 
      all'armadio, si mise a toccarlo cercando la serratura e si accorse 
      che, contro la sua aspettativa, mancava la chiave. 
      Ma il tagliatore di vetri,  da uomo pieno  di  precauzioni,  aveva 
      tutto  previsto:  il conte intese ben presto quel rumore del ferro 
      contro  il  ferro  che  vien  prodotto  quando  si   manovra   coi 
      grimaldelli,  che  dai  ladri  hanno avuto nome "usignoli",  senza 
      dubbio per il piacere che essi provano nel sentirne il loro  canto 
      notturno quando stridono sul perno della serratura. 
      "Ah,  ah" mormorò Montecristo, con un sorriso di sconcerto, "non è 
      che un ladro." 
      Ma  l'uomo,  nell'oscurità,  non  poteva  scegliere  lo  strumento 
      conveniente.  Allora ricorse a quel qualche cosa che aveva deposto 
      sul tavolino,  fece giocare una molla,  e subito una luce pallida, 
      ma abbastanza viva da poterci vedere, inviò un suo riflesso dorato 
      sulle mani e sul viso di quell'uomo. 
      "Guarda"  disse  ad  un  tratto  Montecristo,  arretrando  con  un 
      movimento di sorpresa, "è..." 
      Alì alzò la sua azza. 
      "Non ti muovere" gli disse Montecristo a bassa  voce.  "Lascia  la 
      tua azza, poiché noi qui non abbiamo più bisogno di armi." 
      Quindi  aggiunse  qualche  parola  abbassando  ancor  più la voce, 
      perché l'esclamazione di sorpresa del conte,  per  quanto  debole, 
      pure  era  bastata  per  far rabbrividire l'uomo,  che era rimasto 
      nell'attitudine dell'antico arrotino. 
      Il conte aveva dato un ordine,  subito dopo Alì si allontanò sulla 
      punta  dei piedi,  e staccò dai muri dell'alcova un vestito nero e 
      un  cappello  triangolare.  Montecristo  si  toglieva  rapidamente 
      l'abito,  il  panciotto  e  la  camicia scoprendo sul petto una di 
      quelle soffici e fini tuniche in maglia d'acciaio, le ultime delle 
      quali in questa Francia,  ove non si temono più i pugnali,  furono 
      forse  portate  dal re Luigi Sedicesimo che temeva il coltello nel 
      petto,  e fu colpito dalla  scure  sul  collo.  Questa  tunica  fu 
      coperta da una lunga sopravveste nera,  i capelli del conte da una 
      parrucca da prete,  e il cappello trasformò del tutto il conte  in 
      un abate. 
      Intanto  l'uomo,  non  sentendo  più  nulla,  si era rialzato,  e, 
      durante  il  tempo  impiegato  da  Montecristo  a  fare   la   sua 
      metamorfosi, era andato direttamente all'armadio, la cui serratura 
      cominciava già a cedere sotto il suo "usignolo". 
      "Bene!"  mormorò  il  conte,  certamente  tranquillo  per  qualche 
      segreto del fabbro ignorato dallo scassinatore,  per quanto abile. 
      "Ne hai ancora per qualche minuto." 
      Egli andò alla finestra. 
      L'uomo  che  aveva  veduto  salire  sul  sostegno  era  sceso,   e 
      passeggiava  sempre  sulla  strada;  ma,  cosa  singolare,  invece 
      d'inquietarsi  di  quelli  che potevano venire,  sia dall'ingresso 
      degli Champs-Elysées, sia dal Faubourg Saint-Honoré,  non sembrava 
      preoccupato  che di quanto accadeva in casa del conte,  e scopo di 
      tutti i suoi movimenti era guardare  che  cosa  si  facesse  nella 
      toilette. 
      Montecristo,  tutto  ad  un tratto,  si batté la fronte,  e lasciò 
      sfuggire un silenzioso sorriso. Quindi, avvicinandosi ad Alì: 
      "Sta' qui" gli disse a bassa voce,  "nascosto  nella  oscurità,  e 
      qualunque rumore tu senta,  qualunque cosa succeda, non entrare, e 
      non farti vedere se non ti chiamo." 
      Alì fece segno con la  testa  che  aveva  capito,  e  che  avrebbe 
      obbedito. 
      Allora  Montecristo  prese  da un armadio una candela già accesa e 
      nel momento in  cui  il  ladro  era  più  che  mai  occupato  alla 
      serratura,  aprì dolcemente la porta,  avendo cura che la luce del 
      lume che teneva in mano cadesse tutta sul suo viso. 
      La porta girò così dolcemente,  che il  ladro  non  ne  intese  il 
      rumore.  Ma  con  sua  gran sorpresa,  vide ad un tratto la stanza 
      illuminarsi. Egli si voltò. 
      "Buona sera,  caro  signor  Caderousse"  disse  Montecristo,  "che 
      diavolo venite a fare qui, a quest'ora?" 
      "L'abate Busoni!" gridò Caderousse. 
      E  non  sapendo  come  fosse  avvenuta  quella strana apparizione, 
      poiché aveva chiuso le porte,  lasciò cadere il  mazzo  di  chiavi 
      false. 
      Il  conte andò a mettersi fra Caderousse e la finestra,  impedendo 
      in tal modo al ladro spaventato la sua unica via di ritirata. 
      "L'abate Busoni!" ripeté Caderousse,  fissando sul conte due occhi 
      stravolti. 
      "Senza dubbio, l'abate Busoni" ripeté Montecristo, "lui stesso, in 
      persona...  E  io sono ben contento che mi riconosciate,  mio caro 
      Caderousse: questo prova che abbiamo buona memoria, perché, se non 
      sbaglio, sono ormai dieci anni che non ci vediamo." 
      Quella calma, ironica e possente, colpì Caderousse e lo spaventò. 
      "L'abate!  l'abate!..." mormorò,  serrando i pugni e stringendo  i 
      denti. 
      "Volevate  derubare  il conte di Montecristo?" continuò il preteso 
      abate. 
      "Signor abate"  mormorò  Caderousse,  cercando  di  guadagnare  la 
      finestra, ostruita senza pietà dal conte, "signor abate, non so... 
      vi prego di credere... vi giuro..." 
      "Un  vetro  tagliato" continuò il conte,  "una lanterna cieca,  un 
      mazzo di grimaldelli,  un armadio per  metà  forzato:  l'affare  è 
      chiaro." 
      Caderousse  manipolava imbarazzato la cravatta,  cercava un angolo 
      per nascondersi, un varco per passare. 
      "Orsù" disse il conte,  "vedo che siete sempre lo  stesso,  signor 
      assassino." 
      "Signor abate, poiché sapete tutto, saprete che non sono stato io, 
      ma  Carconta  ciò è stato riconosciuto al processo,  poiché non mi 
      hanno condannato che alla galera." 
      "Avete dunque scontato la vostra  condanna,  che  vi  trovo  sulla 
      strada di farvici ricondurre?" 
      "No, signor abate, sono stato liberato da una persona." 
      "Questa persona ha reso un bel servizio alla società..." 
      "Beh" disse Caderousse, "io avevo promesso..." 
      "Cosicché   voi   infrangete  doppiamente  la  legge?"  interruppe 
      Montecristo. 
      "Purtroppo, sì..." disse Caderousse inquietissimo. 
      "Pessima recidiva... Ciò vi condurrà, se non sbaglio,  alla piazza 
      di Grève. Tanto peggio, tanto peggio, diavolo!, come dicono al mio 
      paese." 
      "Signor abate, io ho ceduto alla tentazione..." 
      "Tutti i delinquenti dicono così." 
      "Il bisogno..." 
      "Smettetela!"   disse   sdegnosamente  Busoni.   "Il  bisogno  può 
      trascinare a domandare l'elemosina, a rubare un pane alla porta di 
      un fornaio,  ma non a forzare un armadio in una casa che si  crede 
      disabitata.  E  quando  il  gioielliere  Giovanni venne a contarvi 
      quarantacinque mila franchi,  in cambio del diamante che vi  avevo 
      dato,  e voi lo avete ucciso per avere il diamante e il danaro, fu 
      pure allora il bisogno?" 
      "Perdono,  signor abate" disse Caderousse,  "voi mi avete  salvato 
      una volta, salvatemi ancora una seconda." 
      "M'avete già dato una caparra!" 
      "Siete solo, signor abate?" domandò Caderousse, giungendo le mani, 
      "o avete di là i gendarmi, già pronti per catturarmi?" 
      "Sono  solo"  disse  l'abate,  "e avrei ancora pietà di voi,  e vi 
      lascerei andare,  a rischio che da questa  mia  debolezza  possano 
      venire nuove disgrazie, se mi diceste tutta la verità." 
      "Ah,   signor  abate"  gridò  Caderousse,  giungendo  le  mani,  e 
      avvicinandosi di un altro passo a Montecristo, "posso ben dire che 
      siete il mio salvatore." 
      "Voi pretendete di essere stato liberato dalla galera?" 
      "Oh, su questo, fede di Caderousse, signor abate." 
      "Chi vi liberò?" 
      "Un inglese." 
      "Come si chiamava?" 
      "Lord Wilmore." 
      "Lo conosco: saprò dunque se mentite." 
      "Signor abate, io dico la pura verità." 
      "Quest'inglese dunque vi proteggeva?" 
      "Non proteggeva me, ma un giovane corso mio compagno di catene." 
      "Come si chiamava questo giovane corso?" 
      "Si chiamava Benedetto." 
      "Questo è un nome di battesimo." 
      "Non ne aveva altri, perché era un bastardo." 
      "Allora questo giovane è evaso con voi?" 
      "Sì." 
      "Ed in che modo?" 
      "Noi lavoravamo a Saint-Mandrier,  vicino a Tolone.  Conoscete voi 
      Saint-Mandrier?" 
      "Sì, lo conosco..." 
      "Ebbene nell'ora del sonno, tra mezzogiorno e l'una..." 
      "I forzati hanno la siesta!  Oh, compiangete quei birbanti!" disse 
      l'abate. 
      "Diamine!" disse Caderousse. "Non si può sempre lavorare, non si è 
      cani." 
      "Fortunatamente per i cani..." riprese Montecristo. 
      "Mentre  dunque  gli  altri  facevano  la  siesta,  noi  ci  siamo 
      allontanati un poco, abbiamo segato le nostre catene con una lima, 
      di cui ci aveva provveduti l'inglese, e ci siamo salvati a nuoto." 
      "E che cosa è avvenuto di Benedetto?" 
      "Non ne so niente!" 
      "Eppure dovete saperlo." 
      "No, davvero. Ci siamo separati a Hyères." 
      E  per dare più peso alla sua protesta,  Caderousse fece ancora un 
      passo verso l'abate,  che rimase sempre immobile e  calmo  al  suo 
      posto, interrogando. 
      "Voi   mentite!"   disse   l'abate  Busoni,   con  un  accento  di 
      irresistibile autorità. 
      "Signor abate!..." 
      "Voi mentite!  Quest'uomo è ancora vostro amico,  e voi vi servite 
      di lui come complice." 
      "Oh, signor abate!..." 
      "Da che avete lasciato Tolone, come avete vissuto? Rispondete." 
      "Come ho potuto." 
      "Voi  mentite!" ripeté per la terza volta l'abate,  con un accento 
      ancora più imperativo. 
      Caderousse, spaventato, guardò il conte. 
      "Voi avete vissuto" riprese questi,  "col denaro che  vi  è  stato 
      dato." 
      "Ebbene,  è vero" disse Caderousse,  "Benedetto è diventato figlio 
      di un gran signore." 
      "In qual modo può esser figlio di un signore?" 
      "Figlio naturale." 
      "E come chiamate questo gran signore?" 
      "Il conte di Montecristo, quello stesso in casa di cui siamo." 
      "Benedetto figlio del conte?" riprese Montecristo,  meravigliato a 
      sua volta. 
      "Diamine, bisogna ben credere così, poiché il conte gli ha trovato 
      un  falso  padre,  gli  passa  quattromila franchi al mese,  e gli 
      lascia cinquecentomila franchi nel suo testamento." 
      "Ah! ah!" esclamò il falso abate, che cominciava a comprendere. 
      "E che nome porta intanto questo giovane?" 
      "Si chiama Andrea Cavalcanti." 
      "Allora è il giovane che il mio amico,  il conte  di  Montecristo, 
      riceve in casa sua,  e che sta per sposare la figlia del banchiere 
      Danglars?" 
      "Precisamente." 
      "E voi tollerate questa cosa? Impossibile! Voi che ne conoscete la 
      vita e i delitti!" 
      "Perché volete che impedisca al mio compagno di riuscirvi?"  disse 
      Caderousse. 
      "E' giusto, non sta a voi avvisare il signor Danglars, sta a me." 
      "Signor abate, voi non lo farete..." 
      "E perché?" 
      "Perché in tal modo ci farete perdere il nostro pane." 
      "E  voi  credete  che per conservare il pane a due miserabili come 
      voi,  voglia farmi fautore dei loro  raggiri,  complice  dei  loro 
      delitti!" 
      "Signor abate..." disse Caderousse, avvicinandosi. 
      "Io dirò tutto." 
      "A chi?" 
      "Al signor Danglars." 
      "Mille  fulmini!"  gridò  Caderousse,   cavando  un  coltello  dal 
      panciotto già aperto e colpendo il conte nel mezzo del petto.  "Tu 
      non dirai niente, abate!" 
      Ma,  con  grande  sorpresa  di Caderousse,  il pugnale,  invece di 
      penetrare nel petto del conte, rimbalzò smussato. 
      Nello stesso tempo il conte afferrò con la mano sinistra il  polso 
      dell'assassino,  e lo contorse con tal forza,  che il coltello gli 
      cadde di mano e Caderousse mandò un  forte  grido  di  dolore.  Il 
      conte,  senza  fermarsi a quel grido,  continuò a torcere il polso 
      del bandito, fino a che, col braccio quasi lussato,  egli dapprima 
      cadde  in ginocchio,  quindi con la faccia contro terra.  Il conte 
      gli appoggiò un piede sulla testa e disse: 
      "Non  so  chi  mi  trattenga   dallo   schiacciarti   il   cranio, 
      scellerato!" 
      "Ah, grazia! grazia!" gridò Caderousse. 
      Il conte ritirò il piede. 
      "Alzati!" disse. 
      Caderousse si rialzò. 
      "Potere   di   Dio,   che   mano  avete,   signor  abate!"  disse, 
      strofinandosi il  braccio  quasi  morto  per  la  stretta  patita, 
      "potere di Dio, che forza!" 
      "Silenzio.  Quel  Dio,  in  nome di cui agisco,  mi dà la forza di 
      domare una bestia feroce come te, ricordatene, miserabile, e se in 
      questo momento risparmio la  tua  vita,  è  per  servire  ai  Suoi 
      scopi." 
      "Ahi!" fece Caderousse tutto dolorante. 
      "Prendi questa penna e questa carta, e scrivi ciò che ti detto." 
      "Non so scrivere, signor abate." 
      "Tu menti: prendi questa penna, e scrivi." 
      Caderousse soggiogato si sedette e scrisse: 
 
      "Signore,  l'uomo che ricevete in casa vostra e al quale destinate 
      vostra figlia, è un antico forzato, fuggito con me dalla galera di 
      Tolone;  egli portava  il  numero  59  ed  io  il  58.  Si  chiama 
      Benedetto;  ma  non  sa  nemmeno  il  suo cognome,  non avendo mai 
      conosciuto i suoi parenti." 
      "Firma!" continuò il conte. 
      "Ma voi dunque volete perdermi?" 
      "Se volessi perderti,  imbecille,  ti trascinerei  fino  al  primo 
      corpo  di guardia;  d'altra parte,  prima che il tuo biglietto sia 
      recapitato al suo indirizzo,  è probabile che  tu  non  abbia  più 
      nulla da temere... Firma dunque." 
      Caderousse firmò. 
      "L'indirizzo: 
      Al signor barone Danglars banchiere, rue Chaussée d'Antin." 
      Caderousse scrisse l'indirizzo. L'abate prese il biglietto. 
      "Ora" disse, "sta bene, vattene." 
      "Per dove?" 
      "Per dove sei venuto." 
      "Volete che esca da questa finestra?" 
      "Ci sei entrato." 
      "Voi meditate qualcosa contro di me, signor abate!" 
      "Imbecille! Che cosa vuoi ch'io mediti?" 
      "Perché dunque non aprirmi la porta?" 
      "A che pro svegliare il portinaio?" 
      "Signor abate, ditemi che volete la mia morte." 
      "Voglio ciò che vuole Iddio." 
      "Ma giuratemi che non mi colpirete mentre scenderò." 
      "Sei pur pazzo e vile!" 
      "Che volete farne di me?" 
      "Lo domando a te!  Ho cercato di fare di te un uomo felice,  e non 
      ne ho fatto che un assassino!" 
      "Signor abate" disse Caderousse, "tentate una seconda prova." 
      "Sia!"  disse  il  conte.  "Ascolta,  tu  sai  che  sono  uomo  di 
      parola..." 
      "Sì" disse Caderousse. "Se rientri in casa tua sano e salvo..." 
      "A meno che non venga colpito da voi, che cosa ho da temere?" 
      "Se  rientri  in casa tua sano e salvo,  lascia Parigi,  lascia la 
      Francia,  e in qualunque luogo  sarai,  fino  a  che  ti  porterai 
      onestamente,  ti  farò  avere  una  piccola pensione...  Poiché se 
      rientri in casa tua sano e salvo..." 
      "Ebbene?" domandò Caderousse fremendo. 
      "Io crederò allora che Dio ti abbia perdonato,  e ti perdonerò  io 
      pure..." 
      "Quanto è vero che sono cristiano" balbettò Caderousse,  facendosi 
      indietro, "voi mi fate morire di paura!" 
      "Orsù vattene!" disse il conte mostrando col dito  la  finestra  a 
      Caderousse. 
      Caderousse, ancora mal rassicurato da quella promessa, scavalcò la 
      finestra, e mise il piede sulla scala. Là si fermò tremando. 
      "Ora scendi" disse l'abate incrociando le braccia sul petto. 
      Caderousse cominciò a capire che non aveva niente da temere da lui 
      e discese.  Allora il conte si avvicinò con la candela,  e così si 
      poteva  distinguere  fin  dagli  Champs-Elysées   quest'uomo   che 
      scendeva da una finestra illuminata da un altro uomo. 
      "Che fate,  dunque,  signor abate?" disse Caderousse. "Se passasse 
      una pattuglia..." 
      E soffiò sulla candela.  Quindi continuò a scendere;  ma fu quando 
      sentì  il  suolo  del  giardino  sotto  i  piedi,  che si credette 
      sufficientemente sicuro. 
      Montecristo rientrò nella sua  camera  da  letto  e,  gettando  un 
      rapido  sguardo  in  giardino,  vide  Caderousse che,  dopo essere 
      disceso,  faceva un giro nel giardino,  e andava a piantare la sua 
      scala  all'estremità del muro,  per uscire da una parte diversa da 
      quella da  cui  era  entrato.  Quindi  volgendo  gli  sguardi  dal 
      giardino alla strada,  vide l'uomo che sembrava aspettare, correre 
      parallelamente nella strada,  e mettersi dietro  l'angolo  stesso, 
      vicino a dove stava per scendere Caderousse. 
      Caderousse  salì  lentamente  sulla scala,  e arrivato agli ultimi 
      gradini,  sporse la testa oltre il muro  per  assicurarsi  che  la 
      strada  fosse del tutto solitaria.  Non si vedeva nessuno,  non si 
      sentiva alcun rumore.  Suonò l'una  all'orologio  degli  Invalidi. 
      Allora  Caderousse si mise a cavalcioni sul muro e tirando a sé la 
      scala la calò dall'altra parte,  quindi  si  mise  a  scendere,  o 
      piuttosto  si lasciò strisciare lungo i due montanti,  manovra che 
      operò con  sveltezza.  Ma  scivolando  lungo  la  scala  non  poté 
      fermarsi.  Vide  un  uomo slanciarsi dall'ombra nel momento in cui 
      era a mezza strada,  e vide alzarsi un  braccio  nel  momento  che 
      toccava  terra  e  prima  che potesse difendersi questo braccio lo 
      colpì  tanto  furiosamente  nel  dorso,  che  abbandonò  la  scala 
      gridando: 
      "Soccorso!" 
      Un  secondo  colpo  lo  raggiunse quasi subito al fianco,  e cadde 
      gridando: 
      "All'assassino!" 
      Infine, siccome si rotolava per terra,  il suo avversario lo prese 
      per i capelli, e gli diede un terzo colpo nel petto. 
      Questa volta Caderousse volle gridare ancora,  ma non poté mandare 
      che un gemito, e fremendo lasciò scorrere tre rivi di sangue dalle 
      tre ferite.  L'assassino vedendo che non gridava più,  gli sollevò 
      la  testa  per  i  capelli: Caderousse aveva gli occhi chiusi e la 
      bocca contorta.  L'assassino credendolo morto,  lasciò ricadere la 
      testa  e  fuggì.  Allora  Caderousse  sentendolo allontanarsi,  si 
      raddrizzò sul gomito,  e in  un  supremo  sforzo  gridò  con  voce 
      morente: 
      "All'assassino! Io muoio, signor abate accorrete!" 
      Questa  lugubre chiamata passò tra le ombre della notte.  Apertasi 
      allora la porta della  scala  segreta,  e  poi  la  porticina  del 
      giardino, accorsero coi lumi Alì ed il suo padrone. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 82. 
                              GIUSTIZIA DI DIO. 
 
 
      Caderousse continuava a gridare con voce lamentevole: 
      "Signor abate, soccorso! soccorso!" 
      "Che c'è?" domandò Montecristo. 
      "Venite   in   mio  soccorso!"  ripeté  Caderousse.   "Sono  stato 
      assassinato." 
      "Eccomi, coraggio." 
      "Ah,  è finita.  Voi giungete troppo tardi,  giungete per  vedermi 
      morire. Che colpi! quanto sangue!" 
      E svenne. 
      Alì ed il suo padrone presero il ferito, e lo trasportarono in una 
      camera.  Là Montecristo fece segno ad Alì di spogliarlo,  e scoprì 
      le tre terribili ferite. 
      "Mio  Dio"  disse,   "la  vostra  vendetta  qualche  volta  si  fa 
      aspettare,   ma  soltanto,  credo,  per  scendere  dal  cielo  più 
      terribile." 
      Alì guardò il suo padrone come  per  domandargli  ciò  che  doveva 
      fare. 
      "Va'  a  cercare il procuratore Villefort,  che abita nel Faubourg 
      Saint-Honoré e conducilo qui; nel passare sveglierai il portinaio, 
      e gli farai intendere che vada a cercare un medico." 
      Alì obbedì,  e lasciò il finto abate solo  con  Caderousse  sempre 
      svenuto. Quando lo sciagurato riaprì gli occhi, il conte, seduto a 
      pochi  passi da lui lo guardava con tetra espressione di pietà,  e 
      le sue labbra, agitandosi sembravano mormorare una preghiera. 
      "Un chirurgo, signor abate, un chirurgo!" disse Caderousse. 
      "Ho mandato a cercarlo" rispose l'abate. 
      "So bene che è inutile, ma lui potrà ridarmi della forza, e voglio 
      avere il tempo di fare la mia deposizione." 
      "Su che?" 
      "Sul mio assassino." 
      "Lo conosci dunque?" 
      "Sì, l'ho riconosciuto, lo conosco, è Benedetto." 
      "Quel giovane corso?" 
      "Lui stesso." 
      "Il tuo compagno?" 
      "Sì.  Dopo avermi dato il piano della  casa  del  conte,  sperando 
      senza  dubbio  che  io  l'uccidessi  e  entrare  così  in possesso 
      dell'eredità, o che questi uccidesse me, e così sbarazzarsi di me, 
      mi ha aspettato sulla strada e mi ha assassinato." 
      "E nello stesso tempo,  ho mandato  a  cercare  un  medico,  e  ho 
      mandato a chiamare il procuratore." 
      "Giungerà  troppo tardi,  giungerà troppo tardi" disse Caderousse, 
      "sento che tutto il mio sangue se ne va." 
      "Aspetta" disse Montecristo. 
      Uscì,  e poco dopo rientrò  con  una  boccettina.  Gli  occhi  del 
      moribondo,  spaventosamente immobili, non avevano intanto lasciato 
      un istante quella porta dalla quale aspettava qualche soccorso. 
      "Spicciatevi, signor abate, spicciatevi" disse, "sento che torno a 
      svenire." 
      Montecristo si avvicinò,  e versò sulle labbra livide  del  ferito 
      tre  o  quattro  gocce  del  liquido  che conteneva la boccettina. 
      Caderousse mandò un sospiro. 
      "Oh!"  disse,  "voi  mi  versate  in  seno  la  vita...  Ancora... 
      ancora..." 
      "Due gocce di più ti ucciderebbero" rispose l'abate. 
      "Oh,   venga   dunque   qualcuno  al  quale  possa  denunciare  il 
      miserabile. 
      "Vuoi che scriva la tua deposizione? Tu la firmerai." 
      "Sì...  Sì..." disse Caderousse,  con gli occhi sfavillanti per la 
      speranza di questa postuma vendetta. 
      Montecristo scrisse: 
 
      "Io muoio assassinato dal corso Benedetto,  mio compagno di catena 
      a Tolone sotto il numero 59." 
 
      "Spicciatevi!  Spicciatevi!" disse Caderousse,  "o non  potrò  più 
      firmarla." 
      Montecristo presentò la penna a Caderousse,  che raccolse tutte le 
      forze, firmò, e ricadde nel letto dicendo: 
      "Voi racconterete  il  resto,  signor  abate,  direte  che  si  fa 
      chiamare   Andrea   Cavalcanti,   che  alloggia  nell'albergo  dei 
      Principi, che... Ah, mio Dio, ecco ch'io muoio!" 
      E Caderousse svenne per la seconda volta. L'abate gli fece respira 
      l'odore della boccettina, il ferito riaprì gli occhi, il desiderio 
      di vendetta non lo aveva abbandonato durante lo svenimento. 
      "Tutto, sì, ed altre cose ancora." 
      "Dirò che ti aveva dato la pianta di questa  casa  nella  speranza 
      che  il  conte ti uccidesse: dirò che aveva prevenuto il conte con 
      un biglietto; dirò che il conte era assente,  e che ho ricevuto io 
      questo biglietto, e vegliato per aspettarti." 
      "E  sarà  ghigliottinato,  non  è  vero?" disse Caderousse.  "Sarà 
      ghigliottinato, me lo promettete?  Muoio con questa speranza,  che 
      mi conforterà a morire." 
      "Dirò" continuò il conte, "che è giunto dopo di te, che è stato in 
      agguato  tutto il tempo che sei stato qui,  che quando ti ha visto 
      uscire, è corso all'angolo del muro, si è nascosto..." 
      "Voi dunque avete visto tutto?" 
      "Ricordati le mie parole: "Se rientri in casa tua  sano  e  salvo, 
      crederò che Dio ti abbia perdonato, e ti perdonerò io pure"." 
      "E   non   mi  avete  avvertito?"  gridò  Caderousse  cercando  di 
      sollevarsi sul gomito.  "Sapevate  che  avrei  corso  pericolo  di 
      essere ucciso uscendo di qui, e non mi avete avvertito!" 
      "No, perché nella mano di Benedetto io vedevo la giustizia di Dio, 
      avrei   creduto  di  commettere  un  sacrilegio  opponendomi  alle 
      intenzioni della Provvidenza." 
      "La giustizia di Dio! Non me ne parlate,  signor abate,  perché se 
      ci fosse,  come voi sapete più di chiunque altro, sarebbero punite 
      persone che non lo sono mai." 
      "La giustizia di Dio è lenta" disse l'abate con un tono  che  fece 
      fremere  il  moribondo,  "ma  non  sbaglia  mai...  Occorre essere 
      pazienti." 
      Caderousse lo guardò con stupore. 
      "E poi" disse l'abate,  "Dio è pieno di  misericordia  per  tutti, 
      come lo è stato per te: egli è padre prima di essere giudice." 
      "Ma  come,  voi  dite  di  credere  in  Dio,  e  m'avete  lasciato 
      uccidere?" disse Caderousse. 
      "Se avessi avuto la disgrazia di non crederci  fino  al  presente" 
      disse Montecristo, "ci crederei vedendoti." 
      Caderousse alzò i pugni chiusi al cielo. 
      "Ascolta" disse l'abate,  stendendo una mano sul ferito,  come per 
      imporgli la fede, "guarda che ha fatto per te questo Dio,  che non 
      vuoi  riconoscere  nel  tuo  ultimo momento: ti aveva dato salute, 
      forza, lavoro sicuro,  ed anche amici,  la vita finalmente,  quale 
      può  bastare  all'uomo  perché  vi  si  adatti  con la calma della 
      coscienza e la soddisfazione dei desideri, in accordo con la legge 
      divina; invece di essere contento di questi doni del Signore, così 
      raramente accordati da lui nella loro pienezza, guarda che cosa ne 
      hai fatto: ti sei abbandonato alla pigrizia ed alla ubriachezza, e 
      nella ubriachezza hai tradito uno dei tuoi migliori amici." 
      "Soccorso!" gridò Caderousse.  "Non ho bisogno di un prete,  ma di 
      un medico! Forse non sono ferito mortalmente, forse non sto ancora 
      per morire, forse posso ancora salvarmi..." 
      "No, sei ferito mortalmente. Senza le tre gocce del liquido che ti 
      ho dato, saresti già spirato. Ascolta dunque." 
      "Ah"  mormorò  Caderousse,  "siete  uno  strano  prete!  Invece di 
      consolare i moribondi, li fate disperare." 
      "Ascolta" continuò l'abate,  "quando hai tradito l'amico,  Dio  ha 
      cominciato  non  a  punirti,  ma ad avvisarti: tu sei caduto nella 
      miseria, hai sofferto la fame, e già pensavi al delitto scusandoti 
      con la necessità. Quando Dio fece per te un miracolo, e per le mie 
      mani,   t'inviò  nel  pieno  della   tua   miseria   una   fortuna 
      straordinaria,  tu,  disgraziato,  che  non  avevi  mai  posseduto 
      niente,  non hai capito.  Questa fortuna  inattesa,  non  sperata, 
      inaudita,  non  ti bastò più dal momento che la possedevi: volesti 
      raddoppiarla e con quale mezzo? Per mezzo di un omicidio. Tu l'hai 
      raddoppiata,  e Dio allora te  l'ha  tolta,  conducendoti  davanti 
      all'umana giustizia." 
      "Non  sono  stato  io"  disse Caderousse,  "che ho voluto uccidere 
      l'ebreo, fu la Carconta." 
      "Sì" disse Montecristo.  "E per questo la misericordia di Dio  non 
      volse  lo  sguardo  da  te  neppure  questa  volta,  perché la sua 
      giustizia ti avrebbe messo a morte;  ma Dio sempre  misericordioso 
      permise  che i tuoi giudici si commovessero alle tue parole,  e ti 
      lasciassero la vita." 
      "Per inviarmi alla galera a vita! Bella grazia!" 
      "Questa grazia, miserabile!, tu però la considerasti come una vera 
      grazia quando ti fu fatta. Il tuo cuore vile,  che tremava davanti 
      alla  morte,  balzò  di  gioia  all'annunzio  della  tua  perpetua 
      infamia, perché dicesti a te stesso,  come tutti i forzati: "Nella 
      galera  vi  è  una  porta,  non vi è una tomba".  Ed avevi ragione 
      perché la porta della galera si è aperta per te in modo insperato: 
      capita a visitare Tolone un  inglese,  che  aveva  fatto  voto  di 
      togliere  due uomini dall'infamia,  la sua scelta cade su te e sul 
      tuo compagno, una seconda fortuna scende per te dal cielo: ritrovi 
      denaro ad un tempo e tranquillità,  puoi ricominciare a vivere  la 
      vita di tutti gli uomini,  tu, condannato a vivere soltanto quella 
      dei forzati...  Ma allora,  miserabile!,  allora ritorni a tentare 
      Dio una terza volta.  "Io non ho abbastanza" dicesti, quando avevi 
      più di quello che tu abbia mai  posseduto,  e  commetti  un  terzo 
      delitto,  senza ragione, senza scusa. Dio si è stancato, Dio ti ha 
      punito." 
      Caderousse s'indeboliva a vista d'occhio. 
      "Da bere!" diss'egli. "Ho sete... io brucio." 
      Montecristo gli dette un bicchiere d'acqua. 
      "Scellerato Benedetto" disse Caderousse, restituendo il bicchiere, 
      "lui però fuggirà!" 
      "Nessuno fuggirà,  sono io che te lo dico,  Caderousse,  Benedetto 
      sarà punito." 
      "Allora  sarete  punito  voi  pure"  disse Caderousse: "perché non 
      avete fatto  il  dovere  del  vostro  ministero...,  voi  dovevate 
      impedire a Benedetto di uccidermi..." 
      "Io?" disse il conte, con un sorriso che agghiacciò di spavento il 
      moribondo:  "io impedire a Benedetto di ucciderti,  nel momento in 
      cui tu spezzavi il tuo coltello contro la cotta di maglia  che  mi 
      copriva  il petto?...  Sì,  forse,  se ti avessi ritrovato umile e 
      pentito,  avrei  impedito  a  Benedetto  d'ucciderti,   ma  ti  ho 
      ritrovato orgoglioso e sanguinario, ed ho lasciato che si compisse 
      la volontà di Dio." 
      "Io non credo in Dio!" urlò Caderousse.  "E nemmeno tu ci credi... 
      tu menti... tu menti!..." 
      "Taci" disse l'abate. "Perderai l'ultima possibilità con le ultime 
      gocce di sangue... Ah,  tu non credi in Dio,  mentre muori colpito 
      dalla  sua tremenda giustizia...  Tu non credi in Dio,  in Dio che 
      chiede  al  contrito  solo  una   preghiera,   una   lacrima   per 
      perdonargli...  Dio  che poteva dirigere il pugnale dell'assassino 
      in modo che tu spirassi sul colpo...  Dio ti  ha  dato  un  quarto 
      d'ora per pentirti...  Rientra dunque in te stesso, disgraziato, e 
      pentiti." 
      "No" disse Caderousse, "no, io non mi pento, non vi è Dio, non c'è 
      Provvidenza!" 
      "Vi è Dio,  c'è Provvidenza" disse  Montecristo,  "e  la  prova  è 
      questa,  che tu sei là gemente,  disperato,  rinnegando Dio, ed io 
      sono qui,  ritto davanti a te,  ricco,  felice,  sano e  salvo,  e 
      giungendo le mani davanti a questo Dio,  al quale benché ti sforzi 
      di non credere, pur credi nel fondo del cuore." 
      "Ma chi siete voi dunque allora?" domandò Caderousse fissando  gli 
      occhi moribondi sul conte. 
      "Guardami   bene"   disse  Montecristo,   prendendo  il  lume,   e 
      avvicinandoselo al volto. 
      "L'abate... l'abate Busoni." 
      Montecristo si  levò  la  parrucca  che  lo  sfigurava,  e  lasciò 
      ricadere i bei capelli neri che gli abbellivano il pallido viso. 
      "Oh!" disse Caderousse spaventato.  "Se non fossero questi capelli 
      neri, direi che siete l'inglese, direi che siete lord Wilmore." 
      "Io non sono  né  Busoni,  né  lord  Wilmore"  disse  Montecristo. 
      "Guardami meglio, guarda più lontano nelle tue prime rimembranze." 
      Alle parole vibranti del conte, il moribondo fu come rianimato. 
      "Infatti"   disse,   "mi  sembra  di  avervi  veduto,   di  avervi 
      conosciuto, in altri tempi." 
      "Sì, Caderousse, sì tu mi hai conosciuto, si tu mi hai veduto." 
      "Ma chi siete allora?  E perché,  se mi avete visto,  se mi  avete 
      conosciuto, perché mi lasciate morire?" 
      "Perché  non  c'è  nulla  che possa salvarti,  Caderousse,  le tue 
      ferite sono mortali.  Se tu avessi potuto  essere  salvato,  avrei 
      intravisto un'ultima misericordia del Signore, e sarei accorso per 
      restituirti  alla vita ed al pentimento,  te lo giuro per la tomba 
      di mio padre!" 
      "Per la tomba  di  tuo  padre!"  ripeté  Caderousse  rianimato  da 
      un'ultima  scintilla,  e  sollevandosi  per  vedere  più da vicino 
      l'uomo che faceva questo giuramento, sacro a tutti gli uomini. "Ma 
      chi sei dunque?" 
      Il conte non aveva cessato di osservare il progredire dell'agonia; 
      capì che questo slancio della vita era l'ultimo,  si  avvicinò  al 
      moribondo,  e  fissandolo  con  uno  sguardo  calmo e triste ad un 
      tempo: 
      "Io sono..." gli disse all'orecchio, "io sono..." 
      E le labbra, appena aperte, lasciarono passare un nome pronunciato 
      così sottovoce,  che il conte sembrava  temesse  di  sentirlo  lui 
      pure. Caderousse, che si era alzato sulle braccia, fece uno sforzo 
      per  tirarsi  indietro,  poi giungendo le mani ed alzandole con un 
      estremo sforzo: 
      "Oh, mio Dio,  mio Dio" disse,  "perdono!  Voi esistete,  sì,  voi 
      esistete,  e  nella vostra infinita misericordia e giustizia,  voi 
      siete il padre, il giudice degli uomini. Mio Dio e Signore, io non 
      vi ho per lungo tempo conosciuto! Mio Dio e Signore,  perdonatemi! 
      Mio Dio e Signore ricevetemi!" 
      Caderousse  chiuse  gli  occhi  e cadde all'indietro con un ultimo 
      grido con un ultimo sospiro.  Il  sangue  si  fermò  subito  sulle 
      larghe ferite. Era morto. 
      "Uno!"  disse  misteriosamente  il conte,  con gli occhi fissi sul 
      cadavere già sfigurato per questa morte terribile. 
      Dieci minuti dopo,  il medico ed il procuratore giunsero condotti, 
      l'uno dal portinaio,  l'altro da Alì, e furono ricevuti dall'abate 
      Busoni che pregava vicino al morto. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 83. 
                                  BEAUCHAMP. 
 
 
      Per quindici giorni non si parlò a Parigi  che  del  tentativo  di 
      furto,  fatto  con  tanta  audacia in casa del conte: il moribondo 
      aveva firmato una dichiarazione che indicava Benedetto come il suo 
      assassino.  La polizia fu invitata a lanciare tutti i suoi  agenti 
      sulle tracce dell'omicida.  Il coltello di Caderousse, la lanterna 
      cieca, il mazzo di grimaldelli e gli abiti,  meno il panciotto che 
      non  poté  ritrovarsi,  furono  deposti alla polizia;  il corpo fu 
      trasportato  alla  Morgue.  Il  conte  rispondeva  a  tutti,   che 
      quest'avventura  era accaduta mentre era nella sua casa d'Auteuil, 
      e di conseguenza, sapeva soltanto ciò che aveva raccontato l'abate 
      Busoni,  che quella sera,  per una strana combinazione  gli  aveva 
      chiesto  di  poter  passare  la notte in casa sua,  per consultare 
      alcuni  libri  preziosi  della  sua  biblioteca.   Bertuccio  solo 
      impallidiva  tutte le volte che veniva pronunciato in sua presenza 
      il nome di Benedetto,  ma non c'era motivo perché qualcuno notasse 
      il  pallore  di  Bertuccio.  Villefort,  chiamato  a constatare il 
      delitto,  aveva avocato a sé l'affare,  e intrapreso  l'istruzione 
      con  quell'ardore  appassionato,  che  metteva  in  tutte le cause 
      criminali.  Ma erano  già  passate  tre  settimane  senza  che  le 
      ricerche  più  attive  avessero  condotto  ad  alcun risultato,  e 
      nell'alta società cominciavano  a  dimenticare  il  furto  tentato 
      nella  casa  del conte,  e l'assassinio del ladro commesso dal suo 
      complice,  per occuparsi del  vicino  matrimonio  della  signorina 
      Danglars col principe Andrea Cavalcanti. 
      Questo  matrimonio  era  quasi  dichiarato,  ed  il giovane veniva 
      ricevuto in casa del banchiere col titolo di fidanzato.  Era stato 
      scritto  al signor Cavalcanti padre,  che aveva inviato la propria 
      approvazione al matrimonio,  esprimendo tutto  il  suo  dispiacere 
      perché  il  servizio gli impediva assolutamente di lasciare l'arma 
      dove  era  di  guarnigione,   e   confermando   un   capitale   di 
      centocinquantamila  lire  di  rendita.  Era  convenuto  che  i tre 
      milioni sarebbero stati collocati  nel  banco  Danglars,  dove  il 
      banchiere stesso li avrebbe fatti fruttare; alcune persone avevano 
      tentato  di  far nascere dei dubbi al giovane sulla solidità della 
      posizione del suo futuro suocero,  che da qualche tempo sopportava 
      in Borsa reiterate perdite, ma il giovane con sublime disinteresse 
      rigettò  tutti questi tentativi,  sui quali ebbe la delicatezza di 
      non dire neppure una  parola  al  barone.  Per  questo  il  barone 
      adorava il principe Andrea Cavalcanti.  Non era però lo stesso per 
      la  signorina  Danglars.   Nel  suo  odio  istintivo   contro   il 
      matrimonio,  aveva accolto Andrea per allontanare Morcerf,  ma ora 
      che Andrea si avvicinava troppo,  incominciava a provare  per  lui 
      una  visibile  repulsione.  Forse il barone se ne era accorto,  ma 
      siccome  non  poteva  attribuire  questa  repulsione  che  ad   un 
      capriccio, aveva fatto finta di non accorgersene. 
      Intanto  la  dilazione  chiesta  da Beauchamp era quasi trascorsa. 
      Morcerf  aveva  potuto  apprezzare  il  valore  del  consiglio  di 
      Montecristo,  quando  questi  gli aveva detto di lasciar cadere le 
      cose: nessuno aveva rilevato la nota sul generale,  a nessuno  era 
      venuta  l'idea  di riconoscere nell'ufficiale che aveva venduto la 
      fortezza di Giannina,  il nobile conte che sedeva alla Camera  dei 
      Pari.  Però questo non era valso a placare Alberto, che si credeva 
      insultato,  perché in quelle poche righe che lo avevano ferito era 
      certamente  l'intenzione di offenderlo e inoltre,  il modo con cui 
      Beauchamp aveva terminato il colloquio gli  aveva  lasciate  amare 
      sensazioni  nel  cuore.  Egli  dunque accarezzava l'idea di questo 
      duello,  del  quale  sperava,   col  concorso  di  Beauchamp,   di 
      nascondere  la causa reale persino ai suoi testimoni.  In quanto a 
      Beauchamp,  nessuno lo aveva più visto dopo il giorno della visita 
      fattagli da Alberto,  e a tutti quelli che andavano a domandare di 
      lui rispondevano che era assente per un viaggio di qualche giorno. 
      Dove fosse andato nessuno lo sapeva. 
      Una mattina Alberto  fu  svegliato  dal  suo  cameriere,  che  gli 
      annunciò Beauchamp.  Alberto si strofinò gli occhi,  ordinando che 
      facessero aspettare Beauchamp nella salettina al  pian  terreno  e 
      vestitosi prontamente discese.  Trovò Beauchamp che passeggiava in 
      su e in giù; come lo vide Beauchamp si fermò. 
      "Presentandovi in casa mia senza aspettare la visita  che  contavo 
      di  farvi  oggi  appunto,  mi  fate molto piacere,  signore" disse 
      Alberto.  "Orsù,  dite presto,  debbo stendervi la  mano  dicendo: 
      "Beauchamp,  confessate  un  torto,  e  conservatemi un amico",  o 
      domandarvi semplicemente: "Quali sono le vostre armi?"?" 
      "Alberto" disse Beauchamp,  con una tristezza che colpì il giovane 
      di stupore, "sediamoci prima, e parliamo." 
      "Mi  pare,  al contrario,  signore,  che prima di sederci dobbiate 
      rispondermi." 
      "Alberto" disse il giornalista,  "vi sono circostanze  in  cui  la 
      difficoltà sta precisamente nella risposta." 
      "Io ve la renderò facile,  signore, ripetendovi la domanda: volete 
      voi ritrattare, sì, o no?" 
      "Morcerf,  non bisogna limitarsi a rispondere sì o no alle domande 
      che interessano l'onore,  la posizione sociale, la vita di un uomo 
      quale è il conte Morcerf, Pari di Francia..." 
      "E che cosa si fa allora?" 
      "Si fa tutto ciò che ho fatto io, Alberto. Si dice: il denaro,  il 
      tempo e la fatica sono nulla, allorché si tratta della reputazione 
      e degli interessi di una intera famiglia;  si dice: se incrocio la 
      spada o stringo una pistola puntandola sopra un uomo al quale  per 
      due  anni  ho stretto la mano,  bisogna ch'io sappia almeno perché 
      faccio una cosa simile,  affinché possa giungere sul  terreno  col 
      cuore  calmo,  e  quella  coscienza tranquilla di cui abbisogna un 
      uomo quando deve col suo braccio salvarsi la vita..." 
      "Ebbene?  Ebbene?" domandò Morcerf con impazienza.  "Che vuol dire 
      tutto ciò?" 
      "Vuol dire che vengo da Giannina." 
      "Da Giannina? Voi!" 
      "Sì, io." 
      "Impossibile!" 
      "Mio  caro  Alberto,  ecco  il  mio passaporto;  guardate i visti! 
      Ginevra, Milano, Venezia, Trieste, Delvino, Giannina.  Credete voi 
      alla polizia di una repubblica, di un regno, di un impero?" 
      Alberto  gettò gli occhi sul passaporto,  e li rialzò meravigliato 
      sopra Beauchamp. 
      "Voi siete stato a Giannina!" disse. 
      "Alberto,  se foste uno straniero,  uno sconosciuto,  un  semplice 
      lord,  come  quell'inglese  che  tre  o  quattro  mesi  fa venne a 
      chiedermi soddisfazione, e che ho ucciso per sbarazzarmene, voi mi 
      capirete che non mi sarei dato una briga simile;  ma ho creduto di 
      dovervi  dare  questo  segno  di  stima.  Ho impiegato otto giorni 
      nell'andata,  otto giorni  nel  ritorno,  più  quattro  giorni  di 
      quarantena,  e  quarantotto ore di soggiorno;  tutto questo in tre 
      settimane. Sono giunto questa notte, ed eccomi qua." 
      "Mio Dio,  quanti giri di parole,  Beauchamp,  e quanto tardate  a 
      dirmi ciò che aspetto da voi!" 
      "Ed è la verità, Alberto." 
      "Si direbbe che esitate." 
      "Sì, ho paura." 
      "Avete  paura  di confessare che il vostro corrispondente vi aveva 
      ingannato?  oh,  lasciate l'amor proprio,  Beauchamp,  confessate, 
      Beauchamp! Il vostro coraggio non può essere messo in dubbio." 
      "Oh, non è questo" mormorò il giornalista, "al contrario..." 
      Alberto impallidì spaventosamente,  tentò di parlare, ma la parola 
      gli spirò sulle labbra. 
      "Amico mio" disse Beauchamp, col tono più affettuoso,  "credetemi, 
      sarei felice di potervi fare le mie scuse,  e ve le farei di tutto 
      cuore, ma ahimè!..." 
      "Ma però...?" 
      "La nota aveva ragione, amico mio." 
      "Come, quell'ufficiale francese..." 
      "Sì." 
      "Quel Fernando?" 
      "Sì." 
      "Quel traditore che cedette la fortezza dell'amico di cui  era  al 
      servizio?..." 
      "Perdonate,  amico  mio,  ma  devo  dirvi  che quest'uomo è vostro 
      padre!" 
      Alberto fece un movimento furioso per lanciarsi  sopra  Beauchamp, 
      ma questi lo trattenne,  più con la dolcezza dello sguardo che con 
      la fermezza della mano. 
      "Osservate,  amico mio" disse cavando di tasca un foglio,  "eccone 
      la prova." 
      Alberto aprì il foglio: era un attestato di quattro dei più nobili 
      abitanti  di  Giannina  che  provavano come il colonnello Fernando 
      Mondego,  colonnello istruttore al servizio del visir Alì-Tebelen, 
      aveva  ceduto  la  fortezza  di Giannina,  ricevendone in compenso 
      duemila borse di monete d'oro.  Le  firme  erano  legalizzate  dal 
      console. 
      Alberto vacillò,  e cadde sopra una sedia.  Questa volta non c'era 
      più alcun dubbio, il nome della sua famiglia era disonorato.  Così 
      dopo  un momento di silenzio e di dolore,  il cuore gli si gonfiò, 
      si inturgidirono le vene del collo,  e gli sgorgò dagli  occhi  un 
      torrente di lacrime.  Beauchamp, che aveva guardato il giovane con 
      profonda pietà mentre cedeva al dolore, si avvicinò a lui. 
      "Alberto" gli disse,  "ora mi capite,  non è vero?  Io  ho  voluto 
      veder  tutto,   giudicare  tutto  di  persona,   sperando  che  la 
      spiegazione sarebbe stata favorevole a vostro padre,  e che  avrei 
      potuto  rendergli  una completa giustizia.  Ma,  al contrario,  le 
      informazioni prese comprovano che questo ufficiale istruttore, che 
      questo Fernando  Mondego,  elevato  da  Alì-Pascià  al  titolo  di 
      governatore  generale,  non è altro che il conte Fernando Morcerf; 
      allora sono ritornato,  ricordandomi dell'onore che mi avete fatto 
      di ammettermi alla vostra amicizia, e sono corso da voi." 
      Alberto,  sempre  immobile  sulla  seggiola,  teneva  le mani agli 
      occhi,  quasi avesse voluto impedire alla luce di arrivare fino  a 
      lui. 
      "Sono  accorso"  continuava  Beauchamp,  "per dirvi: Alberto,  gli 
      errori dei nostri padri non possono ricadere sui  figli.  Alberto, 
      pochissimi  hanno  traversato le rivoluzioni,  in mezzo alle quali 
      siamo nati,  senza che qualche macchia di fango o di sangue  abbia 
      lordato loro l'uniforme da soldato, o la toga da giudice. Alberto, 
      nessuno  al  mondo,  ora  che  ne ho tutte le prove,  ora che sono 
      padrone del vostro segreto,  può forzarmi  ad  un  duello  che  la 
      vostra  coscienza,  ne  sono  certo,  si  rimprovererebbe  come un 
      delitto; ma ciò che voi non potete esigere da me,  io stesso vengo 
      ad offrivelo.  Queste prove,  queste rivelazioni, questi attestati 
      che io solo possiedo,  volete che scompaiano?  Volete  che  questo 
      terribile  segreto resti fra voi e me?  confidate nella mia parola 
      d'onore?  Il segreto non uscirà mai  dalla  mia  bocca.  Dite,  lo 
      volete, Alberto, dite, lo volete voi?" 
      Alberto si lanciò al collo di Beauchamp. 
      "Ah, nobile cuore!" gridò egli. 
      "Prendete" disse Beauchamp, presentando il foglio ad Alberto. 
      Alberto  lo afferrò con mano convulsa,  lo strinse,  lo spiegazzò, 
      pensò di stracciarlo,  ma,  temendo che la più piccola  particella 
      trasportata  dal  vento  non venisse un giorno a far riemergere la 
      vicenda,  andò alla candela,  sempre accesa per  i  sigari,  e  ne 
      consumò fin l'ultimo frammento. 
      "Caro amico, amico eccellente!" mormorò Alberto mentre bruciava la 
      carta. 
      "Ora tutto sia dimenticato come un cattivo sogno" disse Beauchamp, 
      "e se ne sperda la memoria,  come svaniscono queste ultime faville 
      che scorrono sulla carta annerita,  e quest'ultimo fumo che sfugge 
      da queste mute ceneri." 
      "Sì,  sì" disse Alberto, "e rimanga soltanto l'eterna amicizia che 
      trasmetteremo ai nostri figli,  amicizia che mi  ricorderà  sempre 
      che il sangue delle mie vene,  la vita del mio corpo,  l'onore del 
      mio nome, lo debbo soltanto a voi.  Perché se tal cosa fosse stata 
      conosciuta,  oh,  Beauchamp,  vi dichiaro che mi sarei bruciato le 
      cervella... Oh no, povera madre, non avrei voluto ucciderla con lo 
      stesso colpo, sarei espatriato." 
      "Caro Alberto!" disse Beauchamp. 
      Ma il giovane si tolse ben presto da questa gioia inattesa e,  per 
      così  dire,  fatidica,  e  ricadde  più  profondamente  nella  sua 
      tristezza. 
      "Ebbene" domandò Beauchamp, "ditemi, che cosa c'è di nuovo,  amico 
      mio?" 
      "C'è"  disse  Alberto,  "che  qualche  cosa  mi  lacera  il cuore. 
      Ascoltate, Beauchamp. Non è possibile ad un figlio spogliarsi così 
      in  un  attimo  di  quel  rispetto,  di  quella  confidenza  e  di 
      quell'orgoglio  che  gli ispirava il nome intemerato di suo padre. 
      Oh,  Beauchamp,  come potrò ora  presentarmi  a  lui?  Come  potrò 
      offrirgli  la  fronte  e  le  guance,  quando  avvicinerà  le  sue 
      labbra?...   Ritirerò  la  mano  quando  mi  stenderà  la  sua?... 
      Beauchamp,  io sono il più infelice degli uomini.  Ah,  madre mia, 
      mia povera madre" disse Alberto,  guardando attraverso occhi pieni 
      di lacrime il ritratto di sua madre,  "se veniste a saperlo quanto 
      soffrireste!" 
      "Coraggio" disse Beauchamp tendendogli le mani, "coraggio, amico!" 
      "Ma  da  dove  veniva  quella  prima  nota  inserita  nel   vostro 
      giornale?"  gridò  Alberto.  "Dietro  a  tutto  ciò,  c'è  un odio 
      sconosciuto, un nemico invisibile." 
      "Ebbene" disse Beauchamp, "ragione di più. Coraggio, Alberto!  Non 
      fate  comparire  alcuna  traccia  di  emozione sul volto,  portate 
      questo dolore in voi,  come la nube porta in sé  la  rovina  e  la 
      morte,  segreto fatale che si comprende soltanto al momento in cui 
      scoppia la tempesta. Andate, amico, serbate le vostre forze per il 
      momento di questo scoppio." 
      "Voi credete dunque  che  non  siamo  giunti  al  termine?"  disse 
      Alberto spaventato. 
      "Io  non  credo  niente,  amico  mio,  ma  tutto  è  possibile.  A 
      proposito..." 
      "Che?..." domandò Alberto, vedendo che Beauchamp esitava. 
      "Sposate ancora la signorina Danglars?" 
      "Perché mi fate questa domanda in tal momento?" 
      "Perché penso che la rottura o il compimento di questo  matrimonio 
      sia in relazione con ciò che ci occupa in questo momento." 
      "In  che  modo?"  disse  Alberto  la  cui fronte s'infiammò.  "Voi 
      credete che il signor Danglars..." 
      "Vi domando soltanto a che punto siete con questo matrimonio.  Che 
      diavolo!  Non date alle mie parole altro senso di quello che vi do 
      io, né importanza maggiore di quella che hanno." 
      "No" disse Alberto, "il matrimonio è mandato a monte." 
      "Bene" disse Beauchamp. 
      Quindi, vedendo che il giovane ricadeva nella sua malinconia: 
      "Sentite,  Alberto" disse,  "se credete a  me,  sarebbe  bene  che 
      uscissimo  un  giro al Bois in calesse o a cavallo vi distrarrà... 
      Torneremo per far colazione in qualche luogo e poi andremo  ognuno 
      per i nostri affari." 
      "Volentieri" disse Alberto,  "ma usciamo a piedi; mi sembra che un 
      po' di fatica mi farà bene." 
      "Sia" disse Beauchamp. 
      E i due amici uscendo a piedi s'avviarono al boulevard. 
      Giunti alla Madeleine: 
      "Sentite" disse Beauchamp, "giacché siamo sulla strada, andiamo un 
      po' a trovare il conte di Montecristo, egli vi distrarrà...  E' un 
      uomo  ammirabile  per  riconfortare  gli  spiriti,  e  non  fa mai 
      domande,  e a mio avviso,  la gente che non fa domande  è  la  più 
      abile consolatrice." 
      "Andiamo pure" disse Alberto, "andiamo da lui, lo desidero." 
 
                                 Capitolo 84. 
                                   VIAGGIO. 
 
 
      Montecristo mandò un grido di gioia, vedendo i due giovani. 
      "Oh!   Oh!"  disse.   "Spero  che  tutto  sarà  finito,  spiegato, 
      accomodato..." 
      "Sì" disse Beauchamp.  "Voci assurde che sono cadute da se stesse, 
      e  che  ora,  se  si  rinnovassero,  mi  avrebbero  per loro primo 
      antagonista. Non ne parliamo dunque più." 
      "Alberto vi dirà" riprese il conte,  "ch'io gli avevo dato  questo 
      medesimo  consiglio.  Ma  osservate"  soggiunse,  "che  esecrabile 
      mattina sto passando..." 
      "E che cosa fate?  Mi sembrate occupato a  mettere  in  ordine  le 
      vostre carte." 
      "Le  mie  carte?  Grazie  a  Dio,  no!  Nelle mie carte c'è sempre 
      ordine, un ordine meraviglioso, poiché non ne ho...  Sono le carte 
      del signor Cavalcanti." 
      "Del signor Cavalcanti?" domandò Beauchamp. 
      "Eh,  si,  sapete  bene,  quel  giovanotto lanciato in società dal 
      conte" disse Morcerf. 
      "No, davvero" riprese Montecristo, "io non ho lanciato alcuno,  ed 
      il signor Cavalcanti meno di chiunque altro." 
      "E che sposerà la signorina Danglars, in vece mia, cosa che" disse 
      Alberto,  sforzandosi di sorridere, "come potete bene immaginarvi, 
      mi addolora profondamente, mio caro Beauchamp." 
      "E che?  Venite forse dal confine del mondo?" domandò Montecristo. 
      "Voi,  giornalista,  sposato  alla  signora  Fama!  Ne parla tutta 
      Parigi." 
      "E siete voi,  conte,  che  avete  combinato  questo  matrimonio?" 
      domandò Beauchamp. 
      "Io? Ehi, silenzio, signor novellista! Non raccontate simili cose: 
      io, mio Dio, combinare un matrimonio! No, voi non mi conoscete. Mi 
      ci sono anzi opposto con tutto il mio potere,  ho ricusato di fare 
      la domanda." 
      "Ah, capisco" disse Beauchamp, "a causa del nostro amico Alberto?" 
      "Per causa mia?" disse il giovane. "Oh, no, davvero!  Il conte può 
      attestare  che  l'ho sempre pregato,  al contrario,  di ostacolare 
      questo progetto,  che fortunatamente è fallito.  Il conte pretende 
      di  non essere lui quello che debbo ringraziare,  sia,  innalzerò, 
      come gli antichi, un altare al Nume incognito." 
      "Ascoltate" disse Montecristo, "ho avuto così poca parte in questo 
      affare,  che sono ricevuto  freddamente  dal  futuro  genero,  dal 
      giovane.  La sola che mi abbia conservato un po' d'affezione, è la 
      signorina  Eugenia,  alla  quale,  come  noto,   ero  ben  lontano 
      dall'idea di far perdere la sua cara libertà." 
      "E dite che questo matrimonio è sul punto di effettuarsi?" 
      "Oh,  mio Dio,  sì,  malgrado tutto ciò che ho potuto dire. Io non 
      conosco il giovane;  pretendono che sia ricco e di buona famiglia, 
      ma  per  me  tali  cose  non  sono  che un semplice "si dice".  Ho 
      ripetuto tutto questo fino alla sazietà al signor Danglars, ma lui 
      è ostinato col suo lucchese. Sono perfino giunto a confidargli una 
      circostanza,  che per me è gravissima: il giovane è stato cambiato 
      a balia, allevato da zingari, o perduto dal suo precettore, non so 
      bene.  Ma quello che so è che suo padre lo ha perduto di vista per 
      più di dieci anni;  ciò che ha fatto durante questi dieci anni  di 
      vita  errante,  Dio solo lo sa.  Mando loro le sue carte,  ma come 
      Pilato, me ne lavo le mani." 
      "E la signorina d'Armilly" domandò Beauchamp, "che cera vi fa, che 
      le portate via la sua allieva?" 
      "Diamine, non ne so troppo,  ma sembra che parta per l'Italia.  La 
      signorina  Danglars mi ha parlato di lei,  e domandate lettere per 
      gli impresari: le ho dato due righe per il  direttore  del  teatro 
      Valle,  che  mi  deve  qualche  favore.  Ma che cosa avete dunque, 
      Alberto?   Mi  sembrate   ben   triste:   sareste   forse,   senza 
      accorgervene, innamorato della signorina Danglars, per esempio?" 
      "No, ch'io sappia..." disse Alberto sorridendo amaramente. 
      Beauchamp si mise a guardare i quadri. 
      "Ma  però"  continuò  Montecristo,  "non  siete  del solito umore. 
      Sentiamo, che cosa avete? Dite." 
      "Ho l'emicrania" disse Alberto. 
      "Ebbene,  mio caro visconte" disse Montecristo,  "io ho per questi 
      casi  un  rimedio infallibile,  rimedio che è sempre riuscito ogni 
      volta che ho sofferto qualche contrarietà." 
      "E quale?" domandò il giovane. 
      "Cambiar luogo." 
      "Davvero?" disse Alberto. 
      "Sì,  e  sentite:  siccome  in  questo  momento  soffro  eccessive 
      contrarietà, cambio luogo. Volete che cambiamo luogo assieme?" 
      "Voi  delle  contrarietà,   signor  conte?"  disse  Beauchamp.  "E 
      perché?" 
      "Voi ne parlate con molta indifferenza...  Vorrei veder voi con un 
      processo che si istruisce in casa vostra!" 
      "Un processo! Che processo?" 
      "Quello  che  il  signor Villefort istruisce contro il mio amabile 
      assassino,  una specie di brigante fuggito  di  galera,  a  quanto 
      sembra." 
      "Ah,  è  vero"  disse  Beauchamp,  "ho  saputo  di quest'affare al 
      giornale. Chi è questo Caderousse?" 
      "Mi sembra sia un provenzale.  Il signor Villefort ne  ha  sentito 
      parlare  quando era a Marsiglia,  ed il signor Danglars si ricorda 
      d'averlo già visto.  Ne risulta che il procuratore prende l'affare 
      assai  a  cuore,  molto  più  di  quanto  abbia,  a quanto sembra, 
      interessato il prefetto di polizia, e questo interesse, di cui gli 
      sono riconoscente,  mi fa inviare tutti i banditi che  si  possono 
      raccogliere  a  Parigi  e nelle vicinanze,  sotto pretesto ch'essi 
      sono gli assassini di Caderousse, e ne risulta che in tre mesi, se 
      continua così,  non vi sarà più un ladro o un assassino in  questo 
      regno,  che non conosca la pianta della mia casa sulla punta delle 
      dita.  Per cui decido  di  abbandonarla  loro  interamente,  e  di 
      andarmene lontano quanto mi potrà portare la terra. Venite con me, 
      visconte?" 
      "Oh sì, volentieri!" 
      "Allora è convenuto?" 
      "Sì, ma dove andremo?" 
      "Ve l'ho detto,  dove l'aria è più pura, e tutto è silenzio, dove, 
      per quanto uno  sia  orgoglioso,  si  sente  umile  e  si  ritrova 
      piccolo.  Malgrado mi chiamino padrone dell'universo come Augusto, 
      a me piace questa umiliazione." 
      "Ma infine dove andate?" 
      "Al mare, visconte,  al mare.  Io sono un marinaio,  sapete...  Da 
      bambino  sono  stato cullato fra le braccia del vecchio Oceano,  e 
      sul seno della bella Anfitrite;  ho  giocato  col  mantello  verde 
      dell'uno e con la sottana azzurra dell'altra.  Amo il mare come si 
      può amare un'amica,  e quando è lungo tempo che non  lo  vedo,  mi 
      vengono le smanie." 
      "Andiamo, conte, andiamo..." 
      "Al mare?" 
      "Sì." 
      "Accettate?" 
      "Accetto." 
      "Ebbene visconte, questa sera nel mio cortile ci sarà una carrozza 
      da  viaggio  in  cui uno può stendersi come nel proprio letto;  ci 
      saranno attaccati quattro  cavalli  da  posta.  Signor  Beauchamp, 
      quattro  persone ci stanno comodamente.  Volete venir con noi?  Vi 
      prendo con me." 
      "Grazie, arrivo ora dal mare." 
      "Come, venite dal mare?" 
      "Sì,  o quasi,  ritorno da un piccolo viaggio che  ho  fatto  alle 
      isole Borromee." 
      "Che importa... Venite lo stesso!" disse Alberto. 
      "No,  caro  Morcerf,  dal modo come rifiuto,  dovete capire che la 
      cosa è impossibile.  D'altra parte preme  ch'io  resti  a  Parigi" 
      disse,   parlando  a  bassa  voce,   "non  fosse  altro,  che  per 
      sorvegliare la cassetta del giornale." 
      "Ah, voi siete un ottimo ed eccellente amico!" disse Alberto. "Sì, 
      avete ragione,  vegliate,  sorvegliate,  Beauchamp  e  cercate  di 
      scoprire l'autore di quella nota." 
      Alberto e Beauchamp si separarono;  la loro ultima stretta di mano 
      esprimeva tutto ciò che le loro labbra non potevano  dire  davanti 
      allo straniero. 
      "E'  un  eccellente  giovane  questo Beauchamp" disse Montecristo, 
      dopo la partenza del giornalista, "non è vero, Alberto?" 
      "Oh sì,  un uomo di cuore,  ve lo garantisco;  per questo io l'amo 
      con tutta l'anima. Ma ora che siamo soli, quantunque per me sia lo 
      stesso, dove andiamo?" 
      "In Normandia, se non vi spiace." 
      "A meraviglia.  Saremo del tutto in campagna, non è vero?" Nessuna 
      società, nessun vicino?" 
      "Saremo a quattr'occhi con cavalli per correre, cani per cacciare, 
      barche per pescare, ed ecco tutto." 
      "E' quello che mi abbisogna.  Vado ad avvertire mia madre,  e sono 
      ai vostri ordini." 
      "Ma" disse Montecristo, "ve ne daranno il permesso?" 
      "Di che?" 
      "Di venire in Normandia..." 
      "A me? E perché? non sono più libero?" 
      "Di  andare  dove  vi piace,  da solo,  lo so bene,  giacché vi ho 
      incontrato in giro per l'Italia..." 
      "E allora?" 
      "Ma  venire  con  l'uomo  misterioso  che  si  chiama   conte   di 
      Montecristo..." 
      "Avete poca memoria, conte." 
      "Perché?" 
      "Non vi ho detto tutta la simpatia che ha per voi mia madre?" 
      "Spesso  la  donna  cambia,  ha  detto Francesco Primo: la donna è 
      un'onda,  ha detto Shakespeare: l'uno fu un gran  re,  l'altro  un 
      gran poeta, ed entrambi dovevano conoscere la donna." 
      "Sì, la donna, ma mia madre non è la donna, è una donna." 
      "Scusatemi,  se,  da  forestiero,  non  giungo  a  capire tutta la 
      sottigliezza contenuta in questo gioco di parole!" 
      "Voglio dire che mia madre è avara dei suoi affetti, ma, quando li 
      ha concessi una volta, è per sempre." 
      "Davvero?" disse sospirando Montecristo: "e credete che mi  faccia 
      l'onore  di  sentire  per  me  qualche cosa di più di una perfetta 
      indifferenza?" 
      "Ve l'ho già detto e ve lo ripeto" rispose Morcerf:, "voi siete un 
      uomo straordinario e superiore agli altri." 
      "Oh!" 
      "Sì poiché mia madre  si  è  lasciata  prendere,  non  dirò  dalla 
      curiosità,  ma  dall'interesse che avete saputo ispirarle.  Quando 
      noi siamo soli non parliamo che di voi." 
      "Vi dice dunque di non fidarvi di questo Manfredi?" 
      "Al contrario,  mi dice: "Morcerf,  io credo che il conte abbia un 
      nobile carattere; cerca di farti amare da lui"." 
      Montecristo girò gli occhi e mandò un sospiro. 
      "Ah, davvero?" disse. 
      "Di  modo  che,  come  ben capirete" continuò Alberto,  "invece di 
      opporsi al mio  viaggio,  lo  approverà  di  tutto  cuore,  poiché 
      coincide con le raccomandazioni che mi fa ogni giorno." 
      "Andate  dunque"  disse  Montecristo.  "Questa sera siate qui alle 
      cinque, noi arriveremo laggiù a mezzanotte o all'una." 
      "Come a Tréport...?" 
      "Tréport o nei dintorni." 
      "Otto ore appena per fare quarantotto leghe?" 
      "E' anche troppo" disse Montecristo. 
      "Voi siete decisamente l'uomo dei prodigi, e giungerete non solo a 
      superare le ferrovie,  cosa non molto  difficile  in  Francia,  ma 
      anche a correre più presto d'una notizia telegrafica." 
      "Tuttavia,  visconte, siccome ci vogliono sempre sette od otto ore 
      per giungere laggiù, siate esatto." 
      "State tranquillo: io non ho nient'altro da fare fin  allora,  che 
      prepararmi." 
      "Alle cinque dunque." 
      "Alle cinque." 
      Alberto sorrise,  Montecristo dopo avergli fatto,  sorridendo,  un 
      segno con la testa,  stette per  un  istante  pensieroso,  e  come 
      assorto  da  una profonda meditazione.  Finalmente,  passandosi la 
      mano sulla fronte  come  per  allontanare  una  visione,  andò  al 
      campanello  e  batté  due colpi.  Non appena percossi i due colpi, 
      entrò Bertuccio. 
      "Mastro Bertuccio" disse, "ho stabilito di andare in Normandia non 
      dopodomani, né domani, come avevo pensato,  ma questa sera stessa. 
      Da  qui  alle  cinque  c'è più tempo di quello che occorre: farete 
      preparare i cavalli della prima posta.  Mi  accompagna  il  signor 
      Morcerf. Andate." 
      Bertuccio obbedì, e un corriere corse a Pontoise ad annunciare che 
      la  carrozza  da  posta  sarebbe  passata  alle  sei  precise;  il 
      palafreniere di Pontoise ne inviò un altro alla seconda  posta,  e 
      questi un altro alla terza;  e sei ore dopo,  tutte le stazioni di 
      cambio disposte lungo la linea erano avvertite. 
      Prima di partire  il  conte  salì  da  Haydée  ad  avvertirla  che 
      partiva,  e  dicendole  per  dove,  e  mise  tutta la casa ai suoi 
      ordini. 
      Alberto fu  esatto.  Il  viaggio,  taciturno  all'inizio,  divenne 
      presto espansivo per l'effetto fisico della rapidità.  Morcerf non 
      aveva idea di tanta celerità. 
      "Infatti" disse Montecristo, "con la vostra posta che fa due leghe 
      l'ora,  con quella stupida legge che proibisce ai  viaggiatori  di 
      sorpassarsi  l'un  l'altro  senza averne ottenuto il permesso,  in 
      modo che un viaggiatore ammalato o catarroso  ha  diritto  di  far 
      stare  dietro  a  sé  i  viaggiatori sani che hanno fretta,  non è 
      possibile   andare   sulle   pubbliche   strade;    evito   questo 
      inconveniente,  viaggiando  col mio postiglione ed i miei cavalli. 
      Non è vero Alì?" 
      E il conte sporse la testa dallo sportello,  ed emise  un  piccolo 
      grido  di  eccitazione  che pose le ali ai piedi dei cavalli;  non 
      correvano più, volavano. La carrozza andava come un fulmine, sulla 
      strada regia,  e ciascuno si voltava per veder passare la meteora. 
      Alì, ripetendo quel grido, sorrideva mostrando i denti bianchi, e, 
      stringendo fra le robuste mani le redini spumeggianti,  spronava i 
      cavalli,  le cui criniere fremevano al vento;  Alì,  il figlio del 
      deserto,  si trovava nel suo elemento,  e col viso nero, gli occhi 
      ardenti,  il mantello bianco come neve,  sembrava  in  mezzo  alla 
      polvere  che  si sollevava,  il genio delle tenebre e il dio degli 
      uragani. 
      "Ecco" disse Morcerf,  "una  voluttà  che  io  non  conoscevo,  la 
      voluttà della velocità." 
      E  le ultime nubi della sua fronte si dissiparono,  come se l'aria 
      che fendeva le avesse portate con sé. 
      "Ma dove diavolo trovate simili  cavalli?"  domandò  Alberto.  "Li 
      fate forse fare espressamente?" 
      "Precisamente" disse il conte.  "Sei anni fa trovai in Ungheria un 
      famoso stallone rinomato per la sua celerità;  lo comprai  non  so 
      bene per quanto,  perché lo pagò Bertuccio. Nello stesso anno ebbe 
      trentadue figli: noi passeremo in rivista  appunto  tutta  la  sua 
      progenitura.  Essi sono tutti eguali,  neri, senza alcuna macchia, 
      fuorché una stella in fronte,  perché a questa privilegiata  razza 
      furono destinate cavalle tutte scelte,  come si scelgono ai pascià 
      le favorite." 
      "E' ammirabile!... Ma, ditemi, conte,  che ne fate di tutti questi 
      cavalli?" 
      "Lo vedete, viaggio." 
      "Ma non sempre viaggiate..." 
      "Quando non ne avrò più bisogno, Bertuccio li venderà, e scommetto 
      che ci guadagnerà trenta o quarantamila franchi." 
      "Ma in Europa non ci sarà principe così ricco da comprarli." 
      "Allora li venderò a qualche semplice visir d'Oriente, che vuoterà 
      il  suo  tesoro per comprarli,  e lo riempirà poi di nuovo facendo 
      somministrare bastonate sotto la pianta dei piedi ai sudditi." 
      "Conte, volete che vi dica un pensiero che mi è venuto?" 
      "Ditelo." 
      "Dopo voi,  il signor Bertuccio deve essere il più  ricco  privato 
      d'Europa." 
      "Vi sbagliate,  visconte,  sono sicuro che se rovesciate le tasche 
      di Bertuccio non ci troverete il valore di dieci soldi." 
      "E perché?" domandò il giovane.  "Il signor Bertuccio è dunque  un 
      fenomeno?  Ah,  mio  caro  conte,  non  mi  ingolfate  troppo  nel 
      favoloso, o io non crederò più, ve ne prevengo." 
      "Non troverete mai il favoloso  vicino  a  me,  Alberto:  cifre  e 
      ragione,  ecco tutto.  Ora ascoltate questo dilemma: un intendente 
      ruba, ma perché ruba?" 
      "Diavolo, perché è nella sua natura mi pare" disse Alberto,  "ruba 
      per rubare." 
      "No, v'ingannate. Ruba perché ha moglie, figli, desideri ambiziosi 
      per sé e per la famiglia;  ruba perché non è sicuro di star sempre 
      col suo  padrone,  vuol  farsi  un  avvenire.  Ebbene,  il  signor 
      Bertuccio  è solo al mondo,  fa uso della mia borsa senza renderne 
      conto, è sicuro di non lasciarmi mai." 
      "E perché?" 
      "Perché non potrei trovarne uno migliore." 
      "Voi vi aggirate in  un  circolo  vizioso  quale  è  quello  delle 
      probabilità." 
      "Oh no,  sono in quello delle certezze: il buon servitore, per me, 
      è quello sul quale ho diritto di vita e di morte." 
      "Ed avete questo diritto sopra Bertuccio?" 
      "Sì" rispose freddamente il conte. 
      Vi sono parole che chiudono il discorso come una porta  di  ferro; 
      il sì del conte era una di queste. 
      Il resto del viaggio si compì con la stessa celerità;  i trentadue 
      cavalli divisi in otto poste,  fecero le loro quarantasette  leghe 
      in  otto  ore.  Nel cuor della notte giunsero alla porta di un bel 
      parco;  il portinaio era in piedi,  e teneva il  cancello  aperto, 
      essendo stato avvertito dal palafreniere dell'ultima posta.  Erano 
      le  due  e  mezzo  del  mattino;   Alberto  fu  condotto  nel  suo 
      appartamento,  dove  ritrovò  pronto  un  bagno  ed  una cena.  Il 
      domestico,  che  aveva  fatto  la  strada  nel  sedile  dietro  la 
      carrozza, fu messo a sua disposizione. Battistino, che aveva fatto 
      la strada nel sedile davanti, stava agli ordini del conte. 
      Alberto prese il bagno, cenò, e se ne andò a letto. Tutta la notte 
      egli fu cullato dal malinconico rumore delle onde. Alzandosi, andò 
      direttamente  alla finestra,  e apertala si trovò sopra un piccolo 
      terrazzo che sul davanti aveva la distesa del  mare,  nella  parte 
      posteriore  un bel parco che conduceva ad una piccola foresta.  In 
      una rada piuttosto ampia  galleggiava  una  piccola  corvetta,  di 
      stretta carena,  con alberatura svelta, e che portava una bandiera 
      con  lo  stemma  di  Montecristo,  stemma  che  rappresentava  una 
      montagna  d'oro  sopra  un mare azzurro.  Intorno alla goletta una 
      quantità di piccole barchette che appartenevano ai  pescatori  dei 
      villaggi  vicini  e  sembravano  umili  sudditi  che  stessero  ad 
      aspettare gli ordini della loro regina. 
      Là, come in tutti i luoghi dove si fermava Montecristo, fosse pure 
      per due o tre giorni soltanto, la vita era organizzata con tutti i 
      comodi e piaceri: in tal modo il vivere  diventa  facile.  Alberto 
      trovò  nella  sua  anticamera  due  fucili,  e  tutti gli attrezzi 
      necessari ad un cacciatore.  Un'altra stanza,  nel piano  terreno, 
      era  consacrata  a  tutti  quegli utensili ed a quelle macchinette 
      ingegnose che gli inglesi,  grandi pescatori,  perché pazienti  ed 
      oziosi,  non  hanno  ancora  potuto  fare  adottare  ai  pescatori 
      francesi, tenaci nelle vecchie usanze. 
      Tutta la giornata passò in  questi  diversi  esercizi,  nei  quali 
      Montecristo  era  eccellente: furono uccisi una dozzina di fagiani 
      nel parco, e pescate delle trote nei ruscelli;  e,  dopo il pranzo 
      fatto in una capannuccia cinese che dava sul mare fu servito il tè 
      nella biblioteca. 
      Verso  la sera dei terzo giorno,  Alberto spossato dalla fatica di 
      quella laboriosa vita,  che sembrava  un  gioco  per  Montecristo, 
      dormiva  sopra  un  sofà  vicino ad una finestra,  mentre il conte 
      faceva col suo architetto il piano di una serra che voleva erigere 
      nella casa,  allorché il rumore di  un  cavallo  galoppando  nella 
      strada  fece alzare la testa al giovane.  Guardò per la finestra e 
      con gradevolissima sorpresa scoperse nel cortile il suo cameriere, 
      dal quale non aveva  voluto  farsi  seguire  per  non  imbarazzare 
      troppo Montecristo. 
      "Florentin  qui"  gridò  balzando dal sofà.  "Che sia ammalata mia 
      madre?" 
      E si precipitò verso la porta della camera.  Montecristo lo  seguì 
      con  gli  occhi,  e  lo  vide  accostarsi al cameriere,  che tutto 
      ansante, cavò di tasca una lettera ed un giornale. 
      "Di chi è questa lettera?" domandò con vivacità Alberto. 
      "Del signor Beauchamp" rispose Florentin. 
      "E' dunque Beauchamp che vi manda qui?" 
      "Sì,  signore.  Mi ha fatto andare da lui,  mi ha dato  il  denaro 
      necessario per il viaggio, mi ha fornito di un cavallo da posta, e 
      mi  ha fatto promettere che non mi sarei fermato fino a che non vi 
      avessi raggiunto signore: ho fatto la strada in quindici ore." 
      Alberto aprì la lettera fremendo; alle prime righe mandò un grido, 
      poi afferrò il giornale con visibile tremito.  Ad un tratto gli si 
      oscurarono  gli  occhi,  le  gambe gli vennero meno,  e,  vicino a 
      cadere,  si  appoggiò  a  Florentin,  che  stese  le  braccia  per 
      sostenerlo. 
      "Povero  giovane!"  mormorò  Montecristo tanto sommessamente,  che 
      neppure lui stesso  poté  udire  il  suono  di  queste  parole  di 
      compassione. "E' dunque stabilito che gli errori dei padri debbano 
      ricadere sui figli fino alla terza o quarta generazione?" 
      Alberto aveva recuperato il dominio di sé e,  dopo aver riletto la 
      lettera l'aveva spiegazzata  insieme  al  giornale.  Quindi  aveva 
      chiesto al servo: 
      "Mio  Dio,  in  che  stato  era  la  mia famiglia,  quando l'avete 
      lasciata?" 
      "Ritornando dalla casa del signor Beauchamp, ho trovato la signora 
      piangente.  Mi aveva fatto  chiamare  per  sapere  quando  avreste 
      potuto  essere  di ritorno.  Allora le ho detto che partivo subito 
      per incarico del signor Beauchamp.  Il suo primo impulso  è  stato 
      quello di fermarmi, ma dopo un istante di riflessione: 
      "Sì, andate Florentin" ha detto. "E' meglio che ritorni..."" 
      "Sì,  madre mia" proruppe Alberto,  "io ritorno,  stai tranquilla, 
      ritorno...  E guai all'infame!  Ma  innanzitutto  bisogna  che  io 
      parta...  Florentin"  aggiunse,  "il  vostro cavallo è in grado di 
      riprendere la strada di Parigi?" 
      "E un cattivo ronzino da posta, e in più storpiato..." 
      Allora Alberto tornò nella stanza dove aveva lasciato Montecristo. 
      Non era  più  lo  stesso  uomo;  cinque  minuti  erano  bastati  a 
      cambiarlo:  ora il conte si trovava davanti un Alberto con la voce 
      alterata, il viso rosso di febbre, l'occhio sfavillante,  il passo 
      vacillante. 
      "Conte" disse, "vi ringrazio dell'ospitalità. Avrei voluto goderne 
      più a lungo, ma è necessario che io torni a Parigi." 
      "Ma cosa è dunque accaduto?" 
      "Una gran disgrazia.  Ma permettetemi di partire, si tratta di una 
      cosa molto più preziosa della  mia  vita.  Non  mi  fate  domande, 
      conte, ve ne supplico, ma datemi un cavallo." 
      "Le  mie  scuderie  sono  al  vostro  servizio,   visconte"  disse 
      Montecristo,  "ma voi  morrete  di  fatica  correndo  la  posta  a 
      cavallo; prendete un calesse, una carrozza." 
      "No,  sarebbe troppo lunga, e poi ho bisogno di fare questa fatica 
      di cui temete, mi farà bene." 
      Alberto fece alcuni passi barcollando come un uomo colpito da  una 
      pallottola,  e  andò  a  cadere sopra una sedia vicino alla porta. 
      Montecristo non vide questo secondo momento di debolezza; era alla 
      finestra che gridava: 
      "Alì, un cavallo per il signor Morcerf! Presto che ha premura!" 
      Queste parole resero la vita ad Alberto;  si  lanciò  fuori  dalla 
      stanza, seguito dal conte. 
      "Grazie"  mormorò il giovane balzando in sella.  "Voi,  Florentin, 
      tornerete più presto che potrete.  Nessuna parola d'ordine per  il 
      cambio del cavallo?" 
      "Nient'altro che rilasciare quello che cavalcate, ve ne selleranno 
      sull'istante un altro." 
      Alberto stava per partire, ma si fermò. 
      "Forse  vi  parrà  strana,  insensata  la  mia  partenza" disse il 
      giovane.  "Voi non comprendete  come  poche  righe  d'un  giornale 
      possano  mettere  un  uomo  alla  disperazione.  Ebbene"  aggiunse 
      gettandogli il giornale,  "leggete queste,  ma  solo  quando  sarò 
      partito, affinché non abbiate a vedere il mio rossore." 
      Mentre  il conte raccoglieva il giornale,  egli piantò gli speroni 
      nel ventre del  cavallo,  che  scosso  il  cavaliere  che  credeva 
      necessario  un simile strumento per lui,  partì come un dardo.  Il 
      conte seguì il  giovane  con  gli  occhi,  con  un  sentimento  di 
      compassione  infinita,  e come fu scomparso,  abbassando gli occhi 
      sul giornale, lesse ciò che segue: 
 
      "Quell'ufficiale francese al servizio di Alì-Pascià  di  Giannina, 
      di  cui  parlava  tre settimane fa il giornale 'L'impartial' e che 
      non soltanto vendette la fortezza di Giannina,  ma  anche  il  suo 
      benefattore ai turchi,  si chiamava in quell'epoca Fernando,  come 
      ha detto il nostro onorevole confratello.  In  quell'occasione  ha 
      aggiunto  al  suo  vero  nome  un  titolo di nobiltà ed un nome di 
      terra.  Oggi si chiama signor conte  Morcerf,  e  fa  parte  della 
      Camera dei Pari. 
 
      In  tal  modo  dunque,  il terribile segreto,  che Beauchamp aveva 
      seppellito con tanta generosità ricompariva come fantasma  armato, 
      e un altro giornale,  brutalmente informato,  aveva pubblicato, il 
      giorno dopo la partenza d'Alberto per la Normandia,  quelle  righe 
      che per poco non fecero diventar pazzo il giovane. 
 
 
 
 
                                 Capitolo 85. 
                                 IL GIUDIZIO. 
 
 
      Alle  otto  del  mattino  Alberto cadde come un fulmine in casa di 
      Beauchamp.  Il cameriere avvertito introdusse Morcerf nella camera 
      del suo padrone, ch'era allora entrato in bagno. 
      "Ebbene?" gli disse Alberto. 
      "Ebbene, mio povero amico, vi aspettavo" rispose Beauchamp. 
      "Eccomi.  Non  starò a dirvi,  Beauchamp,  che persuasissimo della 
      vostra lealtà e virtù,  non penso nemmeno che  abbiate  parlato  a 
      qualcuno  di tutto ciò...  D'altra parte il messaggio che mi avete 
      spedito è una garanzia della vostra  affermazione.  Per  cui,  non 
      perdiamo tempo in preamboli.  Avete qualche sospetto da dove possa 
      venire questo colpo?" 
      "Ve ne dirò due parole in breve." 
      "Ma prima, amico mio,  dovete ragguagliarmi sulla storia di questo 
      abominevole tradimento." 
      E  Beauchamp raccontò al giovane,  schiacciato sotto il peso della 
      vergogna e del dolore,  i fatti che racconteremo in tutta la  loro 
      semplicità.  La mattina dell'antivigilia,  l'articolo era comparso 
      in un giornale ch'era tutt'altro che  "L'impartial",  e  ciò  dava 
      maggiore   gravità  all'affare,   in  un  giornale  molto  diffuso 
      appartenente al governo.  Beauchamp faceva  colazione  quando  gli 
      venne  sott'occhio  la  nota;  mandò subito a prendere un calesse, 
      senza finire il  pasto,  e  corse  alla  direzione  del  giornale. 
      Quantunque  professasse sentimenti politici diametralmente opposti 
      a quelli del gerente del giornale accusatore, Beauchamp,  cosa che 
      accade qualche volta,  e noi diremo anche sovente,  era suo intimo 
      amico. 
      Allorché giunse da lui,  il gerente leggeva il proprio giornale  e 
      sembrava compiacersi nel vedere in una prima colonna sotto la data 
      di  Parigi,  un  articolo  sullo  zucchero  di  barbabietola,  che 
      probabilmente coincideva col suo modo di vedere. 
      "Oh amico mio" disse Beauchamp,  "poiché  avete  fra  le  mani  il 
      vostro  giornale,  mio  caro,  non ho bisogno di dirvi che cosa mi 
      conduce da voi." 
      "Sareste per caso sostenitore dello zucchero di canna?" domandò il 
      gerente del giornale ministeriale. 
      "No,  anzi sono estraneo  alla  questione,  vengo  per  tutt'altra 
      cosa." 
      "Per che cosa venite?" 
      "Per l'articolo Morcerf." 
      "Ah, sì, davvero? Non è un articolo curioso?" 
      "Tanto   curioso  che  correte  il  rischio  d'essere  citato  per 
      diffamazione,  mi pare,  e d'andare incontro ad un processo  molto 
      pericoloso." 
      "Niente affatto, con la nota abbiamo ricevuto tutti i documenti di 
      prova,  e  siamo  perfettamente  convinti  che  il  signor Morcerf 
      rimarrà tranquillo: d'altra parte è un servizio che  si  rende  al 
      paese,  denunciare  i  nomi  di coloro che sono immeritevoli degli 
      onori che godono." 
      Beauchamp rimase interdetto. 
      "Ma chi dunque vi  ha  informato  così  bene?"  domandò.  "Il  mio 
      giornale,  che  ha  risvegliato  l'attenzione  per primo,  è stato 
      costretto ad astenersi d'andar oltre per mancanza di prove.  Anche 
      se  noi  siamo  più interessati di voi nello smascherare il signor 
      Morcerf,  che è della Camera dei Pari,  mentre noi  scriviamo  per 
      l'opposizione." 
      "Oh,  mio Dio, la cosa è semplicissima: non siamo corsi noi dietro 
      allo scandalo,  è venuto esso a trovarci.  E  giunto  un  uomo  da 
      Giannina  portando il dossier,  e siccome esitavamo a pubblicarlo, 
      ci ha manifestato che se  noi  ci  fossimo  rifiutati,  l'articolo 
      sarebbe  comparso  su un altro giornale.  In fede mia,  voi ben lo 
      sapete,  Beauchamp,  cosa sia una notizia importante: non  abbiamo 
      voluto  lasciarcela  rubare.  Ora il colpo è dato: è terribile,  e 
      rimbomberà fino ai confini d'Europa." 
      Beauchamp capì che non c'era più che da abbassare la testa e  uscì 
      disperato per mandare un corriere a Morcerf.  Ma ciò che non aveva 
      potuto  scrivere  ad  Alberto,  poiché  le  cose  che  stiamo  per 
      raccontare  avvennero  dopo  la partenza del corriere,  è che alla 
      Camera dei Pari,  in quello  stesso  giorno,  regnava  una  grande 
      agitazione   tra  i  diversi  gruppi  di  questa  alta  assemblea, 
      ordinariamente  così  calma.   Quasi  tutti  erano  giunti   prima 
      dell'ora,  e  discorrevano  del sinistro avvenimento che stava per 
      occupare l'attenzione del pubblico e per fissarla  sopra  uno  dei 
      membri più distinti e conosciuti di quell'illustre consesso. 
      Erano  letture  a  bassa voce dell'articolo,  commenti e scambi di 
      ricordi che stabilivano ancor meglio i fatti. Il conte Morcerf non 
      era amato fra i suoi colleghi.  Come tutti gli innalzati da  poco, 
      era stato costretto,  per mantenersi al suo rango, ad osservare un 
      eccesso di sostenutezza.  L'antica nobiltà rideva di  lui,  e  gli 
      ingegni  lo  ripudiavano,  gli uomini celebri lo disprezzavano per 
      istinto.  Il conte era ormai diventato la vittima espiatoria.  Una 
      volta  designato dall'Ente supremo per il sacrificio,  ciascuno si 
      affrettava a gridare: "raca!" Il solo conte Morcerf non ne  sapeva 
      nulla,  non  essendo  abbonato  al giornale che aveva riportato la 
      notizia infamante,  e avendo passato tutta la  mattina  a  scriver 
      lettere  e  a provare un cavallo.  Egli giunse dunque alla sua ora 
      solita, colla testa alta, l'occhio superbo, il contegno insolente, 
      e, disceso di carrozza, oltrepassò i corridoi, ed entrò nella sala 
      senza notare l'esitazione degli uscieri e i  saluti  equivoci  dei 
      colleghi. 
      Quando  Morcerf  entrò,  la seduta era già aperta da una mezz'ora. 
      Quantunque  il   conte   fosse   ignaro,   come   abbiamo   detto, 
      dell'accaduto,  e  per conseguenza non avesse cambiato in nulla il 
      suo contegno,  pure agli occhi di  tutti  parve  più  superbo  che 
      d'ordinario,  e  la  sua  presenza  in  quell'occasione parve così 
      insultante a quell'assemblea tanto gelosa del proprio  onore,  che 
      tutti  la considerarono come una mancanza di riguardo,  molti come 
      una bravata,  alcuni come un insulto.  Era evidente che  tutta  la 
      Camera  ardeva  dal  desiderio di giungere ad una discussione.  Si 
      vedeva il giornale  accusatore  nelle  mani  di  tutti;  ma,  come 
      sempre,  ciascuno  esitava  a  prendere su di sé la responsabilità 
      dell'attacco.  Finalmente uno di  quegli  onorevoli  Pari,  nemico 
      dichiarato del conte Morcerf;  salì alla tribuna con una solennità 
      che preannunciava il momento tanto atteso. 
      Si fece un glaciale silenzio. Morcerf solo ignorava la causa della 
      profonda attenzione che questa volta si prestava ad un oratore  di 
      solito  non  ascoltato  con  tanta  compiacenza.  Il  conte lasciò 
      passare  tranquillamente  il  preambolo,   per  mezzo  del   quale 
      l'oratore  stabiliva  ch'egli  stava  per parlare di cose talmente 
      gravi e  sacre  e  vitali  per  la  Camera,  che  domandava  tutta 
      l'attenzione  dei  suoi colleghi.  Alle prime parole di Giannina e 
      del  colonnello  Fernando,   il  conte  Morcerf   impallidì   così 
      orribilmente, che, in un solo fremito, l'assemblea concentrò tutti 
      gli  sguardi  sul  conte.   Le  ferite  mortali  hanno  questo  di 
      particolare,  che  si  nascondono,  ma  non  si  chiudono;  sempre 
      dolorose,  sempre  pronte  a  spremere  sangue  quando si toccano, 
      rimangono vive e sensibili nel cuore. 
      Terminata  la  lettura  dell'articolo,  sempre  nel  più  assoluto 
      silenzio,  interrotto soltanto da un fremito che cesso all'istante 
      in cui si vide che l'oratore stava per  riprendere  nuovamente  la 
      parola, l'accusatore espose il suo scrupolo, e la difficoltà della 
      sua impresa;  si trattava dell'onore del signor Morcerf, di quello 
      di  tutta  la  Camera,  che  pretendeva  difendersi  esigendo  una 
      discussione,  che  doveva  però  affrontare  argomenti personali e 
      quindi   sempre   troppo   scandalistici   per   essere   trattati 
      pubblicamente.  Finalmente  concluse  perché  fosse  istituito  un 
      processo tanto rapido da confondere la calunnia,  prima che avesse 
      il  tempo  di  ingigantire,  e  per ristabilire il signor Morcerf, 
      vendicandolo,  nel  posto  che  la  pubblica  opinione  gli  aveva 
      riconosciuto da lungo tempo. 
      Morcerf era così oppresso, così tremante di fronte a quest'immensa 
      ed  inattesa  calamità,  che appena poté balbettare alcune parole, 
      guardando i suoi colleghi con occhio stravolto.  Quella timidezza, 
      che  d'altra  parte  si  poteva ancora spiegare per lo stupore che 
      porta all'innocente l'onta del delitto,  gli conciliò la  simpatia 
      di  alcuni.  Gli  uomini  veramente  generosi sono sempre pronti a 
      diventare  misericordiosi,   quando  la   disgrazia   del   nemico 
      oltrepassa i limiti della loro collera. Il presidente mise ai voti 
      se avesse dovuto aver luogo il processo;  dopo votazione per mezzo 
      di alzata e seduta,  fu chiesto quanto tempo  gli  occorresse  per 
      preparare la sua difesa. 
      Era tornato il coraggio a Morcerf, da quando si era sentito ancora 
      vivo dopo un così terribile colpo. 
      "Signori  Pari"  rispose,  "non è già col tempo che si respinge un 
      attacco  come  quello  che  oggi  mi  viene  diretto   da   nemici 
      sconosciuti,  rimasti  fra  le  ombre della loro oscurità.  Con un 
      fulmine devo rispondere  al  baleno  che  per  un  momento  mi  ha 
      abbagliato.  Ah,  perché  mai  non  mi  è  dato,  invece  di esser 
      costretto a tale giustificazione,  di dover spargere il mio sangue 
      per provare ai miei nobili colleghi che sono degno di camminare al 
      loro fianco?" 
      Queste parole produssero una impressione favorevole all'accusato. 
      "Io  domando  dunque"  disse,  "che il processo abbia luogo il più 
      presto possibile e produrrò alla Camera tutte le prove  necessarie 
      per l'efficacia di questo processo." 
      "Qual giorno fissate?" domandò il presidente. 
      "Mi  metto  fin  d'oggi  a  disposizione  della Camera" rispose il 
      conte. 
      Il presidente suonò il campanello. 
      "E' di parere la Camera" domandò, "che abbia luogo oggi stesso?" 
      "Sì" fu l'unanime risposta dell'assemblea. 
      Fu nominata una commissione  di  dodici  membri  per  esaminare  i 
      documenti che doveva presentare Morcerf.  L'ora della prima seduta 
      di quella commissione fu stabilita  alle  otto  della  sera  negli 
      uffici  della  Camera.  Se fossero state necessarie diverse sedute 
      sarebbero state fatte alla stessa ora e nello stesso luogo.  Presa 
      questa decisione,  Morcerf domandò il permesso di ritirarsi.  Egli 
      doveva raccogliere i documenti  già  da  lui  preparati  da  lungo 
      tempo,  per far fronte a questo uragano previsto dal suo astuto ed 
      indomabile carattere. 
      Beauchamp  raccontò  all'amico  tutto  ciò  che  fin  qui  abbiamo 
      narrato,  tranne che il suo racconto aveva sul nostro il vantaggio 
      che hanno le cose  vive  sulle  morte.  Alberto  lo  ascoltò  ora, 
      fremente  di  speranza,  ora di collera,  ora di vergogna;  poiché 
      dalla confidenza fattagli da Beauchamp sapeva che  suo  padre  era 
      colpevole e rifletteva in che modo,  poiché era colpevole,  poteva 
      giungere a provare la sua innocenza. 
      Giunto a tal punto, Beauchamp tacque. 
      "E in seguito?" domandò Alberto. 
      "In seguito?" ripeté Beauchamp. 
      "Sì." 
      "Amico mio,  questa domanda mi trascina ad una orribile necessità. 
      Volete sapere il resto?" 
      "Bisogna  necessariamente  che  lo sappia,  amico mio,  e desidero 
      saperlo piuttosto dalla vostra bocca che da qualunque altra." 
      "Ebbene" riprese Beauchamp,  "preparate  dunque  tutto  il  vostro 
      coraggio, Alberto, voi non ne avete mai avuto tanto bisogno." 
      Alberto  si  passò una mano sulla fronte per farsi animo,  come un 
      uomo che, preparandosi a difendere la propria vita, fa prova della 
      sua corazza, e fa piegare la lama della sua spada. Si sentì forte, 
      perché prese la febbre per energia. 
      "Avanti!" disse. 
      "Giunse la sera" continuò Beauchamp, "e tutta Parigi era in attesa 
      di questo avvenimento.  Molti  pretendevano  che  a  vostro  padre 
      bastasse mostrarsi per far crollare tutta l'accusa; molti dicevano 
      che  il  conte non si sarebbe presentato;  certuni assicuravano di 
      averlo visto partire per Bruxelles;  altri andarono  alla  polizia 
      per  vedere  se  era vero,  com'essi dicevano,  che il conte fosse 
      andato a prendere i passaporti. Io feci tutto il possibile,  ve lo 
      confesso"  continuò  Beauchamp,  "per  ottenere  da uno dei membri 
      della commissione, un giovane Pari mio amico, di essere introdotto 
      in una specie di tribuna. Alle sette venne a prendermi,  e,  prima 
      che  fosse  giunto  qualcuno,  mi  raccomandò al portiere,  che mi 
      chiuse in una specie di loggia. Io ero nascosto da una colonna,  e 
      perduto nell'oscurità più completa,  in attesa di vedere e sentire 
      la terribile scena che stava  per  svolgersi.  Alle  otto  precise 
      tutti erano giunti. Il signor Morcerf entrò all'ultimo tocco delle 
      otto:  teneva  in  mano  alcune  carte e dal suo contegno sembrava 
      calmo; contro il solito, la sua andatura era semplice,  il vestire 
      ricercato e severo,  e, secondo il costume degli antichi militari, 
      portava l'abito tutto abbottonato.  La sua  presenza  produsse  il 
      miglior  effetto:  la  commissione era lungi dall'essere ostile al 
      conte,   e  molti  dei  suoi   membri   gli   andarono   incontro, 
      stringendogli la mano." 
      Alberto sentiva il cuore crivellato da tutti questi particolari, e 
      nel  suo  dolore  provava  un sentimento di riconoscenza;  avrebbe 
      voluto abbracciare questi uomini,  che avevano dato  a  suo  padre 
      tale  dimostrazione di stima in un momento in cui il suo onore era 
      compromesso. 
      "In quel momento  entrò  un  usciere,  e  rimise  una  lettera  al 
      presidente. 
      "Voi  avete la parola,  signor Morcerf" disse il presidente mentre 
      dissigillava la lettera. 
      Il conte incominciò la  sua  apologia,  e  vi  assicuro,  Alberto" 
      continuò  Beauchamp,  "che  spiegò  una  eloquenza  ed una abilità 
      straordinarie.  Egli produsse dei  documenti  comprovanti  che  il 
      visir di Giannina lo aveva, fino all'ultima ora, onorato della sua 
      fiducia avendolo incaricato di una negoziazione di vita e di morte 
      con  lo stesso sultano.  Mostrò l'anello segnale del comando,  col 
      quale Alì-Pascià sigillava  d'ordinario  le  sue  lettere,  e  che 
      questi gli aveva dato perché potesse, a qualunque ora del giorno o 
      della notte, penetrare fino a lui, fosse anche stato nell'harem. 
      "Disgraziatamente" disse,  "le trattative erano andate a vuoto,  e 
      quando fu di ritorno per difendere il suo benefattore,  questi era 
      già morto.  Ma" disse il conte,  "morendo,  Alì-Pascià,  tanta era 
      grande la sua  fiducia,  gli  aveva  affidato  la  favorita  e  la 
      figlia." 
      Alberto  rabbrividì  a quelle parole poiché man mano che Beauchamp 
      parlava gli tornava al pensiero tutto il racconto  di  Haydée:  si 
      ricordava  ciò  che  la  bella  greca  aveva  detto del messaggio, 
      dell'anello,  e del modo con cui era stata venduta e  condotta  in 
      schiavitù. 
      "E quale fu l'effetto del discorso del conte?" domandò con ansietà 
      Alberto. 
      "Vi confesso ch'esso mi commosse e con me tutta la commissione..." 
      continuò Beauchamp. "Frattanto il presidente gettò negligentemente 
      gli  occhi  sulla  lettera che gli era stata portata,  ma le prime 
      righe risvegliarono tutta la sua  attenzione:  la  lesse,  poi  la 
      rilesse, e fissando gli occhi sopra il signor Morcerf: 
      "Signor conte" disse, "voi ci avete detto che il visir di Giannina 
      vi aveva affidato sua moglie e sua figlia?" 
      "Sì, signore" rispose Morcerf, "ma in ciò, come in tutto il resto, 
      la sventura mi perseguitava. Al mio ritorno, Vasiliki e sua figlia 
      Haydée erano scomparse." 
      "Le conoscevate voi?" 
      "La  mia  intimità col pascià,  e la somma fiducia che aveva nella 
      mia fedeltà, mi avevano permesso di vederle più di venti volte." 
      "Avete nessuna idea di ciò che sia accaduto di loro?" 
      "Sì, signore.  Ho inteso dire ch'erano state vinte dal dispiacere, 
      e  fors'anche  dalla  miseria.  Io non ero ricco,  la mia vita era 
      circondata da grandi pericoli,  con mio sommo dispiacere non potei 
      mettermi a cercarle." 
      Il presidente aggrottò impercettibilmente il sopracciglio. 
      "Signori" diss'egli,  "voi avete inteso e seguito il conte Morcerf 
      nelle sue spiegazioni.  Signor conte,  potete voi,  in appoggio al 
      vostro racconto, fornirci qualche testimonio?" 
      "Ahimè,   no,   signore"  rispose  il  conte.  "Tutti  quelli  che 
      circondavano il visir,  e che mi hanno conosciuto alla sua  corte, 
      sono  morti  o  dispersi.   Io  solo,  credo,  io  solo  dei  miei 
      compatrioti sono sopravvissuto a questa spaventosa guerra;  non ho 
      che le lettere di Alì-Tebelen, e le ho poste sotto i vostri occhi; 
      non  ho  che  l'anello,   pegno  della  sua  volontà,  ed  eccolo; 
      finalmente ho la prova più convincente che  posso  fornire,  cioè, 
      dopo un assalto anonimo, l'assenza di ogni testimonianza contro la 
      mia parola d'onore; e la purezza di tutta la mia vita militare." 
      Un  mormorio  d'approvazione  corse  per tutta l'assemblea in quel 
      momento,  Alberto,  e se non fosse sopravvenuto alcun altro  nuovo 
      incidente la causa di vostro padre era vinta.  Non restava più che 
      andare ai voti, allorché il presidente prese la parola. 
      "Signori" disse,  "e voi  signor  conte  di  Morcerf,  non  sarete 
      contrari  presumo,  ad  ascoltare un testimone importantissimo,  a 
      quanto assicura, e che viene ad offrirsi da sé.  Questo testimone, 
      non  ne  dubitiamo,  dopo ciò che ha detto il conte,  è chiamato a 
      provare la perfetta innocenza del nostro collega.  Ecco la lettera 
      che ho ricevuto a questo riguardo: desiderate che vi sia letta,  o 
      decidete di passar oltre senza fermarci a questo incidente? 
      Il signor Morcerf impallidì,  e strinse nelle mani  le  carte  che 
      aveva  davanti,  che  frusciarono  sotto le sue dita.  La risposta 
      della commissione fu per la  lettura;  in  quanto  al  conte,  era 
      passivo,  e  non  aveva opinione da dichiarare.  In conseguenza il 
      presidente lesse la lettera seguente: 
 
      "Signor Presidente io posso fornire alla  commissione  giudicante, 
      incaricata  di  esaminare  la condotta in Epiro e in Macedonia del 
      luogotenente  generale  conte   Morcerf,   le   informazioni   più 
      positive." 
 
      Il presidente fece una breve pausa. Il conte Morcerf impallidì, il 
      presidente interrogò con lo sguardo gli uditori. 
      "Continuate!" fu gridato da tutte le parti. 
      Il presidente riprese: 
 
      "Io  ero  sul  luogo  alla morte di Alì-Pascià,  assistevo ai suoi 
      ultimi momenti, so che cosa è avvenuto di Vasiliki e d'Haydée;  io 
      mi metto a disposizione della commissione,  ed anzi chiedo l'onore 
      di farmi ascoltare. Sarò nel vestibolo della camera quando vi sarà 
      rimesso il presente biglietto." 
 
      "E chi è questo testimonio, o piuttosto questo nemico?" domandò il 
      conte con voce profondamente alterata. 
      "Lo sapremo ben presto,  signore..." rispose  il  presidente.  "La 
      commissione è dell'avviso d'udire questo testimonio?" 
      "Sì, sì" dissero ad un tempo tutte le voci. 
      Fu chiamato l'usciere. 
      "Usciere"  domandò  il presidente,  "vi è qualcuno che aspetta nel 
      vestibolo?" 
      "Sì, signor presidente." 
      "Chi è?" 
      "Una donna accompagnata da un servo." 
      Si guardarono tutti in viso l'un l'altro. 
      "Fate entrare questa donna..." disse il presidente. 
      Cinque minuti dopo,  ricomparve l'usciere;  tutti gli occhi  erano 
      fissi  sulla  porta,  ed io stesso" disse Beauchamp,  "partecipavo 
      alla generale aspettativa ed ansietà. Dietro all'usciere camminava 
      una donna avvolta in un lungo velo che la nascondeva  interamente. 
      S'indovinava bene,  alle forme che tradiva questo velo, ai profumi 
      che esalava, una donna giovane ed elegante; ma nient'altro. 
      Il presidente pregò l'incognita di alzare il velo,  ed  allora  si 
      poté  vedere  una  donna  vestita  alla  greca  e  d'una  bellezza 
      sorprendente." 
      "Ah!" disse Morcerf. "Era lei." 
      "Come, lei?" 
      "Sì, Haydée." 
      "Chi ve l'ha detto?" 
      "Ahimè,  l'indovino...  Ma continuate,  Beauchamp,  ve  ne  prego, 
      vedete  ch'io  sono calmo e coraggioso,  e poi dobbiamo accostarci 
      allo scioglimento." 
      "Il signor Morcerf guardava questa donna" continuò Beauchamp, "con 
      sorpresa mista a spavento.  Per lui era la vita  o  la  morte  che 
      stava per uscire da quella graziosa bocca. Per tutti gli altri era 
      un'avventura così strana e piena di curiosità che la salvezza o la 
      perdita del signor Morcerf non entrava già più in tale avvenimento 
      che come elemento secondario. 
      Il  presidente  con  un  segno  della  mano offerse una sedia alla 
      giovane,  ma lei fece segno con la testa che restava in piedi.  In 
      quanto  al  conte,  era  ricaduto  sul  suo  sedile,  e  si vedeva 
      manifestamente che le gambe ricusavano di sostenerlo. 
      "Signora" disse il presidente, "voi avete scritto alla commissione 
      per darle informazioni sull'affare di Giannina, e avete assicurato 
      che siete stata testimone oculare di questi avvenimenti." 
      "E lo fui di fatto" rispose l'incognita con voce piena di  vezzosa 
      malinconia, e con quella sonorità particolare alle voci orientali. 
      "Però  permettetemi  di dirvi che voi allora dovevate essere molto 
      giovane. 
      "Avevo quattro anni, ma siccome allora gli avvenimenti avevano per 
      me un'importanza suprema,  non mi è fuggito dalla mente un  fatto, 
      né si è cancellato un solo particolare." 
      "Ma  quale  importanza avevano dunque per voi tali avvenimenti?  E 
      chi siete voi perché questa catastrofe abbia in voi  prodotta  una 
      così grande impressione? 
      "Si  trattava  della  vita  o della morte di mio padre" rispose la 
      giovane donna,  "ed io mi chiamo  Haydée,  figlia  di  Alì-Tebelen 
      pascià di Giannina, e di Vasiliki sua moglie prediletta." 
      Il  rossore  modesto  e  fiero ad un tempo che imporporò le guance 
      della giovane,  il fuoco del suo sguardo,  e la maestà  della  sua 
      rivelazione,   produssero   su   tutta   l'assemblea   un  effetto 
      inesprimibile.   In  quanto  al  conte,   non  sarebbe  stato  più 
      annichilito, se il fulmine cadendo gli avesse scavato un abisso ai 
      piedi. 
      "Signora"  riprese  il  presidente,  dopo  essersi  inchinato  con 
      rispetto, "permettetemi una semplice domanda, che non è un dubbio, 
      e questa domanda sarà l'ultima: potete giustificare  l'autenticità 
      di quanto dite?" 
      "Lo posso,  signore" disse Haydée,  togliendo di sotto al velo una 
      borsa profumata,  "ecco la mia fede di  nascita,  redatta  da  mio 
      padre  e  sottoscritta dai suoi principali ufficiali;  ecco qui la 
      mia fede di battesimo,  avendo mio padre acconsentito che  venissi 
      allevata nella religione di mia madre, atto firmato dal primate di 
      Macedonia e dell'Epiro, munito del suo sigillo; ecco finalmente, e 
      questo  senza dubbio è il più interessante l'atto di vendita di me 
      e  di  mia  madre  al  mercante  armeno  El-Kobbir  dall'ufficiale 
      francese,  che  nel suo infame mercato con la Sublime Porta si era 
      riservato come bottino la figlia e la moglie del suo  benefattore, 
      ché  vendette  per la somma di mille borse,  vale a dire per circa 
      quattrocentomila franchi." 
      Un pallore verdastro invadeva le guance del  conte  Morcerf,  e  i 
      suoi  occhi  s'iniettavano  di  sangue  all'udire queste terribili 
      imputazioni,   che  furono  accolte  dall'assemblea  con   lugubre 
      silenzio. 
      Haydée  sempre  calma  ma molto più minacciosa nella calma che non 
      nella collera,  porgeva al presidente l'atto di vendita redatto in 
      lingua  araba.  Ma siccome si era previsto che qualcuno degli atti 
      prodotti da Morcerf sarebbero stati redatti in arabo,  in greco  o 
      in  turco,  l'interprete  della  Camera era stato prevenuto,  e fu 
      chiamato. 
      Uno dei nobili Pari,  a cui la lingua  araba  era  familiare,  per 
      averla appresa nella famosa campagna d'Egitto, seguì con gli occhi 
      sulla  pergamena  la  lettura  che il traduttore ne faceva ad alta 
      voce. 
 
      "Io El-Kobbir,  mercante di schiavi e fornitore dell'harem di  Sua 
      Altezza,  riconosco  di  aver  ricevuto  per rimetterlo al Sublime 
      Imperatore, dal signor conte di Montecristo,  uno smeraldo stimato 
      del  valore  di mille borse,  per il prezzo di una giovane schiava 
      cristiana,  dell'età di undici anni,  di  nome  Haydée,  e  figlia 
      riconosciuta  del  defunto Alì-Tebelen,  pascià di Giannina,  e di 
      Vasiliki sua favorita, la quale mi era stata venduta sette anni fa 
      unitamente a sua madre, che morì giungendo a Costantinopoli, da un 
      colonnello franco,  al servizio del  visir  Alì-Tebelen,  chiamato 
      Fernando Mondego. La suddetta vendita mi era stata fatta per conto 
      di Sua Altezza,  per la quale avevo il mandato,  mediante la somma 
      di mille borse. 
      Fatto a Costantinopoli con l'autorizzazione di Sua Altezza, l'anno 
      1247 dell'Egira. Firmato: El-Kobbir. 
      Per  dare  al  presente  atto  la  maggior  fede  ed   autenticità 
      possibile,  sarà munito del sigillo imperiale, che il venditore si 
      obbliga di farvi apporre." 
 
      Vicino alla firma del mercante,  si vedeva infatti il sigillo  del 
      sublime imperatore. 
      A  questa lettura e a quella vista successe un terribile silenzio; 
      il conte non aveva più che lo sguardo, e questo sguardo, attaccato 
      suo malgrado sopra Haydée era di fiamma e di sangue. 
      "Signora" disse il presidente,  "si potrebbe interrogare il signor 
      conte di Montecristo, che io credo a Parigi e vicino a voi?" 
      "Signore"  rispose  Haydée,  "il signor conte di Montecristo,  mio 
      secondo padre, trovasi da tre giorni in Normandia." 
      "Ma, allora, signora" disse il presidente,  "chi vi ha consigliato 
      questa testimonianza,  di cui la Corte vi ringrazia, e che d'altra 
      parte è ben naturale  per  la  vostra  nascita  e  per  le  vostre 
      disgrazie?" 
      "Signore"  rispose  Haydée,   "questa  testimonianza  mi  è  stata 
      consigliata dal rispetto e dal dolore.  Quantunque cristiana,  Dio 
      mi perdoni!,  ho sempre pensato a vendicare il mio illustre padre. 
      Ora, quando io ho messo il piede in Francia,  quando ho saputo che 
      il  traditore  abitava  a Parigi,  le orecchie e gli occhi mi sono 
      rimasti costantemente aperti. Io vivo, ritirata nella casa del mio 
      nobile protettore, ma vivo così,  perché mi piacciono l'ombra e il 
      silenzio,  che  mi permettono di vivere col mio pensiero e col mio 
      raccoglimento.  Il signor conte di Montecristo mi circonda di cure 
      paterne,  e  niente  mi  è estraneo di quanto concerne la vita del 
      gran mondo,  benché mi tenga paga della lontana eco.  Quindi leggo 
      tutti i giornali, mi vengono inviati tutti gli album, ricevo tutte 
      le  melodie:  e in tal modo,  seguendo cioè soltanto la vita degli 
      altri,  ho saputo che cosa è accaduto questa mattina  alla  Camera 
      dei  Pari,  e  cosa  doveva  accadere  questa  sera...  Allora  ho 
      scritto." 
      "Per  cui  il  conte  di   Montecristo   è   estraneo   a   questa 
      dimostrazione?" 
      "Egli la ignora del tutto, signore, ed anzi, non ho che un timore, 
      che  cioè la disapprovi;  però è un bel giorno per me" continuò la 
      giovane,  alzando al cielo uno sguardo ardente,  "quello  in  cui, 
      finalmente, ritrovo l'occasione di vendicare mio padre!" 
      In  tutto  questo tempo il conte Morcerf non aveva pronunciato una 
      parola;   i  suoi  colleghi  lo   guardavano,   e   senza   dubbio 
      compiangevano questa fortuna infranta,  per il soffio profumato di 
      una donna: la sua disgrazia si andava  a  poco  a  poco  scrivendo 
      sulla sua fronte a linee sinistre. 
      "Signor Morcerf" disse il presidente,  "riconoscete voi la signora 
      per la figlia di Alì-Tebelen, pascià di Giannina?" 
      "No" disse Morcerf, facendo uno sforzo per alzarsi.  "E' una trama 
      ordita dai miei nemici." 
      Haydée  che  teneva  gli  occhi  fissi  verso  la  porta,  come se 
      aspettasse qualcuno,  si voltò all'improvviso,  e vedendo il conte 
      in piedi, mandò un grido terribile. 
      "Tu  non mi riconosci?" disse.  "Ebbene,  io riconosco te!  Tu sei 
      Fernando Mondego,  l'ufficiale franco che istruiva le  truppe  del 
      mio nobile padre.  Sei tu che hai venduto la fortezza di Giannina! 
      Sei tu che,  inviato a Costantinopoli  per  trattare  direttamente 
      della  vita  e  della morte del tuo benefattore,  hai riportato un 
      falso documento che accordava grazia intera! Sei tu che con questo 
      documento hai ottenuto da mio  padre  l'anello  che  doveva  farti 
      obbedire  da  Selim,  il  guardiano  del  fuoco!  Sei  tu  che hai 
      pugnalato Selim! Sei tu che hai venduto mia madre e me al mercante 
      El-Kobbir! Assassino!  assassino!  assassino!  Tu hai ancora sulla 
      fronte il sangue del tuo padrone! Guardate tutti!" 
      Queste  parole  furono pronunciate con tale impeto di verità,  che 
      tutti gli occhi si portarono sulla fronte del  conte,  alla  quale 
      egli  stesso  portò  la mano,  come se vi avesse sentito,  tiepido 
      ancora, il sangue di Alì. 
      "Voi riconoscete dunque nel conte Morcerf quello stesso  ufficiale 
      Fernando Mondego?" 
      "Sì, lo riconosco!" gridò Haydée. "Ah, madre mia! Tu mi hai detto: 
      'Tu eri libera,  tu avevi un padre che ti amava,  tu eri destinata 
      ad esser quasi una regina! Guarda bene quest'uomo, è lui che ti ha 
      fatta schiava,  è lui che ha  fatto  innalzare  sull'estremità  di 
      un'asta la testa di tuo padre,  è lui che ci ha vendute, è lui che 
      ci ha traditi tutti! Guarda bene la sua mano destra, quella che ha 
      una larga cicatrice,  se  tu  ti  dimenticassi  il  suo  viso,  lo 
      riconoscerai da questa mano, sulla quale sono cadute ad una ad una 
      tutte  le  monete  d'oro del mercante El-Kobbir!" Se lo riconosco! 
      Oh! Dica egli adesso se riconosce me!" 
      Ciascuna parola cadeva come una falce sopra Morcerf,  e  strappava 
      una  parte  della  sua  energia,  alle  ultime  parole  si nascose 
      istintivamente,  e suo  malgrado,  la  mano  nel  petto,  mutilata 
      infatti da una ferita, e ricadde sul seggio inabissato in una cupa 
      disperazione. 
      Questa scena aveva sconvolto gli animi di tutta l'assemblea,  come 
      si vedono sconvolgere le foglie sotto il possente vento del nord. 
      "Signor conte Morcerf"  disse  il  presidente,  "non  vi  lasciate 
      abbattere,  rispondete!  La  giustizia  della  Corte  è suprema ed 
      eguale per  tutti,  come  quella  di  Dio,  essa  non  vi  lascerà 
      schiacciare  dai  vostri  nemici,  senza  lasciarvi  i  mezzi  per 
      combatterli.  Volete che ordini a due membri della commissione  di 
      andare a fare un viaggio a Giannina? Parlate!" 
      Morcerf non rispose. 
      Allora  tutti  i  membri  della  commissione si guardarono con una 
      specie di terrore. 
      Si conosceva il carattere energico e violento del conte; ci voleva 
      una prostrazione  ben  terribile  per  annichilire  la  difesa  di 
      quest'uomo,  bisognava pensare che, a questo silenzio, simile a un 
      sonno, sarebbe succeduto un risveglio simile a un fulmine. 
      "Ebbene" gli domandò il presidente, "che decidete?" 
      "Niente!" rispose il conte con voce sorda alzandosi. 
      "La  figlia  d'Alì-Tebelen"  disse  il  presidente,   "ha   dunque 
      dichiarata  realmente  la  verità?   Lei  è  dunque  proprio  quel 
      testimone terribile al quale,  come sempre accade,  il reo non  ha 
      coraggio  di dire "No"?  Avete dunque fatto realmente tutte quelle 
      cose di cui siete accusato?" 
      Il conte girò intorno a  sé  uno  sguardo  disperato  che  avrebbe 
      commosso  le  tigri,  ma non poteva disarmare dei giudici,  quindi 
      alzò gli occhi verso la volta, ma li abbassò tosto, come se avesse 
      temuto che questa volta aprendosi  facesse  risplendere  un  altro 
      tribunale  che  si  chiama  cielo e un altro giudice che si chiama 
      Dio.  Allora,  con un subitaneo movimento,  strappò i  bottoni  di 
      quell'abito  chiuso  che  lo  soffocava,  e  uscì  dalla sala come 
      insensato,  i suoi passi si ripercuotevano per un istante sotto la 
      volta  sonora,  quindi  ben  presto  il  suono  delle  ruote della 
      carrozza che lo trascinava al galoppo rintronò con fracasso  sotto 
      il portico dell'edificio. 
      "Signori" disse il presidente,  quando il silenzio fu ristabilito, 
      "il  conte  Morcerf  è  convinto  di  fellonia,   di   tradimento, 
      d'indegnità?" 
      "Sì!"  risposero  a  voce unanime tutti i membri della commissione 
      processante. 
      Haydée  aveva  assistito  sino  alla  fine  della  seduta:  intese 
      pronunciare la sentenza del conte senza che nei lineamenti del suo 
      viso  si  potesse  leggere  il minimo indizio di gioia o di pietà. 
      Allora, abbassando il velo, salutò maestosamente i consiglieri, ed 
      uscì di quel passo con cui Virgilio vedeva camminare le sue dee." 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 86. 
                                  LA SFIDA. 
 
 
      "Allora"  proseguì  Beauchamp,   "approfittai   del   silenzio   e 
      dell'oscurità della sala per uscire senza essere visto.  L'usciere 
      che mi aveva introdotto mi  aspettava  sulla  porta:  mi  condusse 
      attraverso  alcuni  corridoi  fino ad una porticina che dava sulla 
      Vaugirard.  Io  uscii  con  l'anima  addolorata  ad  un  tempo  ed 
      eccitata,  perdonatemi quest'espressione,  Alberto; addolorata per 
      quanto concerne voi,  eccitata,  per la nobiltà di questa  giovane 
      donna  nel  conseguire  la  vendetta  paterna.  Si,  ve  lo giuro, 
      Alberto, da qualunque parte venga questa rivelazione, dico che può 
      venire da un nemico,  ma questo nemico non è  che  l'agente  della 
      Provvidenza." 
      Alberto  teneva la testa fra le mani;  rialzò il viso rosso per la 
      vergogna e  bagnato  di  lacrime,  ed  afferrando  il  braccio  di 
      Beauchamp: 
      "Amico" disse,  "la mia vita è finita; mi rimane, non ripetere con 
      voi che la Provvidenza mi ha vibrato il colpo,  ma cercare  chi  è 
      l'uomo  che  mi  perseguita  con  la  sua inimicizia...  Quando lo 
      conoscerò, o io ucciderò lui,  o lui ucciderà me!  Ora conto sulla 
      vostra amicizia per aiutarmi,  Beauchamp, se però il disprezzo non 
      l'ha già uccisa nel vostro cuore." 
      "Il disprezzo,  amico  mio!  E  in  che  mai  vi  riguarda  questa 
      disgrazia?  No,  grazie  a Dio,  non siamo in quei tempi in cui un 
      ingiusto pregiudizio rendeva i figli responsabili delle azioni dei 
      loro padri.  Ripercorrete tutta la vostra vita,  Alberto: data  da 
      ieri,  è  vero,  ma  non  vi  fu mai più pura aurora di quella del 
      giorno in cui nasceste. No, Alberto, credetemi, voi siete giovane, 
      siete ricco...  Lasciate la Francia!  Tutto si dimentica in questa 
      grande Babilonia che ha un'esistenza agitata e piaceri passeggeri: 
      ritornerete  fra tre o quattro anni,  avrete sposata qualche bella 
      russa, e nessuno penserà più a quello che è accaduto ieri,  e meno 
      ancora a quello che è accaduto sedici anni fa." 
      "Grazie,  caro Beauchamp,  grazie delle vostre parole,  ma la cosa 
      non può andar così.  Vi ho spiegato  il  mio  desiderio,  ora,  se 
      occorre,  cambierò  la  parola  desiderio  in  quella  di volontà. 
      Capirete bene che,  interessato come sono in  questo  affare,  non 
      posso  vedere  la cosa con lo stesso occhio con cui la vedete voi. 
      Ciò che a voi sembra venire da un sorgente celeste,  a  me  sembra 
      uscire  da  luogo meno puro.  La Provvidenza,  ve lo confesso,  mi 
      sembra affatto estranea a  tutto  questo,  e  ciò  fortunatamente, 
      perché invece dell'invisibile e incorporeo messaggero,  troverò un 
      essere materiale e visibile sul quale mi vendicherò, oh, sì, ve lo 
      giuro,  di tutto ciò che soffro da un mese.  Ora,  ve  lo  ripeto, 
      Beauchamp,  rientrerò nella vita umana,  e se voi siete ancora mio 
      amico,  come dite,  aiutatemi a ritrovare la mano che ha scagliato 
      il colpo." 
      "Sia  come volete" disse Beauchamp,  "e se vi sta a cuore mettervi 
      in cerca di un nemico,  vi aiuterò,  e lo troverò  perché  il  mio 
      onore vi è interessato quasi al pari del vostro." 
      "Beauchamp,  cominciamo fin d'ora le nostre ricerche.  Ogni minuto 
      di ritardo è un'eternità per me;  il delatore non è ancora punito, 
      può  dunque  sperare  di non esserlo più,  e sul mio onore,  se lo 
      spera, s'inganna." 
      "Ascoltatemi, Morcerf." 
      "Ah, Beauchamp, vedo che ne sapete qualche cosa... Voi mi ridonate 
      la vita." 
      "Non vi dico che sia un indizio reale,  Alberto,  ma per lo meno è 
      un lume nelle tenebre; seguendo questa luce, giungeremo forse alla 
      meta." 
      "Vedete bene che fremo d'impazienza." 
      "Vi  racconterò  ciò  che  non  ho  voluto dirvi al mio ritorno da 
      Giannina." 
      "Parlate." 
      "Ecco cosa è accaduto,  Alberto: andai dal primo  banchiere  della 
      città  per  prendere  le  mie informazioni.  Alla prima parola che 
      dissi dell'affare prima ancora che fosse pronunciato  il  nome  di 
      vostro padre. "Ah" disse, "indovino che cosa vi conduce". 
      "Come e perché?" 
      "Perché  sono  appena  quindici  giorni che sono stato interrogato 
      sullo stesso oggetto." 
      "Da chi." 
      "Da un banchiere di Parigi, mio corrispondente." 
      "Il suo nome?" 
      "Signor Danglars." 
      "Lui!" gridò Alberto.  "Infatti,  è proprio lui che da lungo tempo 
      perseguita  il mio povero padre col suo odio e con la sua gelosia, 
      lui,  l'uomo che si pretende popolare,  che non  sa  perdonare  al 
      conte Morcerf d'essere Pari di Francia...  E,  sentite me,  questa 
      rottura di matrimonio senza darne una ragione, dipende da ciò." 
      "Informatevi,   Alberto,   non  lasciatevi  trasportare  dall'ira, 
      informatevi dico, e se la cosa è vera..." 
      "Oh,  sì" gridò il giovane, "e se la cosa è vera, mi pagherà tutto 
      ciò che ho sofferto." 
      "State in guardia Morcerf, abbiamo a che fare con un vecchio." 
      "Ebbe forse riguardo all'onore della mia famiglia?  Se odiava  mio 
      padre,  perché non ha colpito mio padre? Oh, no! Ha avuto paura di 
      trovarsi faccia a faccia ad un uomo..." 
      "Alberto,  non vi condanno,  non faccio che moderarvi...  Alberto, 
      agite con prudenza." 
      "Oh,   non   abbiate  paura;   d'altra  parte  mi  accompagnerete, 
      Beauchamp: le  cose  solenni  devono  essere  trattate  davanti  a 
      testimoni.  Prima  che  questa  giornata sia finita,  se il signor 
      Danglars è reo, avrà cessato di vivere, o sarò morto io.  Per Dio, 
      Beauchamp, voglio fare bei funerali al mio onore!" 
      "Quando   si   prendono   tali   risoluzioni,   Alberto,   bisogna 
      sull'istante metterle in  esecuzione.  Volete  andare  dal  signor 
      Danglars? Partiamo." 
      Mandarono  a  prendere un carrozzino a nolo.  Entrando nel palazzo 
      del banchiere,  videro alla porta il calessino ed il domestico del 
      signore Andrea Cavalcanti. 
      "La  sorte  mi  favorisce!" disse Alberto,  con voce cupa.  "Se il 
      signor Danglars non vuole battersi,  gli ucciderò il genero.  Deve 
      essere  uomo  da  accettare  una  sfida,   dovrà  battersi:  è  un 
      Cavalcanti!" 
      Annunciato al banchiere, questi,  al nome di Alberto,  sapendo che 
      cosa  era accaduto il giorno prima,  gli fece proibire l'ingresso, 
      ma  troppo  tardi:  Alberto,  avendo  seguito  il  lacchè,  intese 
      l'ordine  dato e forzando la porta penetrò,  seguito da Beauchamp, 
      fino allo studio del banchiere. 
      "Ma, signore" gridò questi,  "non si è più padroni in casa propria 
      di ricevere chi si vuole e ricusare chi non si vuole? Mi sembra lo 
      dimentichiate in modo molto strano." 
      "No,  signore" disse freddamente Alberto: "vi sono circostanze,  e 
      questa ne è una, in cui bisogna, salvo il caso di viltà, essere in 
      casa almeno per certe persone." 
      "Voglio" disse Morcerf,  avvicinandosi senza parere accorgersi  di 
      Cavalcanti,  che si era appoggiato al caminetto,  "voglio proporvi 
      un  appuntamento  in  un  luogo  appartato,   dove  nessuno  possa 
      disturbarci per dieci minuti, non vi domando di più, e dove di due 
      uomini che si saranno incontrati, uno rimarrà sul terreno." 
      Danglars  impallidì,  Cavalcanti  fece un gesto,  Alberto si voltò 
      verso il giovane. 
      "Oh,  mio Dio" disse,  "venite  voi  pure,  se  vi  piace,  signor 
      principe! Avete il diritto di esserci, siete quasi della famiglia, 
      e  io  do  questa  specie di appuntamenti a chiunque sia pronto ad 
      accettarli." 
      Cavalcanti guardò con aria stupefatta Danglars, il quale,  facendo 
      uno sforzo,  si levò,  e si avanzò fra i due giovani.  L'apostrofe 
      d'Alberto ad Andrea lo illudeva che la questione si  spostasse,  e 
      che  la  visita  d'Alberto  avesse altro scopo,  diverso da quello 
      immaginato in principio. 
      "Signore" disse  Danglars,  "se  venite  qui  a  muovere  lite  al 
      signore,  perché lo preferisco a voi,  vi prevengo che,  su questo 
      argomento, farò causa davanti al regio procuratore." 
      "Sbagliate signore" disse Morcerf,  con un tetro sorriso,  "io non 
      parlo  affatto  di  matrimonio,   e  mi  sono  rivolto  al  signor 
      Cavalcanti,   perché  mi  è  sembrato   abbia   avuto   intenzione 
      d'intervenire  nella  nostra  discussione.  E,  del  resto,  avete 
      ragione: oggi cerco contesa con tutti!  Tuttavia state tranquillo, 
      signor Danglars, la preferenza spetta a voi." 
      "Signore" rispose Danglars pallido per la collera e la paura,  "vi 
      avverto che quando ho  la  disgrazia  d'incontrarmi  fra  i  piedi 
      qualche  cane  arrabbiato,   lo  ammazzo,  e  lungi  dal  credermi 
      colpevole,  mi sembra di avere reso qualche servizio alla società. 
      Ora siete arrabbiato e tentate di mordermi,  ma vi prevengo che vi 
      ammazzerò senza pietà.  E  forse  colpa  mia  se  vostro  padre  è 
      disonorato?" 
      "Sì, miserabile!" gridò Morcerf. "E' colpa vostra." 
      Danglars arretrò di un passo. 
      "Colpa  mia?"  disse.  "Ma  siete  pazzo!  Conosco forse la storia 
      greca, io? ho forse viaggiato in quei paesi?  ho forse consigliato 
      vostro padre di vendere la fortezza di Giannina? di tradire?..." 
      "Silenzio!" disse Alberto,  con voce sorda.  "No,  non siete stato 
      voi  a  far  direttamente  questo  strepito,  a  cagionare  questa 
      disgrazia, ma siete stato voi che l'avete ipocritamente istigata." 
      "Io!" 
      "Sì voi! Da dove viene la rivelazione?" 
      "Mi pare che il giornale ve lo abbia detto, da Giannina perbacco!" 
      "Chi ha scritto a Giannina?" 
      "A Giannina?" 
      "Sì. Chi ha scritto per domandare informazioni su mio padre?" 
      "Mi sembra che ognuno possa scrivere a Giannina." 
      "Chi ha scritto, però, è uno solo." 
      "Uno solo?" 
      "Sì, e questo siete voi." 
      "Certamente  che ho scritto...  Quando uno marita sua figlia ad un 
      giovane, mi pare che possa prendere informazioni sulla famiglia... 
      Non è soltanto un diritto ma un dovere." 
      "Avete scritto, signore" disse Alberto, "sapendo perfettamente che 
      risposta vi sarebbe venuta." 
      "Io?  Ah,  beh,  vi giuro" gridò Danglars,  con una fiducia ed una 
      sicurezza   che   venivano   ancor  meno  dalla  sua  paura,   che 
      dall'interesse che sentiva in fondo per  il  disgraziato  giovane, 
      "vi  giuro,  che  non  avrei  mai  pensato  a scrivere a Giannina. 
      Conoscevo forse la catastrofe di Alì-Pascià?" 
      "Allora qualcuno vi ha spinto a scrivere?" 
      "Certamente." 
      "Siete stato istigato?" 
      "Sì." 
      "Chi è stato?... Terminate... dite..." 
      "E' una cosa semplicissima: parlavo degli  antecedenti  di  vostro 
      padre,  dicevo che la fonte delle sue ricchezze era sempre rimasta 
      ignota.  La persona mi domandò in che  luogo  vostro  padre  aveva 
      fatto  questa  fortuna;  risposi  "In  Grecia".  Allora  mi disse: 
      "Ebbene, scrivete a Giannina"." 
      "E chi vi ha dato questo consiglio?" 
      "Il conte di Montecristo, vostro amico." 
      "Il conte di Montecristo vi ha detto di scrivere a Giannina?" 
      "Sì, e io ho scritto.  Volete vedere la mia corrispondenza?  Ve la 
      mostrerò." 
      Alberto e Beauchamp si guardarono in volto. 
      "Signore"  disse  allora  Beauchamp  che non aveva preso ancora la 
      parola, "mi pare che accusiate il conte, assente da Parigi,  e che 
      non può giustificarsi in questo momento." 
      "Non  accuso  nessuno,  signore"  disse  Danglars,  "ma  narrerò e 
      ripeterò davanti al signor di Montecristo ciò che dico  davanti  a 
      voi." 
      "E il conte conosce la risposta che avete ricevuto?" 
      "Gliela mostrai." 
      "Sapeva  che  mio  padre si chiamava Fernando e che il suo cognome 
      era Mondego?" 
      "Sì, glielo avevo detto da lungo tempo,  del resto ho fatto quello 
      che  avrebbe fatto qualunque altro al mio posto e fors'anche molto 
      meno. Quando l'indomani di questa risposta, sollecitato dal signor 
      di Montecristo,  venne vostro padre a domandarmi ufficialmente mia 
      figlia, come si fa quando si vuol concludere, rifiutai, è vero, ma 
      senza spiegazioni,  senza scandalo.  Infatti,  perché avrei dovuto 
      fare strepito? In che poteva interessarmi l'onore o il disonore di 
      Morcerf? Ciò non faceva né alzare, né abbassare i miei titoli." 
      Alberto sentì il rossore  salirgli  alla  fronte:  non  c'era  più 
      dubbio,  Danglars  si difendeva con viltà,  ma con la sicurezza di 
      chi dice,  se non  tutta,  almeno  parte  della  verità,  non  per 
      coscienza, è vero, ma per terrore. D'altra parte, che cosa cercava 
      Morcerf?  Non  la  reità  di  Danglars  o  di Montecristo,  ma chi 
      rispondesse dell'offesa,  chi si battesse,  ed  era  evidente  che 
      Danglars non si sarebbe battuto. 
      Adesso   gli   tornavano  in  mente  tante  cose  di  cui  si  era 
      dimenticato.  Montecristo sapeva tutto,  perché aveva comprato  la 
      figlia di Alì-Pascià;  sapendo tutto, aveva incaricato Danglars di 
      scrivere a Giannina. Conosciuta la risposta, aveva acconsentito al 
      desiderio manifestato da Alberto di esser  presentato  ad  Haydée: 
      una volta davanti a lei,  aveva avviato il discorso sulla morte di 
      Alì senza opporsi al racconto d'Haydée,  ma  avendo  senza  dubbio 
      dato  alla  donna,  nelle  poche  parole  che aveva pronunciato in 
      greco,  le sue istruzioni,  in modo che Morcerf nel  racconto  non 
      riconoscesse suo padre...  E poi, non aveva pregato Morcerf di non 
      pronunciare il nome di suo padre davanti ad Haydée?  Infine  aveva 
      condotto Alberto in Normandia nel momento in cui doveva nascere il 
      grande  scandalo.  Tutto  ciò  era calcolato,  e Montecristo senza 
      dubbio se la intendeva coi nemici di suo padre. 
      Alberto prese Beauchamp in disparte,  e gli comunicò tutte  queste 
      idee. 
      "Avete  ragione"  disse  questi,  "il signor Danglars non entra in 
      questo affare che per la parte brutale e materiale; la spiegazione 
      dovete domandarla al signor di Montecristo." 
      Alberto si volse. 
      "Signore" disse a Danglars, "capirete che non prendo ancora da voi 
      un congedo definitivo;  mi resta sapere se le  vostre  spiegazioni 
      sono giuste,  e vado sull'istante ad assicurarmene presso il conte 
      di Montecristo." 
      E salutando il  banchiere,  uscì  con  Beauchamp  senza  occuparsi 
      minimamente di Cavalcanti. 
      Danglars  li ricondusse fino alla porta,  rinnovando ad Alberto le 
      assicurazioni che nessun  motivo  di  odio  personale  lo  guidava 
      contro il signor conte Morcerf. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 87. 
                                  L'INSULTO. 
 
 
      Beauchamp fermò Morcerf alla porta del banchiere. 
      "Ascoltate" gli disse,  "poco fa vi ho detto in casa Danglars, che 
      la spiegazione dovete domandarla a Montecristo..." 
      "Sì, e per questo andiamo da lui." 
      "Un momento, Morcerf, prima di andare dal conte, riflettete." 
      "Su che cosa volete che rifletta?" 
      "Sulla gravità del passo." 
      "E' forse più grave che andare dal signor Danglars?" 
      "Sì, il signor Danglars è un uomo danaroso,  e voi lo sapete,  gli 
      uomini  danarosi  conoscono  troppo  bene  a  qual  pericolo vanno 
      incontro battendosi. L'altro, al contrario, è gentiluomo almeno in 
      apparenza...  E  non  temete,  sotto  il  gentiluomo,  di  trovare 
      l'abilità delle armi?" 
      "Io non temo che una cosa, di trovare un uomo che non si batta." 
      "Oh, state tranquillo" disse Beauchamp, "si batterà. Ho anzi paura 
      di una cosa, ch'egli cioè si batta troppo bene: state in guardia!" 
      "Amico" disse Morcerf con un sorriso,  "è quanto io domando!  Cosa 
      mi può accadere di più rischioso? Appunto di essere ucciso per mio 
      padre, così saremo tutti salvi." 
      "Ma vostra madre ne morrà." 
      "Povera madre!" disse Alberto, passandosi la mano sugli occhi. "Lo 
      so bene, ma preferisco morire in duello, che di vergogna." 
      "Siete ben deciso, Alberto?" 
      "Andiamo dunque!" 
      "Ma credete che lo troveremo?" 
      "Doveva tornare poche ore dopo di me, e certamente sarà arrivato." 
      Salirono in carrozza  e  si  fecero  condurre  all'ingresso  degli 
      Champs-Elysées  numero  30.  Beauchamp  voleva  scendere solo,  ma 
      Alberto gli fece osservare che questo affare,  fuori dalle  regole 
      ordinarie,  gli  permetteva  di  non  rispettare  l'etichetta  del 
      duello.  Il giovane agiva per una causa così santa,  che Beauchamp 
      non  aveva  altro  da  fare,  che  accondiscendere ai suoi voleri: 
      cedette dunque a Morcerf,  e si contentò di seguirlo.  Alberto non 
      fece che un salto dalla loggia del portinaio alla scalinata,  dove 
      fu ricevuto da Battistino. Il conte era difatti arrivato, ma stava 
      in bagno, e aveva proibito di ricevere chicchessia. 
      "Ma dopo il bagno?" domandò Morcerf. 
      "Il signore pranzerà." 
      "E dopo il pranzo?" 
      "Il signore dormirà un ora." 
      "E dopo?" 
      "Andrà all'Opera." 
      "Ne siete sicuro?" domandò Alberto. 
      "Perfettamente sicuro.  Il signore ha ordinato i  cavalli  per  le 
      otto." 
      "Benissimo!" replicò Alberto. "Ecco quanto volevo sapere." 
      Quindi volgendosi a Beauchamp: 
      "Se avete qualche cosa da fare, Beauchamp, fatelo presto; se avete 
      appuntamenti per stasera, prorogateli a domani. Capirete che conto 
      su  di  voi  per  andare  all'Opera.  Se  potete conducete con voi 
      Chateau-Renaud." 
      Beauchamp approfittò del permesso, e lasciò Alberto,  dopo avergli 
      promesso  che sarebbe andato a prenderlo alle otto meno un quarto. 
      Rientrato in casa, Alberto avvisò con un biglietto Franz, Debray e 
      Morrel del desiderio che aveva di vederli quella  sera  all'Opera. 
      Quindi andò a visitare la madre, che dopo l'avvenimento del giorno 
      prima  stava  ritirata  nella  sua  camera:  la  ritrovò  in letto 
      oppressa dal dolore per  quella  pubblica  umiliazione.  La  vista 
      d'Alberto produsse l'effetto che possiamo immaginarci;  strinse la 
      mano al figlio,  e ruppe in singhiozzi.  Però  queste  lacrime  la 
      sollevarono. Alberto stette un istante, in piedi e muto, vicino al 
      letto  di  sua  madre.   Dal  pallido  viso,  e  dal  sopracciglio 
      aggrottato,  si capiva che il  desiderio  di  vendetta  si  andava 
      sempre più radicando nel suo cuore. 
      "Madre mia" proruppe Alberto, "conoscete qualche nemico del signor 
      Morcerf?" 
      Mercedes fremette; aveva notato che il giovane non aveva detto "di 
      mio padre". 
      "Figlio mio" rispose,  "gli uomini nella posizione del conte hanno 
      molti nemici che non conoscono;  d'altra parte  i  nemici  che  si 
      conoscono, lo sapete, non sono i più pericolosi." 
      "Sì,  lo so,  e per questo ricorro alla vostra perspicacia.  Madre 
      mia, siete una donna superiore alle altre, e niente vi sfugge!" 
      "Perché mi dite questo?" 
      "Perché avete notato, per esempio, che la sera che abbiamo dato il 
      ballo,  il signor di Montecristo non ha voluto prendere niente  in 
      casa nostra." 
      Mercedes  sollevandosi  su un braccio tutta tremante e ardente per 
      la febbre: 
      "Il conte di Montecristo!" esclamò. "E che rapporto avrebbe con la 
      domanda che mi fate?" 
      "Come ben sapete,  madre mia,  il signor di Montecristo è un  uomo 
      d'Oriente,  e  gli  orientali,  per  conservare la loro libertà di 
      vendetta, non mangiano né bevono in casa dei loro nemici." 
      "Il signor di Montecristo  nemico,  voi  dite,  Alberto!"  riprese 
      Mercedes più pallida del lenzuolo che la copriva. "Chi vi ha detto 
      questo?  Siete folle Alberto. Il signor di Montecristo con noi non 
      ha usato che gentilezze. Il signor di Montecristo vi ha salvata la 
      vita, e voi stesso ce lo avete presentato. Oh, ve ne prego, figlio 
      mio,   se  avete  simile  idee,   allontanatele,   e  se  ho   una 
      raccomandazione da farvi,  anzi dirò di più,  una preghiera, è che 
      vi manteniate in armonia con quest'uomo." 
      "Madre mia" replicò il giovane,  con uno sguardo sinistro,  "avete 
      le vostre ragioni per dirmi di usare riguardi a quest'uomo?" 
      "Io?"  gridò Mercedes,  arrossendo con quella rapidità con cui era 
      impallidita, e tornando quasi subito più pallida ancora. 
      "Sì,  senza dubbio,  e questa  ragione  non  è"  riprese  Alberto, 
      "perché quest'uomo può farci del male?" 
      Mercedes   fremette,   e   fissando  su  suo  figlio  uno  sguardo 
      scrutatore: 
      "Voi mi parlate in modo strano" disse,  "e  mi  pare  che  abbiate 
      singolari prevenzioni. E che cosa vi ha dunque fatto il conte? Tre 
      giorni  fa  eravate  con  lui in Normandia,  tre giorni fa,  io lo 
      consideravo,  e lo  ritenevate  voi  pure,  come  uno  dei  vostri 
      migliori amici." 
      Un sorriso ironico sfiorò le labbra d'Alberto.  Mercedes vide quel 
      sorriso, e col doppio istinto di donna e di madre, indovinò tutto; 
      ma prudente e forte seppe nascondere il  suo  turbamento.  Alberto 
      lasciò cadere il discorso. Dopo un istante, la contessa ripigliò: 
      "Siete   venuto   a   chiedermi  come  stavo;   io  vi  risponderò 
      francamente, figlio mio, non mi sento bene. Dovreste fermarvi qui, 
      Alberto,  dovreste tenermi compagnia: ho bisogno  di  non  rimaner 
      sola." 
      "Madre  mia" disse il giovane,  "io obbedirei ai vostri ordini,  e 
      voi sapete con che  facilità,  se  non  mi  obbligasse  a  dovervi 
      lasciare tutta la sera, un affare di premura e d'importanza..." 
      "Ah, benissimo" rispose Mercedes con un sospiro. "Andate, Alberto, 
      non voglio rendervi schiavo della vostra pietà filiale." 
      Alberto fece finta di non intendere, salutò sua madre, e uscì. 
      Appena il giovane ebbe chiusa la porta,  Mercedes fece chiamare un 
      servitore fidato, e gli ordinò di seguire Alberto ovunque andasse, 
      e di venirgliene  a  render  conto  sull'istante;  poi  chiamò  la 
      cameriera,  e  quantunque debolissima,  si fece vestire per essere 
      pronta ad ogni avvenimento. 
      La commissione data al lacchè  non  era  difficile  da  eseguirsi. 
      Alberto  rientrò  nelle  sue  camere,  e  si rivestì con ricercata 
      severità.  Beauchamp giunse alle otto  meno  dieci;  aveva  veduto 
      Chateau-Renaud  che  gli  aveva  promesso di trovarsi in orchestra 
      prima dell'alzata del sipario. Salirono entrambi nella carrozza di 
      Alberto,  che,  non avendo alcun motivo di nascondere dove andava, 
      disse ad alta voce: 
      "All'Opera." 
      Nella  sua  impazienza  era  entrato  prima  assai dell'alzata del 
      sipario. Chateau-Renaud era già al suo posto, avvisato di tutto da 
      Beauchamp;  Alberto non aveva alcuna  spiegazione  da  dargli.  La 
      condotta di questo figlio che cercava di vendicare suo padre,  era 
      così semplice,  che Chateau-Renaud non osò neppure dissuaderlo,  e 
      si   contentò   di  rinnovargli  l'assicurazione  che  era  a  sua 
      disposizione.  Debray non era ancora  giunto,  ma  Alberto  sapeva 
      quanto  fosse  difficile  che  mancasse  ad  una  rappresentazione 
      dell'Opera. 
      Andò errando per il teatro fino all'alzata  del  sipario.  Sperava 
      d'incontrare   Montecristo   nei  corridoi  o  per  le  scale:  il 
      campanello lo richiamò al suo posto, e andò a sedersi in orchestra 
      fra Beauchamp e Chateau-Renaud. Ma Alberto non levò un momento gli 
      occhi dal palco fra le colonnine,  che durante tutto il primo atto 
      sembrava  ostinarsi a rimanere vuoto.  Finalmente,  mentre Alberto 
      per la centesima volta guardava il suo orologio,  al principio del 
      secondo atto,  l'uscio del palco si aprì, e Montecristo vestito di 
      nero, entrò e si appoggiò al parapetto per guardare in platea.  Lo 
      seguiva Morrel cercando con gli occhi la sorella ed il cognato; li 
      scoperse in un palco di second'ordine, e fece loro un segno. 
      Il  conte,  gettando  uno  sguardo nella sala,  scoperse una testa 
      pallida e due occhi  scintillanti,  che  sembravano  evidentemente 
      attirare i suoi sguardi;  riconobbe Alberto,  ma l'espressione che 
      notò in quel viso contraffatto lo consigliò senza  dubbio  di  far 
      finta  di  non  averlo  visto.  Senza  far  dunque  alcun atto che 
      scoprisse il suo pensiero, si mise a sedere,  cavò il cannocchiale 
      dall'astuccio,  e  guardò da un'altra parte.  Ma senza sembrare di 
      guardare Alberto,  il conte non lo perdeva di vista,  e quando  fu 
      calato il sipario alla fine del secondo atto,  seguì con gli occhi 
      ii giovane che usciva dall'orchestra  accompagnato  dai  suoi  due 
      amici.  Quindi  la  stessa  testa  ricomparve  da una loggia posta 
      dirimpetto alla sua.  Il conte sentì approssimarsi la tempesta,  e 
      quando  sentì toccare l'uscio del suo palco,  quantunque in quello 
      stesso istante parlasse a Morrel col viso più  ridente,  il  conte 
      sapeva che cosa doveva aspettarsi,  e si era preparato a tutto. La 
      porta s'aprì. 
      Montecristo si voltò soltanto  allora  e  vide  Alberto  livido  e 
      tremante; dietro a lui erano Beauchamp e Chatéau-Renaud. 
      "Osservate!"  disse con quella benevola gentilezza che distingueva 
      il suo saluto dalla fatua urbanità sociale. "Ecco il mio cavaliere 
      giunto alla meta. Buona sera, signor Morcerf." 
      E  il  viso  di  quest'uomo,  straordinariamente  padrone  di  sé, 
      esprimeva la più perfetta cordialità. 
      Morrel si ricordò soltanto allora della lettera che aveva ricevuto 
      dal  visconte,  e nella quale,  senz'altra spiegazione,  questi lo 
      pregava di  trovarsi  all'Opera,  e  capì  subito  che  stava  per 
      accadere qualcosa di terribile. 
      "Noi  non  veniamo  qui per scambiarci ipocrite gentilezze o false 
      apparenze d'amicizia" disse il giovane,  "veniamo a domandarvi una 
      spiegazione, signor conte." 
      La  voce  tremante del giovane faceva fatica a passare fra i denti 
      stretti. 
      "Una spiegazione all'Opera?" disse il  conte,  con  tono  calmo  e 
      sguardo   penetrante.   "Per   quanto  sia  poco  famigliare  alle 
      costumanze parigine, non avrei creduto, signore,  che fosse questo 
      il luogo di domandare spiegazioni." 
      "Però,  quando  le  persone  si  tengono  nascoste" disse Alberto, 
      "quando non si può giungere fino a loro,  sotto pretesto che  sono 
      al bagno, a tavola, o a letto, bisogna bene andarle a trovare dove 
      si può." 
      "Non è difficile trovarmi,  perché ancora ieri, se ben ricordo, il 
      signore era in casa mia." 
      "Ieri,  signore" disse il giovane,  cui  cominciava  a  dolere  la 
      testa, "ero in casa vostra perché non sapevo chi foste." 
      E  dicendo queste parole,  Alberto aveva alzato la voce in modo da 
      farsi sentire dalla persone delle logge vicine  e  da  quelle  che 
      passavano  per  il  corridoio.  Perciò  le  persone delle logge si 
      voltarono,  quelle del corridoio si fermarono dietro  Beauchamp  e 
      Chateau-Renaud al rumore di questo alterco. 
      "E  da  dove  venite dunque,  signore?" disse Montecristo senza la 
      minima apparente emozione.  "Mi sembra che non  siate  affatto  in 
      voi." 
      "Purché  capisca  le  vostre perfidie,  signore,  e giunga a farvi 
      capire   che   voglio   vendicarmene,   sarò   sempre   abbastanza 
      ragionevole" disse Alberto furioso. 
      "Signore,  io non vi capisco" replicò Montecristo,  "e quand'anche 
      vi capissi, parlereste sempre troppo forte.  Qui sono in casa mia, 
      signore, ed io solo ho qui il diritto d'alzare la voce al di sopra 
      degli altri. Uscite, signore!" 
      E Montecristo mostrò la porta ad Alberto con un gesto imperioso. 
      "Ah,   vi  farò  io  uscire  di  casa  vostra!"  riprese  Alberto, 
      spiegazzando un guanto con le mani convulse,  che Montecristo  non 
      perdeva di vista. 
      "Bene!  Bene!"  disse  flemmaticamente  Montecristo.  "Voi cercate 
      contesa, signore, lo vedo, ma voglio darvi un consiglio, visconte, 
      e  tenetevelo  bene  in  mente:  è  cattivo  costume  urlare   nel 
      provocare; il fracasso può disturbare gli altri, signor Morcerf." 
      A  questo  nome,  un  mormorio di meraviglia si destò in tutti gli 
      spettatori di quella scena.  Fin dal giorno  innanzi  il  nome  di 
      Morcerf era sulla bocca di tutti. 
      Alberto,   meglio  degli  altri,   e  prima  di  tutti,   comprese 
      l'allusione,  e fece un gesto,  per gettare il guanto sul viso del 
      conte, ma Morrel gli afferrò il pugno, mentre Beauchamp e Chateau- 
      Renaud,  temendo  che  la  scena  oltrepassasse  i  limiti  di una 
      provocazione lo tenevano da dietro. 
      Montecristo,  senza  alzarsi,  inchinandosi  sulla  sedia,   stese 
      soltanto  la  mano,  prendendo  dalle  mani  del giovane il guanto 
      strofinato: 
      "Signore" disse con accento terribile,  "ritengo il vostro  guanto 
      come gettato,  e ve lo rimetterò con una pallottola. Ora uscite di 
      casa mia, o chiamo i miei servi, e vi faccio mettere alla porta." 
      Ebbro, atterrito,  con gli occhi febbrili,  Alberto fece due passi 
      indietro;  Morrel ne approfittò per chiudere la porta. Montecristo 
      riprese il suo cannocchiale,  e si mise a  guardare  come  se  non 
      fosse accaduto niente. 
      Morrel gli si accostò all'orecchio. 
      "Che cosa gli avete fatto?" disse. 
      "Io?  Nulla,  almeno  personalmente"  rispose  Montecristo.  "Però 
      questa scena deve avere una causa..." 
      "L'avventura del conte Morcerf esaspera il disgraziato giovane." 
      "C'entrate in qualche modo voi?" 
      "Fu per  mezzo  di  Haydée  che  la  Camera  venne  informata  del 
      tradimento del padre." 
      "Difatti"  disse  Morrel,  "me  l'hanno  detto;  ma  io non volevo 
      credere che quella schiava greca che  ho  veduto  qui,  in  questo 
      stesso palco, fosse la figlia d'Alì-Pascià." 
      "Eppure è la verità." 
      "Mio  Dio!  Ora  comprendo tutto" disse Morrel,  "questa scena era 
      premeditata." 
      "In qual modo?" 
      "Sì,  Alberto mi ha scritto di trovarmi questa sera all'Opera,  lo 
      ha fatto perché fossi testimonio dell'insulto." 
      "Probabilmente"  disse  Montecristo,  con  la  sua  imperturbabile 
      tranquillità. 
      "Ma che farete di lui?" 
      "Di Alberto?" riprese Montecristo,  con lo stesso  tono.  "Che  ne 
      farò,  Massimiliano?  Com'è vero che siete qui e che vi stringo la 
      mano, lo ucciderò domani prima delle dieci antimeridiane, ecco che 
      cosa ne faro." 
      Morrel prese fra le sue la mano di Montecristo  e  rabbrividì  nel 
      sentirla calma e fredda. 
      "Ah, conte" disse, "suo padre lo ama tanto!" 
      "Non   mi   dite  altro,   altrimenti  lo  farò  soffrire!"  gridò 
      Montecristo,  col primo  movimento  di  collera  che  fino  allora 
      dimostrasse. 
      Morrel stupefatto lasciò cadere la mano di Montecristo esclamando: 
      "Conte! Conte!" 
      "Caro Massimiliano" interruppe il conte,  "ascoltate dunque in che 
      adorabile modo Duprez canta questo verso: 
      "oh Matilde idolo del mio cor." 
      Sono stato il primo, a Napoli, ad indovinare un grande artista nel 
      Duprez. Bravo! Bravo!" 
      Morrel capì che non c'era più nulla da aggiungere. Il sipario, che 
      si era alzato al finire della disputa di Alberto,  tornò a cadere; 
      quasi subito dopo, fu battuto alla porta. 
      "Entrate"  disse  Montecristo,  senza che la sua voce manifestasse 
      minima emozione. 
      Beauchamp comparve. 
      "Buona sera, signor Beauchamp" disse Montecristo,  come se vedesse 
      il giornalista per la prima volta nella serata. "Sedete." 
      Beauchamp salutò entrando, e si sedette. 
      "Signore" disse a Montecristo,  "accompagnavo,  come avrete potuto 
      vedere, il signor Morcerf..." 
      "Ciò vuol dire" riprese Montecristo  ridendo,  "che  probabilmente 
      avrete  pranzato  assieme.  Sono  ben  contento di vedere,  signor 
      Beauchamp, che voi siete più sobrio di lui." 
      "Signore" disse Beauchamp, "Alberto ha avuto,  ne convengo,  torto 
      nel  lasciarsi  trasportare,  e  vengo  per mio conto a farvene le 
      scuse.  Ora che le mie scuse sono fatte,  le mie,  intendete bene, 
      signor  conte?,  vengo  a dirvi che vi credo troppo galantuomo per 
      ricusarvi di darmi  spiegazioni  sulle  vostre  relazioni  con  le 
      persone di Giannina.  Quindi aggiungerò due parole sul conto della 
      giovane greca." 
      Montecristo fece con gli occhi e con le labbra  un  piccolo  gesto 
      che comandava il silenzio. 
      "Orsù!" aggiunse ridendo. "Ecco tutte le mie speranze distrutte." 
      "In qual modo?" domandò Beauchamp. 
      "Senza  dubbio,   voi  vi  siete  affannati  a  farmi  credito  di 
      eccentricità... Io ero, a parer vostro, un Lara,  un Manfredi,  un 
      lord Ruthwen!  Poi,  passato il momento di vedermi eccentrico, voi 
      cambiate il mio tipo,  tentate di farmi diventare un uomo  oscuro. 
      Mi  volete  comune,  volgare!  Infine  mi  domandate  spiegazioni. 
      Suvvia, signor Beauchamp, voi volete scherzare!" 
      "Eppure" riprese Beauchamp con alterigia,  "vi sono circostanze in 
      cui la probità ordina..." 
      "Signor  Beauchamp" interruppe il conte,  "chi comanda al conte di 
      Montecristo è il conte di Montecristo. Quindi, non dite una parola 
      di più su questo argomento, per favore.  Io faccio ciò che voglio, 
      signor Beauchamp, e, credetemi, è sempre fatto benissimo." 
      "Signore" riprese il giovane, "le persone oneste non si pagano con 
      tal moneta; sono necessarie delle garanzie all'onore." 
      "Signore,  io  sono  una  garanzia  vivente"  rispose  Montecristo 
      impassibile,  ma negli occhi balenavano fiamme.  "Entrambi abbiamo 
      nelle  vene  del sangue,  che abbiamo volontà di versare,  ecco la 
      nostra mutua garanzia.  Riportate questa risposta al  visconte,  e 
      ditegli che domani alle dieci c'incontreremo." 
      "Non  mi  rimane  dunque"  disse  Beauchamp,   "che  stabilire  le 
      condizioni del combattimento." 
      "Anche questo mi è affatto indifferente,  signore" disse il  conte 
      di Montecristo.  "Era dunque inutile venirmi a disturbare a teatro 
      per cosa di così poco conto.  In Francia si battono alla  spada  o 
      alla pistola;  nelle Colonie preferiscono la carabina; nell'Arabia 
      adoperano il pugnale.  Dite al vostro committente,  che quantunque 
      sia  io  l'insultato,  gli  lascio  la  scelta  delle armi,  e che 
      accetterò tutto senza contestazione, tutto, intendete bene, tutto! 
      Anche il duello per mezzo della sorte,  cosa che è sempre stupida. 
      Ma per me è un affare diverso, io sono sicuro di vincere." 
      "Sicuro  di  vincere?"  ripeté  Beauchamp,  guardando il conte con 
      occhio atterrito. 
      "Certamente" disse Montecristo,  alzando  leggermente  le  spalle. 
      "Senza  questa certezza non mi batterei col signor Morcerf.  Io lo 
      ucciderò, è necessario, e lo farò.  Soltanto,  non fate una parola 
      di  tutto ciò in casa mia questa sera,  indicatemi l'arma e l'ora, 
      preferisco che nessuno sappia." 
      "Alla pistola, alle otto del mattino, al bosco di Vincennes" disse 
      Beauchamp sconcertato,  non sapendo se aveva a  che  fare  con  un 
      fanfarone tracotante o con un essere soprannaturale. 
      "Sta  bene,  signore"  disse  Montecristo.  "Ed ora che tutto è in 
      regola,  lasciatemi sentire la musica,  ve ne  prego,  e  dite  al 
      vostro amico Alberto di non tornare stasera;  si farebbe torto con 
      tutte le  sue  brutalità  di  cattivo  gusto:  ritorni  a  casa  a 
      dormire." 
      Beauchamp uscì esterrefatto. 
      "Ora" disse Montecristo,  volgendosi a Morrel, "conto su di voi, è 
      vero?" 
      "Certo" disse Morrel, "voi potete disporre di me, conte, però..." 
      "Sì?" 
      "Sarebbe importante, conte, che io conoscessi la vera causa." 
      "Vale a dire che vi rifiutate?" 
      "No." 
      "La vera causa, Morrel" disse il conte,  "il giovane,  che cammina 
      alla  cieca,  non  la  conosce  neppure  lui.  La vera causa non è 
      conosciuta che da me e dal cielo;  ma vi do la mia parola d'onore, 
      Morrel, che il cielo la conosce, e sarà a nostro favore." 
      "Basta  così,  conte"  disse  Morrel.  "Chi  è  il  vostro secondo 
      padrino?" 
      "Io non conosco nessuno a Parigi cui dare questo  onore,  che  voi 
      Morrel,  e vostro cognato Emanuele. Credete voi che Emanuele vorrà 
      rendermi questo favore?" 
      "Vi garantisco per lui, come per me, conte." 
      "Bene, non mi occorre altro. Domattina alle sette sarete da me..." 
      "Ci saremo." 
      "Zitto! Ecco che si rialza il sipario,  ascoltiamo.  Non perdo una 
      nota  di  quest'opera,  è  tanto deliziosa la musica del Guglielmo 
      Tell!" 
 
 
 
                                 Capitolo 88. 
                                  LA NOTTE. 
 
 
      Il signor di Montecristo aspettò,  secondo il solito,  che  Duprez 
      avesse  cantato  il  suo  famoso "Seguitemi!" e allora soltanto si 
      alzò e  uscì.  Alla  porta  Morrel  lo  lasciò,  rinnovandogli  la 
      promessa di essere da lui,  con Emanuele,  l'indomani mattina alle 
      sette precise.  Quindi salì nella sua  carrozza,  sempre  calmo  e 
      sorridente.  Cinque  minuti  dopo  era in casa sua.  Bisognava non 
      conoscere il conte per lasciarsi ingannare dalla  espressione  con 
      la quale entrando in casa disse ad Alì: 
      "Dammi le mie pistole con calcio d'avorio." 
      Alì  portò  la  cassetta al padrone,  e questi esaminò le armi con 
      quella cura naturale ad un uomo che sta per affidare la vita ad un 
      ferro o ad una pistola.  Erano pistole particolari che Montecristo 
      aveva  fatto  costruire  appositamente per tirare al bersaglio nel 
      suo appartamento.  Una capsula bastava per sparare una pallottola, 
      e, dalla stanza vicina, non si sarebbe potuto credere che il conte 
      stava,  come  si  dice in termine militare,  esercitandosi.  Stava 
      prendendo la mira sopra un  pezzettino  di  tela  che  serviva  di 
      bersaglio,  quando  si  aprì  la  porta  del suo studio,  ed entrò 
      Battistino.  Ma prima ancora che avesse aperto la bocca  il  conte 
      vide una donna velata in piedi, illuminata dalla debole luce della 
      stanza vicina,  che aveva seguito Battistino. Questa donna, avendo 
      scorto il conte con la pistola alla mano e  due  spade  sopra  una 
      tavola,  si lanciò dentro.  Battistino consultò con uno sguardo il 
      suo padrone.  Il conte gli fece un segno,  e Battistino si ritirò, 
      chiudendo la porta dietro di sé. 
      "Chi siete voi, signora?" disse il conte alla donna velata. 
      L'incognita  gettò  uno  sguardo  intorno a sé per assicurarsi che 
      fossero  soli,   poi,   inchinandosi   come   se   avesse   voluto 
      inginocchiarsi,   congiunse   le  mani,   e  con  l'accento  della 
      disperazione: 
      "Edmondo" disse, "voi non ucciderete mio figlio!" 
      Il conte fece un passo indietro,  gettò un debole grido,  e lasciò 
      cadere l'arma di mano. 
      "Che nome avete pronunciato, signora Morcerf!..." 
      "Il  vostro" gridò lei gettando il velo,  "il vostro che,  solo io 
      forse, non ho dimenticato mai!  Edmondo,  non è la signora Morcerf 
      che viene da voi, è Mercedes!..." 
      "Mercedes è morta,  signora" disse Montecristo, "ed io non conosco 
      più nessuno che porti questo nome." 
      "Mercedes vive, signore, e Mercedes vi ricorda, poiché lei sola vi 
      ha riconosciuto quando vi vide, ed anche senza vedervi,  alla sola 
      voce  Edmondo,  al  solo  accento  della vostra voce...  Lei vi ha 
      seguito passo passo, vi sorveglia, vi teme, e non ha avuto bisogno 
      di cercare la mano da cui partiva il  colpo  che  ha  percosso  il 
      signor Morcerf." 
      "Fernando,  volete  dire,  signora"  riprese Montecristo con amara 
      ironia: "poiché ricordiamo i nostri nomi, ricordiamoli tutti." 
      E Montecristo aveva pronunciato  il  nome  di  Fernando  con  tale 
      espressione  d'odio,  che Mercedes sentì il brivido dello spavento 
      correrle per tutto il corpo. 
      "Vedete bene che non mi sono ingannata" gridò Mercedes,  "e che ho 
      ragione di dirvi: risparmiatemi il figlio!" 
      "E chi vi ha detto, signora, che odio vostro figlio?" 
      "Nessuno,  mio Dio.  Ma una madre è dotata di una doppia vista. Ho 
      indovinato tutto: l'ho seguito stasera all'Opera,  e,  nascosta in 
      un palco, ho visto ogni cosa." 
      "Se  avete  visto tutto,  signora,  avrete notato che il figlio di 
      Fernando mi ha insultato pubblicamente..." disse  Montecristo  con 
      calma terribile. 
      "Oh, per pietà!" 
      "Avrete  visto"  continuò  il  conte,  "che  mi avrebbe gettato il 
      guanto in faccia,  se uno dei miei amici,  Morrel,  non gli avesse 
      fermato il braccio." 
      "Ascoltatemi,  anche mio figlio ha intuito, e attribuisce a voi la 
      disgrazia che è caduta su suo padre." 
      "Signora" disse Montecristo,  "non è una disgrazia,  è un castigo. 
      Non sono io che perseguito il signor Morcerf, è la Provvidenza che 
      lo colpisce." 
      "E perché vi sostituite alla Provvidenza? Perché ricordate voi ciò 
      che questa ha dimenticato? Che importa a voi, Edmondo, di Giannina 
      e  del suo visir?  Che torto ha fatto a voi Fernando Mondego,  col 
      tradire Alì-Tebelen?" 
      "Eh, tutto questo" rispose Montecristo,  "tutto questo è un affare 
      fra  il  capitano  franco  e  la  figlia  di Vasiliki.  Ciò non mi 
      riguarda affatto,  avete ragione,  e se ho giurato di  vendicarmi, 
      non  è  del capitano franco,  né del signor Morcerf,  ma bensì del 
      pescatore Fernando, marito della catalana Mercedes." 
      "Ah, signore" gridò la contessa,  "qual terribile vendetta per una 
      colpa  che  la  fatalità  mi  ha fatto commettere!  Poiché la vera 
      colpevole sono io, Edmondo, e se dovete vendicarvi di qualcuno,  è 
      di  me  che  ho mancato,  costretta dalla vostra assenza e dal mio 
      isolamento." 
      "Ma" gridò Montecristo,  "perché sono stato assente?  Perché siete 
      rimasta isolata?" 
      "Perché foste arrestato, Edmondo, perché eravate in prigione!" 
      "E perché fui arrestato, perché ero in prigione?" 
      "Lo ignoro" disse Mercedes. 
      "Sì, voi lo ignorate, signora, almeno lo spero. Ebbene, ve lo dirò 
      io.  Fui arrestato e messo in prigione,  perché sotto il pergolato 
      dell'osteria la Riserva,  la stessa  vigilia  del  giorno  in  cui 
      dovevo sposarvi,  un uomo chiamato Danglars scrisse questa lettera 
      che il pescatore Fernando s'incaricò di consegnare lui stesso alla 
      posta." 
      E Montecristo,  andando allo scrittoio,  estrasse  un  foglio  che 
      aveva perduto il primitivo colore,  e la cui scrittura aveva preso 
      quello della ruggine,  e lo mise sotto gli occhi di Mercedes.  Era 
      la lettera di Danglars al regio procuratore,  che il giorno in cui 
      aveva pagato i duecentomila franchi al signor di Boville, il conte 
      di Montecristo,  travestito  da  commesso  della  casa  Thomson  e 
      French, aveva sottratto dalla pratica di Edmondo Dantès. 
      Mercedes lesse con spavento: 
 
      "Il  signor  regio  procuratore è avvisato da un amico del trono e 
      della religione,  che il  nominato  Edmondo  Dantès,  secondo  nel 
      bastimento il Faraone,  giunto questa mattina da Smirne, dopo aver 
      toccato Napoli e Portoferraio,  è stato incaricato da Murat di una 
      lettera per l'usurpatore,  e dall'usurpatore di una lettera per il 
      comitato bonapartista di Parigi.  Si avrà la prova del suo delitto 
      arrestandolo, poiché si troverà questa lettera, o nelle sue tasche 
      o presso suo padre, o nella sua cabina a bordo del Faraone." 
      "Oh,  mio  Dio!"  gridò  Mercedes,  passando  la mano sulla fronte 
      bagnata di sudore. "E questa lettera..." 
      "L'ho  comprata   per   duecentomila   franchi,   signora"   disse 
      Montecristo,  "ma è ancora a buon mercato, perché oggi mi permette 
      di giustificarmi ai vostri occhi." 
      "E il risultato di questa lettera?" 
      "Voi lo sapete,  signora,  fu il mio arresto.  Quello però che non 
      sapete  è  che  io sono stato per quattordici anni ad un quarto di 
      lega da voi,  in una prigione segreta del Castello d'If.  Ciò  che 
      non  sapete,  è  che  ogni  giorno  di  questi quattordici anni ho 
      rinnovato il mio giuramento di vendetta che avevo fatto  il  primo 
      giorno.  Eppure  ignoravo  che  aveste  sposato  Fernando,  il mio 
      delatore, e che mio padre fosse morto, e morto di fame!" 
      "Giusto Dio!" gridò Mercedes vacillando. 
      "Ecco ciò ch'io ho saputo  nell'uscire  di  prigione,  quattordici 
      anni  dopo  esservi  entrato,  ed  ecco quello che mi ha indotto a 
      giurare su Mercedes viva e su mio padre  estinto,  di  vendicarmi, 
      e... io mi vendico." 
      "E  siete  sicuro  che  il  disgraziato Fernando abbia fatto tutto 
      questo?" 
      "Sull'anima mia,  ha fatto quello che vi ho detto.  D'altra  parte 
      non  è molto più odioso che,  francese d'adozione,  essere passato 
      nelle file degli inglesi;  spagnolo di  nascita,  aver  combattuto 
      contro  gli  spagnoli;   stipendiato  da  Alì,   avere  tradito  e 
      assassinato Alì!  In faccia a simili  cose,  che  cosa  è  mai  la 
      lettera,  che  avete  letto?  Una  sopraffazione  galante  che può 
      perdonare,  lo  vedo  e  lo  rilevo,   la  donna  che  ha  sposato 
      quest'uomo,  ma  che  non  perdona  l'amante  che doveva sposarla. 
      Ebbene,  i francesi non  si  sono  vendicati  del  traditore;  gli 
      spagnoli non hanno fucilato il traditore;  Alì,  sepolto nella sua 
      tomba,  ha  lasciato  impunito  il  traditore;  ma  io,   tradito, 
      assassinato,  gettato  vivo  in una tomba,  da cui sono uscito per 
      miracolo,  io debbo vendicarmi,  ed il cielo,  giusto punitore dei 
      malvagi, mi ha inviato a punire, ed eccomi qui." 
      La povera donna lasciò ricadere la testa e le mani; le gambe le si 
      piegarono sotto, e cadde in ginocchio. 
      "Perdonate, Edmondo" disse, "perdonate per me, che vi amo ancora!" 
      La  dignità  della  sposa mise un freno allo slancio dell'amante e 
      della madre; la sua fronte s'inchinò fino a toccare il tappeto. 
      Il conte si lanciò a lei, e la rialzò. Allora poté,  attraverso le 
      lacrime,  guardare  il  pallido  viso di Montecristo,  al quale il 
      dolore e l'odio imprimevano un carattere minaccioso. 
      "Che io non schiacci questa razza  maledetta?"  mormorò.  "Che  io 
      disobbedisca  al  cielo,  il  quale  mi  ha  risorto  per  la loro 
      punizione? Impossibile, signora, impossibile!" 
      "Edmondo" disse la povera madre, tentando tutti i mezzi, "mio Dio! 
      Quando vi chiamo Edmondo, perché non mi chiamate Mercedes?" 
      "Mercedes!" ripeté Montecristo, "Mercedes! Ebbene,  sì,  voi avete 
      ragione,  questo  nome  è dolce ancora da pronunciare,  ed ecco la 
      prima volta,  dopo lunghi  anni,  che  risuona  chiaro  sulle  mie 
      labbra.  Ah,  Mercedes!  Il  vostro  nome  io l'ho pronunciato coi 
      sospiri della malinconia,  coi gemiti  del  dolore,  colla  rabbia 
      della  disperazione;   l'ho  pronunciato  gelido  per  il  freddo, 
      attrappito sulla paglia della mia cella; l'ho pronunciato divorato 
      dal caldo, l'ho pronunciato rotolandomi sul pavimento del carcere. 
      Mercedes,  bisogna ch'io  mi  vendichi,  perché  ho  sofferto  per 
      quattordici  anni:  per quattordici anni ho pianto,  ho maledetto. 
      Ora, io ve lo ripeto, Mercedes, bisogna ch'io mi vendichi!" 
      E il conte di Montecristo,  temendo  di  cedere  alle  lacrime  di 
      quella  donna che aveva amato tanto,  chiamava in soccorso del suo 
      odio i ricordi del passato. 
      "Vendicatevi, Edmondo" gridò la povera madre,  "ma vendicatevi sui 
      colpevoli, vendicatevi su di me, non su mio figlio!" 
      "Mi   rammento   d'aver  trovato  scritto,   né  m'inganno"  disse 
      Montecristo: "Le colpe dei padri ricadranno sui  figli  fino  alla 
      terza e quarta generazione." 
      "Edmondo" continuò Mercedes,  le braccia tese verso il conte,  "da 
      quando vi ho conosciuto ho adorato il vostro nome,  ho  rispettato 
      la  vostra  memoria.  Edmondo,  amico  mio,  non  mi costringete a 
      cancellare questa immagine nobile e pura,  che  m'è  sempre  stata 
      impressa nel cuore. Edmondo, se voi sapeste tutte le preghiere che 
      ho innalzato a Dio per voi,  fino a che vi ho sperato vivo, e dopo 
      che vi ho creduto morto!  Sì,  morto,  ahimè!  Credevo  il  vostro 
      cadavere  sepolto  nel  fondo  di  quella  torre,  il vostro corpo 
      precipitato in qualcuno di  quegli  abissi  in  cui  i  carcerieri 
      rotolano i morti, ed io vi piangevo! Che cosa potevo fare per voi, 
      Edmondo, se non pregare e piangere? Ascoltatemi, per dieci anni ho 
      fatto ogni notte lo stesso sogno. Si disse che voi avevate tentato 
      di fuggire, che preso il posto di un altro prigioniero, vi eravate 
      introdotto  nel  sacco mortuario,  e che quando avevano gettato il 
      corpo dall'alto del Castello d'If, solo dal grido nell'infrangervi 
      sugli scogli,  i becchini vostri carnefici  avevano  capito  dello 
      scambio. Ebbene, Edmondo, ve lo giuro sulla testa di questo figlio 
      per  il  quale  v'imploro,  Edmondo,  per dieci anni ho visto ogni 
      notte gli  uomini  che  libravano  qualche  cosa  d'informe  e  di 
      sconosciuto dall'alto della roccia;  per dieci anni ho inteso ogni 
      notte un grido terribile che mi  faceva  destare,  rabbrividire  e 
      gelare. Ed io pure, Edmondo, credetemi, per quanto sia rea, oh sì, 
      io pure ho sofferto molto!" 
      "Avete  voi  saputo  che  vostro  padre moriva in vostra assenza?" 
      gridò Montecristo, cacciandosi le mani fra i capelli. "Avete visto 
      la donna che amavate, stendere la mano al vostro rivale, nel tempo 
      che morivate nell'abisso di un vortice?..." 
      "No" interruppe Mercedes, "ma ho visto quello che io amavo, pronto 
      a diventare l'uccisore di mio figlio!" 
      Mercedes pronunciò queste parole con un dolore così possente,  con 
      accento  così  disperato,  che un singhiozzo sfuggì dalla gola del 
      conte. 
      Il leone era domato, il vendicatore era vinto. 
      "Che cosa chiedete da me?" disse, "che vostro figlio viva?  Ebbene 
      vivrà!" 
      Mercedes  mandò  un  grido  che  fece  scaturire due lacrime dalle 
      pupille di Montecristo,  ma esse  scomparvero  subito,  poiché  si 
      staccò dal cielo un angelo per raccoglierle,  essendo più preziose 
      al Signore che le più ricche perle di Guzarate e d'Ofir. 
      "Oh!" gridò lei afferrando la mano del conte e appressandola  alle 
      labbra.  "Oh,  grazie,  Edmondo,  grazie! Eccoti come ti ho sempre 
      sognato come ti ho sempre amato... Oh, ora posso dirlo!" 
      "Tanto più" riprese Montecristo,  "che il povero Edmondo non  avrà 
      molto  tempo  per essere amato.  Il morto rientra nella tomba,  il 
      fantasma rientra nella notte." 
      "Che cosa intendete dire, Edmondo?" 
      "Dico che, poiché l'ordinate, Mercedes, bisogna morire." 
      "Morire?  E chi lo dice?  Chi parla di morire?  Da dove vi tornano 
      simili idee di morte?" 
      "Non supporrete, che, oltraggiato pubblicamente, in faccia a tutto 
      un  teatro  in  presenza  dei  vostri  amici e di quelli di vostro 
      figlio,  provocato da un giovanetto che  si  glorierebbe  del  mio 
      perdono come di una vittoria,  voi non supporrete già, dicevo, che 
      io sia disposto a vivere un solo momento. Ciò che ho amato di più, 
      dopo di voi,  Mercedes,  è me stesso,  vale a dire la mia dignità, 
      quella  forza  che  mi  rendeva superiore agli altri uomini quella 
      forza ch'era la mia vita.  Con una  parola,  voi  la  rompete.  Io 
      muoio." 
      "Ma questo duello non avrà luogo, Edmondo, poiché perdonate." 
      "Avrà  luogo,  signora" disse solennemente Montecristo.  "Soltanto 
      che sul terreno,  che doveva essere bagnato dal sangue  di  vostro 
      figlio, scorrerà il mio sangue." 
      Mercedes mandò un grido,  e si lanciò verso Montecristo;  ma ad un 
      tratto si fermò. 
      "Edmondo" disse,  "vi è un Dio al di sopra di noi,  poiché  vi  ho 
      rivisto,  ed  io  confido  in  lui  dal  più  profondo  del cuore. 
      Aspettando il suo aiuto,  mi affido alla vostra parola: voi  avete 
      detto che mio figlio vivrà; vivrà, non è vero?" 
      "Vivrà,   signora"  disse  Montecristo,  sorpreso  che  senz'altra 
      opposizione,  senz'altra  meraviglia,  Mercedes  avesse  accettato 
      l'eroico sacrificio che le offriva. 
      Mercedes stese la mano al conte. 
      "Edmondo"  disse,  mentre  gli  occhi  le  si bagnavano di lacrime 
      guardando l'uomo a cui rivolgeva queste parole, "quanto è bello da 
      parte vostra, come è grande ciò che avete fatto!  Quanto è sublime 
      avere avuto pietà d'una povera donna che vi pregava senza offrirvi 
      nessuna  speranza!  Ahimè,  sono  invecchiata per i dispiaceri più 
      ancora che per gli anni,  non posso più rammentare al mio  Edmondo 
      con  uno  sguardo quella Mercedes d'un tempo ch'egli passava tante 
      ore a contemplare. Ah, credetemi, Edmondo, vi ho detto che io pure 
      ho sofferto molto,  ve lo ripeto;  è ben triste veder  passare  la 
      vita  senza  ricordarsi una sola gioia,  senza conservare una sola 
      speranza!  Anche se ciò può essere  una  prova  che  non  tutto  è 
      finito...  No,  tutto non è finito,  lo sento da ciò che mi rimane 
      ancora nel cuore. Oh, ve lo ripeto Edmondo, è bello,  è grande,  è 
      sublime il perdonare come voi fate!" 
      "Voi  dite  ciò,   Mercedes?   E  che  direste  se  sapeste  tutta 
      l'estensione del sacrificio che vi offro?  Voi non  ne  avete  una 
      idea,  o piuttosto,  no,  no, voi non potrete mai farvi un'idea di 
      ciò ch'io perdo, perdendo la vita in questo momento." 
      Mercedes guardò il conte esprimendo ad  un  tempo  la  meraviglia, 
      l'ammirazione  e  la riconoscenza.  Montecristo appoggiò la fronte 
      sulle mani ardenti,  come se non potesse più sostenere il peso dei 
      pensieri. 
      "Edmondo" disse Mercedes, "non ho che una parola da dirvi." 
      Il conte sorrise amaramente. 
      "Edmondo"  continuò,  "vedrete che se la mia fronte è impallidita, 
      se i miei occhi sono spenti,  se la mia  bellezza  è  perduta,  se 
      infine  non assomiglio più alla Mercedes d'una volta,  vedrete che 
      sono sempre la stessa nel cuore!... Addio dunque, Edmondo,  non ho 
      più  nulla  da  chiedere  al  cielo...  Vi  ho rivisto,  e rivisto 
      ugualmente nobile e grande come in altri tempi. Addio,  Edmondo... 
      addio e grazie!" 
      Il conte non rispose. 
      Mercedes  aveva  riaperto la porta dello studio,  ed era scomparsa 
      prima ancora  che  il  conte  fosse  rinvenuto  dalla  dolorosa  e 
      profonda prostrazione in cui lo aveva immerso la fallita vendetta. 
      Suonava l'una all'orologio degli Invalidi,  quando la carrozza che 
      trasportava la signora Morcerf correndo  per  gli  Champs-Elysées, 
      fece rialzare la testa al conte di Montecristo. 
      "Insensato!" disse.  "Mi dovevo svellere il cuore il giorno in cui 
      decisi di vendicarmi!" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 89. 
                                 L'INCONTRO. 
 
 
      Partita Mercedes, Montecristo disse a se stesso: 
      "Ecco l'edificio così lentamente preparato, elevato con tante pene 
      e tanti affanni,  che crolla ad un tratto  con  una  sola  parola, 
      sotto  un  soffio!  E  allora,  sono  ancora quello che si credeva 
      qualche cosa?  ch'era così  superbo  di  se  stesso?  che  vistosi 
      piccolo nel carcere d'If, era riuscito a diventare così grande? La 
      mia salma sarà dunque domani un poco di polvere?  Ahimè,  non è la 
      morte del corpo quella che  rimpiango.  Questa  distruzione  della 
      materia,  non  è  forse il riposo a cui tende tutto,  a cui aspira 
      ogni infelice? Quella calma della materia alla quale m'incamminavo 
      per la strada dolorosa della fame quando Faria  comparve  nel  mio 
      cuore?  Che cosa è la morte per me? Un grado di più nella calma, e 
      forse nel silenzio. No,  non è dunque la cessazione dell'esistenza 
      che io rimpiango,  poiché il mio spirito sopravvivrà: ma la rovina 
      dei  progetti  così  lentamente  elaborati,   così   faticosamente 
      costruiti,  ecco ciò che amaramente piango. La Provvidenza, che io 
      avevo creduta favorevole, è dunque contraria?  Dio non vuol dunque 
      che i fati si compiano?  Il fardello che avevo sollevato,  pesante 
      quasi al pari del mondo e che avevo creduto di poter portare  fino 
      al  termine,  era  secondo i miei desideri,  ma non secondo la mia 
      forza; secondo la mia volontà, ma non secondo il mio potere? Dovrò 
      deporlo,  giunto appena alla metà della mia  corsa?  o  diventerei 
      forse fatalista, io, che sono stato reso previdente da quattordici 
      anni  di disperazione e dieci di speranze?  E tutto questo,  tutto 
      questo,  mio Dio,  perché il mio cuore,  che credevo morto non era 
      che  assopito  perché  si  è  risvegliato,  perché ha palpitato di 
      nuovo,  perché ho ceduto al dolore che questo palpito solleva  dal 
      fondo del mio petto per la voce di una donna!  Eppure" continuò il 
      conte,  inabissandosi sempre più nelle previsioni di questo domani 
      terribile  che aveva accettato da Mercedes,  "eppure è impossibile 
      che questa donna d'un cuore così nobile,  abbia in tal  modo,  per 
      egoismo,  acconsentito  a  lasciarmi uccidere,  me,  così pieno di 
      forze,  d'esistenza!  E' impossibile che lei spinga  a  tal  punto 
      l'amore,  o  piuttosto  il  delirio materno!  Vi sono virtù in cui 
      l'esagerazione sarebbe un delitto.  Ma lei avrà immaginato qualche 
      scena  poetica:  verrà  a  gettarsi  fra  le  spade,  e  sarà cosa 
      ridicola..." 
      E il rossore dell'orgoglio salì alla faccia del conte. 
      "Ridicolo" ripeté, "e il ridicolo ricadrà su di me... Io ridicolo! 
      Orsù, preferisco morire." 
      E a forza di esagerarsi in tal modo i fatti che potevano  accadere 
      l'indomani,  nel  quale si era condannato,  promettendo a Mercedes 
      che avrebbe lasciato vivere suo figlio, il conte finì col dirsi: 
      "Pazzie! pazzie!  pazzie!  Mettersi come segno inerte davanti alla 
      mira  del  giovane!  Non  crederà  mai  che  la  mia  morte sia un 
      suicidio,  eppure per l'onore della mia memoria...  (questa non  è 
      vanità,  ma giusto orgoglio,  ecco tutto)... per l'onore della mia 
      memoria voglio che il mondo sappia  che  ho  acconsentito  di  mia 
      volontà, con una libera decisione, a fermare il braccio abituato a 
      percuotere,  a  ferirmi  da  me  stesso  con  questo braccio uso a 
      vincere gli altri... E' necessario, lo farò." 
      E prendendo una penna,  scrisse alcune righe in calce a un foglio, 
      che  era  il testamento fatto al suo arrivo a Parigi,  e stese una 
      specie di codicillo,  nel quale faceva capire la sua  morte  anche 
      agli uomini meno creduli. 
      "Faccio questo,  mio Dio, per il solo mio onore, e per umiliare me 
      stesso agli occhi miei. Da dieci anni mi sono considerato ministro 
      della vendetta celeste è indispensabile che questi miserabili, che 
      un Danglars,  un Villefort,  un Morcerf non si figurino  d'essersi 
      sbarazzati  di  me  per  opera del solo caso,  che il solo caso li 
      abbia liberati del loro nemico. Sappiano, al contrario, che non ha 
      avuto luogo la deliberata punizione, perché è stata corretta dalla 
      mia sola volontà: che  il  castigo  evitato  in  questo  mondo  li 
      aspetta  nell'altro  e  che  essi non hanno fatto altro cambio che 
      quello del tempo coll'eternità.' 
      Mentre  ondeggiava  in  queste  cupe  incertezze,   sogni   d'uomo 
      risvegliato dal dolore, venne il giorno a rischiarare sotto le sue 
      mani   la   carta  azzurra  sulla  quale  tracciava  l'ultima  sua 
      giustificazione: erano le cinque del mattino. 
      Ad  un  tratto  gli  giunse  all'orecchio   un   leggero   rumore. 
      Montecristo credette di avere inteso qualche cosa, come un sospiro 
      soffocato; volse la testa, guardò intorno a sé, e non vide alcuno. 
      Soltanto, il rumore si ripeté molto distintamente. Allora il conte 
      si alzò,  aprì dolcemente la porta del salotto, e sopra una sedia, 
      con la bella testa pallida e inclinata indietro vide  Haydée,  che 
      si  era posta davanti alla porta affinché non potesse uscire senza 
      vederla, ma il sonno possente nella gioventù l'aveva sorpresa dopo 
      la fatica di una  lunga  veglia.  Il  rumore  che  fece  la  porta 
      nell'aprirsi non poté scuotere Haydée dal sonno. Montecristo fissò 
      su di lei uno sguardo pieno di dolcezza e di dolore. 
      "Lei  si  è ricordata che aveva un padre ed io mi sono dimenticato 
      che ho una figlia!" 
      Quindi scuotendo tristemente la testa: 
      "Povera Haydée!" disse. "Ha voluto vedermi, ha voluto parlarmi, ha 
      temuto o indovinato qualche cosa.  Oh,  non  posso  partire  senza 
      dirle addio, non posso morire senza affidarla a qualcuno." 
      E ritornò al suo posto e scrisse sotto alle righe già vergate: 
      "Faccio  legato  a Massimiliano Morrel,  capitano degli Spahis,  e 
      figlio del mio antico padrone Pietro Morrel armatore in Marsiglia, 
      della somma di venti milioni,  di cui ne sarà da lui  offerta  una 
      parte  a  sua sorella Giulia e a suo cognato Emanuele,  a meno che 
      non creda che questo aumento di fortuna possa  nuocere  alla  loro 
      felicità.  Questi  venti  milioni  sono  sepolti  nella mia grotta 
      dell'isola di Montecristo, di cui Bertuccio conosce il segreto. Se 
      il suo cuore è libero,  e  voglia  sposare  Haydée,  figlia  d'Alì 
      pascià di Giannina,  da me allevata coll'amore di padre,  e che ha 
      avuto per me l'amore e la tenerezza di una  figlia,  esaudirà  non 
      dirò l'ultima mia volontà,  ma l'ultimo mio desiderio. Il presente 
      testamento ha già fatta Haydée erede del resto della mia  sostanza 
      consistente  in terre,  rendite in Inghilterra,  Austria e Olanda, 
      mobili dei miei diversi palazzi e case,  e che prelevati  i  venti 
      milioni,  altri  legati fatti ai miei servitori ecc.,  formerà una 
      somma che potrà ammontare a sessanta milioni.' 
      Terminava appena di scrivere quest'ultima riga,  quando  un  grido 
      dietro di lui gli fece cadere la penna dalla mano 
      "Haydée" disse, "voi avete letto!" 
      Infatti  la  giovane,  risvegliata  dal chiarore del giorno che le 
      aveva colpite le pupille,  si era alzata,  e avvicinata al  conte, 
      senza  che  egli  potesse  sentirne i passi leggeri,  attutiti dal 
      tappeto. 
      "Oh, mio signore" disse lei, giungendo le mani, "perché scrivete a 
      quest'ora? perché mi lasciate le vostre ricchezze? Mio signore, mi 
      abbandonate forse?" 
      "Vado a fare un viaggio,  cara fanciulla"  disse  Montecristo  con 
      espressione  di  malinconia  e  di  tenerezza  infinita,  "e se mi 
      accadesse qualche disgrazia..." 
      Il conte si fermò. 
      "Ebbene?..." domandò la giovane donna  con  un  accento  imperioso 
      ignoto al conte, e che lo fece fremere. 
      "Ebbene,  se  mi  accade  qualche  disgrazia" riprese Montecristo, 
      "voglio che mia figlia sia felice." 
      Haydée sorrise tristemente scuotendo la testa. 
      "Voi pensate a morire, mio signore?" disse. 
      "E' un pensiero salutare, figlia mia, ha detto il saggio." 
      "Ebbene,  se voi morite" disse,  "lasciate pure la vostra sostanza 
      ad  altri  eredi:  perché  se  morite...  non  avrò più bisogno di 
      niente." E prendendo il foglio lo stracciò in  quattro  pezzi  che 
      gettò  in  mezzo  al  salotto.  Quindi spossata da quell'attimo di 
      energia  così  poco  comune  ad  una  schiava,   cadde,   non  più 
      addormentata, ma svenuta sul pavimento. 
      Montecristo  si  chinò  su di lei,  la sollevò fra le braccia,  e, 
      vedendo quel bel viso scolorato,  e quegli occhi chiusi,  quel bel 
      corpo  inanimato e come abbandonato,  gli venne per la prima volta 
      l'idea che lo amasse ben diversamente da come una figlia  ama  suo 
      padre. 
      "Povero  me" mormorò,  con profondo scoraggiamento,  "avrei ancora 
      potuto esser felice!" 
      Quindi portò Haydée fino al suo appartamento,  la  rimise  fra  le 
      mani  delle  sue  donne,  e rientrando nello studio,  che stavolta 
      chiuse  attentamente,  ricopiò  il  testamento  distrutto.  Mentre 
      terminava sentì il rumore di un calessino che entrava nel cortile. 
      Montecristo   si   avvicinò   alla   finestra,   e  vide  scendere 
      Massimiliano ed Emanuele. 
      "Bene!" disse. "E' giunta l'ora." 
      Sigillò il suo testamento con  triplo  sigillo.  Un  istante  dopo 
      intese  un  rumore  di  passi  nella sala,  ed andò ad aprire egli 
      stesso.  Morrel comparve sulla soglia: aveva anticipata  l'ora  di 
      venti minuti. 
      "Vengo forse troppo presto,  signor conte" disse,  "ma vi confesso 
      francamente che non ho potuto dormire un  minuto,  è  accaduto  lo 
      stesso  a  tutta  la  famiglia;  avevo  molto bisogno di vedere la 
      vostra coraggiosa fermezza per recuperarla io stesso." 
      Montecristo non poté contenersi a tal prova di  affezione,  e  non 
      pago di stendergli la mano, gli aprì le braccia. 
      "Morrel"  gli  disse,  con voce commossa,  "è per me un bel giorno 
      quello in cui mi sento amato da un uomo  come  voi.  Buon  giorno, 
      signor Emanuele. Voi dunque venite con me, Massimiliano?" 
      "Accidenti!" disse il giovane capitano. "Ne avete dubitato?" 
      "Ma pure, se io avessi torto..." 
      "Ascoltate,  vi ho osservato ieri durante tutta la scena di sfida: 
      ho pensato alla vostra fermezza tutta questa notte e ho detto a me 
      stesso ch'eravate dalla parte della giustizia." 
      "Però, Morrel, Alberto è vostro amico..." 
      "Una semplice conoscenza, conte." 
      "Non lo vedeste la prima volta lo stesso giorno che vedeste me?" 
      "Sì,  è vero;  ma che volete,  bisogna che me lo  ricordiate  voi, 
      perché me ne sovvenga." Quindi scuotendo il campanello: 
      "Prendi" disse ad Alì, che comparve subito, "sia consegnato al mio 
      notaio: è il mio testamento,  Morrel. Quando sarò morto, andrete a 
      prenderne cognizione." 
      "Come" gridò Morrel, "voi morto?" 
      "Non bisogna sempre prevedere tutto, amico caro? Ma che cosa avete 
      fatto ieri sera dopo avermi lasciato?" 
      "Sono stato al caffè Tortoni, dove,  come m'aspettavo,  ho trovato 
      Beauchamp e Chateau-Renaud, vi confesso che li cercavo. 
      "Per far che, quando tutto era già convenuto?" 
      "Ascoltate, conte, l'affare è grave e inevitabile..." 
      "Ne dubitavate?" 
      "No, l'offesa è stata pubblica, e già tutti ne parlano." 
      "Ebbene?" 
      "Speravo far cambiare le armi,  sostituire alla pistola, la spada. 
      La pistola è cieca." 
      "Ci  siete  riuscito?"  domandò  vivamente  Montecristo  con   una 
      impercettibile speranza. 
      "No, perché si conosce la vostra destrezza alla spada." 
      "E chi mi ha visto maneggiare una spada?" 
      "I maestri di scherma che avete battuti." 
      "E non ci siete riuscito?" 
      "Hanno ricusato formalmente." 
      "Morrel" disse il conte, "mi avete mai visto tirare alla pistola?" 
      "Mai." 
      "Ebbene, guardate." 
      Il  conte di Montecristo prese le pistole che aveva in mano quando 
      era entrata Mercedes, e attaccato un asso di fiori contro il muro, 
      in quattro colpi portò via  successivamente  i  quattro  rami  del 
      fiore. Ad ogni colpo Morrel impallidiva. Esaminò le pallottole con 
      le quali Montecristo aveva eseguito il tiro,  e vide che non erano 
      più grosse dei pallini da lepre. 
      "E' una cosa spaventosa" disse. "Guardate dunque, Emanuele!" 
      Quindi voltandosi verso Montecristo: 
      "Conte" disse,  "in nome  del  cielo,  non  uccidete  Alberto!  il 
      disgraziato ha una madre." 
      "E' giusto" disse Montecristo, "ed io invece sono solo al mondo." 
      Queste  parole  furono  pronunciate  con  un tono che fece fremere 
      Morrel. 
      "Voi siete l'offeso, conte." 
      "Senza dubbio... E che volete dire con ciò?" 
      "Voglio dire che siete il primo a tirare." 
      "Tiro io per primo?" 
      "Oh,  questo l'ho preteso: facciamo  loro  tante  concessioni  che 
      possono ben fare a noi questa." 
      "E a quanti passi?" 
      "A venti." 
      Uno spaventoso sorriso passò sulle labbra del conte. 
      "Morrel" disse, "non dimenticate quello che ora avete visto." 
      "Per cui" disse il giovane, "bisogna contare sulla vostra emozione 
      per salvare Alberto." 
      "Io commosso?" disse Montecristo. 
      "O  sulla  vostra  generosità,  amico  mio!  Sicuro come siete del 
      colpo, dovrò farvi una raccomandazione,  ridicola se la facessi ad 
      un altro..." 
      "E quale?" 
      "Rompetegli un braccio, feritelo, ma non uccidetelo." 
      "Morrel,  ascoltate anche questo" disse il conte,  "non ho bisogno 
      di preghiere per usare riguardi a  Morcerf...  Vi  avverto  prima, 
      sarà  ben trattato,  tornerà tranquillamente da sua madre,  mentre 
      io... 
      "E voi?" 
      "Oh, la vita per me non ha importanza..." 
      "Cosa dite?" gridò Morrel fuori di sé. 
      "La cosa andrà come vi dico io, mio caro Morrel, il signor Morcerf 
      mi ucciderà." 
      Morrel guardò il conte allibito. 
      "Conte, che cosa è accaduto dopo ieri sera?" 
      "Ciò che accadde a Bruto alla vigilia della battaglia di  Filippi: 
      ho visto un fantasma." 
      "E questo fantasma?" 
      "Questo fantasma, Morrel, mi ha detto che ho vissuto abbastanza." 
      Massimiliano   ed   Emanuele   si  guardarono;   Montecristo  cavò 
      l'orologio. 
      "Andiamo" disse: "sono le sette e cinque minuti,  e l'appuntamento 
      è per le otto precise." 
      Una  carrozza li aspettava coi cavalli già attaccati.  Montecristo 
      salì  con  i  suoi  due  testimoni.   Traversando  il   corridoio, 
      Montecristo  si  era  fermato  per  ascoltare  ad  una  porta,   e 
      Massimiliano ed Emanuele che per discrezione avevano fatto qualche 
      passo avanti,  credettero di sentire un sospiro e  un  singhiozzo. 
      Suonarono le otto nel momento in cui giungevano all'appuntamento. 
      "Eccoci  arrivati"  disse  Morrel,  mettendo  la testa fuori dallo 
      sportello, "siamo i primi." 
      "Il signore mi scuserà" disse Battistino, che aveva seguito il suo 
      padrone con un indicibile  terrore,  "ma  credo  di  scorgere  una 
      carrozza laggiù sotto quegli alberi." 
      Montecristo saltò leggermente giù dal calesse,  e dette la mano ad 
      Emanuele e Massimiliano per aiutarli a smontare. 
      Massimiliano trattenne la mano del conte fra le sue: 
      "Alla buon'ora" disse, "ecco la mano di un uomo la cui vita riposa 
      sulla giustizia della causa." 
      "Laggiù" disse Emanuele,  "scorgo due giovani che passeggiano come 
      aspettando." 
      Montecristo trasse Morrel un passo o due dietro suo cognato. 
      "Massimiliano" gli chiese, "avete il cuore libero?" 
      "Morrel guardò Montecristo con stupore. 
      "Non  è una confidenza che vi chiedo,  amico caro,  ma una domanda 
      precisa che vi faccio: rispondete sì o no, ecco cosa vi chiedo." 
      "Io amo una ragazza, conte." 
      "L'amate molto?" 
      "Più della mia vita." 
      "Orsù" disse Montecristo, "ecco un'altra speranza che mi sfugge." 
      Poi dopo un sospiro: 
      "Povera Haydée!" mormorò. 
      "In verità,  conte" gridò  Morrel,  "se  vi  conoscessi  meno,  vi 
      crederei meno temerario di quello che siete." 
      "Perché penso a qualcuno che lascerò,  e sospiro?  Dunque, Morrel, 
      un soldato deve intendersi così poco di coraggio?  Temo  forse  la 
      morte?  Cosa  volete  che  conti  per me,  per me che ho trascorso 
      vent'anni  fra  la  vita  e  la  morte,  vivere  o  morire?  State 
      tranquillo,  Morrel questa debolezza,  se pure è tale, si palesa a 
      voi solo.  So che il mondo è una sala,  dalla quale bisogna uscire 
      gentilmente  e  onestamente,  vale  a  dire  salutando e pagando i 
      debiti di gioco." 
      "Alla buon'ora" disse Morrel,  "ecco ciò che si chiama parlare.  A 
      proposito, avete portato le vostre armi?" 
      "Io?  Per  farne  che?  Spero  che quei signori abbiano portato le 
      loro." 
      "Vado ad informarmene" disse Morrel. 
      "Sì, ma non negoziate..." 
      "State tranquillo." 
      Morrel avanzò verso Beauchamp e Chateau-Renaud,  i  quali  vedendo 
      accostarsi  Massimiliano gli fecero qualche passo incontro.  I tre 
      giovani si salutarono, se non con affabilità, almeno con cortesia. 
      "Scusate,  signori" disse Morrel,  "ma io  non  scorgo  il  signor 
      Morcerf." 
      "Questa  mattina"  rispose Chateau-Renaud,  "ci ha fatto avvertire 
      che ci avrebbe raggiunti soltanto sul terreno." 
      "Ah!" esclamò Morrel. 
      Beauchamp cavò l'orologio: 
      "Otto e cinque, siamo ancora in tempo, signor Morrel." 
      "Oh" replicò Massimiliano, "non lo dicevo con tale intenzione." 
      "Intanto" interruppe Chateau-Renaud, "ecco una carrozza." 
      Infatti una carrozza veniva al gran trotto da uno  dei  viali  che 
      immettevano al luogo ove si trovavano. 
      "Signori"  disse  Morrel,  "senza  dubbio  vi  sarete muniti delle 
      pistole.  Il signor  di  Montecristo  dichiara  di  rinunciare  al 
      diritto che aveva di servirsi delle sue." 
      "Noi  abbiamo  previsto  questa  delicatezza  da  parte del conte, 
      signor Morrel" rispose Beauchamp,  "e ho portato delle armi che ho 
      comprato otto o dieci giorni fa, credendo di dovermene servire per 
      un affare di questo genere;  sono perfettamente nuove,  e non sono 
      ancora state adoperate: volete controllarle?" 
      "Oh,   signor  Beauchamp"  disse  Morrel   inchinandosi,   "quando 
      assicurate che il signor Morcerf non conosce queste armi, mi basta 
      la vostra parola..." 
      "Signori"  disse  Chateau-Renaud,  "non  è  Morcerf  che arriva in 
      quella carrozza. Sono Franz e Debray." 
      Infatti i due giovani si avvicinarono di corsa. 
      "Voi qui, signori?" disse Chateau-Renaud. "E per quale ragione?" 
      "Perché" disse Debray, "Alberto ci ha fatto pregare questa mattina 
      di ritrovarci sul terreno." 
      Beauchamp e Chateau-Renaud si  guardarono  in  viso  con  aria  di 
      stupore. 
      "Signori" disse Morrel, "io credo di capire come va la faccenda." 
      "Sentiamo!" 
      "Ieri,  dopo  mezzogiorno,  ho  ricevuto  una  lettera  dal signor 
      Morcerf che mi pregava di trovarmi all'Opera." 
      "Ed io pure" disse Debray. 
      "Ed io pure" disse Franz. 
      "E noi pure" dissero insieme Chateau-Renaud e Beauchamp. 
      "Voleva che fossimo presenti alla sfida" disse Morrel, "oggi vuole 
      che siamo presenti al duello." 
      "Sì, dissero i giovani,  "è così,  signor Massimiliano,  e secondo 
      ogni probabilità, avete indovinato esattamente." 
      "Ma  con tutto ciò" mormorò Chateau-Renaud,  "Alberto non si vede, 
      ed è già in ritardo di dieci minuti." 
      "Eccolo" disse Beauchamp, "è a cavallo,  osservate,  viene a tutta 
      carriera, seguito dal domestico." 
      "Che  imprudenza!"  disse  Chateau-Renaud,  "venire  a cavallo per 
      battersi alla pistola! Gli avevo così bene insegnata la lezione!" 
      "E poi osservate" disse  Beauchamp,  "col  solino  alla  cravatta, 
      coll'abito aperto,  con un gilè bianco...  E perché non si è fatto 
      anche disegnare un bersaglio sullo stomaco?  Tutto sarebbe  finito 
      più presto." 
      Frattanto  Alberto  era  giunto  a  dieci  passi  dal  gruppo  che 
      formavano i cinque giovani;  saltò a terra,  e gettò le redini  al 
      domestico.  Si avvicinò: era pallido, e cogli occhi rossi e gonfi, 
      segno che non aveva dormito un minuto in tutta la notte.  Su tutta 
      la  fisonomia  era  sparsa  una  nube di tristezza che non gli era 
      naturale. 
      "Grazie, signori" disse,  "di aver voluto accettare il mio invito; 
      credetemi,   la  mia  riconoscenza  per  questa  dimostrazione  di 
      amicizia, non può esser maggiore." 
      Morrel,  all'avvicinarsi di Alberto,  aveva fatto una  dozzina  di 
      passi indietro, e si teneva in disparte. 
      "A   voi  pure  Morrel"  disse  Alberto,   "sono  diretti  i  miei 
      ringraziamenti avvicinatevi pure, non siete di troppo." 
      "Signore" disse Massimiliano, "voi forse non sapete che io sono il 
      testimone di Montecristo..." 
      "Non ne ero certo,  ma ne dubitavo.  Tanto meglio!  Più vi saranno 
      qui uomini d'onore, e più sarò soddisfatto." 
      "Signor Morrel" disse Chateau-Renaud,  "potete annunciare al conte 
      di Montecristo che è giunto il signor Morcerf e che  siamo  a  sua 
      disposizione." 
      Morrel  fece  un  movimento  per adempire la commissione,  e nello 
      stesso tempo Beauchamp prese  dalla  carrozza  la  cassetta  delle 
      pistole. 
      "Aspettate,  signori"  disse  Alberto,  "ho  due parole da dire al 
      signore di Montecristo." 
      "In segreto?" domandò Morrel. 
      "No, signore, in presenza di tutti." 
      I testimoni di Alberto si guardarono con sorpresa;  Franz e Debray 
      si scambiarono alcune parole a bassa voce;  e Morrel,  contento di 
      questo inatteso incidente, andò a cercare il conte che passeggiava 
      in un altro viale con Emanuele. 
      "Che cosa vuole da me?" domandò Montecristo. 
      "Non lo so, ma chiede di parlarvi." 
      "Oh" disse  Montecristo,  "non  si  arrischi  ad  oltraggiarmi  di 
      nuovo!" 
      "Non credo sia la sua intenzione." 
      Il conte s'inoltrò, accompagnato da Massimiliano e da Emanuele. Il 
      suo  viso calmo e sereno faceva un contrasto assai strano col viso 
      sconvolto di  Alberto,  che  si  avvicinava  seguito  dai  quattro 
      giovani,  a  tre  passi  l'uno dall'altro.  Alberto ed il conte si 
      fermarono. 
      "Signori" disse Alberto,  "avvicinatevi,  desidero  che  non  vada 
      perduta  una  parola  di  quanto  avrò l'onore di dire al conte di 
      Montecristo,  perché quello che avrò l'onore di dirgli deve essere 
      ripetuto da voi a chiunque, per quanto strano vi possa sembrare." 
      "Aspetto, signore" disse il conte. 
      "Signore"  disse Alberto,  con voce prima tremante,  ma poi sempre 
      più sicura.  "Signore,  io vi rimproveravo di  aver  divulgata  la 
      condotta  di  mio  padre  nell'Epiro,   perché  per  quanto  fosse 
      colpevole il signor Morcerf,  non credevo  aveste  il  diritto  di 
      punirlo.  Ma oggi so,  signore, che avete questo diritto. Non è il 
      tradimento che Fernando Mondego fece ad Alì-Pascià quello  che  mi 
      rende  pronto  a  scusarvi,  ma  il  tradimento  che  usò a voi il 
      pescatore Fernando,  sono le disgrazie inaudite che sono seguite a 
      questo tradimento. Perciò lo dico, e lo proclamo ad alta voce: sì, 
      signore,  avete  avuto  ragione  di vendicarvi di mio padre,  e vi 
      ringrazio di non avergli fatto un male peggiore." 
      Se fosse caduto un fulmine in  mezzo  agli  spettatori  di  quella 
      scena  inattesa,  non  li  avrebbe  certo  stupefatti  come quella 
      dichiarazione di Alberto. Quanto a Montecristo, i suoi occhi erano 
      rivolti al cielo con una espressione  d'infinita  riconoscenza,  e 
      non poteva abbastanza ammirare come l'indole focosa d'Alberto,  di 
      cui aveva ammirato il coraggio fra i banditi  di  Roma,  si  fosse 
      potuta  d'un tratto piegare a tanta umiliazione.  Subito riconobbe 
      l'influenza di Mercedes,  e capì come questo nobile cuore  non  si 
      era opposto al suo sacrificio, sapendo che non ce n'era bisogno. 
      "Ora, signore" disse Alberto, "se trovate sufficienti le scuse che 
      vi ho fatte,  datemi la vostra mano, vi prego. Dopo il merito così 
      raro dell'infallibilità, che sembra appartenere a voi, il primo di 
      tutti gli altri meriti, a mio avviso, è quello di saper confessare 
      i propri torti.  Ma questa confessione appartiene a  me  solo.  Io 
      agivo  bene  secondo  il volere della Provvidenza!  Un angelo solo 
      poteva salvare  uno  di  noi  dalla  morte  certa,  e  l'angelo  è 
      comparso,  se  non  per fare di noi due amici (perché purtroppo la 
      fatalità rende la cosa impossibile),  almeno per fare di  noi  due 
      uomini che si stimino." 
      Montecristo,   coll'occhio  umido,  il  petto  ansante,  la  bocca 
      semiaperta,  stese una mano  ad  Alberto  stringendo  la  sua  con 
      affetto. 
      "Signori"  disse,  "il conte di Montecristo gradisce ed accetta le 
      mie scuse.  Io avevo agito troppo precipitosamente contro di  lui; 
      la  precipitazione dà cattivi consigli,  avevo agito male.  Ora il 
      mio sbaglio è riparato.  Spero che la società non  mi  taccerà  di 
      vile,  perché  ho fatto ciò che la mia coscienza mi ha ordinato di 
      fare. Ma,  in ogni caso,  se qualcuno si sbagliasse sul conto mio" 
      soggiunse il giovane,  rialzando la testa con orgoglio,  e come se 
      indirizzasse la sfida  agli  amici  ed  ai  nemici,  "cercherò  di 
      rettificare le opinioni." 
      "Che  cosa  è  dunque  accaduto questa notte?" domandò Beauchamp a 
      Chateau-Renaud. "Mi pare che ormai si stia qui inutilmente." 
      "Infatti ciò che ora ha fatto Alberto, dev'essere o molto meschino 
      o molto bello" disse il barone. 
      "Ah,  vediamo" domandò Debray a Franz,  "che significa tutto  ciò? 
      Come,  il  conte di Montecristo disonora il signor Morcerf,  ed ha 
      ragione agli occhi del figlio?!  Avessi avuto dieci Giannine nella 
      mia  famiglia,  mi  crederei  obbligato  ad una cosa sola,  cioè a 
      battermi dieci volte." 
      In quanto a Montecristo,  colla fronte china,  le braccia  inerti, 
      oppresso  dal peso di ventiquattr'anni di ricordi,  non pensava né 
      ad Alberto, né a Beauchamp,  né a Chateau-Renaud,  né ad alcuno di 
      quelli  che  si  trovavano  là.  Pensava a quella coraggiosa donna 
      ch'era venuta a chiedergli la vita del figlio, ed alla quale aveva 
      offerta  la  sua,  che  lei  però  salvava  rivelando  un  segreto 
      terribile di famiglia, capace di togliere per sempre dal cuore del 
      giovane qualunque sentimento di pietà filiale. 
      "Sempre la Provvidenza!" mormorò. "Ah, da oggi soltanto comincio a 
      credere veramente di essere suo strumento." 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 90. 
                               MADRE E FIGLIO. 
 
 
      Il  conte  di Montecristo salutò i giovani con un sorriso pieno di 
      malinconia  e  di  dignità,   e  risalì  nella  sua  carrozza  con 
      Massimiliano ed Emanuele. 
      Alberto,  Beauchamp  e  Chateau-Renaud  rimasero soli.  Il giovane 
      fissò sui testimoni uno sguardo, che, senz'essere timido, sembrava 
      tuttavia chiedere il loro parere sull'accaduto. 
      "Caro  amico"  disse  Beauchamp  per  primo,   forse  perché   più 
      sensibile,  o meno simulatore,  "permettetemi di congratularmi con 
      voi: ecco uno scioglimento inatteso per uno spiacevole affare." 
      Alberto restò muto e concentrato nella sua  interiorità.  Chateau- 
      Renaud si contentò di battere contro lo stivale il suo scudiscio. 
      "Non partiamo?" disse, dopo questo imbarazzante silenzio. 
      "Quando  vi piacerà" rispose Beauchamp.  "Lasciatemi solo il tempo 
      di fare i miei complimenti a Morcerf...  Ha  dato  quest'oggi  una 
      così gran prova di cavalleresca generosità, tanto rara!" 
      "Oh, sì" disse Chateau-Renaud. 
      "E'  cosa  magnifica" continuò Beauchamp,  "poter conservare su se 
      stessi un dominio così grande!" 
      "Certamente,  in quanto  a  me  ne  sarei  stato  incapace"  disse 
      Chateau-Renaud colla freddezza più espressiva. 
      "Signori"  interruppe  Alberto,  "credo che non abbiate capito che 
      fra il conte di Montecristo e me è accaduto qualche cosa di  molto 
      grave." 
      "Sia  pure,  sia pure" disse subito Beauchamp,  "ma tutti i nostri 
      rodomonti non sarebbero in grado di capire il  vostro  eroismo,  e 
      presto  o  tardi sareste costretto a spiegarlo loro con un po' più 
      d'energia di quello che convenga alla salute del vostro  corpo  ed 
      alla  durata della vostra vita.  Volete che vi dia un consiglio da 
      amico?  Partite per Napoli,  per l'Aja o  per  Pietroburgo,  paesi 
      calmi,  dove  gli  uomini  se  la  intendono di più sul vero punto 
      d'onore che presso di noi teste ardenti di parigini.  Una volta là 
      esercitatevi  molto  a  tirare  al bersaglio colla pistola,  e per 
      gioco,   di  terza  e  di  quarta  colla  spada;   fate  una  vita 
      spensierata,  per poi tornare pacificamente in Francia fra qualche 
      anno,  abbastanza rispettabile per gli  esercizi  accademici,  per 
      conquistare  una qualsiasi posizione nella società...  Non è così, 
      signor Chateau-Renaud? Non ho ragione?" 
      "Questo precisamente è il mio parere.  Non vi è niente che procuri 
      i veri duelli, come un duello che non ha avuto luogo." 
      "Grazie,  signori"  rispose  Alberto  con un sorriso,  "seguirò il 
      vostro consiglio non perché me lo abbiate dato,  ma perché era mia 
      intenzione  lasciare  la  Francia.  Vi  ringrazio  ugualmente  del 
      servizio  che  mi  avete  reso,   servendomi   da   testimoni:   è 
      profondamente impresso nel mio cuore, poiché dopo le parole che ho 
      sentito, non vi dimenticherò mai più." 
      Chateau-Renaud e Beauchamp si guardarono. L'impressione era eguale 
      sopra  entrambi,  l'accento col quale Alberto aveva pronunciato il 
      suo ringraziamento era così risoluto da riuscire imbarazzante  per 
      tutti, se il dialogo fosse continuato. 
      "Addio, Alberto" disse Beauchamp stendendo negligentemente la mano 
      al  giovane,  senza  che  questi  desse a vedere di uscire dal suo 
      stato d'animo. 
      "Addio" disse a sua volta Chateau-Renaud salutando. 
      Le labbra del giovane mormorarono appena "addio!",  il suo sguardo 
      era  più  chiaro;  racchiudeva  un  poema  di  collera trattenuta, 
      d'orgogliosi sdegni, di generose indignazioni. 
      Quando i due testimoni furono in carrozza,  conservò  per  qualche 
      tempo   la   sua   posizione   immobile   e  malinconica.   Quindi 
      d'improvviso, staccando il cavallo dal piccolo albero,  intorno al 
      quale erano state annodate le redini,  saltò leggermente in sella, 
      e riprese al galoppo la strada di Parigi.  Un  quarto  d'ora  dopo 
      rientrava  nel palazzo della rue Helder.  Scendendo da cavallo gli 
      sembrò, dietro la cortina delle finestre della camera da letto del 
      conte, di scorgere la pallida figura di suo padre; Alberto girò la 
      testa con un sospiro,  ed entrò nel  suo  appartamento.  Giuntovi, 
      gettò  un ultimo sguardo su tutte quelle ricchezze che gli avevano 
      resa la vita così dolce e felice fin dall'infanzia,  guardò ancora 
      una  volta  quei  ritratti,  che  parevano sorridergli,  e tutti i 
      paesaggi che gli sembrava  s'animassero  di  vivi  colori.  Staccò 
      quindi  dalla intelaiatura di quercia il ritratto di sua madre,  e 
      lo arrotolò lasciando vuota la cornice d'oro che lo circondava. 
      Quindi mise in ordine le belle armi turche,  i bei fucili inglesi, 
      le  porcellane  del  Giappone,   le  coppe  cesellate,   i  bronzi 
      artistici, marcati Feuchères o Barye,  visitò gli armadi e pose le 
      chiavi  a ciascuno di essi;  gettò in un cassetto dello scrittoio, 
      che lasciò aperto, tutto il denaro che portava con sé in tasca, vi 
      aggiunse i mille gioielli di fantasia,  che riempivano  le  coppe, 
      gli  scrigni,  le scansie;  fece un inventario esatto e preciso di 
      tutto,  e situò questo inventario  nel  luogo  più  esposto  della 
      tavola,  dopo  averla  sbarazzata  di tutti i libri e carte che la 
      ingombravano.  Al principio di questo lavoro,  il  suo  domestico, 
      malgrado  l'ordine  che  gli aveva dato Alberto di lasciarlo solo, 
      era entrato nella sua camera. 
      "Che volete?" gli chiese con accento più triste che corrucciato. 
      "Scusate,  signore" disse il cameriere,  "è vero che il signore mi 
      aveva  proibito  di disturbarlo,  ma il signor conte Morcerf mi ha 
      fatto chiamare." 
      "Ebbene?" domandò Alberto. 
      "Non ho voluto andare dal signor conte  senza  ricevere  i  vostri 
      ordini, signore." 
      "E perché questo?" 
      "Perché  il  signor  conte  saprà  senza  dubbio,  che  io  vi  ho 
      accompagnato sul terreno." 
      "E' probabile" disse Alberto. 
      "E se mi fa chiamare, è senza dubbio per interrogarmi su ciò che è 
      accaduto laggiù. Che cosa devo rispondere?" 
      "La verità." 
      "Allora debbo dirgli che il duello non si è effettuato?" 
      "Gli direte che ho chiesto scusa al signor conte  di  Montecristo. 
      Andate." 
      Il cameriere s'inchinò e uscì. 
      Allora Alberto si rimise a fare il suo inventario. 
      Mentre  compiva  il  suo  lavoro,  lo scalpitio di due cavalli nel 
      cortile e il rumore delle ruote di una carrozza attirarono la  sua 
      attenzione, si avvicinò alla finestra, e vide suo padre salire nel 
      calesse  e  partire.  Non  appena  il  portone fu chiuso dietro al 
      conte,  Alberto si diresse verso l'appartamento di  sua  madre,  e 
      siccome non trovò nessuno in sala per annunciarlo,  s'inoltrò fino 
      alla camera da letto di Mercedes,  e,  col cuore gonfio per quanto 
      vedeva  e indovinava,  si fermò sulla soglia.  Come se la medesima 
      anima stesse in questi due corpi, Mercedes faceva nelle sue camere 
      ciò che Alberto aveva fatto nelle proprie.  Tutto era stato  messo 
      in ordine: i merletti,  le guarnizioni, i gioielli, la biancheria, 
      il denaro erano ordinati nel fondo dei cassetti,  e la contessa ne 
      riuniva le chiavi con cura. Alberto vide tutti questi preparativi, 
      comprese  tutto,  e  gridando,  "Madre mia!" andò a gettare le sue 
      braccia intorno al collo di Mercedes. 
      Chi avesse potuto ritrarre  l'espressione  di  quelle  due  figure 
      avrebbe  certamente  fatto  un  bel  quadro.  Infatti tutti questi 
      analoghi preparativi causati da un'energica decisione,  e che  non 
      avevano  fatto  paura  ad Alberto per sé,  lo spaventavano per sua 
      madre. 
      "Che cosa fate dunque?" domandò. 
      "Che cosa avete fatto voi?" rispose lei. 
      "Oh,  madre mia" gridò Alberto,  commosso al punto  da  non  poter 
      parlare,  "non  può essere di voi come di me;  no,  voi non potete 
      aver deciso ciò che ho deciso io,  poiché vengo a dirvi che do  un 
      addio alla vostra casa e a voi." 
      "Io  pure,  Alberto"  rispose  Mercedes,  "io  pure  parto.  Avevo 
      contato, lo confesso, che mio figlio mi avrebbe accompagnata... Mi 
      sono ingannata." 
      Madre  mia"  disse  Alberto  con  fermezza,   "non   posso   farvi 
      condividere  la mia sorte.  D'ora innanzi bisogna ch'io viva senza 
      nome e senza fortuna e,  agli inizi,  occorre che io non mi  serva 
      del nostro denaro,  ma chieda aiuto ad un amico finché non sarò in 
      grado di guadagnarmene da solo.  Così,  mia buona madre,  vado  da 
      Franz  a  pregarlo  di  prestarmi quella piccola somma che presumo 
      necessaria." 
      "Tu, mio povero figlio" gridò Mercedes, "tu soffrire la fame!  Oh, 
      non dirlo, tu infrangeresti tutti i miei propositi." 
      "Ma non parliamo di me, madre mia" rispose Alberto: "sono giovane, 
      sono forte,  credo di essere coraggioso, e fin da ieri ho imparato 
      che cosa può la mia volontà. Ahimè, madre mia,  vi sono esseri che 
      hanno  sofferto  tanto,  e  che non solo non sono morti,  ma hanno 
      edificato una nuova fortuna sulla rovina di tutte le  promesse  di 
      felicità  che  il  cielo  aveva loro fatte,  sui resti di tutte le 
      speranze che Dio aveva loro date!  Io ho  imparato  presto,  madre 
      mia,  io ho veduto questi uomini,  io so che dal fondo dell'abisso 
      in cui li aveva immersi il loro nemico, si sono rialzati con tanto 
      vigore e tanta gloria che hanno dominato il loro antico  vincitore 
      e lo hanno a sua volta precipitato. No, madre mia, no, ho rotto da 
      quest'oggi  col  passato  e  non ne accetto più nulla,  neppure il 
      nome, perché, voi lo capite, non è vero madre mia?,  vostro figlio 
      non  può  portare il nome di un uomo che deve arrossire davanti ad 
      un altro uomo!" 
      "Alberto, figlio mio" disse Mercedes, "se io avessi avuto un cuore 
      più forte sarebbe stato questo il consiglio che ti  avrei  dato... 
      La  tua  coscienza  ha  parlato  quando la mia spenta voce taceva: 
      ascolta la tua  coscienza,  figlio  mio!  Tu  avevi  degli  amici, 
      Alberto,  tronca  momentaneamente  ogni rapporto con loro,  ma non 
      disperare in nome di tua madre!  La vita è ancor  bella  alla  tua 
      età,  mio  caro  Alberto,  perché  tu hai appena ventidue anni,  e 
      siccome ad un cuore  puro  come  il  tuo  occorre  un  nome  senza 
      macchia,  prendi quello di mio padre: egli si chiamava Herrera. Io 
      ti conosco,  Alberto mio qualunque carriera  tu  segua,  in  breve 
      tempo renderai questo nome illustre.  Allora amico mio,  ricompari 
      nel mondo più splendido ancora per  il  vanto  delle  tue  passate 
      disavventure.  E se,  malgrado tutte le mie previsioni, non avesse 
      ad accadere così,  lasciami almeno questa speranza,  a me che  non 
      avrò più altro pensiero,  a me che non ho più avvenire,  e per cui 
      la tomba comincia dalla soglia di questa casa." 
      "Farò secondo i tuoi desideri,  madre mia" disse il giovane.  "Sì, 
      condivido  la  tua speranza: la collera del cielo non perseguiterà 
      te così pura,  me così innocente.  Ma poiché  siamo  risoluti,  si 
      agisca  prontamente.  Il signor Morcerf ha lasciato il suo palazzo 
      che sarà circa mezz'ora: l'occasione, come vedi,  è favorevole per 
      evitare scontri e spiegazioni." 
      "Io ti aspetto, figlio mio" disse Mercedes. 
      Alberto  corse sul boulevard da dove tornò in una carrozza da nolo 
      che doveva condurli fuori del palazzo.  Si ricordò  d'una  piccola 
      casa  ammobigliata  nella  rue  des  Saints-Pères,  dove sua madre 
      avrebbe trovato un alloggio modesto ma decente;  ritornò dunque  a 
      prendere  la  contessa.  Nel momento in cui la carrozza si fermava 
      davanti alla casa,  e quando Alberto ne  discendeva,  un  uomo  si 
      avvicinò  a  lui,  e  gli consegnò una lettera.  Alberto riconobbe 
      Bertuccio. 
      "Del conte" disse l'intendente. 
      Alberto prese la lettera, ed apertala la lesse: dopo averla letta, 
      cercò cogli occhi Bertuccio,  ma Bertuccio era scomparso mentre il 
      giovane leggeva. 
      Allora  Alberto,  con  le  lacrime  agli  occhi,  il  petto gonfio 
      dall'emozione,   rientrò  nella  camera  di  Mercedes,   e   senza 
      pronunciare parola, le presentò la lettera. 
      Mercedes lesse: 
 
      "Alberto,  nel  farvi  sapere  che  sono  venuto  a conoscenza del 
      progetto al quale  siete  sul  punto  di  abbandonarvi,  credo  di 
      dimostrarvi  ugualmente  che  ne comprendo la delicatezza.  Eccovi 
      libero! Voi lasciate il palazzo del conte,  vi ritirate con vostra 
      madre, libera al par di voi. Ma riflettete! Alberto, voi le dovete 
      più  di  quello  che  potete  offrirle,  povero  e  nobile  cuore. 
      Riservate a voi la lotta,  reclamate per  voi  le  sofferenze,  ma 
      risparmiatele    quella    prima    miseria    che    accompagnerà 
      inevitabilmente i vostri  primi  sforzi,  poiché  lei  non  merita 
      neppure  il  riverbero della disgrazia che oggi la colpisce,  e la 
      Provvidenza non vuole che l'innocente paghi per il colpevole. 
      So che lasciate entrambi la casa della rue Helder senza portar via 
      niente.  Non cercate di scoprire in qual modo l'ho saputo.  Io  lo 
      so,  e  basta.  Ascoltate Alberto.  Ventiquattro anni or sono,  io 
      tornavo  molto  fiero  nella  mia  patria.  Avevo  una  fidanzata, 
      Alberto,  una  santa  donna  che  io  adoravo,  e portavo alla mia 
      fidanzata centocinquanta luigi accumulati  penosamente  colle  mie 
      fatiche senza riposo. Questo denaro era per lei, io lo destinavo a 
      lei,  e  sapendo  quanto  il  mare è perfido,  avevo seppellito il 
      nostro tesoro in un piccolo giardino  della  casa  che  mio  padre 
      abitava  a  Marsiglia  sopra  i  viali  di  Meillan.  Vostra madre 
      Alberto, conosce questa povera casa. Ultimamente, venendo a Parigi 
      sono passato da Marsiglia.  Sono andato a vedere  questa  casa  di 
      dolorosi ricordi;  e la sera, con una vanga alla mano ho esplorato 
      l'angolo ove era sepolto il mio tesoro.  La cassetta di ferro  era 
      ancora  nel  medesimo posto,  nessuno l'aveva toccata: è presso un 
      fico, piantato da mio padre il giorno della mia nascita,  e che la 
      ricopre  colla  sua  ombra.  Alberto,  questo  denaro,  che allora 
      avrebbe dovuto provvedere alla vita e alla tranquillità di  questa 
      donna  che  adoravo  ecco  che  oggi,  per  una  strana e dolorosa 
      combinazione,  può avere lo stesso uso.  Oh,  capite bene  il  mio 
      pensiero,  io,  che  potrei  offrire  dei  milioni a questa povera 
      donna,  le rendo soltanto il tozzo di pane nero dimenticato  sotto 
      il mio povero tetto,  dal giorno in cui fui separato per sempre da 
      lei.  Voi siete generoso,  Alberto,  ma  a  volte  siete  accecato 
      dall'orgoglio  o  dal  risentimento: se ricusate,  se domandate ad 
      altri ciò che ho io il diritto di offrirvi  dirò  che  siete  poco 
      generoso  nel  ricusare  ciò  che  appartiene  alla vita di vostra 
      madre, e offerto da un uomo a cui vostro padre ha fatto morire, il 
      padre suo, negli orrori della fame e della disperazione." 
 
      Finita questa lettera, Alberto, pallido ed immobile, aspettava ciò 
      che avrebbe deciso sua madre.  Mercedes alzò al cielo uno  sguardo 
      ineffabile. 
      "Accetto"  disse.  "Egli  ha  il  diritto di pagare la dote che io 
      porterò in un convento." 
      E mettendosi la lettera sul cuore, prese il braccio di suo figlio, 
      e, con passo più sicuro di quello che forse si aspettava, scese le 
      scale. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 91. 
                                  SUICIDIO. 
 
 
      Montecristo  pure  era  rientrato  in  città,   con   Emanuele   e 
      Massimiliano.  Il  ritorno  fu lieto.  Emanuele non dissimulava la 
      gioia di aver visto succedere la pace alla guerra,  e confessava i 
      suoi  principi  umanitari.  Morrel,  in  un angolo della carrozza, 
      lasciava evaporare in parole l'allegria del cognato,  e conservava 
      per sé una gioia altrettanto sincera, ma che brillava soltanto dai 
      suoi  occhi.  Alla  barriera  del Trono incontrarono Bertuccio che 
      aspettava là, immobile come una sentinella al suo posto. 
      Montecristo cacciò la  testa  dallo  sportello,  scambiò  con  lui 
      qualche parola a bassa voce, e l'intendente scomparve. 
      "Signor  conte"  disse  Emanuele,  "giungendo  vicino  alla piazza 
      reale, lasciatemi scendere, vi prego, alla mia porta, affinché mia 
      moglie non abbia un momento di più di pena né per voi né per me." 
      "Se non fosse cosa  ridicola  andare  a  far  mostra  del  proprio 
      trionfo" disse Morrel, "inviterei il conte a entrare da noi, ma il 
      signor conte,  senza dubbio, ha pure dei cuori da tranquillizzare. 
      Eccoci arrivati, Emanuele, salutiamo il nostro amico, e lasciamolo 
      continuare la sua strada." 
      "Un momento" disse Montecristo,  "non mi private così dei miei due 
      compagni!  Voi,  Emanuele,  rientrate  presso  la  vostra graziosa 
      moglie alla quale v'incarico di presentare i miei saluti,  e  voi, 
      Morrel, accompagnatemi fino agli Champs-Elysées." 
      "A  meraviglia"  disse  Massimiliano,  "tanto  più  che  ho alcune 
      faccende nel vostro quartiere, conte." 
      "Dobbiamo aspettarvi per fare colazione?" domandò Emanuele. 
      "No" rispose il giovane. 
      Lo sportello si richiuse, e la carrozza continuò la sua strada. 
      "Guardate come vi ho portato fortuna!" disse Morrel quando fu solo 
      col conte. 
      "Non ci avete pensato?" 
      "Sì,  certo" disse Montecristo,  "ed  ecco  perché  vorrei  sempre 
      tenervi vicino a me." 
      "E' un miracolo!" continuò Morrel, rispondendo ad un suo pensiero. 
      "Che cosa?" disse Montecristo. 
      "Quello che è accaduto." 
      "Sì" rispose il conte con un sorriso,  "voi avete usato un termine 
      conveniente, Morrel, è un miracolo." 
      "Perché infine" rispose Morrel, "Alberto è coraggioso." 
      "Coraggiosissimo" disse Montecristo, "io l'ho visto dormire mentre 
      gli stava sul capo il pugnale." 
      "Ed io so che si è battuto due volte,  e molto bene" disse Morrel. 
      "Conciliate dunque ciò con la sua condotta questa mattina..." 
      "E' stata la vostra influenza" rispose sorridente Montecristo. 
      "Fortuna per Alberto che non sia soldato." 
      "E perché?" 
      "Perché  ci  vogliono  altro  che  scuse  sul terreno!" rispose il 
      giovane capitano scuotendo la testa. 
      "Orsù" disse il conte con  dolcezza,  "non  andate  a  cadere  nei 
      pregiudizi  degli  uomini  ordinari,  Morrel.  Convenite  con  me: 
      Alberto è coraggioso,  dunque non può essere vile: per agire  come 
      ha fatto questa mattina bisogna che abbia avuto una forte ragione, 
      quindi la sua condotta è stata eroica." 
      "Senza dubbio,  senza dubbio" rispose Morrel.  "Ma io dirò come lo 
      spagnolo: "Oggi fu meno coraggioso di ieri"." 
      "Farete colazione con me, non è vero,  Morrel?" disse il conte per 
      troncare il discorso. 
      "No, vi lascerò alle dieci." 
      "Il vostro appuntamento è dunque per una colazione?" 
      Morrel sorrise e scosse la testa. 
      "Eppure bisognerà bene che facciate colazione in qualche luogo?" 
      "E se non avessi fame?" disse il giovane. 
      "Oh,  io  non  conosco  che due sentimenti che tolgono in tal modo 
      l'appetito il dolore  (ma  siccome  vi  vedo  abbastanza  allegro, 
      fortunatamente non è questo) e l'amore. Ora, dopo ciò che mi avete 
      detto in proposito del vostro cuore, mi è permesso di credere..." 
      "Perbacco, conte" replicò gaiamente Morrel, "io non dico di no." 
      "E  non  mi raccontate nulla,  Massimiliano?" riprese il conte con 
      tono così vivo da far capire l'ansia di conoscere quel segreto. 
      "Questa mattina vi ho parlato di un amore, è vero conte?" 
      Per tutta risposta Montecristo stese la mano al giovane. 
      "Ebbene,  poiché il mio cuore non  è  più  con  voi  al  bosco  di 
      Vincennes" e si voltò da un'altra parte, "vado a cercarla." 
      "Andate" disse lentamente il conte,  "andate,  amico caro... Ma di 
      grazia se trovaste qualche ostacolo, ricordatevi che ho del potere 
      in questa società,  e che sono felice d'impiegare questo potere  a 
      profitto delle persone che amo, e io vi amo moltissimo, Morrel..." 
      "Grazie" disse il giovane, "me ne ricorderò come i bambini egoisti 
      si  ricordano  dei  genitori quando ne hanno bisogno.  Quando avrò 
      bisogno di voi,  e forse  questo  momento  verrà,  verrò  da  voi, 
      conte." 
      "Bene, ho la vostra parola... Addio dunque." 
      "Arrivederci." 
      Erano   giunti   alla   porta  della  casa  degli  Champs-Elysées. 
      Montecristo aprì lo sportello,  Morrel balzò a terra,  e  disparve 
      all'ingresso di Marigny;  Montecristo camminò incontro a Bertuccio 
      che aspettava sulla scalinata. 
      "Ebbene?" 
      "Ebbene" rispose l'intendente, "lascia la casa." 
      "E il figlio?" 
      "Florentin, il suo cameriere, crede che faccia altrettanto." 
      "Venite." 
      Montecristo condusse Bertuccio nel suo studio,  scrisse la lettera 
      che conosciamo, e la rimise all'intendente. 
      "Andate"  disse,  "e  fate  con  diligenza...  A  proposito,  fate 
      avvisare Haydée che sono tornato." 
      "Eccomi" disse la giovane donna,  che al rumore della carrozza era 
      già  discesa,  col  viso  raggiante di gioia nel rivedere il conte 
      salvo. 
      Bertuccio uscì. 
      Tutti i trasporti di una figlia nel rivedere un padre  prediletto, 
      tutti  i deliri di un'amica nel rivedere l'amante adorato,  Haydée 
      li provò nei primi  istanti  di  quel  ritorno  atteso  con  tanta 
      impazienza.  Certamente,  quantunque  meno espansiva,  la gioia di 
      Montecristo non era meno grande: la gioia,  per i cuori che  hanno 
      lungamente  sofferto,   è  simile  alla  rugiada,  cuore  e  terra 
      assorbono la pioggia benefica,  e niente appare al  di  fuori.  Da 
      qualche  giorno  il  conte  di  Montecristo  capiva,  e  non osava 
      crederlo che c'erano due Mercedes al mondo,  e che  poteva  ancora 
      essere  felice  su questa terra.  Contemplava,  avido di felicità, 
      Haydée, quando ad un tratto la porta si aprì. Il conte aggrottò il 
      sopracciglio. 
      "Il signor Morcerf!" disse Battistino,  come se questa sola parola 
      racchiudesse tutta la sua scusa. 
      Infatti il viso del conte si rischiarò. 
      "Quale?" domandò egli: "il visconte, o il conte?" 
      "Il conte." 
      "Mio Dio!" gridò Haydée. "Non è ancora finita dunque?" 
      "Non  so  se  sia finita,  ragazza mia diletta" disse Montecristo, 
      prendendo le mani della sua figlia adottiva,  "ma ciò che so è che 
      non hai nulla da temere." 
      "Oh, se però il miserabile..." 
      "Quest'uomo  non  ha  nessun  potere  sopra  di me,  Haydée" disse 
      Montecristo.  "Quando avevo a che fare con suo figlio,  allora sì, 
      che c'era da temere." 
      "Oh! quanto ho sofferto" disse la giovane donna, "tu non lo saprai 
      mai, mio signore!" 
      "Per  la  tomba  di  mio  padre"  disse Montecristo,  sorridendo e 
      stendendo la mano sulla testa della ragazza, "io ti giuro, Haydée, 
      che se accade disgrazia a qualcuno, non sarà a me." 
      "Io ti credo, mio signore, come se mi parlasse una voce del cielo" 
      disse la giovane presentando la sua fronte al conte. 
      Montecristo depose su quella fronte pura e bella un bacio che fece 
      battere ad un  tempo  due  cuori,  uno  con  violenza,  e  l'altro 
      timidamente. 
      "Oh  mio  Dio" mormorò il conte,  "permettereste voi ch'io potessi 
      ancora amare?  Fate entrare il conte Morcerf nel salotto" disse  a 
      Battistino, mentre riconduceva la bella greca nelle sue camere per 
      la scala segreta. 
      Una  parola  di  spiegazione  su  questa  visita,  attesa forse da 
      Montecristo, ma inaspettata senza dubbio ai nostri lettori. 
      Mentre Mercedes  come  abbiamo  detto,  faceva  nelle  sue  stanze 
      l'inventario  che  Alberto  aveva già fatto nelle proprie,  mentre 
      classificava i gioielli,  chiudeva i cassetti,  riuniva le chiavi, 
      per  lasciare  tutto nell'ordine più perfetto,  non si era accorta 
      che una testa pallida e sinistra era comparsa alla  invetriata  di 
      un  uscio che dava luce ad un corridoio.  Di là non solo si poteva 
      vedere, ma si poteva anche sentire. 
      L'uomo,  pallido,  si portò poi nella camera da  letto  del  conte 
      Morcerf,  giunto  là,  sollevò con mano contratta la tendina della 
      finestra che guardava nel cortile.  Per dieci  minuti  restò  come 
      immobile e muto,  ascoltando i battiti del proprio cuore.  Per lui 
      dieci minuti erano molto lunghi. 
      Fu allora che Alberto ritornò dal suo appuntamento,  e il padre in 
      attesa del suo ritorno dietro la tendina, voltò la testa. L'occhio 
      del conte si dilatò: sapeva che l'insulto di Alberto a Montecristo 
      era stato terribile,  che un simile insulto,  in tutti i paesi del 
      mondo,  trascinava ad un duello a morte.  Ora,  Alberto  ritornava 
      sano  e  salvo,  dunque il conte era vendicato.  Un lampo di gioia 
      indicibile illuminò quel lugubre viso,  come un ultimo  raggio  di 
      sole prima di perdersi nelle nubi.  Ma, come abbiamo detto, attese 
      invano che il giovane salisse nel suo appartamento  per  rendergli 
      conto del trionfo.  Che suo figlio prima di andare a battersi, non 
      avesse voluto vedere il padre di cui andava a  vendicare  l'onore, 
      questo  era  facile  a  capirsi...  Ma  una volta vendicato questo 
      onore,  perché il figlio non veniva a gettarsi nelle  braccia  del 
      padre? 
      Il  conte,  non vedendo venire Alberto,  inviò per informazioni il 
      domestico, il quale, come abbiamo detto, fu autorizzato da Alberto 
      a non tenere nascosta la verità a suo padre. 
      Dieci minuti dopo,  uscito il domestico,  si vide comparire  sulla 
      scalinata il conte Morcerf, vestito nell'uniforme di luogotenente. 
      A quanto pareva,  aveva già dato ordini anteriori,  poiché, appena 
      toccato l'ultimo gradino della scala, la carrozza venne a fermarsi 
      dinanzi a  lui.  Allora  il  cameriere  gettò  nella  carrozza  un 
      mantello  militare,  che  avvolgeva  due  spade quindi,  chiuso lo 
      sportello,  si assise vicino al cocchiere che si  chinò  verso  le 
      portiere per ricevere l'ordine. 
      "Agli Champs-Elysées" disse il generale,  "al palazzo del conte di 
      Montecristo." 
      I cavalli si lanciarono percossi dalla frusta: cinque minuti  dopo 
      si fermavano alla casa del conte. 
      Il  signor  Morcerf  aprì  da  sé  lo  sportello,  saltò  lesto al 
      cancello,  suonò,  e aperta  la  porta,  sparì  in  compagnia  del 
      cameriere.  Un  minuto  dopo  Battistino  annunziava  al signor di 
      Montecristo il conte Morcerf, e Montecristo,  riconducendo Haydée, 
      dava ordine che il conte Morcerf fosse introdotto nella sala. 
      Il  generale misurava a gran passi per la terza volta la lunghezza 
      della sala,  quando,  voltandosi,  vide Montecristo in piedi sulla 
      soglia. 
      "Ah,   il   signor  Morcerf"  disse  tranquillamente  Montecristo, 
      "credevo di aver capito male." 
      "Sì,  sono io" disse il conte con una brutta contrazione di labbra 
      che gli impediva di articolare le parole. 
      "Dunque  non  mi  resta  che  capire cosa" disse Montecristo,  "mi 
      procura il piacere di vedere il signor Morcerf così di buon'ora." 
      "Questa mattina,  signore,  avete avuto un duello con mio figlio?" 
      chiese il generale. 
      "Lo sapete?" replicò il conte. 
      "So  pure  che  mio  figlio  aveva buone ragioni per desiderare di 
      battersi con voi, e di fare tutto ciò che poteva per uccidervi." 
      "Infatti, signore, ne aveva di buonissime. Ma pur con queste buone 
      ragioni, non mi ha ucciso, anzi non si è neppure battuto." 
      "E tuttavia vi considerava la causa del disonore di suo padre, non 
      meno che della terribile rovina che in questo momento  opprime  la 
      mia famiglia." 
      "E' vero" rispose Montecristo,  colla sua calma spaventosa: "causa 
      secondaria, per esempio, e non principale." 
      "Senza dubbio gli avrete  fatto  qualche  scusa,  e  dato  qualche 
      spiegazione?" 
      "Non  gli  ho  dato nessuna spiegazione,  ed è stato lui che mi ha 
      chiesto scusa." 
      "Ma a che cosa attribuite questa sua condotta?" 
      "Probabilmente alla convinzione che in tutto questo vi era un uomo 
      più colpevole di me." 
      "E chi è quest'uomo?" 
      "Suo padre." 
      "Sia" disse il conte, impallidendo,  "ma voi sapete che neppure al 
      più colpevole piace sentirsi rinfacciare la sua colpa." 
      "Lo so... Quindi ero preparato a tale incontro." 
      "Eravate  preparato  a  trovare  in  mio figlio un vile?" gridò il 
      conte. 
      "Il signor Alberto Morcerf non è un vile!" disse Montecristo. 
      "Un uomo che tiene in mano una spada,  un uomo che  a  portata  di 
      questa spada ha un nemico mortale,  quest'uomo, se non si batte, è 
      un vile! Ah, perché non è qui? Glielo direi in faccia!" 
      "Signore" disse freddamente Montecristo, "io non presumo che siate 
      venuto a trovarmi per raccontarmi i vostri  segreti  di  famiglia. 
      Andate a dire tutto questo ad Alberto, forse vi risponderà." 
      "Eh no,  no!" reagì il generale,  con un sorriso che subito svanì, 
      "no!  Voi avete ragione,  io non sono venuto qui per questo.  Sono 
      venuto  per dirvi che io vi considero mio nemico!  Sono venuto per 
      dirvi che vi odio per  istinto,  che  mi  sembra  d'avervi  sempre 
      conosciuto,  sempre  odiato,  e  che  infine,  poiché i giovani di 
      questo secolo non si battono più, sta a noi batterci...  E' questo 
      pure il vostro parere, signore?" 
      "Precisamente.  Così  quando  vi  ho  detto che mi ero preparato a 
      quanto  accade,  io  intendevo  parlare  dell'onore  della  vostra 
      visita." 
      "Tanto meglio... I vostri preparativi sono fatti?" 
      "Lo sono sempre, signore." 
      "Voi  sapete che ci batteremo a morte" disse il generale coi denti 
      stretti per la rabbia. 
      "A morte" ripeté  il  conte  di  Montecristo  facendo  un  leggero 
      movimento di testa dall'alto in basso. 
      "Si cominci, allora, noi non abbiamo bisogno di testimoni." 
      "Infatti"  disse  Montecristo,  "è  inutile,  ci conosciamo troppo 
      bene!" 
      "Al contrario" disse il conte, "noi non ci conosciamo." 
      "Bah!" disse Montecristo,  colla stessa flemma da  far  disperare. 
      "Vedremo.  Non  siete  il  soldato Fernando che disertò la vigilia 
      della  battaglia  di  Waterloo?...   Non  siete  il   sottotenente 
      Fernando, che ha servito di guida e di spia all'armata francese in 
      Spagna?  Non  siete il capitano Fernando,  che ha tradito venduto, 
      assassinato il  suo  benefettore  Alì?  E  tutti  questi  Fernandi 
      riuniti,  non hanno formato il luogotenente conte Morcerf, Pari di 
      Francia?" 
      "Ah!" gridò il generale colpito da queste parole. "Ah!  miserabile 
      che  mi  rimproveri la vergogna nel momento,  forse,  che stai per 
      uccidermi!  No,  non ti ho  detto  d'esserti  ignoto...  So  bene, 
      demonio,  che  hai  penetrato  nella notte del passato,  e che hai 
      letto, al chiarore di non so quale fiaccola, tutte le pagine della 
      mia vita,  ma forse io ho ancora più onore nel mio obbrobrio,  che 
      tu sotto le tue apparenze.  No,  io ti sono noto, lo so, ma io non 
      conosco te, avventuriero coperto d'oro e di gemme! Tu ti sei fatto 
      chiamare a Parigi conte  di  Montecristo,  in  Italia  Sindbad  il 
      marinaio,  a Malta altro ancora... Ma è il tuo vero nome che io ti 
      domando, è il tuo vero nome ch'io voglio sapere,  fra i tuoi cento 
      nomi, affinché io lo pronunci sul terreno del duello, nell'istante 
      in cui t'immergerò la spada nel cuore!" 
      Il conte di Montecristo impallidì in modo terribile, il suo occhio 
      s'infuocò, fece un balzo nel salotto attiguo alla sua camera, e in 
      meno  di  un  secondo  si strappò la cravatta,  l'abito e il gilè, 
      indossò una piccola giacca da marinaio,  si mise  un  berretto  da 
      uomo  di mare,  sotto il quale sciolse i suoi lunghi capelli neri. 
      Ritornò così, spaventevole, implacabile,  camminando colle braccia 
      in croce,  incontro al generale,  che l'aspettava, e che, sentendo 
      stridere i denti,  e piegarsi sotto le gambe,  indietreggiò di  un 
      passo,  e  non  si  fermò  che  trovando  in  una  tavola un punto 
      d'appoggio per la mano. 
      "Fernando!" gridò il conte.  "Dei miei cento nomi,  io  non  avrei 
      bisogno che di dirtene uno solo per fulminarti!  Ma questo nome tu 
      l'indovini, non è vero? O piuttosto te lo ricordi? Poiché malgrado 
      tutti i miei affanni,  tutte le mie torture oggi ti mostro un viso 
      che  la  felicità  della vendetta ringiovanisce,  un viso che devi 
      aver veduto molte volte nei tuoi sogni dopo il  tuo  matrimonio... 
      con Mercedes, mia fidanzata!" 
      Il  generale,  colla testa rovesciata indietro,  le mani tese,  lo 
      sguardo fisso,  divorava  in  silenzio  quelle  terribili  parole. 
      Subito dopo,  appoggiandosi alle pareti,  strisciò lentamente fino 
      alla porta,  da cui uscì all'indietro,  lasciando sfuggire un solo 
      grido, lugubre, lamentevole, dilaniante: 
      "Edmondo Dantès!" 
      Quindi,  con sospiri che non avevano niente di umano,  si trascinò 
      fino al peristilio della casa, traversò il cortile come ubriaco, e 
      cadde fra le braccia del cameriere mormorando  soltanto  con  voce 
      inintelligibile: 
      "A casa! a casa!" 
      Cammin  facendo,  la  freschezza  dell'aria,  e il vedersi esposto 
      all'attenzione dei servi,  lo rimisero in grado di raccogliere  le 
      sue  idee,  ma  il tragitto fu corto,  e via via che si avvicinava 
      alla sua abitazione,  il conte sentiva  rinnovarsi  tutte  le  sue 
      angosce. 
      A qualche passo dalla casa fece fermare,  e discese.  La porta del 
      palazzo era spalancata,  e in mezzo al cortile stava una  carrozza 
      da nolo.  Il conte guardò la carrozza con terrore,  ma senza avere 
      il  coraggio  d'interrogare  alcuno,   si  slanciò  verso  il  suo 
      appartamento.  Due  persone  scendevano la scala,  non ebbe che il 
      tempo di gettarsi in  uno  stanzino  per  evitarle.  Era  Mercedes 
      appoggiata  al  braccio  di  suo figlio: abbandonavano entrambi la 
      casa.  Passarono a pochi  passi  dal  disgraziato,  che,  nascosto 
      dietro la portiera di damasco,  fu sfiorato dalla veste di lana di 
      Mercedes,  e sentì il tiepido alito di queste  parole  pronunciate 
      dal figlio: 
      "Coraggio,  madre mia,  venite,  venite,  noi qui non siamo più in 
      casa nostra." 
      Le parole si estinsero, i passi si allontanarono. 
      Il generale si drizzò tenendosi  con  le  mani  alla  portiera  di 
      damasco:  comprimeva il più orribile singulto che fosse mai uscito 
      dal petto di un padre, abbandonato dalla moglie e dal figlio.  Ben 
      presto  udì sbattere lo sportello della carrozza,  poi la voce del 
      cocchiere, quindi il pesante veicolo fece tremare i vetri.  Allora 
      corse  nella sua camera da letto per vedere almeno una volta tutto 
      ciò che aveva amato al mondo: ma la carrozza partì  senza  che  la 
      testa  di  Mercedes o quella di Alberto comparissero per dare alla 
      casa  solitaria,  al  padre  e  allo  sposo  abbandonato  l'ultimo 
      sguardo,  l'addio  o almeno mostrare il rammarico,  vale a dire il 
      perdono.  Così,  al momento stesso in cui le ruote della  carrozza 
      rimbombavano sul pavimento sotto la volta,  si sentirono dei colpi 
      di pistola,  ed un fumo uscì da uno  dei  vetri  della  camera  da 
      letto, infranto forse da una pallottola. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 92. 
                                  VALENTINA. 
 
 
      E'  facile  indovinare  che  cosa  preoccupasse Morrel,  e con chi 
      avesse  appuntamento.   Morrel  dunque,   lasciando   Montecristo, 
      s'incamminò  lentamente  verso  la  casa  di  Villefort.   Diciamo 
      lentamente  perché  Morrel  aveva  più  di   mezz'ora   per   fare 
      cinquecento passi ma malgrado questo tempo più che sufficiente, si 
      era affrettato a lasciare Montecristo, avendo desiderio di rimaner 
      solo  coi suoi pensieri.  Egli sapeva l'ora nella quale Valentina, 
      assistendo alla colazione di Noirtier,  era sicura di  non  essere 
      disturbata  in  quel  pietoso  ufficio.  Noirtier  e Valentina gli 
      avevano accordato due visite la settimana,  e veniva a godere  dei 
      suoi diritti.  Arrivò che Valentina lo aspettava.  Inquieta, quasi 
      assente, lo prese per mano, e lo condusse davanti al nonno. 
      Questa inquietudine veniva dall'emozione che la sfida  di  Morcerf 
      aveva suscitato nel gran mondo; si sapeva (il gran mondo sa sempre 
      tutto)  l'avventura  dell'Opera.  In  casa  di  Villefort  nessuno 
      dubitava che quest'avventura  non  fosse  seguita  da  un  duello; 
      Valentina  col  suo istinto di donna,  aveva indovinato che Morrel 
      sarebbe stato  il  testimonio  di  Montecristo,  e  conoscendo  il 
      coraggio  del  giovane,  e  l'amicizia  sua profonda per il conte, 
      temeva che non si sarebbe limitato alla semplice parte passiva  di 
      testimone che gli era toccata.  Sarà dunque facile comprendere con 
      quale avidità furono richiesti e sentiti i particolari;  e  Morrel 
      poté  leggere  una  indicibile gioia negli occhi della sua diletta 
      quando  seppe  che  questo  terribile  affare  aveva   avuto   uno 
      scioglimento non meno felice che inatteso. 
      "Ora"  disse Valentina,  facendo segno a Morrel di sedersi accanto 
      al vecchio,  e sedendo lei stessa sullo scanno  ove  riposavano  i 
      suoi piedi,  "ora parliamo un poco dei nostri affari.  Voi sapete, 
      Massimiliano,  che il mio buon nonno aveva avuto  per  un  momento 
      l'idea di abbandonare la casa, e di prendere un appartamento fuori 
      dal palazzo del signor Villefort." 
      "Sì,  certo" disse Massimiliano, "mi ricordo di questo progetto, e 
      lo avevo anche approvato." 
      "Ebbene" disse Valentina, "approvate ancora, Massimiliano,  poiché 
      il buon nonno lo rinnova." 
      "Bravo!" disse Massimiliano. 
      "E  sapete"  disse  Valentina,  "quale  ragione  dà  il  nonno per 
      lasciare la casa?" 
      Noirtier guardava la ragazza per imporle silenzio coll'occhio,  ma 
      Valentina non guardava Noirtier;  i suoi occhi, il suo sguardo, il 
      suo sorriso erano tutti per Morrel. 
      "Oh,  qualunque sia la ragione che  addurrà  il  signor  Noirtier" 
      gridò Morrel, "dichiaro che è buona." 
      "Eccellente"  disse  Valentina:  "pretende che l'aria del Faubourg 
      Saint-Honoré non vale niente per la mia salute." 
      "Infatti" disse Morrel, "ascoltate, Valentina,  il signor Noirtier 
      potrebbe  realmente avere ragione...  Da quindici giorni trovo che 
      la vostra salute si è alterata." 
      "Sì,  un poco,  è vero" disse Valentina,  "quindi il  nonno  si  è 
      costituito mio medico, e siccome egli sa di tutto, ho gran fiducia 
      in lui." 
      "Ma è dunque vero che soffrite, Valentina?" domandò sollecitamente 
      Morrel. 
      "Oh,  mio  Dio,  non  è un soffrire il mio,  ma sento un malessere 
      generale, ecco tutto: ho perduto l'appetito,  e mi pare che il mio 
      stomaco sostenga una lotta per abituarsi a qualche cosa." 
      Noirtier non perdeva una parola di Valentina. 
      "E che cura seguite per questa ignota malattia?" 
      "Oh,  semplicissima" disse Valentina, aprendo tutte le mattine una 
      cucchiaiata della medicina che si porta a mio nonno, e dicendo una 
      cucchiaiata,  intendo che ho incominciato col prenderne  una,  ora 
      però ne prendo già quattro... Il nonno pretende che questa sia una 
      panacea universale." 
      Valentina sorrideva,  ma c'era qualche cosa di triste e sofferente 
      in quel sorriso.  Massimiliano,  ebbro  d'amore,  la  guardava  in 
      silenzio:  era  bella  ma il suo pallore aveva preso una tinta più 
      bianca,  i suoi occhi brillavano  di  un  fuoco  ardente  più  del 
      solito,  e  le  sue  mani,  ordinariamente  bianche come l'avorio, 
      sembravano di cera con una velatura giallastra.  Da  Valentina  il 
      giovane  volse gli occhi a Noirtier: questi considerava con strana 
      e profonda intelligenza la ragazza,  assorta nel  suo  amore.  Lui 
      pure,  come  Morrel,  scorgeva quelle tracce di un sordo soffrire, 
      sfuggito agli occhi di tutti. 
      "Ma" disse Morrel,  "quella pozione di cui siete giunta a prendere 
      quattro  cucchiai,  credevo  fosse  una  medicina  per  il  signor 
      Noirtier..." 
      "So che è molto amara" disse Valentina, "tanto amara che tutto ciò 
      che bevo dopo mi sembra avere lo stesso gusto." 
      Noirtier guardò la nipote come volesse chiederle qualcosa. 
      "Sì,  nonno" disse Valentina,  "è così come vi  dicevo.  Poco  fa, 
      prima di venire da voi, ho bevuto un bicchiere d'acqua zuccherata. 
      Ebbene?  Ne  ho  lasciata  metà,  tanto  quest'acqua mi è sembrata 
      amara." 
      Noirtier impallidì, e fece segno che voleva parlare,  Valentina si 
      alzò per andare a cercare il dizionario. Noirtier la seguiva cogli 
      occhi e con visibile angoscia. Difatti il sangue saliva alla testa 
      della ragazza, e le sue guance si colorivano. 
      "Beh" disse, senza perdere nulla della sua allegria, "è singolare: 
      un capogiro! E' dunque il sole che mi ha ferito gli occhi?..." 
      E si appoggiò al parapetto della finestra. 
      "Non  è il sole" disse Morrel,  inquieto più per l'espressione del 
      viso di Noirtier, che per l'indisposizione di Valentina. 
      E corse a Valentina. La ragazza sorrise. 
      "Rassicurati,    nonno"   disse   a   Noirtier,    "rassicuratevi, 
      Massimiliano   non  è  niente,   la  cosa  è  già  passata...   Ma 
      ascoltate!...  Non è il rumore di  una  carrozza,  che  sento  nel 
      cortile?" 
      Aprì  la  porta,  corse  ad  una  finestra del corridoio,  e tornò 
      precipitosamente. 
      "Sì" disse,  "è la signora Danglars con sua figlia che  vengono  a 
      farci  visita.  Addio,  me  ne vado,  perché verrebbero a cercarmi 
      qui...  O piuttosto arrivederci,  restate presso il nonno,  signor 
      Massimiliano, vi prometto di non far nulla per trattenerle." 
      Morrel  la  seguì con gli occhi,  la vide chiudere la porta,  e la 
      sentì salire la piccola  scala  che  metteva  nella  camera  della 
      signora  Villefort  e  nelle  sue.  Dal  momento che fu scomparsa, 
      Noirtier fece segno a Morrel di  prendere  il  dizionario.  Morrel 
      obbedì.  Guidato da Valentina,  si era presto abituato a capire il 
      vecchio.  Però,  per quanto abituato,  siccome bisognava  scorrere 
      gran  parte  delle  lettere  dell'alfabeto,  e  ritrovare ciascuna 
      parola nel dizionario, soltanto in capo a dieci minuti il pensiero 
      del vecchio fu tradotto in queste parole: 
      "Cercate il bicchiere d'acqua e la bottiglia che sono in camera di 
      Valentina." 
      Morrel suonò subito per il domestico succeduto  a  Barrois,  e  in 
      nome  di  Noirtier  gli dette quest'ordine.  Il domestico tornò un 
      istante dopo,  ma la bottiglia ed il bicchiere erano completamente 
      vuoti. 
      Noirtier fece segno che voleva parlare. 
      "Perché   il  bicchiere  e  la  bottiglia  sono  vuoti?"  domandò. 
      "Valentina ha detto di averne bevuto soltanto mezzo bicchiere." 
      La traduzione di questa nuova domanda occupò ancora  altri  cinque 
      minuti. 
      "Non   lo   so"   disse   il  domestico,   "ma  c'è  la  cameriera 
      nell'appartamento della signorina Valentina;  sarà forse stata lei 
      a vuotarli." 
      "Domandatele  il perché" disse Morrel,  traducendo questa volta il 
      pensiero di Noirtier con lo sguardo. 
      Il domestico uscì, e quasi subito rientrò. 
      "La signorina Valentina è passata dalla sua camera prima di andare 
      dalla signora Villefort,  nel passare,  siccome aveva sete,  ne ha 
      bevuto  ciò che rimaneva nel bicchiere.  In quanto alla bottiglia, 
      l'ha vuotata il signor Edoardo  per  fare  un  laghetto  alle  sue 
      anitre." 
      Noirtier  alzò gli occhi al cielo come fa un giocatore che rischia 
      in un colpo tutto quanto possiede.  Da quel momento gli occhi  del 
      vecchio si fissarono sulla porta. 
      Le  persone  in  visita  erano  difatti  la signora Danglars e sua 
      figlia,  ed  erano  state  condotte  nelle  stanze  della  signora 
      Villefort,   che   aveva   dato   ordine   di  riceverle  nel  suo 
      appartamento;  e per questo Valentina era passata dalla sua stanza 
      sullo  stesso  piano  della  matrigna,  e separata da lei soltanto 
      dalla camera di Edoardo. 
      Le due signore entrarono nel salotto colla sostenutezza di chi sta 
      per fare una rivelazione.  E siccome le persone dello stesso  ceto 
      si  capiscono  al  volo,  così la signora Villefort rispose con lo 
      stesso tono,  anzi,  essendo in quel  momento  entrata  Valentina, 
      ricominciarono con lo stesso tono. 
      "Cara  amica"  disse  la  baronessa,  mentre  le  due  ragazze  si 
      prendevano per mano,  "vengo con Eugenia ad annunciarvi per  prima 
      il prossimo matrimonio di mia figlia col principe Cavalcanti." 
      Il  banchiere  democratico  aveva ritenuto che questo titolo stava 
      meglio che quello di conte. 
      "Allora permettete che vi faccia le mie congratulazioni" disse  la 
      signora  Villefort.  "Il  principe Cavalcanti sembra un giovane di 
      rare qualità." 
      "Sentite" disse la baronessa sorridendo,  "per parlare  da  amica, 
      debbo  dirvi  che  il principe non ci sembra ancora quello che può 
      diventare: ha in sé un poco  di  quella  stravaganza,  che  a  noi 
      francesi  fa riconoscere al primo sguardo un gentiluomo italiano o 
      tedesco.  Però sembra  di  buonissimo  cuore,  molta  acutezza  di 
      spirito,  e,  in quanto ad interesse,  il signor Danglars pretende 
      che la sua sostanza sia ragguardevole: questa è la sua parola." 
      "E poi" disse Eugenia,  mentre  sfogliava  l'album  della  signora 
      Villefort,   "aggiungete,   signora,   che  avete  un'inclinazione 
      particolare per questo giovane." 
      "Eh" disse la signora Villefort,  "non ho bisogno di domandarvi se 
      partecipate a questa inclinazione!" 
      "Io?"  rispose  Eugenia  con  la sua solita serietà.  "Oh!  niente 
      affatto signora! La mia propria vocazione non è d'ingolfarmi nelle 
      cure di famiglia e nei capricci  di  un  uomo  qualunque.  La  mia 
      vocazione è di essere artista, e per conseguenza libera nel cuore, 
      nel pensiero e nelle azioni." 
      Eugenia  pronunciò queste parole con accento così vibrato e fermo, 
      che il rossore montò al viso di Valentina.  La timida ragazza  non 
      poteva comprendere questo carattere energico, che non aveva niente 
      in comune con i normali pudori di una donna. 
      "Del resto" continuò, "poiché sono destinata ad essere maritata di 
      buona  o  cattiva voglia,  debbo ringraziare la Provvidenza che mi 
      abbia procurato il disprezzo del  signor  Alberto  Morcerf;  senza 
      questa Provvidenza, oggi sarei la moglie di un uomo disonorato." 
      "E'  purtroppo  vero"  disse  la  baronessa,   con  quella  strana 
      ingenuità che qualche volta si  trova  nelle  grandi  signore,  "è 
      purtroppo vero, senza l'esitazione dei Morcerf, mia figlia avrebbe 
      sposato il signor Alberto.  Il generale ci teneva molto,  era anzi 
      venuto per costringere il signor Danglars a dare la sua  parola... 
      L'abbiamo scampata bella!" 
      "Ma"  disse timidamente Valentina,  "forse l'onta del padre ricade 
      sul figlio?  Il signor Alberto mi sembra innocente di tutti questi 
      tradimenti del generale." 
      "Scusa,  cara  amica"  disse  l'implacabile  ragazza,  "il  signor 
      Alberto domanda e merita la sua parte...  Pare che dopo aver  ieri 
      sera  provocato  Montecristo  all'Opera,  oggi  gli abbia fatto le 
      scuse sul terreno." 
      "Impossibile!" disse la signora Villefort. 
      "Ah, mia cara" soggiunse la signora Danglars, "la cosa è certa, io 
      lo so dal signor Debray che era presente alle spiegazioni." 
      Valentina pure sapeva la verità, ma non rispose. Rientrata per una 
      parola nei suoi affanni,  era già col  pensiero  nella  camera  di 
      Noirtier   ove  Morrel  l'aspettava.   Le  sarebbe  stato  perfino 
      impossibile ripetere ciò  che  aveva  detto  pochi  minuti  prima, 
      quando ad un tratto la mano della signora Danglars,  appoggiandosi 
      sopra il suo braccio, la tolse da quella distrazione. 
      "Che c'è,  signora?" disse  Valentina  rabbrividendo  al  contatto 
      delle dita della signora Danglars. 
      "C'è, mia cara Valentina" disse la baronessa, "che voi state senza 
      dubbio male." 
      "Io?" disse la ragazza passandosi la mano sulla fronte ardente. 
      "Sì,  guardatevi in questo specchio: siete arrossita e impallidita 
      tre o quattro volte nello spazio di un minuto." 
      "Infatti" gridò Eugenia, "sei molto pallida." 
      "Oh, non te ne inquietare, Eugenia, sono così da qualche giorno." 
      E per quanto la ragazza fosse poco astuta, capì che quella era una 
      buona occasione per uscire.  D'altra parte  la  signora  Villefort 
      venne in suo soccorso. 
      "Ritiratevi,  Valentina" disse,  "voi soffrite realmente, e queste 
      signore vorranno perdonarvi: bevete un  bicchiere  d'acqua,  e  vi 
      rimetterà." 
      Valentina  abbracciò  Eugenia,  salutò  la signora Danglars già in 
      piedi per partire,  e  uscì.  "Questa  povera  ragazza"  disse  la 
      signora  Villefort,  quando  Valentina fu scomparsa,  "mi tiene in 
      grandissima pena per la sua salute,  e non mi meraviglierei se  le 
      accadesse qualche grave accidente." 
      Frattanto  Valentina,  con  una  specie  d'esaltazione  di cui non 
      sapeva farsi ragione,  aveva traversata la camera d'Edoardo  senza 
      rispondere  a  un'impertinenza  del ragazzino,  e dalla sua camera 
      aveva raggiunto la scaletta. 
      Aveva già disceso tutti gli scalini, meno gli ultimi tre,  sentiva 
      già  la  voce  di  Morrel,  quando  d'un  tratto una nube le passò 
      davanti agli occhi,  il piede  irrigidito  scivolò,  le  mani  non 
      ebbero  più  forza  per  abbrancarsi  al  cordone,  e  rasente  la 
      ringhiera, rotolò dall'alto dei tre ultimi gradini. 
      Morrel fece un balzo,  aprì la porta,  e trovò Valentina stesa sul 
      pianerottolo.  Rapido come il lampo, l'alzò fra le braccia, e andò 
      a deporla sopra una sedia. 
      Valentina riaprì gli occhi. 
      "Oh, quanto sono maldestra" disse con febbrile volubilità, "non so 
      dunque più tenermi ritta!  Dimenticavo che  vi  sono  tre  scalini 
      prima del pianerottolo." 
      "Vi  siete ferita,  Valentina?" gridò Morrel.  "Oh,  mio Dio!  mio 
      Dio!" 
      Valentina guardò intorno a sé; vide il più profondo spavento negli 
      occhi di Noirtier. 
      "Rassicurati, nonno mio..." disse, sforzandosi di sorridere,  "non 
      è niente, non è niente... Mi è venuto un capogiro, ecco tutto." 
      "Un  altro  capogiro!"  disse  Morrel  giungendo  le  mani.   "Oh, 
      riguardatevi, Valentina, ve ne supplico." 
      "Ma no" disse Valentina,  "ma no,  vi dico che tutto è passato,  e 
      che non è niente.  Ora,  lasciate che vi dia una notizia: fra otto 
      giorni Eugenia si marita,  e fra tre  vi  è  una  specie  di  gran 
      festino,  un  trattenimento  per il fidanzamento.  Noi siamo tutti 
      invitati,  mio padre,  la signora Villefort,  ed  io...  Almeno  a 
      quanto mi è sembrato di capire." 
      "E  quando  avverrà  che  tocchi  a  noi occuparci di questo?  Oh, 
      Valentina,  voi che avete tanto  potere  sul  vostro  buon  nonno, 
      cercate che vi risponda "ben presto"." 
      "Così" domandò Valentina,  "voi contate su di me, per affrettare i 
      tempi o per risvegliare la memoria del buon nonno?" 
      "Sì" gridò Morrel. "Mio Dio, mio Dio, fate presto!  Fino a che voi 
      non  sarete  mia,  Valentina,  mi  sembrerà  sempre  che  possiate 
      sfuggirmi." 
      "Oh!"  disse  Valentina  con  un  moto  nervoso,   "oh!   davvero, 
      Massimiliano,    ostentate    troppa    timidezza    per    essere 
      quell'ufficiale,  quel soldato che dicono non abbia mai conosciuto 
      la paura." 
      E  diede  in  una  risata  stridula  e dolorosa,  le braccia le si 
      torsero e contorsero,  la testa si rovesciò sulla sedia,  e rimase 
      senza moto. 
      Il  grido  di terrore che Dio incatenava sulle labbra di Noirtier, 
      scaturì dallo sguardo.  Morrel  lo  comprese:  bisognava  chiamare 
      soccorso. 
      Il  giovane  si  attaccò  al  campanello;  la  cameriera  che  era 
      nell'appartamento  di  Valentina,   ed  il  domestico  che   aveva 
      sostituito Barrois, accorsero simultaneamente. 
      Valentina  era  così  pallida,  fredda,  e  inanimata,  che  senza 
      ascoltare parola,  assaliti dalla paura  che  vegliava  in  quella 
      maledetta casa, corsero nel corridoio gridando soccorso. 
      La  signora Danglars ed Eugenia uscite in quel momento,  furono in 
      tempo informate della causa di tutto quel gridare. 
      La signora Villefort,  affettando  un  sentimento  materno  e  una 
      compassione  che  non sentiva,  e chiudendo in cuor suo le ferigne 
      intenzioni da vera matrigna, disse alle visitatrici: 
      "Povera ragazza! Ve lo aveva predetto!" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 93. 
                                 CONFESSIONE. 
 
 
      Nello stesso istante si udì la  voce  del  signor  Villefort,  che 
      gridava dal suo studio: 
      "Che cosa è stato?" 
      Morrel consultò con uno sguardo Noirtier,  che aveva ripreso tutta 
      la sua calma,  e con un cenno gli indicò  lo  stanzino,  dove  già 
      altra  volta,   in  circostanza  presso  a  poco  simile,  si  era 
      rifugiato.  Non ebbe che il tempo di prendere  il  cappello  e  di 
      gettarsi  nel  luogo  indicato.  Si  sentivano  già  i  passi  del 
      procuratore nel corridoio. 
      Villefort si precipitò nella camera, corse a Valentina, e la prese 
      fra le sue braccia. 
      "Un medico! un medico! Il signor d'Avrigny!" gridò Villefort.  "Vi 
      andrò io stesso." 
      E si lanciò fuori dall'appartamento. 
      Allora Morrel uscì dallo stanzino, e corse per le scale. Era stato 
      colpito  al  cuore  da  un terribile ricordo.  Il colloquio fra il 
      signor Villefort ed il dottore,  che aveva inteso nel giardino  la 
      notte  in  cui  morì la signora di Saint-Méran,  gli ritornò tutto 
      alla memoria: quei sintomi,  benché ad un grado meno acuto,  erano 
      gli stessi che avevano preceduto la morte di Barrois. Nello stesso 
      tempo  gli  era  sembrato di risentire all'orecchio quella voce di 
      Montecristo: 
      "Di qualunque cosa possiate avere bisogno, venite da me,  io posso 
      molto." 
      Più  rapido  del  pensiero  corse dunque dal Faubourg Saint-Honoré 
      alla rue Matignon,  e dalla Matignon  all'ingresso  degli  Champs- 
      Elysées. 
      Nel frattempo il signor Villefort giunse in calesse alla porta del 
      signor  d'Avrigny,  e  suonò con tanta violenza,  che il portinaio 
      venne ad aprirgli tutto spaventato. 
      Villefort balzò sulle scale  senza  aver  la  forza  di  dire  una 
      parola.  Il  portinaio lo conosceva,  e lo lasciò passare gridando 
      soltanto: 
      "Nel suo studio, signor procuratore, nel suo studio!" 
      Villefort ne spingeva già, anzi sbatteva la porta. 
      "Ah" disse il dottore. "Siete voi?" 
      "Sì" disse Villefort,  richiudendo la porta  dietro  di  sé,  "sì, 
      dottore,  sono  io,  vengo  a chiedervi a mia volta se siamo soli. 
      Dottore, la mia casa è una casa maledetta!" 
      "Cosa dite?" disse questi con apparente freddezza, ma con profonda 
      emozione interna. "Si è ammalato ancora qualcuno?" 
      "Sì,  dottore" gridò Villefort,  afferrandosi  spasmodicamente  un 
      pugno di capelli, "sì!" 
      Lo sguardo di d'Avrigny significava: "Ve lo aveva predetto". 
      Quindi le sue labbra articolarono lentamente queste parole: 
      "Chi sta dunque per morire in casa vostra? e qual nuova vittima va 
      ad accusarvi di debolezza davanti a Dio?" 
      Un doloroso singhiozzo scaturì dal cuore di Villefort, si avvicinò 
      al medico, ed afferrandolo per il braccio: 
      "Valentina!" disse. "Questa è la volta di Valentina." 
      "Vostra figlia?" gridò d'Avrigny preso da dolore e da sorpresa. 
      "Voi  vedete che vi sbagliavate" mormorò il magistrato.  "Venite a 
      vederla è sul suo letto di dolore,  chiedetele  scusa  dei  vostri 
      sospetti." 
      "Ogni qualvolta mi avete chiamato" disse il signor d'Avrigny, "era 
      sempre  troppo  tardi...  Non  importa,  vengo,  ma affrettiamoci, 
      signore: coi nemici di casa vostra non vi è tempo da perdere." 
      "Oh,  questa volta,  dottore,  non mi rimprovererete  più  la  mia 
      debolezza. Questa volta riconoscerò l'assassino, e lo colpirò!" 
      "Tentiamo prima di salvare la vittima, poi penseremo a vendicarla" 
      disse d'Avrigny. "Venite!" 
      E  il  calesse  che aveva condotto Villefort lo ricondusse al gran 
      trotto col signor d'Avrigny,  nello stesso  tempo  in  cui  Morrel 
      batteva al portone del conte di Montecristo. 
      Questi era nel suo studio,  e molto pensieroso,  leggeva un foglio 
      inviatogli da Bertuccio in tutta fretta. 
      Molte cose erano passate in quelle due ore,  tanto per  il  conte, 
      che  per  il giovane,  e questi,  dopo averlo lasciato col sorriso 
      sulle labbra, adesso ritornava col viso tutto sconvolto.  Si alzò, 
      e corse incontro a Morrel. 
      "Che cosa c'è dunque, Massimiliano?" gli domandò. "Siete pallido e 
      la vostra fronte è madida di sudore." 
      Morrel cadde sopra una sedia. 
      "Sì" disse, "sono venuto in fretta, ho bisogno di parlarvi." 
      "Stanno  tutti  bene  in  casa  vostra?"  domandò il conte con una 
      affettuosa benevolenza sulla cui sincerità nessuno avrebbe  potuto 
      ingannarsi. 
      "Grazie, conte, grazie" disse il giovane, imbarazzato visibilmente 
      nell'intavolare  il  discorso,  "sì,  nella  famiglia tutti stanno 
      bene." 
      "Però avete qualche cosa da dirmi?" riprese il  conte  sempre  più 
      inquieto. 
      "Sì"  disse  Morrel,  "è vero,  esco da una casa dove è entrata la 
      morte, e sono corso da voi." 
      "Uscite forse dalla casa del signor Morcerf?" domandò Montecristo. 
      "No" disse Morrel. 
      "E' morto qualcuno in casa del signor Morcerf?" 
      "Il  generale  si  è  sparato  alla  testa"  rispose   freddamente 
      Montecristo. 
      "Oh, disgrazia orribile!" gridò Massimiliano. 
      "Non però per la contessa,  né per Alberto" disse Montecristo. "E' 
      meglio un padre ed uno sposo morto,  che  un  padre  e  uno  sposo 
      disonorato: il sangue laverà l'infamia." 
      "Povera contessa!" disse Massimiliano. "Compiango lei soprattutto, 
      una donna così nobile!" 
      "Compiangete  pure Alberto,  Massimiliano,  poiché,  credetelo,  è 
      degno della contessa.  Ma ritorniamo  a  voi...  Avete  detto  che 
      correvate da me: sarei così fortunato che avreste bisogno di me?" 
      "Sì,  ho bisogno di voi, cioè sono corso come insensato per vedere 
      se mi potete portar soccorso in una circostanza in  cui  Dio  solo 
      può soccorrermi." 
      "Dite pure" rispose Montecristo. 
      "In verità" disse Morrel,  "non so se mi è permesso di rivelare un 
      tal segreto ad orecchie  umane,  ma  la  fatalità  mi  spinge,  la 
      necessità mi costringe, conte..." 
      Morrel si fermò esitando. 
      "Credete   che   io   vi   ami?"   disse  Montecristo,   prendendo 
      affettuosamente la mano del giovane fra le sue. 
      "Oh,  voi mi incoraggiate!  E poiché qualche cosa  mi  dice,  qui" 
      Morrel pose la mano sul cuore,  "che io non debba aver segreti per 
      voi..." 
      "Avete ragione, Morrel, Dio vi parla al cuore,  e il cuore parla a 
      voi... Ditemi che cosa vi dice il cuore." 
      "Conte,  volete  permettermi di inviare Battistino a domandare per 
      parte vostra notizie di una persona che conoscete?" 
      "Ho messo me a vostra disposizione,  a più forte ragione disponete 
      dei miei domestici." 
      "Il  motivo  è  che  non mi parrà di vivere fin tanto che non sarò 
      certo che lei sta meglio." 
      "Volete che chiami Battistino?" 
      "No, vado a parlargli io stesso." 
      Morrel uscì,  e chiamato Battistino,  gli disse  alcune  parole  a 
      bassa voce. Il cameriere partì correndo. 
      "Ebbene,   è  fatto?"  domandò  Montecristo,  vedendo  ricomparire 
      Morrel. 
      "Sì, e sono un po' più tranquillo." 
      "Voi sapete che aspetto" disse Montecristo sorridendo. 
      "Sì, ed io parlo. Ascoltate. Una sera io mi trovavo in un giardino 
      nascosto dietro un  gruppo  di  alberi;  nessuno  pensava  che  io 
      potessi esser là.  Due persone mi passarono vicino, permettete che 
      per ora vi taccia i nomi.  Parlavano  a  bassa  voce,  eppure  non 
      perdetti  una  delle  loro  parole  tanto  mi  premeva  quel  loro 
      colloquio." 
      "E' un esordio molto lugubre a giudicare dal vostro pallore e  dal 
      vostro fremito, Morrel." 
      "Oh,  sì, molto lugubre, amico mio: era morto qualcuno in casa del 
      padrone del giardino dove mi trovavo...  Uno dei due personaggi di 
      cui ascoltavo il discorso,  era il padrone del giardino, e l'altro 
      un medico...  Ora il primo confidava al secondo i suoi timori ed i 
      suoi dolori,  poiché questa era la seconda volta in un mese che la 
      morte piombava rapida ed imprevista in  casa  sua,  e  si  credeva 
      designata a qualche angelo sterminatore la collera di Dio." 
      "Ah" disse Montecristo, guardando fissamente il giovane, e girando 
      la  seggiola,   con  moto  impercettibile,  in  modo  da  situarsi 
      nell'ombra mentre la luce cadeva sul viso di Massimiliano. 
      "Sì" continuò questi,  "la morte era entrata due volte  in  quella 
      casa in meno di un mese." 
      "E che cosa rispondeva il dottore?" domandò Montecristo. 
      "Rispondeva... rispondeva che quella morte non era naturale, e che 
      bisognava attribuirla..." 
      "A che?" 
      "A veleno!" 
      "Davvero?"  disse Montecristo,  con quella tosse leggera che,  nei 
      momenti di  somma  emozione,  gli  serviva  a  mascherare  sia  il 
      rossore,   sia  il  pallore,   sia  l'attenzione  stessa  con  cui 
      ascoltava, "davvero, Massimiliano, voi avete sentito tali cose?" 
      "Sì, caro conte, le ho sentite,  e il dottore aggiungeva che se si 
      fossero  rinnovati  simili  avvenimenti,  si credeva in obbligo di 
      appellarsi alla giustizia." 
      Montecristo ascoltava,  o sembrava  ascoltare,  con  la  più  gran 
      calma. 
      "Ebbene" disse Massimiliano, "la morte ha colpito una terza volta, 
      conte, e a che cosa credete che mi impegni la conoscenza di questo 
      segreto?" 
      "Mio  caro  amico"  disse Montecristo,  "mi sembra che raccontiate 
      un'avventura che ciascuno di noi sa a  memoria.  La  casa  in  cui 
      avete sentito questo discorso,  io la conosco, una casa in cui c'è 
      un giardino,  un padre di famiglia un dottore,  una casa in cui ci 
      sono state tre strane morti ed inattese.  Ebbene,  guardatemi,  io 
      che non ho ascoltato alcuna confidenza, e tuttavia so tutto questo 
      al pari di voi,  ho forse scrupoli di coscienza?  No,  ciò non  mi 
      riguarda.  Voi  dite  che  un  angelo  sterminatore sembra offrire 
      questa casa alla collera del Signore... Ebbene, chi vi dice che la 
      vostra supposizione non sia una realtà?  Se è la giustizia,  e non 
      la collera di Dio che passa su quella casa,  Massimiliano, voltate 
      la testa, e lasciate passare la giustizia di Dio." 
      Morrel fremette.  Vi era qualche cosa ad un tempo di  lugubre,  di 
      solenne e di terribile negli accenti del conte. 
      "D'altra  parte"  continuò  egli,  con un cambiamento di voce così 
      marcato che si sarebbe detto non uscisse dalla bocca dello  stesso 
      uomo, "chi vi dice che questo abbia di nuovo a succedere?" 
      "E succede infatti,  conte" gridò Morrel, "ed ecco perché corro da 
      voi." 
      "Che cosa volete che ci faccia, Morrel? Vorreste che avvertissi il 
      procuratore?" 
      Montecristo articolò queste ultime parole  con  una  chiarezza  ed 
      accento così vibrato, che Morrel, alzandosi d'un tratto, gridò: 
      "Conte conte voi sapete di che cosa voglio parlarvi, non è vero?" 
      "Sì,  mio  buon  amico,  e ve lo proverò mettendo i punti sulle i, 
      cioè dando un nome a quegli uomini.  Voi siete stato a passeggiare 
      una  sera  nel  giardino del signor Villefort;  da quanto mi dite, 
      presumo fosse la sera in cui morì la signora di Saint-Méran. Avete 
      sentito il signor Villefort parlare  col  signor  d'Avrigny  della 
      morte  del signor di Saint-Méran e di quella non meno meravigliosa 
      della baronessa.  Il signor d'Avrigny  diceva  di  credere  ad  un 
      avvelenamento  ed  anzi  a  due avvelenamenti,  ed ecco voi,  uomo 
      onesto  per  eccellenza,   eccovi  da  quel  momento  occupato   a 
      scandagliare  il  vostro  cuore,  a  gettare la sonda nella vostra 
      coscienza per sapere se  dovete  rivelare  questo  segreto  oppure 
      tacerlo.  Non siamo più nel medio evo, caro amico, non vi sono più 
      i giudici franchi...  Che diavolo volete domandare a queste genti? 
      "Coscienza,  che vuoi tu da me?", come disse Sterne. Eh! mio caro, 
      lasciateli dormire, se dormono, e per l'amor di Dio, dormite anche 
      voi, che non avete rimorsi che v'impediscono di poter dormire." 
      Un orribile dolore si  diffuse  sui  lineamenti  di  Morrel,  egli 
      afferrò la mano di Montecristo. 
      "Ma si uccide ancora, vi dico." 
      "Ebbene"  disse il conte,  meravigliato di questa insistenza,  che 
      non capiva,  e guardando Massimiliano più attentamente,  "lasciate 
      che uccidano!  E' una famiglia di Atridi: Dio li ha condannati, ed 
      essi  subiranno  la  sentenza,  scompariranno  tutti  come  quelle 
      casette  fabbricate dai bambini con le carte da gioco,  che cadono 
      le une dopo le altre sotto il soffio  del  loro  creatore,  ve  ne 
      fossero  anche  duecento.  Tre  mesi  fa toccò al signor di Saint- 
      Méran,  due mesi fa a sua moglie,  l'altro giorno a Barrois,  oggi 
      toccherà al vecchio Noirtier o alla giovane Valentina." 
      "Voi lo sapevate?" gridò Morrel,  in tal parossismo di terrore che 
      Montecristo ne rabbrividì,  lui che  sarebbe  rimasto  impassibile 
      quand'anche avesse veduto cadere il cielo, "voi lo sapevate, e non 
      dicevate niente?" 
      "E che m'importa?" riprese Montecristo, stringendosi nelle spalle: 
      "conosco forse quella gente?  C'è forse ragione che io salvi l'uno 
      per perdere l'altro? In fede mia no,  poiché fra il colpevole e la 
      vittima non ho alcuna preferenza." 
      "Ma io, io" gridò Morrel, urlando dal dolore, "io l'amo!" 
      "Voi  amate,   chi?"  gridò  Montecristo,  balzando  in  piedi,  e 
      afferrando le due mani che Morrel alzava verso il cielo. 
      "Io amo perdutamente,  io amo da insensato,  io amo come uomo  che 
      darebbe  tutto il suo sangue per risparmiarle una lacrima,  io amo 
      Valentina Villefort,  che è  assassinata  in  questo  momento!  Mi 
      capite  bene?  Io  l'amo,  e domando a Dio ed a voi,  in qual modo 
      salvarla!" 
      Montecristo mandò un grido  così  selvaggio,  da  farsene  un'idea 
      appena chi abbia sentito ruggire il leone ferito. 
      "Infelice!" gridò,  torcendosi a sua volta le mani,  "infelice! tu 
      ami Valentina! tu ami questa figlia di razza maledetta!" 
      Morrel non aveva mai veduto simile espressione, né mai aveva visto 
      un occhio così terribile. Il genio del terrore, da lui visto tante 
      volte  sia  sui  campi  di  battaglia,  sia  nelle  notti  omicide 
      d'Algeria, non aveva mai scosso davanti a lui fuochi più sinistri. 
      Arretrò  spaventato.  In  quanto  a Montecristo,  dopo questo moto 
      istintivo chiuse un momento gli occhi,  come abbagliato  da  lampi 
      interni,  e  si  raccolse con tanta forza,  che si vedeva a poco a 
      poco placarsi il petto,  gonfio dalla interna  tempesta,  come  si 
      vede  dopo  la  burrasca  calmarsi sotto i raggi del sole i flutti 
      turbolenti o schiumeggianti.  Quel silenzio,  quel  raccoglimento, 
      quella lotta durarono venti secondi circa.  Quindi il conte rialzò 
      la pallida fronte. 
      "Voi vedete" disse,  con voce appena alterata,  "vedete  mio  caro 
      amico  in  qual  modo  Dio  sa  punire della loro indifferenza gli 
      uomini più fanfaroni e più freddi davanti ai terribili  spettacoli 
      che loro si offrono. Io spettatore impassibile e curioso, guardavo 
      lo  sviluppo  di questa lugubre tragedia,  e simile all'angelo del 
      male,  ridevo del male che fanno  gli  uomini,  sicuro  dietro  il 
      segreto  (il  segreto  è  facile  a  custodirsi  dai  ricchi e dai 
      potenti),  ed ecco che,  a mia volta,  mi sento  morso  da  questo 
      serpente di cui spiavo la marcia tortuosa, e morso al cuore." 
      Morrel mandò un sordo gemito. 
      "Orsù" continuò il conte,  "tregua al pianto,  siate uomo, forte e 
      pieno di speranza; veglio su di voi." 
      Morrel scosse tristemente la testa. 
      "Io vi dico di sperare,  mi capite?" gridò Montecristo.  "Sappiate 
      che  non  ho  mai  mentito  e che non sbaglio mai.  E' mezzogiorno 
      Massimiliano...   Ringraziate  il  cielo  di   essere   venuto   a 
      mezzogiorno  invece  di venire questa sera o domattina.  Ascoltate 
      dunque quanto sto per dirvi,  Morrel,  è mezzogiorno se  Valentina 
      non è morta a quest'ora, non morrà più." 
      "Oh mio Dio" gridò Morrel, "io l'ho lasciata moribonda." 
      Montecristo  si  appoggiò una mano sulla fronte.  Che cosa pensava 
      quella testa carica  di  segreti?  Che  cosa  dicevano,  a  quello 
      spirito implacabile ed umano,  l'angelo luminoso, o l'angelo delle 
      tenebre? Dio solo lo sa. 
      Montecristo rialzò la fronte un'altra volta,  e questa  volta  era 
      serena come quella di un bimbo che si sveglia. 
      "Massimiliano"  disse,  "ritornate  tranquillamente a casa vostra, 
      non fate nulla,  né lasciate fluttuare sul vostro  viso  ombra  di 
      preoccupazione, io vi darò le notizie, andate..." 
      "Mio Dio" disse Morrel,  "voi mi spaventate,  conte,  colla vostra 
      imperturbabilità.  Potete dunque agire contro la morte?  Siete voi 
      più di un uomo? Siete un demone?" 
      E  il  giovane,  che  non  aveva  mai  arretrato  davanti ad alcun 
      pericolo, arretrava di fronte a Montecristo,  vinto da invincibile 
      terrore. Montecristo lo guardò con un sorriso malinconico e dolce, 
      Massimiliano sentì spuntare le lacrime agli occhi. 
      "Io posso molto,  amico mio" rispose il conte. "Andate, ho bisogno 
      di restar solo." 
      Morrel,  soggiogato da quel prodigioso ascendente che  Montecristo 
      esercitava su tutti,  non cercò neppure di sottrarvisi,  e stretta 
      la mano del conte,  partì.  Alla  porta  si  fermò  per  aspettare 
      Battistino, che vide comparire dal fondo della rue Matignon, e che 
      ritornava correndo. 
      Frattanto  Villefort  e  d'Avrigny  si  erano affrettati.  Al loro 
      ritorno Valentina era ancora svenuta,  e il medico aveva esaminato 
      l'ammalata con la massima cura, e con attenzione raddoppiate dalla 
      conoscenza  del segreto.  Villefort,  sospeso alle sue labbra e al 
      suo  sguardo,   aspettava  con  ansia  il  risultato   dell'esame. 
      Noirtier,  più  pallido  della ragazza,  più ansioso di sapere che 
      Villefort stesso, aspettava egli pure. Finalmente d'Avrigny lasciò 
      sfuggirsi lentamente queste parole: "Vive ancora". 
      "Ancora?" gridò Villefort.  "Oh,  dottore,  che  terribile  parola 
      avete pronunziata!" 
      "Sì" disse il medico, "ripeto la mia frase: vive ancora, e ne sono 
      ben sorpreso." 
      "Ma è salva?" domandò il padre. 
      "Sì, poiché vive." 
      In  quel  momento  lo  sguardo di d'Avrigny s'imbatté in quello di 
      Noirtier che scintillava di gioia straordinaria,  di  un  pensiero 
      talmente  tenero  e  affettuoso,  che il medico ne rimase colpito. 
      Fece riadagiare sulla seggiola la ragazza, le cui labbra appena si 
      distinguevano,  tanto erano pallide e bianche,  e stette  immobile 
      guardando Noirtier, dal quale ogni moto del dottore era atteso con 
      ansia. 
      "Signore"  disse  allora  d'Avrigny  a  Villefort,   "chiamate  la 
      cameriera della signorina Valentina, per favore." 
      Villefort corse egli stesso a chiamare la cameriera. 
      Appena Villefort ebbe chiusa la porta,  d'Avrigny  si  accostò  al 
      vecchio: 
      "Avete qualche cosa da dirmi?" domandò. 
      Il  vecchio  strinse  gli  occhi  nel  modo espressivo con cui era 
      solito esprimere una conferma. 
      "A me solo?" 
      Noirtier fece un segno di sì. 
      "Bene, resterò con voi." 
      In quel momento Villefort rientrò, seguito dalla cameriera; dietro 
      la cameriera veniva la signora Villefort. 
      "Ma che cosa ha dunque questa cara fanciulla?" gridò lei. "Uscendo 
      dalle mie camere,  si è lamentata di  essere  indisposta,  ma  non 
      avrei creduto che fosse cosa così seria." 
      E  la  giovane  sposa,  colle  lacrime  agli occhi e tutti i segni 
      dell'affezione di una vera madre, si avvicinò a Valentina,  di cui 
      prese la mano.  D'Avrigny continuava a guardare Noirtier: vide gli 
      occhi del vecchio dilatarsi e  farsi  minacciosi,  le  sue  guance 
      tendersi e tremare, il sudore colare dalla fronte. 
      "Ah"  esclamò  involontariamente,   seguendo  la  direzione  degli 
      sguardi di Noirtier,  cioè fissando gli  occhi  sopra  la  signora 
      Villefort, che ripeteva: 
      "Questa povera ragazza starà meglio nel suo letto.  Venite, Fanny, 
      noi ve l'adageremo." 
      Il signor d'Avrigny che vedeva in quella  proposta  un  mezzo  per 
      restare  solo con Noirtier,  fece segno colla testa che questo era 
      effettivamente quanto c'era di meglio da fare,  ma ordinò che  non 
      le fosse dato nient'altro che quello che avesse ordinato. 
      Fu trasportata Valentina, che aveva recuperato l'uso dei sensi, ma 
      incapace  di  agire e quasi di parlare,  tanto le sue membra erano 
      infrante dalla scossa subita.  Però ebbe la forza di salutare  con 
      uno  sguardo  il  nonno,  a  cui sembrava strappassero l'anima nel 
      vederla portar via. 
      D'Avrigny seguì l'ammalata, terminò le sue prescrizioni,  e ordinò 
      a  Villefort  di  prendere  un  calesse,  e  andare di persona dal 
      farmacista per far preparare in sua presenza le pozioni  ordinate, 
      riportarle  lui  stesso  ed aspettarlo nella camera di sua figlia. 
      Quindi,  dopo aver rinnovata l'ingiunzione di non lasciar prendere 
      niente a Valentina, ridiscese da Noirtier, chiuse accuratamente le 
      porte, e dopo essersi assicurato che nessuno lo ascoltava: 
      "Vediamo"  disse,   "sapete  qualcosa  sulla  malattia  di  vostra 
      nipote." 
      Il vecchio fece segno di sì. 
      "Ascoltate,  non abbiamo tempo da perdere,  io vi interrogherò,  e 
      voi mi risponderete." 
      Noirtier fece segno ch'era pronto a rispondere. 
      "Avevate previsto il male che oggi colpisce Valentina?" 
      "Sì." 
      D'Avrigny rifletté un istante, poi riavvicinandosi a Noirtier: 
      "Perdonate  ciò che sto per dirvi" soggiunse,  "ma non deve essere 
      trascurato nessun indizio nella situazione terribile in cui siamo. 
      Avete visto morire il povero Barrois?" 
      Noirtier levò gli occhi al cielo. 
      "Sapete di che cosa è morto?" domandò d'Avrigny,  posando la  mano 
      sulla spalla del vecchio. 
      Il vecchio accennò di sì. 
      "Credete voi che la sua morte sia stata naturale?" 
      Le inerti labbra di Noirtier si atteggiarono come ad un sorriso. 
      "Allora  vi  è  venuta  l'idea  che  Barrois sia stato avvelenato! 
      Credete che il veleno di cui  rimase  vittima  fosse  destinato  a 
      lui?" 
      Il vecchio accennò di no. 
      "Ora credete che la stessa mano che colpì Barrois, volendo colpire 
      un altro, sia oggi quella che colpisce Valentina?" 
      "Sì." 
      "Lei  dunque  soccomberà  nello  stesso  modo?"  domandò d'Avrigny 
      fissando lo sguardo sopra Noirtier.  E aspettò l'effetto di questa 
      frase sul vecchio. 
      "No!"  rispose con un'aria di trionfo,  che avrebbe potuto stupire 
      il più abile indovino. 
      "Allora voi sperate?" disse d'Avrigny con sorpresa. 
      "Sì." 
      "Che cosa sperate?" 
      Il vecchio fece comprendere cogli occhi che non poteva rispondere. 
      "Ah, si, è vero" mormorò d'Avrigny. 
      Quindi a Noirtier: 
      "Voi sperate che l'assassino si stancherà?" 
      "No." 
      "O che il veleno non farà il suo effetto su Valentina?" 
      "Sì." 
      "Poiché non vi rivelo una novità,  non è vero" aggiunse d'Avrigny, 
      "dicendovi che si è tentato di avvelenarla?" 
      Il  vecchio fece segno con gli occhi che non aveva alcun dubbio su 
      questo argomento. 
      "Allora come sperate che Valentina possa salvarsi?" 
      Noirtier tenne  allora  gli  sguardi  sempre  fissi  nella  stessa 
      direzione.  D'Avrigny seguì questa direzione,  e vide che guardava 
      una bottiglia contenente la pozione che gli veniva data  tutte  le 
      mattine. 
      "Ah!"  disse  d'Avrigny,  colpito da una subitanea idea.  "Avreste 
      avuto il pensiero?..." 
      Noirtier non lo lasciò terminare e fece subito cenno di sì. 
      "Di premunirla contro il veleno?..." 
      "Sì." 
      "Abituandola a poco a poco..." 
      "Sì, sì, sì" fece Noirtier lietissimo d'essere capito. 
      "Infatti,  mi avete sentito dire che entrava della brucnina  nella 
      pozione che vi do?" 
      "Sì." 
      "E  abituandola  a  questo  veleno  avete voluto neutralizzare gli 
      effetti di un veleno simile?" 
      La stessa gioia trionfante di Noirtier. 
      "Ci siete  arrivato  di  fatto"  gridò  d'Avrigny.  "Senza  questa 
      precauzione   Valentina   oggi   sarebbe   stata  uccisa,   uccisa 
      irrimediabilmente,  e  senza  misericordia;   la  scossa  è  stata 
      violenta, ma non è rimasta che spossata, e per questa volta almeno 
      Valentina non morrà." 
      Una   gioia  sovrumana  appannava  gli  occhi  del  vecchio,   con 
      espressione d'infinita riconoscenza. 
      In questo momento entrò Villefort. 
      "Prendete, dottore, ecco quanto avete ordinato." 
      "Questa pozione è stata preparata in vostra presenza?" 
      "Sì" rispose il procuratore. 
      "Non è stata in altre mani?" 
      "No." 
      D'Avrigny prese la bottiglia,  versò nel cavo della  mano  qualche 
      goccia del beveraggio che conteneva, e l'assaporò. 
      "Bene"  disse,  "andiamo  da  Valentina,  darò le mie istruzioni a 
      tutti, e sorveglierete voi stesso signor Villefort, perché vengano 
      rispettate." 
      Nel momento in cui d'Avrigny entrava  nella  camera  di  Valentina 
      accompagnato  dal  signor Villefort,  un prete italiano di aspetto 
      severo con parole calme e decise,  prendeva a pigione per suo  uso 
      la  casa  attigua al palazzo abitato dal signor Villefort.  Non si 
      poté sapere  per  qual  motivo  i  tre  locatari  di  quella  casa 
      sgombrarono due ore dopo,  ma nel quartiere corse voce che la casa 
      non fosse abbastanza sicura nelle sue fondamenta e minacciasse  di 
      rovinare;   il  che,  però,  non  impedì  al  nuovo  locatario  di 
      stabilirvisi col suo modesto mobilio,  il giorno stesso  verso  le 
      cinque.  L'affitto  fu  deciso per tre,  sei e nove anni col nuovo 
      locatario,  che secondo l'abitudine stabilita fra  i  proprietari, 
      pagò  sei  mesi  anticipati.  Questo  nuovo locatario,  che,  come 
      abbiamo detto,  era italiano,  si chiamava Giacomo Busoni.  Furono 
      immediatamente  chiamati  gli  operai  e  la  notte stessa i pochi 
      passeggeri che passarono per  di  là  in  ora  tarda,  videro  con 
      sorpresa  i  falegnami  e i muratori occupati a puntellare la casa 
      vacillante. 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 94. 
                               PADRE E FIGLIA. 
 
 
      Nel precedente capitolo abbiamo veduto la signora Danglars  venire 
      ad  annunciare  ufficialmente  alla  signora Villefort il prossimo 
      matrimonio della signorina  Eugenia  Danglars  col  signor  Andrea 
      Cavalcanti.  Quell'annunzio  ufficiale,  che  indicava  o sembrava 
      indicare una decisione presa da tutte le parti interessate a  quel 
      grande  affare,  era  però  stato  preceduto da una scena,  di cui 
      dobbiamo render conto ai nostri lettori.  Li pregheremo dunque  di 
      fare  un  passo  indietro  sino  alla  mattina stessa delle grandi 
      catastrofi,   in  quel  salotto  dorato  che  già  abbiamo   fatto 
      conoscere,  e  che era l'orgoglio del suo proprietario,  il barone 
      Danglars. 
      In quel salotto,  verso  le  dieci  del  mattino,  passeggiava  da 
      qualche minuto,  pensieroso e visibilmente agitato,  il banchiere, 
      guardando a ciascuna porta, e fermandosi ad ogni rumore.  Com'ebbe 
      esaurita la sua pazienza, chiamò il cameriere. 
      "Stefano"  gli  disse,  "andate  a chiedere alla signorina Eugenia 
      perché mi ha pregato di aspettarla in questo salotto, e sappiatemi 
      dire perché mi fa aspettare tanto tempo." 
      Dopo questa sbuffata d'impazienza,  il barone riprese  un  po'  di 
      calma. 
      La  signorina  Danglars,  al  suo  risveglio,  aveva infatti fatto 
      chiedere una udienza a suo padre,  e aveva scelto il  salotto  per 
      quella udienza. La singolarità di tale capriccio, e soprattutto il 
      suo  carattere  ufficiale,  avevano un poco sorpreso il banchiere, 
      che aveva  immediatamente  obbedito  ai  desideri  di  sua  figlia 
      entrando per primo nel salotto. 
      Stefano ritornò ben presto dalla sua ambasciata. 
      "La  cameriera" disse,  "mi ha riferito che la signorina finiva la 
      sua toilette, e non avrebbe tardato molto a giungere." 
      Danglars  fece  un  segno  con  la  testa,   indicando   che   era 
      soddisfatto.  Danglars  in  società,  e  persino con le persone di 
      servizio, affettava bonomia,  e modi di padre affettuoso e debole; 
      era  un  brano  della  parte  che  si  era  imposta nella commedia 
      popolare   che   rappresentava.    Affrettiamoci   a   dire   che, 
      nell'intimità, la maggior parte delle volte, la bonomia scompariva 
      per dar posto al marito brutale ed al padre tiranno. 
      "Per  quale  motivo,  questa  pazza,  che  pretende  di  parlarmi" 
      mormorava  Danglars,   "non  viene  nel  mio  studio,   e   perché 
      soprattutto vuole parlarmi?" 
      E  rimuginava  per  la ventesima volta questo pensiero inquietante 
      nel suo cervello,  quando si aprì la  porta  e  comparve  Eugenia, 
      vestita  di  seta  nera  broccata  con  fiori pallidi dello stesso 
      colore,  coi capelli acconciati,  e coi guanti,  come se si  fosse 
      trattato d'andare al teatro italiano. 
      "Ebbene,  Eugenia,  che  novità?"  chiese il padre.  "E perché nel 
      salotto mentre si sta ugualmente bene nel mio studio?" 
      "Avete ragione,  signore" rispose Eugenia,  facendo  segno  a  suo 
      padre che poteva sedersi,  "voi ponete già le due domande,  in cui 
      si riassume tutto il colloquio che avremo. Io dunque risponderò ad 
      entrambe,  e,  contro le  leggi  dell'abitudine,  comincerò  dalla 
      seconda  come  più semplice.  Ho scelto il salotto,  signore,  per 
      luogo d'appuntamento,  al fine d'evitare le impressioni sgradevoli 
      e gli influssi dello studio di un banchiere.  Quei libri di cassa, 
      per quanto siano ben dorati, quei cassetti chiusi come le porte di 
      una fortezza,  quelle masse di biglietti di banca che vengono  non 
      si   sa  da  dove,   e  quella  quantità  di  lettere  provenienti 
      dall'Inghilterra, dall'Olanda,  dalla Spagna,  dalle Indie,  dalla 
      Cina e dal Perù, in generale agiscono stranamente sullo spirito di 
      un padre,  e gli fanno dimenticare che nel mondo vi è un interesse 
      più  grande  e  più  sacro  di  quello  dello  stato   sociale   e 
      dell'opinione  dei suoi committenti...  Ho dunque preferito questo 
      salotto  dove  vedete,   sorridenti  e  felici  nei  loro   quadri 
      magnifici,  il  vostro ritratto,  il mio,  quello di mia madre,  e 
      molte specie di paesaggi villerecci e pastorali che inteneriscono. 
      Io mi fido molto del potere delle  impressioni  esterne.  Forse  a 
      vostro riguardo,  particolarmente,  io m'inganno... Ma che volete? 
      Non sarei artista se non mi restasse qualche illusione." 
      "Benissimo" disse il signor Danglars,  che aveva  ascoltata  tutta 
      questa  tiritera  con  imperturbabilità,   ma  senza  comprenderne 
      parola, assorto com'era nel cercare il filo di una causa qualsiasi 
      alla richiesta dell'interlocutrice. 
      "Ecco dunque il  secondo  punto  spiegato,  o  pressappoco"  disse 
      Eugenia,  senza  il  minimo  turbamento  e con quella sostenutezza 
      maschile che caratterizzava il suo gesto e la sua parola,  "e  voi 
      mi sembrate contento della spiegazione.  Ora veniamo al primo: voi 
      mi chiedete perché vi ho chiesta questa udienza...  Ve lo dirò  in 
      due  parole,  signore,  eccole: non voglio sposare il conte Andrea 
      Cavalcanti." 
      Danglars fece un salto sulla sedia,  e per la scossa  alzò  ad  un 
      tempo braccia ed occhi al cielo. 
      "Mio Dio,  sì, signore" continuò Eugenia, sempre ugualmente calma. 
      "Voi ne siete meravigliato,  vedo bene,  poiché finora non ho  mai 
      manifestata la più piccola opposizione, certa al momento opportuno 
      d'opporre  alle persone che non mi hanno consultato,  ed alle cose 
      che mi sono dispiaciute,  una  volontà  ferma  ed  assoluta.  Però 
      stavolta,  la  tranquillità la passività,  come dicono i filosofi, 
      veniva da altra sorgente, veniva da questo che,  figlia sottomessa 
      e affezionata..." un leggero sorriso apparve sulle labbra purpuree 
      della ragazza, "io volevo cedere all'obbedienza." 
      "Ebbene?" domandò Danglars. 
      "Ebbene, signore" riprese Eugenia, "ho provato fino all'ultimo, ma 
      ora che è giunto il momento,  malgrado tutti gli sforzi,  mi sento 
      incapace di obbedire." 
      "Ma infine" disse Danglars,  che sembrava dapprima preoccupato dal 
      peso  di  quell'implacabile  logica,  la cui flemma accusava tanta 
      premeditazione e forza di volontà,  "qual è la ragione  di  questo 
      rifiuto, Eugenia?" 
      "La  ragione" replicò la ragazza,  "oh,  mio Dio,  non è perché il 
      signor Andrea Cavalcanti sia brutto, stolido o sgradevole, no, può 
      anzi essere stimato un partito.  Non è neppure perché il mio cuore 
      sia  stato preso meno da lui che da altri;  sarebbe una ragione da 
      ragazzina  di  collegio...   Io  non  amo  assolutamente  nessuno, 
      signore! Voi lo sapete bene, è vero? Non vedo dunque perché, senza 
      un'assoluta   necessità,   mi  dovrei  legare  eternamente  ad  un 
      compagno.  Il saggio non ha detto: "Niente di troppo",  e  altrove 
      "Porta  tutto  con te stesso"?  Mi si sono fatti apprendere questi 
      due aforismi in latino ed in greco,  l'uno,  io credo è di  Fedro, 
      l'altro di Biante.  Ebbene, caro padre, nel naufragio eterno delle 
      nostre speranze,  getto in mare tutto quanto ho di inutile nel mio 
      bagaglio,   e  resto  con  la  mia  volontà,   disposta  a  vivere 
      perfettamente sola, e per conseguenza perfettamente libera." 
      "Disgraziata! disgraziata" mormorò Danglars, impallidendo,  poiché 
      conosceva  per  lunga  esperienza  la solidità dell'ostacolo,  che 
      d'improvviso incontrava. 
      "Disgraziata?" riprese Eugenia. "Disgraziata dite, signore? Ma no, 
      davvero, l'esclamazione mi sembra affettata e teatrale. Felice, al 
      contrario,  poiché io vi domando: che cosa mi manca?  Il mondo  mi 
      trova bella,  è già qualche cosa... Amo le buone accoglienze, esse 
      rallegrano il viso,  e quelli che mi circonderanno mi  sembreranno 
      allora  meno  brutti...  Sono dotata di un po' di spirito e di una 
      certa sensibilità che mi permette di  trarre  dall'esistenza,  per 
      farlo entrare nella mia vita,  ciò che vi trova di buono,  come fa 
      la  scimmia  quando  rompe  la  noce  verde  per  cavare  ciò  che 
      contiene...  Sono  ricca,  poiché  voi  avete  uno  dei più grossi 
      patrimoni di Francia,  perché sono figlia unica,  e voi non  siete 
      tenace  al punto che lo sono i padri del quartiere di Saint-Martin 
      e della Gaité che diseredano le figlie  perché  non  vogliono  dar 
      loro  nipoti;  d'altra  parte  la  legge previdente vi ha tolto il 
      diritto di diseredarmi, almeno del tutto, come vi toglie il potere 
      di costringermi a sposare un signor tale o tal altro. Quindi se io 
      sono bella,  spiritosa,  adorna di qualche talento,  come si  dice 
      all'opera comica, e ricca, il che è vera felicità, signore, perché 
      mi chiamate disgraziata?" 
      Danglars,   vedendo   sua  figlia  sorridente  e  orgogliosa  fino 
      all'insolenza,  non poté reprimere un movimento di furore  che  si 
      tradì  con  un  rantolo;  ma  sotto  lo  sguardo indagatore di sua 
      figlia,  vedendo le sopracciglia nere corrugate,  si calmò,  e per 
      darsi contegno si mise a sfogliare un album. 
      "Infatti,  figlia  mia"  rispose  con  un sorriso,  "siete come vi 
      vantate di essere,  tranne una sola cosa,  figlia mia,  né  voglio 
      dirvi quale, desidero piuttosto lasciarvela indovinare." 
      Eugenia guardò Danglars meravigliata. 
      "Figlia  mia"  continuò  il  banchiere,  "mi  avete  perfettamente 
      spiegati quali sono i sentimenti che danno forza alle decisioni di 
      una figlia quando ha deciso di non  maritarsi,  spetta  ora  a  me 
      dirvi  quali  sono i motivi di un padre,  come sono io,  quando ha 
      deciso che sua figlia si mariti." 
      Eugenia s'inchinò, non già come figlia sottomessa che ascolta,  ma 
      come avversario pronto a discutere su ciò che ascolta. 
      "Figlia  mia"  continuò  Danglars,  "quando un padre domanda a sua 
      figlia di prendere  uno  sposo,  ha  sempre  qualche  ragione  per 
      desiderare  tale  matrimonio.  Gli  uni sono presi dalla mania che 
      dicevate or ora di vedersi rivivere nei loro nipoti.  Io comincerò 
      dal  dirvi  che non ho tal debolezza: le gioie di famiglia mi sono 
      quasi indifferenti.  Lo posso confessare ad una figlia che conosco 
      abbastanza  filosofa  da  comprendere  tale  indifferenza e da non 
      farmene un delitto." 
      "Alla buon'ora" disse Eugenia, "parliamo francamente, signore,  lo 
      desidero." 
      "Oh"  disse  Danglars,   "vedete  che  senza  dividere,  in  linea 
      generale,  la vostra simpatia per la franchezza,  mi vi sottometto 
      quando credo che la circostanza sia favorevole: continuerò dunque. 
      Io  vi  propongo  un marito,  non per voi,  perché in verità,  non 
      pensavo  a  voi  minimamente  in  tal  momento  (a  voi  piace  la 
      franchezza e mi pare di darvene prova) ma perché avevo bisogno che 
      prendeste  questo  sposo  il  più  presto  possibile,   per  certe 
      combinazioni commerciali  che  avrei  caro  di  stabilire  in  tal 
      momento." 
      Eugenia fece un moto. 
      "La  cosa è precisamente come ho l'onore di dirvi,  figlia mia,  e 
      non per questo dovete essere inquieta con me, perché siete voi che 
      mi  vi  costringete...  Io  entro,  mio  malgrado,  come  voi  ben 
      capirete,  in queste spiegazioni aritmetiche,  con un artista come 
      voi,  che teme d'entrare in un ufficio di banchiere per timore  di 
      ricevervi  impressioni e sensazioni sgradevoli o antipoetiche.  Ma 
      in  questo  ufficio  di  banchiere,   nel  quale  però  vi   siete 
      compiaciuta  di  entrare  ieri  l'altro  per venire a domandarmi i 
      mille franchi che accordo ogni mese ai vostri capricci,  sappiate, 
      mia cara signorina,  che s'imparano molte cose anche per uso delle 
      ragazze che non vogliono maritarsi.  Vi si impara per  esempio,  e 
      per  riguardo  alla  vostra suscettibilità ve lo insegno in questo 
      salotto, vi si impara che il credito di un banchiere è la sua vita 
      fisica e morale,  che il credito sostiene l'uomo  come  il  soffio 
      anima  il  corpo,  e il signor di Montecristo mi fece un giorno un 
      discorso su questo argomento  che  non  dimenticherò  mai.  Vi  si 
      impara  che,  a misura che il credito si ritira,  il corpo diviene 
      cadavere, e che ciò è quanto potrà accadere in brevissimo tempo al 
      banchiere che si onora di essere il padre di una figlia che è così 
      padrona della logica." 
      Ma  Eugenia  invece  di  curvarsi  si   raddrizzò   d'un   tratto. 
      "Rovinato!?" disse. 
      "Avete  trovata  l'espressione giusta,  esatta,  figlia mia" disse 
      Danglars soffregandosi il petto,  ma  conservando  il  suo  freddo 
      sorriso: "rovinato! Precisamente." 
      "Ah!" esclamò Eugenia. 
      "Sì,  rovinato!  Eccolo dunque conosciuto questo orribile segreto! 
      Ora,  figlia mia,  imparate dalla mia bocca in  qual  modo  questa 
      disgrazia può, per mezzo vostro, divenire minore, non dirò per me, 
      ma per voi." 
      "Oh"  gridò  Eugenia,  "siete un cattivo fisionomista,  signore se 
      v'immaginate che deplori per me la catastrofe che m'avete esposta. 
      Io rovinata!  E che importa?  Non mi restano i miei  talenti?  Non 
      posso come la Pasta,  come la Malibran,  come la Grisi, procurarmi 
      ciò  che  mi  avreste  potuto  dare,  qualunque  fosse  la  vostra 
      ricchezza,  cento  o centocinquantamila lire di rendita che io non 
      dovrei che a me sola, e che invece di giungermi,  come mi giungono 
      questi poveri dodicimila franchi che mi date,  con sguardi tetri e 
      parole  di  rimprovero  sulla  mia  prodigalità,   mi   verrebbero 
      accompagnati  da  acclamazioni,  da lodi e da fiori?  E quando non 
      avessi questo talento,  del quale il vostro sorriso mi  fa  vedere 
      che   dubitate,   non   mi  resterebbe  ancora  questo  amore  per 
      l'indipendenza,   che   domina   in   me   più   dell'istinto   di 
      conservazione?  No,  non è per me che mi rattristo,  poiché saprei 
      sempre cavarmi d'impiccio: i libri,  i pennelli,  il clavicembalo, 
      tutte  cose  che  non  costano  molto  care,  e  che potrei sempre 
      procurarmi,  mi resteranno sempre.  Voi  crederete  forse  che  mi 
      affligga  per  la signora Danglars?  Disingannatevi pure!  O io mi 
      inganno di grosso,  o mia madre ha già prese tutte le  precauzioni 
      contro  la  catastrofe  che  vi  minaccia,  e  che  passerà  senza 
      toccarla... Si è messa al sicuro, lo spero,  e non fu vegliando su 
      di  me  che ha potuto distrarsi dalle sue preoccupazioni,  poiché, 
      grazie a Dio,  mi  ha  lasciata  tutta  la  mia  indipendenza  col 
      pretesto  che amava la mia libertà.  Oh!  no,  signore,  nella mia 
      infanzia ho visto accadere troppe cose intorno a me, e le ho tutte 
      capite troppo bene,  perché la disgrazia faccia su di me  maggiori 
      impressioni di quello che meriti.  Ch'io mi ricordi non sono stata 
      amata da alcuno...  Tanto peggio!  Da ciò forse ho imparato a  non 
      amare nessuno... Tanto meglio! Ora voi avete la mia professione di 
      fede." 
      "Allora" disse Danglars,  alzandosi pallido di dolore,  ma non per 
      offeso amore paterno,  "allora signorina,  voi persistete a  voler 
      compiere la mia rovina." 
      "La vostra rovina?" disse Eugenia.  "Io compiere la vostra rovina! 
      Che intendete dire? Non capisco." 
      "Tanto  meglio,   questo  mi  lascia  un   raggio   di   speranza. 
      Ascoltate..." 
      "Ascolto" disse Eugenia guardando fissamente suo padre. 
      "Il signor Cavalcanti" continuò Danglars, "vi sposa e, sposandovi, 
      mi porta tre milioni di dote che deposita nella mia cassa." 
      "Benissimo" disse con supremo disprezzo Eugenia. 
      "Voi  credete  che  voglia  abusare  di questi tre milioni?" disse 
      Danglars.  "Niente affatto.  Questi tre milioni sono  destinati  a 
      produrne almeno dieci.  Ho ottenuto,  in società con un banchiere, 
      la concessione di una ferrovia,  sola  industria  che,  ai  nostri 
      giorni, presenti qualche eventualità di successo. Ebbene, fra otto 
      giorni  dovrò  depositare per conto mio quattro milioni,  e questi 
      quattro milioni,  ve lo prometto,  ne produrranno almeno  dieci  o 
      dodici." 
      "Ma durante la visita che vi ho fatto ieri l'altro,  signore, e di 
      cui vi dovete ben ricordare, vi ho veduto incassare,  non è vero?, 
      cinque  milioni  e  mezzo.  Anzi mi avete mostrata la somma in due 
      buoni del tesoro,  e non vi deve stupire che un pezzo di carta  di 
      così gran valore abbagliasse i miei sguardi come un lampo." 
      "Sì,  ma  questi  cinque  milioni  e  mezzo  non sono miei,  erano 
      soltanto una gran prova della fiducia di cui sono onorato: il  mio 
      titolo  di  banchiere  democratico  mi  ha meritata la stima degli 
      ospedali,  e i cinque milioni e  mezzo  sono  degli  ospedali.  In 
      tutt'altri  tempi  non  avrei esitato un momento a servirmene,  ma 
      oggi sono note le grandi perdite che ho fatte, e come vi dissi, il 
      credito  comincia  ad  allontanarsi.   Da  un  momento   all'altro 
      l'amministrazione  può  richiedere il suo deposito,  e se l'avessi 
      impiegato altrove sarei costretto a fallire.  Io non  disprezzo  i 
      fallimenti,  ma quelli che arricchiscono,  intendiamoci bene,  non 
      quelli che rovinano.  Ora se sposate il signor  Cavalcanti,  e  io 
      metto le mani sui tre milioni della dote, o perlomeno si crede che 
      io le metta, il mio credito si ristabilisce, e la mia fortuna, che 
      da un mese o due è molto scaduta, si rialza. Mi capite, ora?" 
      "Perfettamente, mi date in pegno per tre milioni, non è vero?" 
      "Più la somma è forte,  più è lusinghiera, e vi dà idea del vostro 
      valore." 
      "Grazie.  Ancora una parola,  signore,  mi promettete di  servirvi 
      quanto  vorrete  della  cifra  di questa dote che deve portarmi il 
      signor Cavalcanti,  ma di non toccare la somma?  Questo non  è  un 
      affare d'egoismo,  è un affare di delicatezza. Io voglio cooperare 
      a riedificare la vostra fortuna,  ma non  voglio  essere  complice 
      della rovina degli altri." 
      "Ma   poiché  vi  ho  detto"  gridò  Danglars,   "che  questi  tre 
      milioni..." 
      "Credete di togliervi d'imbarazzo, signore,  senza aver bisogno di 
      toccare questi tre milioni?" 
      "Lo spero, ma sempre alla condizione che, facendosi il matrimonio, 
      esso rassodi il mio credito." 
      "Potrete pagare al signor Cavalcanti i cinquecentomila franchi che 
      mi assegnate nel contratto?" 
      "Al ritorno dall'ufficio del Sindaco, gli saranno contati." 
      "Bene!" 
      "Che pensate? Che volete dire?" 
      "Voglio dire che,  chiedendo la mia firma, non è vero, mi lasciate 
      perfettamente libera della mia persona?" 
      "Assolutamente." 
      "Allora, bene, come vi dicevo,  signore,  sono pronta a sposare il 
      signor Cavalcanti." 
      "Ma qual è il vostro progetto?" 
      "E' un mio segreto.  Dove sarebbe la mia superiorità su di voi, se 
      avendo il vostro segreto, vi rivelassi il mio?" 
      "Per cui" diss'egli, "siete pronta a fare tutte le visite che sono 
      assolutamente indispensabili?" 
      "Sì" rispose Eugenia. 
      "E a sottoscrivere il contratto fra tre giorni." 
      "Sì." 
      "Allora siamo d'accordo!" 
      E Danglars prese la mano della figlia, e la strinse tra le sue. Ma 
      cosa straordinaria,  durante quella stretta di mano,  il padre non 
      osò  dire:  "Grazie,  figlia mia!" e la figlia non ebbe un sorriso 
      per suo padre! 
      "La conversazione è finita?" domandò Eugenia alzandosi. 
      Danglars fece segno che non aveva più niente da dire. 
      Cinque minuti dopo il  pianoforte  risuonò  sotto  le  dita  della 
      signorina   d'Armilly,   e   la   signorina  Danglars  cantava  la 
      maledizione di Barbantino su Desdemona. Alla fine del pezzo, entrò 
      Stefano, ed annunciò ad Eugenia che i cavalli erano attaccati alla 
      carrozza,  e che la baronessa l'aspettava per fare le visite.  Noi 
      abbiamo  veduto  le due donne in casa della signora Villefort,  da 
      dove uscirono per continuare le loro visite. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 95. 
                             CONTRATTO DI NOZZE. 
 
 
      Tre giorni dopo la scena che abbiamo raccontata, vale a dire verso 
      le  cinque  pomeridiane  del  giorno  fissato  per  la  firma  del 
      contratto di matrimonio fra la signorina Eugenia Danglars e Andrea 
      Cavalcanti,  che il banchiere si era ostinato a chiamare principe, 
      mentre una fresca  brezza  faceva  tremare  tutte  le  foglie  del 
      piccolo   giardino,   posto   davanti   alla  casa  del  conte  di 
      Montecristo, nel momento in cui questi si preparava ad uscire, e i 
      cavalli lo aspettavano battendo le zampe,  trattenuti  dalla  mano 
      del cocchiere ch'era già a cassetta da un quarto d'ora, l'elegante 
      carrozzino,  col  quale abbiamo già più volte fatto conoscenza,  e 
      particolarmente nella serata d'Auteuil, venne a girare rapidamente 
      intorno all'angolo della porta d'ingresso, e lanciò, piuttosto che 
      deporre, sulla scalinata il signor Andrea Cavalcanti,  splendido e 
      raggiante,   come   se  fosse  stato  sul  punto  di  sposare  una 
      principessa.  Egli s'informò della salute  del  conte  con  quella 
      famigliarità che gli era abituale, e montando leggermente al primo 
      piano, incontrò lui stesso in cima alla scala. 
      Alla vista del giovane il conte si fermò. In quanto al giovane era 
      lanciato e quando era lanciato, nessuna cosa lo tratteneva. 
      "Eh, buon giorno, caro conte di Montecristo" disse al conte. 
      "Ah,  signor Andrea" esclamò questi con voce mezzo beffarda, "come 
      state?" 
      "A meraviglia,  come vedete.  Io vengo a parlare con voi di  mille 
      cose... Ma prima di tutto, uscite?" 
      "Stavo infatti per uscire, signore." 
      "Allora  per  non farvi tardare,  monterò,  se volete,  nel vostro 
      calesse, e Tom ci seguirà conducendo il carrozzino a rimorchio." 
      "No" disse con impercettibile sorriso di disprezzo il  conte,  che 
      non voleva essere visto in compagnia del giovane,  "no, preferisco 
      darvi udienza qui,  caro signor Andrea.  Si parla  meglio  in  una 
      stanza,  e  non  si  ha  il  cocchiere  che può cogliere a volo le 
      parole." 
      Il conte rientrò dunque in un piccolo salotto che faceva parte del 
      primo piano,  si sedette,  e ponendo le gambe in croce  una  sopra 
      l'altra, fece segno al giovane di sedere egli pure. 
      Andrea prese l'aspetto più ridente. 
      "Sapete,  caro  conte,  che  la cerimonia deve aver luogo stasera? 
      Alle nove si firma il contratto in casa del suocero." 
      "Ah, davvero?" disse Montecristo. 
      "Come,  è forse una novità per voi questa?  Non eravate  avvertito 
      dal signor Danglars?" 
      "Sì" disse il conte,  "ieri ho avuto una sua lettera, ma non credo 
      vi fosse indicata l'ora." 
      "E' possibile; il suocero avrà contato sulla voce pubblica." 
      "Ebbene" disse Montecristo,  "eccovi felice,  signor Cavalcanti: è 
      una   delle  parentele  meglio  assortite  quella  che  state  per 
      stringere, e poi la signorina Danglars è bella." 
      "Ma, sì" disse Cavalcanti con un accento pieno di modestia. 
      "Lei  è  soprattutto  ricca,   almeno  a   quanto   credo"   disse 
      Montecristo. 
      "Molto ricca, dite?" disse il giovane. 
      "Senza  dubbio.  Si dice che il signor Danglars taccia per lo meno 
      metà della sua sostanza." 
      "Ed egli confessa quindici o venti milioni" disse Andrea  con  uno 
      sguardo sfavillante di gioia. 
      "Senza  contare" aggiunse Montecristo,  "che sta per entrare in un 
      genere di speculazione, in uso negli Stati Uniti,  in Inghilterra, 
      ma del tutto nuovo in Francia." 
      "Sì,  sì,  so  di  che  cosa volete parlare: la ferrovia che gli è 
      stata aggiudicata non è vero?" 
      "Egli guadagnerà almeno,  è opinione comune,  almeno dieci milioni 
      in questo affare." 
      "Dieci  milioni,  dite?  E' un affare magnifico!" disse Cavalcanti 
      che si inebriava a quel rumore metallico di parole dorate. 
      "Senza contare" riprese Montecristo,  "che tutta quella  ricchezza 
      si  riverserà  su  di  voi,  e  giustamente,  poiché  la signorina 
      Danglars è figlia unica.  D'altra  parte  la  vostra  sostanza  da 
      quanto  almeno  mi ha detto vostro padre,  è quasi uguale a quella 
      della vostra fidanzata.  Ma lasciamo stare  gli  affari  monetari. 
      Sapete,  signor  Andrea,  che  avete  condotto questa faccenda con 
      molta abilità e destrezza?" 
      "Non c'è male,  non c è male" disse il giovane,  "io era nato  per 
      fare il diplomatico." 
      "Ebbene vi faremo entrare in diplomazia.  La diplomazia,  come ben 
      sapete,  non s'impara;  è una cosa d'istinto...  Il cuore è dunque 
      preso?" 
      "In  verità,  ne ho paura" rispose Andrea,  col tono con cui aveva 
      visto al teatro francese Dorante e Valeria rispondere ad Alceste. 
      "Siete almeno amato, un poco?" 
      "Bisogna bene, giacché è contenta di prendermi per sposo..." disse 
      Andrea con un sorriso altero.  "Però non  dimentichiamo  il  punto 
      principale." 
      "E quale?" 
      "E' che in tutto questo io sono stato particolarmente aiutato." 
      "Bah!" 
      "Certamente." 
      "Dalle circostanze?" 
      "No, da voi." 
      "Da me?  Lasciate stare, principe" disse Montecristo, calcando con 
      affettazione sopra questo titolo.  "E che cosa ho potuto fare  per 
      voi?  Forse  non  bastavano il vostro merito e la vostra posizione 
      sociale?" 
      "No" disse Andrea, "no, e voi avete un bel dire, signor conte,  io 
      sostengo che la posizione di un uomo come voi, ha fatto di più che 
      il mio nome, la mia posizione sociale ed il mio-merito." 
      "V'ingannate,   signore"  disse  con  freddezza  Montecristo,  che 
      sentiva la perfida furberia del giovane,  e che comprese il valore 
      delle sue parole.  "Aveste la mia protezione soltanto dopo ch'ebbi 
      preso  le  mie  informazioni  circa  vostro  padre  e  la   vostra 
      famiglia...  E  chi ha procurato a me,  che non avevo mai visto né 
      voi né l'illustre autore dei vostri giorni,  la fortuna di fare la 
      vostra conoscenza? Sono stati due miei buoni amici, lord Wilmore e 
      l'abate  Busoni.  Chi  mi  ha  incoraggiato,  non  già  ad esservi 
      garante,  ma a proteggervi?  Fu  il  nome  di  vostro  padre  così 
      conosciuto  e  così  onorato  in  Italia.  Personalmente io non vi 
      conosco." Quella calma,  quella perfetta sicurezza,  fecero capire 
      ad Andrea che il dialogo era impegnato. 
      "Sia,  ma"  rispose,  "mio padre ha dunque veramente una così gran 
      sostanza, signor conte?" 
      "Pare di sì, signore" soggiunse Montecristo. 
      "Sapete se la dote che mi ha promessa sia giusta?" 
      "Ne ho ricevuto lettera d'accredito." 
      "Ma i tre milioni?" 
      "Saranno in viaggio secondo tutte le probabilità." 
      "Dunque li avrò realmente?" 
      "Ma diamine!" riprese  il  conte,  "mi  sembra  che  fino  adesso, 
      signore, il denaro non vi sia mancato." 
      Andrea fu talmente sorpreso,  che non poté fare a meno di rimanere 
      assorto per qualche istante. 
      "Allora" disse, uscendo dalla sua meditazione,  "rimane,  signore, 
      da  farvi  una  domanda,  e  la  farò,  quand'anche  vi  riuscisse 
      spiacevole." 
      "Parlate" disse Montecristo. 
      "Mi sono messo in relazione, grazie alle mie ricchezze,  con molte 
      persone distinte, ed ho, per il momento almeno, una folla d'amici. 
      Ma,  maritandomi,  come  faccio,  al  cospetto di tutta la società 
      parigina,  devo essere  sostenuto  da  un  nome  illustre,  ed  in 
      mancanza della mano paterna, è una mano possente che deve condurmi 
      all'altare. Ora mio padre non viene a Parigi, non è vero?" 
      "E' vecchio, coperto di ferite, e soffre." 
      "Capisco. Ebbene, vengo a farvi una domanda." 
      "A me?" 
      "Sì, a voi." 
      "E quale, mio Dio?" 
      "Di sostituirlo." 
      "Eh,  mio  caro  signore!  Dopo  i  numerosi incontri che ho avuto 
      l'onore di avere con voi, voi mi conoscete tanto male da farmi una 
      simile  domanda?   Chiedetemi  un  prestito  di   mezzo   milione, 
      quantunque  un  tale  prestito sia molto difficile,  pure,  parola 
      d'onore!,  m'incomodereste  di  meno.  Sappiate  dunque,   credevo 
      d'avervelo    già    detto,    che   nella   sua   partecipazione, 
      particolarmente morale, alle cose di questo mondo, mai il conte di 
      Montecristo ha cessato di avere gli scrupoli,  e dirò di  più,  le 
      superstizioni  degli  uomini d'Oriente.  Io che ho un serraglio al 
      Cairo,  uno a Smirne e uno  a  Costantinopoli,  presiedere  ad  un 
      matrimonio? Mai!" 
      "Così rifiutate?" 
      "Precisamente,   foste  anche  mio  figlio,  foste  mio  fratello, 
      rifiuterei ugualmente." 
      "Ah" gridò Andrea sconcertato dalla  freddezza  del  conte,  "come 
      fare allora?" 
      "Avete centinaia di amici, come avete detto voi stesso." 
      "Sono  d'accordo,  ma  foste  voi  che  mi  presentaste  al signor 
      Danglars." 
      "Niente affatto, io vi ho fatto pranzare con lui ad Auteuil, e voi 
      vi presentaste. Diavolo! E' ben diverso." 
      "Sì, ma avete cooperato al mio matrimonio." 
      "In nessuno modo,  vi prego di crederlo.  Quando  siete  venuto  a 
      pregarmi di fare la domanda,  vi dissi: Non combino mai matrimoni, 
      mio caro principe, è una mia massima inderogabile." 
      Andrea si morse le labbra. "Ma infine ci sarete, almeno?" 
      "Vi sarà tutta Parigi?" 
      "Oh, certamente!" 
      "E allora ci sarò anch'io" disse il conte. 
      "Firmerete il contratto?" 
      "Oh,  non ci trovo alcun inconveniente,  e  i  miei  scrupoli  non 
      arrivano sino a questo punto." 
      "Infine, giacché non volete accordarmi di più, bisogna bene che mi 
      accontenti di quanto mi date. Ma, un'ultima parola, conte." 
      "Cosa?" 
      "Un consiglio." 
      "State in guardia: un consiglio è peggio che un favore." 
      "Oh, questo potete darmelo senza compromettervi." 
      "Dite." 
      "La dote che porta mia moglie è di cinquecentomila lire?" 
      "Questa almeno è la cifra che il signor Danglars mi ha detto." 
      "Debbo riceverla, o lasciarla in deposito nelle mani del notaio?" 
      "Ecco,  in generale,  come si trattano queste cose quando si vuole 
      succedano  con  certa  eleganza.   I  vostri  due  notai  prendono 
      appuntamento  al  contratto  per  domani  o  dopodomani.  Domani o 
      dopodomani scambiano le doti, delle quali si danno mutua ricevuta; 
      quindi,  celebrato il  matrimonio,  mettono  i  milioni  a  vostra 
      disposizione, come capo della famiglia." 
      "La ragione è" disse Andrea, con una inquietudine mal dissimulata, 
      "che  mi sembrava di aver sentito dal mio futuro suocero che aveva 
      intenzione di investire i nostri fondi in quel famoso affare delle 
      ferrovie di cui mi parlavate." 
      "Ebbene" riprese Montecristo, "questo, a quanto si assicura,  è il 
      miglior  mezzo  perché  i  vostri  capitali siano triplicati in un 
      anno.  Il signor Danglars è un buon padre,  e sa far bene  i  suoi 
      conti." 
      "Orsù  dunque"  disse  Andrea,  "tutto  va  bene,  salvo il vostro 
      rifiuto che mi ferisce il cuore." 
      "Non  lo  attribuite  che  a  scrupoli  naturalissimi  in   simili 
      circostanze." 
      "Sia  dunque  fatto"  disse Andrea,  "come volete.  A stasera alle 
      nove." 
      "A stasera." 
      E malgrado una leggera resistenza da parte di Montecristo,  le cui 
      labbra  impallidirono,  malgrado  il  sorriso cerimonioso,  Andrea 
      prese la mano del  conte,  la  strinse,  saltò  nel  carrozzino  e 
      disparve.  Le  quattro  o  cinque  ore che gli restavano fino alle 
      nove,  Andrea le impiegò in corse,  in visite con gli amici di cui 
      aveva  parlato  presentati  al  banchiere con tutto il lusso delle 
      loro carrozze, e congedati con la promessa di quelle azioni che in 
      seguito fecero girare tante teste,  e  di  cui  Danglars  in  quel 
      momento sembrava l'elargitore. 
      Alle  otto  e mezzo della sera,  la sala di Danglars,  la galleria 
      attigua a questa,  e le altre tre sale di quel piano,  erano piene 
      di  una  folla  profumata,  attirata,  non  dalla simpatia,  ma da 
      quell'irresistibile bisogno di ritrovarsi là dove si sa che accade 
      qualche cosa di nuovo.  Un accademico direbbe  che  le  serate  in 
      società  sono  una  collezione di fiori che attirano le incostanti 
      api affamate,  insetti irrequieti.  Non occorre dire che  le  sale 
      erano  risplendenti  che  la  luce scorreva ad onde dai candelabri 
      d'oro sulle tende di seta e su tutti quei mobili di cattivo gusto, 
      che non avevano altro merito che la ricchezza sfolgorante in tutto 
      il suo splendore. 
      La signorina Eugenia era vestita con la più  elegante  semplicità: 
      una veste di seta bianca ricamata in bianco, una rosa bianca tra i 
      capelli neri d'ebano,  componevano tutto il suo abbigliamento, non 
      arricchito da gioielli.  Soltanto si poteva leggere nei suoi occhi 
      quella perfetta sicurezza destinata a smentire ciò che quell'abito 
      nuziale aveva di volgarmente verginale ai propri occhi. 
      La  signora Danglars,  a trenta passi da lei,  parlava con Debray, 
      Beauchamp e Chateau-Renaud.  Debray era tornato in quella casa per 
      quella solennità, ma come tutti gli altri e senza alcun privilegio 
      particolare.  Il  signor  Danglars,  circondato  da  deputati e da 
      uomini di finanza, spiegava una nuova teoria di contribuzioni, che 
      contava di mettere in pratica quando la forza delle  cose  avrebbe 
      costretto  il  governo a chiamarlo al ministero.  Andrea,  tenendo 
      sottobraccio i più noti cicisbei  dell'Opera,  spiegava  loro  con 
      fatua  impertinenza,  visto che aveva bisogno di essere ardito per 
      sembrare disinvolto, i suoi progetti per l'avvenire, e i progressi 
      che contava  di  fare,  con  le  centosettantacinquemila  lire  di 
      rendita,  nel  vestirsi  alla moda parigina.  La folla si aggirava 
      nelle sale: dappertutto si notava che le donne  meglio  abbigliate 
      erano  le  vecchie,  e  le più brutte quelle che si mostravano con 
      maggiore ostentazione.  Se v'era qualche bel giglio,  qualche rosa 
      soave  e profumata,  bisognava cercarla o scoprirla nascosta in un 
      angolo con qualche madre in turbante o con una zia col  cappellino 
      stravagante. Ogni tanto, in mezzo a quella calca, a quel mormorio, 
      a  quelle  risa,  un  cameriere  lanciava un nome conosciuto nella 
      finanza;  rispettato nell'esercito,  o illustre nelle  lettere,  e 
      allora  un  leggero  moto  nei  crocchi accoglieva quel nome.  Nel 
      momento  in  cui  la  sfera  del  pendolo,  che  rappresentava  un 
      Endimione addormentato, marcava le nove sul suo quadrante d'oro, e 
      queste scoccavano,  il nome del conte di Montecristo risuonò pure, 
      e,  come ridesta da una scossa  elettrica,  tutta  l'assemblea  si 
      voltò verso la porta. 
      Il conte era vestito semplicemente di nero, con panciotto bianco e 
      cravatta nera. Si formò all'istante un cerchio intorno alla porta. 
      Il conte con una sola occhiata scoperse la signora Danglars ad una 
      estremità della sala il signor Danglars all'altra,  e la signorina 
      Eugenia davanti a  lui.  Si  avvicinò  prima  alla  baronessa  che 
      parlava colla signora Villefort, ch'era venuta sola, Valentina era 
      ancora   malata;   si  volse  alla  baronessa  e  ad  Eugenia  che 
      complimentò con termini così rapidi e riservati  che  l'orgogliosa 
      artista  ne  fu  commossa.  Vicino  a  lei era la signorina Luigia 
      d'Armilly, che ringraziò il conte delle lettere di raccomandazione 
      che le aveva gentilmente date per l'Italia,  e di cui contava  far 
      presto uso.  Lasciando queste signore,  si voltò e si trovò presso 
      Danglars, che si era avvicinato per stringergli la mano. 
      Compiti questi convenevoli sociali,  Montecristo si fermò  girando 
      intorno  quello  sguardo  sicuro,   pieno  di  quella  particolare 
      espressione della gente di società,  e particolarmente  di  quella 
      snob,  sguardo  che  sembra dire: "Io ho fatto il mio dovere cogli 
      altri, facciano gli altri il loro con me". 
      Andrea,  che era in un salotto attiguo,  avvertito dell'arrivo del 
      conte  di Montecristo,  corse a salutarlo.  Lo trovò circondato da 
      molte persone che  si  disputavano  le  sue  parole,  come  accade 
      generalmente  alle persone che parlano poco,  e che non dicono mai 
      una parola senza significato. I notai entrarono in quel momento, e 
      dispiegarono le loro scritture sui velluti  ricamati  in  oro  che 
      coprivano la tavola preparata per le firme, tavola di legno dorato 
      e intagliata a zampe di leone. 
      Uno dei notai sedette,  l'altro rimase in piedi per procedere alla 
      lettura del contratto,  che la metà di Parigi,  presente a  quella 
      solennità,  doveva sottoscrivere. Ciascuno si sedette, o piuttosto 
      le donne fecero circolo,  mentre gli uomini,  più vicini a  quello 
      "stile  energico"  di  cui  parla Boileau,  fecero i loro commenti 
      sull'agitazione febbrile di  Andrea,  sull'attenzione  del  signor 
      Danglars,  sulla impassibilità di Eugenia, e sul modo disinvolto e 
      scherzoso con cui la baronessa trattava quell'importante affare. 
      Il contratto fu letto  in  mezzo  al  più  profondo  silenzio.  Ma 
      terminata  la lettura,  il bisbiglio ricominciò subito nelle sale. 
      Quelle somme,  quei milioni dedicati all'avvenire dei due giovani, 
      e  che completavano l'esposizione del corredo e dei diamanti della 
      giovane sposa in una sala apposita, avevano risuonato con tutto il 
      loro prestigio nell'invidiosa assemblea. Le grazie della signorina 
      Danglars ne venivano raddoppiate agli occhi dei giovani,  e per il 
      momento  eclissavano lo splendore del sole.  In quanto alle donne, 
      non c'è bisogno di dirlo,  mentre  invidiavano  quei  milioni,  si 
      consolavano  dicendo  di  non  averne  bisogno  per  essere belle. 
      Andrea,   stretto  fra  i  suoi  amici,   complimentato   adulato, 
      cominciava a credere alla realtà del sogno che faceva.  Andrea era 
      sul punto di perdere la testa. 
      Il notaio prese solennemente la penna  fra  le  due  dita,  l'alzò 
      sopra la testa, e disse: 
      "Signori, ora si sottoscrive il contratto." 
      Il  barone  doveva  firmare per primo quindi il rappresentante del 
      signor Cavalcanti padre,  poi la baronessa,  in seguito  i  futuri 
      coniugi.  Il  barone prese allora la penna e sottoscrisse,  poi il 
      rappresentante  del  padre.   La  baronessa  si  avvicinò  tenendo 
      sottobraccio la signora Villefort. 
      "Amica  mia"  le  disse  prendendo  la  penna,  "non è cosa da far 
      disperare?  Un  inatteso  incidente,  avvenuto  in  questo  affare 
      dell'assassinio  e del furto di cui il signor conte di Montecristo 
      per poco non è rimasto vittima,  ci priva del piacere di avere  il 
      signor Villefort." 
      "Oh, mio Dio!" esclamò Danglars con lo stesso tono con cui avrebbe 
      detto: "La cosa mi è del tutto indifferente!". 
      "Sì"  disse  Montecristo nell'avvicinarsi,  "credo di essere io la 
      causa involontaria di questa assenza." 
      "Come,  voi conte?" disse la signora Danglars sottoscrivendo.  "Se 
      fosse vero, guardatevene, non ve lo perdonerò mai." 
      "Non  è  certamente  per  colpa  mia" disse il conte,  "e desidero 
      provarlo." 
      Indi soggiunse in mezzo al più profondo silenzio: 
      "Vi ricorderete che fu in casa mia che morì quel  disgraziato  che 
      era  venuto  per rubarmi,  e che uscendone fu ucciso,  a quanto si 
      crede, dal suo complice?" 
      "Sì" disse Danglars. 
      "Ebbene, per recargli soccorso fu spogliato, e i suoi abiti furono 
      gettati in un angolo da dove  la  polizia  li  raccolse...  Ma  la 
      polizia,   prendendo  l'abito  e  i  calzoni  per  depositarli  al 
      tribunale, aveva dimenticato il panciotto." 
      Andrea impallidì visibilmente, e si ritirò verso la porta.  Vedeva 
      comparire  una  nube  all'orizzonte,  e  quella  nube gli sembrava 
      racchiudere una tempesta. 
      "Ebbene, oggi è stato ritrovato quel disgraziato panciotto,  tutto 
      coperto di sangue e forato in direzione del cuore." 
      Le  dame mandarono un grido,  e due o tre di loro si prepararono a 
      svenire. 
      "Mi è stato portato.  Nessuno poteva indovinare  da  dove  venisse 
      quel cencio, e io solo pensai che fosse probabilmente il panciotto 
      della vittima. Ad un tratto il mio cameriere frugando con ribrezzo 
      e precauzione quella funebre reliquia,  ha sentito una carta nella 
      tasca: un biglietto diretto... Indovinate un po' a chi, barone?... 
      Diretto a voi." 
      "A me?" gridò Danglars. 
      "Oh, mio Dio,  sì,  a voi...  Sono giunto a leggere il vostro nome 
      attraverso  il  sangue  di cui è macchiato quel biglietto" rispose 
      Montecristo in mezzo alla sorpresa generale. 
      "Ma"  domandò  la  signora  Danglars,   guardando  il  marito  con 
      inquietudine, "in che modo ciò impedisce al signor Villefort...?" 
      "E'   cosa   semplicissima,   signora"  disse  Montecristo:  "quel 
      panciotto e quella lettera erano le così dette prove del  delitto; 
      l'uno e l'altra li ho inviati al regio procuratore.  Capirete, mio 
      caro barone, la via legale è la più sicura in materia criminale, e 
      poteva trattarsi di qualche macchinazione contro di voi." 
      Andrea guardò fissamente Montecristo,  e si ritirò  nella  seconda 
      sala. 
      "E' possibile" disse Danglars.  "Quell'uomo assassinato non era un 
      antico forzato?" 
      "Sì" rispose il conte, "un antico forzato, Caderousse." 
      Danglars impallidì leggermente, Andrea lasciò la seconda sala,  ed 
      entrò nell'anticamera. 
      "Ma firmate dunque, ma firmate" disse Montecristo. "Mi accorgo che 
      il  mio  racconto  ha  messo  tutti  in  agitazione,  e ne domando 
      umilmente perdono  a  voi,  signora  baronessa  e  alla  signorina 
      Danglars." 
      La baronessa, che aveva firmato, rimise la penna al notaio. 
      "Signor  principe  Cavalcanti"  disse il notaio,  "signor principe 
      Cavalcanti, dove siete?" 
      "Andrea! Andrea!" ripeterono molte voci di giovani, già arrivati a 
      quel grado d'intimità col nobile italiano da chiamarlo col nome di 
      battesimo. 
      "Chiamate  dunque  il  principe!  Avvertitelo  che  spetta  a  lui 
      firmare!" gridò Danglars ad un cameriere. 
      Ma  nel  medesimo  istante  rifluì  la folla spaventata nella sala 
      principale,  come se qualche terribile mostro fosse entrato  negli 
      appartamenti, "cercando chi doveva divorare". 
      Un  ufficiale  di  gendarmeria  situava due gendarmi alla porta di 
      ciascuna sala,  e si avanzava  verso  Danglars,  preceduto  da  un 
      commissario  di  polizia  cinto  della  sua  sciarpa.  La  signora 
      Danglars gettò un grido,  e svenne.  Il signor  Danglars,  che  si 
      credeva  minacciato  (certe  coscienze  non  sono mai tranquille), 
      offrì agli occhi dei suoi convitati un viso sconvolto dal terrore. 
      "Che c'è dunque signore?"  domandò  Montecristo  avvicinandosi  al 
      commissario. 
      "Chi  di  voi,  signori" domandò il magistrato senza rispondere al 
      conte, "si chiama Andrea Cavalcanti?" 
      Un grido di stupore partì da  tutti  gli  angoli  della  sala.  Si 
      cercò, si interrogò. 
      "Ma chi è dunque questo Andrea Cavalcanti?" domandò Danglars quasi 
      fuori di sé. 
      "Un forzato fuggito dalle galere di Tolone." 
      "E che delitto ha commesso?" 
      "E'  accusato" disse il commissario,  con la sua voce impassibile, 
      "di avere assassinato il  nominato  Caderousse,  suo  compagno  di 
      catena,  al  momento  in  cui  questi uscì dalla casa del conte di 
      Montecristo." 
      Montecristo gettò uno sguardo intorno a sé; Andrea era scomparso. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 96. 
                            LA STRADA DEL BELGIO. 
 
 
      Pochi momenti  dopo  la  scena  avvenuta  nelle  sale  del  signor 
      Danglars,  il vasto palazzo si era vuotato con una rapidità simile 
      a quella che avrebbe prodotto l'annuncio di un caso  di  peste  in 
      mezzo ai convitati: in pochi minuti,  da tutte le porte,  da tutte 
      le uscite,  ciascuno si era affrettato a ritirarsi,  o piuttosto a 
      fuggire;  era una di quelle circostanze, in cui non si può nemmeno 
      tentare di dare una di quelle cerimoniose  consolazioni  solite  a 
      darsi nelle grandi catastrofi. 
      Nel palazzo del banchiere erano rimasti soltanto Danglars,  chiuso 
      nel suo studio a fare la deposizione fra le mani del sottufficiale 
      di gendarmeria;  la signora Danglars spaventata,  nel salotto  che 
      conosciamo  ed  Eugenia,  che,  coll'occhio  altero  e  il  labbro 
      sdegnoso,  si era ritirata nella  sua  camera  con  l'inseparabile 
      compagna,  Luigia d'Armilly.  In quanto ai domestici, più numerosi 
      ancora del solito quella sera,  perché  erano  stati  aggiunti  in 
      occasione  della  festa i sorbettieri i cerimonieri e i maestri di 
      casa del Caffè di Parigi,  riversando contro il padrone la collera 
      per  il  cosiddetto  affronto fatto,  se ne stavano a gruppi nelle 
      cucine,  nelle  stanze,  protestando  non  poco  per  il  servizio 
      interrotto. 
      In  mezzo  a  questi differenti personaggi,  angosciati ognuno per 
      diversi motivi,  due soli meritano che ce  ne  occupiamo:  Eugenia 
      Danglars  e Luigia d'Armilly.  La giovane fidanzata,  come abbiamo 
      detto, si era ritirata con aria altera, col labbro sdegnoso, e col 
      comportamento di regina oltraggiata,  seguita dalla  sua  compagna 
      più  pallida  e  più commossa di lei.  Giungendo nella sua camera, 
      Eugenia chiuse la porta dal di dentro,  mentre Luigia  si  gettava 
      sopra una poltrona. 
      "Oh,  mio Dio,  che cosa orribile!" disse la giovane musicante. "E 
      chi lo poteva pensare? Il signor Andrea Cavalcanti... assassino... 
      fuggito dalla galera... un forzato!" 
      Un sorriso ironico increspò le labbra di Eugenia. 
      "In verità, pare un destino!" disse. "Sfuggo da Morcerf per cadere 
      in Cavalcanti!" 
      "Non confondiamo l'uno coll'altro, Eugenia!" 
      "Taci!  Tutti gli uomini sono infami,  ed io sono felice di  poter 
      fare più che detestarli: ora li disprezzo." 
      "Che faremo?" domandò Luigia. 
      "Che faremo? Ciò che dovevamo fare fra tre giorni, partire." 
      "Così, quantunque non ti mariti più, vuoi sempre..." 
      "Ascolta,  Luigia,  ho  in  orrore  questa  vita  sempre ordinata, 
      misurata,  regolata come un foglio di musica.  Ciò che  sempre  ho 
      desiderato,  voluto, ciò che ha formato sempre la mia ambizione, è 
      la vita dell'artista, la vita libera, indipendente,  in cui non si 
      ha a render conto ad altri che a sé.  Restare, per far che? Perché 
      si tenti fra un mese di maritarmi nuovamente?  A  chi?  Al  signor 
      Debray,  forse,  come  se  ne  fece già parola?  No,  Luigia,  no, 
      l'avventura di questa sera mi servirà di scusa.  Io nulla cercavo, 
      nulla  domandavo;  Dio  mi  ha  inviato  questo accidente,  sia il 
      benvenuto!" 
      "Come sei forte e coraggiosa!" 
      "Non mi conosci  dunque  ancora?  Vediamo,  Luigia,  parliamo  dei 
      nostri affari. La carrozza da posta..." 
      "Ci aspetta da tre giorni." 
      "L'hai fatta condurre dove dobbiamo prenderla?" 
      "Sì." 
      "Il nostro passaporto?" 
      "Eccolo." 
      Ed Eugenia colla sua abituale freddezza, spiegò la carta e lesse: 
      "Signor  Leone  d'Armilly,  dell'età  di venti anni,  professione, 
      artista, capelli neri, occhi neri; viaggia con sua sorella". 
      "A meraviglia! Con che mezzo te lo sei procurato?" 
      "Andando  dal  signor  di  Montecristo  a  chiedere   lettere   di 
      raccomandazione  per gli impresari dei teatri di Roma e di Napoli, 
      ho espresso i miei timori di viaggiare  come  donna;  egli  allora 
      promise di procurarmi un passaporto da uomo,  e due giorni dopo ho 
      ricevuto questo, al quale ho aggiunto di mia mano: viaggia con sua 
      sorella." 
      "Ebbene,  non si tratta che di fare i nostri bauli:  partiremo  la 
      sera  della  firma del contratto,  invece di partire la sera delle 
      nozze, ecco tutto." 
      "Riflettici bene, Eugenia." 
      "Oh,  tutte le mie riflessioni sono fatte,  sono stanca di sentire 
      parlare di riporti,  di scadenze, di rialzo e di ribasso dei fondi 
      spagnoli,  dei titoli di  Haiti.  Invece  di  tutto  ciò,  Luigia, 
      comprendi?, l'aria, la libertà, il canto degli uccelli, le pianure 
      della  Lombardia,  i  canali  di  Venezia,  i palazzi di Roma,  la 
      spiaggia di Napoli. Quanto possediamo, Luigia?" 
      La giovane tolse da un armadio intarsiato un piccolo portafogli  a 
      serratura, lo aprì, e contò ventitré biglietti di banca. 
      "Ventitremila franchi" disse. 
      "E  altrettanto  almeno  in  perle,  diamanti  e  gioielli"  disse 
      Eugenia: "siamo ricche. Con quarantacinquemila franchi noi abbiamo 
      di che vivere da principesse per due anni,  e convenevolmente  per 
      quattro.  Ma prima di sei mesi,  tu colla tua musica, io colla mia 
      voce, avremo raddoppiato il nostro capitale. Orsù,  incaricati del 
      denaro,  io m'incarico dei gioielli, che, se una di noi due avesse 
      la disgrazia di perdere il suo tesoro,  l'altra avrebbe sempre  il 
      suo. Ora, la valigia, presto, la valigia!" 
      "Aspetta"  disse  Luigia,  andando  ad  ascoltare alla porta della 
      signora Danglars. 
      "Che temi?" 
      "Che ci sorprenda qualcuno." 
      "La porta è chiusa." 
      "E se ci ordinano d'aprire?" 
      "Che l'ordinino se vogliono, noi non apriremo." 
      "Tu sei una vera amazzone, Eugenia." 
      E  le  due  giovani,   con  prodigiosa  alacrità  si   misero   ad 
      affastellare  in  un  baule  tutti  gli  oggetti da viaggio di cui 
      credevano aver bisogno. 
      "Ecco fatto" disse Eugenia.  "Ora,  mentre mi cambio  d'abito,  tu 
      chiudi la valigia." 
      "Ma non ho abbastanza forza: chiudila tu." 
      "Ah,  è  vero"  disse  ridendo  Eugenia,  "dimenticavo che io sono 
      Ercole, e tu sei la pallida Omfale." 
      E la ragazza,  appoggiando il ginocchio sul coperchio  del  baule, 
      contrasse  le  braccia bianche e muscolose fino a che le due parti 
      furono riunite;  la signorina d'Armilly passò il  lucchetto  negli 
      anelli  delle due spranghe.  Terminata questa operazione,  Eugenia 
      aprì un cassetto,  di cui portava indosso la chiave,  e tirò fuori 
      un mantello da viaggio di seta violaceo ovattato. 
      "Prendi" disse.  "Vedi che ho pensato a tutto, con questo mantello 
      non avrai freddo." 
      "Ma tu?" 
      "Oh, io non ho mai freddo,  lo sai bene;  d'altra parte con questi 
      abiti da uomo..." 
      "Ti vesti qui?" 
      "Senza dubbio." 
      "Ma ne avrai tempo?" 
      "Non   avere   la  minima  inquietudine,   poltrona;   tutti  sono 
      preoccupati per il fattaccio.  D'altra  parte,  chi  vuoi  che  si 
      stupisca,  quando  si pensa alla grande disperazione in cui dovrei 
      essere, che io mi sia rinchiusa qui dentro?" 
      "Tu mi tranquillizzi..." 
      "Vieni dunque, aiutami." 
      E dal medesimo cassetto dal quale aveva tratto il mantello per  la 
      signorina d Armilly,  e col quale questa si era coperte le spalle, 
      tolse un abbigliamento completo da uomo,  dagli stivaletti fino al 
      cappello,  con una provvista di biancheria in cui non c'era niente 
      di superfluo, ma non mancava nulla del necessario. 
      Allora con una sveltezza da far intuire che, senza dubbio, non era 
      la prima volta che vestiva abiti d'altro sesso,  Eugenia calzò gli 
      stivaletti inforcò i pantaloni,  si annodò la cravatta,  abbottonò 
      fino al collo un panciotto a due petti,  ed indossò  un  soprabito 
      che delineava la corporatura svelta e ben fatta. 
      "Oh,  benissimo!  benissimo davvero!" disse Luigia guardandola con 
      ammirazione. "Ma questi bei capelli,  queste trecce magnifiche che 
      facevano  sospirare  d'invidia  tutte  le  donne,  potranno  stare 
      raccolte sotto un cappello da viaggio come questo?" 
      "Lo vedrai" disse Eugenia. 
      Ed afferrando colla mano sinistra la folta  treccia,  sulla  quale 
      appena arrivavano con stento a riunirsi le sue lunghe dita, con la 
      destra prese un paio di forbici,  e ben presto l'acciaio stridette 
      in mezzo alla lunga e splendida chioma,  che cadde tutta intera ai 
      piedi della ragazza.  Quindi tagliata la treccia superiore,  passò 
      alle tempie,  e tagliò senza lasciarsi sfuggire il minimo gesto di 
      dispiacere, anzi gli occhi brillavano più vivi e allegri, sotto le 
      sopracciglia nere come l'ebano. 
      "Oh quei capelli magnifici!" disse Luigia con rincrescimento. 
      "Non  sto  cento  volte meglio così?" gridò Eugenia lisciandosi le 
      sparse ciocche della sua capigliatura, divenuta mascolina. "Non mi 
      trovi ancora più bella?" 
      "Oh, sempre bella!" gridò Luigia. "Ora dove andiamo?" 
      "A Bruxelles,  la frontiera più vicina;  raggiungeremo  Bruxelles, 
      Liegi,  Aix-la-Chapelle,  rimonteremo  il  Reno  fino a Strasburgo 
      traverseremo la Svizzera,  e  scenderemo  in  Italia  per  il  San 
      Gottardo: ti va bene così?" 
      "Sì." 
      "Ma che cosa guardi?" 
      "Io  guardo  te.  Sei  così  adorabile!  Si  direbbe  che stai per 
      rapirmi." 
      "E certo avrebbero ragione." 
      "Oh, cominci a cospirare, Eugenia!" 
      E le due,  che chiunque avrebbe  creduto  immerse  nelle  lacrime, 
      scoppiarono  in  una  risata,  facendo  scomparire tutte le tracce 
      visibili del  disordine  che  naturalmente  aveva  accompagnato  i 
      preparativi   della   loro  evasione.   Quindi,   spenti  i  lumi, 
      coll'occhio vigile,  l'orecchio attento,  il collo  teso,  le  due 
      fuggitive  aprirono  la  porta  di  uno  stanzino  di toilette che 
      metteva in una scala interna e di  là  fino  al  cortile:  Eugenia 
      camminando avanti,  e sostenendo con un braccio la valigia portata 
      dalla signorina d'Armilly con ambe le mani. 
      Suonava mezzanotte, il cortile era vuoto, ma il portinaio vegliava 
      ancora.  Eugenia si accostò  pian  piano,  e  vide  dai  vetri  lo 
      svizzero  che  dormiva  in  fondo  alla  loggia sdraiato sul sofà. 
      Ritornò verso Luigia,  riprese il baule,  che per un istante aveva 
      deposto  in  terra,  ed entrambe,  seguendo l'ombra proiettata dal 
      muro, raggiunsero il peristilio. Eugenia fece nascondere Luigia in 
      un angolo della porta,  in modo che il portinaio,  se per caso  si 
      fosse  alzato,  non vedesse che una persona.  Quindi offrendosi al 
      pieno raggio del lampione che illuminava il cortile: 
      "La porta!" gridò con la sua più bella voce da contralto, battendo 
      sull'invetriata. 
      Il portinaio si alzò,  come aveva previsto Eugenia,  e fece ancora 
      qualche passo per riconoscere la persona che usciva, ma vedendo un 
      uomo  che  batteva  spazientito lo scudiscio sui calzoni,  aprì al 
      momento.  Luigia subito  strisciò  come  una  biscia  dalla  porta 
      semiaperta, e balzò leggermente fuori. Eugenia, calma di speranza, 
      quantunque,  secondo  ogni  probabilità,  il  suo  cuore  battesse 
      fortemente,  uscì a sua  volta.  Un  fattorino  fu  incaricato  di 
      portare  il baule;  quindi le due giovani gli indicarono come meta 
      rue de la Victoire 36.  Così s'incamminarono dietro a  quest'uomo, 
      la cui presenza tranquillizzava Luigia;  in quanto ad Eugenia, era 
      forte come Giuditta o come Dalila. 
      Giunta al numero indicato,  Eugenia ordinò al fattorino di deporre 
      il  baule,  gli  regalò alcune monete,  e dopo aver battuto ad una 
      persiana, lo licenziò.  La persiana,  a cui aveva battuto Eugenia, 
      era quella di una piccola lavandaia avvertita anticipatamente, che 
      non era ancora andata a dormire. Lei stessa aprì. 
      "Signorina"  disse  Eugenia,  "fate  tirar  fuori dal portinaio la 
      carrozza dalla rimessa, e mandate a prendere i cavalli alla posta. 
      Ecco cinque franchi per il disturbo." 
      "In verità" disse Luigia, "ti ammiro, e direi quasi ti invidio." 
      La lavandaia guardava stupita,  ma  siccome  le  avevano  promesso 
      venti luigi non fece la più piccola osservazione.  Un quarto d'ora 
      dopo, il portinaio tornava col postiglione ed i cavalli, che in un 
      minuto furono attaccati alla carrozza,  sulla quale  il  portinaio 
      assicurò il baule per mezzo di una corda. 
      "Ecco il passaporto" disse il postiglione.  "Che strada prendiamo, 
      giovanotto?" 
      "La  strada  di  Fontainebleau"  disse  Eugenia  con  voce   quasi 
      maschile. 
      "Che dici?" domandò Luigia. 
      "Oh,  una piccola bugia" disse Eugenia.  "Questa donna, alla quale 
      diamo venti  luigi,  può  tradirci  per  quaranta:  sul  boulevard 
      prenderemo un'altra direzione." 
      E  la  ragazza  si  lanciò  nella carrozza,  preparata con tutti i 
      comodi, senza neppure toccare il montatoio.  Un quarto d'ora dopo, 
      il  postiglione,   rimesso  sul  diritto  sentiero,  oltrepassava, 
      facendo scoppiettare la frusta,  il cancello della barriera Saint- 
      Martin. 
      "Ah!" disse Luigia sospirando. "Eccoci dunque uscite da Parigi." 
      "Sì, mia cara, e il ratto è bello e ben combinato" disse Eugenia. 
      "Sì, ma senza violenza" disse Luigia. 
      "Farò valere questo come circostanza attenuante." 
      Queste  parole si perdettero nel rumore che faceva la carrozza sul 
      selciato della Villette. 
      Il signor Danglars non aveva più figlia. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 97. 
                  L'OSTERIA DELLA CAMPANA E DELLA BOTTIGLIA. 
 
 
      Lasciamo la signorina Danglars e la sua amica correre sulla strada 
      di  Bruxelles,  e  torniamo  al  povero  Andrea  Cavalcanti,  così 
      goffamente  capitombolato  dalla  sua  fortuna.  Malgrado  la  sua 
      giovane età,  Andrea Cavalcanti era svelto e intelligente.  Quindi 
      alle  prime voci giunte nelle sale,  lo abbiamo visto lentamente e 
      cautamente accostarsi alla porta traversare una o  due  stanze,  e 
      infine  scomparire.  Una  circostanza  che  abbiamo dimenticato di 
      menzionare, e non va omessa, è che in una di quelle due stanze che 
      doveva attraversare era esposto il corredo della sposa: scrigni di 
      diamanti,  scialli di cachemire,  merletti  di  Valenciennes  veli 
      d'Inghilterra,  e  ogni sorta infine di oggetti tentatori,  al cui 
      nome soltanto balza di gioia il cuore delle signorine da marito, e 
      che concorre a formare ciò che si chiama la dote di nozze. 
      Ora,  passando da questa camera,  e tal cosa prova che non solo il 
      giovane   era   molto  svelto  e  intelligente,   ma  anche  molto 
      previdente,  egli afferrò l'astuccio che conteneva  la  più  ricca 
      parure di brillanti fra quelle la esposte. 
      Munito di questo viatico, Andrea si era sentito più coraggioso nel 
      saltare dalla finestra, e fuggire dalle mani dei gendarmi. 
      Alto  e  snello  come  l'antico  gladiatore,  muscoloso  come  uno 
      spartano Andrea aveva fatto una corsa di  un  quarto  d'ora  senza 
      sapere  dove  andava,  e  allo  scopo  soltanto d'allontanarsi dal 
      luogo, dove per poco non era stato arrestato. 
      Partendo dalla rue Mont-Blanc,  si era ritrovato in fondo alla rue 
      Lafayette.  Là,  senza  fiato e ansimante,  si fermò: era solo,  e 
      aveva alla sinistra il recinto di  Saint-Lazare,  vasto,  deserto; 
      alla sua destra, Parigi in tutta la sua estensione. 
      "Sono perduto?" domandò a se stesso. "No, ho a mia disposizione un 
      tempo superiore a quello dei miei nemici. La mia salvezza è dunque 
      semplicemente una questione di chilometri." 
      In quel momento scoprì,  salendo per il Faubourg Poissonnière, una 
      carrozza da piazza,  il cui cocchiere meditabondo,  fumando la sua 
      pipa,  sembrava voler raggiungere l'estremità opposta del Faubourg 
      Saint-Denis, dove, senza dubbio, solitamente parcheggiava. 
      "Eh, amico!" disse Benedetto. 
      "Che c'è, borghese?" domandò il cocchiere. 
      "E' stanco il vostro cavallo?" 
      "Stanco? Oh, sì davvero! Non ha fatto niente in tutta la giornata. 
      Quattro cattive corse e venti soldi  di  mancia,  in  tutto  sette 
      franchi, e devo darne dieci al padrone!" 
      "Volete aggiungerne altri venti a questi sette franchi, eh?" 
      "Con  piacere,  borghese,  venti franchi non sono da disprezzarsi. 
      Che c'è da fare? Sentiamo." 
      "Una cosa facilissima,  sempre  che  il  vostro  cavallo  non  sia 
      stanco." 
      "Vi  dico  che  volerà come zefiro...  Tutto sta a sapere da quale 
      parte volete che vada." 
      "Dalla parte di Louvres." 
      "Ah, lo conosco: il paese del ratafià." 
      "Precisamente. Si tratta di raggiungere un amico, col quale domani 
      mattina  debbo  andare  a  caccia  a  Chapelle-en-Serval.   Doveva 
      aspettarmi  qui  fino alle undici e mezzo,  è mezzanotte,  si sarà 
      stancato di aspettarmi, e sarà partito solo." 
      "E' probabile." 
      "Ebbene, volete tentare di raggiungerlo?" 
      "Non chiedo di meglio." 
      "Se non lo raggiungiamo di qui a Bourget, avrete venti franchi. Se 
      non lo raggiungiamo di qui a Louvres, trenta." 
      "E se lo raggiungiamo?" 
      "Quaranta!" disse Andrea, che dopo un momento di esitazione, aveva 
      riflettuto che non arrischiava niente a promettere. 
      "Così va  bene!"  disse  il  cocchiere.  "Salite,  e  in  cammino! 
      Youuu!..." 
      Andrea salì nel calesse,  che,  con una rapida corsa,  traversò il 
      Faubourg  Saint-Denis,   costeggiò   il   Faubourg   Saint-Martin, 
      attraversò la barriera, e infilò la interminabile Villette. Ma sì, 
      aveva  un  bel  correre  per  raggiungere  l'amico che non era mai 
      esistito.  Di  tratto  in  tratto,  alle  bettole  ancora  aperte, 
      Cavalcanti chiedeva informazioni di un calesse verde,  con cavallo 
      baio scuro,  e,  siccome sulla strada dei Paesi Bassi  circola  un 
      buon  numero  di  vetture  i cui nove decimi sono verdi,  tutti lo 
      avevano sempre  veduto  passare  poco  prima,  non  poteva  essere 
      lontano più di cinquecento passi,  più di duecento,  più di cento; 
      ma raggiuntolo, lo oltrepassavano, perché non era quello. 
      Una volta passò  un  calesse,  rapidamente  tirato  da  due  buoni 
      cavalli da posta. 
      "Ah"  disse fra sé Cavalcanti.  "Se avessi quel calesse,  quei due 
      buoni cavalli,  e soprattutto  il  passaporto  che  ci  vuole  per 
      prenderli!" 
      E sospirò profondamente. 
      Quel calesse era quello che trasportava la signorina Danglars e la 
      signorina d Armilly. 
      "Presto!   presto!"   disse   Andrea.   "Non  possiamo  tardare  a 
      raggiungerlo." 
      Il povero cavallo riprese il trotto, e giunse fumante a Louvres. 
      "E'  deciso"  disse  Andrea,   "vedo  bene  che  non  è  possibile 
      raggiungere  il mio amico,  e che ammazzerei il vostro cavallo,  è 
      quindi meglio che mi fermi.  Ecco i vostri trenta franchi.  Me  ne 
      vado  a dormire al Cavallo Rosso,  e la prima carrozza nella quale 
      troverò un posto, la prenderò. Buona sera, amico." 
      E Andrea,  dopo aver messo sei monete da cinque franchi nella mano 
      del cocchiere, saltò lestamente sulla strada. 
      Il  cocchiere  mise  allegramente  il  denaro il tasca,  e riprese 
      lentamente la strada di Parigi. 
      Andrea finse di andare al Cavallo Rosso, ma,  dopo essersi fermato 
      un  istante  alla  porta,  aspettando che il rumore del calesse si 
      perdesse nella campagna, riprese la strada, e con passo elastico e 
      sveltissimo,  fece una corsa di almeno due leghe.  Là  si  riposò; 
      doveva  esser vicino alla Chapelle-en-Serval,  dove aveva detto di 
      voler arrivare. 
      Non era per la fatica che si fermava  Andrea  Cavalcanti,  ma  per 
      bisogno di prendere una decisione, per la necessità di adottare un 
      piano.  Montare  in diligenza era impossibile,  prendere la posta, 
      impossibile ugualmente.  Per viaggiare nell'uno o nell'altro modo, 
      il  passaporto  è  la  prima necessità.  Dimorare nel dipartimento 
      dell'Oise,  vale a dire in uno dei dipartimenti più frequentati  e 
      più   sorvegliati   di   Francia,   era   ugualmente  impossibile, 
      impossibile soprattutto ad un uomo come Andrea,  che aveva  a  che 
      fare con la giustizia. 
      Andrea sedette sulle rive di un fosso,  lasciò cadere la testa fra 
      le mani e rifletté.  Dieci minuti dopo rialzò  la  testa:  la  sua 
      decisione era presa. 
      Coprì  di polvere una parte del soprabito che aveva avuto il tempo 
      di prendere nell'anticamera,  lo abbottonò del tutto  in  modo  da 
      nascondere  l'abito  da  sera  e giungendo alla Chapelle-en-Serval 
      corse a battere arditamente alla porta del solo albergo del paese. 
      L'oste venne ad aprire. 
      "Amico mio" disse Andrea,  "io andavo da  Mortefontain  a  Senlis, 
      quando il mio cavallo,  che è un animale cattivo, s'è imbizzarrito 
      e mi ha buttato di sella.  Stanotte mi  necessita  di  giungere  a 
      Compiègne  per  risparmiare  le  più  vive  inquietudini  alla mia 
      famiglia. Avreste un cavallo da darmi a nolo?" 
      Buono o cattivo,  un albergatore ha sempre  un  cavallo,  per  cui 
      l'albergatore   della  Chapelle-en-Serval  chiamò  il  garzone  di 
      stalla,  gli ordinò di sellare il Bianco,  e risvegliò suo figlio, 
      un bambino di sette anni che doveva montare in groppa col signore, 
      per ricondurre il quadrupede. 
      Andrea pagò venti franchi all'albergatore,  e sfilandoli di tasca, 
      lasciò cadere un biglietto da visita.  Questo biglietto da  visita 
      era  quello  di  uno  dei  suoi amici del Caffè di Parigi,  e così 
      l'albergatore,  quando Andrea fu  partito,  ed  ebbe  raccolto  il 
      biglietto caduto di tasca, fu convinto di aver dato il suo cavallo 
      al conte di Mauléon, rue Saint-Dominique 25: il nome e l'indirizzo 
      che si trovavano sul biglietto. 
      Se il Bianco non andava di galoppo, andava però con passo eguale e 
      continuo:  in  tre  ore  e  mezzo Andrea fece le nove leghe che lo 
      separavano da Compiègne;  suonavano le  quattro  all'orologio  del 
      Palazzo  di  Città,  quando giunse sulla piazza dove si fermano le 
      diligenze. 
      A Compiègne vi è un eccellente albergo,  di cui si ricordano anche 
      quelli che vi hanno alloggiato una sola volta.  Andrea,  che vi si 
      era fermato in occasione di una corsa nei dintorni di  Parigi,  si 
      ricordò  dell'albergatore  della  Campana  e  della Bottiglia.  Si 
      orizzontò,  vide al chiarore del lampione l'insegna  e  dopo  aver 
      congedato il bambino, al quale regalò quanto aveva di moneta, andò 
      a battere alla porta, riflettendo con molta perspicacia, che aveva 
      tre o quattro ore di vantaggio, e che il meglio era premunirsi con 
      un buon sonno ed una buona cena contro le fatiche future. 
      Il cameriere gli venne ad aprire. 
      "Amico mio" disse Andrea,  "arrivo da Saint-Jean du Bois,  dove ho 
      pranzato,  contavo di prendere la carrozza che passa a mezzanotte, 
      ma  mi  sono perduto come uno stupido,  e sono già quattro ore che 
      passeggio nella foresta.  Datemi una di quelle camerette che danno 
      sul cortile,  e vedete di portarmi un pollo freddo e una bottiglia 
      di vino di Bordeaux." 
      Il cameriere non ebbe alcun sospetto:  Andrea  parlava  colla  più 
      perfetta  tranquillità,  aveva  il sigaro in bocca e le mani nelle 
      tasche dell'abito;  aveva l'aspetto di persona  in  ritardo,  ecco 
      tutto. 
      Mentre il cameriere preparava la camera, l'ostessa si alzò. Andrea 
      l'accolse  col più grazioso sorriso,  e le domandò se poteva avere 
      la camera numero 3 in cui aveva dormito  l'ultima  volta  che  era 
      passato da Compiègne; disgraziatamente la numero 3 era occupata da 
      un giovane che viaggiava con sua sorella. 
      Andrea  parve  disperato,  ma  si consolò quando l'ostessa lo ebbe 
      assicurato che si stava preparando la numero 7, quindi scaldandosi 
      i piedi e  parlando  delle  ultime  corse  di  Chantilly,  aspettò 
      l'avvisassero che la camera era in ordine. 
      Non  senza ragione Andrea aveva parlato di quei begli appartamenti 
      che davano sul cortile.  Il  cortile  dell'albergo  della  Campana 
      aveva una triplice fila di gallerie che gli davano l'aspetto di un 
      anfiteatro,  con  i suoi gelsomini e le sue clematidi che salivano 
      lungo le colonne, leggere come una decorazione naturale: è uno dei 
      più graziosi ingressi d'albergo ch'esistano al mondo. 
      Il  pollo  era  fresco,  il  vino  vecchio,  il  fuoco  ardente  e 
      sfavillante;  Andrea,  cenando,  fu sorpreso del buon appetito che 
      aveva, come se nulla gli fosse accaduto. Quindi andò a letto, e si 
      addormentò  subito  con  quel  sonno  implacabile  che  l'uomo   a 
      vent'anni  trova  sempre,  anche quando ha rimorsi.  Ora noi siamo 
      costretti a confessare che Andrea doveva avere dei rimorsi, ma che 
      non ne aveva. 
      Ecco qual era il piano di Andrea, piano che gli aveva infuso quasi 
      tutta la sua sicurezza.  Col giorno  si  sarebbe  alzato,  sarebbe 
      partito  dall'albergo,  dopo  avere  pagato scrupolosamente i suoi 
      conti; si sarebbe internato nella foresta, avrebbe ottenuto, sotto 
      pretesto di fare  degli  studi  di  pittura,  l'ospitalità  di  un 
      paesano; si sarebbe procurato un abito da campagnolo, spogliandosi 
      della  pelle  di  leone  per prendere quella dell'artista;  quindi 
      colle mani terrose,  i capelli imbruniti da un pettine di  piombo, 
      colla tinta della pelle alterata da una preparazione di cui i suoi 
      vecchi compagni gli avevano dato la ricetta, di foresta in foresta 
      avrebbe  poi  raggiunta  la  frontiera  più vicina,  camminando la 
      notte,  dormendo il giorno nel bosco,  senza avvicinarsi ai luoghi 
      abitati  che  per  comprare  del  pane.   Una  volta  superata  la 
      frontiera,  Andrea avrebbe  fatto  denari  coi  suoi  diamanti,  e 
      aggiunto al prezzo che ne avrebbe ricavato una decina di biglietti 
      di  banca  che portava sempre indosso per qualunque accidente,  si 
      sarebbe trovato ancora padrone di circa cinquantamila franchi. 
      D'altronde contava molto sull'interesse dei Danglars di  soffocare 
      le dicerie della loro disavventura. 
      Ecco perché, oltre la stanchezza, Andrea dormì così presto e bene. 
      D'altronde  per  esser  sveglio di buon mattino,  Andrea non aveva 
      chiuse le persiane;  si era  soltanto  contentato  di  mettere  il 
      catenaccio alla porta,  e di tenere aperto, sul tavolino da notte, 
      un certo coltello, di cui conosceva l'eccellente tempra, e che non 
      lasciava mai. 
      Verso le sette del mattino Andrea fu svegliato  da  un  raggio  di 
      sole, che veniva tiepido e brillante a infastidirgli il viso. 
      In  tutti  i cervelli all'erta c'è sempre un'idea dominante,  ed è 
      quella che s'addormenta per ultima e balza per prima al risveglio. 
      Andrea non aveva ancora  interamente  aperti  gli  occhi,  che  un 
      pensiero  già  lo  possedeva,  e  gli soffiava all'orecchio: aveva 
      dormito troppo a lungo.  Saltò giù  dal  letto,  e  corse  ad  una 
      finestra. 
      Un  gendarme  traversava  il cortile.  Un gendarme è una di quelle 
      apparizioni che fanno sempre sensazione in questo modo,  anche per 
      l'occhio d'un uomo onesto,  ma per ogni coscienza inquieta,  e che 
      ha  motivo  di  esserlo,   il  giallo,   l'azzurro  ed  il  bianco 
      dell'uniforme diventano colori spaventosi. 
      "Perché un gendarme?..." si chiese Andrea. 
      Quindi  d'un  tratto replicò,  con quella logica che il lettore ha 
      già notato in lui: 
      "Non c'è motivo di meravigliarsi se c'è un gendarme in un'osteria: 
      su, vestiamoci." 
      E il giovane si vestì con una  rapidità  che  non  aveva  perduta, 
      malgrado  fosse  stato  accudito dal suo cameriere durante i pochi 
      mesi di vita elegante a Parigi. 
      "Bene!" disse Andrea  nel  vestirsi.  "Aspetterò  che  se  ne  sia 
      andato, e quando sarà sparito, me la filerò anch'io." 
      E,  mentre  diceva  queste parole,  Andrea mettendosi la cravatta, 
      ritornò alla finestra e sollevò una seconda volta la tendina. 
      Non solo il primo gendarme non se  n'era  andato,  ma  il  giovane 
      scoperse  un'altra  uniforme  azzurra,  gialla  e bianca alla fine 
      della scala,  la sola da  cui  si  poteva  scendere,  e  un  terzo 
      gendarme a cavallo, e con la carabina in mano, di sentinella sulla 
      porta di strada, la sola da cui si poteva uscire. 
      Questo  terzo  gendarme  era  significativo,  perché davanti a lui 
      c'era un semicerchio di  curiosi  che  bloccava  ermeticamente  la 
      porta dell'albergo. 
      "Son cercato!" fu il primo pensiero di Andrea. "Diavolo!" 
      Il pallore sbiancò la fronte del giovane,  guardò intorno a sé con 
      ansietà.  La sua camera non aveva altra uscita che dalla  galleria 
      esterna esposta agli sguardi di tutti. 
      "Sono perduto!" fu il secondo pensiero. 
      Infatti  per un uomo nella situazione di Andrea,  l'arresto voleva 
      dire: processo, giudizio, morte,  morte senza misericordia e senza 
      scampo. 
      Per  un  istante si compresse affannosamente la testa fra le mani. 
      Poco mancò non diventasse pazzo dalla paura. 
      Ma ben presto da questa folla di pensieri  contrastanti,  uscì  un 
      lume  di speranza;  un pallido sorriso si delineò sulle sue labbra 
      tremanti e sulle  guance  contratte.  Guardò  intorno  a  sé:  gli 
      oggetti che cercava li trovò su un tavolino, erano penna, calamaio 
      e  carta.  Bagnò la penna nell'inchiostro e scrisse,  con mano che 
      cercò di rendere ferma, le seguenti righe sul primo foglio: 
 
      "Non ho denari per pagare,  ma sono uomo onesto;  lascio in  pegno 
      questo  spillo che vale dieci volte la spesa che ho fatto;  chiedo 
      scusa per essere fuggito allo spuntar del giorno, ma ho vergogna!" 
 
      Si tolse lo spillo della cravatta,  e lo depose  sul  foglio.  Ciò 
      fatto,  invece di lasciar chiusi i catenacci,  li aprì,  socchiuse 
      anzi la porta,  come fosse uscito  dalla  camera  dimenticando  di 
      chiuderla,  e arrampicandosi su per la cappa del camino, come uomo 
      già avvezzo a questa specie di ginnastica,  attirò il  paracamino, 
      cancellò  coi  piedi  anche  la traccia dei passi nella stanza,  e 
      scalò la cappa che gli offriva la sola via di salvezza nella quale 
      sperasse ancora. 
      In quel momento il primo gendarme che aveva colpito  la  vista  di 
      Andrea,  saliva la scala preceduto da un commissario di polizia, e 
      seguito dal secondo gendarme che guardava l'estremità della scala, 
      e che poteva sempre aver coperte le spalle  dal  terzo  che  stava 
      alla porta. 
      Ecco  a  quale  circostanza  Andrea  doveva  quella visita,  tanto 
      ingrata e dalla quale si era voluto così faticosamente dispensare. 
      Al sorgere del giorno i telegrafi erano stati  messi  in  moto  in 
      tutte  le direzioni,  e quasi immediatamente la gendarmeria si era 
      posta alla ricerca dell'uccisore di Caderousse. 
      Compiègne, residenza reale, Compiègne, città di caccia, Compiègne, 
      città di guarnigione, è abbondantemente provvista di gendarmi e di 
      commissari di polizia.  Le indagini erano dunque cominciate subito 
      dopo  l'ordine telegrafico,  e,  essendo l'osteria della Campana e 
      della  Bottiglia  la  prima  della  città,   si  era  naturalmente 
      incominciato da quella.  D'altronde, dal rapporto delle sentinelle 
      che erano state di guardia durante la notte al  Palazzo  di  Città 
      (il  Palazzo  della  Città era attiguo all'albergo della Campana), 
      risultava che diversi viaggiatori erano scesi durante la notte  al 
      detto albergo. 
      La  sentinella che era stata di guardia fino alle sei del mattino, 
      si ricordava ancora che al momento  in  cui  era  stata  messa  di 
      fazione, cioè alle quattro e alcuni minuti, aveva visto un giovane 
      su un cavallo bianco, con un piccolo contadino in groppa, andare a 
      bussare all'albergo della Campana,  entrarvi,  e dopo chiudersi la 
      porta.  Su questo giovane,  che era arrivato così tardi,  si erano 
      appuntati  tutti  i  sospetti.  E questo giovane non era altri che 
      Andrea. Per la certezza di questi dati,  il commissario di polizia 
      e  il gendarme,  che era un brigadiere,  si incamminavano verso la 
      porta di Andrea con una certa circospezione. 
      Trovarono la porta socchiusa. 
      "Oh,  oh" disse il  brigadiere,  vecchia  volpe  allevata  tra  le 
      furberie dello stato,  "cattivo indizio,  una porta aperta!  Avrei 
      preferito fosse chiusa con triplice catenaccio." 
      Infatti la piccola lettera e lo spillo lasciati  da  Andrea  sulla 
      tavola  confermarono,  o  piuttosto  avallarono  la  supposizione: 
      Andrea era fuggito. 
      Noi diciamo  confermarono,  ma  il  brigadiere  non  era  uomo  da 
      arrendersi ad una evidenza.  Guardò intorno a sé,  cacciò l'occhio 
      sotto il letto spiegò le tende,  aprì gli armadi,  e finalmente si 
      fermò al caminetto. 
      Date le precauzioni di Andrea, nelle ceneri non era rimasta alcuna 
      traccia  del  suo passaggio.  Però era un'uscita possibile,  ed in 
      simili circostanze,  tutte le  uscite  devono  essere  controllate 
      minuziosamente. 
      Il  brigadiere  si fece dunque portare una fascina e della paglia, 
      ne fece un involto,  lo calcò nel caminetto come avrebbe fatto  in 
      un  mortaio  per una bomba,  e vi appiccò il fuoco.  Il fuoco fece 
      crepitare le pareti della cappa: una  colonna  opaca  di  fumo  si 
      slanciò  su  per il condotto,  e salì verso il cielo come il tetro 
      getto di un vulcano,  ma non vide cadere il prigioniero,  come  si 
      aspettava. 
      Per  questo Andrea,  in lotta colla società fino dalla giovinezza, 
      ci voleva altro che un gendarme,  fosse  anche  elevato  al  grado 
      rispettabile di brigadiere.  Prevedendo l'incendio, era salito sul 
      tetto e si era nascosto dietro il comignolo. 
      Per il momento ebbe qualche speranza di  essersi  salvato,  perché 
      intese il brigadiere che chiamando i due compagni,  diceva loro ad 
      alta voce: 
      "Non c'è più!" 
      Ma allungando cautamente il collo, vide i due gendarmi, che invece 
      di ritirarsi,  come  sembrava  naturale,  vide,  dicevamo,  i  due 
      gendarmi  raddoppiare  l'attenzione.  Allora,  a  sua volta,  girò 
      intorno a sé lo sguardo: il Palazzo di Città,  fabbrica  colossale 
      del  sedicesimo  secolo,  s'innalzava  come un tetro muro alla sua 
      destra e,  dalle finestre del  palazzo,  si  potevano  controllare 
      tutti  gli  angoli  e contrangoli del tetto,  come dall'alto della 
      montagna si vede la vallata.  Andrea comprese che in breve avrebbe 
      visto  comparire  la  testa  del  brigadiere  a qualcuna di quelle 
      finestre...  Scoperto,  era perduto: una caccia sul tetto non  gli 
      presentava  probabilità  di successo.  Risolse dunque di tornare a 
      scendere, non per lo stesso fumaiolo da cui era venuto,  ma per un 
      fumaiolo  vicino.  Ne cercò cogli occhi uno che non mandasse fumo, 
      lo raggiunse  andando  carpone  sul  tetto,  e  disparve  dal  suo 
      orifizio senza essere stato veduto da alcuno. 
      Un istante dopo si aprì una piccola finestra del Palazzo di Città; 
      e apparve la testa del brigadiere. 
      Quella testa rimase per alcuni istanti immobile,  come uno di quei 
      bassorilievi di pietra che decorano il fabbricato;  quindi con  un 
      lungo sospiro d'inquietudine la testa sparì. 
      Il brigadiere,  tranquillo e dignitoso come la legge di cui era il 
      rappresentante,  passò senza rispondere alle mille domande tra  la 
      folla riunita sulla piazza, e rientrò nell'albergo. 
      "Ehbene?" domandarono a loro volta i due gendarmi. 
      "Ebbene,  figli miei" rispose il brigadiere,  "bisogna davvero che 
      il brigante sia scappato questa mattina presto,  ma ora lo  faremo 
      seguire  sulla  strada  di Villers-Cotterets e di Noyon,  e faremo 
      frugare la foresta, dove lo acchiapperemo infallibilmente." 
      L'onorevole funzionario aveva appena finita  la  frase,  con  quel 
      tono proprio ai brigadieri di gendarmeria,  nel pronunciare questo 
      avverbio sonoro,  quando un lungo grido di spavento,  accompagnato 
      dal   tintinnìo   di  un  campanello,   echeggiarono  nel  cortile 
      dell'albergo. 
      "Che cosa c'è?" gridò il brigadiere. 
      "Ecco un viaggiatore che sembra avere molta fretta" disse  l'oste. 
      "A quale numero suonano?" 
      "Al numero tre." 
      "Correte cameriere." 
      In   quell'istante   le   grida   ed   il   suono  del  campanello 
      raddoppiarono, il cameriere si mise a correre. 
      "No,  fermatevi!" disse il  brigadiere,  trattenendolo.  "Da  come 
      chiamano, chiedono ben altro che un cameriere... Manderemo loro un 
      gendarme per servirli. Chi alloggia al numero tre?" 
      "Un  giovane  giunto con una sorella questa notte con la posta,  e 
      che ha domandato una camera a due letti." 
      Il campanello suonò per la terza volta molto a lungo, troppo. 
      "A me,  signor commissario!  Seguitemi,  ed affrettate il  passo!" 
      disse il brigadiere. 
      "Un  momento"  disse l'oste,  "nella camera numero tre ci sono due 
      uscite, una interna e l'altra esterna." 
      "Bene!" disse il brigadiere. "Io prenderò l'interna,  è affar mio. 
      Le carabine sono cariche?" 
      "Sì, brigadiere." 
      "Voi altri di corsa all'esterno,  e se vuole fuggire,  fuoco... E' 
      un gran criminale, a quanto dice il telegrafo." 
      Il brigadiere,  seguito dal commissario,  s'infilò subito  per  la 
      scala  interna,  accompagnato  dal bisbiglìo che le rivelazioni su 
      Andrea avevano destato nella folla. 
      Ecco ciò ch'era accaduto. 
      Andrea era sceso con molta destrezza fin oltre la metà del camino, 
      ma là,  gli era mancato un piede,  e,  nonostante l'appoggio delle 
      mani,  era precipitato rovinosamente, e soprattutto con più rumore 
      di quello che avrebbe desiderato.  Non sarebbe stato niente se  la 
      camera  fosse stata solitaria,  ma per disgrazia era abitata.  Due 
      donne dormivano in un letto,  questo rumore le aveva svegliate,  i 
      loro sguardi si erano fissati sul punto da cui veniva il rumore, e 
      dall'apertura del caminetto,  avevano visto comparire un uomo. Una 
      di queste due donne,  la donna bionda,  aveva mandato  quel  grido 
      terribile  che era echeggiato per tutta la casa,  mentre la bruna, 
      slanciandosi al cordone  del  campanello,  aveva  dato  l'allarme, 
      agitandolo a tutta forza. Come si vede, Andrea cadeva di disgrazia 
      in disgrazia. 
      "Per pietà!" gridò,  pallido, confuso, senza veder le persone alle 
      quali si rivolgeva. "Per pietà,  non chiamate,  salvatemi!  Io non 
      voglio farvi del male." 
      "Andrea, l'assassino!" gridò una delle due donne. 
      "Eugenia,  la  signorina  Danglars!" mormorò Cavalcanti,  passando 
      dallo spavento allo stupore. 
      "Soccorso!  soccorso!" gridò Luigia d'Armilly,  levando il cordone 
      del  campanello dalle mani inerti d'Eugenia,  e suonando con forza 
      maggiore della compagna. 
      "Salvatemi! Non mi perseguitate!" disse Andrea, giungendo le mani. 
      "Per pietà, per grazia non mi consegnate alla polizia!" 
      "E' troppo tardi, salgono" rispose Eugenia. 
      "Ebbene,  nascondetemi in qualche luogo: direte  che  avete  avuto 
      paura  senza  motivo;  in tal modo allontanerete i sospetti,  e mi 
      avrete salvata la vita." 
      "Ebbene,  sia,  disgraziato!  Riprendete la via per la quale siete 
      venuto. Partite, e non diremo niente." 
      "Eccolo!  eccolo!" gridò una voce sul pianerottolo, "eccolo! Io lo 
      vedo." 
      Infatti il brigadiere  aveva  accostato  l'occhio  al  buco  della 
      serratura,  ed aveva scoperto Andrea,  in piedi e supplicante.  Un 
      violento colpo col calcio del fucile fece saltare  il  catenaccio, 
      due  altri  fecero  saltare  i  gangheri:  la porta infranta cadde 
      dentro la stanza.  Andrea corse all'altra porta che  metteva  alla 
      galleria  del  cortile,  ed  apertala volle precipitarsi: ma i due 
      gendarmi erano là colle carabine puntate.  Andrea si fermò su  due 
      piedi;  ritto,  pallido,  col  corpo  un poco rovesciato indietro, 
      tenendo il suo inutile coltello nella mano rigida. 
      "Fuggite dunque!" gridò la  signorina  d'Armilly,  nel  cui  cuore 
      rientrava la pietà appena uscito lo spavento. "Fuggite dunque." 
      "O  uccidetevi!"  disse Eugenia,  col tono e coll'atteggiamento di 
      una di quelle vestali che  nel  circo  ordinavano  coll'indice  al 
      gladiatore vittorioso di finire il suo avversario atterrato. 
      Andrea  fremette,  e guardò la ragazza con un sorriso di disprezzo 
      col quale provò che la corruzione  non  comprende  questa  sublime 
      ferocia dell'onore. 
      "Uccidermi" disse, gettando il coltello, "per far che?" 
      "Ma,  come  diceste  voi  stesso" gridò Eugenia Danglars,  "sarete 
      condannato a morte, e giustiziato come l'ultimo dei delinquenti." 
      "Bah!" replicò Cavalcanti, mettendo le braccia in croce.  "Ci sono 
      sempre degli amici." 
      Il brigadiere avanzò verso di lui con la sciabola alla mano. 
      "Suvvia,  suvvia" disse Cavalcanti,  "acquietatevi, mio brav'uomo, 
      non vale la pena di fare tanto schiamazzo, perché mi arrendo." 
      E stese le mani alle manette. 
      Le due ragazze guardarono con terrore  la  vergognosa  metamorfosi 
      che  accadeva  sotto i loro occhi: l'uomo galante si spogliava del 
      suo falso costume per tornare uomo  da  galera.  Andrea  si  volse 
      verso di esse, e col riso dell'impudenza: 
      "Avete  qualche commissione per vostro padre,  signorina Eugenia?" 
      disse. "Secondo tutte le probabilità torno a Parigi." 
      Eugenia si nascose la testa fra le mani. 
      "Oh! oh!" disse Andrea.  "Non c'è ragione di vergognarsene,  ed io 
      non  sono  malcontento  che  abbiate  presa  la posta per corrermi 
      dietro... Non ero forse quasi vostro marito?" 
      E detto questo,  Andrea uscì,  lasciando le  due  fuggitive  molto 
      inquiete e avvilite, tra i commenti degli spettatori. 
      Un'ora  dopo,  vestite  entrambe di abiti da donna,  montavano nel 
      loro calesse da posta.  Era stata chiusa la porta dell'albergo per 
      sottrarle ai primi sguardi,  ma non si poté evitare, quando questa 
      porta fu riaperta,  di passare in mezzo  ad  una  doppia  fila  di 
      curiosi.  Eugenia abbassò le tendine,  ma se non vedeva più, udiva 
      ancora le grida ingiuriose che giungevano fino a lei. 
      "Perché il mondo  non  è  un  deserto?"  gridò,  gettandosi  nelle 
      braccia  della  signorina  d'Armilly  cogli  occhi  sfavillanti di 
      rabbia,  come Nerone quando desiderava che tutto il  mondo  romano 
      avesse una sola testa per poterla tagliare in un colpo solo. 
      L'indomani discesero all'albergo delle Fiandre a Bruxelles, mentre 
      Andrea era già da un giorno incarcerato alla Conciergerie. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 98. 
                                  LA LEGGE. 
 
 
      Abbiamo  veduto  con  che  tranquillità  Eugenia Danglars e Luigia 
      d'Armilly avevano potuto compiere il travestimento e la  fuga:  il 
      motivo  era  che  ciascuno  si  occupava dei propri affari,  e non 
      poteva interessarsi di quelli degli altri. Lasceremo il banchiere, 
      col sudore alla fronte,  porre in fila al fantasma del  fallimento 
      le  enormi colonne del suo passivo;  e seguiremo la baronessa che, 
      dopo essere rimasta un istante schiacciata sotto la  violenza  del 
      colpo  che  l'aveva  atterrata,   era  andata  a  trovare  il  suo 
      consigliere ordinario,  Luciano Debray.  La baronessa  contava  su 
      questo matrimonio,  per abbandonare finalmente la tutela, che, con 
      una figlia del carattere di Eugenia,  non cessava di essere  molto 
      penosa: in quella specie di tacito contratto che mantiene i legami 
      di gerarchia in una famiglia,  la madre non è realmente padrona di 
      sua figlia, se non a condizione di essere continuamente esempio di 
      saggezza  e  perfezione.   Ora  la  signora  Danglars  temeva   la 
      perspicacia  di  Eugenia  e  i  consigli della signorina d'Armilly 
      aveva sorpreso alcuni sguardi sdegnosi,  lanciati da sua figlia  a 
      Debray sguardi che sembravano significare che sua figlia conosceva 
      tutto    delle    sue   relazioni   galanti   e   pecuniarie   col 
      sottosegretario,  mentre una interpretazione più sagace e profonda 
      avrebbe,  al  contrario,  dimostrato  alla  baronessa  che Eugenia 
      detestava Debray,  non già perché fosse  nella  casa  paterna  una 
      pietra  d'inciampo  e  di  scandalo,  ma  perché  lo  poneva nella 
      categoria di quei bipedi che Platone cercava di non  chiamare  più 
      uomini, e che Diogene definiva per parafrasi animali a due piedi e 
      senza penne. 
      La signora Danglars,  nel suo modo di vedere, e disgraziatamente a 
      questo mondo tutti hanno il loro modo di vedere che  impedisce  di 
      capire quello con cui vedono gli altri,  la signora Danglars,  nel 
      suo modo di vedere, dicevamo, era dunque infinitamente dolente che 
      fosse andato in fumo  anche  questo  matrimonio  di  Eugenia,  non 
      perché fosse conveniente e dovesse fare la felicità di sua figlia, 
      ma  perché  questo  matrimonio le rendeva tutta la libertà.  Corse 
      dunque, come abbiamo detto,  da Debray che dopo avere,  come tutta 
      Parigi, assistito alla serata del contratto e allo scandalo che ne 
      era  stata  la  conseguenza,  si era affrettato a ritirarsi al suo 
      club,  dove con alcuni amici parlava  dell'avvenimento  al  centro 
      della  conversazione  di  tre quarti di questa città eminentemente 
      pettegola, che si chiama la capitale del mondo. 
      Nel momento in cui la signora Danglars, vestita d'un abito nero, e 
      nascosta sotto un  lungo  velo,  saliva  la  scala  che  conduceva 
      all'appartamento  di  Debray,  quantunque  il  portinaio  l'avesse 
      assicurata che il giovane non era  ancora  rientrato,  Debray  era 
      intento  a  respingere  le  argomentazioni di un amico affannato a 
      provargli che,  dopo il terribile scandalo,  era suo dovere,  come 
      amico  di  casa,  sposare  Eugenia  Danglars e i suoi due milioni. 
      Debray si difendeva come uno a cui non  dispiace  perdere,  poiché 
      spesso  questa  idea  gli era venuta in mente ma siccome conosceva 
      Eugenia e il suo carattere  indipendente  e  altero  si  difendeva 
      dicendo  che  questa  unione  era  impossibile,   anzi  del  tutto 
      impossibile.  Però  sotto  sotto,  si  lasciava  stuzzicare  dalle 
      peggiori  brame  che,  al  dire di tutti i moralisti,  preoccupano 
      incessantemente l'uomo più probo e più  puro  vegliando  al  fondo 
      della sua anima, come Satanasso veglia dietro la croce. 
      Il tè, il gioco, la conversazione interessante, come si può capire 
      giacché vi si discutevano affari così gravi, durarono fino all'una 
      del mattino.  Durante questo tempo, la signora Danglars introdotta 
      dal cameriere di  Luciano,  aspettava  velata  e  palpitante,  nel 
      piccolo  salotto  verde,  fra due cestelli di fiori inviati da lei 
      stessa quella mattina, e accomodati, bisogna dirlo,  distribuiti e 
      montati  da  Debray  stesso con una cura che fece perdonare la sua 
      assenza alla povera donna. 
      Alle undici e quaranta minuti,  la  signora  Danglars,  stanca  di 
      attendere inutilmente,  risalì nella carrozza e si fece ricondurre 
      a casa.  Le donne di una certa condizione hanno questo  in  comune 
      colle  crestaie di buoni costumi,  che di solito non tornano mai a 
      casa dopo mezzanotte.  La baronessa rientrò nel palazzo con  tanta 
      precauzione,  quanto  ne  aveva  messa  Eugenia nell'uscire.  Salì 
      cautamente,  col cuore angosciato,  la scala del suo appartamento, 
      continguo  a quello di Eugenia,  temendo di far rumore,  poiché la 
      povera  donna  confidava  nell'innocenza  della  figlia  e   nella 
      inviolabilità  del  focolare paterno!  Rientrando nelle sue stanze 
      origliò alla porta di Eugenia, quindi,  non sentendo alcun rumore, 
      tentò di entrare,  ma era chiusa;  pensò che Eugenia, stanca delle 
      forti emozioni della sera, si fosse messa a letto e dormisse.  Poi 
      chiamò la cameriera, e la interrogò: 
      "La signorina Eugenia" rispose la cameriera,  "è rientrata nel suo 
      appartamento con la signorina d'Armilly,  quindi hanno preso il tè 
      assieme,  dopo  mi  hanno  congedata  dicendo  che non avevano più 
      bisogno di me." 
      La signorina Danglars dunque andò a letto senz'ombra di  sospetto. 
      Ma  pensando  allo  scandalo,  all'ignominia  di  quella sera,  la 
      baronessa si ricordò che era  stata  senza  pietà  con  la  povera 
      Mercedes, colpita duramente, nello sposo e nel figlio, da una così 
      grande sventura. 
      "Eugenia"  diceva  a  se  stessa,  "è  perduta,  e noi ugualmente. 
      L'affare come poi sarà divulgato,  ci ricopre di vergogna.  In  un 
      ceto  come  il nostro Il ridicolo è una piaga viva,  sanguinosa ed 
      incurabile.  Che felicità"  mormorava,  "che  Dio  abbia  dato  ad 
      Eugenia  un  carattere  così  stravagante anche se mi ha fatto più 
      d'una volta soffrire!" 
      E il suo sguardo riconoscente si alzava verso il cielo,  dove  una 
      misteriosa provvidenza dispone tutto in anticipo,  a seconda degli 
      avvenimenti che devono accadere, e di un difetto, e talvolta anche 
      di un vizio, ne fa una virtù. Quindi il suo pensiero oltrepassò lo 
      spazio,  come fa l'uccello sorvolando un abisso,  e  si  fermò  su 
      Cavalcanti. 
      Andrea  era  un  miserabile,   un  ladro,   un  assassino,  e  ciò 
      nonostante, possedeva modi che tradivano una mezza educazione,  se 
      non un'educazione completa;  questo Andrea si era presentato nella 
      società coll'apparenza di un gran signore, e coll'appoggio di nomi 
      onorevoli.  Come veder chiaro in  quell'intrigo?  A  chi  chiedere 
      consiglio per uscire da questa crudele posizione? Debray, al quale 
      aveva   ricorso   nel   primo  slancio  della  donna  che  confida 
      nell'amante,  Debray non poteva  darle  che  un  consiglio:  c'era 
      qualche  altro più possente di lui al quale doveva rivolgersi.  La 
      baronessa pensò allora al signor Villefort.  Chi aveva voluto fare 
      arrestare  Cavalcanti,  era il signor Villefort;  chi senza pietà, 
      aveva portata la confusione in mezzo alla  sua  famiglia  come  se 
      fosse stata una famiglia estranea, era il signor Villefort. Ma no, 
      riflettendovi,  non  era un uomo senza pietà il regio procuratore, 
      era un magistrato, schiavo dei suoi doveri. 
      La condotta di Villefort,  riflettendovi  bene,  compariva  dunque 
      alla  baronessa  sotto  un  aspetto  che  poteva risolversi a loro 
      comune vantaggio. La inflessibilità del procuratore avrebbe dovuto 
      cedere  su  questo  punto:   lei   sarebbe   andata   a   trovarlo 
      all'indomani,  e  avrebbe  ottenuto,  se  non che mancasse ai suoi 
      doveri di magistrato,  almeno che conducesse il processo con tutta 
      la possibile indulgenza. La baronessa avrebbe invocato il passato, 
      e  avrebbe  supplicato  in  nome di un amore,  biasimevole sì,  ma 
      felice;   il  signor  Villefort   avrebbe   ridotta   la   gravità 
      dell'affare,  o almeno avrebbe lasciato fuggire Cavalcanti,  e non 
      avrebbe continuato il  processo  che  sotto  l'ombra  del  reo  in 
      contumacia. Allora soltanto si addormentò più tranquilla. 
      L'indomani  alle nove si alzò,  e senza chiamare la cameriera,  si 
      abbigliò,  e vestita con la stessa semplicità della sera  innanzi, 
      discese  la  scala,  uscì  dal  palazzo,  camminò fino alla rue de 
      Provence,  salì in una carrozza da nolo,  e si fece condurre  alla 
      casa del signor Villefort. 
      Da un mese quella casa aveva l'aspetto lugubre di un lazzaretto in 
      cui  si  fosse  dichiarata  la peste: una parte degli appartamenti 
      erano chiusi all'interno ed all'esterno.  Quando  le  persiane  si 
      aprivano  per ventilar le stanze,  si vedeva comparire la testa di 
      un lacchè,  quindi si richiudevano come ricade la  lapide  di  una 
      tomba  sopra  una sepoltura,  e i vicini si dicevano a bassa voce: 
      "Forse che stiamo per vedere un'altra bara uscire dalla  casa  del 
      regio procuratore?". 
      La  signora  Danglars fu presa da un fremito all'aspetto di quella 
      casa;  discese  dalla  carrozza  da  nolo,  e,  con  le  ginocchia 
      tremanti, si accostò alla porta chiusa e suonò. 
      Dopo  la  terza  volta,  il  portinaio  comparve ad uno sportello, 
      grande  appena  da  lasciare  passare  le  parole,   e  stette  ad 
      esaminarla senza aprire. 
      "Ma, aprite, dunque!" disse la baronessa. 
      "Prima di tutto, signora, chi siete?" domandò il portinaio. 
      "Chi sono? Ma voi mi conoscete." 
      "Noi non conosciamo più nessuno, signora." 
      "Ma siete pazzo, amico mio?" gridò la baronessa. 
      "Da parte di chi venite?" 
      "Oh, questo è troppo!" 
      "Signora, scusatemi ma questo è l'ordine: il vostro nome?" 
      "La baronessa Danglars, mi avete vista almeno venti volte." 
      "E' possibile, signora. Ora che volete?" 
      "Oh,  quanto  siete  strambo!  Mi  lagnerò  col  signor  Villefort 
      dell'impertinenza della servitù." 
      "Signora, questa non è impertinenza, ma precauzione! Nessuno entra 
      più qui senza una parola d'ordine del dottor  d'Avrigny,  o  senza 
      aver parlato al regio procuratore." 
      "Ebbene, è precisamente al regio procuratore che debbo parlare." 
      "Per affare di premura?" 
      "Dovete  ben  accorgervene,  poiché  non  sono  ancora risalita in 
      carrozza. Ma finiamola: ecco il mio biglietto da visita, portatelo 
      al vostro padrone." 
      "La signora aspetterà il mio ritorno?" 
      "Sì, andate." 
      Il portinaio richiuse  lo  sportello.  La  baronessa  non  aspettò 
      lungamente,  un momento dopo la porta si riaprì: passò, e la porta 
      si richiuse dietro di lei.  Arrivati  nel  cortile,  il  portinaio 
      senza perdere un momento di vista la porta,  diede un fischio.  Il 
      cameriere del signor Villefort comparve sulla scala. 
      "La signora scuserà questo brav'uomo" disse, venendo incontro alla 
      baronessa,  "ma i suoi ordini sono severi,  ed il signor Villefort 
      mi  ha  incaricato  di  dire  alla  signora  che  non  poteva fare 
      altrimenti di quel che ha fatto." 
      Nel  cortile  c'era  un   fornitore,   introdotto   colle   stesse 
      precauzioni, di cui si esaminavano le mercanzie. La baronessa salì 
      sulla scala,  e, sempre guidata dal cameriere, fu introdotta nello 
      studio del magistrato,  senza che la sua guida l'avesse un momento 
      perduta  di  vista.  Quella  generale  tristezza  le cagionava una 
      grandissima impressione. 
      Per quanto la signora Danglars fosse preoccupata  da  ciò  che  la 
      spingeva  in  quel luogo,  l'accoglienza ricevuta dalla servitù le 
      parve così indegna  che  cominciò  a  lamentarsene.  Ma  Villefort 
      sollevò  la  testa gravata dal dolore,  e la guardò con un sorriso 
      così triste, che le lagnanze le si spensero sulle labbra. 
      "Scusate  i  miei  servitori  per  un  fatto  di  cui  non   posso 
      incolparli: caduti in sospetto, sono divenuti sospettosi." 
      La  signora  Danglars aveva spesso sentito parlare di quel terrore 
      accennato da Villefort, ma non avrebbe mai potuto credere,  se non 
      lo  avesse  sperimentato  coi propri occhi,  che questo sentimento 
      potesse essere portato a tal punto! 
      "Voi pure" disse, "siete dunque infelice!" 
      "Sì, signora" rispose il magistrato. 
      "Allora mi compiangerete?" 
      "Sinceramente, signora." 
      "E capirete il motivo che mi conduce da voi?" 
      "Venite per parlarmi di quanto vi accade, non è vero?" 
      "Sì, signore, una terribile disgrazia." 
      "Vale a dire, una sventura." 
      "Una sventura?" gridò la baronessa. 
      "Ahimè,  signora"  rispose  il  procuratore,   con  la  sua  calma 
      imperturbabile,  "io  riesco a chiamare disgrazia soltanto le cose 
      irreparabili." 
      "Signore, credete che si dimenticherà?" 
      "Tutto si dimentica,  signora" disse Villefort.  "Il matrimonio di 
      vostra figlia si farà domani,  se non si fa oggi; fra otto giorni, 
      se non  si  fa  domani;  né  credo  che  vogliate  rimpiangere  il 
      fidanzato della signorina Eugenia." 
      La  signora  Danglars  guardò Villefort stupefatta di vederlo così 
      tranquillo e quasi scherzoso. 
      "Sono venuta da un amico?" domandò  con  tono  pieno  di  dolorosa 
      dignità. 
      "Voi sapete che sì,  signora" rispose Villefort,  le cui guance si 
      copersero di un leggero rossore. 
      Infatti  questa  assicurazione  faceva  allusione  a   ben   altri 
      avvenimenti  di quelli che occupavano in quel momento la baronessa 
      e lui. 
      "Ebbene,  allora" disse la baronessa,  "siate più affettuoso,  mio 
      caro  Villefort,  comportatevi  da amico,  e non da magistrato,  e 
      quando mi  ritrovo  profondamente  infelice,  non  trattatemi  con 
      troppa disinvoltura." 
      Villefort s'inchinò, e soggiunse: 
      "Quando sento parlare di disgrazia,  signora,  la mia mente prende 
      egoisticamente a paragonarla con le mie,  e  questa  abitudine  ce 
      l'ho da tre mesi.  Ecco perché in confronto alle mie disgrazie, le 
      vostre mi sembrano disavventure,  ecco perché,  a confronto  della 
      mia  funesta  situazione,   la  vostra  mi  sembra  una  posizione 
      invidiabile...  Ma se ciò vi dispiace,  non parliamone più...  Che 
      dicevate, signora?" 
      "Venivo  per sapere da voi,  amico mio,  a che punto è l'affare di 
      quell'impostore?" 
      "Impostore!"  replicò  Villefort.  "Decisamente,  signora,   avete 
      stabilito  di  esagerare  sul conto vostro e di attenuare nei casi 
      altrui: impostore,  il signor Andrea  Cavalcanti  o  piuttosto  il 
      signor Benedetto? Voi sbagliate, signora, il signor Benedetto è un 
      assassino." 
      "Signore,  non nego l'esattezza della vostra rettifica,  ma più vi 
      armerete severamente contro quel  disgraziato,  più  colpirete  la 
      nostra  famiglia.  Dimenticate per un momento le sue colpe.  Non è 
      possibile, invece di perseguitarlo attenuare un poco,  o lasciarlo 
      fuggire." 
      "Venite troppo tardi, gli ordini sono stati già dati." 
      "Tuttavia se si arresta.. Credete voi che verrà arrestato?" 
      "Lo spero." 
      "Se  si  arresta (mio Dio,  sento sempre dire che le prigioni sono 
      piene di gente!), ebbene lasciatelo in prigione..." 
      Il procuratore fece un movimento negativo. 
      "Almeno  fino  a  che  mia  figlia  sia  maritata!"  aggiunse   la 
      baronessa. 
      "Impossibile signora, la giustizia ha le sue formalità." 
      "Per tutti?..." disse la baronessa tra il serio e il faceto. 
      Villefort la guardò con uno sguardo indagatore. 
      "Sì,  so quello che volete dire" riprese. "Voi fate allusione alle 
      voci sparse su tutti quei morti che  da  tre  mesi  mi  tengono  a 
      lutto, e che quelle morti e quella cui è sfuggita Valentina, quasi 
      per miracolo, non siano naturali." 
      "Io  non  pensavo  affatto  a  questo"  disse vivamente la signora 
      Danglars. 
      "Se ci pensavate,  era giusto,  perché non potete non pensarci,  e 
      non  dire  a voi stessa sotto voce: "Tu che perseguiti il delitto, 
      rispondi com'è dunque  che  intorno  a  te  esistono  delitti  che 
      restano impuniti?"." 
      La baronessa impallidì. 
      "Voi dicevate così dentro di voi, non è vero, signora?" 
      "Ebbene, sì, lo confesso." 
      "Vi rispondo." 
      Villefort  avvicinò  la sua sedia a quella della signora Danglars, 
      quindi,  appoggiando le mani  sullo  scrittoio,  e  prendendo  una 
      intonazione più bassa del consueto: 
      "Vi  sono delitti che restano impuniti,  perché non si conoscono i 
      rei,  e si teme di colpire  una  testa  innocente  invece  di  una 
      colpevole.  Ma  quando  questi  colpevoli  saranno noti" Villefort 
      stese la mano verso  un  gran  crocifisso  posto  dirimpetto  allo 
      scrittoio,  "quando i colpevoli saranno noti" ripeté,  "per il Dio 
      vivente,  signora,  chiunque  siano,   morranno!   Ora,   dopo  il 
      giuramento  che  ho  fatto,  e  che manterrò,  signora,  avrete il 
      coraggio di chiedermi grazia per quel miserabile?" 
      "Eh,  signore"  riprese  la  baronessa,   "siete  sicuro  che  sia 
      colpevole quanto si dice?" 
      "Ascoltate,  Benedetto fu condannato prima a cinque anni di galera 
      come falsario,  all'età di sedici anni...  Il  giovane  prometteva 
      bene,  come  vedete!  Poi  ricercato  come  evaso,  e  infine come 
      assassino." 
      "E chi  è  questo  sciagurato?"  "Chi  lo  sa!  Un  vagabondo,  un 
      corso..." 
      "Non è stato dunque riconosciuto da nessuno?" 
      "Da nessuno, non si conoscono i suoi parenti." 
      "Ma quell'uomo ch'era venuto da Lucca?" 
      "Un altro barattiere come lui, forse il suo complice." 
      La baronessa congiunse le mani. 
      "Villefort!"   disse   con   la   sua  più  dolce  e  accarezzante 
      intonazione. 
      "Signora"  rispose  il  regio  procuratore  con   fermezza.   "Non 
      domandatemi mai grazia per un delinquente!  Chi sono io? La legge. 
      Forse la legge ha occhi per vedere la vostra tristezza?  forse  ha 
      orecchie  per  sentire la vostra dolce voce?  forse ha memoria per 
      applicare i vostri delicati pensieri?  No,  signora,  no: la legge 
      ordina,  e quando la legge ordina,  colpisce! Voi mi direte che io 
      sono un essere vivente e non un codice, un uomo,  e non un volume. 
      Guardatemi,  signora,  guardate intorno a me!  Gli uomini mi hanno 
      trattato come fratello?  mi hanno amato?  hanno avuto riguardi per 
      me?  mi hanno risparmiato?  C'è forse qualcuno che abbia domandato 
      ed ottenuto la  grazia  per  il  signor  Villefort?  No!  no!  no! 
      Percosso,  sempre  percosso!  Voi  persistete,  donna o sirena che 
      siate, a guardarmi con quell'occhio attraente ed espressivo che mi 
      ricorda che io debbo arrossire. Ebbene,  sì,  arrossirò di ciò che 
      sapete, e forse di altro ancora! Ma infine, da quando ho mancato a 
      me  stesso,  e forse più degli altri,  ebbene,  da quel tempo,  ho 
      scosso le vesti degli altri per stanare l'ulcera,  e  l'ho  sempre 
      trovata,  e, dirò di più, ho trovato con piacere, con gioia questo 
      suggello della debolezza e dell'umana perversità!  Poiché  ciascun 
      uomo  che riconoscevo colpevole,  e ciascun colpevole che colpivo, 
      mi sembrava una prova vivente,  una prova nuova,  che non ero  una 
      vergognosa  eccezione!  Ahimè,  ahimè,  non  tutti gli uomini sono 
      cattivi, signora, proviamoli, e colpiamo i cattivi!" 
      Villefort pronunciò queste ultime parole con una rabbia  febbrile, 
      che dava al suo linguaggio una feroce eloquenza. 
      "Ma" riprese la signora Danglars,  tentando un ultimo sforzo, "voi 
      dite che questo giovane è un vagabondo, un orfano,  un abbandonato 
      da tutti." 
      "Tanto  peggio!   tanto  peggio!  O  piuttosto  tanto  meglio:  la 
      Provvidenza ha così disposto,  perché nessuno abbia a piangere  su 
      di lui." 
      "Questo è un accanirsi sul debole, signore." 
      "Un debole che assassina?" 
      "Il suo disonore ricade sulla mia famiglia!" 
      "Non ho io forse la morte nella mia?" 
      "Ah,  signore"  gridò  la  baronessa,  "siete  senza pietà per gli 
      altri!  Ebbene,  sono io che ve lo dico,  gli altri saranno  senza 
      pietà per voi!" 
      "Sia!"  disse  Villefort  alzando  un  braccio  al cielo con gesto 
      minaccioso. 
      "Rinviate almeno la causa di questo sciagurato,  se lo  arrestano, 
      alle  prossime  sedute,  così  avremo almeno sei mesi di tempo,  e 
      intanto tutto sarà dimenticato." 
      "No" disse Villefort,  "ho ancora cinque giorni.  La struttura del 
      processo   è  fatta,   cinque  giorni  è  più  di  quello  che  mi 
      abbisogna... D'altra parte,  non capite,  signora,  che io pure ho 
      bisogno di dimenticare?  Ebbene,  quando lavoro,  e lavoro notte e 
      giorno, quando lavoro, vi sono momenti in cui dimentico me stesso, 
      e quando non mi ricordo di me,  sono felice come lo sono i  morti, 
      ma questo è meglio che soffrire." 
      "Signore,  è fuggito, lasciatelo fuggire! L'inerzia è una clemenza 
      facile." 
      "Ma io vi dico che è troppo tardi...  Dallo spuntar del giorno  il 
      telegrafo lavora, ed a quest'ora forse..." 
      "Signore"  disse  il  cameriere  entrando,  "un dragone ha portato 
      questo dispaccio del ministro dell'interno." 
      Villefort afferrò la lettera e la dissigillò.  La signora Danglars 
      fremette di terrore; Villefort rabbrividì di gioia. 
      "Arrestato!"  gridò  Villefort,  "arrestato  a Compiègne!  Tutto è 
      finito." 
      La signora Danglars si alzò fredda e pallida. 
      "Addio signore" disse. 
      "Addio signora" disse il procuratore, quasi allegro nel ricondurla 
      fino alla porta. 
      Quindi tornando allo scrittoio: 
      "Orsù" disse,  percuotendo la lettera col dorso della mano destra, 
      "era falsario,  aveva commesso tre furti,  due incendi...  Non gli 
      mancava che un assassinio, eccolo! La sessione sarà bella!" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                 Capitolo 99. 
                                L'APPARIZIONE. 
 
 
      Come aveva detto il procuratore alla signora  Danglars,  Valentina 
      non  s'era  ancora  rimessa.  Spossata  dalla fatica,  era infatti 
      obbligata a letto,  e nella sua camera,  dalla bocca della signora 
      Villefort,  seppe gli avvenimenti che abbiamo raccontati,  cioè la 
      fuga  di  Eugenia  e  l'arresto  di  Cavalcanti,  o  piuttosto  di 
      Benedetto, e l'accusa d'assassinio contro di lui. Ma Valentina era 
      così  debole  che  questo racconto non le fece tutto quell'effetto 
      che avrebbe prodotto se  fosse  stata  nel  pieno  possesso  della 
      salute.  Infatti,  non  furono  che vaghe idee,  formule indecise, 
      mischiate a strani pensieri e a  fantasmi  fuggitivi,  quali  sono 
      quelli  che  nascono in un cervello malato,  o che passano davanti 
      agli occhi,  ma ben presto si cancellano per lasciar riprendere le 
      forze alle sensazioni personali. 
      Durante il giorno,  Noirtier si faceva portare nella camera di sua 
      nipote e vi si tratteneva tenendo compagnia a  Valentina,  quindi, 
      quando  ritornava  da Palazzo,  a sua volta il signor Villefort si 
      ritirava nel suo studio alle otto veniva il signor d'Avrigny,  che 
      portava  la  pozione della notte preparata per la ragazza.  Quindi 
      Noirtier veniva trasportato nelle sue stanze. Allora un'infermiera 
      scelta dal dottore sostituiva tutti,  e non si ritirava che  verso 
      le  dieci o le undici,  quando Valentina si era addormentata.  Nel 
      discendere,  rimetteva le chiavi  della  camera  di  Valentina  al 
      signor  Villefort  stesso,  di  modo che non si poteva più entrare 
      dalla malata,  se non attraversando l'appartamento  della  signora 
      Villefort e la camera del piccolo Edoardo. 
      Morrel  veniva  tutte  le mattine da Noirtier per avere notizie di 
      Valentina,  ma Morrel,  cosa straordinaria,  sembrava di giorno in 
      giorno meno inquieto.  Prima di tutto,  perché di giorno in giorno 
      Valentina,  quantunque in preda ad una eccitazione nervosa,  stava 
      meglio;  e  poi  Montecristo  non  gli  aveva detto,  quando tutto 
      smarrito era corso da lui,  che se in due ore  Valentina  non  era 
      morta, Valentina era salva? Ora, Valentina viveva ancora, ed erano 
      passati quattro giorni. 
      Questa eccitazione nervosa,  di cui abbiamo parlato,  perseguitava 
      Valentina fino nel sonno,  o piuttosto nello stato  di  sonnolenza 
      che succedeva alla veglia: allora nel silenzio della notte e nella 
      mezza  oscurità  del  lume  notturno  posto sul caminetto,  vedeva 
      passare quelle ombre che vanno a popolare la camera dei malati,  e 
      che  emanano  dalla  febbre dei loro corpi.  Allora le sembrava di 
      vedere ora Morrel che le stendeva le braccia, ora esseri estranei, 
      come il conte di Montecristo. Perfino i mobili, in quei momenti di 
      delirio,  le sembravano muoversi: cosa che durava fino alle due  o 
      alle  tre  dopo  mezzanotte,  momento  in  cui  un  sonno profondo 
      s'impadroniva della giovane fino a giorno. 
      La sera della  fuga  d'Eugenia  e  dell'arresto  di  Benedetto,  e 
      quando,  dopo  essersi  mischiati  un istante alle sue sensazioni, 
      questi avvenimenti cominciavano a  svanire  anche  per  le  visite 
      successive  di  Villefort,   di  d'Avrigny,  di  Noirtier,  mentre 
      suonavano le undici all'orologio di  Saint-Philippe  de  Roule,  e 
      l'infermiera,  dopo  aver  messa a portata di mano della malata la 
      bevanda preparata dal dottore,  e,  chiusa la porta della  camera, 
      ascoltava   fremendo  in  cucina  i  commenti  dei  domestici,   e 
      arricchiva la sua memoria con le lugubri storie che  da  tre  mesi 
      spaventavano le serate dell'anticamera del procuratore,  una scena 
      inattesa accadeva in quella camera chiusa tanto accuratamente. 
      Erano già dieci minuti circa che  l'infermiera  si  era  ritirata. 
      Valentina  in  preda  da un'ora a quella febbre che ritornava ogni 
      notte,  lasciava la sua  testa  non  più  soggetta  alla  volontà, 
      continuare  quel  lavoro  attivo,   monotono  ed  implacabile  del 
      cervello che si affaticava a riprodurre incessantemente gli stessi 
      pensieri o a generare le stesse immagini.  Dal lucignolo del  lume 
      notturno  filtravano mille e mille raggi tutti abbelliti di strane 
      significazioni,  quando d'un  tratto,  al  tremulo  suo  riflesso, 
      Valentina  vide aprirsi lentamente la scansia dei libri,  posta di 
      fianco al caminetto in un cavo del muro,  senza che i cardini  sui 
      quali  essa  sembrava  ruotare  producessero il minimo rumore.  In 
      altri tempi Valentina avrebbe afferrato il campanello,  o  avrebbe 
      tirato  il  cordone  per  chiamare soccorso,  ma niente la stupiva 
      nella situazione in cui si trovava,  convinta com'era che tutte le 
      visioni erano figlie del suo delirio,  e questa convinzione le era 
      venuta perché la mattina non rimaneva alcuna traccia di tutti quei 
      fantasmi notturni.  Dietro la  porta  comparve  un  figura  umana. 
      Valentina si era, per la febbre, troppo famigliarizzata con queste 
      apparizioni,  per  spaventarsi;  aperse soltanto due grandi occhi, 
      sperando di riconoscere Morrel.  La figura continuò  ad  avanzarsi 
      verso  il  letto,  quindi  si fermò e parve ascoltare con profonda 
      attenzione.  In quel momento il volto dei notturno  visitatore  fu 
      illuminato da un riflesso di luce. 
      "Non è lui!" mormorò la ragazza. 
      Ed aspettò,  convinta di sognare,  che quest'uomo, come accade nei 
      sogni, scomparisse o si cambiasse in qualche altra persona. 
      Si toccò soltanto il polso  e  sentendolo  battere  violentemente, 
      ricordò  che  il miglior mezzo per far scomparire quelle importune 
      visioni,  era di  bere.  La  freschezza  della  bevanda,  composta 
      d'altra parte allo scopo di calmare le agitazioni di cui Valentina 
      si  era lamentata col dottore,  facendole diminuire la febbre,  le 
      arrecava un rinnovamento di sensazioni: quando aveva  bevuto,  per 
      un momento si sentiva meglio. 
      Valentina  stese  dunque  la  mano  per  prendere il bicchiere dal 
      piatto di cristallo su cui posava,  ma mentre allungava fuori  dal 
      letto il braccio tremante, l'apparizione fece ancora due passi più 
      rapidi  degli altri e giunse così vicina alla ragazza,  che questa 
      ne intese il respiro,  e credette di sentire  la  pressione  della 
      mano.  Stavolta l'illusione o piuttosto la realtà sorpassava tutto 
      ciò che Valentina aveva provato fino allora;  cominciò  a  credere 
      d'essere realmente sveglia, sentì la sensazione, e fremette. 
      La  pressione aveva lo scopo di fermarle il braccio.  Valentina lo 
      ritirò  lentamente.  Allora  questa  figura,  da  cui  non  poteva 
      staccare  lo  sguardo,  e  che  d'altra  parte  sembrava piuttosto 
      protettrice che minacciosa,  questa figura prese il bicchiere,  si 
      avvicinò  al  lume,  e  guardò  la bevanda,  come se avesse voluto 
      giudicarne la trasparenza e la limpidezza.  Ma questa prima  prova 
      non basto a quell'uomo o piuttosto fantasma, poiché camminava così 
      dolcemente   che   il  tappeto  soffocava  il  rumore  dei  passi, 
      quest'uomo prese  dal  bicchiere  un  cucchiaio  della  pozione  e 
      l'inghiottì.  Valentina  guardava  ciò  che  accadeva con profondo 
      sentimento di stupore:  credeva  che  quella  visione  stesse  per 
      scomparire  e  dar posto ad un'altra,  ma l'uomo invece di svanire 
      come ombra,  si riavvicinò e stendendole il  bicchiere,  con  voce 
      piena di emozione: 
      "Ora" disse, "bevete!" 
      Valentina rabbrividì. 
      Era  la  prima volta che una delle sue visioni le parlava: aprì la 
      bocca per mandare un grido. L'uomo posò un dito sulle labbra. 
      "Il signor Montecristo!" mormorò lei. 
      Allo spavento negli occhi della  ragazza,  al  tremito  delle  sue 
      mani,  al gesto rapido che fece per nascondersi sotto le lenzuola, 
      si poteva intuire l'intima lotta dei suoi sentimenti.  La presenza 
      di  Montecristo  nella  sua  camera  a  quell'ora,  la sua entrata 
      misteriosa,  fantastica,  inesplicabile,  da un  muro,  sembravano 
      impossibili alla sconvolta ragione di Valentina. 
      "Non chiamate,  state calma" disse il conte, "non abbiate, neppure 
      in fondo al cuore,  l'ombra di un  sospetto,  di  un'inquietudine! 
      L'uomo  che  vi  sta  dinanzi (infatti questa volta avete ragione, 
      Valentina,  la vostra non  è  un'illusione),  l'uomo  che  vi  sta 
      dinanzi è per voi il più tenero padre, il più rispettoso amico che 
      possiate figurarvi." 
      Valentina   non   trovò   parole   per  rispondere:  quella  voce, 
      rivelandole la sua presenza  reale,  le  faceva  così  paura,  che 
      temeva  di parlare.  Ma il suo sguardo spaventato voleva dire: "Se 
      le vostre intenzioni sono pure,  perché siete qui?".  Con  la  sua 
      meravigliosa sagacità il conte capì tutto quanto passava nel cuore 
      della ragazza. 
      "Ascoltatemi" disse,  "o piuttosto guardatemi: vedete i miei occhi 
      arrossati e il mio viso più pallido ancora del solito?  E'  perché 
      da quattro notti non chiudo occhio,  da quattro notti veglio su di 
      voi, vi proteggo, vi conservo al nostro amico Massimiliano." 
      Un'onda di sangue  montò  rapidamente  alle  guance  dell'ammalata 
      poiché  il  nome  pronunciato  dal conte le toglieva il residuo di 
      diffidenza che le aveva ispirato. 
      "Massimiliano!..." ripeté Valentina, tanto questo nome le sembrava 
      dolce da  pronunciare.  "Massimiliano,  dunque  vi  ha  confessato 
      tutto?" 
      "Tutto.  Mi  ha  detto  che  la  vostra vita era la sua,  e gli ho 
      promesso la vostra sicurezza." 
      "Gli avete promesso la mia vita?" 
      "Sì." 
      "Infatti,  signore,  avete parlato di vigilanza e  di  protezione. 
      Siete dunque medico?" 
      "Sì, ed il migliore che il cielo possa mandarvi in questo momento, 
      credetemi." 
      "Voi  dite  che  avete  vegliato?" domandò Valentina inquieta.  "E 
      dove? Io non vi ho visto." 
      Il conte stese la mano nella direzione della scansia. 
      "Ero nascosto dietro quella porta,  la quale  mette  in  una  casa 
      vicina che ho preso in affitto." 
      Valentina,  per un momento di pudico orgoglio,  voltò gli occhi, e 
      con sdegno disse: 
      "Signore,  ciò che voi avete fatto è una pazzia,  e la  protezione 
      che mi avete accordata, somiglia molto ad un insulto." 
      "Valentina,  questa  lunga  veglia  mi  serviva  per  sapere quali 
      persone venivano da voi,  quali  alimenti  vi  preparavano,  quali 
      bevande  vi  servivano;  e  quando  queste  bevande  mi sembravano 
      pericolose,   entravo,   come  ho  fatto  ora  vuotavo  il  vostro 
      bicchiere,  e sostituivo al veleno una bevanda benefica che invece 
      della morte che vi era stata preparata vi desse vita." 
      "Il veleno!  la morte!"  gridò  Valentina,  credendosi  nuovamente 
      preda  di  qualche  febbrile  allucinazione.  "Di  cosa mi parlate 
      dunque, signore?" 
      "Zitta,  figlia mia" disse Montecristo portando nuovamente il dito 
      alle labbra.  "Ho detto il veleno ho detto la morte, sì lo ripeto, 
      la morte...  Ma prima bevete questo..." e  il  conte  sfilò  dalla 
      tasca  una  boccettina  contenente un liquore rosso,  di cui versò 
      alcune gocce nel bicchiere: "e quando avrete bevuto,  non pigliate 
      più niente per tutta la notte." 
      Valentina allungò la mano, ma appena ebbe toccato il bicchiere, la 
      ritrasse con spavento.  Montecristo prese il bicchiere ne bevve la 
      metà,  e lo porse a Valentina,  che trangugiò sorridendo il  resto 
      del liquido che conteneva. 
      "Oh,  sì" disse, "riconosco il gusto delle mie bevande notturne, è 
      quest'acqua che apportava un po' di fresco al mio petto, un po' di 
      calma al mio cervello. Grazie, signore, grazie." 
      "Ecco in che modo avete vissuto da quattro notti, Valentina" disse 
      il conte. "Ma io,  in che modo vivevo io?  Oh,  che ore crudeli ho 
      passato per voi!  Che terribili torture, quando vedevo versare nel 
      vostro bicchiere il veleno mortale,  quando temevo che  aveste  il 
      tempo di berlo, prima che io potessi intervenire!" 
      "Voi dite,  signore" riprese Valentina, al colmo del terrore, "che 
      avete subito mille torture vedendo versare nel  mio  bicchiere  un 
      veleno  mortale?  Ma,  se  avete  veduto versare il veleno nel mio 
      bicchiere, avrete pur veduto la persona che lo versava..." 
      "Sì." 
      Valentina si levò a  sedere  sul  letto,  portando  sul  seno  più 
      pallido  della  neve  la  batista  ricamata ancor molle del sudore 
      freddo del delirio, al quale cominciava ad accompagnarsi il sudore 
      più glaciale del terrore. 
      "L'avete veduta?" ripeté la ragazza. 
      "Sì" ripeté una seconda volta il conte. 
      "Quanto mi dite è  terribile,  signore,  ciò  che  mi  volete  far 
      credere  ha  qualche  cosa  d'infernale!  Nella casa di mio padre! 
      nella mia camera!  sul mio  letto  di  patimento  si  continua  ad 
      assassinarmi?  Andatevene,  signore. Voi tentate la mia coscienza, 
      voi bestemmiate la divina bontà!  Ciò che dite è impossibile,  non 
      può essere." 
      "Siete voi dunque la prima colpita da questa mano,  Valentina? Non 
      avete visto cadere intorno a voi  il  signor  di  Saint-Méran,  la 
      signora  di  Saint-Méran,  Barrois?  Non  avreste  visto cadere il 
      signor Noirtier,  se la cura che fa da  tre  anni  non  lo  avesse 
      protetto, combattendo il veleno coll'abitudine al veleno?" 
      "Oh mio Dio!  E' dunque per questo" disse Valentina, "che da circa 
      un mese il mio buon nonno esige che io prenda una parte della  sua 
      pozione?" 
      "E queste pozioni" disse Montecristo,  "hanno un gusto amaro, come 
      quello della scorza d'arancio quasi secca, non è vero?" 
      "Sì, mio Dio, sì." 
      "Ecco tutto spiegato" disse Montecristo: "egli pure sa che qui  si 
      avvelena,  e forse chi avvelena. Egli ha premunito voi, sua figlia 
      prediletta,  contro la sostanza mortale,  e la sostanza mortale  è 
      stata sconfitta dall'assuefazione... Ecco perché siete ancor viva. 
      Cosa  che  non potevo capire,  poiché eravate stata avvelenata con 
      una sostanza che non perdona." 
      "Ma chi è dunque l'assassino, l'uccisore?" 
      "Prima vi domanderò: non avete mai  visto  entrare  nessuno  nella 
      notte in questa camera?" 
      "Può darsi. Spesso ho creduto di veder passare delle ombre; queste 
      ombre si avvicinavano, si allontanavano sparivano..." 
      "Così voi non conoscete la persona che attenta alla vostra vita?" 
      "No, e perché vi può essere qualcuno che desideri la mia morte?" 
      "Voi  la  conoscerete  presto"  disse  Montecristo,   tendendo  le 
      orecchie. 
      "Ed in che modo?" disse Valentina, guardando con terrore intorno a 
      sé. 
      "Perché questa sera voi non  avete  più  né  febbre,  né  delirio, 
      perché   questa  sera  siete  ben  desta,   perché  ora  suona  la 
      mezzanotte, e questa è l'ora degli assassini." 
      "Mio Dio,  mio Dio!" disse Valentina,  asciugandosi con la mano il 
      sudore dalla fronte. 
      Infatti  mezzanotte  suonava lenta e triste.  Si sarebbe detto che 
      ciascun colpo del martello di  bronzo  battesse  nel  cuore  della 
      ragazza. 
      "Valentina"  continuò  il  conte,  "richiamate  tutte  le forze in 
      vostro soccorso,  comprimete il cuore nel petto,  chiudete la voce 
      nella gola, fingete di dormire e vedrete, vedrete..." 
      Valentina afferrò la mano del conte. 
      "Mi sembra di sentir rumore, ritiratevi." 
      "Addio, o piuttosto arrivederci" rispose il conte. 
      Quindi con un sorriso così triste e paterno, che la ragazza gliene 
      fu  grata,  raggiunse  sulla  punta  dei  piedi la porta dietro la 
      scansia. Ma fermandosi prima di richiuderla dietro di sé: 
      "Non un  gesto"  disse,  "non  una  parola...  Vi  devono  credere 
      addormentata,  senza di che, forse sareste uccisa prima che avessi 
      il tempo di accorrere." 
      E dopo quella tremenda ingiunzione,  il conte disparve  dietro  la 
      scansia che si richiuse dietro di lui. 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 100. 
                                   LOCUSTA. 
 
 
      Valentina  rimase  sola.  Altri due orologi a pendolo che erano in 
      ritardo rispetto a quello di Saint-Philippe  de  Roule,  suonarono 
      ancora mezzanotte a differenti intervalli.  Quindi ad eccezione di 
      qualche carrozza lontana, tutto ricadde nel silenzio. Allora tutta 
      l'attenzione di Valentina  si  concentrò  sul  pendolo  della  sua 
      camera,  la cui sfera marcava i secondi.  Si mise a contare questi 
      secondi,  e notò che erano più  lenti  delle  pulsazioni  del  suo 
      cuore.  Eppure  dubitava  ancora:  l'inoffensiva  Valentina non si 
      poteva figurare che qualcuno desiderasse la sua morte: perché? con 
      quale scopo? che male aveva fatto per avere un nemico? 
      Non c'era timore  che  s'addormentasse.  Una  sola  idea,  un'idea 
      terribile  teneva  il  suo  spirito  attento:  che cioè vi potesse 
      essere qualcuno che avesse tentato d'avvelenarla,  e che stava per 
      tentare una seconda volta.  Se questa volta quella persona, stanca 
      di vedere inefficace il  veleno,  come  aveva  detto  Montecristo, 
      avesse ricorso al ferro?  Se il conte non avesse avuto il tempo di 
      accorrere? Se fosse prossima all'ultimo suo momento? Se non avesse 
      più potuto rivedere Morrel? A questo pensiero, che le suscitava ad 
      un tempo livido  pallore  e  agghiacciato  sudore,  Valentina  era 
      preparata  ad  afferrare il cordone del campanello,  ed a chiamare 
      soccorso.   Ma  le  sembrava  vedere,   attraverso  la   libreria, 
      sfavillare  l'occhio  del  conte quest'occhio che vegliava sul suo 
      avvenire, e che,  quando ci pensava,  l'opprimeva di tale vergogna 
      che  si  chiedeva  se  mai  la  riconoscenza avrebbe cancellato il 
      penoso effetto dell'indiscreta amicizia del conte.  Venti  minuti, 
      venti eterni minuti passarono in tal modo,  poi altri dieci minuti 
      ancora: finalmente il pendolo,  stridendo un minuto secondo prima, 
      finì col battere un colpo sotto la volta sonora.  In quello stesso 
      momento,  il raschiare impercettibile di un'unghia contro il legno 
      della  scansia  avvisò  Valentina  che  il  conte  vegliava  e  le 
      raccomandava di vegliare. 
      Infatti dalla parte opposta,  vale  a  dire  verso  la  camera  di 
      Edoardo,  sembrò  a Valentina di sentir scricchiolare il pavimento 
      di legno, tese l'orecchio, trattenne il respiro; si sentì stridere 
      la maniglia della serratura,  e la porta  girò  sopra  i  cardini. 
      Valentina  si  era  sollevata  sul gomito,  e appena ebbe tempo di 
      lasciarsi ricadere sul letto, coprendosi gli occhi con un braccio. 
      Quindi  tremante,   agitata,   col  cuore  stretto  da  indicibile 
      spavento,  aspettò.  Qualcuno si avvicinò al letto, e ne sfiorò le 
      cortine. Valentina raccolse tutte le forze,  e lasciò sentire quel 
      mormorio  regolare  della  respirazione,  che  annunzia  un  sonno 
      tranquillo. 
      "Valentina!" disse una voce sommessa. 
      La ragazza fremette fino in fondo al cuore, ma non rispose. 
      "Valentina!" ripeté con lo stesso tono la stessa voce. 
      Il medesimo silenzio: Valentina aveva promesso  di  far  finta  di 
      dormire.  Poi  tutto rimase immobile,  tranne che intese il rumore 
      appena sensibile di un liquido che cadeva nel bicchiere che  aveva 
      vuotato.  Allora  osò,  al  riparo  del  braccio steso,  aprire le 
      palpebre, e vide una donna, in accappatoio bianco, che vuotava nel 
      suo bicchiere un liquido contenuto in una boccetta. 
      In quell'istante,  Valentina forse trattenne il  respiro,  o  fece 
      senza  dubbio un moto,  poiché la donna,  inquieta,  si fermò e si 
      chinò sul letto per meglio vedere se  dormiva  realmente:  era  la 
      signora Villefort.  Valentina nel riconoscere la matrigna fu presa 
      da un fremito che impresse un moto al letto.  La signora Villefort 
      si addossò al muro,  e là, nascosta dietro alle cortine del letto, 
      muta e attenta spiò fino al minimo moto di  Valentina.  Questa  si 
      ricordò le terribili parole di Montecristo: le era sembrato, nella 
      mano  che non teneva la boccetta,  di veder brillare una specie di 
      coltello lungo e affilato. Allora Valentina,  richiamando tutto il 
      potere  della  volontà in suo soccorso,  si sforzò di chiudere gli 
      occhi;  ma questa funzione del  più  timoroso  dei  nostri  sensi, 
      questa funzione di solito così semplice,  diveniva in quel momento 
      quasi impossibile,  tanto  l'avida  curiosità  faceva  sforzi  per 
      conoscere la verità.  Rassicurata dal silenzio,  in cui si sentiva 
      soltanto il respiro che provava il sonno di Valentina,  la signora 
      Villefort  stese  di  nuovo  il  braccio,  e,  rimanendo  per metà 
      nascosta dietro le cortine riunite al capezzale del letto, terminò 
      di vuotare nel bicchiere di Valentina il contenuto della boccetta. 
      Quindi si ritirò senza che il minimo rumore  avvertisse  Valentina 
      che la matrigna era uscita. 
      Il  raschiare di un'unghia nella scansia tolse Valentina da quello 
      stato di torpore,  nel quale era immersa,  e che rassomigliava  ad 
      una  asfissia.  Sollevò  la  testa  a stento.  La scansia,  sempre 
      silenziosamente, girò una seconda volta Montecristo ricomparve. 
      "Ebbene" domandò il conte, "dubitereste ancora?" 
      "Oh, mio Dio!" mormorò la ragazza. 
      "Avete visto?" 
      "Sì" disse  Valentina,  mandando  un  gemito,  "ma  non  ci  posso 
      credere." 
      "Voi   dunque   desiderate   piuttosto   morire,   e   far  morire 
      Massimiliano?..." 
      "Mio Dio!  mio Dio!" ripeté la giovane,  quasi smarrita.  "Ma  non 
      posso dunque lasciare la casa? fuggire?" 
      "Valentina,  la mano che vi perseguita vi raggiungerà dappertutto, 
      con l'oro e col denaro sedurrà i vostri domestici, e vi presenterà 
      la  morte  mascherata  sotto   tutti   gli   aspetti,   nell'acqua 
      inzuccherata    che    berrete,    nel   frutto   che   coglierete 
      dall'albero..." 
      "Ma non mi avete detto che la precauzione presa dal nonno mi aveva 
      premunita contro il veleno?" 
      "Contro uno dei veleni,  ed anche non impiegato a forte  dose,  ma 
      cambierà il veleno, o crescerà la dose." 
      Il conte prese il bicchiere e vi accostò le labbra. 
      "E guardate,  l'ha già fatto.  Il veleno non è più la brucnina, ma 
      un semplice narcotico.  Riconosco il gusto dell'alcool nel quale è 
      stato  sciolto.  Se  aveste bevuto ciò che la signora Villefort ha 
      versato in questo bicchiere,  Valentina,  Valentina!  voi  sareste 
      perduta!" 
      "Ma,  mio  Dio" gridò la ragazza,  "perché dunque mi perseguita in 
      tal modo?" 
      "Come, siete così buona, così dolce, così incredula del male,  che 
      non avete capito, Valentina?" 
      "No" disse la ragazza, "io non le ho mai fatto del male." 
      "Ma  voi  siete  ricca,  Valentina,  avete  duecentomila  lire  di 
      rendita,  e queste duecentomila lire di rendita voi le togliete  a 
      suo figlio." 
      "In  che  modo?  I  miei  beni non sono suoi,  mi vengono dai miei 
      parenti." 
      "Senza dubbio,  e se il signore e la signora di Saint-Méran furono 
      uccisi fu perché poteste ereditare dai vostri parenti; ecco perché 
      dal  giorno  in  cui anche il signor Noirtier vi fece sua erede fu 
      condannato a morte,  ora è la vostra  volta,  voi  dovete  morire, 
      Valentina,  e  ciò affinché vostro padre erediti da voi,  e vostro 
      fratello, divenuto figlio unico, erediti da vostro padre." 
      "Edoardo?  Povero bambino!  Ed è per lui che si  commettono  tanti 
      delitti?" 
      "Ah, capite, finalmente?" 
      "Ah, mio Dio, purché non paghi lui il prezzo di questi delitti!" 
      "Voi siete un angelo, Valentina." 
      "Ma hanno dunque rinunciato ad uccidere mio nonno?" 
      "Avranno  riflettuto  che,  morta voi,  a meno il caso di un nuovo 
      cambiamento di testamento,  i suoi beni  andranno  naturalmente  a 
      vostro fratello,  e avranno pensato che questo delitto, in fin dei 
      conti, era inutile, ed anzi doppiamente pericoloso commetterlo." 
      "Ed una donna ha potuto concepire tutti questi  delitti?  Oh,  mio 
      Dio, mio Dio!" 
      "Ricordatevi  Perugia,  il  pergolato  dell'albergo  della  Posta, 
      l'uomo dal mantello scuro interrogato da vostra  madre  sull'acqua 
      tofàna...  Da  quell'epoca  ha  maturato  tutto  questo  infernale 
      progetto." 
      "Signore" gridò la ragazza,  struggendosi in  lacrime,  "quando  è 
      così, vedo bene che sono condannata a morire." 
      "No,  Valentina, no, poiché ho previsto tutte le trame; no, perché 
      la nostra nemica è  vinta,  essendo  scoperta;  no,  voi  vivrete, 
      Valentina,  vivrete per amare ed essere amata,  vivrete per essere 
      felice e per render felice un cuore nobile... Ma,  Valentina,  per 
      vivere bisogna avere piena fiducia in me." 
      "Ordinate, signore, che cosa debbo fare?" 
      "Bisogna che prendiate ciecamente ciò che vi darò." 
      "Dio  mi  è  testimonio"  gridò  Valentina,  "che  se  fossi sola, 
      preferirei lasciarmi uccidere." 
      "Voi non vi confiderete a nessuno, neppure a vostro padre?" 
      "Mio padre non entra in  questa  spaventosa  trama,  non  è  vero, 
      signore?" disse Valentina giungendo le mani. 
      "No. Eppure vostro padre, uomo abituato alle trame criminali, deve 
      avere qualche sospetto che tutte queste morti che accadono in casa 
      sua  non  siano naturali.  Vostro padre,  è lui che avrebbe dovuto 
      vegliare su voi,  è lui che avrebbe dovuto essere a quest'ora  nel 
      posto  che  occupo  io,  è  lui  che avrebbe dovuto vuotare questo 
      bicchiere,  è lui che avrebbe dovuto rizzarsi contro  l'assassino. 
      Spettro   contro   spettro!"   mormorò  terminando  la  sua  frase 
      sottovoce. 
      "Signore,  io farò di tutto per vivere,  perché vi sono due esseri 
      al mondo che mi amano,  e che morirebbero se io morissi: mio nonno 
      e Massimiliano." 
      "Io veglierò su loro, come ho vegliato su voi." 
      "Ebbene,  signore,  disponete  di  me"  disse  Valentina.   Quindi 
      soggiunse a bassa voce: "Oh, mio Dio, che accadrà mai di me?" 
      "Qualunque  cosa  accada,   Valentina,  non  vi  spaventate...  Se 
      soffrite, se perdete la vista,  l'udito,  il tatto,  non temete di 
      niente,  se  vi  svegliate  senza  sapere dove siete,  non abbiate 
      paura,  doveste  anche,  nello  svegliarvi,  trovarvi  in  qualche 
      caverna  sepolcrale  o  chiusa  in una bara,  richiamate subito il 
      vostro spirito,  e dite a voi stessa: "In questo momento un amico. 
      un  padre,  un  uomo  che  vuole  la  mia  felicità  e  quella  di 
      Massimiliano, quest'uomo veglia su di me"." 
      "Ahimè, che terribile situazione!" 
      "Valentina, preferite denunciare la vostra matrigna?" 
      "Preferirei morire cento volte! Oh, sì! morire!" 
      "No, non morrete, e qualunque cosa vi accada,  non vi lamenterete, 
      e spererete. Me lo promettete?" 
      "Penserò a Massimiliano." 
      "Voi  siete  la  mia  figlia prediletta,  Valentina: io solo posso 
      salvarvi, e vi salverò." 
      Valentina al colmo del terrore congiunse le mani (s'accorgeva bene 
      ch'era giunto il momento di domandare a Dio coraggio),  e si  alzò 
      per  pregare,  mormorando  parole monche,  dimenticando che le sue 
      bianche spalle non avevano altro velo che la lunga capigliatura, e 
      che si vedeva batterle il seno sotto il fine merletto del corpetto 
      da notte. 
      Il conte appoggiò dolcemente la mano sul  braccio  della  ragazza, 
      ricondusse  fino  al  collo la trapunta di velluto,  e con sorriso 
      tutto paterno: 
      "Figlia mia" disse,  "credete nella mia  affezione,  come  credete 
      nella bontà di Dio e nell'amore di Massimiliano." 
      Valentina  fissò  su  di lui uno sguardo pieno di riconoscenza,  e 
      stette docile come un bimbo ai suoi voleri.  Allora il conte  cavò 
      dal  taschino  del  panciotto  la  scatola  di smeraldo sollevò il 
      coperchio d'oro e versò nella mano destra di Valentina una piccola 
      pastiglia rotonda della grandezza  di  un  pisello.  Valentina  la 
      prese   coll'altra  mano  e  guardò  il  conte  attentamente:  nei 
      lineamenti di quell'intrepido protettore si  leggeva  un  riflesso 
      della  celeste potenza.  Era evidente che Valentina lo interrogava 
      con lo sguardo. 
      "Sì" rispose questi. 
      Valentina si portò la pastiglia alla bocca e l'inghiottì. 
      "Ed ora,  arrivederci,  figlia  mia"  disse,  "vado  a  provar  di 
      dormire, perché ora siete salva." 
      "Andate" disse Valentina,  "qualunque cosa mi accada,  vi prometto 
      di non aver paura." 
      Montecristo tenne a lungo gli occhi fissi  sulla  ragazza,  che  a 
      poco  a  poco  si  addormentava,  vinta  dalla forza del narcotico 
      datole dal conte. Allora prese il bicchiere,  e vuotandolo per tre 
      quarti  nel  caminetto,  perché si credesse che Valentina ne aveva 
      bevuto, lo rimise sul tavolino da notte;  quindi,  passando dietro 
      la  scansia,  scomparve,  dopo  aver  dato  un  ultimo  sguardo  a 
      Valentina, che si addormentava con quella confidenza e candore con 
      cui un angelo riposa ai piedi del Signore. 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 101. 
                                  VALENTINA. 
 
 
      Il lume da notte sul caminetto di Valentina  consumava  le  ultime 
      gocce di olio che galleggiavano ancora sull'acqua,  già un cerchio 
      più rossiccio colorava il globo d'alabastro,  già  la  fiamma  più 
      viva  lasciava  sentire  gli  ultimi crepitii che sembrano,  negli 
      esseri inanimati,  le ultime convulsioni dell'agonia,  così spesso 
      paragonate  a  quelle delle povere creature umane: una luce cupa e 
      sinistra rifletteva un colore opaco sulle cortine bianche e  sulle 
      coperte della ragazza. 
      Tutti i rumori della strada erano cessati,  ed il silenzio interno 
      era profondo.  Allora si aprì la porta della camera di Edoardo,  e 
      una testa,  che abbiamo già riconosciuta,  comparve sullo specchio 
      opposto alla porta.  Era la  signora  Villefort  che  tornava  per 
      vedere l'effetto del suo beveraggio. 
      Si  fermò  sulla soglia,  ascoltò il crepitio della lampada,  solo 
      rumore percettibile in  quella  camera,  che  si  sarebbe  creduta 
      deserta,  quindi si avanzò dolcemente verso la tavola da notte per 
      vedere se il bicchiere di Valentina era stato vuotato.  Non ve  ne 
      era che un quarto, come abbiamo visto. 
      La  signora Villefort lo prese,  e lo andò a versare sulle ceneri, 
      smovendole perché meglio assorbissero il liquido,  quindi pulì con 
      cura il cristallo,  l'asciugò col proprio fazzoletto,  e lo rimise 
      sulla tavola da notte. 
      Se qualcuno avesse potuto penetrare con lo sguardo nell'interno di 
      quella camera, avrebbe veduto l'esitazione della signora Villefort 
      nel fissare gli occhi su Valentina ed accostarsi al letto.  Quella 
      lugubre luce,  quel silenzio, quella terribile poesia della notte, 
      venivano senza fallo a cambiarsi nella spaventevole  poesia  della 
      sua  coscienza;  l'avvelenatrice  aveva  paura di guardare l'opera 
      sua.   Prese  finalmente  ardire,   allontanò   la   cortina,   ed 
      appoggiandosi al capezzale del letto, si curvò sopra Valentina. 
      La  ragazza  non  respirava  più;  i  suoi  denti semichiusi,  non 
      lasciavano sfuggire un alito di quel soffio che manifesta la vita: 
      le sue labbra imbiancandosi avevano cessato  di  fremere,  i  suoi 
      occhi   velati  da  un  vapore  violetto,   che  sembrava  essersi 
      infiltrato sotto la pelle, formavano una sporgenza più bianca dove 
      il globo gonfiava  la  palpebra,  e  le  sue  lunghe  ciglia  nere 
      rigavano una pelle già pallida come la cera. 
      La  signora  Villefort  contemplò  quel  viso  con una espressione 
      eloquentissima nella sua immobilità.  Allora crebbe il suo ardire, 
      e  sollevando la coperta appoggiò la mano sul cuore della ragazza: 
      era muto e ghiacciato;  udiva i battiti delle vene  delle  proprie 
      dita,  per cui subito si ritrasse piena di spavento. Il braccio di 
      Valentina pendeva fuori dal letto: quel braccio con tutto  la  sua 
      parte  superiore dalla spalla al cubito,  sembrava modellato sopra 
      quello di una delle Grazie  di  Germano  Pilon,  ma  l'avambraccio 
      leggermente deforme per un increspamento, e il polso della mano di 
      forma purissima,  si appoggiavano, un poco irrigiditi e colle dita 
      allontanate,  sull'acacia del letto.  La radice delle  unghie  era 
      turchina. 
      Per  la signora Villefort non c'era più dubbio,  tutto era finito; 
      l'opera terribile, l'ultima che volesse compiere, era consumata. 
      L'avvelenatrice non aveva più niente da fare in quella camera.  Si 
      ritirò  con  tanta precauzione,  da temere il rumore dei piedi sul 
      tappeto,  ma nel ritirarsi teneva  ancora  sollevata  la  cortina, 
      assorbendo  quello  spettacolo  della  morte,  che porta in sé una 
      irresistibile attrazione fino a che la morte non  ha  prodotta  la 
      decomposizione:  finché  dura  il  mistero,  non  vi  è  ancora il 
      ribrezzo. 
      I minuti passavano,  la signora  Villefort  sembrava  non  potersi 
      staccare  da quella cortina che teneva sospesa come una sindone al 
      di sopra della testa  di  Valentina;  pagò  il  suo  tributo  alla 
      meditazione. La meditazione del delitto deve essere il rimorso. In 
      quel  momento i crepitii del lume raddoppiarono.  A quel rumore la 
      signora Villefort fremette,  e lasciò ricadere la  cortina.  Nello 
      stesso  istante  si spense il lume,  e la camera fu immersa in una 
      spaventosa oscurità.  In mezzo a quell'oscurità  si  risvegliò  la 
      pendola, e suonò le quattro e mezzo. 
      L'avvelenatrice   spaventata   da   quelle   successive  emozioni, 
      raggiunse a tastoni la porta e rientrò nella sua camera col sudore 
      dell'angoscia  sulla  fronte.  L'oscurità  continuò  per  due  ore 
      ancora.  Quindi, a poco a poco, una sinistra e debole luce penetrò 
      nell'appartamento,  filtrando dagli interstizi delle  persiane,  a 
      poco a poco si fece maggiore,  e venne a restituire il colore e la 
      forma agli oggetti ed ai corpi. 
      In quell'attimo si sentì per le scale la tosse dell'infermiera, la 
      quale entrò nella camera di Valentina con una tazza in  mano.  Per 
      un  padre,  per un amante il primo sguardo sarebbe stato decisivo, 
      Valentina era morta; per questa donna, Valentina dormiva. 
      "Bene" disse,  avvicinandosi al tavolo da notte,  "ha  bevuto  una 
      parte della sua pozione, il bicchiere è per due terzi vuoto." 
      Quindi  andò  al caminetto riaccese il fuoco,  e s'installò in una 
      poltroncina, e quantunque uscisse allora dal letto, approfittò del 
      sonno di Valentina per dormire ancora alcuni momenti. 
      La pendola la svegliò suonando le otto.  Allora,  meravigliata del 
      sonno ostinato di Valentina,  spaventata da quel braccio penzoloni 
      fuori dal letto,  si avvicinò alla dormiente,  e  allora  soltanto 
      rimarcò  le  labbra fredde e il petto gelido.  Voleva riportare il 
      braccio vicino al corpo,  ma  il  braccio  era  di  una  rigidezza 
      spaventosa, sulla quale non poteva ingannarsi un'infermiera. Mandò 
      un orribile grido. Quindi correndo alla porta: 
      "Soccorso!" gridò, "soccorso!" 
      "Come,   soccorso?"   chiese  dal  fondo  della  scala  il  signor 
      d'Avrigny. 
      Era quella l'ora in cui capitava il dottore. 
      "Come,  soccorso?" gridò la voce  del  signor  Villefort,  uscendo 
      precipitosamente  dallo studio.  "Dottore,  avete sentito chiamare 
      soccorso?" 
      "Sì,  sì,  saliamo" rispose il signor d'Avrigny,  "saliamo presto! 
      Viene dalla camera di Valentina." 
      Ma  prima  del  padre e del dottore,  erano entrati i servi che si 
      trovavano sullo stesso  piano,  sparsi  per  le  camere  o  per  i 
      corridoi,  e  vedendo  Valentina  pallida  ed  immobile sul letto, 
      alzando le mani al cielo,  vacillavano come se avessero  avuto  le 
      vertigini. 
      "Chiamate  la signora Villefort,  svegliate la signora Villefort!" 
      gridò  il  procuratore  dalla  porta  della  camera,  nella  quale 
      sembrava non osasse entrare. 
      Ma  i  domestici,  invece  di  rispondere,  guardarono  il  signor 
      d'Avrigny,  che,  entrato,  era corso a Valentina,  e la sollevava 
      sulle sue braccia. 
      "Anche questa!..." mormorò,  lasciandola ricadere.  "Oh,  mio Dio, 
      mio Dio! E quando vi stancherete voi?" 
      Villefort si lanciò nell'appartamento. 
      "Che dite? Mio Dio!" gridò, alzando le mani al cielo. "Dottore!... 
      dottore!..." 
      "Dico che Valentina è morta!" rispose il signor d'Avrigny con voce 
      solenne, e terribile nella sua solennità. 
      Il signor Villefort stramazzò,  come se le sue  gambe  si  fossero 
      spezzate, e cadde colla testa contro il letto di Valentina. 
      Alle  parole  del  dottore,  alle  grida  del  padre,  i domestici 
      spaventati fuggirono mandando sorde imprecazioni. S'intesero per i 
      corridoi e per le sale i loro passi precipitati,  quindi  un  gran 
      movimento nei cortili, poi tutto finì, e il rumore si estinse: dal 
      primo all'ultimo, erano fuggiti da quella casa maledetta. 
      In  quel  momento  la  signora  Villefort,  col  braccio  per metà 
      infilato nell'accappatoio,  sollevava la portiera;  per un momento 
      ristette  sulla  soglia  in  atto  d'interrogare  gli  astanti,  e 
      chiamando in suo aiuto alcune false lacrime.  Ad un tratto fece un 
      passo,  o piuttosto un balzo colle braccia tese verso la tavola da 
      notte: aveva  visto  d'Avrigny  piegarsi  con  curiosità  su  quel 
      tavolo, e prendere il bicchiere che era certa d'aver vuotato nella 
      notte.  Il bicchiere si ritrovava pieno per un terzo, precisamente 
      come era, quando ne aveva gettato il contenuto nelle ceneri. 
      Lo spettro di Valentina ritto  davanti  all'avvelenatrice  avrebbe 
      prodotto  minore effetto su di lei.  Di fatto era quello il colore 
      della bevanda da lei versata nel  bicchiere  di  Valentina,  e  da 
      questa  bevuta,  era  quello  il  veleno  che non poteva ingannare 
      l'occhio  del  signor  d'Avrigny,   e   che   d'Avrigny   guardava 
      attentamente:  era quello un miracolo che senza dubbio faceva Dio, 
      affinché restasse, malgrado tutte le precauzioni,  una prova,  una 
      testimonianza del delitto. 
      Mentre  la  signora  Villefort era rimasta immobile come la statua 
      del  terrore,  mentre  Villefort,  con  la  testa  nascosta  nelle 
      lenzuola  del  letto funebre,  non vedeva nulla di quanto accadeva 
      intorno a lui,  d'Avrigny si avvicinava alla finestra  per  meglio 
      esaminare coll'occhio il contenuto del bicchiere, e gustandone una 
      goccia presa sulla punta di un dito: 
      "Ah" mormorò, "ora non è più la brucnina; vediamo che cosa è..." 
      Corse  ad  uno  degli  armadi  della camera di Valentina,  armadio 
      trasformato in farmacia,  e sfilando  dalla  sua  piccola  nicchia 
      d'argento  una  boccetta d'acido nitrico,  ne lasciò cadere alcune 
      gocce nell'opale del liquido,  che d'un tratto cambiò in un  mezzo 
      bicchiere di sangue vermiglio. 
      "Ah!"  fece  d'Avrigny,  coll'orrore  del  giudice  che  scopre la 
      verità,  e colla soddisfazione d'uno scienziato  che  scioglie  un 
      problema. 
      La signora Villefort si volse un istante,  i suoi occhi lanciarono 
      fiamme,  quindi si spensero: cercò vacillante la porta con la mano 
      e uscì. Un momento dopo s'intese il rumore d'un corpo che cade. Ma 
      nessuno  vi  fece attenzione: l'infermiera era occupata a guardare 
      l'analisi chimica, Villefort era sempre oppresso dal dolore. 
      Il signor d'Avrigny soltanto aveva seguito cogli occhi la  signora 
      Villefort, e aveva notato la sua precipitosa scomparsa. Sollevò la 
      portiera  della  camera di Valentina,  e,  attraverso la stanza di 
      Edoardo, poté vedere nella sua stanza la signora Villefort,  priva 
      di sensi e stesa sul pavimento. 
      "Andate  a  soccorrere la signora Villefort" disse all'infermiera, 
      "la signora Villefort si sente male." 
      "Ma la signorina Valentina?" balbettò questa. 
      "Valentina non  ha  più  bisogno  di  soccorsi"  disse  d'Avrigny, 
      "poiché è morta." 
      "Morta!  morta!" sospirò Villefort,  nel suo parossismo, tanto più 
      dilaniante, in quanto era una cosa nuova,  inaudita per quel cuore 
      di bronzo. 
      "Morta,  dite?"  gridò una terza voce: "Chi ha detto che Valentina 
      sia morta?" 
      I due personaggi si  volsero,  e  sulla  porta  scopersero  Morrel 
      dritto in piedi, pallido, sconvolto e terribile. 
      Ecco ciò ch'era accaduto.  All'ora solita,  e per la porticina che 
      conduceva dal signor Noirtier, Morrel si era presentato. Contro il 
      solito trovò la porta aperta,  e,  senza  bisogno  di  suonare  il 
      campanello,  entrò. Nel vestibolo aspettò un istante, chiamando un 
      domestico qualunque che lo introducesse presso il signor Noirtier, 
      ma nessuno rispose; i domestici,  come si sa,  erano tutti fuggiti 
      dalla casa.  Morrel quel giorno non aveva alcun particolare motivo 
      d'inquietudine;  aveva la promessa di  Montecristo  che  Valentina 
      sarebbe  vissuta,  e  fino  a  quel  giorno  la promessa era stata 
      mantenuta fedelmente.  Ogni sera il conte  gli  dava  delle  buone 
      notizie,  che all'indomani venivano confermate dallo stesso signor 
      Noirtier. Però quella solitudine gli sembrò cosa singolare; chiamò 
      una seconda, una terza volta, ma sempre lo stesso silenzio. 
      Allora si decise a salire. La porta del signor Noirtier era aperta 
      come tutte le altre porte.  La prima cosa che vide,  fu il vecchio 
      nel  suo  seggiolone  al  posto  solito,  ma i suoi occhi dilatati 
      sembravano esprimere un interno spavento,  che  veniva  confermato 
      dallo strano pallore sparso sui suoi lineamenti. 
      "Come  state,  signore?"  domandò  il giovane,  non senza un certo 
      stringimento di cuore. 
      Il vecchio col suo battere di palpebre fece segno che stava  bene. 
      Ma la sua fisonomia sembrò tradire l'inquietudine. 
      "Siete  preoccupato"  continuò  Morrel.  "Avete bisogno di qualche 
      cosa? Volete che chiami qualche servo?" 
      Noirtier indicò di sì. 
      Morrel si attaccò al cordone del campanello, ma ebbe un bel tirare 
      fino a romperlo,  non venne alcuno.  Si voltò verso  Noirtier;  il 
      pallore e l'angoscia andavano crescendo sul viso del vecchio. 
      "Mio Dio!" disse Morrel. "Ma perché non viene qualcuno? Vi è forse 
      qualche malato nella casa?" 
      Gli  occhi  di  Noirtier  sembrarono  sul punto di schizzare dalle 
      orbite. 
      "Ma che  avete  dunque?"  continuò  Morrel.  "Voi  mi  spaventate. 
      Valentina, Valentina!" 
      Noirtier accennò di sì. 
      Massimiliano  aprì  la  bocca per parlare,  ma non poté articolare 
      parola: vacillò e si tenne ad un  mobile;  quindi  stese  la  mano 
      verso la porta, e il vecchio accennò ancora di sì. 
      Massimiliano  si  lanciò  verso la piccola scala,  che salì in due 
      salti,  mentre  Noirtier  sembrava  gridargli  cogli  occhi.  "Più 
      presto! più presto! 
      Bastò   un  minuto  al  giovane  per  attraversare  molte  stanze, 
      solitarie come il rimanente della casa,  e giungere fino a  quella 
      di  Valentina.  Non  ebbe  bisogno  di spingere la porta,  che era 
      spalancata. Un singhiozzo fu il primo suono che sentì; vide,  come 
      attraverso una nube,  una figura nera inginocchiata e piangente ai 
      piedi del letto di Valentina.  Il timore,  lo spaventevole timore, 
      lo  inchiodava  sulla  soglia.  Allora intese una voce che diceva: 
      "Valentina è morta" e una seconda voce che, come eco,  rispondeva: 
      "Morta! morta!" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 102. 
                                MASSIMILIANO. 
 
 
      Villefort  si  rialzò  quasi  vergognoso  di  essere  stato  colto 
      nell'accesso di quel dolore.  Il terribile mestiere che esercitava 
      da venticinque anni, era giunto a farne più e meno che un uomo. Il 
      suo sguardo, un istante prima perduto, si fissò sopra Morrel. 
      "Chi siete voi, signore?" disse. "Voi dimenticate che non si entra 
      così in una casa abitata dalla morte? Fuori, signore, fuori!" 
      Ma  Morrel  restava  immobile,  senza poter staccare gli occhi dal 
      terribile spettacolo di quel letto in disordine  e  della  pallida 
      figura che sopra vi era stesa. 
      "Fuori!  Capite?"  gridò  Villefort mentre d'Avrigny si avvicinava 
      per far uscire Morrel. 
      Questi guardò smarrito il  cadavere,  i  due  uomini,  la  camera, 
      sembrò esitare un momento, aperse la bocca, quindi finalmente, non 
      potendo pronunciare parola, retrocedette cacciandosi le mani fra i 
      capelli,  in  modo tale che Villefort e d'Avrigny,  per un istante 
      attoniti, scambiarono fra di loro uno sguardo senza espressione. 
      Cinque minuti dopo si intese gemere la scala e si vide Morrel che, 
      con una forza sovrumana, teneva sollevata la seggiola di Noirtier, 
      portando il vecchio al primo piano della casa. Giunto sulla scala, 
      Morrel posò la seggiola a terra, e la rotolò rapidamente fino alla 
      camera di  Valentina.  Tutto  questo  con  una  forza  raddoppiata 
      dall'esaltazione. 
      Spaventosa  soprattutto  era  la  figura  di Noirtier: il suo viso 
      pallido, lo sguardo infiammato,  fu per Villefort una spaventevole 
      apparizione.  Ogni volta che si era incontrato con suo padre,  era 
      sempre accaduto qualche cosa di terribile. 
      "Guardate che cosa  ne  hanno  fatto!"  gridò  Morrel,  appoggiato 
      ancora  con  una  mano  allo  schienale della seggiola,  che aveva 
      spinta fin contro il  letto,  e  l'altra  stesa  verso  Valentina. 
      "Guardate, padre, guardate!" 
      Villefort arretrò di un passo,  e guardò con meraviglia il giovane 
      a lui quasi ignoto, che chiamava Noirtier suo padre. 
      In quel momento tutta l'anima del vecchio sembrò passare nei  suoi 
      occhi,  che si iniettarono di sangue;  quindi gli si gonfiarono le 
      vene  del  collo:  un  colore  azzurrognolo,   come  quello   d'un 
      epilettico, gli coprì il collo, le guance e le tempie. Non mancava 
      a  questa  esplosione  interna  di  tutto l'essere,  che un grido. 
      Questo grido uscì, per così dire, da tutti i pori,  spaventoso nel 
      suo mutismo,  dilaniante nel suo silenzio.  D'Avrigny si precipitò 
      verso il vecchio, e gli fece annusare un violento revulsivo. 
      "Signore" gridò Morrel,  afferrando la mano inerte del paralitico, 
      "domandano chi sono io,  e qual diritto ho di essere qui.  Oh, voi 
      che lo sapete, ditelo voi, ditelo!" 
      E la voce del giovane si spense con un singhiozzo. 
      Intanto il respiro del  vecchio  scuoteva  il  suo  petto:  lo  si 
      sarebbe  detto  in  preda  all'agonia.  Finalmente  alcune lacrime 
      caddero dagli occhi di Noirtier,  mentre il  giovane  singhiozzava 
      senza  poter  piangere.  Non potendo piegare la testa,  chiuse gli 
      occhi. 
      "Dite" continuò Morrel con voce strozzata,  "dite che ero  il  suo 
      fidanzato!  Dite  che  era la mia nobile amica,  il mio solo amore 
      sulla terra! Dite, dite, che questo cadavere mi appartiene!" 
      Ed il giovane cadde in ginocchio davanti a quel letto, che strinse 
      con violenza. 
      Quel dolore era  così  penetrante,  che  d'Avrigny  si  voltò  per 
      nascondere  la  sua  emozione,  e Villefort,  senza chiedere altra 
      spiegazione,  spinto da quella specie di attrazione che  ci  porta 
      verso  quelli che hanno amato coloro che piangiamo,  stese la mano 
      al giovane, che stringeva la mano gelida di Valentina. Per qualche 
      tempo in quella camera non si sentirono che singulti, imprecazioni 
      e preghiere dominati dalla respirazione  rauca  e  straziante  del 
      petto di Noirtier. 
      Finalmente Villefort più padrone di sé, dopo avere, per così dire, 
      ceduto il suo posto a Massimiliano, prese la parola: 
      "Signore"  disse  a  Massimiliano,  "voi amavate Valentina,  dite, 
      eravate suo fidanzato;  io ignoravo questo amore,  ignoravo questo 
      impegno...  Eppure, io, suo padre, vi perdono, poiché, lo vedo, il 
      vostro dolore è grande, reale e vero.  D'altra parte in me pure il 
      dolore  è  troppo  grande  perché  mi  resti  nel cuore posto alla 
      collera.  Ma voi lo vedete: l'angelo che speravate  possedere,  ha 
      lasciato  la  terra,  non  sa  più che fare delle adorazioni degli 
      uomini,  lei,  che a quest'ora,  adora il Signore...  Dite  dunque 
      addio  alla triste spoglia,  stringete un'ultima volta la mano che 
      aspettavate, e separatevi da lei per sempre!  Valentina ora non ha 
      più bisogno che di un prete che la benedica!" 
      "Voi sbagliate, signore" gridò Morrel, rialzandosi su un ginocchio 
      col cuore dilaniato da un dolore più acuto di quanti ne aveva fino 
      allora  sentiti,  "voi sbagliate!  Valentina morta in questo modo, 
      non solo ha bisogno di un prete,  ma anche di un  giudice.  Signor 
      Villefort, mandate a cercare il prete, il giudice sarò io!" 
      "Che volete dire, signore?" mormorò Villefort, tremante per questa 
      nuova ispirazione del delirio di Morrel. 
      "Voglio  dire"  continuò  Morrel,  "che in voi esistono due esseri 
      signore: il padre ha pianto abbastanza, ora il procuratore cominci 
      il suo ministero." 
      Gli occhi di Noirtier sfavillarono; d'Avrigny si avvicinò. 
      "Signore" continuò il giovane,  cogliendo negli occhi di tutti gli 
      astanti  i  sentimenti  che  si risvegliavano loro sul volto,  "so 
      quello che dico, e voi sapete bene al pari di me tutto ciò che sto 
      per dire: Valentina è morta avvelenata." 
      Villefort abbassò la testa,  d'Avrigny si avvicinò  ancora  di  un 
      passo, Noirtier affermò cogli occhi. 
      "Ora,  signore"  continuò  Morrel,  "ai tempi in cui viviamo,  una 
      creatura quand'anche non fosse  così  giovane,  così  bella,  così 
      adorabile,  una creatura non scompare così violentemente dal mondo 
      senza che si domandi  conto  della  sua  scomparsa.  Orsù,  signor 
      procuratore"  aggiunse Morrel,  con una veemenza sempre crescente, 
      "bando  alla  pietà!   Io  vi   denunzio   il   delitto,   cercate 
      l'assassino!" 
      E  il suo occhio implacabile interrogava Villefort,  che dal canto 
      suo sollecitava uno sguardo, ora da Noirtier, ora da d'Avrigny. Ma 
      invece di trovare soccorso da suo padre e dal  dottore,  Villefort 
      non  trovò  in essi che uno sguardo inflessibile al pari di quello 
      di Morrel. 
      "Certamente" disse d'Avrigny. 
      "Signore" replicò Villefort,  tentando di  lottare  ancora  contro 
      quella triplice volontà e contro la propria emozione, "signore, vi 
      sbagliate... Non si commettono delitti in casa mia, la fatalità mi 
      colpisce!  Dio mi prova!  E' un pensiero orribile,  ma in casa mia 
      non si assassina nessuno!" 
      Gli occhi di Noirtier fiammeggiarono,  d'Avrigny aprì la bocca per 
      parlare, Morrel stese la mano raccomandando silenzio. 
      "Ed  io  vi  dico che qui si uccide!" gridò Morrel,  abbassando la 
      voce,  ma senza perder nulla della sua terribile  vibrazione.  "Vi 
      dico  che  questa  è  la quarta vittima che si colpisce in quattro 
      mesi!  Vi dico che avevano già provato una volta,  quattro  giorni 
      fa,  ad  avvelenare  Valentina,  e che questo delitto era andato a 
      vuoto, grazie alle precauzioni prese dal signor Noirtier!  Vi dico 
      che fu raddoppiata la dose, o cambiata la natura del veleno, e che 
      questa volta è riuscito!  Vi dico che voi sapete tutto ciò al pari 
      di me,  poiché il signore qui presente ve  ne  ha  avvisato,  come 
      medico e amico." 
      "Oh,  voi  siete in delirio,  signore!" disse Villefort,  tentando 
      invano di dibattersi entro il cerchio in cui era stato ristretto. 
      "Io sono in delirio!" gridò  Morrel.  "Me  ne  appello  al  signor 
      d'Avrigny  stesso.  Domandategli,  signore,  se  si ricorda ancora 
      delle parole che ha pronunciate nel vostro giardino,  nel giardino 
      di  questo  palazzo,  la  sera stessa della morte della signora di 
      Saint-Méran, quando entrambi,  voi e lui,  credevate d'esser soli? 
      Voi  discorrevate su questa morte tragica,  quella fatalità di cui 
      parlate,  e Dio che accusate ingiustamente,  non hanno altra colpa 
      che d'aver permesso l'assassinio di Valentina!" 
      Villefort e d'Avrigny si guardarono. 
      "Sì,  sì,  ricordate"  disse  Morrel,  "perché quelle parole,  che 
      credevate dette al silenzio ed alla solitudine,  sono cadute nelle 
      mie  orecchie.  Certamente  da  quella sera,  vedendo la colpevole 
      compiacenza del signor Villefort per i suoi, avrei dovuto rivelare 
      tutto alle autorità... Non sarei complice,  come lo sono in questo 
      momento,  della tua morte, Valentina! mia Valentina prediletta! Ma 
      il complice diventerà il vendicatore:  questo  quarto  omicidio  è 
      flagrante,  visibile  agli  occhi  di  tutti,  e  se  tuo padre ti 
      abbandona,  Valentina,  sta  a  me,  te  lo  giuro,   perseguitare 
      l'assassino!" 
      E  questa  volta,  come  se la natura avesse avuto alfine pietà di 
      quella vigorosa psiche,  le parole di  Morrel  si  spensero  nella 
      gola,  il petto scoppiò in singulti,  le lacrime, tanto lungamente 
      trattenute, scaturirono dagli occhi: Morrel si piegò su se stesso, 
      e ricadde in ginocchio piangendo vicino al letto di Valentina. 
      Allora toccò a d'Avrigny. 
      "Ed io pure" disse con voce forte,  "io pure mi unisco  al  signor 
      Morrel  per domandarvi giustizia del delitto;  poiché il mio cuore 
      si ribella all'idea che la mia vile compiacenza abbia incoraggiato 
      l'assassino!" 
      "Oh, mio Dio, mio Dio!..." mormorò Villefort annientato. 
      Morrel rialzò la testa,  e leggendo negli occhi  del  vecchio  che 
      lanciavano fiamme: 
      "Osservate" disse, "il signor Noirtier vuol parlare." 
      Noirtier  aveva  una  espressione  tanto  terribile,  che tutte le 
      facoltà di questo povero vecchio impotente erano  concentrate  nel 
      suo sguardo. 
      "Conoscete l'assassino?" disse Morrel. 
      Noirtier accennò di sì. 
      "E ci guiderete?" gridò il giovane. "Ascoltiamo, signor d'Avrigny, 
      ascoltiamo." 
      Noirtier  rivolse all'infelice Morrel un sorriso malinconico,  uno 
      di quei sorrisi con gli occhi che tante volte avevano resa  felice 
      Valentina,  e in tal modo fissò la sua attenzione.  Quindi, avendo 
      attaccati, per così dire, gli occhi del suo interlocutore ai suoi, 
      li voltò verso la porta. 
      "Volete che io esca?" gridò dolorosamente Morrel. 
      Noirtier accennò di sì. 
      "Ahimè! Ahimè, signore, abbiate dunque pietà di me!" 
      Gli occhi del vecchio stettero  irremovibilmente  fissi  verso  la 
      porta. 
      "Potrò almeno tornare?" domandò Morrel. "Debbo uscir solo?" 
      Noirtier accennò di no. 
      "Chi deve dunque venir con me, il procuratore?" 
      Noirtier accennò nuovamente di no. 
      "Il dottore?" 
      Il vecchio fece segno di sì. 
      "Volete restar solo col signor Villefort? Ma potrà intendervi?" 
      "Certo"   disse  il  signor  Villefort,   quasi  contento  che  la 
      spiegazione avvenisse a quattr'occhi.  "State tranquillo,  capisco 
      benissimo mio padre." 
      E mentre diceva così,  con viva espressione di gioia,  i denti del 
      procuratore battevano con violenza. 
      D'Avrigny prese il braccio di Morrel,  e trascinò il giovane nella 
      stanza vicina. 
      Allora si fece in tutta la casa un silenzio più profondo di quello 
      della morte. 
      Ma,  dopo un quarto d'ora,  si fece sentire un passo vacillante, e 
      Villefort comparve sulla soglia del salotto  ove  si  trattenevano 
      d'Avrigny e Morrel. 
      "Venite!" disse, e li ricondusse da Noirtier. 
      Morrel  guardò  attentamente  Villefort: la faccia del procuratore 
      era livida,  larghe macchie color ruggine erano apparse sulla  sua 
      fronte;  fra  le  dita teneva una penna,  contorta in mille modi e 
      rotta in diversi pezzi. 
      "Signori" disse  con  voce  soffocata  a  d'Avrigny  e  a  Morrel, 
      "signori,  la vostra parola d'onore che l'orribile segreto rimarrà 
      sepolto fra noi..." 
      I due uomini trasalirono. 
      "Ve ne scongiuro!..." continuò Villefort.  "Ma..."  disse  Morrel, 
      "il colpevole!... l'uccisore!... l'assassino!..." 
      "State tranquilli, signori, giustizia sarà fatta" disse Villefort. 
      "Mio padre mi ha rivelato il nome del colpevole, mio padre ha sete 
      di  vendetta al pari di voi,  eppure mio padre vi scongiura,  come 
      me, di conservare il segreto del delitto. Non è vero, padre mio?" 
      Noirtier fece segno di sì. 
      Morrel lasciò sfuggire un moto d'orrore e d'incredulità. 
      "Signore!" gridò Villefort, fermando Morrel per un braccio.  "Caro 
      signore,  se  mio  padre,  l'uomo  che sapete inflessibile,  vi fa 
      questa  domanda,  è  perché,  state  tranquilli,   Valentina  sarà 
      terribilmente vendicata. Non è vero, padre mio?" 
      Il vecchio fece segno di sì. 
      Villefort continuò: 
      "Egli  mi  conosce,  ed  è  per  lui  che  impegno  la mia parola. 
      Tranquillizzatevi dunque, signori! Tre giorni,  non vi domando che 
      tre giorni, è il meno che potreste domandare alla giustizia, e fra 
      tre giorni la vendetta che avrò presa dell'uccisore di mia figlia, 
      farà  fremere  fin  dal  profondo  del  cuore anche gli uomini più 
      indifferenti." 
      E dicendo queste parole,  strideva i  denti  e  scuoteva  la  mano 
      inerte del vecchio. 
      "Sarà mantenuta questa promessa, signor Noirtier?" domandò Morrel, 
      mentre d'Avrigny lo interrogava con lo sguardo. 
      Il vecchio accennò uno sguardo di sinistro assenso. 
      "Giurate  dunque,  signori" disse Villefort,  giungendo le mani di 
      d'Avrigny e di Massimiliano,  "giurate che avrete pietà dell'onore 
      della famiglia, e mi lascerete la cura di vendicarla." 
      D'Avrigny si voltò,  e mormorò un debole sì;  ma Morrel strappò la 
      mano da  quella  del  magistrato  si  precipitò  verso  il  letto, 
      impresse  le  labbra  su  quelle fredde di Valentina,  e fuggì col 
      lungo gemito di un'anima che annega nella disperazione. 
      Abbiamo detto che i domestici erano  tutti  scomparsi;  il  signor 
      Villefort fu dunque obbligato a pregare d'Avrigny d'incaricarsi di 
      tutti quegli atti,  numerosi e delicati,  che esige la morte nelle 
      nostre grandi città: e, particolarmente, una morte accompagnata da 
      circostanze sospette.  In quanto a Noirtier,  era terribile vedere 
      quel dolore, quella disperazione, quel pianto concentrato. 
      Villefort  rientrò  nel  suo  studio,  d'Avrigny andò a cercare il 
      medico della municipalità, che adempie le funzioni di ispettore di 
      sanità, e che si chiama con tanta precisione "medico dei morti." 
      Noirtier non volle lasciare la salma di sua nipote. 
      Mezz'ora dopo il signor d'Avrigny  ritornò  col  suo  confratello. 
      Erano  state  chiuse  le  porte  di  strada,  e siccome persino il 
      portinaio era scomparso con tutti gli altri  servitori,  Villefort 
      stesso  andò ad aprire.  Ma si fermò sul pianerottolo,  poiché non 
      aveva più il coraggio di rientrare nella camera mortuaria.  I  due 
      medici  entrarono  soli  nella  stanza di Valentina.  Noirtier era 
      vicino al letto, pallido, immobile e muto. 
      Il medico dei  morti  si  avvicinò  colla  indifferenza  dell'uomo 
      assuefatto  a  passare  la  metà  della  sua vita tra cadaveri,  e 
      sollevato il drappo che copriva la ragazza, le aprì le labbra. 
      "Oh" disse d'Avrigny, sospirando, "povera fanciulla!  E' realmente 
      morta, vero?" 
      "Sì"  rispose  laconicamente  il  medico,  lasciando  ricadere  il 
      lenzuolo che copriva il viso di Valentina. 
      Noirtier fece sentire un sordo rantolo;  d'Avrigny si  voltò,  gli 
      occhi del vecchio sfavillavano.  Il buon dottore capì che Noirtier 
      domandava di vedere sua nipote: si riaccostò al letto, e mentre il 
      medico dei  morti  si  lavava  le  dita  nell'acqua  col  cloruro, 
      scoperse  quel calmo e pallido viso,  che assomigliava a quello di 
      un angelo addormentato.  Una  lacrima  ricomparve  nell'occhio  di 
      Noirtier.  Il  medico  dei  morti  scrisse il suo processo verbale 
      sull'angolo di un tavolo,  nella stessa camera  di  Valentina,  e, 
      adempita  questa  suprema formalità,  uscì ricondotto dal dottore. 
      Villefort aspettava che scendessero,  e comparì alla porta del suo 
      studio.  In  poche  parole  ringraziò  il  medico,  e voltandosi a 
      d'Avrigny: 
      "E ora" disse, "il prete." 
      "C'è qualche ecclesiastico a cui desideriate  particolarmente  dar 
      l'incarico di pregare per Valentina?" domandò d'Avrigny. 
      "No" disse Villefort, "andate a cercare il più vicino." 
      "Il  più  vicino"  disse  il  medico  dei morti,  "è un buon abate 
      italiano che è venuto a dimorare nella casa contigua alla  vostra; 
      se v'aggrada, lo avvertirò nel passare." 
      "D'Avrigny"   disse   Villefort,   "volete   avere   la  bontà  di 
      accompagnare il signore?  Ecco la chiave perché possiate entrare e 
      uscire a vostro piacere.  Condurrete il prete, e lo guiderete alla 
      camera della mia povera figlia." 
      "Desiderate parlargli, amico mio?" 
      "Desidero restar solo.  Mi scuserete,  non è vero?  Un prete  deve 
      comprendere tutti i dolori, anche il dolore paterno." 
      E il signor Villefort,  consegnando una chiave a d'Avrigny, salutò 
      un'ultima volta il dottore estraneo,  rientrò nello  studio  e  si 
      mise a scrivere. Per alcune menti il lavoro è un rimedio a tutti i 
      dolori. 
      Nel momento in cui scendevano in strada, videro un uomo in sottana 
      nera, che stava sulla soglia della porta vicina. 
      "Ecco  la  persona  di cui vi parlavo" disse il medico dei morti a 
      d'Avrigny. 
      D'Avrigny s avvicinò all'ecclesiastico. 
      "Signore" disse,  "sareste disposto a prestare il vostro  servizio 
      ad  un  disgraziato  padre  che  ha  perduto sua figlia,  al regio 
      procuratore, Villefort." 
      "Ah,   signore"   rispose   il   prete,   con   accento   italiano 
      pronunciatissimo, "lo so, la morte è nella sua casa." 
      "Allora  non  ho  più  bisogno  di dirvi che genere di servizio si 
      aspetta da voi?" 
      "Venivo ad offrirmi io stesso, signore" disse il prete. "E' nostra 
      missione andare incontro ai nostri doveri." 
      "E' una ragazza." 
      "Sì,  lo so,  l'ho saputo dai domestici che fuggivano di casa.  Ho 
      saputo  inoltre  che si chiamava Valentina,  e ho già cominciato a 
      pregare per lei." 
      "Grazie,  grazie,  signore" disse d'Avrigny,  "e poiché avete  già 
      incominciato ad esercitare il vostro santo ministero, degnatevi di 
      continuarlo. Venite con me vicino alla morta, e tutta una famiglia 
      sepolta nel lutto vi sarà riconoscente." 
      "Vengo,  signore,  ed  oso  dire  che  non saranno mai state fatte 
      preghiere più fervide delle mie." 
      D'Avrigny prese l'abate per mano,  e senza  incontrare  Villefort, 
      chiuso  nello  studio,  lo condusse fino alla camera di Valentina, 
      della quale i becchini  non  dovevano  impadronirsi  che  la  sera 
      seguente.  Entrando  nella  camera,  lo  sguardo di Noirtier aveva 
      incrociato quello dell'abate, e senza dubbio vi scorse qualcosa di 
      particolare, perché non lo lasciò più. 
      D'Avrigny raccomandò al prete non solo la morta, ma anche il vivo, 
      e il prete promise a d'Avrigny  di  dire  le  sue  preghiere  alla 
      morta, e di prestare la sua cura a Noirtier. L'abate vi si obbligò 
      solennemente.  E  senza  dubbio  per  non  essere disturbato nelle 
      preghiere,  e affinché  Noirtier  non  fosse  disturbato  nel  suo 
      dolore,  andò,  appena  d'Avrigny  ebbe lasciata la sua camera,  a 
      chiudere le serrature, non solo della porta dalla quale era uscito 
      d'Avrigny,  ma anche di quella  che  metteva  nelle  stanze  della 
      signora Villefort. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 103. 
                            LA FIRMA DI DANGLARS. 
 
 
      Il giorno dopo sorse triste e nuvoloso. 
      I  becchini  nella notte avevano compiuto il loro funebre ufficio, 
      accomodato il corpo,  deposto sul letto,  avvolto nel sudario  che 
      ricopre lugubremente i trapassati,  prestando loro,  per quanto si 
      parli di uguaglianza in faccia alla morte, un'ultima testimonianza 
      del lusso ch'essi amavano durante la  vita.  Il  sudario  non  era 
      altro  che  una  pezza  di  magnifica batista che la ragazza aveva 
      comprata quindici giorni prima. 
      Nella serata,  uomini chiamati  per  questo,  avevano  trasportato 
      Noirtier  dalla  camera  di  Valentina  nella  sua,  e contro ogni 
      aspettativa,  il vecchio non  aveva  fatta  alcuna  difficoltà  ad 
      allontanarsi dal corpo di sua nipote. 
      L'abate  Busoni  aveva  vegliato fino a giorno,  e all'alba si era 
      ritirato in casa sua senza chiamar nessuno.  Verso le  otto  della 
      mattina era tornato d'Avrigny,  ed avendo incontrato Villefort che 
      andava da Noirtier,  lo aveva accompagnato per sapere in che  modo 
      il  vecchio  aveva  passato  la  notte.  Lo  ritrovarono  nel  suo 
      seggiolone,  che gli serviva anche da letto,  che dormiva un sonno 
      dolce  e  quasi  sorridente.  Entrambi  si  fermarono  stupiti sul 
      limitare della porta. 
      "Osservate" disse d'Avrigny a Villefort,  che guardava  suo  padre 
      addormentato,  "guardate  come  la  natura  sa  calmare i più vivi 
      dolori: non si dirà certamente che Noirtier non amasse sua nipote, 
      eppure dorme." 
      "Sì, avete ragione" rispose Villefort, con sorpresa, "dorme,  ed è 
      una cosa ben strana, poiché la minima contrarietà lo tiene sveglio 
      delle notti intere." 
      "Il dolore lo ha distrutto..." replicò d'Avrigny. 
      Ed   entrambi   tornarono   pensierosi   allo   studio  del  regio 
      procuratore. 
      "Vedete io non ho dormito affatto" disse  Villefort,  mostrando  a 
      d'Avrigny il suo letto intatto.  "Il dolore non mi ha atterrato... 
      Sono due notti che non dormo, ma invece, guardate lo scrittoio, ho 
      scritto,  mio Dio!  In queste due notti...  ho sfogliato  pratiche 
      giudiziarie, ho annotato quest'atto d'accusa contro Benedetto! Oh, 
      lavoro,  lavoro, mia gioia, mia rabbia, appartiene a te combattere 
      tutti i miei dolori!" 
      E strinse convulsamente la mano a d'Avrigny 
      "Avete bisogno di me?" domandò il dottore. 
      "No, vi prego soltanto di tornare alle undici...  A mezzogiorno ha 
      luogo...  la partenza... mio Dio! Povera figlia mia, povera figlia 
      mia!" 
      Il procuratore,  riavutosi,  alzò gli occhi al cielo  e  mandò  un 
      sospiro. 
      "Sarete nella sala da ricevimento?" 
      "No,  ho  un  cugino  che  s'incarica  di questo triste onore.  Io 
      lavorerò, dottore, quando lavoro, tutto sparisce." 
      Infatti,  il dottore non era arrivato alla  porta,  che  il  regio 
      procuratore si era messo al lavoro. 
      Sulla  scalinata  d'Avrigny  incontrò  il parente di cui gli aveva 
      parlato Villefort,  personaggio insignificante  in  questa  storia 
      come  in quella famiglia,  uno di quegli esseri che sono destinati 
      nascendo a rappresentare in società la parte  dell'inutilità.  Era 
      puntuale,  vestito di nero,  col velo al braccio, e venendo da suo 
      cugino aveva assunto una  fisonomia,  che  contava  di  conservare 
      finché vi fosse stato bisogno. 
      Alle  undici  le  carrozze funebri rumoreggiavano sul selciato del 
      cortile,  e la strada del Faubourg Saint-Honoré  si  riempiva  del 
      mormorio della folla, avida ugualmente delle gioie e dei lutti dei 
      ricchi, e che corre ad un mortorio pomposo colla stessa fretta che 
      al matrimonio di una duchessa. 
      A  poco  a  poco  la sala mortuaria si riempì,  e si vide giungere 
      prima una parte delle  nostre  antiche  conoscenze,  come  Debray, 
      Beauchamp,  Chateau-Renaud,  quindi  tutte le persone più illustri 
      del tribunale,  delle Camere,  della  letteratura,  dell'esercito, 
      poiché  il  signor  Villefort  occupava  il primo rango di un'alta 
      posizione sociale,  meno per la sua carica,  che per i suoi meriti 
      personali.  Il cugino stava alla porta,  e faceva entrare tutti; e 
      per gli indifferenti era un gran sollievo,  bisogna dirlo,  quello 
      di  ritrovar  là  una persona indifferente,  che non esigeva dagli 
      invitati un dolore mentito, o false lacrime, come avrebbe fatto un 
      padre, un fratello, un fidanzato. 
      Quelli che si conoscevano  si  chiamavano  con  lo  sguardo  e  si 
      riunivano in gruppi.  Uno di questi gruppi era composto da Debray, 
      Chateau-Renaud e Beauchamp. 
      "Povera ragazza!" disse Debray, pagando, del resto, come ciascuno, 
      quasi suo malgrado,  un tributo  a  questo  doloroso  avvenimento. 
      "Povera ragazza!  Così ricca,  bella! Lo avreste pensato, Chateau- 
      Renaud,  quando venimmo,  saranno circa due settimane o un mese al 
      più, per firmare il contratto che poi non fu firmato?" 
      "In fede mia, no" disse Chateau-Renaud. 
      "La conoscevate?" 
      "Avevo  parlato  una  volta o due con lei,  al ballo della signora 
      Morcerf;  mi  sembrò  graziosa,  quantunque  di  spirito  un  poco 
      malinconico. Dov'è la sua matrigna, lo sapete?" 
      "E' andata a passare questo giorno con la moglie del degno signore 
      che ci riceve." 
      "E chi è questo?" 
      "Chi?" 
      "Il signore che ci riceve... Un deputato?" 
      "No" disse Beauchamp. "Sono condannato a vedere i nostri onorevoli 
      tutti i giorni e la sua faccia mi è ignota." 
      "Avete parlato di questa morte nel vostro giornale?" 
      "L'articolo  non è mio,  ma ne è stato parlato: e dubito che torni 
      gradito al signor Villefort.  Vi è detto,  credo,  che se  quattro 
      morti  successive  avessero luogo in tutt'altra casa che in quella 
      del regio procuratore,  il procuratore  di  Stato  se  ne  sarebbe 
      certamente preoccupato." 
      "Del  resto"  disse  Chateau-Renaud,  "il dottor d'Avrigny,  che è 
      medico di mia madre,  pretende che Villefort ne sia disperato.  Ma 
      chi cercate dunque, Debray?" 
      "Cerco il conte di Montecristo" rispose il giovane. 
      "L'ho  incontrato  sul  boulevard,  venendo  qui,  e  lo  credo in 
      procinto di partire; andava dal suo banchiere" disse Beauchamp. 
      "Dal suo banchiere?  Non è Danglars  il  suo  banchiere?"  domandò 
      Chateau-Renaud a Debray. 
      "Credo di sì" rispose il sottosegretario con un leggero imbarazzo. 
      "Ma  il conte di Montecristo non è il solo che manchi...  Non vedo 
      Morrel." 
      "Morrel!  Forse la conosceva?" domandò Chateau-Renaud.  "Credo sia 
      stato presentato soltanto alla signora Villefort." 
      "Non importa, sarebbe dovuto venire" disse Debray. "Di che cosa si 
      parlerà  questa  sera?  Questi  funerali  sono  la  notizia  della 
      giornata.  Ma  zitti,  attenti,  ecco  il  ministro  di  grazia  e 
      giustizia:  si  crederà  senza  dubbio  obbligato  a  fare  il suo 
      discorsino al cugino lacrimevole." 
      E i tre giovani si accostarono alla porta per sentire il  discorso 
      del ministro di grazia e giustizia. 
      Beauchamp  aveva detto il vero.  Recandosi alla cerimonia funebre, 
      aveva incontrato  Montecristo,  che  dal  canto  suo  si  dirigeva 
      all'abitazione  di  Danglars,  rue Chaussée d'Antin.  Il banchiere 
      aveva dalla sua finestra riconosciuta la carrozza  del  conte  che 
      entrava nel cortile, e gli era venuto incontro con viso triste, ma 
      affabile. 
      "Ebbene conte" disse,  stendendo la mano a Montecristo,  "venite a 
      farmi visita di condoglianza?  In verità la disgrazia è entrata in 
      casa mia,  e al momento in cui vi ho scorto,  stavo chiedendomi se 
      avevo mandato qualche maledizione a quei poveri Morcerf,  cosa che 
      avrebbe  giustificato il proverbio: "A chi vuol male accade male". 
      Ebbene, sulla mia parola, no, non ho augurato male a Morcerf.  Era 
      forse un po' orgoglioso,  per un uomo venuto dal niente come me, e 
      che doveva tutto a se stesso,  come me,  ma  ciascuno  ha  i  suoi 
      difetti.  Ah,  state  in guardia,  conte,  gli uomini della nostra 
      generazione... ma scusate,  voi non siete di questa generazione... 
      siete  ancor  giovane...,  gli uomini della nostra generazione non 
      sono  fortunati  quest'anno:  ne  fa  fede  il   nostro   puritano 
      procuratore, il signor Villefort, che ha perduto anche sua figlia. 
      Così riepiloghiamo: Villefort,  come dicevamo,  perde tutta la sua 
      famiglia in un modo  strano,  Morcerf  disonorato  ed  ucciso,  io 
      coperto  di  ridicolo per la scelleratezza di questo Benedetto,  e 
      poi..." 
      "E poi che?" domandò il conte. 
      "Ahimè, voi dunque lo ignorate?" 
      "Qualche nuova disgrazia?" 
      "Mia figlia..." 
      "La signorina Danglars?" 
      "Eugenia ci lascia." 
      "Oh, mio Dio, che cosa dite mai!" 
      "La verità, mio caro conte. Quanto siete fortunato voi a non avere 
      né moglie. né figli." 
      "Lo credete?" 
      "Altroché, se lo credo..." 
      "E dicevate che la signorina Danglars?" 
      "Non  ha  potuto  sopportare  l'affronto  che  ci  ha  fatto  quel 
      miserabile, e mi ha chiesto il permesso di viaggiare." 
      "Ed è partita?" 
      "L'altra notte." 
      "Con la signora Danglars?" 
      "No,  con una nostra parente...  Ma noi la perderemo,  questa cara 
      Eugenia, perché dubito,  col carattere che ha,  che acconsenta mai 
      ritornare in Francia." 
      "Che  volete,  mio caro barone" disse Montecristo,  "dispiaceri di 
      famiglia! Dispiaceri che potrebbero sconvolgere un povero diavolo, 
      che avesse riposta  tutta  la  sua  speranza  in  sua  figlia,  ma 
      sopportabili  da  un milionario come voi.  I filosofi hanno un bel 
      dire,  ma gli uomini pratici daranno loro sempre una smentita:  il 
      denaro consola molte afflizioni, e voi dovete essere consolato più 
      di  qualunque  altro,  se  ammettete  la  virtù  di questo balsamo 
      salutare, voi, il re dei finanzieri, il punto di transito di tutti 
      i poteri." 
      Danglars lanciò uno  sguardo  obliquo  sul  conte  per  vedere  se 
      scherzava o se parlava sul serio. 
      "Sì" disse, "il fatto è che se la fortuna consola, io debbo essere 
      consolato, perché sono ricco!" 
      "Tanto ricco,  mio caro barone, che le vostre ricchezze somigliano 
      alle piramidi: se si vogliono demolire,  nessuno osa,  se qualcuno 
      l'osasse, non lo potrebbe." 
      Danglars sorrise della bontà del conte, e rispose: 
      "Ora  mi  ricordo che quando siete entrato,  stavo firmando cinque 
      piccoli assegni.  Ne avevo già firmati due,  volete permettermi di 
      firmare gli altri tre?" 
      "Fate pure, mio caro barone, fate." 
      Ci  fu un momento di silenzio,  durante il quale s'intese stridere 
      la penna del banchiere,  mentre Montecristo guardava  gli  intagli 
      dorati del soffitto. 
      "Titoli  di  Spagna"  disse  Montecristo,  "titoli  d'Haiti  o  di 
      Napoli?" 
      "No" disse Danglars col suo riso singolare, "assegni al portatore, 
      buoni sulla Banca di Francia.  Osservate,  signor conte,  voi  che 
      siete l'imperatore della finanza, se io ne sono il re... Avete mai 
      visto  foglietti  di  questa  grandezza  che  valgono  ciascuno un 
      milione?" 
      Montecristo prese in mano,  come per pesarli,  i cinque  fogli  di 
      carta presentatigli orgogliosamente da Danglars, e lesse: 
 
      "Piaccia  al  signor  reggente  della  banca  di far pagare al mio 
      ordine,  e sui fondi da me depositati,  la somma  di  un  milione, 
      valuta in conto. 
      Barone Danglars." 
 
      "Uno,  due,  tre,  quattro  e  cinque" disse Montecristo,  "cinque 
      milioni! Perbacco in che modo lavorate signor Creso?" 
      "Ecco come faccio gli affari!" disse Danglars. 
      "E' una cosa stupenda,  soprattutto se,  come non  dubito,  questo 
      somma viene pagata in contanti." 
      "Lo sarà." 
      "E'  una bella cosa avere un credito simile.  Davvero tali cose si 
      vedono soltanto in Francia: cinque pezzi di  carta  valere  cinque 
      milioni! Bisogna vedere per credere." 
      "Ne dubitate?" 
      "No." 
      "Lo  dite  in  un certo modo..  Conte,  prendetevi questo piacere, 
      accompagnate il mio commesso alla banca,  e lo vedrete uscire  con 
      tanti buoni del tesoro per la stessa somma." 
      "No" disse Montecristo,  pesando i cinque biglietti, "in fede mia, 
      no, la cosa è troppo strana, e ne farò io stesso l'esperimento. Il 
      mio credito presso di voi era convenuto  in  sei  milioni,  io  ho 
      preso  novecento mila franchi: non vi resta dunque che darmi altri 
      cinque milioni e centomila franchi.  Prendo questi cinque pezzi di 
      carta,  che  credo  ottimi alla sola vista della vostra firma,  ed 
      ecco una ricevuta generale di sei milioni colla quale  è  regolato 
      il  nostro  conto:  l'avevo  preparata  anticipatamente,   perché, 
      bisogna che ve lo dica, oggi ho molto bisogno di denaro." 
      E con una mano Montecristo  mise  i  cinque  biglietti  in  tasca, 
      mentre  coll'altra  presentava  la  sua ricevuta al banchiere.  Un 
      fulmine caduto ai piedi di Danglars  non  lo  avrebbe  colpito  di 
      maggiore spavento e terrore. 
      "Come?  Signor  conte,  voi  prendete  questo denaro?  Ma scusate, 
      scusate,  questo è denaro che debbo agli ospizi,  un  deposito,  e 
      avevo promesso di pagare stamattina." 
      "Ah" disse Montecristo, "allora l'affare è diverso. A me non preme 
      per  nulla  di  avere  questi cinque biglietti,  pagatemi in altra 
      valuta.  Li avevo presi per una curiosità,  per poter dire a tutti 
      che,   senza  alcun  avviso,  senza  chiedermi  cinque  minuti  di 
      dilazione,  la casa Danglars mi aveva  pagati  cinque  milioni  in 
      contanti,  la  qual  cosa  sarebbe  stata rimarchevole.  Ma ecco i 
      vostri foglietti, vi ripeto, pagatemi in altra valuta,  o fatemene 
      degli altri." 
      E stese i cinque assegni a Danglars,  che livido, prima allungò la 
      mano come l'avvoltoio allunga gli artigli tra le sbarre della  sua 
      gabbia per trattenere la carne che si tenta di levargli.  Ma ad un 
      tratto si pentì, fece uno sforzo violento e si contenne. Quindi si 
      vide il sorriso tornargli a poco a poco sul viso sconvolto. 
      "Veniamo  al  fatto"  disse,   "la  vostra  ricevuta  vale  denaro 
      contante?" 
      "Oh,  mio Dio,  sì,  e se foste a Roma,  la casa Thomson e French, 
      sopra una mia ricevuta,  farebbe minor difficoltà  a  pagarvi,  di 
      quanto fate voi a pagare me." 
      "Scusate, signor conte, scusate..." 
      "Posso dunque conservare questi foglietti?" 
      "Sì"  disse Danglars asciugandosi il sudore che gli stillava dalla 
      fronte, "conservateli, conservateli." 
      Montecristo   rimise   i   cinque    assegni    in    tasca    con 
      quell'intraducibile moto che vuol dire: "Diamine,  riflettete,  se 
      vi pentite, siete ancora in tempo". 
      "Sì" disse Danglars, "sì, conservate decisamente la mia firma. Voi 
      lo sapete,  nessuno è tanto pieno di formalità quanto un  uomo  di 
      denaro:  io  destinavo questi fondi agli ospizi,  e per un momento 
      avrei creduto derubarli non dando loro precisamente  questi;  come 
      se uno scudo non valesse quanto un altro scudo. Scusate!" 
      E si mise a ridere fragorosamente, ma di un riso convulso. 
      "Scuso" disse graziosamente Montecristo, "e metto in tasca." 
      "Ma"  disse  Danglars,  "abbiamo  ancora  una  somma  di centomila 
      franchi." 
      "Oh,  una bagattella" disse Montecristo.  "L'aggio deve  ammontare 
      circa a questa somma, tenetela, e saremo pari." 
      "Conte" disse Danglars, "parlate sul serio?" 
      "Io  non  scherzo  mai  coi banchieri" replicò Montecristo con una 
      serietà che toccava l'impertinenza. 
      E s'incamminava verso  la  porta,  giusto  nel  punto  in  cui  il 
      cameriere  annunciava  il  signor di Boville,  ricevitore generale 
      degli ospizi. 
      "In fede mia" disse Montecristo,  "sembra che sia giunto in  tempo 
      per godere delle vostre firme; sono assai disputate." 
      Danglars  impallidì  una  seconda volta,  e si affrettò a prendere 
      congedo  dal  conte.  Il  conte  di  Montecristo  rispose  con  un 
      cerimonioso  saluto a quello di Boville,  che stava in piedi nella 
      camera  antecedente,  e  che,   passato  Montecristo,   fu  subito 
      introdotto nello studio del signor Danglars. 
      Si sarebbe potuto vedere il viso severo del conte illuminarsi d'un 
      passeggero  sorriso nel vedere il portafogli che teneva in mano il 
      ricevitore degli ospizi. Alla porta ritrovò la carrozza, e si fece 
      condurre sul momento alla banca. 
      Intanto  Danglars,  nascondendo  tutta  la  sua  emozione,  veniva 
      incontro al ricevitore generale. 
      "Buon  giorno"  disse,  tutto  grazia e sorriso,  "mio caro amico, 
      scommetterei che arrivate come creditore..." 
      "Avete proprio indovinato,  signor  barone"  disse  Boville:  "gli 
      ospizi  si  presentano a voi nella mia persona.  Gli ammalati,  le 
      vedove,  gli  orfani  vengono  per  mio  mezzo  a  domandarvi  una 
      elemosina di cinque milioni." 
      "E  si  dice  che gli orfani sono da compiangere!" disse Danglars, 
      prolungando lo scherzo. "Poveri bambini!" 
      "Eccomi,  vengo in loro nome" disse il signor di Boville.  "Avrete 
      ben ricevuta la mia lettera di ieri?" 
      "Sì." 
      "Sono qui con la mia ricevuta." 
      "Mio caro signor di Boville" disse Danglars,  "i vostri malati, le 
      vostre vedove,  i vostri orfani avranno,  se voi acconsentite,  la 
      bontà  d'aspettare  ventiquattro  ore,   dato  che  il  signor  di 
      Montecristo,  che avete visto uscire di qui...  Lo avete visto,  è 
      vero?" 
      "Sì, ebbene?" 
      "Ebbene,  il  signor  di  Montecristo  portava  via  i loro cinque 
      milioni." 
      "In che modo?" 
      "Il conte aveva un credito illimitato su  di  me,  credito  aperto 
      dalla  casa Thomson e French di Roma...  E' venuto a domandarmi la 
      somma di cinque milioni in un sol colpo,  e  gli  ho  dato  cinque 
      assegni della Banca di Francia. I miei fondi stanno depositati là, 
      e  voi  capirete  che  temerei,  ritirando dalle mani del reggente 
      dieci milioni tutti in un  giorno,  che  la  cosa  possa  sembrare 
      troppo  strana.  In  due giorni" aggiunse Danglars sorridendo,  "è 
      affare diverso." 
      "Andiamo dunque" gridò il signor di Boville,  col tono  della  più 
      completa incredulità,  "cinque milioni a quel signore che è uscito 
      poco fa, e che mi ha salutato come se lo conoscessi?" 
      "Può darsi che vi conosca senza che voi lo conosciate.  Il  signor 
      di Montecristo conosce tutti." 
      "Cinque milioni!" 
      "Ecco  la  sua  ricevuta.  Fate  come  l'apostolo  che  non voleva 
      credere: guardate e toccate." 
      Il signor di Boville prese il foglio presentatogli da  Danglars  e 
      lesse: 
 
      "Ho ricevuto dal signor barone Danglars la somma di sei milioni di 
      cui  egli  si rimborserà a suo piacere sulla casa Thomson e French 
      di Roma. 
      Conte di Montecristo." 
 
      "In fede mia, è vero!" disse il signor di Boville. 
      "Conoscete voi la casa Thomson e French?" 
      "Sì,  ho fatto una volta un affare  di  duecentomila  franchi  con 
      questa casa, ma dopo non ne ho più sentito parlare." 
      "E'  una  delle  migliori case d'Europa" disse Danglars,  gettando 
      negligentemente sullo scrittoio la  ricevuta  di  Montecristo  che 
      aveva ritirata dalle mani di Boville. 
      "E  quel  conte  aveva  credito  nientemeno che per cinque milioni 
      presso  di  voi?   Ma  è  dunque  un  nababbo  questo   conte   di 
      Montecristo?" 
      "A  dir  il  vero  non  so  che  cosa  sia.  Ma  aveva tre crediti 
      illimitati, uno su me,  uno sopra Rothschild e uno sopra Laffitte, 
      e" aggiunse negligentemente Danglars,  "come vedete,  ha dato a me 
      la preferenza,  lasciandomi  centomila  franchi  per  l'aggio  del 
      cambio." 
      Il signor di Boville dando i segni della più alta ammirazione: 
      "Bisognerà  che vada a visitarlo" disse,  "e che ottenga da lui un 
      lascito per qualche pia fondazione." 
      "Oh, è come se l'aveste già: le sue sole elemosine ammontano a più 
      di ventimila franchi al mese." 
      "E' una cosa magnifica!  D'altronde  gli  citerò  l'esempio  della 
      signora Morcerf e di suo figlio." 
      "Quale esempio?" 
      "Hanno donato tutta la loro sostanza agli ospizi." 
      "Quale sostanza?" 
      "Quella del defunto generale Morcerf." 
      "E a che proposito?" 
      "Perché non vogliono beni così miseramente acquistati." 
      "E di cosa vivranno?" 
      "La  madre  si  ritira  in  provincia,  ed  il  figlio  si arruola 
      soldato." 
      "Senti! senti! Questi si che sono scrupoli!" 
      "Ho fatto registrare ieri l'atto di donazione." 
      "E quanto possedevano?" 
      "Oh,  non  gran  cosa:  un  milione  e  trecentomila  franchi.  Ma 
      ritorniamo ai nostri milioni." 
      "Volentieri"  disse  Danglars colla maggior naturalezza del mondo. 
      "Avete dunque molta fretta di ritirare questo denaro?" 
      "Ma sì, il riscontro di cassa si fa domani." 
      "Domani! Perché non lo avete detto subito? Ma è un secolo, domani! 
      A che ora la verifica?" 
      "Alle due pomeridiane." 
      "Mandate a mezzogiorno" disse Danglars, col suo sorriso. 
      Il signor di Boville non rispondeva,  ma faceva segno di sì con la 
      testa,  ed  andava voltando e rivoltando il suo portafoglio fra le 
      mani. 
      "Ma  ora  che  ci  penso"  disse  Danglars,   "potete  anche  fare 
      altrimenti..." 
      "In che modo?" 
      "La  ricevuta  di Montecristo vale denaro contante...  Passate con 
      questa ricevuta da Rothschild o da Laffitte,  e ve la  prenderanno 
      all'istante." 
      "Quantunque da pagarsi a Roma?" 
      "Certamente,  non  vi potrà costare che un piccolo sconto di sei o 
      settemila franchi." 
      Il ricevitore fece uno sbalzo indietro. 
      "In fede mia, no, preferisco aspettare domani, come dicevate voi." 
      "Ho creduto per  un  momento,  perdonatemi"  disse  Danglars,  con 
      estrema impudenza,  "ho creduto che aveste un piccolo deficit, una 
      piccola mancanza da riempire." 
      "Oh!" gridò il ricevitore. 
      "E' successo altre volte, e, in tal caso si fa un sacrificio." 
      "Grazie a Dio, no" disse il signor di Boville. 
      "Allora, a domani, non è vero, mio caro signor ricevitore?" 
      "Sì, a domani, ma senza fallo!" 
      "Ancora? Voi volete scherzare... Mandate a mezzogiorno, e la banca 
      sarà avvisata." 
      "Verrò io stesso." 
      "Meglio ancora, perché così avrò il piacere di rivedervi." 
      "A proposito" disse il signor di Boville,  "non andate al funerale 
      di  quella  povera  signorina  Villefort,  di cui ho incontrato il 
      corteo sul boulevard?" 
      "No" disse il banchiere. "Sono ancora pieno di vergogna per quello 
      scandalo di Benedetto." 
      "Beh, avete torto... E' forse colpa vostra?" 
      "Ascoltate,  mio caro ricevitore,  quando si porta un  nome  senza 
      macchia come il mio, si ha un po' di suscettibilità." 
      "Tutti  vi  compiangono,   siatene  persuaso,   e  soprattutto  si 
      compiange la signorina vostra figlia." 
      "Povera Eugenia!"  esclamò  Danglars,  con  un  profondo  sospiro. 
      "Sapete che entra in monastero, signore?" 
      "No." 
      "Disgraziatamente è vero. L'indomani dell'incidente, si è decisa a 
      partire  con  una  monaca  sua  amica,  ed  è  andata a cercare un 
      convento dei più austeri in Italia o in Spagna." 
      "Oh, è terribile!" 
      Ed il signor  di  Boville  si  ritirò  dopo  questa  esclamazione, 
      esprimendo  al padre la propria mortificazione.  Ma non era ancora 
      uscito, che Danglars, con un gesto che potranno soltanto intendere 
      quelli che hanno visto rappresentare Robert-Macaire da  Frédérick, 
      gridò: "Imbecille!" 
      E chiudendo la quietanza di Montecristo in un piccolo portafogli: 
      "Vieni a mezzogiorno" disse, "a mezzogiorno sarò lontano." 
      Quindi  si chiuse a doppio giro di chiave,  vuotò tutti i cassetti 
      della casa, riunì una cinquantina di mille franchi in biglietti di 
      banca, bruciò diverse carte, ne pose altre in evidenza,  e scrisse 
      una  lettera  che  sigillò mettendo la soprascritta: "Alla signora 
      baronessa Danglars". 
      "Stasera" mormorò "la metterò io stesso sulla sua toilette." 
      Quindi, togliendo da un cassetto un passaporto: 
      "Bene" disse, "è ancora valido per due mesi." 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 104. 
                            IL CIMITERO LACHAISE. 
 
 
      Il signor di  Boville  aveva  di  fatto  incontrato  il  convoglio 
      funebre  che  conduceva Valentina all'ultima sua dimora.  Il cielo 
      era cupo e nuvoloso;  un vento ancora tiepido,  ma già mortale per 
      le  foglie  ingiallite,  le  staccava  dai  rami,  a  poco  a poco 
      spogliati, e le faceva volare sulla folla immensa che ingombrava i 
      boulevards. 
      Il signor Villefort,  puro parigino,  considerava il cimitero  del 
      Père-Lachaise,  come  il solo degno di ricevere le spoglie mortali 
      di una famiglia parigina.  Gli altri gli  sembravano  cimiteri  di 
      campagna, appartamenti ammobigliati della morte. Soltanto al Père- 
      Lachaise un trapassato del buon ceto poteva essere alloggiato come 
      in  casa  propria.  Come abbiamo visto aveva comprato l'area sulla 
      quale s'innalzava il monumento popolato così rapidamente da  tutti 
      i  morti  della  sua  prima famiglia.  Si leggeva sul frontone del 
      mausoleo: "Famiglia di Saint-Méran e Villefort",  perché tale  era 
      stata l'ultima volontà di Renata, madre di Valentina. 
      Il   pomposo   corteo,    partito   dal   Faubourg   Saint-Honoré, 
      s'incamminava dunque verso il  Père-Lachaise  attraversando  tutta 
      Parigi,  e  passando  per  il  Faubourg  du  Temple,  quindi per i 
      boulevards esterni fino al cimitero.  Più  di  cinquanta  carrozze 
      signorili  seguivano  venti  carrozze  da  lutto,  e  dietro  alle 
      cinquanta carrozze più di cinquecento persone ancora camminavano a 
      piedi.  Erano quasi tutti giovani colpiti come da un fulmine dalla 
      morte di Valentina,  e che, malgrado il vapore glaciale del secolo 
      ed il prosaismo dell'epoca, subivano l'influenza poetica di quella 
      bella,  casta e adorabile giovane donna,  divelta nel fiore  degli 
      anni!  All'uscire  da  Parigi  si  vide  arrivare  rapidamente una 
      carrozza  trascinata  da  quattro  cavalli,  che  d'improvviso  si 
      fermarono,  irrigidendo i loro nervosi garetti, come fossero state 
      molle d'acciaio: era il signor di Montecristo. 
      Il conte scese di carrozza, e venne a confondersi fra la folla che 
      camminava a piedi dietro il carro funebre. Chateau-Renaud lo vide, 
      e sceso  subito  dal  suo  carrozzino,  venne  ad  unirsi  a  lui. 
      Beauchamp ugualmente lasciò il calesse nel quale si trovava. 
      Il conte guardava attentamente fra la folla, cercava evidentemente 
      qualcuno, infine non poté più contenersi. 
      "Dov'è Morrel" domandò. "Qualcuno di voi, signori, sa dove sia?" 
      "Ci siamo fatti tale domanda sin dalla casa" disse Chateau-Renaud, 
      "ma nessuno di noi lo ha visto." 
      Il conte tacque, ma continuò a guardare intorno a sé. 
      Intanto si giunse al cimitero.  L'occhio penetrante di Montecristo 
      si insinuò in tutti i boschetti, e ben presto s'acquietò: un'ombra 
      aveva strisciato sotto i neri cipressi, e Montecristo senza dubbio 
      aveva capito di chi si trattava. 
      Si sa che cosa è una sepoltura in quella città  di  morti:  gruppi 
      neri disseminati nei bianchi viali,  un silenzio del cielo e della 
      terra,  rotto soltanto dal rumore dello spezzarsi di qualche ramo, 
      dall'affondarsi di qualche siepe intorno alla tomba;  poi il canto 
      malinconico  dei  preti,  al  quale  si  frammette  qua  e  là  un 
      singhiozzo sfuggito da un cespuglio di fiori, vicino a cui si vede 
      qualche donna prostrata e con le mani giunte. 
      L'ombra   osservata   da  Montecristo  attraversò  rapidamente  il 
      sentiero che passava dietro la tomba  di  Abelardo  ed  Eloisa,  e 
      venne a porsi coi becchini alla testa dei cavalli che trascinavano 
      il corpo, e col medesimo passo pervenne al luogo della sepoltura. 
      Montecristo  non  guardava che quell'ombra appena notata da quelli 
      che erano vicini;  anzi,  due volte uscì dalle file per vedere  se 
      quell'uomo  cercasse  un'arma nei propri abiti.  L'ombra quando il 
      corteo  si  fermò,   fu  riconosciuta:  Morrel,   coll'abito  nero 
      abbottonato fino al collo, la fronte livida, le guance solcate, il 
      cappello  ammaccato  in  più  posti  dalle  mani convulse,  si era 
      appoggiato ad un albero sopra un rialto che dominava il  mausoleo, 
      in  modo  da  non  perdere  alcuno  dei  particolari della funebre 
      cerimonia che si compiva. 
      Tutto terminò secondo l'uso. Alcuni uomini, e, come sempre,  erano 
      i meno commossi,  pronunciarono dei discorsi.  Gli uni compiansero 
      quella morte prematura,  gli altri si  diffusero  sul  dolore  del 
      padre,  qualcuno fu abbastanza ingegnoso da trovare che la ragazza 
      aveva più di una volta pregato il signor Villefort in  favore  dei 
      colpevoli  che  il  procuratore  stava per giudicare,  e infine si 
      terminarono le metafore fiorite e i periodi dolorosi,  commentando 
      in tutti i modi le sentenze di Malherbe e Dupérier. 
      Il  conte  di  Montecristo  non  ascoltava,  né  vedeva  nulla;  o 
      piuttosto non vedeva che Morrel la cui calma  e  immobilità  erano 
      preoccupanti  per lui che solo poteva intuire ciò che accadeva nel 
      fondo del cuore del giovane ufficiale. 
      "Osserva" disse ad un tratto Beauchamp a Debray,  "ecco là Morrel! 
      Dove diavolo si è andato a cacciare?" 
      "Come è pallido!" disse Chateau-Renaud fremendo. 
      "Avrà freddo" replicò Debray. 
      "No"  disse  lentamente  Chateau-Renaud,  "credo che sia commosso, 
      Massimiliano è sensibilissimo." 
      "Beh" disse Debray, "conosceva appena Valentina Villefort, l'avete 
      detto voi stesso." 
      "E' vero.  Però ricordo che al  ballo  della  signora  Morcerf  ha 
      ballato tre volte con lei...  Sapete, conte, a quel ballo dove voi 
      produceste così grande effetto?" 
      "No,  non lo so" rispose Montecristo,  senza  sapere  a  che  cosa 
      rispondeva né a chi,  tanto era occupato a sorvegliare Morrel,  le 
      cui guance si animavano come accade a  quelli  che  comprimono  la 
      loro disperazione. 
      "I  discorsi sono finiti,  addio,  signori" disse risolutamente il 
      conte. 
      E dette il segnale del  congedo,  scomparendo  senza  che  nessuno 
      capisse in quale direzione.  La solennità mortuaria era terminata, 
      e gli astanti ripresero la strada per Parigi.  Chateau-Renaud solo 
      cercò Morrel con gli occhi,  ma,  intanto che seguiva il conte che 
      si allontanava,  Morrel aveva lasciato il suo  posto,  e  Chateau- 
      Renaud,  dopo  averlo  invano  cercato,  aveva  seguito  Debray  e 
      Beauchamp.  Montecristo si era gettato fra  i  tigli,  e  nascosto 
      dietro una larga tomba,  spiava il minimo movimento di Morrel, che 
      a poco a poco  si  accostò  al  mausoleo,  abbandonato  prima  dai 
      curiosi e poi dagli operai. 
      Morrel  volse  in  giro lo sguardo,  e quando ebbe rivolto il viso 
      dall'altra parte,  Montecristo  gli  si  avvicinò  ancora  di  una 
      diecina    di   passi   senza   essere   stato   visto.    Morrel, 
      inginocchiatosi,  chinò la fronte fino sulla pietra,  abbracciò il 
      cancello con ambe le mani, ed esclamò: 
      "Oh, Valentina!" 
      Il cuore del conte fu trafitto da queste parole;  fece un passo, e 
      battendo sulla spalla di Morrel: 
      "Siete voi, mio caro" disse. "Io vi cercavo." 
      Montecristo  si  aspettava   rimproveri   e   recriminazioni;   si 
      ingannava. Morrel si voltò dalla sua parte, e con calma apparente: 
      "Vedete" disse, "pregavo!" 
      Lo sguardo scrutatore di Montecristo percorse il giovane dai piedi 
      alla testa. Dopo questo esame sembrò più tranquillo. 
      "Volete che vi riconduca a Parigi?" disse. 
      "No, grazie." 
      "Desiderate qualche cosa?" 
      "Lasciatemi pregare." 
      Il  conte  si inginocchiò senza fare obiezioni,  ma non perdeva un 
      sol gesto di Morrel;  finalmente questi  si  alzò,  e  riprese  la 
      strada di Parigi senza voltare una volta la testa. 
      Massimiliano  discese  lentamente la rue de la Roquette.  Il conte 
      rimandò la carrozza, che stava ferma alla porta del cimitero, e lo 
      seguì a cento passi di distanza.  Massimiliano traversò il canale, 
      e rientrò nella rue Meslay dai boulevards.  Cinque minuti dopo che 
      la porta fu chiusa da Morrel si riaprì per Montecristo. 
      Giulia era all'ingresso  del  giardino  e  osservava  con  la  più 
      profonda  attenzione  mastro  Penelon,   che,   prendendo  la  sua 
      professione di giardiniere  sul  serio,  lavorava  intorno  ad  un 
      rosaio del Bengala. 
      "Ah, conte di Montecristo!" gridò con quella gioia che manifestava 
      sempre  ogni  membro della famiglia,  quando Montecristo faceva la 
      sua visita in rue Meslay. 
      "Massimiliano è entrato ora,  non è  vero,  signora?"  domandò  il 
      conte. 
      "Credo di averlo visto passare,  si" rispose la giovane sposa, "ma 
      vi prego, chiamate Emanuele." 
      "Scusate,   signora,   ma  bisogna  che   salga   all'istante   da 
      Massimiliano"  replicò  Montecristo,  "ho  da  dirgli qualche cosa 
      della massima importanza." 
      "Andate dunque" disse,  accompagnandolo col suo  grazioso  sorriso 
      fino a che non fu scomparso per le scale. 
      Montecristo raggiunse ben presto il secondo piano, che separava il 
      pianterreno   dall'appartamento   di   Massimiliano.   Giunto  sul 
      pianerottolo ascoltò, nessun rumore si faceva sentire.  Come nella 
      maggior  parte  delle case antiche abitate da un solo padrone,  il 
      pianerottolo non era chiuso che da un uscio a vetri.  Massimiliano 
      si era rinchiuso dal di dentro, ed era impossibile vedere al di là 
      della  porta,  perché  una  cortina di seta rossa copriva i vetri. 
      L'ansietà del conte  di  Montecristo  si  manifestò  con  un  vivo 
      rossore, sintomo di emozione straordinaria in quest'uomo veramente 
      impassibile. 
      "Che fare?" mormorò. 
      E rifletté un istante. 
      "Suonare?" riprese. "Oh, no. Spesso il rumore di un campanello, di 
      una  visita,  accelera la decisione di quelli che si trovano nello 
      stato in cui dev'essere Massimiliano in questo momento." 
      Montecristo fremette dalla testa ai piedi,  e siccome  in  lui  la 
      decisione  aveva la rapidità del lampo,  dette un colpo col gomito 
      contro un cristallo della invetriata,  che andò in  pezzi,  quindi 
      sollevò la cortina, e vide Morrel davanti ad uno scrittoio con una 
      penna in mano, che aveva fatto uno balzo sulla sedia al rumore del 
      cristallo rotto. 
      "Non  è  niente"  disse  il  conte,  "faccio le mie scuse...  Sono 
      scivolato,  e scivolando ho  battuto  col  gomito  sul  cristallo; 
      giacché  è rotto,  ne approfitto per entrare...  Non vi scomodate, 
      non vi scomodate..." 
      E passando il braccio dal buco nel vetro il conte aprì  la  porta. 
      Morrel  si  alzò  evidentemente  contrariato,  e  venne incontro a 
      Montecristo  più  per  impedirgli  il  passo  che  per  andarlo  a 
      ricevere. 
      "In  fede  mia"  disse Montecristo,  strofinandosi il gomito,  "la 
      colpa è dei vostri domestici,  i vostri pavimenti sono lisci  come 
      specchi..." 
      "Siete ferito, signore?" domandò freddamente Morrel. 
      "Non so... Ma che facevate dunque? Scrivevate?" 
      "Io?" 
      "Avete le dita macchiate d'inchiostro." 
      "Sì,  è vero" rispose Morrel, "mi accade qualche volta, quantunque 
      sia un soldato." 
      Montecristo fece qualche passo nella  stanza,  e  Massimiliano  fu 
      costretto a lasciarlo passare, ma lo seguì. 
      "Scrivevate?"  riprese  Montecristo,  con uno sguardo imbarazzante 
      per la sua fermezza. 
      "Ho già avuto l'onore di dirvi di sì" disse Morrel. 
      Il conte gettò uno sguardo intorno a sé. 
      "Le vostre pistole di fianco  al  calamaio?"  disse,  mostrando  a 
      Morrel le armi poste sullo scrittoio. 
      "Parto per un viaggio" rispose con dispetto Massimiliano. 
      "Amico  mio!"  disse  Montecristo,  con  voce  piena  di  infinita 
      dolcezza. 
      "Signore?" 
      "Amico mio, mio caro Massimiliano, non prendete decisioni estreme, 
      ve ne supplico." 
      "Io decisioni estreme?" disse Morrel,  stringendo le spalle.  "Che 
      cosa trovate di estremo in un viaggio?" 
      "Massimiliano" disse Montecristo,  "deponiamo la maschera. Voi non 
      mi ingannate con questa  calma  forzata,  più  di  quello  che  io 
      inganni  voi con la mia frivola sollecitudine.  Voi capirete bene, 
      non è vero, che per aver fatto ciò che ho fatto, per aver rotto un 
      vetro,  violato il segreto della camera di un amico,  voi capirete 
      bene,  dicevo,  che per aver fatto tutto ciò che ho fatto, bisogna 
      avessi  una  reale  inquietudine,   o  piuttosto   una   terribile 
      convinzione? Morrel, voi volevate uccidervi." 
      "Bah!"  disse  Morrel  fremendo.  "Da dove vi vengono queste idee, 
      signor conte?" 
      "Vi dico che volevate uccidervi" continuò il  conte  col  medesimo 
      tono di voce, "ed eccone la prova." 
      E  avvicinatosi  allo  scrittoio,  sollevò il foglio bianco che il 
      giovane aveva gettato  sulla  lettera  incominciata,  e  prese  la 
      lettera.  Morrel si lanciò per levargliela di mano. Ma Montecristo 
      prevedendo l'atto,  lo prevenne,  afferrando Massimiliano  per  un 
      braccio, e fermandolo. 
      "Vedete  bene che volevate uccidervi,  Morrel" disse il conte,  "è 
      scritto qui!" 
      "E allora?" gridò Morrel,  passando  dalla  calma  apparente  alla 
      violenza.  "Quando  ciò  fosse,  quando  avessi  deciso di volgere 
      contro di me la canna di  quella  pistola,  chi  me  lo  impedirà? 
      Quando io dirò: tutte le mie speranze sono rovinate,  il mio cuore 
      è spezzato,  la mia vita è estinta,  non vi  è  più  che  lutto  e 
      disgusto intorno a me, la terra è divenuta cenere, ogni voce umana 
      mi dilania,  quando dirò: è pietà lasciarmi morire,  perché se non 
      mi lasciate morire,  perderò la ragione,  diventerò  pazzo!,  orsù 
      rispondete  signore  quando  vi dirò così,  quando si vedrà che lo 
      dico con le angosce e le  lacrime  del  cuore,  mi  si  risponderà 
      forse:  avete  torto?  Mi  si impedirà di non essere più infelice? 
      Dite, signore, dite, avreste voi questo coraggio?" 
      "Sì,  Morrel" rispose il conte,  con voce la cui calma contrastava 
      stranamente colla esaltazione del giovane, "io, sì." 
      "Voi!"  gridò  Morrel,  con  espressione crescente di collera e di 
      rimprovero,  "voi che mi avete ingannato con un'assurda  speranza, 
      che mi avete trattenuto,  cullato, addormentato con vane promesse, 
      mentre avrei potuto,  con qualche estrema risoluzione,  salvarla o 
      almeno vederla morire fra le mie braccia,  voi che affettate tutte 
      le risorse dell'intelligenza, tutte le potenze della materia,  che 
      rappresentate,  o almeno ostentate di rappresentare sulla terra la 
      parte della Provvidenza, e che non avete neppure il potere di dare 
      un  contravveleno  ad  una  ragazza  avvelenata?  Ah,  in  verità, 
      signore, mi fareste pietà, se non mi faceste orrore!" 
      "Morrel!..." 
      "Sì,  voi  mi  avete detto di deporre la maschera,  ebbene,  siate 
      soddisfatto,  io la depongo.  Sì,  quando voi mi avete seguito  al 
      cimitero,  io vi ho ancora risposto,  perché il mio cuore è buono, 
      quando siete entrato  qui  vi  ho  lasciato  venire...  Ma  poiché 
      abusate, e venite a imporvi fin dentro alla mia camera, ove mi ero 
      ritirato come entro una tomba, poiché mi recate una nuova tortura, 
      mentr'io  credevo  di averle tutte provate,  conte di Montecristo, 
      mio  preteso  benefattore,   conte   di   Montecristo,   salvatore 
      universale,  siate  soddisfatto,  voi  vedrete  morire  il  vostro 
      amico..." 
      E Morrel col sorriso della follia sulle  labbra,  si  slanciò  una 
      seconda  volta  verso  le pistole.  Montecristo,  pallido come uno 
      spettro,  ma coll'occhio abbagliante di luce,  stese la mano sulle 
      armi, e disse all'insensato: 
      "Ed io vi ripeto che non vi ucciderete!" 
      "Impeditemelo dunque!" replicò Morrel, con un ultimo slancio, che, 
      come il primo, venne ad infrangersi contro il braccio di ferro del 
      conte. 
      "Sì, ve lo impedirò." 
      "Ma  chi siete dunque,  alla fine,  per arrogarvi questo tirannico 
      diritto sopra le creature viventi e pensanti?" gridò Morrel. 
      "Chi sono io?" ripeté Montecristo.  "Ascoltate,  io sono  il  solo 
      uomo  al  mondo  che abbia il diritto di dirvi: "Io non voglio che 
      oggi muoia il figlio del vecchio Morrel!"." 
      E Montecristo, maestoso, trasfigurato,  sublime,  si avanzò con le 
      due  braccia  in  croce  verso  il  giovane  che,  palpitante  suo 
      malgrado, arretrò di un passo. 
      "Perché parlate di mio padre?" balbettò.  "Perché  frammettete  il 
      ricordo di lui a ciò che mi accade?" 
      "Perché  io  salvai la vita a tuo padre,  un giorno ch'egli voleva 
      uccidersi,  come oggi lo vuoi tu,  perché io mandai la borsa  alla 
      tua  giovane  sorella,  e il Faraone al vecchio Morrel,  perché io 
      sono Edmondo Dantès,  che ti cullò sulle sue ginocchia quando  eri 
      bambino!" 
      Morrel  fece  ancora  un  passo  indietro,   vacillante,  ansante, 
      soffocato,   oppresso,   quindi  ad  un   tratto   le   forze   lo 
      abbandonarono,  e,  con  un  grido,  cadde prosternato ai piedi di 
      Montecristo. Ad un tratto si alzò,  e balzando fuori della stanza, 
      si  precipitò in cima alla scala gridando con tutta la forza della 
      sua voce: 
      "Giulia! Giulia! Emanuele! Emanuele!" 
      Montecristo corse per  trattenerlo,  ma  Massimiliano  si  sarebbe 
      piuttosto  fatto  uccidere  che  lasciare la maniglia della porta. 
      Alle grida di Massimiliano,  Giulia,  Emanuele ed alcuni domestici 
      accorsero spaventati. Morrel li prese per le mani, e, riaprendo la 
      porta, gridò con voce soffocata dai singulti: 
      "Ecco il salvatore, ecco il benefattore di nostro padre ecco..." 
      Stava  per  dire:  "Ecco  Edmondo  Dantès!".  Ma il conte lo fermò 
      afferrandogli il braccio. 
      Giulia afferrò la mano del conte,  Emanuele lo  abbracciò,  Morrel 
      cadde  per  la  seconda  volta alle sue ginocchia,  prostrandosi a 
      terra. Allora l'uomo di bronzo sentì il cuore dilatarsi nel petto, 
      e salirgli agli occhi un  fuoco  divoratore,  chinò  la  testa,  e 
      pianse. 
      In quella stanza non si videro per alcuni istanti che lacrime, non 
      si  udirono  che  gemiti.  Giulia  appena  rimessa  dalla profonda 
      emozione provata,  balzò fuori dalla  camera,  discese  un  piano, 
      corse  alla  sala  con  gioia ineffabile,  e sollevò la campana di 
      cristallo che ricopriva la borsa datale dall'incognito nella  casa 
      dei viali di Meillan,  mentre Emanuele con voce commossa diceva al 
      conte: 
      "Oh,  signor conte,  perché,  sentendoci parlare così  spesso  del 
      nostro ignoto benefattore,  vedendoci ricordare la sua memoria con 
      tanta riconoscenza ed adorazione,  perché avete aspettato fino  ad 
      oggi per farvi conoscere?  Oh,  foste ben crudele verso di noi,  e 
      oserei dire, signor conte, verso voi stesso." 
      "Ascoltate,  amico mio" disse il  conte,  "posso  chiamarvi  così, 
      poiché,  senza  che  voi  lo  pensiate,  siete amico mio da undici 
      anni...  E' stato necessario svelare questo segreto in conseguenza 
      di un grande avvenimento che dovete ignorare.  Dio mi è testimonio 
      che avrei desiderato tenerlo nascosto  nel  fondo  del  cuore  per 
      tutto il tempo della mia vita,  ma vostro fratello Massimiliano me 
      lo ha strappato con violenze di cui adesso,  sono sicuro,  è molto 
      dolente." 
      Quindi vedendo Massimiliano che si era gettato in un angolo contro 
      un sofà, restando però sempre in ginocchio: 
      "Vegliate   su   di  lui"  soggiunse  a  bassa  voce  Montecristo, 
      stringendo in modo significativo la mano di Emanuele. 
      "Perché?" domandò il giovane meravigliato. 
      "Non posso dirvi di più, ma vegliate su di lui." 
      Emanuele girò per la camera uno sguardo,  e scoperse le pistole di 
      Morrel.  I suoi occhi si fissarono spaventati sopra quelle armi, e 
      le  indicò  a  Montecristo,   levando  lentamente  una  mano   per 
      indicarle. 
      Montecristo chinò la testa. 
      Emanuele fece un passo verso le pistole. 
      "Lasciate" disse il conte. 
      Quindi andando da Morrel,  lo prese per la mano: i moti tumultuosi 
      che avevano per un momento scosso il cuore  del  giovane,  avevano 
      ceduto ad uno stupore profondo.  Giulia risalì,  teneva in mano la 
      borsa di seta,  e due lacrime brillanti e  giulive  le  brillavano 
      sulle guance, come due gocce di mattutina rugiada. 
      "Ecco  la  reliquia"  disse.  "Non  crediate  che mi sia meno cara 
      dacché mi è stato rivelato il salvatore." 
      "Figlia mia" rispose  Montecristo,  arrossendo,  "permettetemi  di 
      riprendere questa borsa,  ora che mi conoscete,  non voglio essere 
      ricordato alla vostra memoria  che  dall'affezione  che  vi  prego 
      d'accordarmi." 
      "No" disse Giulia,  stringendo la borsa sul cuore,  "no, no, ve ne 
      supplico,  perché un giorno voi potreste  lasciarci...  Perché  un 
      giorno, disgraziatamente, ci lascerete, non è vero?" 
      "Avete indovinato,  signora" rispose Montecristo, sorridendo: "fra 
      otto giorni avrò lasciata questa città,  ove vivevano felici tante 
      persone che avevano meritata la vendetta celeste, mentre mio padre 
      moriva di fame e di dolore." 
      Annunziando  la sua vicina partenza,  Montecristo teneva gli occhi 
      fissi su Morrel,  e notò che  le  parole:  "avrò  lasciata  questa 
      città"  non  erano  riuscite  a  togliere  Morrel dal suo letargo. 
      Comprese allora che bisognava sostenere un'ultima lotta col dolore 
      del suo amico,  e prendendo le mani di Giulia e di  Emanuele,  che 
      riunì stringendole fra le sue, disse loro con la dolce autorità di 
      un padre: 
      "Miei buoni amici, vi prego di lasciarmi solo con Massimiliano." 
      Questo  era  un  mezzo  per  Giulia  di portar via quella preziosa 
      reliquia,  di cui Montecristo si dimenticava di parlare.  Trascinò 
      con sé il marito dicendogli: 
      "Lasciamoli." 
      Il  conte  rimase  solo  con  Morrel,  che stava immobile come una 
      statua. 
      "Orsù" disse il  conte,  toccandogli  una  spalla,  "Massimiliano, 
      ritorna finalmente uomo..." 
      "Sì, perché cominci nuovamente a soffrire..." 
      La fronte del conte si corrugò a cupa riflessione. 
      "Massimiliano!  Massimiliano!  Queste  idee  in  cui ti perdi sono 
      indegne di un cristiano." 
      "Oh, state tranquillo, amico" disse Morrel, rialzando la testa,  e 
      mostrando  al  conte  un  sorriso  d'ineffabile  tristezza,   "non 
      cercherò più la morte." 
      "Quindi" disse Montecristo, "non più armi, non più disperazione?" 
      "No, poiché ho di meglio, per guarire del mio dolore, che la canna 
      di una pistola e la punta di un coltello." 
      "Povero pazzo!... Che cosa hai dunque?" 
      "Lo stesso mio dolore mi ucciderà." 
      "Amico"  disse  Montecristo,   con  malinconia  eguale  alla  sua, 
      "ascoltami.  Un  giorno,  in un momento di disperazione,  io volli 
      uccidermi come te. Tuo padre un giorno,  ugualmente disperato,  ha 
      pure voluto uccidersi. Se qualcuno avesse voluto dire a tuo padre, 
      nel momento che volgeva la canna della pistola verso la fronte, se 
      qualcuno  avesse  voluto  dire  a me quando rigettavo dal letto il 
      pane del prigioniero,  che non avevo toccato  da  tre  giorni,  se 
      qualcuno finalmente in quei supremi momenti ci avesse voluto dire: 
      "Vivete,  e  verrà giorno che sarete felici e benedirete la vita", 
      da qualsiasi parte ci fosse venuta questa voce,  l'avremmo accolta 
      col sorriso del dubbio o coll'angoscia dell'incredulità...  Eppure 
      quante volte tuo padre, abbracciandoti,  non ha benedetto la vita? 
      Quante volte io stesso..." 
      "Ah!"  gridò  Morrel,  interrompendo  il  conte.  "Voi non avevate 
      perduto che la  libertà,  mio  padre  non  aveva  perduto  che  le 
      ricchezze! E io? Io ho perduto Valentina." 
      "Guardami,  Morrel" disse Montecristo, con quella solennità che in 
      certe occasioni lo faceva grande e persuasivo,  "guardami,  io non 
      ho  né lacrime sugli occhi,  né febbre nelle vene;  eppure ti vedo 
      soffrire, Massimiliano, vedo soffrire te che amo come un figlio... 
      Ebbene, non capisci da ciò, Morrel,  che il dolore è come la vita, 
      e  che al di là c'è sempre qualche cosa di ignoto?  Ora,  se io ti 
      prego, se ti ordino di vivere, Morrel,  e perché sono convinto che 
      un giorno mi ringrazierai di averti conservata la vita." 
      "Mio Dio!" gridò il giovane.  "Mio Dio,  che cosa dite mai, conte? 
      Badate Voi forse non avete mai amato..." 
      "Incosciente!" rispose il conte. 
      "Con amore" riprese Morrel, "intendo. Io, vedete, da che sono uomo 
      fui soldato,  sono arrivato fino ai ventinove  anni  senza  amare, 
      perché  nessuna  delle  sensazioni che ho provate fin là merita di 
      chiamarsi amore.  Ebbene,  a ventinove anni  ho  visto  Valentina, 
      l'amo da quasi due anni, da quasi due anni ho potuto leggere tutte 
      le  virtù  di  figlia  e  di  donna  scritte dalla mano stessa del 
      Signore in  quel  cuore  aperto  per  me  come  un  libro.  Conte, 
      Valentina era per me una felicità infinita,  immensa,  ignota, una 
      felicità troppo grande, troppo completa, troppo superiore a questo 
      mondo, e questo mondo non me l'ha concessa!  Senza Valentina,  per 
      me sulla terra non c'è che disperazione e desolazione." 
      "Vi dico di sperare" ripeté il conte. 
      "State guardingo,  allora ripeterò io pure" disse Morrel.  "Mentre 
      cercate di persuadermi, mi fate invece perdere la ragione, giacché 
      mi fate credere ch'io possa rivedere Valentina." 
      Il conte sorrise. 
      "Amico mio,  padre mio" gridò Morrel esaltato,  "state in guardia! 
      Vi  ripeterò per la terza volta,  poiché l'ascendente che prendete 
      mi spaventa: state in  guardia  sul  senso  delle  vostre  parole, 
      perché,  ecco  qua,  i  miei  occhi si rianimano,  il mio cuore si 
      riaccende e rinasce. State in guardia,  perché mi farete credere a 
      cose soprannaturali. Io vi obbedirei, se mi comandaste di rialzare 
      la  pietra sepolcrale della figlia della vedova,  camminerei sulle 
      onde come l'apostolo se mi faceste segno con la mano di  camminare 
      sui flutti... State in guardia perché vi obbedirei!" 
      "Spera, amico mio" ripeté il conte. 
      "Ah!"  disse Morrel,  ricadendo dall'altezza della sua esaltazione 
      nell'abisso della sua tristezza, "ah, voi vi prendete gioco di me, 
      voi fate come quelle buone madri,  o per meglio dire,  come quelle 
      madri  egoiste,  che  calmano  con  parole  melliflue i dolori del 
      bambino, perché sono stanche delle sue grida. No,  amico mio,  no, 
      io  avevo  torto  di  dirvi  di stare in guardia,  no,  non temete 
      niente,  io seppellirò il  mio  dolore  con  tanta  cura  nel  più 
      profondo del petto,  lo renderò così oscuro, così segreto, che non 
      avrete neppure il disturbo di compiangermi...  Addio,  amico  mio, 
      addio!" 
      "Al contrario" disse il conte,  "da questo momento,  Massimiliano, 
      tu vivrai vicino a me e con me, tu non mi lascerai più, e fra otto 
      giorni avremo volto le spalle alla Francia." 
      "E mi dite sempre di sperare?" 
      "Ti dico sempre di sperare, perché so il mezzo di guarirti." 
      "Conte,  voi accrescete la  mia  tristezza,  se  fosse  possibile. 
      Credendo  che dal colpo che mi percuote io non abbia sentito altro 
      che uno sciocco dolore,  vi pare di potermi consolare con un mezzo 
      più sciocco, un viaggio..." 
      E Morrel scosse la testa con sdegnosa incredulità. 
      "Che  cosa  vuoi  che  ti dica?" rispose Montecristo.  "Io confido 
      nelle mie promesse; lasciami fare l'esperienza." 
      "Conte, voi prolungate la mia agonia, ecco tutto." 
      "Così" disse il conte, "debole cuore che sei,  tu non hai forza di 
      donare al tuo amico qualche giorno per la prova che vuole tentare? 
      Orsù,  sai  di che cosa è capace il conte di Montecristo?  Sai che 
      comanda a molte potenze terrestri? Sai che ha tanta fede in Dio da 
      ottenere miracoli da colui il quale ha detto  che  l'uomo  con  la 
      fede  può sollevare una montagna?  Ebbene,  questo miracolo che io 
      spero, aspettalo, oppure..." 
      "Oppure..." ripeté Morrel. 
      "Oppure bada, Morrel, io ti chiamerò ingrato." 
      "Conte, abbiate pietà di me." 
      "Io ho talmente pietà di  te,  Massimiliano,  ascoltami  bene,  ho 
      talmente  pietà  di  te,  che se tu non guarisci entro un mese,  a 
      giorno ed ora precisi,  rammenta bene le mie  parole,  Morrel,  io 
      stesso  ti porrò davanti due pistole cariche,  o una tazza del più 
      sicuro veleno, di un veleno più infallibile,  più pronto,  credimi 
      di quello che ha ucciso Valentina." 
      "Me lo promettete?" 
      "Sì,  perché io pure sono uomo,  io pure ho sofferto, io pure come 
      ti ho detto, volli morire, e spesso, anche dopo che l'orrore si fu 
      allontanato da me,  io pure ho  pensato  alle  delizie  del  sonno 
      eterno." 
      "Dunque  mi  promettete  ciò  con sicurezza,  conte?" gridò Morrel 
      inebriato. 
      "Non solo te lo  prometto,  ma  te  lo  giuro"  disse  Montecristo 
      tendendo la mano. 
      "Fra  un  mese,  sul  vostro  onore,  se  non  sarò consolato,  mi 
      lascerete libero della mia vita, e qualunque cosa io faccia non mi 
      chiamerete ingrato?" 
      "Fra un mese,  in questo stesso  giorno,  Massimiliano,  noi  oggi 
      siamo  al  cinque di settembre,  e oggi sono dieci anni che salvai 
      tuo padre che voleva morire." 
      Morrel afferrò le mani del conte e le baciò;  il conte  lo  lasciò 
      fare, come se avesse conosciuto che questo gli era dovuto. 
      "Dunque"  continuò  Montecristo,  "mi prometti di aspettare fino a 
      quell'ora e di vivere?" 
      "Oh, sì" gridò Morrel, "ve lo giuro!" 
      Montecristo strinse il giovane al cuore, e ve lo tenne lungamente. 
      "Ed ora" disse,  "da questo giorno tu verrai ad  abitare  con  me. 
      Occuperai  l'appartamento  d'Haydée,  e  mia  figlia  almeno  sarà 
      sostituita da mio figlio." 
      "Haydée!" disse Morrel. "Che cosa dunque è avvenuto di Haydée?" 
      "E' partita stanotte." 
      "Per lasciarvi?" 
      "Per aspettarmi...  Tienti dunque pronto a venirmi  a  raggiungere 
      agli  Champs-Elysées,  e  fammi uscire di qui senza che nessuno mi 
      veda." 
      Massimiliano abbassò la testa e obbedì come un bambino. 
 
 
 
                                Capitolo 105. 
                               LA SEPARAZIONE. 
 
 
      Nella casa in rue de Saint-Germain des  Prés,  scelta  da  Alberto 
      Morcerf  per  sé e per sua madre,  il primo piano,  composto di un 
      piccolo  appartamento,  era  affittato  ad  un  personaggio  molto 
      misterioso.  Lo  stesso  portinaio non aveva mai potuto vederne il 
      viso, sia che entrasse o che uscisse,  poiché d'inverno nascondeva 
      il  mento  in una di quelle cravatte rosse che portano i cocchieri 
      di buone case, quando aspettano i padroni all'uscita del teatro, e 
      d'estate lo celava con fazzoletto nel passare davanti alla  loggia 
      del portinaio. Contro tutte le abitudini in uso, questo inquilino, 
      è  il  caso di dirlo,  non era stato mai spiato da alcuno,  poiché 
      correva  voce  che  sotto  quell'incognito   si   nascondesse   un 
      personaggio delle alte sfere che aveva le "braccia lunghe", motivo 
      per  cui  furono  rispettate  quelle misteriose apparizioni Le sue 
      visite erano abitualmente ad ora fissa, sebbene talvolta fossero o 
      in anticipo o in ritardo.  Quasi sempre però,  fosse d'inverno,  o 
      d'estate,  prendeva possesso del suo appartamento verso le quattro 
      pomeridiane, e non vi passava mai la notte.  D'inverno,  una serva 
      che aveva la cura dell'appartamento, accendeva il fuoco alle tre e 
      mezzo,  e  d'estate  alla  stessa ora preparava il ghiaccio.  Alle 
      quattro, come abbiamo detto, entrava il misterioso personaggio. 
      Venti minuti dopo di lui,  si fermava una  carrozza  davanti  alla 
      casa,  e  ne  scendeva una donna vestita di nero e di azzurro,  ma 
      sempre avviluppata in un gran velo, la quale,  passando come ombra 
      davanti  al  posto  del  portinaio,  saliva  la scala senza che si 
      sentisse scrocchiare un solo scalino sotto il suo  piede  leggero. 
      Non  era  mai  accaduto  che le fosse chiesto dove andava.  Il suo 
      viso,  come quello dello  sconosciuto,  era  dunque  perfettamente 
      estraneo ai due portinai,  i soli forse dell'immensa confraternita 
      della capitale,  che fossero capaci di simile discrezione.  Non  è 
      necessario  dire  che  non  saliva  più  in  alto del primo piano. 
      Picchiava leggermente ad una porta in modo particolare,  la  porta 
      si  apriva,  si  chiudeva,  e  tutto  era  fatto.  Quando  usciva, 
      adoperava lo stesso  metodo  di  quando  entrava.  La  sconosciuta 
      usciva  per  prima,  sempre velata,  e risaliva nella carrozza che 
      alle volte partiva da una parte,  alle  volte  da  un'altra  della 
      strada;  quindi,  venti  minuti  dopo,  lo  sconosciuto,  uscendo, 
      nascosto dalla cravatta o dal fazzoletto, spariva egli pure. 
      L'indomani del giorno in cui il conte di Montecristo  aveva  fatto 
      la sua visita a Danglars,  giorno in cui fu sepolta Valentina,  il 
      misterioso abitante arrivò verso le dieci della mattina, invece di 
      arrivare, come il solito, verso le quattro pomeridiane. 
      Quasi subito dopo,  e  senza  conservare  l'ordinario  intervallo, 
      giunse  una carrozza da piazza,  e la dama velata salì rapidamente 
      la scala.  La porta si aprì e si chiuse.  Ma prima ancora  che  la 
      dama fosse entrata, aveva esclamato: "Oh, Luciano! oh, amico mio!" 
      di  modo  che il portinaio,  che senza volerlo aveva inteso questa 
      esclamazione, seppe allora per la prima volta che il suo locatario 
      si chiamava Luciano,  ma siccome  era  un  portinaio  modello,  si 
      ripromise di non dirlo neppure a sua moglie. 
      "Ebbene,  che c'è,  mia cara amica?" domandò la persona, che nella 
      sua confusione e fretta la dama velata aveva nominato  innanzi  al 
      portinaio. "Parlate, dite." 
      "Amico mio, posso contare su voi?" 
      "Certamente, e voi lo sapete bene... Ma che cosa c'e? Il biglietto 
      di  questa  mattina  mi  ha  gettato in una terribile perplessità. 
      Questa  precipitazione,   questo  disordine  del  vostro  scritto, 
      vediamo, calmatevi, o spaventerete me pure del tutto!" 
      "Luciano,  un  grande  avvenimento!"  disse  la dama,  fissando su 
      Luciano uno sguardo scrutatore:  "il  signor  Danglars  è  partito 
      questa notte." 
      "Partito? Il signor Danglars, partito? E dove è andato?" 
      "L'ignoro." 
      "Come, lo ignorate? E' dunque partito per non ritornare più?" 
      "Senza dubbio! Alle dieci di sera i suoi cavalli lo hanno condotto 
      alla barriera Charenton,  dove ha trovata una berlina da posta coi 
      cavalli già attaccati,  e vi è montato dentro col  suo  cameriere, 
      dicendo al cocchiere che andava a Fontainebleau." 
      "Ebbene, che dicevate dunque?" 
      "Aspettate, amico mio. Mi ha lasciato una lettera." 
      "Una lettera?" 
      "Sì, leggetela." 
      E la baronessa trasse dalla sua borsa una lettera dissigillata che 
      presentò a Debray. 
      Debray,  prima di leggere, esitò un momento, come se avesse voluto 
      tentare di indovinare ciò ch'essa conteneva,  o piuttosto come se, 
      qualunque  fosse  il  contenuto,  avesse  preso  una  decisione in 
      proposito. 
      Ecco che cosa conteneva questo biglietto,  che  aveva  gettato  un 
      così gran turbamento nel cuore della signora Danglars: 
      "Signora e fedelissima sposa." 
      Senza pensarci, Debray si fermò, e guardò la baronessa che arrossì 
      fino agli occhi. 
      "Leggete" disse lei. 
      Debray continuò: 
 
      "Quando  riceverete questa lettera voi non avrete più marito.  Oh, 
      non spaventatevi più del bisogno, non avrete più marito,  come non 
      avete  più  figlia;  vale a dire che sarò sopra una delle trenta o 
      quaranta strade che conducono fuori della Francia. 
      Io  vi  debbo  alcune  spiegazioni  e,   siccome  siete  donna  da 
      comprenderle benissimo,  così ve le darò.  Attenta dunque.  Questa 
      mattina mi e sopraggiunto un rimborso di cinque  milioni,  e  l'ho 
      fatto, un altro della stessa somma all'incirca lo ha seguito quasi 
      immediatamente,  io  l'ho  differito  a  domani  ed oggi parto per 
      evitare questo domani,  che mi giungerebbe troppo pernicioso.  Voi 
      capirete  benissimo,  signora  e  preziosissima  sposa...  Io dico 
      capirete perché voi conoscete i miei affari bene al  pari  di  me, 
      voi li sapete anzi meglio di me,  giacché se si dovesse dire dov'è 
      passata una buona metà delle mie ricchezze, quand'erano rilevanti, 
      io ne sarei incapace, mentre voi al contrario ne sono certo, ve la 
      cavereste perfettamente.  Poiché  le  donne  hanno  degli  istinti 
      infallibili  e  spiegano,   con  un'algebra  particolare  da  loro 
      inventata, anche il mistero. Io che conosco soltanto le mie cifre, 
      non ne ho saputo più nulla dal  giorno  in  cui  queste  mi  hanno 
      ingannato. 
      Avete  qualche  volta  ammirato  la  rapidità  della  mia  caduta, 
      signora?  Siete rimasta un po' abbagliata da quella  incandescente 
      fusione delle mie verghe d'oro? Io ve lo confesso non vi ho veduto 
      che  fuoco;  speriamo  che  voi  abbiate  trovato un po' d'oro fra 
      quelle ceneri. 
      Con  questa  consolante   speranza   mi   allontano,   signora   e 
      prudentissima  sposa,  senza  che  la  mia coscienza mi rimproveri 
      d'abbandonarvi,  a voi restano degli amici,  le ceneri di  cui  vi 
      parlavo,  e,  per colmo di felicità,  la libertà che mi affretto a 
      restituirvi. 
      Però,  signora,  è giunto il momento di porre in questo  paragrafo 
      una  parola  d'intima  spiegazione.  Fino  a che io ho sperato che 
      v'adoperaste per il bene della nostra  casa,  per  la  fortuna  di 
      nostra figlia,  ho chiuso gli occhi,  ma siccome avete fatto della 
      casa una vasta rovina,  non voglio servire alla  fondazione  della 
      fortuna  degli  altri.   Vi  ho  presa  ricca,  ma  poco  onorata. 
      Perdonatemi se vi parlo con franchezza,  ma siccome  probabilmente 
      non parlo che per noi due, non vedo il perché dovrei velare le mie 
      parole. Io ho aumentalo il nostro peculio, che per quindici anni è 
      andato  sempre  in  aumento,  fino  all'istante  in cui catastrofi 
      sconosciute,   inintelligibili  anche  per  me,   sono  venute   a 
      prenderselo,  franco su franco,  a rovesciar la mia fortuna, senza 
      che io possa dire di averne avuto la minima colpa. 
      Voi, signora, vi siete adoperata soltanto ad accrescere la vostra, 
      cosa nella quale siete riuscita: ne sono moralmente  convinto.  Vi 
      lascio dunque come vi ho presa, ricca, ma poco onorata. 
      Addio!  Io pure, da questo giorno, lavorerò per conto mio. Credete 
      a tutta la mia riconoscenza per l'esempio che mi avete dato e  che 
      io seguirò. 
      vostro affezionatissimo marito Barone Danglars." 
 
      La baronessa aveva tenuto gli occhi fissi su Debray durante questa 
      lunga e penosa lettura,  ed aveva notato, malgrado il potere su di 
      lui,  il giovane cambiare due o  tre  volte  colore.  Quando  ebbe 
      finito,  ripiegò lentamente la lettera,  e riprese la sua abituale 
      pensosità. 
      "Ebbene?" domandò la signora Danglars con  una  ansietà  facile  a 
      comprendersi. 
      "Ebbene, signora?" ripeté macchinalmente Debray. 
      "Che idea v'ispira questa lettera?" 
      "Oh,  ve  lo dico senza difficoltà,  m'ispira l'idea che il signor 
      Danglars è partito con dei sospetti." 
      "Senza dubbio, ma non avete altro da dirmi?" 
      "Non vi capisco" disse Debray con freddezza glaciale. 
      "E' partito! Partito per non ritornare più!" 
      "Oh non lo credete, baronessa." 
      "No ve  lo  dico  io,  non  ritornerà  più.  Lo  conosco,  è  uomo 
      irremovibile   in   tutte  le  risoluzioni  che  partono  dal  suo 
      interesse. Se mi avesse giudicata utile a qualche cosa, mi avrebbe 
      presa con sé.  Ma mi lascia a Parigi,  e questo  è  segno  che  la 
      nostra   separazione   entra   nei  suoi  progetti...   E'  dunque 
      irrevocabile,  e io sono libera per sempre"  aggiunse  la  signora 
      Danglars, con una espressione di preghiera. 
      Ma  Debray,  invece di rispondere,  la lasciò in quella angosciosa 
      interrogazione dello sguardo e del pensiero. 
      "Oh!" disse finalmente. "Non mi rispondete, signore?" 
      "Io non ho che una domanda da  rivolgervi:  che  cosa  contate  di 
      fare?" 
      "Io lo chiedevo a voi stesso" rispose la baronessa palpitando. 
      "Ah, è dunque un consiglio che mi chiedete?" 
      "Sì, un consiglio" disse la baronessa col cuore serrato. 
      "Allora se è questo che mi chiedete, vi consiglio di viaggiare." 
      "Di viaggiare?" mormorò la signora Danglars. 
      "Certamente.   Come   ha   detto  Danglars,   voi  siete  ricca  e 
      perfettamente libera.  Dopo lo strepito  che  hanno  fatto  i  due 
      matrimoni  andati  a  monte della signorina Eugenia,  e la duplice 
      sparizione di vostra figlia e di vostro  marito,  è  assolutamente 
      necessario  che  voi  vi  assentiate  da Parigi per qualche tempo, 
      almeno a quanto credo...  Ora occorre che tutta la società  sappia 
      che  siete  povera,   e  vi  creda  abbandonata,  giacché  non  si 
      perdonerebbe alla moglie del banchiere  fallito,  la  ricchezza  e 
      l'opulenza  della  sua  casa.  Intanto basta che restiate a Parigi 
      soltanto quindici giorni,  raccontando specialmente  a  tutti  che 
      siete  stata abbandonata,  e raccontando ai vostri migliori amici, 
      che lo ripeteranno ovunque,  in che  modo  siete  stata  lasciata. 
      Quindi partirete dal vostro palazzo, lasciandovi tutti i gioielli, 
      i  crediti  della  vostra  dote,   e  ciascuno  loderà  il  vostro 
      disinteresse. Allora vi crederanno abbandonata e povera, poiché io 
      solo conosco la vostra situazione finanziaria,  e  sono  pronto  a 
      rendervi i vostri conti da socio leale." 
      La baronessa pallida,  atterrita,  aveva ascoltato questo discorso 
      con tanto spavento e disperazione,  quanta  era  stata  la  calma, 
      l'indifferenza adoperata da Debray nel pronunciarlo. 
      "Abbandonata!"  ripeté.  "Oh  davvero,  abbandonata...  Sì,  avete 
      ragione signore, e nessuno avrà dubbi sul mio abbandono." 
      Tali furono le sole parole,  che questa donna  altera  e  violenta 
      poté rispondere a Debray. 
      "Ma  ricca,   anzi  ricchissima"  continuò  Debray,   cavando  dal 
      portafogli e stendendo sul tavolo alcune carte. 
      La signora Danglars lo lasciò fare, essendo occupata a contenere i 
      battiti del suo  cuore,  e  a  ritenere  le  lacrime  che  sentiva 
      spuntare sotto le palpebre.  Ma infine il sentimento della propria 
      dignità la vinse nella baronessa,  e se non riuscì a comprimere il 
      cuore, ottenne almeno di non versare una lacrima. 
      "Signora" disse Debray, "sono circa sei mesi che siamo in società. 
      Voi  avete  fornito  il  capitale in centomila franchi.  La nostra 
      società fu costituita nel mese di aprile di quest'anno.  In maggio 
      cominciarono   le   nostre   operazioni,   e   abbiamo  guadagnato 
      quattrocentocinquantamila franchi.  In giugno l'utile è montato  a 
      novecentomila.  In luglio abbiamo fatto una aggiunta di un milione 
      e settecentomila franchi. Come voi sapete fu sui titoli di Spagna. 
      In agosto perdemmo, sul principio del mese,  trecentomila franchi, 
      ma  il quindici dello stesso mese li abbiamo riguadagnati,  e alla 
      fine abbiamo preso la nostra rivincita,  perché  i  nostri  conti, 
      messi in chiaro,  dal giorno della nostra associazione a ieri, che 
      li ho chiusi,  ci danno un attivo di due  milioni  e  quattrocento 
      mila  franchi,  vale  a  dire  un milione e duecentomila franchi a 
      testa. Ora" continuò Debray,  squadernando il suo libro dei conti, 
      col  metodo  e  la  tranquillità  di  un agente di cambio,  "vanno 
      aggiunti anche ottantamila franchi  dei  frutti  di  questa  somma 
      rimasta fra le mie mani." 
      "Ma"  interruppe  la  baronessa,  "che  significano questi frutti, 
      quando non avete mai messo questa somma a mutuo?" 
      "Io vi chiedo scusa, signora" disse freddamente Debray, "m'avevate 
      dato facoltà di far fruttare questo denaro, e me ne sono prevalso. 
      Sono dunque altri  quarantamila  franchi  di  vostra  parte  sugli 
      interessi,  più  i  centomila franchi del primo capitale di fondo, 
      vale a dire un milione e  trecentoquarantamila  franchi  per  voi. 
      Ora,   signora"  continuò  Debray,   "ho  avuto  ieri  l'altro  la 
      precauzione di realizzare tutto il vostro denaro.  Come vedete  si 
      sarebbe  detto  che  io  prevedessi  di essere chiamato in breve a 
      rendervi i vostri conti: il vostro denaro è qui,  metà in  assegni 
      al portatore.  Ho detto qui,  e con ragione,  perché,  siccome non 
      credevo la mia casa abbastanza sicura,  né  abbastanza  segreti  i 
      notai,  e siccome le case parlano ancora più facilmente di questi, 
      e siccome infine non avevate il diritto di comprare  né  possedere 
      niente  fuori  della  comunione coniugale,  io ho custodito questa 
      somma,  che oggi forma tutta la vostra ricchezza,  in una cassetta 
      sigillata nel fondo di questo armadio,  e per maggior sicurezza ho 
      fatto da falegname io  stesso.  Adesso"  continuò,  aprendo  prima 
      l'armadio e poi la cassetta,  "adesso, signora, ecco qui ottocento 
      biglietti da mille franchi l'uno, che somigliano, come vedete,  ad 
      un grosso album rilegato in ferro;  vi unisco un mazzetto di carte 
      di credito per venticinquemila franchi,  quindi  una  cambiale  di 
      centodiecimila franchi,  eccola qui, sul mio banchiere, a vista al 
      latore, e siccome il mio banchiere non è il signor Danglars,  così 
      la cambiale sarà pagata, potete stare tranquilla." 
      La  signora Danglars prese macchinalmente la cambiale a vista,  le 
      carte di credito ed il mazzo di biglietti di  banca.  Tale  enorme 
      somma  sembrava  ben  poca cosa,  disposta là sopra il tavolo.  La 
      signora Danglars,  con gli occhi asciutti,  ma il petto gonfio  di 
      singulti,  chiuse l'astuccio d'acciaio nella borsa,  mise le carte 
      di credito e la cambiale a  vista  nel  portafogli,  e  in  piedi, 
      pallida  e  muta  aspettava  una  dolce  parola  che la consolasse 
      dell'essere così ricca. Ma aspettò invano. 
      "Ora, signora" disse Debray, "avete un capitale magnifico,  che vi 
      dà  all'incirca  la rendita di settantamila franchi;  somma enorme 
      per una donna che non potrà tener  società  almeno  per  un  anno. 
      Questo  è un privilegio per tutti i capricci che vi passeranno per 
      la  mente!   Senza  contare  che  se  trovate  la   vostra   parte 
      insufficiente,  potete  ricorrere  alla mia,  signora,  ed io sono 
      disposto ad offrirvela...  Oh,  a titolo di prestito,  ben inteso, 
      tutto  ciò  che  possiedo,  vale  a dire un milione e sessantamila 
      franchi è a vostra disposizione." 
      "Grazie, signore" rispose la baronessa,  "grazie...  Capirete bene 
      che  mi  avete  dato  molto  di più di quello che abbisogna ad una 
      povera donna che non conta per molto tempo  di  ricomparire  nella 
      società..." 
      Debray fu per un momento meravigliato, ma si riebbe, fece un gesto 
      che  voleva  esprimere in una formula meno civile questo pensiero: 
      "Farete come più vi piacerà". 
      La signora Danglars aveva forse fino allora sperato qualche  cosa, 
      ma  quando  vide  il  gesto  di  noncuranza sfuggito a Debray e lo 
      sguardo obliquo con cui aveva accompagnato quel gesto,  come  pure 
      il  profondo inchino ed il significante silenzio che lo seguirono, 
      allora rialzò la testa,  aprì la  porta,  e  senza  furore,  senza 
      agitazione,  né  esitazione,  si  slanciò per la scala,  sdegnando 
      perfino d'indirizzare un ultimo saluto a  colui  che  la  lasciava 
      partire in quel modo. 
      "Bah!" disse Debray quando fu partita.  "Bei progetti sono questi! 
      Resterà nel suo palazzo, leggerà dei romanzi e giocherà a faraone, 
      non potendo più giocare in Borsa." 
      E riprese il suo libro dei conti,  tirando una linea  sulle  somme 
      che aveva pagate. 
      "Mi resta un milione e sessantamila franchi" disse. "Che disgrazia 
      che  la  signorina  Villefort sia morta!  Quella ragazza faceva al 
      caso mio, e l'avrei sposata." 
      E flemmaticamente,  secondo la sua abitudine,  aspettò che fossero 
      passati venti minuti, dopo la partenza della signora Danglars, per 
      uscire a sua volta, durante il qual tempo non fece che fare conti, 
      tenendo sulla tavola e vicino a sé l'orologio. 
      Quel  personaggio diabolico che ogni ricca fantasia avrebbe potuto 
      creare con maggiore o minor felicità,  se Lesage non avesse  messo 
      nel  suo capolavoro Asmodeo,  che scoperchiava le case per vedervi 
      dentro,  avrebbe goduto di un singolare spettacolo se avesse tolto 
      al  momento  in  cui Debray faceva i suoi conti,  la tettoia della 
      casuccia nella rue Saint-Germain des Prés.  Proprio  sopra  quella 
      stanza,  dove  Debray  aveva  fatta  la spartizione con la signora 
      Danglars di due milioni e mezzo,  c'era un'altra  stanza  popolata 
      ugualmente   di   abitanti   di   nostra  conoscenza,   che  hanno 
      rappresentato una parte importantissima negli avvenimenti  da  noi 
      raccontati,  e  avremo  piacere  di  ritrovarli.  In quella camera 
      c'erano Mercedes e Alberto. 
      Mercedes era molto cambiata in pochi giorni,  non già  che,  anche 
      nei  tempi  della  maggiore  ricchezza,  fosse  attaccata al fasto 
      orgoglioso,  che fa sì che non si riconosca più  la  donna  appena 
      costretta  in  abiti  più semplici,  e nemmeno che fosse caduta in 
      quello stato di depressione,  in cui si cade quando si è costretti 
      alla miseria,  no, Mercedes era cambiata, perché il suo occhio non 
      brillava più,  perché la sua bocca non sorrideva  più,  perché  un 
      perpetuo imbarazzo arrestava sulle sue labbra la rapida parola che 
      un tempo aveva sempre pronta.  Non era la povertà ad aver avvilito 
      l'animo di Mercedes,  non era la mancanza di coraggio  a  renderle 
      pesante la sua povertà. Mercedes discesa dal centro in cui viveva, 
      perduta  nella  nuova  sfera  che  si era scelta,  come coloro che 
      passano da un luogo illuminato alle tenebre, Mercedes sembrava una 
      regina scesa dal suo palazzo ad una capanna,  e  ridotta  al  puro 
      necessario. Non si riconosceva né dal vasellame di argilla, ch'era 
      obbligata a portare in tavola,  né dal sofà che aveva surrogato il 
      letto. 
      Difatti la bella catalana, o la nobile contessa,  non aveva più lo 
      sguardo fiero,  e il grazioso sorriso di prima,  perché non vedeva 
      che oggetti affliggenti.  Una camera tappezzata con una di  quelle 
      carte a grigio chiaro e scuro che i proprietari poveri scelgono di 
      preferenza  come  le  meno facili a sporcarsi,  un pavimento senza 
      tappeti,  mobili che richiamavano l'attenzione e  costringevano  a 
      notare la modestia di quella falsa ostentazione, tutte queste cose 
      erano  in  disaccordo  con  l'armonia  necessaria  a  chi  è stato 
      abituato all'eleganza. 
      La signora Morcerf viveva là dal momento che aveva abbandonato  il 
      suo palazzo.  La testa le girava in quell'eterno silenzio, come ad 
      un viaggiatore che si trova sull'orlo di un  abisso.  Accorgendosi 
      che  Alberto la guardava di nascosto per giudicare dello stato del 
      suo cuore,  si era obbligata ad un monotono sorriso delle  labbra, 
      che  in  assenza di quel fuoco dolce,  del sorriso dei suoi occhi, 
      faceva l'effetto di un semplice riverbero,  cioè di una  chiarezza 
      senza colore. Dal canto suo, Alberto era preoccupato, imbarazzato, 
      impacciato da un falso lusso che gli impediva di vivere al livello 
      della  sua  reale  condizione:  voleva  uscire  senza  guanti,   e 
      giudicava le mani troppo bianche,  voleva correre per la  città  a 
      piedi,  e  trovava gli stivali troppo ben verniciati.  Però quelle 
      due creature nobili e intelligenti,  riunite dai legami  dell'amor 
      materno  e  figliale,  erano riuscite ad intendersi senza parlare, 
      risparmiando ogni spiegazione circa gli  aspetti  materiali  della 
      loro  vita.  Alberto  un giorno aveva però dovuto dire a sua madre 
      senza farla impallidire: 
      "Madre mia, non abbiamo più denaro." 
      Mercedes non aveva mai conosciuto  la  vera  miseria.  Lei  stessa 
      aveva in gioventù parlato di povertà, ma non era lo stesso, perché 
      fra bisogno e necessità,  sebbene sinonimi,  passa una grandissima 
      diversità. Ai Catalani,  Mercedes aveva bisogno di mille cose,  ma 
      non mancava mai di certe altre. Fino a che le lenze erano buone si 
      prendeva pesce,  fino a che si vendeva pesce, si prendeva filo per 
      fare le reti.  E poi,  isolata da amici,  non avendo che un amore, 
      estraneo affatto ai particolari della sua condizione, quando aveva 
      pensato  a  sé,  era già molto che del poco che aveva partecipasse 
      agli altri il più generosamente possibile.  Ma oggi aveva da  fare 
      due parti, e con niente. 
      L'inverno  si  avvicinava.  Mercedes  in  quella camera nuda e già 
      fredda non aveva fuoco,  lei,  cui un calorifero  riscaldava  poco 
      prima  tutta  la  casa  dalle anticamere fino al tetto;  non aveva 
      neppure un piccolo fiore, lei,  il cui appartamento si poteva dire 
      una  serra calda,  popolata di fiori a prezzo d'ora!  Ma aveva suo 
      figlio!...  L'esaltazione di un dovere forse  esagerato  li  aveva 
      sostenuti  fin  allora.  L'esaltazione  è  quasi un entusiasmo,  e 
      l'entusiasmo rende insensibili alle cose della terra! 
      Ma l'entusiasmo si era calmato, ed era stato necessario scendere a 
      poco a poco dai sogni alla realtà.  Bisognava infine  parlare  del 
      positivo, dopo aver esaurito l'ideale. 
      "Madre mia" diceva Alberto, nello stesso momento in cui la signora 
      Danglars  scendeva la scala,  "contiamo tutte le nostre ricchezze, 
      per favore: ho bisogno di un conto complessivo per fare  i  nostri 
      progetti." 
      "Totale? Niente" disse Mercedes, con un doloroso sorriso. 
      "Non  può essere,  madre mia.  Nell'insieme dovremmo avere tremila 
      franchi, e con tremila franchi potremo vivere splendidamente!" 
      "Ragazzo mio!" sospirò Mercedes. 
      "Madre mia" disse il giovane,  "purtroppo ho  speso  molto  denaro 
      prima  di  imparare  a  valutarlo.  E'  una somma enorme,  vedete, 
      tremila franchi, e su di essa ho ideato un prospero avvenire." 
      "Voi parlate così,  amico mio" continuò la povera madre: "ma prima 
      di  tutto  accetteremo  questa  somma  di  tremila franchi?" disse 
      Mercedes arrossendo. 
      "Questa è cosa convenuta, mi pare" disse Alberto,  con tono fermo. 
      "Noi  li  accettiamo,  tanto più che non li abbiamo,  perché sono, 
      come ben sapete, sepolti nel giardino di quella casuccia dei viali 
      di Meillan,  a Marsiglia.  Con duecento franchi" continuò Alberto, 
      "noi andremo entrambi a Marsiglia." 
      "Con duecento franchi! Lo credete, Alberto?" 
      "In quanto a questo ho prese le mie informazioni all'ufficio delle 
      diligenze,  e  dei  battelli a vapore,  e ho fatto i miei calcoli. 
      Prendete  il  vostro  posto  per   Chalons   sul   davanti   della 
      diligenza...   Vedete,   madre  mia,  che  vi  tratto  da  regina. 
      Trentacinque franchi." 
      Ed Alberto prese una penna e, scrivendo, disse: 
      "Da qui a Chalons: 35 franchi; da Chalons a Lione,  voi andate col 
      battello  a  vapore: 6 franchi;  da Lione ad Avignone,  sempre col 
      battello a vapore: 16 franchi; da Avignone a Marsiglia: 7 franchi; 
      spese di viaggio: 50 franchi. Totale 114 franchi. 
      "Mettiamo centoventi" soggiunse Alberto  sorridendo:  "Vedete  che 
      son generoso, non è vero, madre mia?" 
      "Ma tu, mio povero figlio?" 
      "Io? E non avete visto che mi riserbo ottanta franchi? Un giovane, 
      madre  mia,  non ha bisogno di tanti comodi;  d'altra parte so che 
      cosa è il viaggiare." 
      "In carrozza da posta, e col tuo cameriere!" 
      "In ogni modo, madre mia." 
      "Ebbene, sia" disse Mercedes. "Ma questi duecento franchi?" 
      "Questi duecento franchi,  eccoli,  e di più,  eccone ancora altri 
      duecento. Sentite, io ho venduto il mio orologio, cento franchi, e 
      la  catenella  trecento...  Come  sono  fortunato!  Catenelle  che 
      valgono tre volte l'orologio.  Sempre per la famosa  storia  delle 
      cose   superflue.   Eccoci   dunque   ricchi   poiché   invece  di 
      centoquattordici franchi che vi abbisognavano per fare il  viaggio 
      ne avete duecentocinquanta." 
      "Ma non dobbiamo pagare qualche cosa per questa casa?" 
      "Trenta franchi, ma li pago io sopra i miei centocinquanta: questo 
      è  convenuto.  E poiché non mi abbisognano che ottanta franchi per 
      fare il viaggio,  vedete che nuoto nel lusso.  Ma non è qui tutto: 
      che ne dite di questo, madre mia?" 
      E  Alberto  cavò  da  un  piccolo portafoglio con fermaglio d'oro, 
      unico avanzo della sua antica eleganza o fors'anche tenero ricordo 
      di una di quelle  donne  che  battevano  alla  sua  porticina,  un 
      biglietto di mille franchi. 
      "Che cosa è questo?" domandò Mercedes. 
      "Un  biglietto di mille franchi,  madre mia.  Oh,  è perfettamente 
      quadrato..." 
      "Ma da dove ti vengono questi mille franchi?" 
      "Ascoltate, madre mia, ma non vi commuovete troppo." 
      E Alberto baciò sua madre, e si fermò a guardarla. 
      "Non potete credere,  madre mia,  come vi trovo bella!"  disse  il 
      giovane con profondo amor filiale. "Siete la più bella, come siete 
      la più virtuosa delle donne che ho conosciute." 
      "Caro  figlio!"  disse Mercedes,  sforzandosi invano di trattenere 
      una lacrima che spuntava dalla sua palpebra. 
      "In verità,  non vi mancava che diventare infelice per cambiare il 
      mio amore in adorazione." 
      "Io  non  sono  infelice  fino  a  che  mi resta mio figlio" disse 
      Mercedes, "non sarò infelice fino a che ti avrò." 
      "Per sempre" disse Alberto. "Ma ecco dove comincia la prova, madre 
      mia! Voi sapete il nostro accordo?" 
      "Quale?" domandò Mercedes. 
      "Che voi abiterete a Marsiglia,  e io partirò per  l'Africa,  dove 
      invece  del  nome  che  ho lasciato,  farò illustre il nome che ho 
      assunto." 
      Mercedes mandò un sospiro. 
      "Ebbene, madre mia, da ieri sono ingaggiato negli Spahis" aggiunse 
      il giovane abbassando gli occhi intimidito, poiché non sapeva egli 
      stesso quanto v'era di sublime nel fare il soldato.  "Dirò che  mi 
      sono  accorto  di avere un corpo,  e che potevo venderlo.  Mi sono 
      venduto,  come si dice" aggiunse tentando di sorridere,  "più caro 
      di quanto pensassi di valere, vale a dire per duemila franchi." 
      "Per cui questi mille franchi?..." disse fremendo Mercedes. 
      "Sono la metà della somma, madre mia, l'altra la riscuoterò fra un 
      anno." 
      Mercedes  alzò  gli occhi al cielo con una espressione che nessuno 
      saprebbe descrivere,  e  due  lacrime  trattenute  sgorgarono  per 
      l'emozione e caddero silenziosamente lungo le guance. 
      "Il prezzo del sangue" mormorò. 
      "Sì,  se sarò ucciso" disse ridendo Morcerf, "ma ti assicuro, cara 
      madre, che, al contrario, ho intenzione di difendere vigorosamente 
      questa mia povera pelle.  Non mi sono mai sentito tanta volontà di 
      vivere come in questo momento." 
      "Mio Dio, mio Dio!" esclamò Mercedes. 
      "Ma   perché  pensate  che  io  sia  ucciso,   madre  mia?   Forse 
      Lamoricière,  questo altro Ney del mezzogiorno,  è  stato  ucciso? 
      forse Changarnier?  forse Bedeau è stato ucciso? forse Morrel, che 
      noi conosciamo, è stato ucciso?  Pensate dunque alla vostra gioia, 
      madre mia, quando mi vedrete tornare con un'uniforme ricamata. Con 
      quella sarò orgoglioso,  e,  vi dirò,  ho scelto questo reggimento 
      per galanteria." 
      Mercedes sospirò,  mentre cercava di  sorridere:  capiva  che  non 
      doveva lasciar portare a suo figlio tutto il peso del sacrificio. 
      "Ebbene,  madre mia" disse Alberto, "eccovi già più di quattromila 
      franchi assicurati;  con questi quattromila  franchi  vivrete  due 
      buoni anni." 
      "Lo credi?" disse Mercedes. 
      Queste  parole erano sfuggite alla contessa,  e con tal dolore che 
      il loro vero senso non sfuggì  ad  Alberto:  sentì  stringersi  il 
      cuore,  e  prendendo  la mano della madre la stringeva teneramente 
      fra le sue. 
      "Sì, voi vivrete" disse. 
      "Io vivrò, ma tu non partirai, figlio mio, non è vero?" 
      "Madre mia, io partirò" disse Alberto, con voce calma e ferma. "Mi 
      amate troppo per lasciarmi  ozioso  e  disutile  a  me  stesso,  e 
      inoltre ho firmato." 
      "Segui  la  tua volontà,  figlio mio,  ed io seguirò la volontà di 
      Dio." 
      "Non secondo la mia volontà,  madre mia,  ma secondo  la  ragione, 
      secondo  la  necessità.  Noi  siamo due creature disperate,  non è 
      vero?  Che cosa è la vita per voi oggi?  Nulla.  Che cosa è mai la 
      vita per me? Oh, ben poca cosa senza di voi, madre mia, credetelo; 
      perché senza di voi questa vita,  ve lo giuro, sarebbe cessata nel 
      giorno in cui concepii qualche dubbio sull'onore di  mio  padre  e 
      rinnegai il suo nome! Finalmente vivo, se mi promettete di sperare 
      ancora  e,  se  mi  lasciate la cura della vostra futura felicità, 
      raddoppierete la mia forza.  Allora  andrò  laggiù  a  trovare  il 
      governatore dell'Algeria;  è uomo leale e soprattutto soldato. Gli 
      racconterò la  mia  condotta,  oh,  allora  spero,  prima  che  si 
      compiano  sei mesi,  di essere ufficiale: se ufficiale,  la vostra 
      sorte è assicurata,  madre mia,  perché allora avrò del denaro,  e 
      per voi e per me, e di più un nuovo nome di cui saremo orgogliosi, 
      poiché quello sarà il vostro vero nome... Se invece sarò ucciso... 
      ebbene,  se sarò ucciso,  cara madre,  morirete, se lo vorrete, ed 
      allora i nostri guai avranno termine." 
      "Sta bene" rispose Mercedes,  col suo nobile ed eloquente sguardo, 
      "sta bene, hai ragione, figlio... Proviamo a quella società che ci 
      sta  ad  osservare,  che  guarda  le nostre azioni per giudicarci, 
      proviamo che siamo per lo meno degni di essere compianti." 
      "Ma,  bando ad ogni funebre idea,  cara madre!" gridò il  giovane. 
      "Vi giuro che noi siamo,  o almeno potremo essere felicissimi. Voi 
      siete dotata di spirito  e  di  rassegnazione,  io  sono  divenuto 
      semplice nei miei gusti,  e senza passioni,  almeno lo spero.  Una 
      volta in servizio, eccomi ricco;  una volta che voi sarete in casa 
      del  signor  Dantès,  eccovi tranquilla.  Proviamo!,  ve ne prego, 
      madre mia, proviamo!" 
      "Sì, proviamo, figlio mio,  perché tu devi vivere,  perché tu devi 
      essere felice" rispose Mercedes. 
      "Ecco  fatta  la  nostra  separazione"  aggiunse il giovane.  "Noi 
      possiamo partire oggi stesso. Orsù, come vi ho detto, ho prenotato 
      il vostro posto." 
      "Ma il tuo, figlio mio?" 
      "Io debbo restare qui altri due o tre giorni...  Questo sarà  solo 
      un inizio di separazione, e noi abbiamo bisogno di abituarci. Devo 
      raccogliere   qui  alcune  raccomandazioni,   alcune  informazioni 
      sull'Algeria, e poi vi raggiungerò a Marsiglia." 
      "Ebbene,  sia così,  partiamo" disse Mercedes  avviluppandosi  nel 
      solo scialle che aveva portato con sé, "partiamo!" 
      Alberto raccolse in fretta le sue carte, suonò per pagare i trenta 
      franchi che doveva al padrone di casa, e offrendo il braccio a sua 
      madre scese la scala. 
      Qualcuno  scendeva davanti a loro,  e sentendo lo strascico di una 
      veste di seta sugli scalini, si volse. 
      "Debray!" mormorò Alberto. 
      "Voi...  Morcerf!" rispose il segretario del  ministro  fermandosi 
      sullo scalino su cui si trovava. 
      La   curiosità   vinse   in  Debray  il  desiderio  di  conservare 
      l'incognito.  Gli sembrava infatti strano ritrovare in quella casa 
      remota  quel  giovane,  la  cui  disgraziata avventura aveva fatto 
      tanto chiasso a Parigi. 
      "Morcerf!" ripeté Debray. 
      Quindi scorgendo nella penombra le  forme  ancor  giovani  di  una 
      donna velata: 
      "Oh,  scusate!"  soggiunse  con  un  mezzo  sorriso.  "Vi  lascio, 
      Alberto." 
      Alberto capì il pensiero di Debray. 
      "Madre mia" disse,  volgendosi a Mercedes,  "è il  signor  Debray, 
      segretario del ministro dell'interno, un mio vecchio amico." 
      "Come, vecchio!" balbettò Debray. "Che volete dire?" 
      "Dico  questo,  signor Debray,  perché oggi non ho e non posso più 
      avere amici.  Vi ringrazio,  anzi,  moltissimo,  di avermi  voluto 
      riconoscere, signore." 
      Debray  risalì i due scalini,  e venne a dare una energica stretta 
      di mano al suo interlocutore. 
      "Credete Alberto" disse, con tutta l'emozione possibile, "ho preso 
      una parte profonda alla disgrazia che vi colpisce,  e mi  metto  a 
      vostra disposizione in tutto e per tutto." 
      "Grazie,  signore"  disse sorridendo Alberto,  "ma,  in mezzo alla 
      nostra disgrazia,  siamo rimasti abbastanza ricchi per  non  avere 
      bisogno di ricorrere a nessuno.  Noi lasciamo Parigi, e, pagato il 
      nostro viaggio, ci rimangono ancora cinquemila franchi." 
      Il rossore salì alla fronte di Debray che portava un  milione  nel 
      portafogli,  e  per  quanto  fosse  poco  poetico,  non  poté  non 
      riflettere che la stessa casa era stata abitata poco prima da  due 
      donne, delle quali una, giustamente disonorata se ne andava con un 
      milione   e  cinquecentomila  franchi,   e  l'altra  ingiustamente 
      colpita,  ma sublime nella sua infelicità,  si riteneva ricca  con 
      pochi  denari.  Questo  paragone  lo  imbarazzò.  Balbettò qualche 
      parola e scese rapidamente.  Ma la sera stessa aveva comprato  una 
      bella casa sul boulevard de la Madeleine,  che gli dava cinquemila 
      lire di rendita. 
      L'indomani, all'ora in cui Debray firmava il contratto, cioè verso 
      le cinque pomeridiane, la signora Morcerf,  dopo avere teneramente 
      abbracciato  suo figlio ed essere stata teneramente abbracciata da 
      lui salì sul davanti della diligenza. Un uomo nascosto nel cortile 
      dell'amministrazione  Laffitte,  dietro  una  di  quelle  finestre 
      centinate del piano terreno che sormontano tutti gli uffici,  vide 
      partire la diligenza, e allontanarsi Alberto. Allora passò la mano 
      sulla fronte, dicendo: 
      "Ahimè con quale mezzo restituirò a questi innocenti  la  felicità 
      che ho loro tolta?... Dio mi aiuterà!" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 106. 
                             LA FOSSA DEI LEONI. 
 
 
      Uno dei raggi della prigione,  quello che racchiude i detenuti più 
      compromessi e pericolosi,  si chiama il cortile  San  Bernardo.  I 
      prigionieri,  nel loro gergo, l'hanno soprannominato "la fossa dei 
      leoni",  probabilmente perché i detenuti che  vi  sono  racchiusi, 
      spesso mordono le inferriate e non di rado i carcerieri. E' questa 
      una prigione nella stessa prigione;  le mura sono grosse il doppio 
      delle altre.  Ogni giorno un carceriere esplora con somma cura  le 
      inferriate massicce;  e si capisce,  dalla statura erculea,  dallo 
      sguardo freddo del guardiano,  che è stato scelto per regnare  col 
      terrore su quella gente. 
      Il  prato  di  quel  raggio  è  circondato  da alte e grosse mura, 
      illuminate obliquamente dal sole,  quando si decide a penetrare in 
      quel  luogo  di laidume fisico e morale.  Là,  su quel prato,  fin 
      dalla mattina vanno errando pensierosi, feroci, impalliditi,  come 
      ombre, coloro che la giustizia tiene curvi sotto la mannaia che si 
      sta affilando,  e che si vedono addossarsi, raggrupparsi contro il 
      muro, che assorbe e ritiene la maggior parte del loro calore. Essi 
      rimangono là,  parlando a  due  a  due,  il  più  spesso  isolati, 
      coll'occhio  incessantemente  verso  la  porta,  che  si  apre per 
      chiamare qualcuno degli abitanti di quel lugubre soggiorno,  o per 
      vomitare  in  quel luogo una nuova feccia tolta dal crogiolo della 
      società. 
      Il cortile di San Bernardo ha il suo  parlatorio  particolare:  un 
      quadrato oblungo,  diviso in due parti da due inferriate, piantate 
      parallelamente a tre piedi di distanza l'una dall'altra,  di  modo 
      che  il visitatore non possa stringere la mano del prigioniero,  o 
      passargli qualche oggetto.  Questo parlatorio è  oscuro,  umido  e 
      orribile, sotto tutti i rapporti, particolarmente, quando si pensa 
      alle  orribili  confidenze che sono passate per quelle inferriate, 
      che hanno arrugginito il ferro delle sbarre. Però quel luogo,  per 
      quanto  spaventoso,  è  un  eliso  ove vengono a temperarsi in una 
      società sperata,  bramata,  quegli uomini ai quali sono contati  i 
      giorni:  è  raro  che  qualcuno  esca  dalla "fossa dei leoni" per 
      andare in tutt'altro luogo che non sia la barriera  Saint-Jacques, 
      o la galera, o il carcere penitenziario. 
      Nel  cortile che abbiamo descritto e che esala una fetida umidità, 
      passeggiava  colle  mani  nelle  tasche  dell'abito,   un  giovane 
      osservato con molta curiosità dagli abitanti della "fossa".  Lo si 
      sarebbe giudicato un giovane elegante dal taglio degli abiti,  che 
      benché  con degli strappi non erano però usati,  anzi il panno era 
      fino e lucido,  e,  dov'era intatto riprendeva facilmente  il  suo 
      splendore   sotto  le  carezze  del  prigioniero  che  cercava  di 
      conservare l'abito nuovo.  Usava la stessa  cura  nell'abbottonare 
      una  camicia di batista considerevolmente cambiata di colore dalla 
      sua entrata in prigione;  e sopra gli stivali verniciati passava e 
      ripassava  l'angolo  di  un  fazzoletto con le iniziali ricamate e 
      sormontate da una corona araldica. 
      Alcuni  carcerati  della  "fossa  dei  leoni"  consideravano   con 
      manifesto interesse la ricercata toilette del prigioniero. 
      "Guarda, ecco là il principe che si fa bello" disse uno dei ladri. 
      "E' bellissismo naturalmente" disse un altro.  "Solo che avesse un 
      pettine ed un po' di  pomata,  eclisserebbe  tutti  i  signori  in 
      guanti bianchi." 
      "Il  suo abito doveva essere ben nuovo,  e i suoi stivali dovevano 
      ben risplendere!  E' un vanto per noi confratelli come si deve,  e 
      quei briganti di gendarmi sono ben vili.  Invidiosi!  Rovinare una 
      toilette come quella!" 
      "Sembra che sia un personaggio famoso" disse un altro.  "Ha  fatto 
      di  tutto...  E'  nel  genere  grande...  Viene di laggiù,  e così 
      giovane! Ah, è una cosa straordinaria!..." 
      E l'oggetto di quella esecranda ammirazione sembrava  gustare  gli 
      elogi, o il vapore degli elogi, perché non capiva una parola. 
      Terminata la toilette,  si avvicinò alla porta della "fossa", alla 
      quale stava appoggiato il carceriere di guardia: 
      "Via, signore" disse,  "prestatemi venti franchi,  li riavrete ben 
      presto  con me non si corre alcun rischio.  Pensate che ho parenti 
      che hanno più milioni di quanto voi abbiate franchi...  Su,  venti 
      franchi,  vi prego,  per comprare un paio di pianelle ed una veste 
      da camera.  Soffro orribilmente a stare sempre col vestito e cogli 
      stivali... Che abito, signore, per un principe Cavalcanti!" 
      Il  guardiano gli voltò il dorso,  e si strinse nelle spalle,  non 
      rise neppure di quelle parole che avrebbero fatto ridere qualunque 
      altro perché quell'uomo ne aveva sentiti molti altri,  o piuttosto 
      aveva sempre sentita la stessa cosa. 
      "Andate,  signore,  siete  uomo  senza  cuore,  e  vi farò perdere 
      l'impiego..." 
      Questa parola fece il suo effetto sul guardiano,  che questa volta 
      si  lasciò sfuggire un gran scoppio di risa.  Allora i prigionieri 
      gli si avvicinarono tutti e fecero cerchio. 
      "Vi dico" continuò Andrea, "che con questa miserabile somma vorrei 
      procacciarmi un abito ed una veste da camera,  per poter  ricevere 
      in  modo  decente  la  visita  illustre  che aspetto da un momento 
      all'altro." 
      "Ha ragione!  ha ragione!" dissero i  prigionieri.  "Perdinci!  Si 
      vede bene che è un uomo come si deve!" 
      "E   allora   prestategli  voi  altri  venti  franchi!"  disse  il 
      guardiano,  appoggiandosi coll'altra sua colossale spalla.  "Forse 
      che non dovreste farlo per un compagno?" 
      "Non  sono  il  compagno  di  costoro"  disse  orgogliosamente  il 
      giovane. "Non m'insultate, non ne avete diritto!" 
      "Lo sentite?" disse il guardiano,  con un  sinistro  sorriso.  "Vi 
      sistema per bene: prestategli dunque venti franchi... eh?" 
      I  ladri  si  guardarono  con  sordo mormorio,  e questa tempesta, 
      provocata più dalle parole del guardiano che da quelle di  Andrea, 
      cominciò  a  minacciare  intorno al prigioniero aristocratico.  Il 
      guardiano, sicuro di poter padroneggiare la situazione,  quando il 
      tumulto  si  fosse  fatto troppo forte,  li lasciava a poco a poco 
      alterarsi per giocare un brutto tiro all'importuno  sollecitatore, 
      e  procurarsi  così una ricreazione durante la lunga guardia della 
      giornata.  Già i ladri si avvicinavano ad Andrea,  parte  dicendo: 
      "La ciabatta!  la ciabatta!", crudele operazione, che consiste nel 
      torturare con colpi, non già di ciabatta, ma di scarpa ferrata, un 
      confratello   caduto   in   disgrazia.   Gli   altri   proponevano 
      "l'anguilla",   altro  genere  di  ricreazione  che  consiste  nel 
      riempire di sabbia,  di sassolini e  di  grossi  soldi  quando  ne 
      hanno,  un  fazzoletto attorcigliato,  che scaricano come flagello 
      sulle spalle e sulla testa del paziente. 
      "Frustiamo il bel signore" dissero alcuni altri,  "il signor  uomo 
      onesto!" 
      Ma Andrea, volgendosi verso di loro fece l'occhietto, gonfiò colla 
      lingua  la guancia,  e fece sentire uno scoppiettio con la lingua, 
      un segno convenzionale che fra i  galeotti  significa  "silenzio". 
      Questo  segno gergale gli era stato insegnato da Caderousse.  Essi 
      lo riconobbero  per  uno  di  loro.  I  fazzoletti  ricaddero,  la 
      ciabatta ferrata rientrò nel piede del principale aguzzino, si udì 
      qualche  voce  proclamare  che  il  signore aveva ragione,  che il 
      signore poteva a modo suo  essere  onesto,  e  che  i  prigionieri 
      volevano  dare l'esempio di libertà di coscienza.  L'ammutinamento 
      cessò.  Il guardiano ne fu talmente stupefatto,  che prese  Andrea 
      per  le  mani e si mise a frugarlo,  attribuendo a qualcosa di più 
      concreto quel cambiamento istantaneo degli abitanti  della  "fossa 
      dei leoni".  Andrea si lasciò frugare non senza forti proteste. Ad 
      un tratto una voce si fece sentire dalla porta. 
      "Benedetto!" gridò un ispettore. 
      Il guardiano lasciò la sua preda. 
      "Sono chiamato?" disse Andrea. 
      "Al parlatorio!" disse la voce. 
      "Vedete,  se vengono a farmi visita?...  Caro il mio signore,  ora 
      vedremo  se  si  possa  impunemente trattare un Cavalcanti come un 
      uomo qualsiasi!" 
      E Andrea, traversando il cortile come un'ombra,  si precipitò alla 
      porta   lasciando   nell'ammirazione  i  suoi  confratelli  ed  il 
      guardiano.  Era difatti chiamato al parlatorio,  ed  era  cosa  da 
      stupire  lo  stesso  Andrea,  poiché  l'astuto  giovanotto nel suo 
      entrare alla "fossa'', invece di usare, come la gente comune,  del 
      beneficio di poter scrivere per farsi visitare, aveva osservato il 
      più stoico silenzio. 
      "Io  sono"  diceva,  "evidentemente  protetto  da qualche potente. 
      Tutto me lo prova: questa fortuna improvvisa la facilità  con  cui 
      ho  appianato  tutti gli ostacoli,  una famiglia improvvisata,  un 
      nome illustre divenuto anche il mio, l'oro che mi pioveva addosso, 
      le alleanze,  le più magnifiche promesse alle  mie  ambizioni.  Un 
      momentaneo obblio della mia fortuna,  l'assenza del mio protettore 
      mi hanno perduto, ma non del tutto,  non per sempre!  La mano si è 
      ritirata  per  un  momento,  essa  deve  ritornare sopra di me,  e 
      riafferrarmi di nuovo al  momento  in  cui  mi  crederò  vicino  a 
      piombare  nel  precipizio.  Perché  rischiare un'ultima imprudenza 
      nello scrivere? Potrei seccare il mio protettore! Lui possiede due 
      mezzi per togliermi d'imbarazzo: l'evasione misteriosa comprata  a 
      prezzo  d'oro,  o  forzare  la mano ai giudici per ottenere la mia 
      assoluzione. Per parlare ed agire aspettiamo che mi sia provato di 
      essere abbandonato, e allora..." 
      Andrea aveva escogitato il suo  piano  con  molta  accortezza;  il 
      disgraziato  era  intrepido all'attacco e astuto nella difesa.  La 
      miseria della prigione in comune, le privazioni di ogni genere, le 
      aveva sopportate; però,  a poco a poco,  la sua natura o piuttosto 
      l'abitudine  aveva  preso  il  sopravvento.   Andrea  soffriva  di 
      trovarsi nudo, sporco,  affamato: il tempo per lui era lungo.  Era 
      uno  di questi momenti quello in cui fu chiamato dall'ispettore al 
      parlatorio. 
      Andrea sentì il cuore balzare di gioia.  Era troppo presto  perché 
      quella  fosse una chiamata del giudice istruttore,  e troppo tardi 
      perché fosse del direttore della prigione o del medico. 
      Dietro l'inferriata del  parlatorio,  ove  Andrea  fu  introdotto, 
      scoperse,  coi  suoi  grand'occhi  dilatati  ancor più da un'avida 
      curiosità, la figura cupa ed intelligente del signor Bertuccio, il 
      quale guardava con dolorosa meraviglia  le  inferriate,  le  porte 
      sprangate, e l'ombra che si agitava dietro le sbarre incrociate. 
      "Ah!" esclamò Andrea, con un tonfo al cuore. 
      "Buon  giorno,  Benedetto" disse Bertuccio colla sua voce chiara e 
      sonora. 
      "Voi! voi!" disse il giovane guardando con spavento intorno a sé. 
      "Non mi conosci più?" disse Bertuccio. "Giovane disgraziato!" 
      "Silenzio! silenzio dunque!" disse Andrea che conosceva la finezza 
      dell'udito di quelle muraglie. "Mio Dio,  non parlate così ad alta 
      voce!" 
      "Tu vorresti parlare con me" disse Bertuccio, "da solo a solo, non 
      è vero?" 
      "Sì, sì!" disse Andrea. 
      "Sta bene." 
      E Bertuccio,  frugandosi in tasca,  fece segno ad un guardiano che 
      si vedeva dietro la invetriata di un finestrino. 
      "Leggete" disse Bertuccio a costui. 
      "Che cosa è?" domandò Andrea. 
      "L'ordine di condurti  in  una  stanza,  e  di  lasciarmi  parlare 
      liberamente con te." 
      "Oh!" esclamò Andrea, balzando di gioia. 
      E subito dopo riprendendosi si diceva: 
      "Ancora  il  protettore  sconosciuto!  Io  non  sono  dimenticato! 
      Cercano  il  segreto,  giacché  vogliono  parlare  in  una  stanza 
      isolata.  Sono  in  mio  potere...  Bertuccio  è stato inviato dal 
      protettore!" 
      Il guardiano conferì un momento con un superiore,  quindi aprì  le 
      due  porte  sprangate,  e li condusse in una cella del primo piano 
      che guardava nel cortile.  Andrea non stava più in sé dalla gioia. 
      La  cella  era  imbiancata  a calce,  come è d'uso nelle prigioni. 
      Aveva un aspetto allegro che sembrava raggiante al prigioniero. Un 
      braciere,  un letto,  una cassa,  una tavola,  erano  il  sontuoso 
      mobilio.  Bertuccio  si  sedette sulla cassa,  Andrea si gettò sul 
      letto; il guardiano si ritirò. 
      "Sentiamo" disse l'intendente, "che cosa hai da dirmi?" 
      "E voi?" disse Andrea. 
      "Ma parla prima..." 
      "Oh no,  siete voi che avete molte cose  da  dirmi,  poiché  siete 
      venuto a trovarmi." 
      "Ebbene,  sia. Tu hai continuato il corso delle tue scelleratezze, 
      tu hai rubato, assassinato..." 
      "Se mi avete fatto condurre in una cella appartata per dirmi  tali 
      cose,  tanto valeva che non vi incomodaste. Io le so già tutte, ma 
      invece ve ne sono altre che non so.  Parliamo  di  queste,  se  vi 
      aggrada. Chi vi ha mandato?" 
      "Oh, oh, andate per le corte, signor Benedetto..." 
      "Non  è  vero?  E  alla  meta.  Soprattutto  risparmiamo le parole 
      inutili. Chi vi manda?" 
      "Nessuno." 
      "E come sapeste che ero in prigione?" 
      "E' molto tempo che  ti  avevo  riconosciuto  per  quell'insolente 
      zerbinotto  che  guidava  tanto  leggiadramente  un  cavallo  agli 
      Champs-Elysées." 
      "Gli Champs-Elysées... Ah,  "noi bruciamo",  come si dice al gioco 
      della "pinzetta"... Gli Champs-Elysées! A noi: parliamo un poco di 
      mio padre, lo volete?" 
      "Chi sono io, dunque?" 
      "Voi,  mio bravo signore,  voi siete mio padre adottivo...  Ma non 
      siete voi,  m'immagino,  che avete disposto in mio  favore  di  un 
      centinaio  di  mille franchi,  che ho divorato in quattro o cinque 
      mesi; non siete voi che mi avete provveduto di un padre italiano e 
      gentiluomo;  non siete voi che mi avete  fatto  entrare  nel  gran 
      mondo,  e  invitato  ad  un  certo pranzo,  dove mi pare di essere 
      ancora,  ad Auteuil,  colla miglior gente di Parigi,  con un certo 
      regio  procuratore,  di  cui  ho  avuto  grandissimo  torto di non 
      coltivare la conoscenza,  che in questo momento mi  sarebbe  stata 
      utile;  non siete voi, infine, che mi avete fatto garanzia per uno 
      o due milioni,  quando mi  è  accaduto  l'incidente  fatale  della 
      scoperta  del  vaso  delle rose...  Sentiamo,  parlate,  stimabile 
      corso, parlate..." 
      "Che cosa vuoi che ti dica?" 
      "Vi aiuterò io.  Voi parlavate degli Champs-Elysées poco  fa,  mio 
      degno padre putativo." 
      "Ebbene?" 
      "Ebbene...  Agli  Champs-Elysées abita un signore molto,  ma molto 
      ricco." 
      "In casa del quale tu hai rubato ed assassinato, non è vero?" 
      "Credo di sì..." 
      "Il signor conte di Montecristo." 
      "Siete voi che l'avete nominato, come dice Racine... Ebbene, debbo 
      gettarmi fra le  sue  braccia,  soffocarlo  contro  il  mio  petto 
      gridando "Padre mio! padre mio!", come dice Pixérécourt?" 
      "Non  scherziamo"  rispose gravemente Bertuccio.  "E tale nome non 
      sia qui pronunciato come fai tu." 
      "Bah!" fece Andrea,  un po' stordito dal sussiego e  dal  contegno 
      del signor Bertuccio. "E perché no?" 
      "Perché  chi  porta  quel  nome,  è  troppo favorito dal cielo per 
      essere padre di un miserabile come voi." 
      "Oh, i gran paroloni!" 
      "E grandi effetti se non hai riguardi." 
      "Minacce! Io non temo niente... Io dirò..." 
      "Credi di avere a che fare con dei pigmei della tua specie?" disse 
      Bertuccio,  con tono così calmo e sguardo così sicuro,  che Andrea 
      ne fu colpito fino al profondo delle viscere. "Credi di aver a che 
      fare coi tuoi scellerati compagni di galera,  o con quegli ingenui 
      che hai aggirati in società? Benedetto,  tu sei in mani terribili: 
      se vogliono aprirsi per soccorrerti,  profittane. Non giocare però 
      col  fulmine  che  per  un  momento  depongono,   ma  che  possono 
      riprendere,  se  tenti  di  impedire  a quelle mani il loro libero 
      movimento." 
      "Padre mio...  Voglio sapere chi è mio padre..." disse l'ostinato. 
      "Morirò,  se  occorre,  ma  lo  saprò.  Che  cosa può fare a me lo 
      scandalo?  Del bene...  del credito...  de la réclame,  come  dice 
      Beauchamp,  il giornalista. Ma voi, persone dell'alta società, voi 
      avete sempre qualche cosa da perdere nello  scandalo,  malgrado  i 
      vostri stemmi gentilizii... Chi è mio padre?" 
      "Sono venuto per dirtelo." 
      "Ah!" gridò Benedetto, con gli occhi scintillanti di gioia. 
      In  questo  momento  si  aprì  la porta,  ed il carceriere disse a 
      Bertuccio: 
      "Scusate, signore, il giudice istruttore aspetta il prigioniero." 
      "E'  la  chiusura  del  mio  colloquio"  disse  Andrea  al   degno 
      intendente. "Al diavolo l'importuno!" 
      "Ritornerò domani" disse Bertuccio. 
      Andrea  gli  tese la mano,  Bertuccio tenne le sue in tasca,  e vi 
      fece risuonare alcune monete. 
      "Era  quello  che  volevo  dirvi"  disse  Andrea  con  un  sorriso 
      scomposto,  ma  del  tutto soggiogato dalla strana tranquillità di 
      Bertuccio. 
      "Mi sarei sbagliato?" disse fra  sé  nel  montare  nella  carrozza 
      oblunga colle persiane di ferro,  volgarmente chiamata 'il paniere 
      dell'insalata'.   "La  vedremo!"  e  aggiunse,   voltandosi  verso 
      Bertuccio: "E così a domani". 
      "A domani" rispose l'intendente. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 107. 
                                 IL GIUDICE. 
 
 
      Il  lettore  si  ricorderà che l'abate Busoni era rimasto solo con 
      Noirtier nella camera mortuaria,  e il nonno ed il prete si  erano 
      costituiti guardiani del corpo della ragazza. 
      Forse  le  esortazioni dell'abate,  forse la sua parola persuasiva 
      avevano reso il coraggio al vecchio,  poiché dal momento che aveva 
      Potuto  conferire  col prete,  invece della disperazione che sulle 
      prime si era impadronita di lui,  tutto rivelava in  Noirtier  una 
      grande  rassegnazione,  una  calma  assai  sorprendente  per tutti 
      quelli che ricordavano  l'affezione  profonda  portata  da  lui  a 
      Valentina.  Il  signor  Villefort  non  aveva più visto il vecchio 
      dalla mattina del giorno funesto.  Tutte le  persone  di  servizio 
      erano state rinnovate, un altro cameriere era stato preso per lui, 
      un  altro  servitore  per  Noirtier;  due  donne  erano entrate al 
      servizio della signora Villefort;  tutti,  perfino il portinaio ed 
      il  cocchiere,  erano  visi  nuovi per i diversi padroni di quella 
      casa maledetta,  e avevano però già capito le  pessime  relazioni, 
      già molto fredde, che perduravano fra di loro. 
      D'altra parte, le sedute del tribunale si sarebbero aperte fra due 
      o  tre giorni,  e Villefort chiuso nel suo studio,  proseguiva con 
      febbrile  attività  la  procedura  ordita  contro  l'assassino  di 
      Caderousse.  Questo  affare,  come  tutti quelli in cui si trovava 
      immischiato Montecristo,  aveva  fatto  gran  scandalo  nel  mondo 
      parigino. 
      Le  prove non erano convincenti,  poiché si fondavano sopra alcune 
      parole scritte da un forzato moribondo, vecchio compagno di galera 
      dell'imputato,  e che poteva avere accusato il  suo  compagno  per 
      odio  o per vendetta.  C'era però la coscienza del magistrato.  Il 
      regio procuratore aveva finito col convincersi che  Benedetto  era 
      colpevole, e che doveva strappare da questa difficile vittoria uno 
      di  quei godimenti di amor proprio,  che soli sapevano risvegliare 
      un poco le fibre del suo cuore di ghiaccio. 
      Il processo dunque s'istruiva,  grazie  al  lavoro  incessante  di 
      Villefort,  che  voleva  con  questo  procedere all'apertura delle 
      prossime sedute per cui era stato obbligato a  star  ritirato  più 
      che  mai,  allo  scopo  di  evitare  di rispondere alla prodigiosa 
      quantità  di  domande  che  gli  venivano  rivolte  per   ottenere 
      biglietti d'udienza. E poi era scorso così poco tempo da quando la 
      povera  Valentina  era  stata  trasportata nella tomba,  il dolore 
      della famiglia era ancora così recente, che nessuno si stupiva nel 
      vedere il padre così rigorosamente assorto nel  suo  dovere,  cioè 
      nell'unica distrazione che potesse trovare al dolore. 
      Una sola volta,  ed era l'indomani del giorno in cui Bertuccio era 
      andato a  trovare  Benedetto  per  una  seconda  volta,  dicevamo, 
      Villefort  aveva  veduto  Noirtier.  Fu  nel  momento  in  cui  il 
      magistrato oppresso dalla fatica,  era sceso nel giardino del  suo 
      palazzo,  e cupo,  curvo,  sotto un implacabile pensiero, simile a 
      Tarquinio,  quando faceva saltare in aria colla sua bacchettina le 
      teste  dei  papaveri più elevate,  il signor Villefort colla canna 
      abbatteva i lunghi e inariditi steli delle rose  che  si  ergevano 
      lungo  i  viali,  come  spettri dei fiori già così brillanti nella 
      stagione decorsa. 
      Già più d'una volta aveva percorso in lungo tutto il giardino,  ed 
      era  giunto  a  quel  famoso  cancello  che  immetteva nel recinto 
      abbandonato,  ritornando sempre per lo stesso  viale,  riprendendo 
      sempre la passeggiata col medesimo passo e lo stesso gesto, quando 
      i suoi occhi si portarono macchinalmente verso la casa nella quale 
      sentiva  giocare  suo figlio,  tornato dal collegio per passare la 
      domenica e il lunedì presso sua madre.  In questo istante vide  ad 
      una  delle  finestre  aperte il signor Noirtier,  che si era fatto 
      trasportare nel suo seggiolone fin  contro  quella  finestra,  per 
      godere  degli  ultimi raggi di un sole ancora caldo,  e salutava i 
      fiori morenti e  le  foglie  arrossate  delle  vergini  viti,  che 
      tappezzavano il muro e oltrepassavano la finestra. 
      L'occhio del vecchio era fisso sopra un punto solo,  che Villefort 
      localizzava imperfettamente.  Quello sguardo di Noirtier era  così 
      pieno di odio,  così selvaggio,  così ardente d'impazienza, che il 
      procuratore, abile ad afferrare tutte le impressioni di quel viso, 
      che conosceva tanto bene,  cercò di seguirne la  traiettoria,  per 
      vedere  su  che  cosa  o  su  che  persona  cadesse quello sguardo 
      significante. 
      Allora vide sotto un gruppo di tigli coi rami già quasi spogli, la 
      signora Villefort che, seduta con un libro in mano, interrompeva a 
      tratti la lettura per sorridere a suo figlio,  o per  rimbalzargli 
      la palla che ostinatamente lanciava dalla sala nel giardino. 
      Villefort  impallidì,  poiché  comprese  che  cosa  voleva dire il 
      vecchio.   Noirtier  guardava  sempre   lo   stesso   punto,   ma, 
      all'improvviso,  il suo sguardo si portò dalla moglie al marito, e 
      Villefort stesso dovette allora subire l'attacco di  quegli  occhi 
      fulminanti,   che  nel  cambiar  persona,  avevano  pure  cambiato 
      linguaggio,  senza tuttavia perdere nulla della  loro  espressione 
      minacciosa. 
      La signora Villefort,  estranea a tutte quelle passioni,  riteneva 
      in quel momento la palla a suo figlio, facendogli cenno di venirla 
      a prendere con un bacio, ma Edoardo si fece pregare lungamente: le 
      carezze  materne  non  gli   sembravano   probabilmente   bastante 
      ricompensa  per  l'incomodo  che  doveva  prendersi: finalmente si 
      decise, saltò dalla finestra nel mezzo d'un cespuglio di vainiglie 
      e di margherite-regine,  e  corse  alla  signora  Villefort  colla 
      fronte  coperta  di  sudore.  La  signora Villefort gli asciugò la 
      fronte,  vi posò le labbra,  e rimandò il ragazzo con la palla  in 
      una mano e un pugno di confetti nell'altra. 
      Villefort  attirato  da  una  invincibile  malia,  come  l'uccello 
      attirato dal serpente, Villefort si avvicinò alla casa, e,  mentre 
      si avvicinava,  lo sguardo di Noirtier si abbassava seguendolo,  e 
      il  fuoco  delle  sue  pupille  sembrava  prendere  tal  grado  di 
      incandescenza,  che  Villefort  si sentiva divorato da lui fino al 
      fondo  del  cuore.   Infatti  si  leggeva  in  quello  sguardo  un 
      sanguinoso   rimprovero,   e  nello  stesso  tempo  una  terribile 
      minaccia. 
      Allora le pupille e gli occhi di Noirtier  si  alzarono  al  cielo 
      come se ricordasse a suo figlio un giuramento dimenticato. 
      "Sta bene, signore" replicò Villefort, dal fondo del cortile, "sta 
      bene! Abbiate pazienza ancora un giorno, ciò che ho detto sarà." 
      Noirtier  parve  calmato  da  quelle  parole,  e  i  suoi occhi si 
      voltarono con indifferenza da un'altra parte. Villefort si slacciò 
      violentemente l'abito che lo  soffocava,  passò  una  mano  livida 
      sulla fronte e rientrò nello studio. 
      La  notte  passò  fredda e tranquilla;  tutti andarono a letto,  e 
      dormirono, come di consueto, in quella casa. Solo,  ugualmente per 
      consuetudine,  Villefort non andò a letto,  quando vi andarono gli 
      altri,  e lavorò fino alle cinque del mattino,  per  rivedere  gli 
      ultimi   interrogatori   fatti   il  giorno  innanzi  dai  giudici 
      istruttori,  confrontare le deposizioni dei testimoni,  e ottenere 
      chiarezza  in tutto il suo atto d'accusa,  uno dei più energici ed 
      abilmente concepiti. 
      Era il lunedì in cui doveva aver luogo la prima seduta della Corte 
      d'assise. Quel giorno Villefort lo vide spuntare tetro e sinistro, 
      e la luce azzurrastra venne a  illuminare  sulla  carta  le  linee 
      tracciate con l'inchiostro rosso. 
      Il  magistrato  che si era per un momento addormentato,  mentre la 
      lucerna mandava le ultime scintille,  si risvegliò al crepitìo del 
      lucignolo  che stava per spegnersi e lo smozzicò con le dita umide 
      e imporporate come se  le  avesse  intinte  nel  sangue.  Aprì  la 
      finestra:  una  gran striscia color arancio traversava lontano nel 
      cielo,  e troncava in  due  l'ombra  dei  sottili  pioppi  che  si 
      disegnavano all'orizzonte.  Nel campo del trifoglio,  al di là del 
      cancello dei castagni,  un'allodola saliva verso il cielo  facendo 
      udire il suo canto mattutino. 
      L'aria  umida  dell'alba  inondò  la  testa  di  Villefort,  e gli 
      rinfrescò la memoria. 
      "Sarà per oggi" disse con uno sforzo.  "Oggi l'uomo che  tiene  la 
      spada  della  giustizia  nella sua mano,  dovrà colpire ovunque si 
      trovino colpevoli." 
      I suoi sguardi si portarono suo  malgrado  verso  la  finestra  di 
      Noirtier,  la  finestra  a  cui  il  giorno innanzi aveva visto il 
      vecchio.  La tenda era tirata.  Eppure l'immagine di suo padre gli 
      era talmente presente,  che si voltò a quella finestra chiusa come 
      se fosse stata aperta,  e  da  quell'apertura  vedesse  ancora  il 
      vecchio in atto di minaccia. 
      "Sì" mormorò, "sì, sii tranquillo!" 
      La  testa  gli  cadde sul petto,  e colla testa china fece il giro 
      dello studio,  infine si buttò tutto vestito sopra un  sofà,  meno 
      per dormire che per ammorbidire le membra intirizzite dalla fatica 
      e dal freddo che gli penetrava fin dentro le ossa. 
      Poco per volta tutti i componenti della famiglia si risvegliarono: 
      Villefort,   nel   suo   studio,   udì  i  successivi  rumori  che 
      costituiscono, per così dire,  la vita della casa,  le porte messe 
      in  moto,  il tintinnìo del campanello della signora Villefort che 
      chiamava la cameriera,  i primi gridi del bambino  che  si  alzava 
      allegro e contento, come sogliono tutti alla sua età. 
      Villefort   suonò   egli  pure.   Il  suo  nuovo  cameriere  entrò 
      portandogli i giornali. 
      Insieme ai giornali, portava una tazza. 
      "Che cosa mi portate?" domandò Villefort. 
      "Una tazza di cioccolata." 
      "Non l'ho domandata. Chi si prende, dunque, questa cura di me?" 
      "La signora.  Ha detto che  il  signore  oggi  parlerà  molto  nel 
      processo  dell'assassinio,  e  avrà bisogno di qualcosa di forte e 
      caldo." 
      E il cameriere depose sulla tavola vicino  al  sofà,  tavola  come 
      tutte le altre sovraccarica di carte, la tazza d'argento dorata, e 
      poi uscì. 
      Villefort  guardò un istante la tazza col volto cupo,  quindi d'un 
      tratto la prese con un moto rapido, e ne bevve tutto il contenuto. 
      Si sarebbe detto sperasse che questa bevanda fosse stata  mortale, 
      e  invocasse la morte per liberarlo da un dovere che gli comandava 
      una cosa più difficile del morire.  Quindi si alzò e passeggiò per 
      lo studio con una specie di sorriso,  che avrebbe ispirato terrore 
      a chi l'avesse guardato. 
      L'ora della colazione giunse ed il signor Villefort non comparve a 
      tavola. Il cameriere rientrò nello studio. 
      "La signora fa avvertire il signore" disse,  "che sono suonate  le 
      undici, e che l'udienza è per mezzogiorno." 
      "Ebbene..." rispose Villefort. "C'è altro?" 
      "La signora ha fatto la sua toilette,  è pronta, e chiede se verrà 
      in compagnia del signore." 
      "E dove?" 
      "Al Palazzo." 
      "Per far che?" 
      "La signora dice che desidera assistere a questa seduta." 
      "Ah" esclamò Villefort, con un accento quasi spaventoso, "desidera 
      questo?" 
      Il domestico arretrò d'un passo. 
      "Se il signore desidera uscire solo andrò a dirlo alla signora." 
      Villefort restò un istante muto,  accarezzandosi il mento  coperto 
      da una barba nera. 
      "Dite alla signora" rispose finalmente,  "che desidero parlarle, e 
      la prego di aspettarmi nelle sue camere." 
      "Sì, signore." 
      "Poi ritornate per radermi la barba e vestirmi." 
      "Subito." 
      Il cameriere uscì per  tornare  quasi  subito,  rase  la  barba  a 
      Villefort e lo aiutò a vestirsi. Quindi disse: 
      "La  signora  ha  detto  che  aspettava il signore,  appena avesse 
      finito di vestirsi." 
      "Vado." 
      E Villefort,  col plico delle carte sotto il braccio e il cappello 
      in mano si diresse verso l'appartamento di sua moglie.  Alla porta 
      si fermò un istante,  asciugò col fazzoletto  il  sudore  che  gli 
      colava dalla livida fronte, quindi entrò. 
      La  signora  Villefort  era  seduta  su un divano,  sfogliando con 
      impazienza dei giornali e degli opuscoli,  che il giovane  Edoardo 
      si divertiva a mettere in pezzi, prima ancora che sua madre avesse 
      avuto  tempo  di terminarne la lettura.  Era completamente vestita 
      per uscire; il cappello l'aspettava sopra una sedia; s'era messa i 
      guanti. 
      "Eccovi finalmente, signore" disse con voce naturale e calma. "Ma, 
      Dio come siete pallido,  signore!  Avete dunque lavorato tutta  la 
      notte? Perché non siete venuto a far colazione con noi? Allora, mi 
      accompagnerete voi o andrò sola con Edoardo?" 
      La  signora  Villefort,  come  si vede,  aveva moltiplicato le sue 
      domande per ottenere una risposta;  ma a tutte quelle  domande  il 
      signor Villefort era rimasto freddo e muto. 
      "Edoardo"  disse  Villefort,  fissando  sul  bambino  uno  sguardo 
      imperativo,  "andate a giocare in sala,  ho bisogno di  parlare  a 
      vostra madre." 
      La  signora  Villefort  vedendo  quel  freddo contegno,  quel tono 
      risoluto, quegli strani preparativi preliminari, fremette. Edoardo 
      aveva alzato la testa e guardato sua madre,  e,  vedendo  che  non 
      confermava  l'ordine  del  signor  Villefort,  si  era  rimesso  a 
      troncare la testa ai soldati di piombo. 
      "Edoardo!" gridò  il  signor  Villefort  così  rozzamente  che  il 
      bambino balzò sul tappeto. "Avete capito? Andate!" 
      Il  bambino,  non abituato a quel trattamento,  si alzò in piedi e 
      impallidì;  sarebbe stato difficile dire se di collera o di paura. 
      Suo  padre  andò  da lui,  lo prese per un braccio,  e lo baciò in 
      fronte. "Va'" disse, "figlio mio, va'." 
      Edoardo uscì. Il signor Villefort andò alla porta, e la chiuse con 
      doppio giro di chiave. 
      "Oh,  mio Dio!" esclamò la giovane sposa guardando suo marito  fin 
      nel  profondo  dell'anima,  e  sforzandosi ad un sorriso che venne 
      troncato dall'impassibilità di Villefort. "Che cosa c'è dunque?" 
      "Signora,   dove   mettete   il   veleno   di   cui   vi   servite 
      ordinariamente?"   articolò   chiaramente  e  senza  preamboli  il 
      magistrato, postosi fra la moglie e la porta. 
      La signora Villefort provò  quello  che  deve  provare  l'allodola 
      quando  vede  il  falco  stringere i suoi cerchi mortali sulla sua 
      testa.  Un suono rauco,  tronco,  che non era né un grido,  né  un 
      sospiro,  sfuggì dal petto della signora Villefort,  che impallidì 
      fino a diventar livida. 
      "Signore" disse, "io... io non capisco." 
      E siccome si era sollevata  da  un  parossismo  di  terrore  a  un 
      secondo  parossismo,  senza dubbio più forte del primo,  si lasciò 
      ricadere sul cuscino del divano. 
      "Io vi  domandavo"  continuò  Villefort,  con  voce  perfettamente 
      calma, "in quale luogo nascondete il veleno col quale avete ucciso 
      mio suocero,  il signor di Saint-Méran, mia suocera, Barrois e mia 
      figlia Valentina." 
      "Signore" gridò lei giungendo le mani, "che cosa dite?" 
      "Non sta a voi interrogarmi, ma rispondere!" 
      "Al giudice, o al marito?..." balbettò la signora Villefort. 
      "Al giudice, signora, al giudice!" 
      Era terribile vedere il pallore di quella  donna,  l'angoscia  del 
      suo sguardo, il fremito di tutto il suo corpo. 
      "Ah! signore!" mormorò, "ah! signore!" 
      E non disse altro. 
      "Voi non rispondete, signora!" gridò il terribile inquirente. 
      Quindi  soggiunse,  con  un sorriso che spaventava ancor più della 
      sua collera: 
      "Però non negate!" 
      Lei fece un moto. 
      "E non potreste negarlo" aggiunse  Villefort,  stendendo  la  mano 
      verso  di lei come per afferrarla in nome della giustizia.  "Avete 
      compiuto questi  delitti  con  impudente  furberia,  ma  però  non 
      potevate  ingannare  le  persone troppo affezionate alle vittime e 
      non certo disposte ad essere cieche. Fin dalla morte della signora 
      di Saint-Méran,  ho saputo che esisteva un  avvelenatore  in  casa 
      mia,  il  signor  d'Avrigny  mi aveva avvertito.  Dopo la morte di 
      Barrois, Dio mi perdoni!, i sospetti caddero su un angelo,  i miei 
      sospetti,   che,   anche   quando   non   c'è  delitto,   vegliano 
      incessantemente nel fondo del mio  cuore,  ma  dopo  la  morte  di 
      Valentina  non vi è più alcun dubbio per me,  signora,  e non solo 
      per me, ma anche per altri...  Così il vostro delitto,  noto ora a 
      due persone,  sospettato da molti,  diventerà pubblico. E, come vi 
      dicevo, signora, non è più un marito che vi parla, è un giudice!" 
      La giovane sposa nascose il viso fra le mani. 
      "Signore" balbettò, "ve ne supplico, non credete alle apparenze." 
      "Sareste anche vile?" gridò Villefort,  con accento di  disprezzo. 
      "Infatti ho notato che gli avvelenatori sono sempre vili.  Sareste 
      vile,  voi,  che avete avuto l'orribile coraggio di vedere spirare 
      davanti  ai  vostri occhi due vecchi ed una giovane assassinati da 
      voi?" 
      "Signore! signore!" 
      "Sareste vile"  continuò  Villefort,  con  crescente  esaltazione, 
      "voi,  che avete contati ad uno ad uno i minuti di quattro agonie? 
      Voi che avete combinato i vostri piani infernali,  rimescolate  le 
      vostre infami bevande con un'abilità e precisione metodiche!  Voi, 
      che  avete  così  ben  calcolato  tutto,  avreste  dimenticato  di 
      calcolare  una  cosa sola,  cioè che potevate essere condotta alla 
      rivelazione dei vostri delitti?  Oh,  questo è impossibile: voi vi 
      serbate  qualche veleno più dolce,  sottile e mortale degli altri, 
      per sfuggire alla punizione che  vi  è  dovuta...  Voi  lo  avrete 
      fatto, almeno lo spero." 
      La signora Villefort si contorse le mani e cadde in ginocchio. 
      "Lo so bene...  Io so bene" incalzò Villefort,  "voi confessate... 
      Ma  la  confessione  fatta  ai  giudici,   la  confessione   fatta 
      nell'ultimo  momento,  la  confessione fatta quando non si può più 
      negare,  è una confessione che non  diminuisce  la  punizione  che 
      devono infliggere al colpevole!" 
      "La  punizione!"  gridò  la  signora  Villefort,   "la  punizione! 
      Signore, voi avete pronunziato due volte questa parola!" 
      "Senza dubbio.  Forse che,  per essere  quattro  volte  colpevole, 
      avete  creduto  di sfuggirla?  forse che,  per essere la moglie di 
      quello che domanda la punizione degli altri rei,  avete creduto di 
      eludere la vostra punizione?  No,  signora,  no!  Chiunque sia, il 
      patibolo aspetta l'avvelenatore, se, soprattutto,  come vi dicevo, 
      l'avvelenatore  non  ha  avuto  cura  di conservare per sé qualche 
      goccia del suo più mortale veleno." 
      La signora Villefort mandò un grido selvaggio,  ed un ributtante e 
      indomabile terrore invase i suoi lineamenti scomposti. 
      "Oh, non temete il patibolo, signora" disse il magistrato. "Io non 
      voglio disonorarvi, perché sarebbe un disonorare me stesso, no, al 
      contrario,  se  mi  avete ben inteso,  dovete avere capito che non 
      potete morire su un patibolo." 
      "No,  non ho capito cosa  volete  dire"  balbettò  la  disgraziata 
      completamente abbattuta. 
      "Voglio dire che la moglie del primo magistrato della capitale non 
      macchierà  con  la  sua  infamia  un nome rimasto intemerato e non 
      disonorerà nel medesimo tempo suo marito e suo figlio." 
      "No! Oh, no!" 
      "Ebbene, signora, questa sarà una buona azione da parte vostra,  e 
      di questa buona azione vi ringrazio." 
      "Voi mi ringraziate? e di che?" 
      "Di ciò che avete detto." 
      "E  che cosa ho detto?  Io ho perduto la testa,  non comprendo più 
      niente!" 
      E si alzò coi capelli sparsi, le labbra schiumanti. 
      "Non avete ancora risposto, signora,  alla domanda che vi ho fatta 
      entrando qui: dove avete il veleno di cui abitualmente vi servite, 
      signora?" 
      La   signora   Villefort   alzò   le  braccia  al  ciclo  e  batté 
      convulsamente le mani l'una contro l'altra. 
      "No. no" gridò, "no, voi non volete questo!" 
      "Ciò che io non voglio, signora, è che compariate sul patibolo, mi 
      capite?" disse Villefort. 
      "Oh, signore, grazia!" 
      "Ciò che io voglio è che sia fatta giustizia.  Io sono sulla terra 
      per  punire,  signora"  ribadì  il  procuratore,  con  uno sguardo 
      fiammeggiante,  "e tutt'altra donna,  fosse anche una  regina,  la 
      manderei  al carnefice!  Ma con voi sarò misericordioso.  Io vi ho 
      detto: non avete,  signora,  conservato qualche goccia del  vostro 
      veleno più dolce, più pronto, più sicuro?" 
      "Perdonatemi, signore, lasciatemi vivere!" 
      "E vile!" disse Villefort. 
      "Pensate che sono vostra moglie!" 
      "Penso che siete un'avvelenatrice." 
      "In nome del cielo..." 
      "No!" 
      "In nome dell'amore che avete avuto per me!" 
      "No! no!" 
      "In  nome  di  nostro figlio!  Ah,  per nostro figlio,  lasciatemi 
      vivere!" 
      "No! no!  No,  vi dico.  Se vi lascio vivere,  verrà un giorno che 
      ucciderete lui pure come tutti gli altri." 
      "Io   uccidere   mio   figlio?"   gridò  quella  madre  selvaggia, 
      slanciandosi verso Villefort. "Io uccidere il mio Edoardo!...  Ah! 
      ah! ah!" 
      E un riso spaventoso un riso da demonio, un riso da pazza compì la 
      frase e si perdette in un rantolo sanguinoso. La signora Villefort 
      era caduta ai piedi di suo marito; Villefort le si avvicinò. 
      "Pensateci,  signora" disse, "se al mio ritorno, non è stata fatta 
      giustizia, vi denunzio io stesso,  e vi arresto con le mie proprie 
      mani." 
      Lei ascoltava ansimante,  abbattuta,  oppressa: il suo occhio solo 
      viveva in lei, e scopriva un fuoco terribile. 
      "Voi m'intendete!" disse  Villefort.  "Io  vado  alla  seduta  per 
      chiedere la morte di un assassino...  Se al mio ritorno vi ritrovo 
      viva, stasera dormirete alla Conciergerie." 
      La signora Villefort mandò un sospiro,  i suoi nervi si distesero, 
      stramazzò  sul  tappeto.  Il  regio  procuratore sembrò provare un 
      movimento di pietà,  la  guardò  meno  severamente,  e  chinandosi 
      leggermente su di lei: 
      "Addio, signora" disse, "addio!" 
      Questo   addio   trafisse   mortalmente  il  cuore  della  signora 
      Villefort, che svenne. Il procuratore uscì, e, nell'uscire, chiuse 
      la porta a doppio giro. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 108. 
                                  LE ASSISE. 
 
 
      Il fatto di Benedetto, come si diceva allora al Palazzo e nel gran 
      mondo,  aveva prodotto una gran sensazione.  Uno dei frequentatori 
      del Caffè di Parigi, del boulevard di Gand e del Bois de Boulogne, 
      il  falso Cavalcanti,  durante il tempo che era rimasto a Parigi e 
      nei due o tre mesi ch'era durato il  suo  splendore,  aveva  fatto 
      molte  conoscenze.   I  giornali  avevano  raccontato  le  diverse 
      avventure dell'imputato nella sua vita elegante e nella  sua  vita 
      di  galera,  e  ne  risultava  la  storia più viva e curiosa,  per 
      coloro,  particolarmente,  che avevano conosciuto  di  persona  il 
      principe Andrea Cavalcanti. Per cui erano tutti decisi a rischiare 
      qualunque  cosa  per  andare  a vedere sul banco degli accusati il 
      signor Benedetto,  l'assassino del suo  compagno  di  catena.  Per 
      molti  Benedetto era,  se non una vittima,  almeno un errore della 
      giustizia: si era visto a Parigi il signor Cavalcanti padre,  e si 
      aspettava  di  vederlo  di  nuovo  comparire  per reclamare il suo 
      illustre rampollo.  Un buon numero di persone che non avevano  mai 
      sentito  parlare  del  famoso soprabito alla polacca col quale era 
      piovuto dal conte di Montecristo,  erano rimaste colpite dall'aria 
      di  dignità,  dalla  nobiltà  e stile mondano mostrati dal vecchio 
      patrizio, il quale,  bisogna dirlo,  sembrava un signore perfetto, 
      tutte  le volte che non parlava o non faceva calcoli d'aritmetica. 
      In quanto allo stesso accusato,  molte persone si  ricordavano  di 
      averlo visto così abile,  così bello, così prodigo che preferivano 
      credere a qualche macchinazione da parte di un nemico,  come se ne 
      trova in questo mondo, in cui le grandi fortune elevano i mezzi di 
      fare  il  male  ed  il  bene  all'altezza  della perfezione o alla 
      potenza dell'inaudito.  Ciascuno accorse dunque alla seduta  della 
      Corte d'assise,  gli uni per gustare lo spettacolo,  gli altri per 
      commentarlo.  Fino dalle sette del  mattino  si  faceva  ressa  al 
      cancello,  e un'ora prima dell'apertura della seduta,  la sala era 
      già piena di privilegiati. 
      Prima dell'ingresso della corte,  e qualche volta anche dopo,  una 
      sala  d'udienza nei giorni dei gran processi somiglia molto ad una 
      sala di conversazione,  in cui molte persone  si  riconoscono,  si 
      parlano,  quando  sono  abbastanza vicine le une alle altre da non 
      perdere i loro posti, o si fanno segni, quando sono separate da un 
      troppo gran numero di persone, d'avvocati e di gendarmi. 
      Era una di quelle magnifiche  giornate  di  autunno,  che  qualche 
      volta  ci  compensano  di un'estate corta o temporalesca: le nubi, 
      che il signor Villefort aveva visto  la  mattina  velare  il  sole 
      nascente,   si  erano  dissipate  come  per  magia,  e  lasciavano 
      risplendere in tutta la sua purezza uno degli ultimi,  uno dei più 
      bei giorni di settembre. Beauchamp, uno dei re della stampa e che, 
      di conseguenza, aveva il suo trono riservato dappertutto, guardava 
      con l'occhialino a destra e a sinistra.  Scoperse Chateau-Renaud e 
      Debray,  ch'erano giunti a  guadagnarsi  le  buone  grazie  di  un 
      sergente di città, e lo avevano convinto a mettersi dietro di loro 
      invece di star davanti,  come sarebbe stato suo diritto.  Il degno 
      agente aveva fiutato il segretario del ministro ed il  milionario; 
      e  si  mostrò pieno di riguardi per i suoi nobili vicini,  permise 
      persino che andassero a fare una visita a  Beauchamp,  promettendo 
      di conservare loro i posti. 
      "Evviva!" disse Beauchamp. "Eccoci qui a vedere il nostro amico." 
      "Eh,  mio Dio,  sì" aggiunse Debray,  "questo degno principe.  Che 
      vadano al diavolo tutti i principi senza principato!" 
      "Un uomo che ha avuto Dante per antenato, e che risale alla Divina 
      Commedia!" 
      "Nobiltà  da  corda"  disse  con  flemma   Chateau-Renaud.   "Sarà 
      condannato, non è vero?" domando Debray a Beauchamp. 
      "Eh, caro mio" rispose il giornalista, "mi pare che questa domanda 
      dobbiamo  farla  a voi,  che conoscete meglio di noi gli uffizi... 
      Avete visto il presidente all'ultima serata del ministro?" 
      "Sì." 
      "E che cosa vi ha detto?" 
      "Cosa che vi sorprenderà." 
      "Parlate  presto,  allora,  amico  mio,  è  tanto  tempo  che  non 
      dissertiamo su tale argomento." 
      "Mi  ha  detto che Benedetto,  considerato poco meno di una fenice 
      per l'astuzia, e un gigante di furberia, non è che un borsaiolo da 
      strapazzo e stupido,  e del tutto indegno delle  autopsie  che  si 
      faranno dopo la sua morte per studiarne la criminalità." 
      "Bah, però rappresentava passabilmente la parte di principe" disse 
      Beauchamp. 
      "Per  voi,  che  detestate  questi  disgraziati  principi  e siete 
      lietissimo ogni qualvolta  potete  trovare  in  loro  qualcosa  da 
      biasimare.  Ma non per me, che adoro per istinto la nobiltà, e che 
      fiuto una famiglia aristocratica,  qualunque sia,  da vero  bracco 
      del blasone." 
      "Così, voi non avete mai creduto al suo principato?" 
      "Alla sua aria da principe, sì... al suo principato, no." 
      "Non c'è male" disse Debray. "Vi assicuro però, che per tutt'altri 
      poteva passare... L'ho constatato nei ministri." 
      "Ah,  sì" disse Chateau-Renaud,  "sì davvero che i nostri ministri 
      s'intendono di principi!" 
      "Vi è del buon senso in quanto  dite,  Chateau-Renaud"  intervenne 
      Beauchamp ridendo clamorosamente: "la frase è corta,  ma bella. Vi 
      chiedo il permesso di poterne usare nel mio articolo." 
      "Prendetela,  mio caro  signor  Beauchamp"  disse  Chateau-Renaud, 
      "prendetela, vi regalo la frase per quanto vale." 
      "Ma"  disse  Debray a Beauchamp,  "se io ho parlato al presidente, 
      voi dovete aver parlato al regio procuratore..." 
      "Impossibile!  Da otto giorni il signor Villefort si tiene celato, 
      ed  è  naturale:  quella  strana  sequela di dispiaceri domestici, 
      coronati dalla morte non meno strana di sua figlia..." 
      "Morte strana! Che ne dite dunque, Beauchamp?" 
      "Mi fate dunque l'ingenuo,  col pretesto che  quanto  riguarda  la 
      nobiltà di toga non lo sapete" disse Beauchamp applicando la lente 
      all'occhio e sforzandosi di tenerla ferma col sopracciglio. 
      "Mio  caro  signore" disse Chateau-Renaud,  "permettetemi di dirvi 
      che,  nel tenere la lente,  voi non  avete  l'abilità  di  Debray. 
      Debray, date dunque una lezione al signor Beauchamp." 
      "Osservate" disse Beauchamp, "non mi sbaglio." 
      "In che cosa?" 
      "E' lei." 
      "Chi?" 
      "Dicevano che fosse partita." 
      "La  signorina  Eugenia?"  domandò  Chateau-Renaud.  "Sarebbe  già 
      tornata?" 
      "No, sua madre." 
      "La signora Danglars?" 
      "Ma no" disse Chateau-Renaud, "è impossibile: dieci giorni dopo la 
      fuga di sua figlia, tre giorni dopo il fallimento di suo marito?" 
      Debray arrossì leggermente,  e seguì la direzione dello sguardo di 
      Beauchamp. 
      "No" disse,  "è una donna velata,  una donna sconosciuta,  qualche 
      principessa  straniera,   forse  anche  la  madre   del   principe 
      Cavalcanti...  Ma voi dicevate, o piuttosto volevate dire una cosa 
      molto interessante, Beauchamp, mi sembra..." 
      "Io?" 
      "Sì, parlavate della strana morte di Valentina." 
      "Ah,  sì,  è vero...  Ma perché dunque la signora Villefort non  è 
      qui?" 
      "Povera  e  cara donna!" disse Debray.  "Senza dubbio è occupata a 
      distillare acqua  di  melissa  per  gli  ospedali,  e  a  comporre 
      cosmetici  per  sé e per le sue amiche.  Voi sapete che spende per 
      questo passatempo due o tremila scudi ogni anno, a quanto si dice? 
      Ma veniamo al fatto,  voi avete ragione,  perché mai non è qui  la 
      signora Villefort? L'avrei vista con molto piacere, mi piace molto 
      quella donna." 
      "Io no" disse Chateau-Renaud, "io la detesto." 
      "Perché?" 
      "Non lo so.  Da dove viene in noi l'amore e l'odio?  Io la detesto 
      per antipatia." 
      "Oh sempre per istinto!" 
      "Può darsi... Ma torniamo a ciò che dicevate, Beauchamp..." 
      "Dicevo?..." riprese Beauchamp. "Ah sì... Non desiderate, signori, 
      sapere perché si muore così di frequente e all'improvviso in  casa 
      Villefort?" 
      "Di frequente! La parola è bella" disse Chateau-Renaud. 
      "Caro  mio,  la  parola  è  vera in casa del signor Villefort!  Ma 
      torniamo a lui..." 
      "Per parte mia" disse Debray,  "vi confesso che non perdo di vista 
      quella  casa  in  lutto da tre mesi,  e ieri l'altro,  a proposito 
      della morte di Valentina,  la signora mi diceva che avrebbe voluto 
      saperne di più." 
      "E chi è la signora?" domandò Chateau-Renaud. 
      "La moglie del ministro, perbacco!" 
      "Ah, scusate" disse Chateau-Renaud, "non vado dai ministri, lascio 
      che ci vadano i principi." 
      "Voi non eravate che bello, ora diventate fulminante, caro barone; 
      abbiate  pietà  di  noi,  altrimenti  ci brucerete come un novello 
      Giove." 
      "Non dirò più niente" disse Chateau-Renaud. "Ma, diavolo!, abbiate 
      pietà di me, non mi rendete la pariglia." 
      "Via,  cerchiamo di concludere il nostro  dialogo,  Beauchamp,  vi 
      dicevo   dunque   che   ieri   l'altro  la  signora  mi  domandava 
      informazioni su questo argomento, istruitemi, e io istruirò lei." 
      "Ebbene,  signori,  se si muore così  di  frequente,  mantengo  la 
      frase, in casa Villefort, e perché nella casa c'è un assassino." 
      I  due  giovani  rabbrividirono,  poiché  più d'una volta era loro 
      venuta la stessa idea. 
      "E chi è questo assassino?" domandarono ad un tempo. 
      "Il giovane Edoardo." 
      Lo scoppio di risa  dei  due  uditori  non  sconcertò  per  niente 
      l'oratore, che continuò: 
      "Sì, signori, il giovane Edoardo, criminale precoce che uccide già 
      come il padre e la madre." 
      "E' uno scherzo?" 
      "Niente  affatto;  ieri  ho  assunto  uno  dei  domestici che si è 
      licenziato dalla casa del signor Villefort... Ascoltate ciò che mi 
      ha detto." 
      "Ascoltiamo." 
      "Intanto vi dirò che quel cameriere lo licenzierò presto  anch'io, 
      perché  mangia  enormemente  per rimettersi dal digiuno che si era 
      imposto per terrore in quella casa... Ma lasciamo perdere. Dunque, 
      sembra che quel caro  bambino  abbia  messo  la  mano  su  qualche 
      boccetta   di  droghe,   e  che  le  usi  contro  quelli  che  gli 
      dispiacciono.  Per primo toccò al nonno ed alla  nonna  di  Saint- 
      Méran,  che  gli  erano  antipatici  e  versò alcune gocce del suo 
      elisir: tre gocce bastano; quindi toccò al bravo Barrois,  vecchio 
      servitore  di  nonno Noirtier,  il quale sgridava spesso l'amabile 
      monello che conoscete: l'amabile monello gli versò tre  gocce  del 
      suo elisir,  e fu fatta;  così accadde pure alla povera Valentina, 
      che non lo sgridava, ma di cui era geloso: versò tre gocce,  e per 
      lei come per gli altri fu questione di poche ore." 
      "Ma che diavolo di racconto ci fate?" disse Chateau-Renaud. 
      "Sì" disse Beauchamp, "un racconto dell'altro mondo non è vero?" 
      "E' un'assurdità" disse Debray. 
      "Ecco"  riprese  Beauchamp,  "ecco  che  già  cercate delle scuse! 
      Diavolo,  domandatelo al mio domestico,  o piuttosto a quello  che 
      presto  non  sarà più il mio domestico: questa è la voce che corre 
      in tutta la famiglia." 
      "Ma questo elisir dov'è? Qual è?" 
      "Diamine! L'amabile bimbo lo nasconde." 
      "Dove l'ha preso?" 
      "Nel laboratorio di sua madre." 
      "Sua madre ha dunque dei veleni nel suo laboratorio?" 
      "Lo so io forse?  Mi fate delle domande da regio  procuratore.  Io 
      ripeto quanto mi è stato detto, ecco tutto. Vi cito nome e autore, 
      non  posso  fare di più.  Il povero diavolo non mangiava più dallo 
      spavento." 
      "E' incredibile!" 
      "Ma no,  mio caro,  non è incredibile del tutto: voi avete sentito 
      l'anno  scorso  di quel bimbo della rue Richelieu che si divertiva 
      ad uccidere i suoi fratelli e le sue sorelle ficcando spille nelle 
      orecchie mentre dormivano.  La nuova generazione è molto  precoce, 
      mio caro!" 
      "Caro  mio"  disse Chateau-Renaud,  "scommetto che non credete una 
      parola di tutto ciò che ci avete raccontato...  Ma io non vedo  il 
      conte di Montecristo... Come mai non è qui?" 
      "E'  annoiato" disse Debray,  "e poi non vorrà comparire davanti a 
      tutti,  lui,  che è stato ingannato da questi Cavalcanti,  che gli 
      sono stati presentati con false credenziali,  si trova scoperto di 
      un centinaio di mille franchi, ipotecati sul loro principato...  A 
      proposito,  signor  Chateau-Renaud"  domandò Beauchamp,  "come sta 
      Morrel?" 
      "Non so cosa dirvi" disse il gentiluomo.  "Sono stato tre volte  a 
      casa sua, non l'ho mai trovato, però sua sorella non mi è sembrata 
      inquieta, e mi ha detto, con molta gentilezza, che non lo vede più 
      da due o tre giorni, ma è certa che sta bene." 
      "Ma ora che ci penso, il conte di Montecristo non può venire nella 
      sala" disse Beauchamp. 
      "E perché?" 
      "Perché è attore nel dramma." 
      "Ha forse lui stesso assassinato qualcuno?" domandò Debray. 
      "Ma no,  è lui,  al contrario,  che hanno voluto assassinare.  Voi 
      sapete bene che quel degno signor Caderousse  fu  assassinato  dal 
      suo  giovane amico Benedetto intanto che usciva dalla sua casa,  e 
      che in quella casa fu trovato quel famoso panciotto nel quale  era 
      la lettera che venne a sconvolgere la serata del fidanzamento. Non 
      lo vedete il famoso panciotto?  E' là tutto insanguinato come capo 
      d'imputazione." 
      "Quello?" 
      "Zitti, signori! Ecco la corte! Ai nostri posti..." 
      Infatti si sentì un gran rumore nel pretorio: il sergente di città 
      richiamò i due chiacchieroni con un hem!  energico,  e  l'usciere, 
      comparendo sulla soglia della sala del tribunale, gridò con quella 
      voce aspra che gli uscieri avevano fin dal tempo di Beaumarchais: 
      "La Corte, signori!" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 109. 
                               L'ATTO D'ACCUSA. 
 
 
      I  giudici  si sedettero sui loro scranni in mezzo al più profondo 
      silenzio;  i giurati si  sistemarono  al  loro  posto;  il  signor 
      Villefort, oggetto dell'attenzione e diremo quasi dell'ammirazione 
      generale,  si pose sulla sua sedia, girando uno sguardo tranquillo 
      intorno a sé.  Ciascuno guardava con meraviglia  quella  fisonomia 
      grave  e  severa,  sulla  cui  impassibilità sembrava che i dolori 
      personali non avessero potere;  si  guardava  con  una  specie  di 
      terrore quell'uomo estraneo alle emozioni dell'umanità. 
      "Gendarmi!" disse il presidente, "conducete l'accusato." 
      A  queste  parole,  la pubblica attenzione divenne più intensa,  e 
      tutti gli occhi si  fissarono  sulla  porta,  dalla  quale  doveva 
      entrare  Benedetto.  Ben  presto  la  porta  si  aprì,  e comparve 
      l'imputato. 
      L'impressione  fu  la  stessa  su  tutti,   e  nessuno   s'ingannò 
      all'espressione  della  sua  fisonomia.   I  suoi  lineamenti  non 
      tradivano quella profonda emozione che fa affluire  il  sangue  al 
      cuore e scolora la fronte e le guance.  Le sue mani, graziosamente 
      poste,  una per tenere il cappello,  l'altra all'apertura del  suo 
      gilè di piqué bianco,  non erano agitate da alcun fremito;  il suo 
      occhio era calmo ed anzi brillante. Appena entrato nella sala,  lo 
      sguardo del giovane scrutò rapidamente tutte le file dei giudici e 
      degli  assistenti,   e  si  fermò  lungamente  sul  presidente,  e 
      particolarmente sul regio procuratore.  Vicino ad Andrea  si  pose 
      l'avvocato  difensore,  avvocato nominato d'ufficio (poiché Andrea 
      non aveva voluto occuparsi di questi dettagli,  ai quali  sembrava 
      non  annettere  alcuna importanza).  L'avvocato era un giovane dai 
      capelli d'un biondo chiaro,  il viso rosso per  un'emozione  cento 
      volte più sensibile di quella dell'accusato. 
      Il presidente chiese la lettura dell'atto d'accusa,  redatto, come 
      si sa,  dalla penna abile ed implacabile di Villefort.  Durante la 
      lettura,  che  fu  lunga,  e  che,  per tutt'altri,  sarebbe stata 
      opprimente,  la pubblica attenzione non cessò di osservare Andrea, 
      che  ne  sostenne  il  peso  con  la  tranquillità  d'animo di uno 
      spartano.  Mai forse Villefort  era  stato  così  conciso  e  così 
      eloquente.  Il  delitto era rappresentato sotto i colori più vivi: 
      gli  antecedenti  del  prigioniero,   la   sua   metamorfosi,   la 
      figliazione  dei  suoi atti da un'età molto tenera,  erano dedotti 
      con tutto il talento che la pratica della vita e la conoscenza del 
      cuore umano potevano suggerire ad uno spirito  così  elevato  come 
      quello del regio procuratore. Con questo solo preambolo, Benedetto 
      era  perduto per sempre nella pubblica opinione,  mentre aspettava 
      che fosse punito concretamente dalla legge. 
      Andrea non prestò la minima attenzione alle successive accuse  che 
      si  elevavano  e  ricadevano  su lui: il signor Villefort,  che lo 
      esaminava  spesso,  e  che  senza  dubbio,  continuava  gli  studi 
      psicologici che aveva avuto così spesso occasione di fare su altri 
      accusati,  il  signor  Villefort  non  poté  una sola volta fargli 
      abbassare gli occhi,  per quanta fosse la fermezza e la profondità 
      del suo sguardo. 
      Finalmente terminò la lettura. 
      "Accusato"  disse  il  presidente,  "il  vostro  nome  e il vostro 
      cognome?" 
      Andrea si alzò. 
      "Perdonatemi" disse con voce calma,  "vedo  che  intraprendete  un 
      ordine  di  domande  nel quale non posso seguirvi.  Ho la pretesa, 
      della quale darò spiegazioni in seguito,  di  essere  un'eccezione 
      tra i comuni accusati.  Vogliate dunque,  ve ne prego, permettermi 
      di rispondere seguendo un ordine diverso; non risponderò neppure a 
      tutto." 
      Il presidente sorpreso guardò i giurati,  che guardarono il  regio 
      procuratore.  Un grande stupore si manifestò in tutta l'assemblea. 
      Ma Andrea non parve per niente farci caso. 
      "La vostra età?"  disse  il  presidente.  "Risponderete  a  questa 
      domanda?" 
      "A questa,  come alle altre,  risponderò,  signor presidente, ma a 
      suo tempo." 
      "La vostra età?" ripeté il magistrato. 
      "Ho ventun'anni,  o piuttosto li avrò fra qualche giorno,  essendo 
      nato  nella  notte  fra  il  ventisette  e  il  ventotto settembre 
      milleottocentodiciassette." 
      Il signor Villefort, che era occupato a prendere una nota, alzò la 
      testa nel sentire quella data. 
      "Dove siete nato?" continuò il presidente. 
      "Ad Auteuil, vicino a Parigi" rispose Benedetto. 
      Il signor Villefort  alzò  una  seconda  volta  la  testa,  guardò 
      Benedetto  come  se avesse guardato la testa di Medusa,  e divenne 
      livido. In quanto a Benedetto,  si portò graziosamente alle labbra 
      l'angolo di un fazzoletto di fine batista. 
      "La vostra professione?" domandò il presidente. 
      "Prima  ho  fatto  il  falsario"  disse  Andrea,  con  la  massima 
      tranquillità,  "in  seguito  sono  passato  a  fare  il  ladro,  e 
      recentemente mi sono fatto assassino." 
      Un  mormorio,  o  piuttosto  una  tempesta  di  indignazione  e di 
      sorpresa scoppiò in tutte le parti della sala; i giudici stessi si 
      guardarono  stupefatti,   i  giurati  manifestarono  il  più  gran 
      disgusto  per  quel cinismo,  che proprio non si aspettavano da un 
      uomo elegante. 
      Il signor Villefort appoggiò una mano sulla fronte,  che,  pallida 
      dapprima,  era  divenuta  rossa e bollente;  ad un tratto si alzò, 
      guardando intorno a sé come un  uomo  impazzito:  gli  mancava  il 
      respiro. 
      "Cercate qualche cosa,  signor procuratore?" domandò Benedetto col 
      sorriso più cortese. 
      Il signor Villefort non rispose;  tornò a sedersi,  o,  per meglio 
      dire, ricadde sul suo seggio. 
      "E'  forse  adesso,  accusato,  che  acconsentite a dire il vostro 
      nome?" domandò il presidente.  "L'affettazione brutale  che  avete 
      messa   nell'enumerare   i  vostri  differenti  delitti,   da  voi 
      qualificati per vostra professione, quella specie di punto d'onore 
      cui vi attaccate, cosa di cui, in nome della morale e del rispetto 
      dovuto all'umanità,  la Corte deve  biasimarvi  severamente,  ecco 
      forse  la  ragione  che  vi  ha fatto ritardare nel dire il vostro 
      nome,  volevate far spiccare questo nome nel mezzo dei titoli  che 
      lo precedono." 
      "Pare incredibile, signor presidente" disse Benedetto, col tono di 
      voce  più  dolce e con le maniere più gentili,  "che abbiate letto 
      così bene nel fondo del mio pensiero,  è questo infatti lo  scopo, 
      per cui vi pregai di invertire l'ordine delle domande." 
      Lo stupore era al colmo;  non c'era più nelle parole dell'accusato 
      né sfrontatezza,  né cinismo: l'uditorio emozionato presentiva  un 
      qualche fulmine rumoreggiante nel fondo di questa tetra nube. 
      "Ebbene" disse il presidente, "il vostro nome?" 
      "Non  posso dirvi il mio nome,  perché non lo so,  ma so quello di 
      mio padre, e posso dirvelo." 
      Un doloroso offuscamento accecò Villefort;  si videro cadere dalle 
      sue guance alcune gocce di acre sudore sui fogli,  che rimescolava 
      con mano convulsa e smarrita. 
      "Allora dite il nome di vostro padre" riprese il presidente. 
      Non un soffio,  non un  respiro  turbava  il  silenzio  di  quella 
      immensa assemblea; tutti aspettavano. 
      "Mio padre è un regio procuratore" rispose tranquillamente Andrea. 
      "Regio   procuratore?"  disse  con  stupore  il  presidente  senza 
      rilevare lo sconvolgimento che si  notava  sul  volto  del  signor 
      Villefort. "Regio procuratore!" 
      "Sì,  e  poiché  volete sapere il suo nome,  ve lo dirò: si chiama 
      Villefort!" 
      L'esplosione così lungamente trattenuta dal rispetto che si  porta 
      alla giustizia,  scoppiò come un tuono dal fondo di tutti i petti; 
      la Corte stessa non pensò a reprimere quel moto della moltitudine. 
      Le  imprecazioni,  le  ingiurie  scagliate  contro  Benedetto  che 
      rimaneva impassibile, i gesti energici, il movimento dei gendarmi, 
      il  sogghigno di quella parte fangosa che,  in tutte le assemblee, 
      sale alla superficie nei momenti  di  commozione  e  di  scandalo, 
      tutto ciò durò cinque minuti, prima che i magistrati e gli uscieri 
      fossero riusciti a ristabilire il silenzio. 
      In  mezzo  a  quel  rumore  si  sentiva la voce del presidente che 
      gridava: 
      "Vi prendete gioco della giustizia,  accusato,  e oserete dare  ai 
      vostri  concittadini  lo  spettacolo  di  una  corruzione che,  in 
      un'epoca che tuttavia non lascia niente a desiderare sotto  questo 
      rapporto, non avrebbe ancora avuto l'eguale?" 
      Dieci  persone  si  erano  con  premura affollate attorno al regio 
      procuratore,  a metà oppresso sul  suo  seggio,  e  gli  offrivano 
      consolazioni,  incoraggiamenti, proteste di zelo e di simpatia. La 
      calma si era ristabilita nella sala,  tranne in un punto  dove  si 
      agitava e si urtava un gruppo abbastanza numeroso. Era svenuta una 
      donna,  si  diceva;  le  si  erano fatti respirare dei sali,  e si 
      andava rimettendo. 
      Andrea,  durante tutto questo tumulto,  aveva  voltato  la  faccia 
      sorridente  verso  l'assemblea,  quindi appoggiandosi con una mano 
      sul riparo di quercia del suo banco e ciò nella posa più elegante: 
      "Signori" disse,  "non crediate che  io  cerchi  di  insultare  la 
      Corte,  e di fare,  in presenza di questa onorevole assemblea,  un 
      inutile scandalo.  Mi  domandano  quanti  anni  ho,  lo  dico;  mi 
      domandano dove sono nato,  rispondo; mi domandano il mio nome, non 
      posso dirlo,  poiché i miei  genitori  mi  hanno  abbandonato.  Ma 
      posso,  senza dirvi il mio nome,  poiché non lo so, dire quello di 
      mio padre: ora, lo ripeto, mio padre si chiama signor Villefort, e 
      sono pronto a provarlo." 
      Nell'accento del giovane  c'era  una  certezza,  una  convinzione, 
      un'energia  che  ridussero il tumulto al silenzio.  Gli sguardi si 
      volsero un momento sul procuratore, che conservava, nel suo posto, 
      la immobilità di un uomo che il fulmine abbia mutato in cadavere. 
      "Signori" continuò Andrea, esigendo il silenzio col gesto e con la 
      voce, "io vi devo la prova e la spiegazione delle mie parole." 
      "Ma" gridò il presidente  irritato,  "nell'istruttoria  voi  avete 
      dichiarato di chiamarvi Benedetto, avete detto di essere orfano, e 
      indicato la Corsica per vostra patria!" 
      "Nell'istruttoria  ho  detto ciò che mi conveniva di dire,  perché 
      non volevo s'indebolisse o si sospendesse,  cosa che  non  sarebbe 
      mancata  di accadere,  il fragore solenne che volevo dare alle mie 
      parole.  Ora vi ripeto che sono nato ad Auteuil  nella  notte  dal 
      ventisette al ventotto settembre milleottocento...  diciassette, e 
      che sono figlio del signor  regio  procuratore  Villefort.  Volete 
      alcuni particolari?  Sono pronto a darveli.  Nacqui al primo piano 
      della casa numero 28, rue de la Fontaine,  in una camera parata di 
      damasco  rosso.  Mio padre mi raccolse nelle sue braccia dicendo a 
      mia madre che ero morto, mi avvolse in un pannolino marcato con le 
      lettere "Elle" ed  "Enne",  e  mi  portò  entro  una  cassetta  in 
      giardino, ove mi seppellì vivo." 
      Un  fremito  percorse  tutti  gli  astanti,  quando  videro che la 
      sicurezza dell'imputato ingigantiva col  crescere  dello  spavento 
      del signor Villefort. 
      "Ve  lo  dirò,  signor presidente.  Nel giorno in cui mio padre mi 
      aveva sepolto, si era introdotto, quella notte stessa, un uomo che 
      lo odiava mortalmente,  e che lo  appostava  da  lungo  tempo  per 
      compiere  su  di  lui  una vendetta corsa.  L'uomo si era nascosto 
      dietro un albero;  egli vide mio padre nascondere un involto sotto 
      terra, e lo colpì con un colpo di coltello mentre terminava questa 
      operazione;   quindi,  credendo  che  questo  involto  nascondesse 
      qualche  tesoro,   lo  dissotterrò  e  mi  ritrovò  ancora   vivo. 
      Quest'uomo mi portò all'ospizio dei trovatelli,  dove fui iscritto 
      sotto il numero 37.  Tre mesi dopo,  una donna fece il viaggio  da 
      Rogliano  a  Parigi  per  venirmi  a cercare,  mi reclamò come suo 
      figlio e mi portò con sé.  Ecco in che modo,  quantunque  nato  ad 
      Auteuil, fui allevato in Corsica." 
      Ci fu un momento di silenzio,  ma un silenzio profondo,  che senza 
      l'ansietà che si vedeva  respirare  da  mille  petti,  si  sarebbe 
      creduta vuota la sala. 
      "Continuate" disse la voce del presidente. 
      "Certamente"  continuò  Benedetto,  "potevo  essere  felice presso 
      quella brava gente,  che mi adorava,  ma la mia natura,  non so se 
      perversa sin dalla nascita, o divenuta criminale in questa società 
      di  gente  violenta,  o  se  col  passare degli anni,  inasprita e 
      corrotta,  la mia natura,  dicevo,  alla fine la vinse su tutte le 
      virtù  che  mia  madre  adottiva cercava di insegnarmi: crebbi nel 
      male,  e giunsi a commettere delitti.  Un giorno in cui maledicevo 
      la  provvidenza  per  avermi  fatto,   dicevo,   così  perverso  e 
      precipitato in una condizione così abbietta, mio padre adottivo mi 
      disse: "Non bestemmiare,  disgraziato!  Poiché Dio ti ha dato alla 
      luce senza collera, il delitto viene da tuo padre, e non da te, né 
      da  altri,  da  tuo padre che ti aveva destinato all'inferno se tu 
      morivi,  alla miseria se un miracolo ti conservava  in  vita".  Da 
      quel  giorno  cessai  di bestemmiare,  ma maledii mio padre!  Ecco 
      perché ho fatto qui sentire le parole che voi,  signor presidente, 
      mi avete rimproverato, ecco perché ho provocato lo scandalo di cui 
      freme  ancora  quest'assemblea.  Se  questo  è  un  delitto di più 
      punitemi, ma se vi ho convinto che dal giorno in cui nacqui il mio 
      destino fu fatale, doloroso, lamentevole, amaro, compiangetemi!" 
      "Ma vostra madre?" domandò il presidente. 
      "Mia madre mi credeva morto: mia madre non era colpevole.  Non  ho 
      voluto sapere il nome di mia madre, non la conosco." 
      In  quel  momento un grido acuto,  che terminò in un singulto,  si 
      levò dal gruppo che circondava, come abbiamo detto, una donna che, 
      assalita da violenti tremiti,  fu portata fuori dal pretorio.  Nel 
      trasportarla,  il fitto velo che nascondeva il suo viso si scostò, 
      e fu riconosciuta la signora Danglars. 
      Malgrado l'oppressione dei sensi snervati,  e il  ronzio  che  gli 
      fremeva  alle  orecchie,  malgrado  una  specie  di follia che gli 
      sconvolgeva il cervello, Villefort la riconobbe, e si alzò. 
      "Le prove!  le prove!" disse il presidente.  "Accusato,  ricordate 
      che  questo tessuto d'orrori ha bisogno di essere sostenuto con le 
      prove più certe." 
      "Le prove?" disse Benedetto ridendo. "Volete le prove?" 
      "Sì!" 
      "Ebbene,  guardate il signor Villefort,  e poi domandatemi  ancora 
      delle prove." 
      Ciascuno si voltò verso il regio procuratore, che sotto il peso di 
      quei mille sguardi su di lui, si avanzò nel recinto del tribunale, 
      vacillando, coi capelli in disordine e il viso livido. L'assemblea 
      tutta intera mandò un lungo mormorio di attonito stupore. 
      "Mi  domandano  prove,  padre  mio"  disse  Benedetto a Villefort, 
      "volete che le dia?" 
      "No,  no..."  balbettò  Villefort,  con  voce  soffocata,  "no,  è 
      inutile." 
      "Come inutile?" gridò il presidente. "Ma che cosa intendete dire?" 
      "Intendo  dire"  gridò  il  regio  procuratore  "che mi dibatterei 
      invano sotto la stretta mortale  che  mi  schiaccia.  Signori,  io 
      sono,  lo riconosco,  colpito dalla mano d'un Dio vendicatore. Non 
      chiedete prove, non ve ne occorrono: tutto ciò che ha detto questo 
      giovane, è vero." 
      Un silenzio cupo e pesante come quello che precede  le  catastrofi 
      della natura,  avvolse in un manto di piombo tutti gli astanti, ai 
      quali si drizzavano i capelli sulla testa. 
      "Come, signor Villefort" gridò il presidente, "non cedete voi alla 
      follia? Siete certo di rispondere delle vostre facoltà mentali? Si 
      capirebbe facilmente come un'accusa così assurda, così imprevista, 
      terribile,  abbia  potuto  turbarvi  lo  spirito...  Su,  vediamo, 
      rimettetevi..." 
      Il  procuratore  scosse  la  testa.  I  suoi  denti  battevano con 
      violenza,  come nell'uomo divorato dalla febbre,  e  tuttavia  era 
      d'un pallore mortale. 
      "Io godo di tutte le mie facoltà,  signore" disse,  "il corpo solo 
      soffre.  Io mi riconosco colpevole di tutto ciò che questo giovane 
      ha  detto  contro  di  me,  e,  fin da questo momento,  mi metto a 
      disposizione del regio procuratore mio successore." 
      E pronunciando queste parole,  con voce quasi estinta,  il  signor 
      Villefort  si  diresse  vacillando  verso  la porta,  che con moto 
      abituale gli venne aperta dall'usciere di servizio. 
      L'assemblea  tutta  intera  rimase  muta  e  costernata  da   tale 
      rivelazione, che dava uno scioglimento così terribile alle diverse 
      peripezie   che   da  quindici  giorni  agitavano  l'alta  società 
      parigina. 
      "Amici" disse Beauchamp,  "vengano ora a dirci che il  dramma  non 
      esiste in natura!" 
      "In  fede  mia" disse Chateau-Renaud,  "preferirei finirla come il 
      signor Morcerf: un colpo di pistola  mi  sembra  niente  dopo  una 
      simile catastrofe." 
      "E poi ammazza" disse Beauchamp. 
      "Ed  io  che  per  un  momento  avevo  avuto l'idea di sposare sua 
      figlia!" disse Debray. "Ha fatto bene a morire, mio Dio, la povera 
      fanciulla!" 
      "La seduta è finita,  signori" disse il presidente,  "e  la  causa 
      viene  rinviata  alla  prossima sessione.  Il processo deve essere 
      istruito di nuovo, e confidato ad altro magistrato." 
      Andrea sempre tranquillo e molto più interessante,  lasciò la sala 
      scortato  dai  gendarmi,  che  gli  usarono  involontariamente dei 
      riguardi. 
      "Infine che ne pensate voi di tutto ciò,  mio brav'uomo?"  domandò 
      Debray al sergente di città facendogli sdrucciolare un luigi nella 
      mano. 
      "Gli daranno le circostanze attenuanti!" rispose questi. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 110. 
                                L'ESPIAZIONE. 
 
 
      Il  signor  Villefort aveva visto aprirsi al suo passaggio le file 
      della folla per quanto compatta.  I grandi  dolori  sono  talmente 
      venerabili, che non vi è esempio, anche nei tempi più disgraziati, 
      che  il primo moto della folla riunita non sia di simpatia per una 
      gran  catastrofe.   Può  avvenire  che  in  una   sommossa   siano 
      assassinate   molte   persone  odiate,   ma  è  difficile  che  un 
      disgraziato  per  quanto  reo,  sia  insultato  dagli  uomini  che 
      assistono  alla  sua sentenza di morte.  Villefort passò dunque in 
      mezzo agli spettatori, alle guardie, agli agenti del Palazzo, e si 
      allontanò,  riconosciuto colpevole dalla sua propria  confessione, 
      ma protetto dal suo dolore. 
      Vi  sono  situazioni che gli uomini afferrano per istinto,  ma che 
      non si possono commentare con la parola: il  più  gran  poeta,  in 
      questo  caso,  è colui che manda il grido veemente e più naturale. 
      La folla prende tal grido per un intero racconto, ed ha ragione di 
      contentarsene, e più ragione ancora di trovarlo sublime,  quando è 
      vero. Del resto, sarebbe difficile dire lo stato di stordimento in 
      cui si trovava Villefort uscendo dal Palazzo,  e descrivere quella 
      febbre che  faceva  battere  tutte  le  sue  fibre.  Villefort  si 
      trascinò lungo i corridoi,  guidato soltanto dall'abitudine; gettò 
      dalle spalle la toga magistrale, non perché pensasse di lasciarla, 
      ma perché era un fardello opprimente, una camicia di Nesso feconda 
      di torture: giunse vacillando fino al cortile  del  Delfino,  dove 
      riconobbe la sua carrozza, risvegliò il cocchiere aprendola da sé, 
      e si lasciò cadere sui cuscini mostrando col dito la direzione del 
      Faubourg Saint-Honoré. 
      Il  cocchiere  partì.  Tutto  il  peso  della sua crollata fortuna 
      veniva a ricadergli sulla testa; quel peso lo schiacciava.  Non ne 
      sapeva  le  conseguenze,  non le aveva misurate,  le sentiva;  non 
      ragionava sul codice,  come fa il freddo assassino che commenta un 
      articolo sconosciuto: aveva Dio in fondo al cuore. 
      "Dio" mormorava, senza neppure sapere che cosa diceva, "Dio! Dio!" 
      E non vedeva che Dio dietro la frana che si era formata. 
      La  carrozza era schizzata di carriera.  Villefort,  nell'agitarsi 
      sul cuscino, sentì qualche cosa che lo incomodava. Portò la mano a 
      quell'oggetto:  era  un  ventaglio   dimenticato   dalla   signora 
      Villefort  fra  il  cuscino  e  lo schienale della carrozza;  quel 
      ventaglio risvegliò in lui un ricordo,  e quel  ricordo,  fu  come 
      lampo in mezzo alla notte. Villefort pensò a sua moglie... 
      "Oh!"  gridò  come  se  un  ferro rovente gli avesse trapassato il 
      cuore. 
      Infatti,  da  un'ora  non  aveva  più  sotto  gli  occhi  che  una 
      prospettiva  alla  sua  miseria,  ed  ecco  che  d'un tratto se ne 
      offriva al suo spirito un'altra non  meno  terribile:  la  moglie! 
      Egli aveva fatto con lei la parte di giudice inesorabile,  l'aveva 
      condannata a morte,  e  lei  colpita  dal  terrore,  oppressa  dai 
      rimorsi,  inabissata  sotto  l'onta  che  le  aveva  descritta con 
      l'eloquenza della sua  irreprensibile  virtù,  lei  povera  donna, 
      debole  e senza difesa contro un potere assoluto e supremo,  forse 
      si preparava in quel momento  medesimo  a  morire!  Era  trascorsa 
      un'ora  dal  momento  della  sua  condanna,  senza  dubbio in quel 
      momento  ripassava  tutti  i  suoi  delitti  nella  sua   memoria, 
      domandava  grazia  a  Dio,  scriveva per implorare in ginocchio il 
      perdono dal suo virtuoso consorte, perdono che comprava con la sua 
      morte. Villefort mandò un secondo ruggito di dolore e di rabbia. 
      "Ah!" gridò. "Questa donna non è diventata rea se non perché mi ha 
      amato. Io traspiro il delitto,  e lei ha contratto il delitto come 
      si contrae il tifo,  come si contrae il colera, come si contrae la 
      peste,  e io la punisco!...  Io oso dirle: pentitevi  e  morite... 
      io...  Oh, no! no! Vivrà... mi seguirà... Noi fuggiremo, lasceremo 
      la Francia dietro di noi finché la terra potrà  accoglierci...  Io 
      le parlavo di patibolo!... Gran Dio! Come mai ho osato pronunziare 
      questa  parola?  Me pure aspetta il patibolo!...  noi fuggiremo... 
      Sì,  io  mi  confesserò  a  lei,  sì,  tutti  i  giorni  le  dirò, 
      umiliandomi,  che io pure ho commesso un delitto...  Oh,  alleanza 
      della tigre col serpente! Oh, degna moglie di un marito quale sono 
      io!...  E necessario che viva,  è necessario che  la  mia  infamia 
      faccia impallidire la sua!" 
      E Villefort rompendo un cristallo davanti: 
      "Presto,  più  presto!"  gridò,  con  voce  che  fece trasalire il 
      cocchiere sul sedile. 
      I cavalli, percossi dallo scudiscio, volarono fino alla casa. 
      "Sì, sì" ripeteva Villefort, a misura che si avvicinava alla casa, 
      "sì,  bisogna che questa donna viva,  bisogna che questa donna  si 
      penta,  che allevi mio figlio,  il povero mio figlio, il solo, con 
      l'indistruttibile vecchio,  che sia sopravvissuto alla distruzione 
      della  mia  famiglia.  Lei  lo  ama,  per lui ha fatto tutto.  Non 
      bisogna mai disperare del cuore di una madre che ama  suo  figlio; 
      si  pentirà:  nessuno  saprà  che  fu  colpevole.  Questi  delitti 
      commessi in casa mia e di cui la società già  s'inquieta,  saranno 
      dimenticati  col  tempo,  o,  se  qualche  nemico se ne ricorderà, 
      ebbene, li prenderò su di me, tra i miei delitti.  Uno,  due o tre 
      di più,  che importa! Mia moglie fuggirà portando con sé dell'oro, 
      e soprattutto portando mio figlio,  lungi dall'abisso  in  cui  mi 
      sembra  che il mondo debba cadere con me;  lei vivrà,  sarà ancora 
      felice,  poiché tutto il suo amore è riposto in suo figlio,  e suo 
      figlio non la lascerà. Io avrò fatta una buona azione, e questo mi 
      alleggerisce il cuore." 
      E  il  regio  procuratore respirò più liberamente,  come non aveva 
      fatto da lungo tempo. 
      La carrozza si fermò nel cortile del palazzo. Villefort si slanciò 
      fuori e salì la scala,  vide  i  domestici  sorpresi  nel  vederlo 
      tornare  così  presto.  Passò davanti alla camera di Noirtier,  e, 
      dalla porta semiaperta,  vide due ombre,  ma  non  s'interessò  di 
      sapere  chi  fosse  la  persona  che  stava  con suo padre: la sua 
      inquietudine lo attirava altrove. 
      "Orsù" disse,  salendo la scaletta che conduceva  al  pianerottolo 
      dell'appartamento di sua moglie ed alla camera vuota di Valentina, 
      "qui nulla è cambiato." 
      Prima di tutto chiuse la porta del pianerottolo. 
      "Bisogna  che  nessuno  ci disturbi" disse,  "bisogna che io possa 
      parlare liberamente, accusarmi davanti a lei, dirle tutto..." 
      Si avvicinò alla porta, la porta cedette. 
      "Non è chiusa! Bene, benissimo" mormorò. 
      Ed entrò nel salotto dove tutte le sere si preparava un letto  per 
      Edoardo,  poiché quantunque in collegio,  Edoardo tornava tutte le 
      sere; sua madre non aveva mai voluto, la notte,  separarsi da lui. 
      Volse uno sguardo per il salotto. 
      "Nessuno!" disse. "E' certamente nella sua camera da letto." 
      Si slanciò verso la porta. C'era il catenaccio. Si fermò fremendo. 
      "Luigia!" gridò. 
      Gli sembrò di sentire muovere un mobile. 
      "Luigia!" ripeté. 
      "Chi c'è?" domandò una voce. 
      E quella voce gli parve più debole del solito. 
      "Aprite, aprite!" gridò Villefort. "Sono io!" 
      Ma  malgrado  la  richiesta e il tono angoscioso con cui era stata 
      fatta, la porta non si aprì. 
      Villefort sfondò la porta con un calcio. 
      Sulla soglia della stanza che metteva nel suo studio,  la  signora 
      Villefort era in piedi,  pallida,  coi lineamenti contratti, e gli 
      occhi spaventosamente immobili. 
      "Luigia, Luigia" disse, "che cosa avete? Parlate!" 
      La donna stese verso di lui la mano rigida e livida. 
      "Tutto è fatto,  signore"  disse,  con  un  rantolo  che  sembrava 
      squarciare la gola. "Che volete dunque di più?" 
      E cadde sul tappeto. 
      Villefort corse a lei, le afferrò la mano. Stringeva convulsamente 
      una  boccetta  di  cristallo  col  turacciolo  d'oro.  La  signora 
      Villefort era morta. 
      Villefort,  inorridito,  arretrò fino sulla soglia della camera  e 
      guardò il cadavere. 
      "Mio  figlio!"  gridò  ad un tratto.  "Dov'è mio figlio?  Edoardo! 
      Edoardo!" 
      E  si  precipitò  fuori  dall'appartamento   gridando:   "Edoardo! 
      Edoardo!", con tale accento d'angoscia, che i domestici accorsero. 
      "Mio  figlio!  Dov'e  mio  figlio?"  domandò  Villefort.  "Che  si 
      allontani dalla casa, non veda..." 
      "Il signor Edoardo non è da basso, signore" rispose il cameriere. 
      "Senza dubbio gioca in giardino... Cercate! cercate!" 
      "No, signore. La signora ha chiamato suo figlio circa mezz'ora fa, 
      e il signorino Edoardo è entrato nelle camere  della  signora,  da 
      dove non è più uscito." 
      Un  sudore  glaciale  colse  la fronte di Villefort,  le gambe gli 
      tremarono,  le idee cominciarono a confondersi  nella  sua  testa, 
      come un congegno di rotelle e molle di un orologio che si rompe. 
      "Presso la signora" mormorò, "presso la signora!" 
      E tornò lentamente indietro,  asciugandosi la fronte con una mano, 
      appoggiandosi con l'altra alla parete. 
      Rientrando  nella  camera  bisognava  rivedere  il   corpo   della 
      disgraziata  consorte.  Per chiamare Edoardo,  bisognava alzare la 
      voce,  e forse urlare in quell'appartamento divenuto un  sepolcro: 
      parlare  era  violare  il  silenzio  della tomba.  Villefort sentì 
      paralizzarsi la lingua. 
      "Edoardo, Edoardo!" balbettò. 
      Il bambino non rispondeva. 
      Il cadavere della signora Villefort era steso attraverso la  porta 
      dello  studio  nel  quale  si  trovava  sicuramente Edoardo.  Quel 
      cadavere sembrava vegliare sulla soglia con  gli  occhi  fissi  ed 
      aperti,  con  una  spaventosa  e  misteriosa  ironia sulle labbra. 
      Dietro il cadavere,  la portiera rialzata  lasciava  scorgere  una 
      parte  dello  studio,  un pianoforte e l'estremità di un divano di 
      seta azzurro.  Villefort avanzò tre o quattro passi,  e sul divano 
      scoperse steso suo figlio, e senza dubbio dormiva. 
      Il  disgraziato  ebbe  un  lampo di gioia,  un raggio di pura luce 
      discese in quell'inferno nel quale si dibatteva.  Non si  trattava 
      più dunque che di passare al di sopra del cadavere,  entrare nello 
      studio,  prendere il bambino tra le braccia,  e  fuggire  con  lui 
      lontano,  ben lontano.  Villefort non era più quell'essere, la cui 
      squisita corruzione ne faceva il tipo  dell'uomo  incivilito:  era 
      una  tigre  ferita  a  morte  che  lascia i denti nella sua ultima 
      ferita: non aveva più paura dei pregiudizi, ma dei fantasmi. 
      Fece un balzo e scavalcò il cadavere,  come si fosse  trattato  di 
      oltrepassare  un  braciere  ardente.  Rialzò  il  bambino  fra  le 
      braccia, lo strinse, lo scosse, lo chiamò; il bambino non rispose: 
      portò le aride labbra sulle  guance,  le  guance  erano  livide  e 
      ghiacciate;  palpò  le sue membra,  erano irrigidite;  appoggiò la 
      mano sul suo cuore,  quel cuore non batteva più.  Il  bambino  era 
      morto. 
      Un foglio piegato cadde dal petto di Edoardo. 
      Villefort  si  lasciò  cadere  sulle ginocchia;  il bambino sfuggì 
      dalle braccia inerti,  e rotolò  a  lato  della  madre.  Villefort 
      raccolse il foglio,  riconobbe la scrittura di sua moglie, e lesse 
      avidamente. 
      Ecco ciò che conteneva: 
 
      ''voi sapete che io  ero  madre  affettuosa,  e  infatti  mi  resi 
      colpevole per mio figlio! 
      Una madre non parte senza suo figlio!" 
 
      Villefort  non poteva credere a ciò che vedeva,  si trascinò verso 
      il corpo di Edoardo,  e lo esaminò ancora  una  volta.  Quindi  un 
      gemito straziante gli sfuggì dal petto: 
      "Dio!" gridò, "sempre Dio!" 
      Quelle  due vittime lo spaventavano,  si sentiva inorridire per la 
      terribile visione dei due cadaveri e la macabra  solitudine  della 
      stanza. 
      Fino  allora era sostenuto dalla rabbia,  da quell'immensa facoltà 
      degli  uomini   forti,   dalla   disperazione,   da   quell'impeto 
      irresistibile  dell'agonia  che spingeva i Titani a dar la scalata 
      al cielo,  che spingeva  Aiace  a  mostrare  il  pugno  agli  Dei. 
      Villefort curvò la testa sotto il peso dei dolori, si rialzò sulle 
      ginocchia, scosse i capelli umidi di sudore, irti per lo spavento, 
      e colui che non aveva mai avuto pietà d'alcuno,  andò a cercare il 
      vecchio suo padre,  per avere qualcuno a cui affidare  la  propria 
      infelicità,  qualcuno presso cui piangere. Discese la scaletta che 
      conosciamo, ed entrò nella camera di Noirtier. 
      Questi pareva ascoltasse  con  tutta  attenzione  l'abate  Busoni, 
      sempre  calmo e freddo come di consueto.  Villefort,  riconoscendo 
      l'abate, portò la mano alla fronte. Il passato ritornò come uno di 
      quei flutti la cui collera solleva più  schiuma  degli  altri:  si 
      sovvenne della visita che aveva fatto all'abate alcuni giorni dopo 
      il  pranzo  d'Auteuil,  e  della visita che aveva fatta l'abate il 
      giorno stesso della morte di Valentina. 
      "Voi qui,  signore!" disse.  "Voi  dunque  non  apparite  che  per 
      scortare la morte?" 
      Busoni s'alzò, e vedendo l'alterazione del viso del magistrato, il 
      fuoco  dei suoi sguardi,  capì,  o credette di capire che la scena 
      delle assise era già avvenuta. Ignorava il resto. 
      "Sono venuto una volta per pregare sul  corpo  di  vostra  figlia" 
      rispose Busoni. 
      "E oggi che venite a fare?" 
      "Vengo  a dirvi che m'avete pagato abbastanza il vostro debito,  e 
      che da questo momento pregherò Iddio,  affinché  egli  pure  abbia 
      clemenza come me." 
      "Mio Dio!" esclamò Villefort, arretrando spaventato. "Questa non è 
      la voce dell'abate Busoni." 
      "No!" 
      L'abate  si  strappò la falsa tonsura,  scosse la testa,  e i suoi 
      lunghi capelli neri,  non più compressi,  ricaddero sulle spalle e 
      contornarono il pallido viso. 
      "Questo  è  il viso del signor di Montecristo" gridò Villefort con 
      gli occhi stravolti. 
      "Neppure, signor procuratore, cercate meglio e più lontano." 
      "Questa voce! questa voce! Dove mai l'ho sentita?" 
      "L'avete sentita a Marsiglia,  ventitré anni  fa,  il  giorno  del 
      vostro  fidanzamento con la signorina di Saint-Méran.  Cercate nei 
      vostri registri." 
      "Voi non siete Busoni? Non siete Montecristo?  Mio Dio,  voi siete 
      quel nemico nascosto,  implacabile, mortale!... Io senza dubbio ho 
      commesso  un  delitto  contro  di  voi  a  Marsiglia...   Oh,   me 
      disgraziato!" 
      "Sì,  avete  memoria"  disse  il  conte incrociando le braccia sul 
      largo petto: "cercate, cercate..." 
      "Ma che cosa vi ho dunque fatto?" gridò Villefort,  il cui spirito 
      già  vacillava  tra la ragione e la follia in una caligine che non 
      era più né sogno  né  veglia.  "Che  vi  ho  dunque  fatto?  Dite! 
      parlate!" 
      "Voi  mi  avete  condannato  ad una morte lenta e avete ucciso mio 
      padre,  mi avete tolto l'amore con la libertà,  e la felicità  con 
      l'amore!" 
      "Chi siete? Chi siete dunque, mio Dio?" 
      "Io  sono  lo  spettro  d'un  disgraziato  che avete sepolto nelle 
      carceri del Castello d'If.  A  questo  spettro,  sorto  finalmente 
      dalla  tomba,   il  cielo  ha  messo  la  maschera  del  conte  di 
      Montecristo,  e lo ha ricoperto di diamanti e  d'oro  perché  solo 
      oggi lo riconosciate." 
      "Ah,  ti riconosco, ti riconosco!" disse il regio procuratore. "Tu 
      sei..." 
      "Io sono Edmondo Dantès!" 
      "Tu sei Edmondo Dantès!" gridò il procuratore afferrando il  conte 
      per la mano. "Allora vieni!" 
      E lo trascinò per la scala,  su cui Montecristo attonito lo seguì, 
      ignorando  egli  stesso  ove  il  procuratore  lo  conducesse,   e 
      prevedendo qualche nuova catastrofe. 
      "Osserva, Edmondo Dantès" disse, mostrando al conte il cadavere di 
      sua moglie e il corpo di suo figlio,  "osserva! Guarda, sei tu ben 
      vendicato?..." 
      Montecristo impallidì a quell'orribile  spettacolo,  comprese  che 
      aveva  oltrepassato  i  limiti  della  vendetta,  comprese che non 
      poteva più dire: "Dio è  per  me  e  con  me".  Si  gettò  con  un 
      sentimento  d'angoscia  inesprimibile  sul  corpo  del bimbo,  gli 
      riaprì gli occhi,  gli toccò il polso,  e si lanciò con lui  nella 
      camera di Valentina, che chiuse a doppio giro. 
      "Mio figlio!" gridò Villefort. "Che fa? Il cadavere di mio figlio! 
      Dove lo portate? Oh, maledizione! sciagura!" 
      E volle gettarsi dietro a Montecristo, ma, come in un sogno, sentì 
      i piedi di piombo al suolo, gli occhi gli si dilatarono in modo da 
      spezzare  le  orbite,  le dita,  confitte nella carne del petto si 
      arrossarono di sangue,  le vene delle tempie si gonfiarono,  e  il 
      cervello s'immerse in un diluvio di fuoco.  Quella immobilità durò 
      molti minuti,  fino a che si compì uno  stravolgimento  della  sua 
      ragione.  Allora  mandò  un  grido  seguito da un lungo scoppio di 
      risa, e si precipitò per le scale. 
      Un  quarto  d'ora  dopo  si  riaprì  la  camera  di  Valentina,  e 
      ricomparve il conte di Montecristo.  Pallido,  con l'occhio tetro, 
      il petto oppresso, tutti i tratti della fisonomia,  ordinariamente 
      serena,  erano  sconvolti  dal  dolore.  Teneva  fra le braccia il 
      bambino,  al quale nessun soccorso aveva potuto rendere  la  vita. 
      Mise  un ginocchio a terra e lo depose religiosamente vicino a sua 
      madre, con la testa appoggiata sul suo petto. Quindi, rialzandosi, 
      corse subito in cerca del procuratore, e, incontrando un domestico 
      sulla scala: 
      "Dov'è il signor Villefort?" domandò. 
      Il domestico senza rispondere stese la mano, e gli additò l'uscita 
      verso il giardino. 
      Montecristo scese la scalinata, e corse in giardino. Qui vide,  in 
      mezzo  ai servitori che facevano cerchio intorno a lui,  Villefort 
      con una vanga in mano che frugava  la  terra  con  una  specie  di 
      rabbia. 
      "Qui non c'è" diceva, "e nemmeno qui! Dove l'hanno messo?" 
      E scavava un poco più lontano. 
      Montecristo si avvicinò a lui,  e gli disse a bassa voce, con tono 
      quasi umile: 
      "Signore, voi avete perduto un figlio, ma..." 
      Villefort lo interruppe: non aveva né ascoltato, ne inteso. 
      "Oh, lo ritroverò" disse: "non potete dirmi che non c'è più, io lo 
      ritroverò, dovessi cercarlo fino al giorno del giudizio!" 
      Montecristo arretrò sconvolto. 
      "Dio" disse, "è pazzo!" 
      E,  come avesse temuto che i muri della  casa  maledetta  avessero 
      potuto crollare su di lui, corse verso la strada, dubitando per la 
      prima volta della vendetta, e di tutto ciò che aveva fatto. 
      "Oh, basta, basta!" gridò. "Almeno sia salva l'ultima." 
      Rientrando a casa sua,  Montecristo incontrò Morrel che, inquieto, 
      errava  per  il  palazzo  degli  Champs-Elysées,  silenzioso  come 
      l'ombra che aspetta il momento per rientrare nella propria tomba. 
      "Preparatevi,  Massimiliano"  gli  disse  con un sorriso,  "domani 
      lasceremo Parigi." 
      "Non avete più niente da fare?" domandò Morrel. 
      "No" rispose Montecristo,  "e Dio voglia che non abbia fatto anche 
      troppo." 
      I  'indomani  infatti partirono.  Presso il signor Noirtier rimase 
      Bertuccio. 
 
 
                                Capitolo 111. 
                                 LA PARTENZA. 
 
 
      La serie degli avvenimenti teneva occupata tutta Parigi.  Emanuele 
      e  sua  moglie li commentavano con enorme stupore nel loro salotto 
      della rue Meslay,  confrontando le tre catastrofi improvvise,  non 
      meno  che  inattese,  di  Morcerf,  di  Danglars  e  di Villefort. 
      Massimiliano, che era andato a trovarli,  li ascoltava o piuttosto 
      assisteva alla loro conversazione, immerso nell'apatia che gli era 
      ormai abituale. 
      "Davvero" diceva Giulia,  "non si direbbe,  quasi,  Emanuele,  che 
      tutte  queste  ricche   persone,   ieri   così   felici   avessero 
      dimenticato,  nel  calcolo  sul  quale  avevano  stabilito la loro 
      fortuna, felicità e reputazione, la parte dovuta al cattivo genio? 
      e che il genio come le fate malefiche dei  racconti  di  Perrault, 
      trascurato e dimenticato nell'invito alla festa di nozze,  sia poi 
      comparso d'un tratto per vendicarsi di questo fatale oblio?" 
      "Quanti  disastri!"  diceva  Emanuele,  pensando  a  Morcerf  e  a 
      Danglars. 
      "Quanti patimenti!" diceva Giulia, ricordandosi Valentina, che per 
      un istinto di donna non voleva nominare davanti a suo fratello. 
      "Se  Dio  li  ha  colpiti" diceva Emanuele,  "è perché,  nella sua 
      suprema bontà,  non ha trovato nulla nella loro vita  passata  che 
      meritasse  l'attenzione  della  pietà,  perché  quella  gente  era 
      maledetta." 
      "Il tuo giudizio è avventato, Emanuele!" disse Giulia. "Quando mio 
      padre,  con la pistola alla mano,  fu sul punto di  uccidersi,  se 
      qualcuno  avesse detto,  come tu dici,  "quest'uomo ha meritata la 
      sua pena", non si sarebbe sbagliato?" 
      "Sì, ma Dio non ha permesso che nostro padre soccombesse, come non 
      ha permesso che Abramo sacrificasse suo figlio; al patriarca, come 
      a noi, inviò un angelo che tarpò le ali alla morte." 
      Terminava appena di pronunciare queste parole,  quando risuonò  il 
      campanello.  Era  il  segnale  dato dal portinaio che giungeva una 
      visita. Quasi nel medesimo istante si aprì la porta del salotto, e 
      comparve il conte di Montecristo sulla soglia.  Fu un doppio grido 
      di gioia da parte dei giovani sposi. 
      Massimiliano rialzò la testa, e la lasciò ricadere. 
      "Massimiliano"   disse  il  conte,   senza  rimarcare  le  diverse 
      impressioni che la sua presenza aveva prodotto  nei  suoi  ospiti, 
      "vengo a cercarvi." 
      "A cercarmi?" disse Morrel, come si svegliasse da un sogno. 
      "Sì"  disse  Montecristo,  "non siamo d'accordo che sareste venuto 
      con me? Non vi ho avvertito ieri di tenervi pronto?" 
      "Eccomi" disse Massimiliano, "ero venuto a dir loro addio." 
      "E dove andate, signor conte?" domandò Giulia. 
      "Dapprima a Marsiglia, signora." 
      "A Marsiglia?" ripeterono assieme i due sposi. 
      "Sì, e prendo con me vostro fratello." 
      "Ah, signor conte" disse Giulia, "riportatecelo guarito." 
      Morrel voltò la faccia per nascondere il vivo rossore. 
      "Avete dunque capito perché non stava bene?" disse il conte. 
      "No" rispose la giovane,  "ma ho paura che si annoi  a  stare  con 
      noi." 
      "Lo distrarrò" riprese il conte. 
      "Sono  pronto,  signore" disse Morrel.  "Addio,  miei buoni amici, 
      addio Emanuele, addio Giulia!" 
      "Come,  addio!"  gridò  Giulia.  "Partite  così,   subito,   senza 
      preparativi, senza passaporti?" 
      "I troppi preparativi raddoppiano il dispiacere della separazione" 
      disse Montecristo, "e Massimiliano, ne sono sicuro, avrà agito con 
      precauzione; è quanto gli avevo raccomandato." 
      "Ho il mio passaporto, e la mia valigia è fatta" disse Morrel, con 
      la sua apatica tranquillità. 
      "Benissimo"   disse  Montecristo  sorridendo,   "si  riconosce  la 
      disciplina di un buon soldato." 
      "E ci lasciate in tal modo?" disse Giulia,  "sul momento?  Non  ci 
      accordate neppure un giorno, neppure un'ora?" 
      "La  mia  carrozza  è  alla  porta,  signora: è necessario che fra 
      cinque giorni io sia a Roma." 
      "Ma Massimiliano non va a Roma?" disse Emanuele. 
      "Io vado dove piacerà al conte;  appartengo a lui  ancora  per  un 
      mese." 
      "Oh, mio Dio, in che modo lo dice, signor conte!" 
      "Massimiliano viene con me" disse il conte,  con la sua persuasiva 
      affabilità,   "tranquillizzatevi  dunque  sul  conto   di   vostro 
      fratello." 
      "Addio, sorella mia!" ripeté Morrel. "Addio, Emanuele!" 
      "Mi  strazia  il cuore con la sua noncuranza!" disse Giulia.  "Oh, 
      Massimiliano, Massimiliano, tu ci nascondi qualche cosa..." 
      "Bah!" disse Montecristo.  "Lo vedrete  tornare  gaio,  allegro  e 
      contento." 
      Massimiliano  lanciò  a  Montecristo  uno sguardo sdegnoso,  quasi 
      irritato. 
      "Partiamo!" disse il conte. 
      "Prima che andiate,  signor conte" disse Giulia,  "permetteteci di 
      dirvi tutto ciò che l'altro giorno..." 
      "Signora"  disse  il  conte,  prendendole le mani,  "tutto ciò che 
      direste non varrà mai ciò che leggo nei vostri occhi,  ciò che  il 
      vostro  cuore  ha  pensato,  ciò  che  il  mio ha sentito.  Come i 
      benefattori da romanzo,  sarei partito senza rivedervi,  ma questa 
      virtù  sarebbe stata al disopra delle mie forze,  perché sono uomo 
      debole e vanitoso,  perché lo sguardo umido,  ilare e  tenero  dei 
      miei simili mi fa del bene.  Ora parto,  e spingo l'egoismo fino a 
      dirvi: non mi dimenticate, amici miei, perché probabilmente non mi 
      rivedrete più." 
      "Non vi rivedremo più?" gridò Emanuele,  mentre due grosse lacrime 
      scorrevano  sulle  guance  di Giulia.  "Non vi rivedremo più?  Non 
      siete dunque un uomo,  ma un angelo che ci lascia,  un angelo  che 
      risale  al  cielo  dopo  essere comparso sulla terra per farci del 
      bene." 
      "Non parlate così" riprese vivamente Montecristo,  "non  dite  mai 
      tali cose,  amici miei: gli angeli non fanno mai del male, sanno a 
      qual  punto  debbono  fermarsi,  il  caso,   le  circostanze,   le 
      combinazioni  non  sono mai più forti di loro.  No,  io sono uomo, 
      Emanuele,  e non è meno ingiusta la vostra ammirazione  di  quanto 
      siano blasfeme le vostre parole." 
      E  si  portò alle labbra la mano di Giulia che si precipitò fra le 
      sue  braccia,   mentre  stendeva  l'altra  ad  Emanuele;   quindi, 
      strappandosi da quella casa, dolce nido di domestica felicità, con 
      un cenno chiamò Massimiliano, passivo, insensibile, costernato fin 
      dalla morte di Valentina. 
      "Rendete  la  gioia  a  mio fratello" disse Giulia all'orecchio di 
      Montecristo. 
      Montecristo le strinse la mano  come  gliel'aveva  stretta  undici 
      anni prima sulla scala che conduceva all'ufficio di Morrel. 
      "Vi fidate sempre di Sindbad il marinaio?" le domandò sorridendo. 
      "Oh, sì!" 
      "Dunque, state pure in pace, confidando nel Signore." 
      Come  abbiamo  accennato,  la carrozza da posta aspettava: quattro 
      vigorosi cavalli sollevavano le loro criniere e  scalpitavano  con 
      impazienza.  Ai  piedi  della  scalinata,  Alì  aspettava col viso 
      grondante di sudore; sembrava giungere da una lunga corsa. 
      "Ebbene" gli domandò il conte in arabo, "sei stato dal vecchio?" 
      Alì fece segno di sì. 
      "E gli hai aperto la lettera sotto gli occhi nel modo che ti avevo 
      ordinato?" 
      "Sì" rispose ancora rispettosamente lo schiavo. 
      "E che cosa ha detto, o, piuttosto, che cenno ha fatto?" 
      Alì si pose sotto la luce,  in modo che  il  suo  padrone  potesse 
      vederlo,  e  imitando  con  la  sua  intelligenza la fisonomia del 
      vecchio,  chiusi gli occhi come faceva Noirtier quando voleva dire 
      "sì". 
      "Bene, accetta" disse Montecristo. "Partiamo!" 
      Aveva appena lasciato sfuggire questa parola,  che già la carrozza 
      si era mossa sollevando un nembo di  polvere  misto  a  scintille. 
      Massimiliano  si  accomodò  in  un angolo senza dire parola.  Dopo 
      mezz'ora, la carrozza si fermò d'un tratto;  il conte aveva tirato 
      la  funicella  di  seta  che corrispondeva al dito d'Alì.  Il moro 
      discese, e aprì lo sportello. 
      La notte sfavillava di  stelle.  Erano  in  cima  alla  salita  di 
      Villejuif,  sulla spianata da dove si vede Parigi che,  come tetro 
      mare,   agita  i  suoi  milioni  di  lumi   che   sembrano   tutti 
      fosforescenti.  più  numerosi e mobili di quelli dell'oceano,  che 
      non  conoscono  bonaccia,   che  si  urtano   sempre,   e   sempre 
      s'infrangono,  e  sempre s'inghiottono fra loro.  Il conte scese e 
      fece qualche passo, solo, e, dopo un cenno della mano, la carrozza 
      si scostò di qualche metro Allora considerò lungamente,  e con  le 
      braccia  incrociate,  quella fornace in cui vengono a fondersi,  a 
      torcersi tante di quelle idee che dopo essere fermentate nel magma 
      incandescente,  sprizzano per andare ad agitare il  mondo.  Quindi 
      allorché  ebbe  ben  fissato  il suo sguardo possente sopra quella 
      nuova Babilonia: 
      "Gran città!" mormorò,  chinando la testa e congiungendo  le  mani 
      come  pregando.  "Non  sono ancora sei mesi che ho oltrepassato le 
      tue porte.  Lo spirito della Provvidenza che credevo mi vi  avesse 
      condotto,  ora  me  ne allontana trionfante.  Il segreto della mia 
      presenza fra le tue mura l'ho confidato soltanto a Dio,  che  solo 
      ha potuto leggere nel mio cuore, solo sa che mi ritiro senza odio, 
      né orgoglio, ma non senza dispiaceri, solo sa che non ho fatto uso 
      né per me,  né per vane cause, del potere di cui mi ha fornito. Oh 
      gran città!  Nel tuo seno palpitante  ritrovai  ciò  che  cercavo, 
      minatore paziente, ho rimescolato le tue viscere per farne sortire 
      il  male,  ora la mia opera è compiuta,  quella che ho creduto mia 
      missione è terminata,  ora tu non puoi più offrirmi né  gioie,  né 
      dolori: addio, Parigi! addio!" 
      E  volse lo sguardo ancora sulla vasta pianura,  come quello di un 
      genio notturno,  quindi,  passando la mano  sulla  fronte,  risalì 
      nella carrozza che si chiuse dietro di lui,  e disparve ben presto 
      dall'altra parte della salita in un nugolo di polvere. 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 112. 
                        LA CASA DEI VIALI DI MEILLAN. 
 
 
      Morrel  era  assorto  in  profonda  meditazione,   Montecristo  lo 
      guardava:  fecero  dieci  leghe senza pronunciare una sola parola. 
      Morrel fantasticava e Montecristo leggeva nella sua mente. 
      "Morrel" disse il conte, "vi sarete pentito di avermi seguito?" 
      "No, signor conte, ma di lasciar Parigi..." 
      "Se avessi creduto che la vostra felicità vi aspettava  a  Parigi, 
      Morrel, vi ci avrei lasciato." 
      "A  Parigi  riposa Valentina,  e lasciare Parigi è un perderla una 
      seconda volta." 
      "Massimiliano" disse il conte,  "gli amici che abbiamo perduto non 
      riposano nella terra,  ma sono sepolti nel nostro cuore,  e fu Dio 
      che così volle,  perché ne fossimo  sempre  accompagnati.  Ho  due 
      amici  che  mi accompagnano sempre in tal modo;  uno di essi mi ha 
      dato la vita,  l'altro  mi  ha  dato  l'intelligenza.  Lo  spirito 
      d'entrambi è in me: io li consulto nei dubbi, e, se faccio qualche 
      cosa  di bene,  lo debbo ai loro consigli.  Consultate la voce del 
      vostro cuore, Morrel,  e domandategli se dovete continuare a farmi 
      cattivo viso." 
      "Amico  mio"  disse  Massimiliano,  "la  voce  del mio cuore è ben 
      triste, e non mi promette che disgrazie." 
      "E' degli spiriti deboli vedere tutte le cose attraverso  un  velo 
      nero; è l'anima che crea a se stessa i propri orizzonti: la vostra 
      anima è triste, e vi fa vedere un cielo tempestoso." 
      "Può essere vero" disse Massimiliano. 
      E ricadde nei suoi pensieri ossessivi. 
      Il  viaggio  si  fece  con  quella inaspettata rapidità ch'era una 
      delle prerogative del conte: le città passavano come  ombre  sulla 
      loro  strada,  gli  alberi,  scossi  dal  primo  vento  d'autunno, 
      sembravano  venire  incontro   come   giganti   scapigliati,   che 
      fuggissero rapidamente appena li raggiungevano. 
      L'indomani di buon mattino arrivarono a Chalons, dove li aspettava 
      il  battello  a  vapore  del conte.  Senza perdere un istante,  la 
      carrozza fu trasportata a bordo  con  i  due  viaggiatori  che  si 
      trovarono imbarcati. 
      Il battello era pronto alla corsa,  lo si sarebbe detto una piroga 
      indiana: e infatti le sue due ruote sembrarono due  ali,  con  cui 
      fendesse  l'acqua  come  uccello viaggiatore;  Morrel stesso provò 
      quella specie di ebbrezza che produce la velocità, e qualche volta 
      il vento,  che faceva  ondeggiare  i  suoi  capelli,  riusciva  ad 
      allontanare per un momento le nubi dalla sua fronte.  In quanto al 
      conte,  via via che si allontanava da Parigi,  una serenità  quasi 
      sovrumana sembrava penetrarlo ed emanare da lui come un alone;  si 
      sarebbe detto un esule che ritornasse in patria. 
      Ben presto  Marsiglia,  bianca,  tiepida  e  viva,  Marsiglia,  la 
      sorella minore di Tiro e di Cartagine,  loro erede nell'impero del 
      Mediterraneo, Marsiglia,  sempre più giovane quanto più invecchia, 
      comparve  ai  loro occhi.  Era per entrambi una visione feconda di 
      rimembranze quella torre rotonda,  quel  forte  San  Nicola  e  il 
      palazzo di città di Puget,  quel porto con gli scali di selce dove 
      entrambi avevano giocato da ragazzi. Quindi si fermarono di comune 
      accordo sulla Canebière. 
      Una nave partiva per Algeri: i bagagli e le  merci,  i  passeggeri 
      ammassati sul ponte, la folla dei parenti e amici, che si dicevano 
      addio,  e  gridavano,  e  piangevano,  scenario sempre commovente, 
      anche  per  quelli  che  vi  assistono  ogni  giorno,  tutto  quel 
      movimento  non  poté distrarre Massimiliano da un'idea che l'aveva 
      afferrato,  dal momento in cui aveva messo  il  piede  sui  larghi 
      blocchi di granito dello scalo. 
      "Guardate" disse,  stringendo il braccio di Montecristo,  "ecco il 
      luogo dove si fermò mio padre,  quando il Faraone entrò in  porto. 
      Qui il bravo uomo, che voi salvaste dalla morte e dal disonore, si 
      gettò  fra  le  mie braccia;  sento ancora l'impressione delle sue 
      lacrime sul mio viso,  e non piangeva lui solo,  molti  piangevano 
      nel vederci piangere." 
      Montecristo sorrise. 
      "Io ero là" disse, mostrando a Morrel l'angolo di una strada. 
      Nella direzione indicata dal conte, s'intese un gemito doloroso, e 
      si  vide  una  donna  che  faceva segni ad un passeggero che stava 
      sulla nave in partenza.  Quella donna era velata;  Montecristo  la 
      seguì  con  gli  occhi,  con  una  emozione,  che  Morrel  avrebbe 
      facilmente rilevata, se,  all'opposto del conte,  i suoi occhi non 
      fossero stati fissi sul bastimento. 
      "Amico mio" gridò Morrel,  "quel giovane che saluta, col cappello, 
      quel giovane in uniforme, è Alberto Morcerf!" 
      "Sì" disse Montecristo, "lo avevo riconosciuto." 
      "In che modo se guardate dalla parte opposta?" 
      Il conte sorrise, come faceva quando non voleva rispondere. I suoi 
      occhi si riportarono sulla donna velata che sparì all'angolo della 
      strada. Allora si volse. 
      "Amico caro" disse a Massimiliano,  "non avete da fare  in  questa 
      città?" 
      "Ho  da  piangere  sulla  tomba  di  mio  padre" rispose cupamente 
      Morrel. 
      "Sta bene, andate ad aspettarmi laggiù: vi raggiungerò." 
      "Mi lasciate?" 
      "Sì... Io pure ho una pietosa visita da fare." 
      Morrel abbandonò la mano nella mano tesa del conte, quindi, con un 
      moto di cui sarebbe impossibile esprimere la malinconia lasciò  il 
      conte, e si diresse verso la parte orientale della città. 
      Montecristo  lasciò  allontanarsi Massimiliano quindi si incamminò 
      verso i viali di Meillan,  in cerca della  casuccia  già  nota  ai 
      nostri  lettori.  Quella casa era ancora all'ombra dei tigli sotto 
      cui  passeggiano  gli  oziosi  marsigliesi,  tappezzata  di  vasti 
      festoni   di  viti  che  s'incrociano,   sulla  pietra  ingiallita 
      dall'ardente  sole  del  mezzogiorno,   in  braccia   annerite   e 
      disseccate  per  l'età.   Due  scalini  di  pietra,  consunti  dal 
      passaggio  ripetuto  del  piede  umano,   conducevano  alla  porta 
      d'ingresso,  porta  fatta  di tre tavole sconnesse che non avevano 
      mai conosciuto il mastice e  la  vernice.  Quella  casa,  graziosa 
      malgrado  la  sua  antichità,  allegra  malgrado  la sua apparente 
      miseria,  era quella abitata dal padre di Dantès.  Ma,  mentre  il 
      vecchio era vissuto nella soffitta,  il conte aveva messo l'intera 
      casa a disposizione di Mercedes. 
      Là entrò la donna dal lungo  velo  che  Montecristo  aveva  veduto 
      allontanarsi  dal  battello  in  partenza;  chiudeva  la porta nel 
      momento stesso in cui egli compariva all'angolo della strada.  Per 
      lui  gli  scalini  erano  antiche  conoscenze  e  sapeva meglio di 
      qualunque altro aprire quella vecchia porta,  in cui un  chiodo  a 
      larga  testa  serviva  per  sollevare  il  nottolino.  Così  senza 
      bussare, né prevenire, come amico, come ospite, entrò. 
      In capo ad un corridoio lastricato di selci si apriva  un  piccolo 
      giardino,  quello stesso giardino in cui Mercedes aveva trovato la 
      somma che il conte aveva detto di aver  nascosto  24  anni  prima. 
      Dalla  soglia  della porta di strada si vedevano i primi alberi di 
      quel giardino,  e da qui Montecristo udì dei singhiozzi.  Sotto un 
      pergolato  di  gelsomini della Virginia,  dalle foglie fitte e dai 
      lunghi fiori color porpora,  vide Mercedes curva e piangente  che, 
      seduta,  sola sotto quel cielo splendido, col viso nascosto fra le 
      mani,  dava libero sfogo ai sospiri e al  pianto  così  lungamente 
      contenuti in presenza del figlio. 
      Montecristo  fece  qualche passo in avanti,  e la sabbia scricchiò 
      sotto i piedi;  Mercedes rialzò la testa,  e  mandò  un  grido  di 
      spavento vedendosi davanti improvvisamente un uomo. 
      "Signora"  disse  il  conte,  "non è più in mio potere portarvi la 
      felicità,  ma vi offro consolazione;  degnatevi di accettarla come 
      amico." 
      "Io  sono  infatti  molto  disgraziata"  disse Mercedes.  "Sola al 
      mondo!... Non avevo che mio figlio, e mi ha lasciata." 
      "E ha fatto bene,  signora" replicò il conte.  "Ha dato  prova  di 
      nobiltà.  Ha capito che ogni uomo deve un tributo alla patria: gli 
      uni con i talenti,  gli  altri  con  l'industria;  questo  con  le 
      veglie,  quello con il sangue. Restando con voi, avrebbe consumato 
      vicino a voi la sua vita  divenuta  inutile,  non  avrebbe  potuto 
      capire  i  vostri  dolori,  sarebbe  divenuto  odioso a stesso per 
      impotenza;   invece  diventerà  grande  e  forte  lottando  contro 
      l'avversità,  e la muterà in fortuna. Lasciate che ricostruisca il 
      vostro avvenire, anzi quello d'entrambi,  signora: oso promettervi 
      che egli si trova fra mani sicure." 
      "Oh"  disse  la  povera  donna,  scuotendo  tristemente  la testa, 
      "questa fortuna di cui parlate,  e che dal fondo del  cuore  prego 
      Dio  gli  venga  concessa,  io  non  la godrò.  Tante cose si sono 
      infrante dentro di me,  intorno a me,  che mi  sento  vicina  alla 
      tomba.  Avete fatto bene,  signor conte, a farmi tornare nel luogo 
      dove sono stata felice: nel luogo ove si è stati  felici,  si  può 
      anche morire." 
      "Cosa dite,  signora" disse Montecristo.  "Le vostre parole cadono 
      amare e brucianti sul cuore,  tanto  più  amare  e  brucianti,  in 
      quanto  avete  ragione  di  odiarmi essendo io la causa di tutti i 
      vostri mali... Ah, perché non mi compiangete, invece di accusarmi? 
      Così mi renderete molto più disgraziato ancora..." 
      "Io odiarvi, accusare voi, voi, Edmondo!.. Odiare, accusare l'uomo 
      che ha salvato la vita di mio figlio!?  Non era  certo  vostra,  e 
      fatale  e  sanguinosa intenzione uccidere al signor Morcerf questo 
      figlio di cui andava così orgoglioso. Guardatemi,  e vedrete se vi 
      è in me la volontà di un rimprovero." 
      Il  conte sollevò lo sguardo,  e lo fermò sopra Mercedes,  che per 
      metà sollevata, stendeva le mani verso di lui. 
      "Oh,   guardatemi"  continuò  con  un   sentimento   di   profonda 
      malinconia,  "oggi  si  può sopportare tutto lo splendore dei miei 
      occhi...  Non è più il tempo in cui venivo a sorridere ad  Edmondo 
      Dantès,  che  mi aspettava lassù alla finestra di quella soffitta, 
      dove abitava il suo vecchio padre...  Da quel tempo sono trascorsi 
      molti giorni dolorosi.  Io accusare voi,  Edmondo,  odiarvi, amico 
      mio? No, me sola accuso e odio!  Oh,  miserabile che sono!" gridò, 
      giungendo  le mani ed alzando gli occhi al cielo.  "Sono stata ben 
      punita!... Avevo la religione,  l'innocenza,  l'amore,  questi tre 
      beni che formano gli angeli, e, miserabile, ho dubitato di Dio." 
      Montecristo  fece un passo verso di lei e le stese silenziosamente 
      la mano. 
      "No" disse lei ritirando dolcemente la sua, "no, amico mio, non mi 
      toccate...  Voi mi  avete  risparmiata,  e  benché  fossi  la  più 
      colpevole di quanti avete colpito. Tutti gli altri hanno agito per 
      odio,  per cupidigia,  per egoismo: ma io ho agito per viltà. Essi 
      desideravano,  io ho avuto paura.  No,  non mi stringete la  mano, 
      Edmondo,  voi  meditate qualche parola affettuosa,  io lo sento... 
      Non la dite,  serbatela per un'altra,  io non ne sono  più  degna, 
      io...  Guardate..." scoperse del tutto il suo viso: "guardate,  le 
      disgrazie hanno fatto i miei capelli grigi,  i  miei  occhi  hanno 
      versato tante lacrime che sono cerchiati di vene violette,  la mia 
      fronte si riempie di rughe...  Voi,  al  contrario,  Edmondo,  voi 
      siete  sempre  giovane,  sempre bello,  sempre altero,  perché voi 
      avete avuto la forza,  perché avete confidato in Dio,  e Dio vi ha 
      sostenuto.  Io  sono  stata  vile,  l'ho  rinnegato,  e  Dio  m'ha 
      abbandonata." 
      Mercedes si struggeva in lacrime, il cuore della donna si spezzava 
      all'urto delle rimembranze.  Montecristo le baciò  rispettosamente 
      la mano, ma lei sentì che quel bacio era senza ardore. 
      "Vi  sono" continuò,  "esistenze predestinate a cui il primo fallo 
      spezza tutto l'avvenire. Io vi credevo morto, avrei dovuto morire: 
      poiché a cosa ha servito il portare eternamente  il  vostro  lutto 
      nel mio cuore? A formare di una donna di trentanove anni una donna 
      di  cinquant'anni,  ecco  tutto.  A cosa ha servito,  che sola fra 
      tutti vi abbia riconosciuto?  Ho soltanto salvato mio figlio.  Non 
      dovevo ugualmente salvare l'uomo,  per quanto colpevole, che avevo 
      accettato per marito? L'ho lasciato morire...  Che dico,  mio Dio? 
      Ho contribuito alla sua morte,  con la mia vile insensibilità, col 
      mio disprezzo,  non ricordandomi  o  non  volendo  ricordarmi  che 
      diventò  spergiuro  e traditore per me!  A che serve infine che io 
      abbia accompagnato mio figlio fin qui, se qui lo abbandono, se qui 
      lo lascio partire,  se qui lo getto su  quella  terra  divoratrice 
      d'Africa!  Oh,  io sono stata vile,  ve lo ripeto, ho rinnegato il 
      mio amore,  e come i rinnegati porto disgrazia a tutto  quanto  mi 
      circonda." 
      "No,  Mercedes"  disse  Montecristo,  "no,  giudicate  meglio  voi 
      stessa. No, voi siete una nobile e santa donna, mi avete disarmato 
      col vostro  dolore.  Ma  dietro  a  me,  invisibile,  sconosciuta, 
      irritata, vi era una Provvidenza di cui non ero che il mandatario, 
      e  che non ha voluto arrestare il fulmine che avevo lanciato.  Oh, 
      lo giuro a Dio, ai piedi del quale, da dieci anni, mi prostro ogni 
      giorno,  attesto a questo Dio che io vi avevo fatto il  sacrificio 
      della vita,  e con essa quello dei progetti,  che vi erano donati. 
      Ma,  lo dico con orgoglio,  Mercedes,  sembra che  la  Provvidenza 
      abbia  scelto me come suo strumento,  ed ho vissuto.  Esaminate il 
      passato, esaminate il presente, cercate d'indovinare l'avvenire, e 
      poi vedrete se ho ragione di credermi uno strumento del Signore; i 
      più spaventosi infortuni,  le più crudeli sofferenze,  l'abbandono 
      di tutti quelli che mi amavano,  la persecuzione di coloro che non 
      mi conoscevano, ecco la prima parte della mia vita;  quindi,  d'un 
      tratto, dopo la prigionia e la solitudine e la miseria, l'aria, la 
      libertà,  la ricchezza così enorme,  così fatidica, che, a meno di 
      essere cieco,  ho dovuto pensare che Dio me la inviava per  grandi 
      cose.   Da   quel  momento  questa  ricchezza  mi  è  sembrata  un 
      sacerdozio, da allora,  non più un pensiero in me per questa vita, 
      di cui,  povera donna, avete qualche volta assaporata la dolcezza, 
      non più un'ora di calma, mi sono sentito come nube di fuoco spinta 
      dal ciclo per bruciare le città maledette. Come quegli avventurosi 
      capitani che s'imbarcano per un viaggio pericoloso, o che meditano 
      una pericolosa spedizione,  io preparavo  i  viveri,  caricavo  le 
      armi,  accumulavo  i  mezzi  di attacco e di difesa,  abituando il 
      corpo agli  esercizi  più  violenti,  lo  spirito  alle  cose  più 
      faticose,  addestrando  il  braccio ad uccidere,  assuefacendo gli 
      occhi a veder uccidere,  a vedere soffrire,  la bocca a  sorridere 
      agli spettacoli più terribili; da buono, confidente, incurante che 
      ero,  mi sono fatto vendicativo, cattivo, o piuttosto impassibile, 
      come la sorda e cieca fatalità.  Allora mi sono buttato sulla  via 
      che mi era aperta,  ho oltrepassato lo spazio, ho toccato la meta: 
      guai a coloro che ho incontrato sul mio cammino!" 
      "Basta,  basta,  Edmondo!  Credete a quella  che  sola  ha  potuto 
      riconoscervi,  e sola anche ha saputo comprendervi?  Ora, Edmondo, 
      quella  che  ha  saputo  riconoscervi,   quella  che   ha   saputo 
      comprendervi,  quella  che,  se  l'aveste  incontrata sulla vostra 
      strada,  avreste infranta come vetro,  quella ha  dovuto  tuttavia 
      ammirarvi, Edmondo! Come c'è un abisso fra me e il passato così ce 
      n'è un altro fra voi e gli uomini,  e la mia più dolorosa tortura, 
      ve lo dirò, è fare dei confronti, poiché nulla trovo nel mondo che 
      vi pareggi, nulla che vi assomigli. Ora, addio, Edmondo..." 
      "Prima  che  vi  lasci,   che   desiderate,   Mercedes?"   domandò 
      Montecristo. 
      "Desidero, Edmondo, che mio figlio sia felice." 
      "Pregate il Signore, che tiene l'esistenza degli uomini fra le sue 
      mani, di allontanare da lui la morte, io m'incarico del resto. 
      "Grazie, Edmondo." 
      "Ma voi, Mercedes?" 
      "Io non ho bisogno di niente,  vivo fra due tombe: una è quella di 
      Edmondo Dantès,  morto da lungo tempo,  e che io amavo!...  Questa 
      parola  non  è più consona alle mie labbra,  ma il mio cuore se ne 
      ricorda ancora, e per niente al mondo io vorrei perdere la memoria 
      del cuore... L'altra è quella di un uomo ucciso da Edmondo Dantès: 
      io approvo l'uccisione, ma debbo piangere la vittima." 
      "Vostro figlio sarà felice, signora" ripeté il conte. 
      "Allora io pure sarò felice, quanto potrò esserlo." 
      "Ma... infine..., che cosa farete?" 
      Mercedes sorrise tristemente. 
      "Se vi dicessi che vivrò in questo paese come la Mercedes  di  una 
      volta,  lavorando,  non lo credereste;  io non sono più atta che a 
      pregare,  e non ho bisogno di lavorare: il piccolo tesoro  sepolto 
      da voi si ritrovò al posto indicato.  Si domanderà chi sono io, si 
      vorrà sapere che cosa  faccio,  non  si  saprà  come  vivo...  Che 
      importa? Questo è un segreto fra Dio, voi e me." 
      "Mercedes"  disse  il conte,  "io non ve ne faccio rimprovero,  ma 
      avete esagerato il sacrificio,  abbandonando tutta la sostanza del 
      signor  Morcerf,  la  cui  metà  vi  apparteneva di diritto per la 
      vostra parsimonia e previdenza." 
      "Vedo ciò che volete proporre, ma non posso accettare;  mio figlio 
      me lo proibirebbe." 
      "Mi  guarderò  bene  dal  fare  per voi alcuna cosa che non avesse 
      l'approvazione di Alberto.  Io saprò le sue intenzioni,  e  mi  vi 
      sottometterò. Ma se egli accetta ciò che voglio fare, lo imiterete 
      senza esitazioni?" 
      "Voi sapete,  Edmondo,  che non sono più una creatura pensante, io 
      non ho alcuna determinazione.  Dio mi ha talmente  scossa  che  ho 
      perduto  la  volontà.  Sono fra le sue mani,  come passero fra gli 
      artigli dell'aquila. Egli non vuole che io muoia, poiché vivo.  Se 
      mi manderà soccorsi, è segno che lo vorrà, ed io li prenderò." 
      "Badate, signora" disse Montecristo, "che Dio non va adorato così. 
      Egli vuole essere compreso,  vuole che si conosca la sua possenza, 
      e per questo ci ha dato libero arbitrio." 
      "Ah crudele!" gridò Mercedes.  "Non mi  parlate  così,  lasciatemi 
      l'illusione di non avere libero arbitrio! Se no, che mi resterebbe 
      per salvarmi dalla disperazione?" 
      Montecristo  impallidì  leggermente,  e  abbassò la testa oppressa 
      dalla veemenza del dolore. 
      "Non volete rivedermi?" disse, stendendole la mano. 
      "Al  contrario,   vi  rivedrò"  replicò   Mercedes,   mostrandogli 
      solennemente il cielo. "Questo è un provarvi che spero ancora." 
      E  dopo aver stretto con mano tremante quella del conte,  Mercedes 
      corse all'interno della casa, e sparì dalla sua vista. 
      Montecristo uscì con passo lento da quella casa, e prese la strada 
      del porto. Ma Mercedes non lo vide allontanarsi,  quantunque fosse 
      alla  finestra  della  piccola camera del padre di Dantès,  i suoi 
      occhi cercavano lontano il bastimento che trasportava  suo  figlio 
      verso il mare.  E' però vero che la voce,  suo malgrado, mormorava 
      sommessamente: 
      "Edmondo, Edmondo, Edmondo..." 
      Il conte era uscito con l'animo oppresso  da  quella  casa,  dove, 
      secondo tutte le probabilità,  lasciava Mercedes per non rivederla 
      mai più. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 113. 
                                 IL PASSATO. 
 
 
      Dopo la  morte  del  piccolo  Edoardo,  si  era  operato  un  gran 
      cambiamento in Montecristo. 
      Giunto  al  sommo  della  sua  vendetta  per  il  lento e tortuoso 
      declivio che aveva seguito,  vide l'abisso del dubbio.  Vi era  di 
      più:  il  colloquio  con  Mercedes  gli  aveva  risvegliato  tante 
      rimembranze nel cuore che bisognava fossero combattute. 
      Un uomo dell'indole del conte non poteva fluttuare  lungamente  in 
      quella  malinconia  che  può  far vivere gli spiriti volgari dando 
      loro una apparente originalità, ma che uccide le anime elevate. Il 
      conte diceva a se stesso che per essere giunto quasi a biasimarsi, 
      bisognava che si fosse sbagliato nei suoi calcoli. 
      "Io guardo male il passato" disse,  "e non posso  essermi  in  tal 
      modo sbagliato" continuava.  "Lo scopo che mi ero proposto sarebbe 
      forse insensato?  Avrei percorso una falsa strada per dieci  anni? 
      Un'ora  sarebbe  bastata  per provarmi che l'opera di tutte le mie 
      speranze era un'opera, se non impossibile, almeno perversa? Io non 
      voglio abituarmi a questa idea, mi renderebbe pazzo. Ciò che manca 
      ai miei ragionamenti d'oggi è l'apprezzamento esatto del  passato. 
      Infatti,  mano  mano  che ci si allontana,  il passato,  simile al 
      paesaggio attraverso cui si passa,  si cancella dalla memoria.  Mi 
      accade  come  a  coloro  che  si  sono feriti in sogno: guardano e 
      sentono la loro ferita,  e non si ricordano  di  averla  ricevuta. 
      Orsù  dunque,  uomo  rigenerato,  ricco,  stravagante,  dormiente, 
      risvegliati! Visionario possente, milionario invincibile, riprendi 
      per  un  istante  questa  prospettiva  funesta  della   tua   vita 
      miserabile  ed  affamata,  ripassa  per  il  sentiero in cui ti ha 
      spinto la tua stella,  in cui ti ha condotto la cattiva sorte,  in 
      cui ti ha ricevuto la disperazione!  Troppi diamanti,  troppo oro, 
      troppa felicità,  irradiano oggi sul cristallo di questo  specchio 
      da  cui  Montecristo  guarda  Dantès..  Nascondi  questi diamanti, 
      imbratta quest'oro, cancella questi raggi; ricco,  ritorna povero, 
      libero ritorna prigioniero, resuscitato, ritorna cadavere." 
      Mormorando  queste  frasi,  Montecristo  percorreva  la  rue de la 
      Caisserie,  la stessa per la quale,  vent'anni  prima,  era  stato 
      condotto  da  una  guardia silenziosa: tutto era per lui in quella 
      notte tetro, muto e chiuso. 
      "Eppure sono  le  stesse  case"  mormorò  Montecristo,  "soltanto, 
      allora,  faceva notte, e oggi è giorno chiaro; e il sole che rende 
      tutto così gaio." 
      Discese allo scalo di San Lorenzo  e  avanzò  verso  il  posto  di 
      guardia,  era il punto dove fu imbarcato.  Il battello da tragitto 
      era a poca distanza.  Montecristo chiamò il barcaiolo  che  subito 
      remò verso di lui,  con la sollecitudine consueta dei battellieri. 
      Il tempo era magnifico, il viaggio fu una festa. 
      Il sole scendeva all'orizzonte rosso e  fiammeggiante  sui  flutti 
      che  si  arrossavano al suo avvicinarsi,  il mare,  terso come uno 
      specchio,  si agitava a tratti sotto il  guizzo  dei  pesci,  che, 
      perseguitati   da   qualche  nascosto  nemico,   guizzavano  fuori 
      dall'acqua per chiedere la loro salvezza all'aria mortale,  infine 
      all'orizzonte  si  vedevano  passare,   bianche  e  graziose  come 
      gabbiani,  le vele delle barche dei  pescatori  che  tornavano  da 
      Martigues, o bastimenti mercantili carichi per la Corsica o per la 
      Spagna.  Pur  con  quel  bel  cielo,  malgrado  quelle  barche dai 
      graziosi contorni,  pure in quella luce  dorata  che  inondava  il 
      paesaggio,  il conte, avvolto nel suo mantello, si ricordava a uno 
      a uno tutti i particolari del terribile viaggio: il  lume  isolato 
      che ardeva ai Catalani,  la vista del Castello d'If, che gli aveva 
      fatto capire dove lo conducevano,  la lotta con i gendarmi  quando 
      volle  precipitarsi  in mare,  la sua disperazione quando si sentì 
      vinto,  e la sensazione di freddo  provata  sentendo  alla  tempia 
      l'estremità  della  canna  di carabina come un anello di ghiaccio. 
      Allora per lui non vi fu più cielo, più barche,  più luce ardente; 
      il  cielo si velò di nubi,  l'apparizione del tetro gigante che si 
      chiama Castello d'If lo  fece  rabbrividire,  come  se  gli  fosse 
      comparso d'un tratto il fantasma d'un nemico mortale. 
      Istintivamente  il  conte arretrò fino all'estremità del battello. 
      Il barcaiolo aveva un bel dire con la sua voce melliflua: 
      "Siamo a terra, signore." 
      Montecristo si ricordò che in  quel  medesimo  luogo,  sopra  quel 
      medesimo   scoglio,   era  stato  trascinato  violentemente  dalle 
      guardie, che lo avevano forzato a salirvi, pungendogli le reni con 
      la punta di una baionetta. 
      Il percorso era sembrato molto lungo allora a Dantès,  Montecristo 
      l'aveva  trovato  cortissimo;  ogni colpo di remo,  che sollevava, 
      come allora,  tanti spruzzi,  aveva ridestato in lui un milione di 
      pensieri e di ricordi. 
      Dopo  la  rivoluzione  di  luglio  non  c'erano più prigionieri al 
      Castello d'If;  un picchetto destinato ad impedire il contrabbando 
      abitava i corpi di guardia;  un portinaio aspettava i curiosi alla 
      porta per mostrar loro questo monumento di terrore, divenuto luogo 
      di curiosità.  Eppure,  quantunque fosse istruito  di  tutti  quei 
      particolari,  quando entrò sotto la volta,  quando discese la nera 
      scala,  quando fu condotto al carcere che aveva chiesto di vedere, 
      un  gelido  pallore  gli  investì  la fronte,  il freddo sudore fu 
      respinto fino al cuore. 
      Il portinaio che  lo  conduceva  era  là  soltanto  dal  1830.  Fu 
      condotto  nella  sua  cella.  Rivide  la pallida luce che filtrava 
      dallo stretto spiraglio,  rivide il posto ove era il letto,  tolto 
      poi,  e  dietro al letto,  murata ma visibile ancora per le pietre 
      più nuove, rivide l'apertura scavata dall'amico Faria. Montecristo 
      sentì le gambe indebolirsi,  e,  preso uno sgabello di  legno,  si 
      sedette. 
      "Si   racconta   nessuna   storia   su   questo   castello   oltre 
      l'imprigionamento di Mirabeau?" domandò il conte. "Non c'è qualche 
      ricordo su queste lugubri dimore,  dove si stenta  a  credere  che 
      uomini vivi possano mai essere stati rinchiusi?" 
      "Sì,  signore" disse il portinaio, "e di questa stessa prigione il 
      carceriere Antonio me ne ha raccontata una." 
      Montecristo fremette.  Il carceriere  Antonio  era  stato  il  suo 
      carceriere.  Ne  aveva quasi dimenticato il nome ed il viso,  ma a 
      sentirne pronunciare il nome,  lo ripensò com'era: faccia nascosta 
      da folta barba,  la veste bruna,  e il mazzo di chiavi, di cui gli 
      sembrava ancora  sentire  il  tintinnio.  Il  conte  si  voltò,  e 
      credette  di  rivederlo nell'ombra del corridoio,  resa più oscura 
      dalla luce della torcia che ardeva nelle mani del portinaio. 
      "Signore, vuole che gliela racconti?" domandò il portinaio. 
      "Sì" disse il conte di Montecristo, "dite." 
      E mise la mano sul petto per comprimere i  frequenti  battiti  del 
      cuore, spaventato al pensiero di udire la propria storia. 
      "Dite" ripeté. 
      "Questa   cella"   riprese  il  portinaio,   "era  abitata  da  un 
      prigioniero, molto tempo fa, uomo pericoloso,  a quanto sembra,  e 
      tanto  più  pericoloso,  in quanto era industriosissimo.  Un altro 
      uomo era imprigionato a quel  tempo  in  questo  stesso  castello, 
      questi  però non era cattivo,  era un povero scienziato,  divenuto 
      pazzo." 
      "Ah, pazzo!" ripeté Montecristo. "E qual era la sua pazzia?" 
      "Offriva milioni se avessero voluto rendergli la libertà." 
      Montecristo alzò gli occhi al cielo,  c'era un nero strato fra lui 
      e   il  firmamento.   Pensò  allora  che  c'era  stato  un  simile 
      accecamento tra Faria che offriva tesori e gli occhi di coloro  ai 
      quali venivano offerti. 
      "I prigionieri potevano vedersi?" domandò Montecristo. 
      "Oh,  no,  signore,  era  espressamente  proibito,  ma  elusero la 
      proibizione scavando un  passaggio  che  andava  da  una  prigione 
      all'altra." 
      "Chi fu dei due quello che scavò il passaggio?" 
      "Fu  certamente  il  giovane" disse il portinaio.  "Il giovane era 
      abile e forte mentre il povero scienziato era  vecchio  e  debole; 
      d'altra  parte  aveva lo spirito troppo vacillante per tener ferma 
      un'idea." 
      "Ciechi!..." mormorò Montecristo. 
      "Tanto è vero" continuò il portinaio, "che il giovane scavò questo 
      passaggio,  non si sa come,  ma lo scavò,  e la prova è che se  ne 
      vedono ancora le tracce... Le vedete?" 
      E avvicinò la torcia al muro. 
      "Sì,   è  vero"  esclamò  il  conte,   con  voce  affievolita  per 
      l'emozione. 
      "Ne risultò che i due prigionieri si videro e si parlarono. Quanto 
      tempo durasse questo loro rapporto,  non si sa.  Ora un giorno  il 
      vecchio  cadde  malato  e  morì.  Indovinate  un  po' cosa fece il 
      giovane?" disse il custode interrompendosi. 
      "Dite." 
      "Trasportò il defunto e lo pose nel  proprio  letto  col  viso  al 
      muro,  quindi  ritornò  nella  cella vuota,  chiuse il foro,  e si 
      cacciò dentro al sacco del morto. Vi sarebbe mai venuta una simile 
      idea?" 
      Montecristo chiuse  gli  occhi,  e  tornò  a  risentire  tutte  le 
      impressioni  che  aveva  provate allora quando quella grossa tela, 
      ancora  fredda  per  il  cadavere  che  vi  era  stato,  quasi  lo 
      soffocava. 
      Il custode continuò: 
      "Sentite  ora  quale era il suo progetto: pensava che nel Castello 
      d'If i morti si seppellissero,  e credendo che  non  si  facessero 
      grandi  spese  per  sotterrare  i prigionieri,  calcolava forse di 
      potere rialzare la terra con le spalle, ma, disgraziatamente,  nel 
      castello  c'era  un  altro  uso:  i  morti  non  si  seppellivano; 
      attaccata ai piedi una grossa pietra o una palla  di  cannone,  li 
      gettavano in mare.  E così fu fatto;  il nostro uomo fu gettato in 
      acqua dall'alto del bastione,  il giorno dopo  si  trovò  il  vero 
      morto nel suo letto e si indovinò tutto, poiché i becchini dissero 
      allora, cosa che non avevano osato dire prima, che quando il corpo 
      fu  lanciato  nel  vuoto,   avevano  sentito  un  grido  terribile 
      soffocato nello stesso istante dall'acqua  in  cui  il  corpo  era 
      scomparso." 
      Il  conte  respirava con pena,  il sudore gli colava dalla fronte, 
      l'angoscia gli stringeva il cuore. 
      "No!" mormorò.  "Quel dubbio che provai era un principio  d'oblio, 
      ma qui il cuore si riapre di nuovo e torna affamato di vendetta... 
      E del prigioniero" domandò, "se ne è mai sentito parlare?" 
      "Mai,  mai più... E, capirete bene, delle due cose una: o è caduto 
      piatto,  e siccome cadeva da una cinquantina di  piedi  d'altezza, 
      sarà rimasto ucciso sul colpo..." 
      "Avete  detto  che  gli era stata attaccata una pietra ai piedi... 
      Sarà caduto ritto." 
      "...O è caduto ritto" riprese il  portinaio,  "e  allora  il  peso 
      della  pietra  lo  avrà  trascinato  al  fondo,  dove  è  rimasto, 
      pover'uomo..." 
      "Lo compiangete?" 
      "Per parte mia sì, quantunque fosse il suo elemento." 
      "Che cosa volete dire con ciò?" 
      "Correva voce che quel disgraziato fosse stato,  in  altri  tempi, 
      ufficiale di marina, detenuto come bonapartista." 
      "O  verità" mormorò il conte,  "Dio ti ha fatta per galleggiare al 
      di sopra dei flutti e delle fiamme... Così il povero marinaio vive 
      nella memoria di qualche narratore,  si racconta la sua  terribile 
      storia  all'angolo  del  caminetto,  e  si freme al momento in cui 
      precipitò nello  spazio  per  essere  inghiottito  nel  fondo  del 
      mare...  Non  si  è  mai  saputo  il  suo nome?" domandò il conte, 
      alzando la voce. 
      "Ah no" disse il guardiano. 
      "Perché?" 
      "Non era conosciuto che sotto il nome del numero, trentaquattro." 
      "Villefort!" mormorò Montecristo,  "ecco ciò che molte volte avrai 
      dovuto dire a te stesso,  quando il mio spettro importunava le tue 
      veglie." 
      "Il signore vuole continuare la visita?" domandò il portinaio. 
      "Sì,   particolarmente  se  volete  mostrarmi   la   cella   dello 
      scienziato." 
      "Ah, il numero ventisette." 
      "Sì, il ventisette" ripeté Montecristo. 
      E gli sembrò ancora di sentire la voce di Faria,  quando gli aveva 
      domandato il suo nome,  e questi  gli  aveva  gridato  il  proprio 
      attraverso il muro. 
      "Venite." 
      "Aspettate" disse Montecristo,  "che io getti un ultimo sguardo in 
      questa cella." 
      "Me lo dite a proposito" disse la guida, "ho dimenticato la chiave 
      dell'altro." 
      "Andate a prenderla." 
      "Vi lascio la torcia." 
      "No, portatela con voi." 
      "Ma resterete all'oscuro." 
      "Io la notte ci vedo." 
      "Toh, come lui." 
      "Lui chi?" 
      "Il trentaquattro. Si dice che era talmente abituato all'oscurità, 
      che avrebbe visto una spilla  nell'angolo  più  oscuro  di  questa 
      cella." 
      "Gli  fu  però necessaria una decina d'anni per giungervi" mormorò 
      il conte. 
      La guida si allontanò portando la torcia.  Il conte aveva detto il 
      vero: dopo esser rimasto alcuni secondi nell'oscurità,  cominciò a 
      distinguere tutto come a giorno chiaro.  Allora guardò  intorno  a 
      sé, e riconobbe bene il suo carcere. 
      "Sì"  disse,  "ecco la pietra sulla quale sedevo,  ecco l'impronta 
      delle mie spalle che hanno consumato il muro,  ecco la traccia del 
      sangue  che mi colò dalla fronte il giorno in cui volli ferirmi la 
      testa contro la parete!... Oh, queste cifre... io me ne ricordo... 
      le feci un giorno che calcolavo l'età di mio padre per  sapere  se 
      lo  avrei rivisto vivo,  e l'età di Mercedes per sapere se l'avrei 
      ritrovata libera...  Ebbi un momento di speranza dopo aver  finito 
      questo   calcolo...   io   non   tenevo   conto   della   fame   e 
      dell'infedeltà." 
      E un riso amaro sfuggì dalla bocca del conte.  Vide come in  sogno 
      suo  padre  portato  alla  tomba...  Mercedes condotta all'altare! 
      Sull'altra  parete  del  muro  un'iscrizione   attrasse   la   sua 
      attenzione. Si staccava, ancor bianca, sul muro verdastro: 
      "Mio Dio" lesse Montecristo, "conservatemi la memoria." 
      "Oh,  sì" gridò, "ecco la sola preghiera dei miei ultimi tempi. Io 
      non chiedevo più la mia libertà, io chiedevo la memoria, temevo di 
      diventare pazzo,  e  di  dimenticare  tutto.  Mio  Dio,  mi  avete 
      conservata la memoria,  ed io mi sono ricordato di tutto.  Grazie, 
      grazie, mio Dio!" 
      In quel momento la luce della torcia risplendette sul muro; era la 
      guida che scendeva. Montecristo le andò incontro. 
      "Seguitemi" disse l'uomo con la torcia. 
      E,  senza  avere  bisogno  di  tornare  verso  l'uscita,  lo  fece 
      continuare  per  un  corridoio  sotterraneo  che  lo  condusse  ad 
      un'altra cella.  Là pure Montecristo fu assalito da una  folla  di 
      pensieri. 
      La prima cosa che colpì i suoi occhi,  fu la meridiana,  tracciata 
      sul muro,  con cui Faria contava le ore,  quindi i resti del letto 
      sul quale era morto il povero prigioniero. 
      A  quella  vista  il  conte  di Montecristo invece di risentire le 
      angosce  vissute  nella  sua  cella,   provò  un  dolce  e  tenero 
      sentimento: il sentimento della riconoscenza gli prese il cuore, e 
      due grosse lacrime gli gocciolarono dagli occhi. 
      "Qui"  disse  la guida,  "abitava il pazzo,  e per di là veniva il 
      giovane a ritrovarlo" e mostrò a Montecristo  l'apertura,  che  da 
      quella  parte  era  rimasta  aperta.   "Al  colore  della  pietra" 
      continuò,  "un perito ha riconosciuto che dovevano  essere  almeno 
      dieci  anni  che  i  due prigionieri comunicavano assieme.  Povera 
      gente, devono essersi molto annoiati in quei dieci anni!" 
      Dantès  cavò  alcuni  luigi  di  tasca,  e  stese  la  mano  verso 
      quell'uomo   che   lo  compiangeva  per  la  seconda  volta  senza 
      conoscerlo.  Il portinaio  li  ricevette,  credendo  trattarsi  di 
      moneta spicciola,  ma quando,  al chiarore della torcia, riconobbe 
      il valore del denaro dato dal visitatore: 
      "Signore" disse, "vi siete sbagliato." 
      "E perché?" 
      "Mi avete dato dell'oro." 
      "Lo so." 
      "Come, lo sapete?" 
      "Lo so." 
      "E' dunque stata vostra intenzione darmi dell'oro?" 
      "Sì." 
      "Dunque posso conservarlo in buona coscienza?" 
      "Sì." 
      E il custode guardò Montecristo con meraviglia. 
      "Oh, onestà!" disse il conte, come Amleto. 
      "Signore" disse il portinaio,  che  non  osava  credere  alla  sua 
      fortuna, "signore, io non capisco la vostra generosità." 
      "Eppure  è  facile a comprendersi,  amico mio" disse il conte: "io 
      sono stato marinaio,  e la vostra storia mi ha  commosso  in  modo 
      straordinario." 
      "Allora,  signore"  disse  la guida,  "poiché siete così generoso, 
      meritate che vi offra qualche cosa." 
      "Che cosa hai da offrirmi, amico mio? Delle conchiglie? dei lavori 
      di paglia? Grazie." 
      "No, signore, no...  Qualche cosa in rapporto con la storia che vi 
      narravo." 
      "Davvero?" gridò vivamente il conte. "Che cosa è dunque?" 
      "Ascoltate"  disse  il  portinaio,  "ecco  che  cosa  è  accaduto: 
      pensando fra me stesso, che nella cella di un prigioniero,  quando 
      questi  vi è rimasto quindici anni,  si trova sempre qualche cosa, 
      mi sono messo ad esplorare i muri." 
      "Ah!"  gridò  Montecristo,  ricordandosi  il  doppio  nascondiglio 
      dell'amico. 
      "A  forza  di  ricerche" continuò il custode,  "trovai che il muro 
      risuonava al di sotto del  capezzale  del  letto,  come  sotto  il 
      caminetto." 
      "Sì" disse Montecristo, "sì." 
      "Levai le pietre, ed ho trovato..." 
      "Una scala di corda, degli utensili!" gridò il conte. 
      "E come lo sapete?" domandò il portinaio sorpreso. 
      "Non  lo  so,  ma  lo indovino" disse il conte.  "Normalmente sono 
      queste le cose che si ritrovano nei nascondigli dei prigionieri." 
      "Sì,  signore" disse  la  guida,  "una  scala  di  corda  e  degli 
      utensili..." 
      "E li hai ancora?" gridò Montecristo. 
      "No,  signore,  ho venduto questi diversi oggetti, così strani, ad 
      alcuni visitatori, ma mi resta qualche altra cosa." 
      "Che cosa dunque?" domandò il conte con impazienza. 
      "Mi resta una specie di libro, scritto sopra strisce di tela." 
      "Oh!" gridò Montecristo. "Ti resta questo libro?" 
      "Io non so se sia un libro" disse il custode,  "ma mi resta quanto 
      ho detto." 
      "Va',  amico mio,  a cercarlo" disse il conte, "e, se è quello che 
      presumo sta' pur tranquillo, non avrai a pentirtene." 
      "Corro, signore..." 
      E  la  guida  uscì.  Allora  Montecristo  andò  ad  inginocchiarsi 
      pietosamente davanti ai resti di quel letto, che per lui era stato 
      dalla morte convertito in altare. 
      "Oh,  mio  secondo  padre" disse,  "tu mi hai dato la libertà,  la 
      scienza,  la ricchezza,  tu,  che simile alle creature di  essenza 
      superiore  alla nostra,  avevi la scienza del bene e del male,  se 
      dal fondo della tua tomba resta ancora qualche cosa che frema alla 
      voce  di  quelli  che  sono  rimasti   sulla   terra,   se   nella 
      trasfigurazione che subisce il cadavere qualche cosa di animato si 
      agita  nei  luoghi  ove  noi abbiamo molto amato o molto sofferto, 
      nobile cuore, spirito superiore,  anima profonda,  con una parola, 
      con un gesto,  con una rivelazione qualunque,  te ne scongiuro, in 
      nome dell'amore paterno che mi accordavi,  e del rispetto figliale 
      che ti portavo,  toglimi questo resto di dubbio,  fa' che si cambi 
      in convinzione, e sgombra il rimorso." 
      Il conte abbassò la testa, e congiunse le mani. 
      "Prendete, signore" disse una voce dietro a lui. 
      Montecristo rabbrividì, e si voltò. 
      Il portinaio gli stese quelle strisce di tela su cui  Faria  aveva 
      sparso tutti i tesori della sua scienza. Questo manoscritto era la 
      grande opera di Faria, di cui abbiamo parlato. 
      Il conte se ne impadronì in tutta fretta,  e i suoi occhi, fin dal 
      principio, caddero sull'epigrafe, e lesse: 
      "Tu strapperai i denti al drago,  e calpesterai sotto i tuoi piedi 
      i leoni, ha detto il Signore." 
      "Ah!" gridò, "ecco la risposta! Grazie, padre mio, grazie!" 
      E  sfilando  di  tasca  un  piccolo portafogli che conteneva dieci 
      biglietti di banca di mille franchi ciascuno: 
      "Prendi" disse, "prendi questo portafogli." 
      "Me lo regalate?" 
      "Sì ma a condizione di non aprirlo che quando sarò partito." 
      E ponendosi sul petto la reliquia che aveva ritrovata,  e che  per 
      lui  aveva  il  prezzo  del  più gran tesoro,  si lanciò fuori del 
      sotterraneo, e risalendo nella barca: 
      "A Marsiglia!" disse. 
      Quindi allontanandosi con gli occhi fissi sulla tetra prigione: 
      "Maledizione a coloro che mi hanno fatto rinchiudere in quel tetro 
      carcere,   e  a  coloro  che  hanno  dimenticato  che  io  vi  ero 
      rinchiuso!" 
      E   ripassando  davanti  ai  Catalani,   il  conte  si  volse,   e 
      avvolgendosi nel mantello,  mormorò  il  nome  di  una  donna.  La 
      vittoria  era  completa,  il  conte aveva per due volte vinto ogni 
      dubbio.  Il nome che pronunciò con quell'espressione di  tenerezza 
      che tradiva l'amore, era il nome di Haydée. 
      Mettendo piede a terra, Montecristo si incamminò verso il cimitero 
      dove sapeva di ritrovare Morrel.  Là pure, in quel cimitero, dieci 
      anni prima, aveva pietosamente cercato una tomba,  ma inutilmente. 
      Il conte,  che ritornava in Francia con milioni,  non aveva potuto 
      ritrovare la tomba di suo padre,  morto di fame.  Morrel vi  aveva 
      ben fatto mettere una croce, ma la croce era caduta, ed i becchini 
      ne  avevano  fatto legna da ardere.  Il degno negoziante era stato 
      più fortunato: morto fra le braccia dei suoi figli, fu condotto da 
      loro a riposare vicino a sua moglie che lo aveva preceduto di  due 
      anni nell'eternità.  Due larghe pietre di marmo, sulle quali erano 
      scritti i loro nomi,  stavano stese l'una vicina all'altra  in  un 
      piccolo  recinto  chiuso  da un cancello di ferro e ombreggiato da 
      quattro cipressi. 
      Massimiliano era appoggiato ad uno di  questi  alberi,  e  fissava 
      sulle  due  tombe  gli  occhi che non vedevano.  Il suo dolore era 
      profondo, quasi smarrito. 
      "Massimiliano" gli disse il conte,  "non è li che dovete guardare, 
      ma là!" 
      E gli mostrò il cielo. 
      "I morti sono dappertutto" disse Morrel.  "Non mi avete detto così 
      voi stesso mentre uscivamo da Parigi?" 
      "Massimiliano, durante il viaggio,  mi avete domandato di fermarvi 
      qualche giorno a Marsiglia: avete sempre lo stesso desiderio?" 
      "Io non ho più alcun desiderio" disse Morrel.  "Mi sembra soltanto 
      che aspetterei meno penosamente a Marsiglia che in qualunque altro 
      luogo." 
      "Tanto meglio, Massimiliano, perché io vi lascio e porto con me la 
      vostra parola... Non è vero?" 
      "Ah,   io  la  dimenticherò,   conte"  disse   Massimiliano,   "la 
      dimenticherò!" 
      "No,  non  la  dimenticherete!  Prima di tutto,  perché siete uomo 
      d'onore Morrel,  poi perché lo avete giurato,  perché tornerete  a 
      giurarlo." 
      "Oh, conte, abbiate pietà di me! Conte, sono così infelice..." 
      "Io ho conosciuto un uomo più infelice di voi." 
      "Impossibile!" 
      "Amico"  disse  Montecristo,  "è  uno  degli  orgogli della nostra 
      povera umanità  quello  per  cui  un  uomo  si  crede  sempre  più 
      disgraziato di un altro che piange e si dispera vicino a lui." 
      "Chi  più  disgraziato  di  colui  che ha perduto il solo bene che 
      amava e desiderava al mondo?" 
      "Ascoltate,  Morrel" disse Montecristo,  "e fissate un istante  il 
      vostro pensiero su quanto sono per dirvi. Io ho conosciuto un uomo 
      che,  come voi, aveva riposto tutte le sue speranze di felicità in 
      una donna.  Questo uomo era giovane,  aveva un vecchio  padre  che 
      amava,  una fidanzata che adorava,  era sul punto di sposarla, per 
      uno di quei capricci della sorte che farebbero  quasi  dimenticare 
      la bontà di Dio,  se Dio poi non si rivelasse più tardi, mostrando 
      che tutto è per lui un mezzo di condurre alla sua unità  infinita, 
      per un capriccio della sorte dicevo, gli fu tolta, a un tratto, la 
      libertà,  la  fidanzata,  l'avvenire che sognava e che credeva suo 
      (poiché, cieco com'era, non poteva leggere che nel presente),  per 
      seppellirlo nel fondo di un carcere." 
      "Ah" esclamò Morrel,  "si può uscire dal carcere dopo otto giorni, 
      un mese, un anno." 
      "Vi restò quattordici anni,  Morrel" disse il conte,  ponendo  una 
      mano sulla spalla del giovane. 
      Massimiliano fremette. 
      "Quattordici anni!" 
      "Quattordici  anni"  ripeté  il  conte.   "Egli  pure,  in  questi 
      quattordici anni,  ebbe momenti di disperazione,  egli pure,  come 
      voi,  Morrel,  si  credeva il più disgraziato degli uomini,  volle 
      uccidersi." 
      "Ebbene?" domandò Morrel. 
      "Ebbene,  nel momento supremo,  Dio si rivelò a lui con  un  mezzo 
      umano.  Forse  al  primo  istante non comprese questa misericordia 
      infinita del Signore,  poiché ci vuol tempo agli occhi  velati  di 
      lacrime  per  schiudersi  del  tutto,  ma  infine prese pazienza e 
      aspettò.  Un giorno uscì  dalla  sua  tomba  trasfigurato,  ricco, 
      possente.  Il  suo  primo  grido  fu per suo padre,  suo padre era 
      morto." 
      "A me pure il padre è morto" disse Morrel. 
      "Sì ma vostro padre  è  morto  fra  le  vostre  braccia,  amico... 
      felice,  onorato,  ricco,  pieno di affetti; suo padre invece morì 
      povero,  disperato e di fame,  e quando dieci  anni  dopo  la  sua 
      morte, suo figlio cercò la sua tomba, questa pure era scomparsa, e 
      nessuno  poté  dirgli "là riposa nel Signore colui che ti ha tanto 
      amato"." 
      "Oh!" esclamò Morrel. 
      "Questo era un figlio più disgraziato di voi,  Morrel,  poiché non 
      sapeva neppure dove trovare la tomba di suo padre." 
      "Ma" disse Morrel, "gli restava almeno la donna che aveva amata." 
      "Vi sbagliate Morrel, questa donna..." 
      "Era morta?" gridò Massimiliano. 
      "Peggio  ancora:  non gli era stata fedele,  aveva sposato uno dei 
      persecutori  del  suo  fidanzato.  Vedete  dunque,   Morrel,   che 
      quest'uomo era più disgraziato di voi." 
      "E a quest'uomo" domandò Morrel, "Dio ha inviato la consolazione?" 
      "Gli ha inviato almeno la calma." 
      "E potrà ancora, un giorno, esser felice?" 
      "Lo spero, Massimiliano." 
      Il giovane lasciò cadere la testa sul petto, e disse: 
      "Voi avete la mia promessa." 
      E dopo un istante di silenzio,  e stendendo la mano a Montecristo, 
      soggiunse: 
      "Ricordatevi soltanto che..." 
      "Il 5 ottobre, Morrel,  vi aspetto all'isola di Montecristo.  Il 4 
      uno  yacht vi aspetterà nel porto di Bastia,  si chiamerà Euro: vi 
      presenterete al capitano, che vi condurrà da me.  Siamo d'accordo, 
      non è vero, Massimiliano?" 
      "Sì,  conte,  e  farò  ciò  che ho detto;  ma ricordatevi che il 5 
      ottobre..." 
      "Ragazzo, che non sa ancora che cosa sia la promessa di un uomo... 
      Vi ho detto venti volte che  se  in  quel  giorno  vorrete  ancora 
      morire... Morrel, addio." 
      "Mi lasciate?" 
      "Sì, ho alcune faccende in Italia." 
      "Quando partite?" 
      "Sul  momento.  Il  battello a vapore mi aspetta,  fra un'ora sarò 
      molto lontano da voi. Mi accompagnate fino al porto, Morrel?" 
      "Sono tutto vostro, conte." 
      "Abbracciatemi." 
      Morrel accompagnò il conte fino al porto.  Ben presto il  battello 
      partì,  e  un'ora  dopo,  come  aveva  detto Montecristo,  il fumo 
      biancastro  che  usciva  dalla  ciminiera  era   appena   visibile 
      all'orizzonte offuscato dalla prima nebbia della sera. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 114. 
                                   PEPPINO. 
 
 
      Mentre  il  battello  a  vapore  del  conte spariva dietro il capo 
      Morgiou,  un uomo correva la posta da  Firenze  a  Roma,  passando 
      dalla  città  d'Acquapendente.  Vestito  con un lungo soprabito da 
      viaggio molto consunto,  ma che mostrava  brillante  e  fresco  il 
      nastro della Legion d'Onore, ripetuto sull'abito, questo uomo, non 
      solo  da  questo  doppio  segno,  ma  anche dall'accento col quale 
      parlava al postiglione, era facilmente riconoscibile per francese. 
      Una prova ancora ch'era nato in Francia,  e che non sapeva  parola 
      d'italiano,  ad eccezione di quelle della musica che possono, come 
      il goddam di Figaro,  surrogare tutte le  finezze  di  una  lingua 
      particolare:  Allegro!  diceva  ai  postiglioni  ad  ogni  salita, 
      Moderato!  gridava ad ogni discesa.  E Dio sa se vi sono salite  e 
      discese  da  Firenze a Roma per la strada d'Acquapendente!  Queste 
      due parole, del resto, facevano molto ridere coloro ai quali erano 
      rivolte. 
      In faccia alla città eterna, cioè giungendo alla Storta,  punto da 
      dove  si scorge Roma,  il viaggiatore non provò quel sentimento di 
      entusiastica curiosità,  che spinge ogni straniero ad alzarsi  dal 
      fondo  della carrozza,  per vedere la famosa cupola di San Pietro, 
      che si vede molto prima di distinguere  qualunque  altro  palazzo. 
      No,  cavò  soltanto  il portafogli di tasca,  e dal portafogli una 
      carta piegata in quattro,  che spiegò e ripiegò con una  cura  che 
      somigliava a rispetto, e si limitò a dire: 
      "Bene, l'ho sempre." 
      La carrozza oltrepassò la porta del Popolo, volse a sinistra, e si 
      fermò  dirimpetto  al palazzo di Spagna.  Mastro Pastrini,  nostra 
      antica conoscenza,  ricevette il viaggiatore  sulla  soglia  della 
      porta col cappello in mano.  Il viaggiatore scese,  ordinò un buon 
      pranzo,  e s'informò dell'indirizzo della casa Thomson  e  French, 
      che gli fu indicato sull'istante;  era una delle più conosciute di 
      Roma, situata in via dei Banchi, vicino al ponte Sant'Angelo. 
      A Roma,  come dappertutto,  l'arrivo di una carrozza da posta è un 
      avvenimento.  Dieci  giovani,  discendenti da Mario e dai Gracchi, 
      coi piedi nudi, i gomiti stracciati,  ma il pugno sull'anca,  e il 
      braccio   pittorescamente   ricurvo   al  di  sopra  della  testa, 
      guardavano il viaggiatore,  la carrozza ed  i  cavalli;  a  questi 
      scapestrati  della  città  per  eccellenza,  si  erano  uniti  una 
      cinquantina di balordi dello Stato romano, di quelli che fanno dei 
      cerchi sputando nell'acqua  del  Tevere  dall'alto  del  ponte  di 
      Castel  Sant'Angelo,  quando  nel Tevere c'è acqua.  Ora siccome i 
      monelli e i balordi di Roma,  più  felici  di  quelli  di  Parigi, 
      capiscono  tutte le lingue,  e particolarmente la lingua francese, 
      intesero che il viaggiatore domandava un appartamento, un pranzo e 
      infine l'indirizzo della casa Thomson e  French.  Ne  risultò  che 
      quando il nuovo arrivato uscì dall'albergo col cicerone d'uso.  un 
      uomo si staccò dal gruppo di curiosi,  e senza  esser  notato  dal 
      viaggiatore, né parerlo dalla guida, camminò a poca distanza dallo 
      straniero, seguendolo con tanta maestria, quanta ne avrebbe potuto 
      avere  un  agente  della  polizia  parigina.  Il francese era così 
      stimolato dalla fretta di fare la sua visita alla casa  Thomson  e 
      French,  che  non  ebbe  tempo  d'aspettare  che i cavalli fossero 
      attaccati;   la  carrozza  doveva  raggiungerlo  per   strada,   o 
      aspettarlo  alla  porta  del  banchiere.  Arrivarono  senza che la 
      carrozza li avesse raggiunti. 
      Il francese entrò lasciando in anticamera la guida,  che subito si 
      mise  a  discorrere  con  due  o  tre  di quegli industriosi senza 
      industria, o meglio che esercitavano una di quelle mille industrie 
      che si professano a Roma, alle porte dei banchieri,  delle chiese, 
      degli    scavi    archeologici,    dei   musei   e   dei   teatri. 
      Contemporaneamente al  francese  entrò  pure  l'uomo  che  si  era 
      staccato  dal gruppo dei curiosi;  il francese penetrò nella prima 
      stanza, la sua ombra fece altrettanto. 
      "I signori Thomson e French?" domandò lo straniero. 
      Una specie di lacchè si alzò al segno di  un  commesso,  guardiano 
      formale del primo ufficio. 
      "Chi   debbo  annunziare?"  domandò  il  lacchè,   disponendosi  a 
      camminare davanti al forestiero. 
      "Il barone Danglars" rispose il viaggiatore. 
      "Venite" disse il lacchè. 
      E aperta una porta,  il lacchè ed il barone  sparirono  dietro  di 
      essa. 
      L'uomo ch'era entrato dietro Danglars si sedette su una panca.  Il 
      commesso continuò a scrivere  per  circa  cinque  minuti;  durante 
      questi  cinque  minuti,  l'uomo  seduto  conservò  il più profondo 
      silenzio e la più assoluta immobilità.  Quindi la penna  cessò  di 
      stridere sulla carta, alzò la testa, guardò attentamente attorno a 
      sé, e dopo essersi assicurato che si ritrovava a quattr'occhi: 
      "E finalmente" disse, "eccoci qui, Peppino..." 
      "Sì!" rispose questi laconicamente. 
      "Hai  odorato  qualche  cosa  di  buono  addosso  a  questo grosso 
      signore?" 
      "Non vi è gran merito per questo, siamo stati avvisati." 
      "Sai dunque ciò che viene a far qui, questo straniero?" 
      "Perdinci, viene a riscuotere.. Resta solo da sapere la somma." 
      "Te la dirò fra poco, amico." 
      "Benissimo,  ma  non  darmi,  come  l'altro  giorno,  delle  false 
      indicazioni." 
      "Che intendi dire? Di chi vuoi parlare? Forse di quell'inglese che 
      giorni fa portò via tremila scudi?" 
      "No,  quello aveva in realtà i tremila scudi,  e li abbiamo saputi 
      ritrovare. Io intendo parlare del principe russo." 
      "Ebbene?" 
      "Tu ci avevi detto trentamila lire, e non ne abbiamo ritrovate che 
      ventidue mila." 
      "Avrete cercato male." 
      "E' stato Luigi Vampa che ha fatto la perquisizione." 
      "In tal caso avrà avuto dei debiti da pagare." 
      "Un russo?" 
      "Oppure avrà speso il danaro..." 
      "E' più probabile." 
      "E'  sicurissimo.   Ma  lasciatemi  andare  al  mio  osservatorio, 
      altrimenti  il francese farà i suoi conti,  senza che possa sapere 
      la cifra." 
      Peppino fece un segno affermativo con  la  testa,  e  si  mise  ad 
      osservare  alcune  incisioni  appese  al muro,  mentre il commesso 
      scompariva dalla stessa porta che aveva dato passaggio  al  lacchè 
      ed al barone. 
      In  capo  a  circa  dieci  minuti,  ricomparve  il  commesso tutto 
      raggiante. 
      "Ebbene?" domandò Peppino al suo amico. 
      "All'erta! all'erta!" disse il commesso. "La somma è grossa!" 
      "Da cinque a sei milioni, non è vero?" 
      "Sì... Come sai la cifra?" 
      "Sopra una ricevuta di sua eccellenza il conte di Montecristo?" 
      "Conosci il conte?" 
      "E della quale è stato accreditato sopra Roma, Venezia e Vienna?" 
      "E'  così!"  gridò  il  commesso.  "In  che  modo  sei  così  bene 
      informato?" 
      "Te l'ho detto, siamo stati prevenuti." 
      "Allora perché ti sei indirizzato a me?" 
      "Per  essere  ben sicuro che era questo l'uomo col quale avevamo a 
      che fare." 
      "E' veramente lui... cinque milioni. Una bella somma, eh!" 
      "Sì." 
      "Noi non ne avremo mai altrettanti." 
      "Ma almeno" rispose filosoficamente Peppino, "avremo gli avanzi." 
      "Zitto! Ecco il nostro uomo." 
      Il commesso  riprese  la  penna,  e  Peppino  tornò  di  nuovo  ad 
      osservare i quadri. 
      Danglars  comparve  raggiante,  accompagnato  dal banchiere che lo 
      ricondusse fino alla porta.  Secondo gli accordi,  la carrozza che 
      doveva  ricondurre  Danglars,  aspettava  davanti  alla  porta  di 
      Thomson e French.  Il cicerone  teneva  lo  sportello  aperto;  il 
      cicerone è un essere molto complimentoso e compiacente, che si può 
      impiegare  in  ogni cosa.  Danglars saltò nella carrozza,  leggero 
      come un giovane di venti anni. Il cicerone chiuse lo sportello,  e 
      salì vicino al cocchiere. Peppino montò nel posto dietro. 
      "Sua  eccellenza  vuole  andare  a  vedere San Pietro?" domandò il 
      cicerone. 
      "Per farne che?" rispose il barone. 
      "Diamine, per vedere!" 
      "Io non sono  venuto  a  Roma  per  vedere"  disse  ad  alta  voce 
      Danglars. 
      Quindi aggiunse sommessamente con un cupido sorriso: 
      "Sono venuto per toccare." 
      E  infatti  toccò  il  portafoglio,  nel  quale  aveva  chiuso una 
      lettera. "Allora sua eccellenza va...?" 
      "All'albergo." 
      "Casa Pastrini!" disse il cicerone al cocchiere. 
      E la carrozza partì rapida come un cocchio signorile. Dieci minuti 
      dopo il barone era rientrato nel suo appartamento,  e  Peppino  si 
      era  installato  sopra  una panca posta contro un muro vicino alla 
      porta,  dopo aver detto alcune parole all'orecchio di uno di  quei 
      discendenti  di  Mario  e  dei  Gracchi  che  abbiamo segnalato al 
      principio di  questo  capitolo,  il  quale  prese  la  strada  del 
      Campidoglio, con tutta la sveltezza delle gambe. 
      Danglars era stanco,  soddisfatto e aveva sonno.  Si mise a letto, 
      pose il portafoglio sotto il capezzale, e si addormentò. In quanto 
      a Peppino,  avendo tempo,  giocò alla morra con  alcuni  facchini, 
      perdette due o tre scudi,  e,  per consolarsi,  bevve un fiasco di 
      vino d'Orvieto. 
      L'indomani Danglars si svegliò tardi,  quantunque fosse  andato  a 
      letto di buon'ora; erano cinque o sei notti che non dormiva, o che 
      dormiva  malissimo.  Fece  una lauta colazione,  e noncurante come 
      aveva detto,  di vedere le bellezze della città eterna,  ordinò  i 
      cavalli  da  posta  per mezzogiorno.  Ma Danglars non aveva tenuto 
      conto delle formalità della polizia e della lentezza del mastro di 
      posta.  I cavalli giunsero soltanto alle due,  e il  cicerone  non 
      portò  il  passaporto  coi  visti  che  alle  tre.   Tutti  questi 
      preparativi avevano chiamato alla porta di mastro Pastrini un buon 
      numero di oziosi,  né mancavano i discendenti  dei  Gracchi  e  di 
      Mario.  Il  barone  traversò  trionfalmente  quella  turba  che lo 
      chiamava eccellenza per avere un baiocco.  Siccome Danglars,  uomo 
      popolarissimo,  come  si  sa,  si era contentato di farsi chiamare 
      barone fino a quel momento,  e non era ancora stato  trattato  col 
      titolo  d'eccellenza,  questo  titolo  lo  lusingò e distribuì una 
      dozzina di paioli a tutta quella canaglia,  pronta,  per  un'altra 
      dozzina di paioli, a trattarlo col titolo di altezza. 
      "Che strada?" domandò il postiglione in italiano. 
      "Strada d'Ancona" rispose il barone. 
      Mastro  Pastrini tradusse la domanda e la risposta,  e la carrozza 
      partì al galoppo. 
      Danglars voleva effettivamente passare a  Venezia,  e  realizzarvi 
      una  parte  della sua sostanza,  quindi da Venezia andare a Vienna 
      per  realizzarvi  il  resto.  Era  sua  intenzione  stabilirsi  in 
      quest'ultima  città,  che gli era stato assicurato essere città di 
      piaceri. 
      Appena ebbe fatto due leghe nella campagna  di  Roma,  cominciò  a 
      cadere la notte.  Danglars non aveva creduto di dover partire così 
      tardi,  altrimenti sarebbe rimasto;  domandò al postiglione quanto 
      c'era per giungere alla prima città. 
      "Non capisco!" rispose in italiano il postiglione. 
      Danglars fece un cenno con la testa, che voleva dire: 
      "Benissimo!" 
      E la carrozza continuò la sua strada. 
      "Mi fermerò alla prima posta" diceva fra se Danglars. 
      Danglars  provava  ancora  un  resto  di  quel benessere che aveva 
      risentito la sera innanzi,  e che gli  aveva  procurato  una  così 
      buona  notte.  Era  mollemente  steso nella sua carrozza inglese a 
      doppie molle,  si sentiva  trascinato  al  galoppo  di  due  buoni 
      cavalli,  la posta era di sette leghe,  lo sapeva. Che fare quando 
      uno è banchiere, ed ha fatto un felice fallimento?  Danglars pensò 
      dieci  minuti a sua moglie rimasta a Parigi,  altri dieci minuti a 
      sua figlia che girovagava con  Luigia  d'Armilly;  concesse  dieci 
      minuti ai suoi creditori, e al modo con chi avrebbe reimpiegato il 
      loro  denaro;  quindi  non  avendo più niente da fare,  chiuse gli 
      occhi e si addormentò.  Qualche volta però,  scosso da un urto più 
      forte degli altri,  Danglars riapriva gli occhi: allora si sentiva 
      sempre trasportato alla stessa velocità attraverso quella campagna 
      di Roma,  tutta seminata di ruderi,  d'acquedotti,  che sembravano 
      giganti  di  granito  pietrificati a metà della loro corsa.  Ma la 
      notte era fredda,  oscura e piovosa,  ed era meglio  per  un  uomo 
      mezzo assopito,  rimanere in fondo alla sua carrozza con gli occhi 
      chiusi,  che mettere la testa fuori dello sportello per  domandare 
      dove ci si trovava al postiglione, che non sapeva rispondere altro 
      che:  Signore,  non  capisco.  Danglars continuò dunque a dormire, 
      pensando che avrebbe sempre fatto in  tempo  a  svegliarsi  quando 
      fosse giunto al cambio dei cavalli. 
      La   carrozza  si  fermò:  Danglars  pensò  che  finalmente  aveva 
      raggiunto il posto desiderato. Riaprì gli occhi, guardò attraverso 
      il cristallo,  credendo di trovarsi  in  qualche  città  o  almeno 
      qualche  villaggio  ma  non  vide  nient'altro  che  una specie di 
      capanna isolata,  e tre o quattro uomini che andavano  e  venivano 
      come ombre. 
      Danglars  aspettò  un momento che il postiglione,  ormai finita la 
      corsa,  venisse a reclamare il  denaro  della  posta;  contava  di 
      approfittare  di quest'occasione per chiedere qualche informazione 
      al suo nuovo conduttore, ma i cavalli furono staccati e sostituiti 
      con  altri  senza  che  nessuno  andasse  a  chiedere  denaro   al 
      viaggiatore.  Danglars meravigliato aprì lo sportello, ma una mano 
      vigorosa lo rinchiuse subito, e la carrozza partì. 
      "Ehi?" disse al postiglione. "Ehi, mio caro!" 
      Questa pure era una parola italiana di una  romanza  che  Danglars 
      aveva tenuto in mente quando sua figlia cantava qualche duetto col 
      principe  Cavalcanti.  Ma  il mio caro non gli rispose una parola. 
      Danglars si contentò allora di calare il cristallo  e  gridare  in 
      francese, mettendo fuori la testa: 
      "Ehi, amico, dove andiamo dunque?" 
      "Dentro la testa!" gridò una voce grave ed imperiosa, accompagnata 
      da un gesto minaccioso. 
      Danglars  capì  che  cosa  volevano  dire  quelle parole dentro la 
      testa.  Faceva,  come  si  vede,  rapidi  progressi  nella  lingua 
      italiana:  obbedì,  non  senza  inquietudine,  e  siccome  la  sua 
      inquietudine aumentava di minuto in  minuto,  in  capo  ad  alcuni 
      istanti  la  sua mente,  invece del vuoto che abbiamo segnalato al 
      momento in cui si era messo in viaggio e che gli  aveva  procurato 
      il sonno,  la sua mente,  dicevamo, si trovò piena di una quantità 
      di pensieri atti a tenere sveglio il viaggiatore, e sopra tutto un 
      viaggiatore che si trovava nella situazione di Danglars. 
      Nell'oscurità vide un uomo avvolto in un  mantello  che  galoppava 
      allo sportello di destra. 
      "Qualche gendarme" commentò a bassa voce. "Che sia stato segnalato 
      dal telegrafo francese alle autorità pontificie?" 
      E risolse di uscire da quell'incertezza. 
      "Dove mi conducete?" domandò, sempre in francese. 
      "Dentro la testa!" ripeté la stessa voce,  col medesimo accento di 
      minaccia. 
      Danglars si voltò subito verso sinistra: vide che un altro uomo  a 
      cavallo galoppava allo sportello. 
      "Decisamente"  diceva  tra  sé Danglars,  col sudore sulla fronte, 
      "decisamente sono arrestato." 
      E si gettò nel fondo della carrozza, non per dormire stavolta,  ma 
      per pensare. 
      Un istante dopo si alzò la luna. Dal fondo della carrozza Danglars 
      fissò  lo  sguardo  nella  campagna:  rivide  allora  quei  grandi 
      acquedotti,  fantasmi di pietra che aveva notato passando,  invece 
      di averli a dritta,  li aveva a sinistra.  Capì allora che avevano 
      fatto volgere la carrozza e che lo riconducevano a Roma. 
      "Oh,   me  disgraziato!"  mormorò.   "Avranno  ottenuto   la   mia 
      estradizione." 
      La  carrozza  continuò  a  correre a gran velocità.  Un ora passò, 
      terribile,  poiché ad ogni nuovo sguardo gettato al suo passaggio, 
      il fuggitivo capiva, in modo da non dubitare, che lo riconducevano 
      indietro. Finalmente vide una massa scura contro la quale sembrava 
      che  la carrozza andasse ad urtare.  Ma la carrozza girò,  e corse 
      lungo quella massa scura, che altro non erano che le mura di Roma. 
      "Oh, oh!" mormorò Danglars. "Non rientriamo in città. Dunque non è 
      la polizia che mi arresta. Gran Dio, sarebbero forse..." 
      E i capelli gli si drizzarono sulla fronte;  si ricordò le  strane 
      storie  dei  banditi  della campagna romana,  tanto poco credute a 
      Parigi,  e che  Alberto  Morcerf  aveva  raccontato  alla  signora 
      Danglars e ad Eugenia. 
      "Fossero ladri..." mormorò. 
      Ad un tratto la carrozza traballò, era un terreno più aspro che su 
      una  strada  postale:  Danglars  s'arrischiò a volgere uno sguardo 
      alle due parti della strada: vide monumenti di forme strane,  e il 
      suo  istinto,  preoccupato  dal  racconto  di Morcerf,  che ora si 
      presentava a lui in  tutti  i  suoi  minuti  particolari,  il  suo 
      istinto disse che doveva essere sulla via Appia. 
      A  sinistra  della  carrozza  in una specie di vallo si vedeva uno 
      scavo circolare: era il circo di Caracalla. Ad una parola di colui 
      che galoppava a destra, la carrozza si fermò,  mentre lo sportello 
      a sinistra si aprì. 
      "Scendi" gli comandò una voce. 
      Danglars   scese   nello   stesso  istante;   non  parlava  ancora 
      l'italiano,  ma cominciava già ad intenderlo.  Più morto che vivo, 
      il  barone  guardò  intorno a sé.  Quattro uomini lo circondavano, 
      senza contare il postiglione. 
      "Di qua" disse uno dei quattro uomini,  scendendo un sentiero  che 
      conduceva dalla via Appia tra le alture della campagna romana. 
      Danglars  seguì la sua guida senza rispondere,  e non ebbe bisogno 
      di volgersi per sapere che era seguito da altri tre uomini, ma gli 
      sembrò che questi poi si fermassero come di sentinella a  distanze 
      quasi uguali. 
      Dopo dieci minuti di cammino, durante i quali Danglars non scambiò 
      neppure  una parola colla sua guida,  si trovò fra un poggio ed un 
      cespuglio, formato di alta e folta erba;  vide da lontano parecchi 
      uomini  a  cavallo,  vestiti nel pittoresco costume della campagna 
      romana, col fucile in alto. 
      "Avanti" disse la medesima voce con accento breve ed imperioso. 
      Stavolta Danglars capì doppiamente,  voglio dire la  parola  e  il 
      gesto,  poiché  l'uomo  che  camminava dietro a lui lo spinse così 
      rozzamente in avanti,  che andò ad urtare contro la guida: era  il 
      nostro  amico  Peppino,  che s'inoltrò fra le erbe per un viottolo 
      che solo le faine e le volpi potevano conoscere. 
      Peppino si fermò davanti ad una roccia ricoperta da fitti cespugli 
      e  con  una  spaccatura,  entro  cui  scomparve  il  giovane  come 
      scompaiono  nelle bolge i diavoli delle nostre favole.  La voce ed 
      il gesto di quello che seguiva Danglars costrinsero il banchiere a 
      fare altrettanto.  Non c'era più da dubitare,  il francese fallito 
      aveva  a  che  fare coi briganti.  Danglars obbedì;  posto fra due 
      terribili pericoli,  era reso coraggioso dalla paura.  Malgrado il 
      ventre,  troppo  obeso  per  penetrare nei crepacci della campagna 
      romana,  s'infiltrò dietro a Peppino,  e lasciandosi sdrucciolare, 
      chiudendo gli occhi,  cadde in piedi. Toccando il suolo riaprì gli 
      occhi. Il cammino era largo ma oscuro. Peppino,  poco curandosi di 
      essere  riconosciuto,  ora  che  si  trovava  in  casa sua,  batté 
      l'acciarino e  accese  una  fiaccola.  Altri  due  scesero  dietro 
      Danglars, spingendolo quando si fermava, e lo fecero giungere, per 
      un  dolce  declivio,  al  centro  di  un  crocicchio  di  sinistra 
      apparenza.  Infatti,   le  pareti  dei  muri,   scavate  a  loculi 
      sovrapposti,  sembravano,  in  mezzo  alle pietre bianche,  quelle 
      orbite nere e profonde che si vedono nei crani dei morti. 
      "Chi va là?" disse la sentinella,  facendo scattare  con  la  mano 
      sinistra la sicura della carabina. 
      "Amici, amici" disse Peppino. "Dov'è il capitano?" 
      "Lassù"  disse  la sentinella,  mostrando al di sopra della spalla 
      una specie di gran sala scavata nella roccia,  e la  cui  luce  si 
      rifletteva nei corridoi per mezzo di grandi aperture concentriche. 
      "Buona preda, capitano, buona preda" disse Peppino in italiano. 
      E prendendo Danglars per il collare dell'abito,  lo condusse verso 
      un'apertura che assomigliava ad una  porta,  e  per  la  quale  si 
      penetrava  nella  caverna  in  cui sembrava che il capitano avesse 
      stabilito il suo alloggio. 
      "E' quell'uomo?" domandò un uomo  che  stava  leggendo  con  molta 
      attenzione la "Vita di Alessandro in Plutarco". 
      "Lui stesso, capitano, lui stesso." 
      "Benissimo, mostratemelo." 
      Peppino  avvicinò  così arditamente la torcia al viso di Danglars, 
      che questi indietreggiò prontamente per non avere le  sopracciglia 
      bruciate. Quel viso sconvolto offriva tutti i sintomi del terrore. 
      "Quest'uomo  è  stanco" disse il capitano,  "sia subito condotto a 
      letto." 
      "Oh!" pensò Danglars. "Questo letto sarà probabilmente un sepolcro 
      scavato nel muro,  e il sonno sarà la morte che mi verrà da uno di 
      quei pugnali che vedo luccicare fra le ombre." 
      Nella profonda oscurità dell'immensa grotta si vedevano sollevarsi 
      sopra strami d'erbe secche o pelli di lupi i compagni di colui che 
      Alberto  Morcerf  aveva  sorpreso  mentre leggeva i "Commentari di 
      Giulio Cesare",  e che Danglars trovava mentre leggeva le "Vite di 
      Plutarco". 
      Il  banchiere  mandò un sordo gemito,  e seguì la guida.  Non ebbe 
      coraggio né di pregare, né di protestare,  non aveva più né forza, 
      né  volontà,   né  potenza,   né  sentimento,   andava  perché  lo 
      trascinavano.  Urtò in un gradino,  e comprese che aveva una scala 
      davanti a sé, alzò macchinalmente i piedi, quattro o cinque volte. 
      Allora  gli  si  aprì  davanti  una porta bassa;  si curvò per non 
      urtare con la fronte,  e si ritrovò in una  cella  tagliata  nella 
      roccia.  Quella  cella  era asciutta,  benché nuda e scavata nella 
      terra ad una enorme profondità.  Un letto fatto di erbe secche,  e 
      ricoperto di pelli di capra, era steso in un angolo della cella. 
      Danglars,  nello  scoprirlo,  lo  credette  il  simbolo  della sua 
      salvezza. 
      "Oh sia lodato Iddio!" mormorò. "E' un vero letto." 
      Era la seconda volta,  in un'ora,  che invocava il nome di Dio,  e 
      ciò non gli accadeva da più di dieci anni. 
      "Ecco" disse la guida. 
      E spingendo Danglars verso la cella, chiuse la porta dietro a lui. 
      Il catenaccio cigolò; Danglars era prigioniero. 
      D'altra  parte,  anche  se  non  vi fosse stato il catenaccio,  ci 
      sarebbe voluto un miracolo per passare in mezzo alle scolte che in 
      quel punto custodivano le catacombe di San Sebastiano, e che erano 
      accampate intorno al loro capo, nel quale i nostri lettori avranno 
      certamente riconosciuto il famoso Luigi Vampa. 
      Danglars pure aveva riconosciuto quel bandito,  all'esistenza  del 
      quale  non  aveva  voluto  credere,   quando  Morcerf  cercava  di 
      farglielo credere in Francia.  Non solo lo aveva riconosciuto,  ma 
      aveva  anche  riconosciuta  la cella nella quale Alberto era stato 
      rinchiuso, e che, secondo tutte le probabilità, era l'alloggio dei 
      forestieri. 
      Quei ricordi,  su cui Danglars indugiava con una certa gioia,  gli 
      rendevano la tranquillità.  Poiché i banditi non lo avevano ucciso 
      subito,  era segno che non avevano  deciso  di  ucciderlo,  ma  lo 
      avevano  arrestato  per derubarlo,  e siccome non aveva con sé che 
      pochi luigi,  gli avrebbero posto  un  riscatto.  Si  ricordò  che 
      Morcerf  era stato tassato di una certa somma di circa quattromila 
      scudi,  e siccome si attribuiva un valore molto più importante  di 
      Alberto,  fissò  da  sé  il  proprio  riscatto  ad ottomila scudi. 
      Ottomila scudi non  facevano  più  di  quarantatremila  lire.  Gli 
      restava  ancora  una somma di circa cinque milioni e cinquantamila 
      franchi. Con questa somma si può cavarsi d'impaccio in ogni luogo. 
      Dunque, quasi certo di togliersi d'impaccio, giacché non ricordava 
      esempio in cui fosse stato tassato un  uomo  a  cinque  milioni  e 
      cinquantamila  lire,  Danglars  si  stese  sul letto,  dove,  dopo 
      essersi girato e rigirato due o tre  volte,  si  addormentò  colla 
      tranquillità dell'eroe di cui Luigi Vampa leggeva la storia. 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 115. 
                           LA CARTA DI LUIGI VAMPA. 
 
 
      Ad ogni sonno,  che non sia quello temuto da Danglars, vi è il suo 
      risveglio. 
      Danglars si svegliò. 
      Per un parigino abituato  al  cortinaggio  di  seta,  alle  pareti 
      coperte di velluto,  al profumo che esala il legno imbianchito sul 
      caminetto e che scende dalle volte di seta,  lo svegliarsi in  una 
      grotta  di  pietra  scabrosa,  deve  essere  come un brutto sogno. 
      Toccando i lenzuoli di pelle di capra, Danglars dovette credere di 
      sognare i curdi.  Ma in simile circostanza bastò  un  secondo  per 
      cambiare il dubbio in certezza. 
      "Sì,  sì"  mormorò,  "sono  nelle mani dei banditi di cui mi parlò 
      Alberto Morcerf." 
      Il suo primo moto fu di respirare,  per assicurarsi  che  non  era 
      stato  ferito,  era  un  espediente  che  aveva  imparato  dal Don 
      Chisciotte, il solo libro,  non che avesse letto,  ma di cui aveva 
      sentito parlare. 
      "No"  pensò.  "Non  mi  hanno  né ucciso né ferito,  ma mi avranno 
      derubato. 
      E si mise subito le mani nelle  tasche.  Erano  intatte:  i  cento 
      luigi  che aveva serbati in contanti per fare il viaggio da Roma a 
      Venezia,   erano  realmente  nella  tasca  dei  pantaloni,   e  il 
      portafogli  nel  quale si trovava la lettera di credito per cinque 
      milioni  e  cinquantamila  franchi   era   nella   tasca   interna 
      dell'abito. 
      "Che singolari banditi!" disse fra sé. "Mi hanno lasciato la borsa 
      e  il  portafogli!  Come  dicevo  ieri  quando  mi  misi  a letto, 
      m'imporranno un riscatto.  Guarda.  ho  ancora  il  mio  orologio! 
      Sentiamo un po' che ora è." 
      L'orologio di Danglars,  capolavoro di Breguet,  che aveva montato 
      con cura prima di mettersi in viaggio, suonò le cinque e mezzo del 
      mattino. Senza di esso, Danglars sarebbe rimasto incerto sull'ora, 
      poiché la luce  del  giorno  non  penetrava  nella  cella.  Doveva 
      sollecitare  i banditi a spiegarsi,  o aspettare pazientemente che 
      si risolvessero da soli? L'ultima alternativa era la più prudente; 
      Danglars aspettò, aspettò fino a mezzogiorno. 
      In tutto quel tempo una sentinella aveva vegliato alla porta. Alle 
      otto del mattino,  la sentinella era stata  cambiata,  e  Danglars 
      voleva capire da chi fosse guardato. Aveva notato che alcuni raggi 
      di  luce,   non  già  del  giorno,  ma  della  lampada  filtravano 
      attraverso le fessure della porta mal accostata;  si  avvicinò  ad 
      una di quelle fessure nel momento preciso in cui il bandito beveva 
      alcuni  sorsi  di  acquavite,  che,  per  l'otre  di  pelle che la 
      conteneva, spandeva un odore molto ripugnante. 
      "Puah!" esclamò, arretrando fino in fondo alla cella. 
      A  mezzogiorno  l'uomo  dell'acquavite  fu  rimpiazzato  da  altra 
      sentinella.  Danglars  ebbe  la  curiosità  di vedere il suo nuovo 
      guardiano;  si accostò di  nuovo  alla  fessura.  Era  un  bandito 
      atletico,  un Golia dagli occhi grossi,  dalle labbra rovesciate e 
      dal naso schiacciato;  i capelli rossi gli ricadevano sulle spalle 
      a onde contorte come serpenti. 
      "Questo  somiglia  più a belva,  che a creatura umana,  ma in ogni 
      caso sono vecchio e abbastanza coriaceo,  e  quindi  non  buono  a 
      mangiarsi." 
      Come si vede, Danglars aveva ancora abbastanza presenza di spirito 
      per scherzare. 
      Nello stesso istante, come per provargli che non era una belva, il 
      suo  guardiano  si sedette in faccia alla porta della cella,  cavò 
      dalla bisaccia del pane nero,  delle cipolle e del formaggio e  si 
      mise subito a divorarli. 
      "Che  il diavolo mi porti" disse Danglars,  gettando attraverso la 
      fessura della porta uno sguardo sul pranzo del  bandito,  "che  il 
      diavolo  mi  porti,  se  capisco  come  si possano mangiare simili 
      porcherie! 
      Andò a sedersi sopra le sue pelli,  che  gli  ricordavano  l'odore 
      dell'acquavite  della  prima sentinella.  Ma Danglars aveva un bel 
      fare,  poiché i segreti della natura sono  incomprensibili:  sentì 
      d'improvviso che il suo stomaco non aveva fondo in quel momento, e 
      allora vide l'uomo meno brutto, il pane meno nero il formaggio più 
      fresco.  Infatti  quelle  cipolle  crude,  orribile  alimento  del 
      bandito,  gli ricordarono certi sughi di Robert e certi  intingoli 
      che  il  suo  cuciniere  eseguiva  in  modo  sorprendente,  quando 
      Danglars gli diceva: "Signor Deniseau,  fatemi per  oggi  un  buon 
      piattino". 
      Si  alzò  e  andò a bussare alla porta.  Il bandito alzò la testa. 
      Danglars vide ch'era stato udito e raddoppiò i colpi. 
      "Che cosa c'è?" domandò il bandito. 
      "Dite,  amico" disse Danglars,  suonando il tamburo  con  le  dita 
      contro la porta,  "mi sembra sarebbe ora che si pensasse a nutrire 
      pure me." 
      Ma,  sia che non  intendesse  il  francese,  sia  che  non  avesse 
      ricevuto  ordini sul conto del nutrimento di Danglars,  il gigante 
      si rimise a mangiare Danglars sentì umiliato il  suo  orgoglio,  e 
      non  volendo maggiormente compromettersi con quella belva,  andò a 
      rannicchiarsi sulle pelli, e non disse più parola. 
      Passarono quattro ore: il  gigante  fu  rimpiazzato  da  un  altro 
      bandito. Danglars, che soffriva orribili stiramenti di stomaco, si 
      alzò  dolcemente,  applicò l'occhio alle fenditure della porta,  e 
      riconobbe la sua guida.  Era infatti Peppino,  che si preparava  a 
      montare  la guardia,  sedendosi in faccia alla porta,  e ponendosi 
      fra le gambe una teglia di terra che conteneva caldi  e  profumati 
      piselli,  cotti  in  fricassea  al  lardo.  Vicino  a quei piselli 
      Peppino depose anche un bel paniere di uva fresca di Velletri e un 
      fiasco di vino d'Orvieto. Peppino era un vero ghiottone. 
      Vedendo quei preparativi gastronomici venne l'acquolina in bocca a 
      Danglars. 
      "Eccone uno nuovo" disse il prigioniero, "vediamo un po' se questo 
      è più trattabile degli altri." 
      E bussò gentilmente alla porta. 
      "Eccomi" disse il bandito,  il  quale,  frequentando  la  casa  di 
      mastro  Pastrini,  aveva  poi  finito  per  imparare  il francese, 
      perfino nei suoi dialetti. 
      Infatti venne ad aprire. 
      Danglars lo riconobbe per quello che gli aveva gridato in un  modo 
      così  furioso  dentro  la  testa,  ma  non  era  certo l'ora delle 
      proteste.  Assunse  l'aspetto  più  gentile,  e  con  un  grazioso 
      sorriso: 
      "Scusate,  signore" disse, "non si darà qualcosa da mangiare anche 
      a me?" 
      "Come" gridò Peppino, "vostra eccellenza avrebbe fame, per caso?" 
      "Per  caso  è  una  parola  leggera"   mormorò   Danglars.   "Sono 
      precisamente ventiquattr'ore che non ho mangiato.  Ma sì, signore" 
      aggiunse alzando la voce, "ho fame, ed anche molta fame." 
      "E vostra eccellenza vuol mangiare?" 
      "Sul momento, se è possibile." 
      "Niente di più facile" disse Peppino,  "qui si può procurare tutto 
      ciò che desidera, pagando, beninteso, come si usa presso tutti gli 
      onesti cristiani." 
      "S'intende!" gridò Danglars.  "Quantunque,  in verità,  le persone 
      che rapiscono e che imprigionano, dovrebbero almeno nutrire i loro 
      prigionieri." 
      "Ah, eccellenza" replicò Peppino, "qui non c'è questo uso." 
      "E' una  cattiva  abitudine"  rispose  Danglars,  che  contava  di 
      addolcire il suo guardiano con la sua amabilità,  "però non voglio 
      insistere. Su, fatemi portare da mangiare." 
      "Sul momento, eccellenza... Che cosa desiderate?" 
      Peppino depose la teglia per terra in modo  che  il  fumo  salisse 
      direttamente alle narici di Danglars. 
      "Comandate" continuò. 
      "Dunque qui avete delle cucine?" 
      "Cucine perfette!" 
      "E cuochi?" 
      "Eccellenti!" 
      "Ebbene,  un pollo, un pesce, della selvaggina, non importa quello 
      che sia, purché si mangi." 
      "Come piacerà a vostra eccellenza. Dicevamo, dunque, un pollo, non 
      è vero?" 
      "Sì, un pollo." 
      Peppino si voltò, e gridò con tutta la forza dei suoi polmoni. 
      "Un pollo per sua eccellenza!" 
      La voce  di  Peppino  vibrava  ancora  sotto  le  volte,  che  già 
      compariva un giovane bello,  svelto e mezzo nudo, come gli antichi 
      portatori di pesce portando il pollo sopra un piatto d'argento. 
      "Uno si crederebbe al Caffè di Parigi!" mormorò Danglars. 
      "Eccolo, eccellenza!" disse Peppino, prendendo il pollo dalle mani 
      del giovane bandito,  e deponendolo sopra una tavola tarlata,  che 
      con  uno  sgabello  e  il  letto di pelli,  formava l'arredo della 
      stanza. 
      Danglars domandò un coltello ed una forchetta. 
      "Eccoli,  eccellenza!" disse Peppino offrendo  un  coltello  colla 
      punta smussata e una forchetta di legno. 
      Danglars prese il coltello con una mano e la forchetta con l'altra 
      e si apprestò a tagliare il volatile. 
      "Scusi, eccellenza" disse Peppino, allungando la mano sulla spalla 
      del  banchiere,  "qui  si paga prima di mangiare;  si potrebbe non 
      essere soddisfatti, uscendo..." 
      "Ecco che qui" esclamò Danglars,  "non è più come a Parigi,  senza 
      contare  che  probabilmente  essi mi scorticheranno ma facciamo le 
      cose da grandi. Vediamo: ho sempre inteso parlare dei buon mercato 
      della vita in Italia, un pollo non deve valere più di dodici soldi 
      a Roma. Eccoti" disse, "un luigi..." e lo gettò a Peppino. 
      Peppino raccolse il luigi, Danglars accostò il coltello al pollo. 
      "Un momento,  eccellenza" disse Peppino rialzandosi,  "un momento: 
      vostra eccellenza mi deve ancora qualche cosa." 
      "Lo dicevo che mi avrebbero scorticato!" mormorò Danglars. 
      Quindi, deciso a risolvere presto la questione estorsione: 
      "Quanto vi devo ancora per questo miserabile volatile?" domandò. 
      "Vostra eccellenza mi ha dato un luigi in acconto." 
      "Un luigi d'acconto sopra un pollo?" 
      "Senza dubbio, d'acconto." 
      "Bene... avanti, avanti!" 
      "Vostra      eccellenza      mi      deve      ancora     soltanto 
      quattromilanovecentonovantanove luigi." 
      Danglars  aprì  due  occhi  enormi   al   sentire   quella   cifra 
      spropositata. 
      "Ah, il burlone!" mormorò. "Davvero furbissimo." 
      E  volle  rimettersi a tagliare il pollo,  ma Peppino gli fermò la 
      mano destra con la mano sinistra, e stese l'altra mano. 
      "E no" disse. 
      "Cosa, non scherzate?" disse Danglars. 
      "Noi non scherziamo  mai,  eccellenza"  riprese  Peppino,  con  la 
      serietà di un quacquero. 
      "Come, centomila franchi per un pollo?" 
      "Eccellenza,  è  impossibile  poter  credere  quanta pena ci costi 
      l'allevare un pollo in queste maledette grotte." 
      "Adesso  basta"  disse  Danglars,  "la  cosa  è  assai  comica,  e 
      divertente,  ma  siccome ho fame,  lasciatemi mangiare.  Prendete, 
      ecco qua un altro luigi per voi, amico mio." 
      "Con   ciò   il   vostro   debito   non   sarà    più    che    di 
      quattromilanovecentonovantotto luigi" disse Peppino conservando la 
      medesima calma. "Con la pazienza ci arriveremo." 
      "Oh,   in  quanto  a  questo"  disse  Danglars,   stomacato  dalla 
      minacciosa durata di quello scherzo,  "in quanto  a  questo,  mai. 
      Andate al diavolo! Voi non sapete con chi avete a che fare." 
      Peppino fece un cenno al giovane bandito,  e questi allungò rapido 
      le due mani, e portò via il pollo. 
      Danglars si gettò sul suo giaciglio.  Peppino chiuse la porta e si 
      rimise  a  mangiare  i suoi piselli al lardo.  Danglars non poteva 
      vedere ciò che faceva  Peppino,  ma  lo  sbattere  dei  denti  del 
      bandito  non  lasciava  alcun dubbio al prigioniero sull'esercizio 
      che  lo  occupava.  Era  chiaro  che  mangiava,   e  che  mangiava 
      rumorosamente, come fanno le persone ineducate. 
      "Villano!" disse Danglars. 
      Peppino  fece  finta di non intendere,  e senza neppure voltare la 
      testa continuò a mangiare con saggia lentezza.  A Danglars  pareva 
      di  avere  lo  stomaco perforato come la tinozza delle Danaidi,  e 
      stentava a credere di giungere  mai  a  riempirlo.  Però  pazientò 
      ancora una mezz'ora che gli parve un secolo. 
      Si alzò e andò di nuovo davanti alla porta. 
      "Orsù,  signore" disse, "non mi fate languire lungamente, e ditemi 
      ciò che si vuole da me." 
      "Ma eccellenza,  dite piuttosto ciò che volete da noi..  Dateci  i 
      vostri ordini, e noi li eseguiremo" 
      "Allora aprite." 
      Peppino aprì. 
      "Voglio" disse Danglars, "perdinci, voglio mangiare!" 
      "Avete fame?" 
      "Lo sapete bene!" 
      "Che cosa desidera mangiare, vostra eccellenza?" 
      "Un  tozzo  di  pane  secco,  poiché  i  polli  sono  di un prezzo 
      esorbitante in questi maledetti scavi." 
      "Pane sia" disse Peppino. "Olà, pane!" 
      Il giovane servente portò un panetto. 
      "Eccolo!" disse Peppino. 
      "Quanto costa?" domandò Danglars. 
      "Quattromilanovecentonovantotto  luigi.  Ci  sono  già  due  luigi 
      pagati in antecedenza." 
      "Come, un pane centomila franchi?" 
      "Centomila franchi" disse Peppino. 
      "Ma domandaste centomila franchi per un pollo!" 
      "Noi serviamo a prezzo fisso.  Si mangi poco, o molto, si chiamino 
      dieci piatti o uno solo, è sempre la stessa cifra." 
      "Ecco  un  altro  scherzo!  Amico  mio,   vi  dico  che  questa  è 
      un'assurdità,  una  stupidità!  Ditemi piuttosto che volete che io 
      muoia di fame, e tutto sarà finito." 
      "Ma no,  eccellenza,  siete voi che volete commettere un suicidio. 
      Pagate e mangiate." 
      "E   con  che  debbo  pagare,   triplo  animale?"  disse  Danglars 
      esasperato.  "Credi forse che  si  portino  centomila  franchi  in 
      tasca?" 
      "Voi  avete  cinque  milioni e cinquantamila franchi nella vostra, 
      eccellenza"  disse  Peppino.   "Bastano  per  cinquanta  polli   a 
      centomila franchi, e un mezzo pollo a cinquantamila." 
      Danglars  fremette,  la  benda  gli cadde dagli occhi;  era si uno 
      scherzo,  ma alfine lo capiva.  Bisogna pur  rendergli  giustizia, 
      perché  da quel momento non vedeva più questo scherzo stupido come 
      prima. 
      "Allora" disse,  "pagando questi centomila franchi,  mi  riterrete 
      solvente, e potrò mangiare con tutto mio comodo?" 
      "Senza dubbio" disse Peppino. 
      "Ma in che modo dovrò pagarli?" soggiunse Danglars, respirando più 
      liberamente. 
      "Niente  di  più  facile: avete un credito aperto presso i signori 
      Thomson e French,  via dei Banchi a Roma.  Datemi  un  assegno  di 
      quattromilanovecentonovantotto  luigi  su  questi  signori,  e  il 
      nostro banchiere lo sconterà." 
      Danglars volle almeno darsi il merito della buona  volontà,  prese 
      la penna e la carta presentatagli da Peppino,  scrisse la cedola e 
      firmò. 
      "Prendete" disse, "ecco il vostro assegno al portatore." 
      "A voi, il vostro pollo." 
      Danglars tranciò il pollo sospirando,  poiché gli  sembrava  molto 
      magro  per  una  così  grossa  somma.  In quanto a Peppino,  lesse 
      attentamente il foglio, se lo mise in tasca, e continuò a mangiare 
      i suoi piselli. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                Capitolo 116. 
                                 IL PERDONO. 
 
 
      Il giorno seguente Danglars ebbe nuovamente fame: l'aria in quella 
      caverna era, oltre ogni dire, salubre. Il prigioniero credeva che, 
      per quel giorno,  non avrebbe avuto alcuna spesa da fare;  da uomo 
      economico  aveva  nascosto metà del pollo e un pezzo di pane in un 
      angolo della cella. 
      Ma ebbe appena mangiato,  che gli venne sete: non  aveva  previsto 
      questo!  Lottò  contro  la  sete  fino  al momento in cui sentì la 
      lingua  arida  attaccarsi  al  palato.  Allora,  non  potendo  più 
      resistere al fuoco che lo divorava,  chiamò. La sentinella aprì la 
      porta, era un viso nuovo.  Pensò che era meglio per lui aver a che 
      fare con una vecchia conoscenza; chiamò Peppino. 
      "Eccomi  eccellenza"  disse  il  bandito,  presentandosi  con  una 
      premura  che  parve  di  buon  augurio  a  Danglars.   "Che   cosa 
      desiderate?" 
      "Da bere" disse il prigioniero. 
      "Eccellenza" disse Peppino, "voi sapete che il vino è di un prezzo 
      inaccessibile nelle vicinanze di Roma." 
      "Allora datemi dell'acqua" disse Danglars, cercando di riparare la 
      botta. 
      "Oh,  eccellenza,  l'acqua  è  più  rara  del  vino;  ora c'è gran 
      siccità!" 
      "Ecco qua" disse Danglars, "che ricominciamo la storia di ieri,  a 
      quanto pare." 
      E  mentre  sorrideva per aver l'aria di scherzare,  il disgraziato 
      sentiva il sudore bagnargli le tempie. 
      "Animo,  amico mio" disse Danglars,  vedendo che  Peppino  restava 
      sempre  impassibile,  "vi  chiedo  un  bicchiere  di  vino.  Me lo 
      rifiuterete?" 
      "Vi ho già detto,  eccellenza" rispose con gravità  Peppino,  "che 
      non vendiamo al minuto." 
      "E allora datemi una bottiglia." 
      "Di quale?" 
      "Di quello che costa meno." 
      "Costa tutto lo stesso prezzo." 
      "E qual prezzo?" 
      "Venticinquemila franchi la bottiglia." 
      "Dite"  gridò  Danglars,  con  un'amarezza  che  il  solo Arpagone 
      avrebbe potuto esprimere sul diapason della voce umana,  "dite che 
      volete  spogliarmi,  e  ciò  sarà  più  presto fatto di quello che 
      divorarmi in tal modo a brani a brani." 
      "E' possibile" disse Peppino,  "che questo  sia  il  progetto  del 
      padrone." 
      "Il padrone, chi è dunque?" 
      "Quello al quale vi condussi ieri." 
      "E dov'è?" 
      "Qui." 
      "Vorrei vederlo." 
      "E' facile." 
      Un istante dopo Luigi Vampa era davanti a lui. 
      "Mi avete chiamato?" domandò al prigioniero. 
      "Siete voi, signore, il capo di queste genti che mi hanno rapito?" 
      "Sì, eccellenza. Perché?" 
      "Che cosa desiderate per il mio riscatto?" parlate. 
      "Semplicemente i cinque milioni che portate indosso." 
      Danglars sentì un orribile spasimo lacerargli il cuore. 
      "Io  non ho che questi al mondo,  signore,  residuo di una immensa 
      ricchezza;  se me li togliete,  tant'è che mi  togliate  anche  la 
      vita." 
      "A noi è proibito versare il sangue di vostra eccellenza." 
      "E da chi vi è stato proibito?" 
      "Da quello al quale obbediamo." 
      "Dunque obbedite a qualcuno?" 
      "Sì, a un capo." 
      "Credevo foste voi stesso il capo." 
      "Io sono il capo di questi uomini, ma altri mi comanda." 
      "E questo capo obbedisce a qualcuno?" 
      "Sì." 
      "A chi?" 
      "A Dio." 
      "Non vi capisco" disse Danglars, rimasto un istante pensieroso. 
      "E' probabile." 
      "E' questo capo che vi ha ordinato di trattarmi in tal modo?" 
      "Sì." 
      "A quale scopo?" 
      "Non lo so." 
      "Ma la mia borsa si vuoterà." 
      "E' probabile." 
      "Orsù" disse Danglars, "volete un milione?" 
      "No." 
      "Due milioni?" 
      "No." 
      "Tre  milioni?...   Quattro...   vediamo,  quattro?  Ve  li  do  a 
      condizione che mi lasciate partire." 
      "Perché mi offrite quattro milioni di ciò  che  ne  vale  cinque?" 
      disse  Vampa.  "E'  usura,  signor  banchiere,  ed  io  non  me ne 
      intendo." 
      "Prendete tutto!  prendete tutto,  vi dico!"  gridò  Danglars.  "E 
      uccidetemi." 
      "Su,  su, calma, eccellenza, vi farete rimescolare il sangue, cosa 
      che vi apporterà un appetito da mangiare un milione  al  giorno... 
      Siate dunque più economico, perbacco!" 
      "Ma quando non avrò più denaro per pagarvi?" 
      "Allora avrete fame." 
      "Avrò fame?" disse Danglars tremante. 
      "E' probabile" rispose flemmaticamente Vampa. 
      "Ma dite che non volete uccidermi?" 
      "No." 
      "E volete lasciarmi morir di fame?" 
      "Questo è tutt'altro affare." 
      "Ebbene,  miserabili!"  gridò Danglars.  "Deluderò i vostri infami 
      calcoli: morire per morire,  tanto  vale  finirla  subito!  Fatemi 
      soffrire,  torturatemi,  uccidetemi,  ma  non  avrete  più  la mia 
      firma." 
      "Come piacerà a vostra  eccellenza"  disse  Vampa.  E  uscì  dalla 
      cella. 
      Danglars si gettò ruggendo sopra il suo letto di pelli. 
      Chi erano costoro? Chi era questo capo che gli veniva davanti? Chi 
      era l'altro invisibile?  Quale progetto avevano su di lui?  Quando 
      tutti potevano  riscattarsi,  perché  lui  solo  non  poteva?  Oh, 
      certamente la morte, una morte pronta e violenta era un buon mezzo 
      per  deludere  quei nemici accaniti,  che sembravano compire su di 
      lui una incomprensibile vendetta. Sì, ma morire! 
      Danglars  rassomigliava  a  quelle  bestie  feroci  che  diventano 
      coraggiose nella disperazione, quando sono cacciate, e che a forza 
      di  disperazione  riescono  qualche volta a salvarsi: pensò ad una 
      evasione.  Ma le mura erano la roccia stessa,  e alla sola  uscita 
      che  conduceva  fuori  dalla  cella vi era un uomo che leggeva,  e 
      dietro a lui si vedevano  passare  e  ripassare  ombre  armate  di 
      fucili. La sua risoluzione di non firmare durò due giorni, dopo di 
      che  domandò  gli alimenti e offrì un milione.  Gli fu servita una 
      magnifica colazione, e fu preso un milione. 
      Da quel  momento  la  vita  del  disgraziato  prigioniero  fu  una 
      distrazione  continua:  aveva  tanto  sofferto  che non voleva più 
      esporsi a soffrire,  e  subiva  tutte  le  esigenze.  Dopo  dodici 
      giorni,  un  dopopranzo  in  cui  aveva  desinato come nei più bei 
      giorni della sua fortuna, fece i conti,  e si accorse di aver dato 
      tante  tratte  pagabili  al  latore che non gli rimanevano più che 
      cinquantamila franchi.  Allora nacque in lui una strana  reazione: 
      lui  che  aveva  sperperato  cinque  milioni,  tentò  di salvare i 
      cinquantamila franchi che  gli  restavano.  Piuttosto  che  cedere 
      questi   cinquantamila   franchi,   si  risolse  ad  una  vita  di 
      privazioni, ebbe lampi di speranza che si accostavano alla follia; 
      lui che da gran tempo aveva dimenticato Dio,  vi pensò per dire  a 
      se  stesso  che Dio qualche volta fa dei miracoli,  che la caverna 
      poteva inabbissarsi,  che i gendarmi pontifici  potevano  scoprire 
      quel maledetto covo,  e venire in suo soccorso,  che cinquantamila 
      franchi erano una somma sufficiente per impedire  ad  un  uomo  di 
      morire  di  fame.  Pregò  Dio di conservargli questi cinquantamila 
      franchi, e pregando pianse. 
      Tre giorni passarono così,  durante i quali  il  nome  di  Dio  fu 
      costantemente,  se non nel suo cuore,  almeno sulle sue labbra; ad 
      intervalli aveva istanti di delirio,  durante i quali  credeva  di 
      vedere,  attraverso  una finestra,  una povera camera e un vecchio 
      agonizzante sopra un lettuccio,  che anch'egli moriva di fame.  Il 
      quarto giorno non era più uomo, era un cadavere vivente, che aveva 
      raccolto  per  terra perfino le ultime molliche dei suoi pasti,  e 
      cominciava a divorare la stuoia di cui era coperto il suolo. 
      Allora supplicò  Peppino,  come  si  supplica  il  proprio  angelo 
      custode,  di dargli qualche nutrimento; offrì mille franchi per un 
      tozzo di pane. Peppino non rispose.  Nel quinto giorno si trascinò 
      all'entrata della cella. 
      "Ma voi dunque non siete cristiano" disse, levandosi sui ginocchi. 
      "Volete  assassinare  un uomo che è vostro fratello in Dio?  Amici 
      miei di altri tempi! amici miei di altri tempi!" mormorò. 
      E cadde colla faccia contro terra. Quindi alzandosi con una specie 
      di disperazione. 
      "Il capo!" gridò, "il capo!" 
      "Eccomi!" disse Vampa, comparendo d'un tratto.  "Che desiderate di 
      nuovo?" 
      "Prendete  il  mio  ultimo danaro" balbettò Danglars,  tendendo il 
      portafoglio,  "e lasciatemi vivere qui,  in  questa  caverna:  non 
      domando più la libertà, ma soltanto la vita." 
      "Dunque soffrite molto?" domandò Vampa. 
      "Oh, sì, soffro, e crudelmente!" 
      "Eppure vi sono stati uomini che hanno sofferto ben più di voi." 
      "Non lo credo." 
      "E' un fatto! Quelli che sono morti di fame." 
      Danglars  pensò a quel vecchio che,  durante le sue allucinazioni, 
      vedeva, attraverso la finestra della sua povera camera, gemere sul 
      letto. Batté la fronte per terra mandando un forte gemito. 
      "Sì" disse, "è vero,  ve ne sono che hanno sofferto ben più di me, 
      ma almeno quelli erano martiri." 
      "Vi  pentite voi alfine!" disse una voce cupa e solenne,  che fece 
      drizzare i capelli sulla testa di Danglars. 
      Il suo sguardo indebolito cercò di distinguere gli oggetti, e vide 
      dietro  al  bandito  un  uomo  avvolto  nel  mantello,  e  perduto 
      nell'ombra di un pilastro di pietra. 
      "E di che debbo pentirmi?" balbettò Danglars. 
      "Di tutto il male che avete fatto" disse la stessa voce. 
      "Oh,  sì,  mi  pento!"  gridò  Danglars,  battendo il petto con lo 
      scarno pugno. 
      "Allora vi perdono" disse l'uomo,  gettando  il  suo  mantello,  e 
      facendo un passo avanti per esporsi meglio alla luce. 
      "Il  conte  di  Montecristo!"  disse  Danglars  più pallido per il 
      terrore di quanto un momento prima per la fame e gli stenti. 
      "Sbagliate, non sono il conte di Montecristo." 
      "E chi siete dunque?" 
      "Sono quello  che  avete  venduto,  denunziato,  disonorato;  sono 
      quello  di  cui  avete  prostituita la fidanzata;  sono quello che 
      avete calpestato per formare la vostra  fortuna;  sono  quello  al 
      quale avete fatto morire il padre di fame... Vi avevo condannato a 
      morire di fame,  e invece vi perdono, perché io pure ho bisogno di 
      perdono: sono Edmondo Dantès!" 
      Danglars mandò un grido e cadde prosternato. 
      "Rialzatevi" disse il conte,  "voi  avete  salva  la  vita.  Ugual 
      fortuna  non  è  toccata  agli  altri due vostri complici: l'uno e 
      pazzo, l'altro è morto!  Conservate i cinquantamila franchi che vi 
      restano,  ve  ne  faccio dono.  In quanto ai cinque milioni rubati 
      agli ospizi,  sono già stati restituiti da mano  sconosciuta.  Ora 
      mangiate e bevete, questa sera sarete mio ospite. Vampa! Quando si 
      sarà riavuto, sia posto in libertà." 
      Danglars   rimase   ancora   prosternato,   mentre   il  conte  si 
      allontanava;  quando rialzò la testa,  non vide più che una specie 
      di  ombra  che  scompariva  nel  corridoio,  e  davanti alla quale 
      s'inchinavano i banditi. 
      Come il conte aveva ordinato,  Danglars fu servito da  Vampa,  che 
      gli  fece  portare il miglior vino e i più bei frutti d'Italia,  e 
      che,  avendolo quindi fatto  trasportare  nella  sua  carrozza  da 
      posta,  lo  lasciò sulla strada appoggiato ad un albero.  Vi restò 
      fino a giorno,  ignorando dove era.  A giorno  s'accorse  che  era 
      vicino  ad  un  ruscello;  aveva sete e si strascinò fino ad esso. 
      Nell'abbassarsi per  bere  s'accorse  che  i  suoi  capelli  erano 
      divenuti bianchi! 
 
 
 
                                Capitolo 117. 
                                IL 5 OTTOBRE. 
 
 
      Erano circa le sei di sera: il cielo era ingombro di vapori, tra i 
      quali un bel sole d'autunno filtrava i suoi raggi d'oro. 
      Il  calore del giorno si era estinto gradatamente,  e cominciava a 
      spirare una brezza leggera,  soffio  delizioso  che  rinfresca  le 
      coste del Mediterraneo,  e che porta,  di riva in riva, il profumo 
      degli alberi misto all'acre sentore del mare. 
      Sopra a  quell'immenso  lago  che  si  estende  da  Gibilterra  ai 
      Dardanelli  e  da  Venezia  a  Tunisi,  uno yacht di forma pura ed 
      elegante correva leggero leggero.  Il suo moto era  quello  di  un 
      cigno  che  apre  le ali al vento e che sembra lambire l'acqua: si 
      avanzava rapido e grazioso,  lasciando dietro a  sé  una  striscia 
      fosforescente. 
      A poco a poco,  il sole, di cui abbiamo salutato gli ultimi raggi, 
      era scomparso all'orizzonte occidentale, ma, come per dare ragione 
      ai brillanti sogni della mitologia,  i suoi  fuochi,  ricomparendo 
      alla sommità di ciascun albero, sembravano rivelare che il dio del 
      fuoco  si  era  nascosto  nel  seno d'Anfitrite,  la quale tentava 
      invano di celarlo col suo manto azzurro. 
      Lo yacht avanzava rapidamente, quantunque in apparenza spirasse un 
      lieve venticello,  che appena avrebbe  potuto  agitare  i  capelli 
      sciolti di una dolce ragazza. 
      In  piedi  a  prua,  un uomo d'alta statura,  di carnagione scura, 
      coll'occhio dilatato,  vedeva comparire  dinanzi  la  terra  sotto 
      forma  di una tetra massa disposta a cono,  che sorgeva dai flutti 
      come immenso cappello alla catalana. 
      "E' quella là,  l'isola di Montecristo?" domandò con voce grave  e 
      impressa  di  profonda  tristezza il viaggiatore,  agli ordini del 
      quale sembrava momentaneamente sottoposto il piccolo yacht. 
      "Sì, eccellenza" rispose il padrone. "Stiamo per arrivare." 
      "Arrivare!" mormorò il viaggiatore,  con indefinibile  accento  di 
      malinconia. 
      Quindi soggiunse a bassa voce: 
      "Sì quello sarà il porto." 
      E  ritorno  ad  immergersi  nel  suo pensiero che traspariva da un 
      sorriso più triste di qualsiasi lacrima. 
      Alcuni minuti dopo si scoperse a terra una fiamma  che  subito  si 
      spense, e il rumore di un'arma da fuoco giunse fino allo yacht. 
      "Eccellenza" disse il padrone,  "ecco il segnale di terra.  Volete 
      rispondere voi stesso?" 
      "Che segnale?" domandò l'uomo. 
      Il padrone  stese  la  mano  verso  l'isola,  additando  un  largo 
      pennacchio di fumo che si squarciava allargandosi. 
      "Ah, sì" disse, come se uscisse da un sogno, "date." 
      Il  padrone  gli stese una carabina già carica,  il viaggiatore la 
      prese, l'alzò lentamente, e fece fuoco in aria. 
      Dieci minuti dopo si ammainavano le vele,  e si gettava l'àncora a 
      cinquecento passi dal piccolo porto. La lancia era già in mare con 
      quattro  rematori e il pilota;  il viaggiatore scese,  e invece di 
      sedere a poppa,  per lui coperta da un tappeto,  rimase in piedi a 
      prua  colle  braccia  in  croce.  I  rematori aspettavano coi remi 
      alzati, come gli uccelli che si asciugano le ali. 
      "Andate!" disse il viaggiatore. 
      Gli otto remi caddero in mare d'un sol colpo senza  far  spruzzare 
      una  sola  goccia d'acqua,  quindi la barca,  cedendo all'impulso, 
      strisciò rapidamente. In un istante giunsero ad un piccolo seno, e 
      la barca toccò fondo sulla sabbia fina. 
      "Eccellenza" disse il pilota,  "montate sulle spalle  di  due  dei 
      nostri uomini, che vi porteranno a terra." 
      Il  giovane  rispose  a  quell'invito  con  un  gesto  di completa 
      indifferenza,  sporse le gambe dalla barca,  e  si  lasciò  calare 
      nell'acqua che gli giunse fino alla cintola. 
      "Ah,  eccellenza" mormorò il pilota, "avete fatto male a far così, 
      ci farete sgridare dal nostro padrone." 
      Il giovane continuò ad avanzarsi verso  la  riva  seguendo  i  due 
      marinai  che  sceglievano  il miglior fondo.  Dopo una trentina di 
      passi erano a terra,  il giovane  scuoteva  i  piedi  sul  terreno 
      secco,  e  cercava  con  gli  occhi  intorno  a  sé il cammino che 
      probabilmente gli avrebbero indicato,  poiché faceva assolutamente 
      notte:  al  momento in cui voltava la testa,  una mano gli si posò 
      sulla spalla, e una voce lo fece rabbrividire. 
      "Buona sera, Massimiliano" disse quella voce, "siete puntuale,  ed 
      io ve ne ringrazio." 
      "Siete  voi,  conte?"  gridò il giovane con un moto che somigliava 
      alla gioia, e stringendo con ambe le mani la mano di Montecristo. 
      "Sì, come vedete, e puntuale come voi. Ma siete bagnato,  mio caro 
      amico,  bisogna  che  cambiate  vestito,  come  diceva  Calipso  a 
      Telemaco. Venite dunque,  c'è per di qua un alloggio preparato per 
      voi, e nel quale dimenticherete la stanchezza ed il freddo." 
      Montecristo   accorgendosi  che  Morrel  cercava  con  lo  sguardo 
      qualcuno,  aspettò.  Il giovane s'era accorto con sorpresa che non 
      era  stata  detta parola da quelli che lo avevano portato là e che 
      erano partiti senza essere pagati; sentiva già il battere dei remi 
      della barca che tornava al piccolo yacht. 
      "Che fate?" disse il conte. "Cercate i vostri marinai?" 
      "Senza dubbio, non li ho ricompensati." 
      "Non datevene fastidio,  Massimiliano" disse ridendo  Montecristo. 
      "Ho  un  contratto con la marina perché gli accessi alla mia isola 
      siano franchi da qualunque spesa." 
      Morrel guardò il conte con meraviglia. 
      "Conte" disse, "non siete più lo stesso di Parigi." 
      "In che modo?" 
      "Sì, voi ridete." 
      La fronte di Montecristo si corrugò d'un tratto. 
      "Avete ragione di richiamarmi a me  stesso,  Massimiliano"  disse. 
      "Il rivedervi è per me una felicità." 
      "Oh,  no, no, conte" gridò Morrel, stringendogli di nuovo le mani, 
      "ridete,  siate felice,  e provatemi colla vostra indifferenza che 
      la  vita  è  triste  solo per coloro che soffrono.  Oh,  voi siete 
      caritatevole, siete grande, amico mio,  e affettate questa ilarità 
      solo per darmi coraggio." 
      "Vi   sbagliate,   Morrel"  disse  Montecristo,   "è  perché  sono 
      effettivamente contento." 
      "Allora voi mi dimenticate, tanto meglio!" 
      "In che modo?" 
      "Sì, poiché lo sapete,  amico,  come diceva il gladiatore entrando 
      nel  circo  al  sublime  imperatore,  io  dico  a voi: Morituri te 
      salutant!" 
      "Voi non siete consolato?"  domandò  Montecristo  con  uno  strano 
      sguardo. 
      "Oh!" esclamò Morrel,  con un espressione piena d'amarezza, "avete 
      creduto realmente che potessi esserlo?" 
      "Sentite un po'" disse il conte,  "voi non mi  prendete  per  uomo 
      volgare,  per  uno strumento che butta fuori parole strane e prive 
      di senso?  Quando io vi chiedo se siete consolato,  vi parlo  come 
      uno  per  il  quale  il  cuore  umano non ha più segreti.  Ebbene, 
      Morrel,  scendete nel vostro cuore,  ed  esploratelo.  C'è  ancora 
      quell'impetuosa  impazienza  del  dolore  che fa scuotere il corpo 
      come balza il leone quando è punto dal tafano?  C'è ancora  quella 
      idealità  del  dispiacere  che  spinge  l'uomo  fuori  della  vita 
      cercando la morte?  o c'è piuttosto la prostrazione  del  coraggio 
      spossato  e  la noia che spegne il raggio di speranza che vorrebbe 
      risplendere?  Oh,  amico mio!  Se è così,  se voi non  potete  più 
      piangere,  se  credete morto il vostro cuore gelato,  se non avete 
      più speranza che in Dio,  se i vostri sguardi non s'innalzano  più 
      che verso il cielo,  amico mio,  lasciamo da parte le frasi troppo 
      concise,  per il senso che loro dà la nostra anima.  Massimiliano, 
      voi siete consolato, non lamentatevi più." 
      "Conte"  disse  Morrel,  con  tono di voce dolce e fermo,  "conte, 
      ascoltatemi come si ascolta un uomo che parla con la mano  protesa 
      verso la terra e gli occhi rivolti al cielo. Certamente amo ancora 
      qualcuno: amo mia sorella Giulia,  amo suo marito Emanuele.  Ma ho 
      bisogno che mi si aprano cuori forti nell'ultimo mio momento.  Mia 
      sorella si struggerebbe in lacrime e svenirebbe, vedrei soffrire e 
      ho  sofferto  abbastanza;  Emanuele  mi strapperebbe le armi dalle 
      mani, e riempirebbe la casa delle sue grida... Voi, conte,  che me 
      l'avete  promesso,  voi che siete più che un uomo,  e che,  se non 
      foste mortale,  chiamerei un Dio,  voi mi condurrete dolcemente  e 
      con tenerezza, non è vero, fino alla morte?" 
      "Amico" disse il conte,  "non mi resta che un dubbio: avreste così 
      poca forza da metterci orgoglio nell'esagerare il vostro dolore?" 
      "No, guardate,  sono tranquillo" disse Morrel,  stendendo una mano 
      al  conte,  "e  il  mio  polso  non  batte  né  più forte,  né più 
      lentamente dell'ordinario.  No,  mi trovo  al  termine  della  mia 
      strada, e non andrò più avanti: mi avete parlato di aspettare e di 
      sperare.  Sapete  che cosa avete fatto al disgraziato,  voi saggio 
      che siete?  Ho aspettato un mese,  vale a dire ho sofferto un mese 
      di   più:   ho  sperato...   L'uomo  è  una  povera  e  miserabile 
      creatura!...  Che  cosa  ho  sperato!  Non  lo  so,  qualche  cosa 
      d'ignoto,  d'assurdo,  d'insensato... un prodigio!... E quale? Può 
      dirlo Dio solo, che ha mischiato alla nostra ragione il sentimento 
      della speranza. Sì, ho sperato,  e da un quarto d'ora che parliamo 
      mi  avete  cento  volte,  senza  saperlo,  torturato e lacerato il 
      cuore,  poiché ciascuna delle vostre parole mi ha provato che  non 
      c'era  più  speranza  per  me.  Oh,  conte,  con quanta dolcezza e 
      soavità riposerò nella morte!" 
      Morrel pronunciò  queste  parole  così  energicamente  che  fecero 
      fremere il conte. 
      "Amico  mio"  continuò  Morrel,  vedendo che il conte taceva,  "mi 
      avete proposto il cinque ottobre come termine della dilazione  che 
      mi  avete  richiesto...  Amico  mio,  oggi è il cinque ottobre..." 
      Morrel cavò l'orologio.  "Sono le  nove,  ho  ancora  tre  ore  da 
      vivere." 
      "Sia" rispose Montecristo, "venite." 
      Morrel  seguì  macchinalmente il conte,  ed erano già nella grotta 
      che Massimiliano non se ne era ancora  accorto.  Sentì  i  tappeti 
      sotto i piedi,  si aprì una porta, dolci profumi lo avvilupparono, 
      una viva luce gli colpì gli occhi.  Morrel si  fermò  esitando  ad 
      inoltrarsi;   non   si  fidava  delle  snervanti  delizie  che  lo 
      circondavano. Montecristo lo attirò dolcemente. 
      "Non sarebbe bene" disse il conte,  "che impiegassimo le  tre  ore 
      che  ci  rimangono  come quegli antichi romani che,  condannati da 
      Nerone loro imperatore e  loro  parente,  si  mettevano  a  tavola 
      coronati  di  fiori,  e  aspiravano  la  morte tra i profumi delle 
      vainiglie e delle rose?" 
      Morrel sorrise. 
      "Come vorrete" rispose.  "La morte è sempre  morte,  vale  a  dire 
      l'oblio,  il riposo, la cessazione della vita, e, per conseguenza, 
      dei dolori della terra." 
      E si sedette; Montecristo si pose in faccia a lui. Erano in quella 
      meravigliosa sala da pranzo che  abbiamo  già  descritta,  e  dove 
      statue  di marmo portavano sulle loro teste cofani sempre pieni di 
      fiori e di frutti. 
      Morrel aveva guardato tanto vagamente,  che era possibile che  non 
      avesse visto niente. 
      "Parliamo da uomini" disse, guardando fissamente il conte. 
      "Parlate" rispose il conte. 
      "Amico" riprese Morrel, "avete raccolte in voi tutte le cognizioni 
      umane,  e  mi  fate  l'effetto  di  esser  disceso da un mondo più 
      progredito e incivilito del nostro." 
      "Nelle vostre parole c'è qualche cosa di vero,  Morrel"  disse  il 
      conte,  con quel sorriso malinconico che lo faceva così attraente. 
      "Io sono disceso da un pianeta che si chiama dolore." 
      "Credo tutto quanto mi dite,  senza cercare  di  approfondirne  il 
      senso  conte,  e  la  prova è che mi avete detto di sperare,  e ho 
      sperato.  Avrò dunque il coraggio di chiedervi come se  foste  già 
      morto una volta: è doloroso il morire?" 
      Montecristo   guardava  Morrel  con  indefinibile  espressione  di 
      tenerezza. 
      "Sì" disse,  "sì,  senza dubbio  è  molto  doloroso,  se  troncate 
      brutalmente  questo  mortale involucro che chiede ostinatamente di 
      vivere.  Qualunque  mezzo  scegliate,  soffrirete  certamente,   e 
      lascerete  odiosamente la vita trovandola,  nel mezzo della vostra 
      disperata agonia,  migliore di un rimorso  comprato  a  così  caro 
      prezzo." 
      "Sì,  capisco"  disse  Morrel,  "la  morte  come la vita ha i suoi 
      segreti  di  dolore  e  di  voluttà:  tutto  dipende  dal  saperli 
      conoscere." 
      "Precisamente, Massimiliano, e voi avete detto una grande cosa. La 
      morte è,  a seconda delle cure che poniamo nel metterci in buona o 
      cattiva armonia con essa,  un'amica che ci culla  dolcemente  come 
      una nemica che strappa violentemente l'anima dal corpo. Un giorno, 
      quando  il  nostro  mondo  avrà vissuto ancora un migliaio d'anni, 
      quando si sarà reso padrone di tutte le forze  distruttrici  della 
      natura  per asservirle al benessere generale dell'umanità,  quando 
      l'uomo saprà, come voi desideravate, i segreti della morte, questa 
      diverrà così dolce e voluttuosa,  quanto il sonno gustato  fra  le 
      braccia di una diletta consorte." 
      "E se voleste morire, sapreste morire in tal modo?" 
      "Sì." 
      Morrel gli stese la mano. 
      "Capisco  ora"  disse,  "perché  mi avete dato appuntamento qui in 
      quest'isola disabitata,  nel mezzo dell'Oceano,  in questo palazzo 
      sotterraneo,  sepolcro  da destare invidia ad un Faraone: è perché 
      mi amate, non è vero,  conte?  E' perché mi amate abbastanza,  per 
      darmi una di queste morti di cui parlavate or ora, una morte senza 
      agonia,  una  morte che mi permetta di estinguermi pronunciando il 
      nome di Valentina e stringendovi la mano?" 
      "Sì,  avete  proprio  indovinato,   Morrel"  disse  il  conte  con 
      semplicità, "è in tal modo che intendo." 
      "Grazie.  L'idea che domani non soffrirò più è soave al mio povero 
      cuore." 
      "Non vi rincresce di nessuno?" domandò Montecristo. 
      "No" rispose Morrel. 
      "Neppure di me?" domandò il conte, con profonda emozione. 
      Morrel tacque.  L'occhio suo,  così puro,  si oscurò d'un  tratto, 
      quindi brillò di straordinaria luce: ne scaturì una grossa lacrima 
      e gli irrigò la guancia. 
      "Come"  disse  il  conte,   "provate  dispiacere  nell'abbandonare 
      qualcuno sulla terra, e volete morire?" 
      "Oh, ve ne supplico" gridò Morrel, con voce debole,  "non dite una 
      parola di più, non prolungate il mio supplizio." 
      Il  conte pensò che Morrel cedesse,  e tale fiducia per un momento 
      suscitò in lui l'orribile dubbio che aveva provato già al Castello 
      d'If. 
      "Io  mi  preoccupo"  pensava,   "di  restituire  quest'uomo   alla 
      felicità,  considero  questa  restituzione,  nella  bilancia,  sul 
      piatto opposto a quello in cui ho gettato tanto male.  Ora,  se mi 
      sbagliassi,  se  quest'uomo  non  fosse  abbastanza  infelice  per 
      meritare la felicità che gli preparo? Ahimè, che accadrebbe di me, 
      che non posso dimenticare il male se non facendo il bene?" 
      Quindi volgendosi al giovane: 
      "Ascoltate,  Morrel" gli disse,  "il vostro dolore è  immenso,  lo 
      vedo,  ma  però  voi  credete  in Dio,  e non vorrete rischiare la 
      salute dell'anima." 
      Morrel sorrise con aria malinconica. 
      "Conte" rispose,  "voi sapete che non sono  esaltato,  ma  la  mia 
      anima non è più mia." 
      "Sentite,  Morrel" ripigliò il conte,  "io non ho alcun parente al 
      mondo,  voi lo sapete.  Mi sono abituato a considerarvi  come  mio 
      figlio; ebbene, per salvare questo mio figlio sacrificherei la mia 
      vita, e a più forte ragione, le mie ricchezze." 
      "Che intendete dire?" 
      "Intendo dire,  Morrel, che voi volete lasciare la vita perché non 
      conoscete tutti i piaceri che la vita  concede  ai  possessori  di 
      grandi ricchezze. 
      Massimiliano,  io  posseggo  quasi cento milioni,  ve li dono: con 
      simili ricchezze,  potrete ottenere tutto ciò che  vorrete.  Siete 
      ambizioso? Tutte le carriere vi saranno aperte. Mettete sottosopra 
      il mondo,  cambiatene la faccia, abbandonatevi ad opere insensate, 
      siate pure colpevole, se occorre, ma vivete!" 
      "Conte,  ho  la  vostra  parola"  rispose  freddamente  Morrel,  e 
      aggiunse cavando l'orologio: "Sono le undici e tre quarti". 
      "Morrel,  potete pensare a ciò,  qui sotto i miei occhi, nella mia 
      casa?..." 
      "Allora,  lasciatemi partire" disse Massimiliano,  divenuto tetro, 
      "oppure non crederò che mi amate per il mio bene, ma per egoismo!" 
      E si alzò. 
      "Sta  bene"  disse  Montecristo,  il  cui viso si rischiarò a tali 
      parole: "voi lo volete, Morrel,  voi siete inflessibile,  sì,  voi 
      siete  profondamente  infelice,  e  lo  avete  detto,  un miracolo 
      soltanto   potrebbe   guarirvi.   Sedete,   dunque,   Morrel,    e 
      aspettate..." 
      Morrel obbedì,  Montecristo si alzò e andò a frugare in un armadio 
      chiuso diligentemente,  di cui portava la chiave  sospesa  ad  una 
      catenella d'oro.  Prese un cofanetto d'argento,  meravigliosamente 
      scolpito e cesellato,  i cui angoli rappresentavano quattro figure 
      simili a cariatidi dall'aspetto desolato,  figure di donne che con 
      inesprimibile sorriso tenevano lo sguardo  rivolto  al  cielo:  lo 
      posò sulla tavola.  Quindi aprendolo ne cavò una scatola d'oro, il 
      cui coperchio si sollevava  premendo  una  molla.  Questa  scatola 
      conteneva  una sostanza untuosa,  quasi solida,  il cui colore era 
      indefinibile: aveva il riflesso dell'oro forbito,  degli  zaffiri, 
      dei rubini e degli smeraldi che impreziosivano la scatola,  era un 
      miscuglio di azzurro,  di porpora e  d'oro.  Il  conte  prese  una 
      piccola  quantità  di questa sostanza,  con un cucchiaio d'argento 
      dorato,  e l'offrì a Morrel,  fissando su lui  un  lungo  sguardo. 
      Allora si poté vedere che questa sostanza era verdastra. 
      "Ecco  ciò  che  mi  avete  domandato" disse,  "ecco ciò che vi ho 
      promesso." 
      "Mi restituite la gioia con la morte" disse il giovane,  prendendo 
      il  cucchiaio  dalle mani di Montecristo.  "Vi ringrazio dal fondo 
      del cuore." 
      Il conte prese un altro cucchiaio,  e lo immerse una seconda volta 
      nella scatola d'oro. 
      "Che cosa fate, amico?" domandò Morrel, fermandogli la mano. 
      "In  fede  mia,  Morrel,  credo  di essere stanco quanto voi della 
      vita, e poiché si presenta l'occasione..." 
      "Fermatevi!" gridò il giovane.  "Voi  che  amate,  voi  che  siete 
      amato,  voi che avete la fede e la speranza,  oh! non fate ciò che 
      faccio io! Da parte vostra sarebbe un delitto. Addio, mio nobile e 
      generoso amico,  addio,  corro a raccontare a Valentina tutto  ciò 
      che avete fatto per me." 
      E  lentamente,  senz'altra esitazione che una lunga stretta con la 
      mano sinistra che tendeva al conte,  Morrel inghiottì o  piuttosto 
      assaporò  la  misteriosa  sostanza offerta da Montecristo.  Allora 
      entrambi tacquero. Alì,  silenzioso e attento,  portò il tabacco e 
      le pipe, servì il caffè e si ritirò. 
      A poco a poco, le lampade impallidirono nelle mani delle statue di 
      marmo  che  le  sostenevano,  e i profumi dei vasi sembrarono meno 
      penetranti a Morrel.  Seduto,  dirimpetto a  lui,  Montecristo  lo 
      guardava nascosto nell'ombra,  e Morrel non ne vedeva brillare che 
      gli occhi.  Un immenso torpore s'impadronì del giovane,  sentì  la 
      pipa  sfuggirgli  di  mano,  gli  oggetti  perdevano la forma e il 
      colore,  i suoi occhi turbati vedevano aprirsi porte e  tende  nei 
      muri. 
      "Amico" disse, "io sento che muoio, grazie!" 
      Fece uno sforzo per tendergli un'ultima volta la mano,  ma la mano 
      ricadde senza forze. Allora gli sembrò che Montecristo sorridesse, 
      non più dello strano e spaventoso  sorriso  che  molte  volte  gli 
      aveva fatto intravedere i misteri di quell'anima profonda,  ma con 
      la benevolenza compassionevole che  i  padri  hanno  per  i  figli 
      irragionevoli.  Nello  stesso  tempo  il  conte ingrandiva ai suoi 
      occhi: la sua statura,  quasi raddoppiata,  si disegnava sul rosso 
      cortinaggio, aveva i capelli neri gettati indietro, e compariva in 
      piedi  e  fiero,  come  uno di quegli angeli di cui si minaccia ai 
      malvagi  la  presenza  nel  giorno  del  giudizio  finale.  Morrel 
      abbattuto e vinto,  si rovesciò sul divano;  un torpore voluttuoso 
      s'insinuò nelle sue vene.  Steso,  snervato,  ansante,  Morrel  si 
      sentiva  trasportato in un sogno: gli sembrava di entrare a gonfie 
      vele in quel vago delirio che precede quel transito che si  chiama 
      morte.  Tentò  ancora di tendere la mano al conte,  ma stavolta la 
      sua mano non si mosse nemmeno;  volle articolare un ultimo  addio, 
      la lingua gli si paralizzò.  I suoi occhi, carichi di languore, si 
      chiusero suo  malgrado;  però  dietro  alle  palpebre  si  agitava 
      un'immagine  che  riconobbe  anche nell'oscurità da cui si credeva 
      avvolto. Era il conte che aveva aperto una porta. Ad un tratto, un 
      immenso splendore irradiò dalla camera vicina,  o piuttosto da  un 
      palazzo  meraviglioso,  e  venne  ad  inondare di luce la sala ove 
      Morrel stava in braccio alla  dolce  agonia.  Allora  vide  venire 
      sulla  soglia  di  quella sala e sul limitare di queste due stanze 
      una  donna  di  meravigliosa  bellezza,   pallida,   e  dolcemente 
      sorridente: sembrava l'angelo della misericordia. 
      "E  forse  il  cielo  che già si apre per me?" disse il moribondo. 
      "Quest'angelo somiglia a quello che ho perduto." 
      Montecristo mostrò col dito alla ragazza il sofà su  cui  riposava 
      Morrel.  Lei  andò  verso  di  lui con le mani giunte e il sorriso 
      sulle labbra. 
      "Valentina! Valentina!" gridò Morrel dal fondo dell'anima sua. 
      Ma le labbra non proferirono alcun suono, e,  come se tutte le sue 
      forze fossero unite in quella emozione interna,  mandò un sospiro, 
      e chiuse gli occhi. Valentina si precipitò verso di lui. Le labbra 
      di Morrel fecero ancora un moto. 
      "Vi chiama" disse il conte,  "vi chiama dal fondo del  suo  sonno, 
      colui  al  quale  avete confidato il vostro destino,  dal quale la 
      morte ha voluto separarvi!  Ma io ero là,  per buona sorte,  e  ho 
      vinto  la morte!  Valentina,  d'ora in avanti non dovete separarvi 
      più sulla terra; poiché per ritrovarvi,  egli si precipitava nella 
      tomba.  Senza  di  me  sareste  morti entrambi,  possa Iddio darmi 
      credito per queste due esistenze salvate!" 
      Valentina afferrò la mano di Montecristo,  e,  in uno  slancio  di 
      gioia irresistibile, la portò alle labbra. 
      "Oh,  ringraziatemi" disse il conte,  "ripetetemi senza stancarvi, 
      ripetetemi ch'io vi  ho  resa  felice!  Non  sapete  quanto  abbia 
      bisogno di questa certezza." 
      "Oh,  sì, sì, vi ringrazio con tutta l'anima mia" disse Valentina, 
      "e se dubitate  che  i  miei  ringraziamenti  non  siano  sinceri, 
      ebbene, domandate ad Haydée, interrogate la mia sorella prediletta 
      Haydée, che dal momento della nostra partenza dalla Francia non ha 
      lasciato  di  discorrermi  di  voi  e  del  felice giorno che oggi 
      risplende per me." 
      "Voi dunque amate Haydée?" domandò Montecristo,  con emozione  che 
      si sforzava invano di dissimulare. 
      "Oh con tutta l'anima mia!" 
      "Allora,  sentite Valentina" disse il conte,  "io ho una grazia da 
      chiedervi." 
      "A me, gran Dio! Sarei tanto felice se..." 
      "Sì,  avete chiamato Haydée vostra sorella...  Lo  sia  di  fatto, 
      Valentina  rendete a lei tutto ciò che voi credete di dovere a me, 
      proteggetela voi e Morrel, poiché..." La voce del conte era vicina 
      ad estinguersi nella sua gola "...  poiché d'ora innanzi lei  sarà 
      sola al mondo..." 
      "Sola al mondo?" ripeté una voce dietro il conte. "E perché?" 
      Montecristo si volse.  Haydée era là,  ritta,  pallida e tremante, 
      guardando il conte con un gesto d'indescrivibile stupore. 
      "Perché domani,  figlia mia,  tu sarai libera" rispose  il  conte, 
      "perché tu riprenderai nel mondo il posto che ti è dovuto,  perché 
      non voglio che il mio destino oscuri il tuo,  figlia di  principe! 
      Io ti restituisco le ricchezze e il nome di tuo padre." 
      Haydée impallidì, aprì i suoi occhi diafani come la vergine che si 
      raccomanda a Dio, e con voce rauca dai singhiozzi: 
      "Dunque, mio signore, tu mi lasci?" disse. 
      "Haydée!  Haydée!  Tu sei giovane, sei bella, dimentica perfino il 
      mio nome, e sii felice!" 
      "Sta bene" disse Haydée,  "i tuoi  ordini  saranno  eseguiti,  mio 
      signore, dimenticherò perfino il tuo nome, e sarò felice." 
      E fece un passo indietro per ritirarsi. 
      "Oh,  mio  Dio!"  gridò  Valentina,  mentre  stringeva la testa di 
      Morrel contro il suo seno.  "Non vedete dunque com'e pallida,  non 
      comprendete dunque quanto soffre?" 
      "Perché vuoi dunque, sorella mia" le disse Haydée, con espressione 
      triste,  "che  mi  comprenda?  Lui  è mio padrone,  io sono la sua 
      schiava; ha il diritto di non comprendere nulla." 
      Il conte fremette  agli  accenti  di  quella  voce  che  risvegliò 
      perfino  le  fibre  più  segrete  del  suo  cuore;  i  suoi  occhi 
      incontrarono quelli della giovane donna e non poterono  sostenerne 
      lo sguardo. 
      "Mio Dio,  mio Dio" disse Montecristo, "sarebbe dunque vero quanto 
      mi lasciaste supporre? Haydée, dunque sareste felice con me?" 
      "Io sono giovane" rispose lei dolcemente,  "amo la vita che tu  mi 
      hai resa sempre così dolce, e mi dispiacerebbe morire." 
      "Vuoi dire che se io ti lasciassi, Haydée?..." 
      "Morirei, mio signore, sì!" 
      "Tu dunque mi ami?" 
      "Valentina,   chiede  se  io  l'amo!"  disse  Haydée,   rivolta  a 
      Valentina. "Digli tu dunque se ami Massimiliano!" 
      Il conte sentì dilatarsi il cuore,  aprì le braccia: Haydée vi  si 
      slanciò gettando un grido. 
      "Oh, sì, io t'amo!" disse. "Io t'amo come si ama il proprio padre, 
      il  proprio fratello,  il proprio marito!  Io t'amo come si ama la 
      vita,  perché tu sei per me il più  bello,  il  migliore,  il  più 
      grande degli esseri creati!" 
      "Sia dunque come vuoi,  angelo mio diletto!" disse il conte.  "Dio 
      mi ha  suscitato  contro  i  miei  nemici.  Ma  chi  mi  ha  fatto 
      vincitore?  Dio! Io ben lo comprendo, ed egli non vuole mettere il 
      pentimento in mezzo alla mia  vittoria:  io  volevo  punirmi,  Dio 
      vuole perdonarmi.  Amami,  dunque,  Haydée!  Chissà, il mio amore, 
      forse, mi farà dimenticare ciò che è necessario dimenticare." 
      "Ma che dici, dunque, mio signore?" disse la ragazza. 
      "Io dico che una tua parola, Haydée, mi ha illuminato più di venti 
      anni di studio!  Non ho più che te al mondo,  Haydée,  per  te  mi 
      riaffeziono  alla  vita,  per  te  posso  ancora  esser  felice od 
      infelice." 
      "Lo  senti,  Valentina?"  gridò  Haydée.  "Dice  che  per  me  può 
      soffrire, per me che darei la vita per lui!" 
      Il conte si raccolse un istante. 
      "Ah,  io intravedo la verità!" disse.  "Oh,  mio Dio, ricompensa o 
      castigo, accetto questo destino... Vieni, Haydée vieni..." 
      E abbracciando la giovane donna salutò Valentina, e uscì con lei. 
      Circa un'ora passò, durante la quale anelante,  senza voce,  cogli 
      occhi  fissi,  Valentina stette vicino a Morrel.  Finalmente sentì 
      battere il suo cuore, un soffio impercettibile aprì le sue labbra, 
      e quel leggero  fremito  che  annunziava  il  ritorno  della  vita 
      percorse  tutto  il corpo del giovane.  I suoi occhi finalmente si 
      riaprirono, ma prima fissi e come insensati, quindi si rianimarono 
      e,  con la vista,  gli tornò il sentimento,  e col  sentimento  il 
      dolore. 
      "Oh!" gridò coll'accento della disperazione,  "io vivo ancora,  il 
      conte mi ha ingannato!" 
      "Amico" disse Valentina,  "svegliati dunque,  e guarda  dalla  mia 
      parte!" 
      Morrel mandò un forte grido,  e,  delirante, pieno di dubbio, come 
      abbagliato da visione celeste, cadde alle sue ginocchia. 
      L'indomani,  ai  primi  raggi  del  giorno,   Morrel  e  Valentina 
      passeggiavano,   l'uno  al  braccio  dell'altra,  sulla  spiaggia. 
      Valentina raccontava a Morrel  in  che  modo  Montecristo  le  era 
      apparso nella stanza,  come le aveva tutto svelato,  come le aveva 
      fatto toccar con  mano  il  delitto,  e  come  finalmente  l'aveva 
      miracolosamente salvata dalla morte, lasciando credere a tutti che 
      fosse morta realmente. 
      Morrel  scoprì,  alla penombra di un gruppo di rocce,  un uomo che 
      aspettava un  segnale  per  venire  avanti;  mostrò  quest'uomo  a 
      Valentina. 
      "Ah, è Jacopo" disse, "il capitano dello yacht." 
      E con un gesto lo chiamò. 
      "Avete qualche cosa da dirci?" domandò Morrel. 
      "Ho da rimettervi questa lettera da parte del conte." 
      "Del conte!" esclamarono entrambi i giovani. 
      "Sì, leggete." 
      Morrel aprì la lettera e lesse: 
 
      "Mio  caro Massimiliano,  troverete per voi una feluca all'àncora. 
      Jacopo vi condurrà a Livorno,  ove il signor Noirtier aspetta  sua 
      nipote, che vuol benedire prima che vi segua all'altare. Tutto ciò 
      che è in questa grotta, amico mio, la mia casa agli Champs-Elysées 
      e  il  mio  piccolo  castello  di Tréport sono regali di nozze che 
      Edmondo Dantès fa al figlio del suo padrone Morrel;  la  signorina 
      Villefort vorrà accettarne la metà,  poiché la supplico di dare ai 
      poveri di Parigi tutte le ricchezze  che  le  possono  venire  per 
      eredità da suo padre,  divenuto pazzo,  e da suo fratello morto in 
      settembre con sua madre. Dite all'angelo che veglierà sulla vostra 
      vita, Morrel,  di pregare qualche volta per un uomo che,  simile a 
      Satana,   per   un  momento  si  è  creduto  simile  a  Dio  e  ha 
      riconosciuto,  con tutta l'umiltà di un cristiano,  che nelle mani 
      di  Dio  soltanto  sta  il  supremo potere e la infinita sapienza. 
      Queste preghiere addolciranno forse i rimorsi che porta con sé nel 
      profondo del cuore, in quanto a voi Morrel,  ecco tutto il segreto 
      della  condotta  che  ho tenuto verso voi: non vi è né felicità né 
      infelicità in questo mondo, è soltanto il paragone di uno stato ad 
      un altro,  ecco tutto.  Solo chi ha provato l'estremo  dolore  può 
      gustare  la  suprema  felicità.  Bisognava  aver bramato la morte, 
      Massimiliano,  per sapere quale bene è  vivere.  Vivete  dunque  e 
      siate  felici,  figli prediletti del mio cuore,  e non dimenticate 
      mai che,  fino al giorno  in  cui  Iddio  si  degnerà  di  svelare 
      all'uomo l'avvenire, tutta l'umana saggezza sarà riposta in queste 
      due  parole:  Aspettare  e  sperare.  Vostro amico Edmondo Dantès, 
      Conte di Montecristo." 
 
      Durante la lettura di quella lettera,  che le apprendeva la follia 
      di  suo  padre  e  la  morte  di suo fratello,  morte e follia che 
      ignorava,  Valentina impallidì,  un doloroso sospiro le sfuggì dal 
      petto,  e copiose lacrime le corsero sulla guance: la sua felicità 
      le costava ben cara! 
      Morrel guardò intorno a sé con inquietudine. 
      "Ma" disse,  "in verità,  il  conte  esagera  la  sua  generosità; 
      Valentina  si  contenterà  della  mia  modesta sostanza.  Dov'è il 
      conte, amico mio?" 
      "Guardate!" disse Jacopo, indicando l'orizzonte. 
      Gli occhi dei due giovani si fissarono sulla  linea  indicata  dal 
      marinaio;  e  sull'azzurro cupo del Mediterraneo,  si scoperse una 
      bianca vela, grande come l'ala di un gabbiano. 
      "Partito!" gridò Morrel. "Partito! Addio, amico mio! Addio,  padre 
      mio!" 
      "Partita!" mormorò Valentina.  "Addio,  amica mia!  Addio, sorella 
      mia!" 
      "Chissà se li vedremo mai  più!"  disse  Morrel  asciugandosi  una 
      lacrima. 
      "Amico mio" disse Valentina,  "il conte non ci ha lasciato scritto 
      che l'umana saggezza  sta  tutta  intera  in  queste  due  parole: 
      Aspettare e sperare?"