Traduzioni telematiche a cura di
    Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo
    (Casa di reclusione - Opera)



    Fëdor Dostoevskij.
    IL GIOCATORE.







    INDICE.

    Capitolo  1: pagina 3.
    Capitolo  2: pagina 20.
    Capitolo  3: pagina 31.
    Capitolo  4: pagina 40.
    Capitolo  5: pagina 50.
    Capitolo  6: pagina 65.
    Capitolo  7: pagina 79.
    Capitolo  8: pagina 91.
    Capitolo  9: pagina 105.
    Capitolo 10: pagina 121.
    Capitolo 11: apgina 142.
    Capitolo 12: pagina 158.
    Capitolo 13: pagina 178.
    Capitolo 14: pagina 198.
    Capitolo 15: pagina 213.
    Capitolo 16: pagina 231.
    Capitolo 17: pagina 249.



    1.

    Finalmente ritornavo dopo un'assenza di due settimane.  Già da tre
    giorni  i  nostri si trovavano a Roulettenburg.  Pensavo di essere
    atteso con chi sa quale ansia, e invece mi sbagliavo.  Il generale
    mi  accolse con una disinvoltura eccessiva,  mi parlò squadrandomi
    dall'alto in basso e mi mandò da sua sorella.  Era evidente che da
    qualche  parte  erano  riusciti  a  procurarsi  del  denaro.  Ebbi
    addirittura l'impressione che il  generale  mi  guardasse  con  un
    certo imbarazzo.  Màrja Filìppovna,  indaffaratissima,  mi liquidò
    con poche parole; prese,  però,  il denaro,  lo contò e ascoltò il
    mio rapporto.  A pranzo erano attesi Mezentzòv, il francesino e un
    inglese; come sempre, quando c'era denaro, subito inviti a pranzo:
    secondo  l'uso  moscovita.  Polina  Aleksàndrovna,  vedendomi,  mi
    chiese  come  mai  fossi  rimasto  assente  tanto a lungo.  Ma non
    aspettò nemmeno la risposta e se  ne  andò.  Si  capisce,  l'aveva
    fatto  apposta.  Però dovevo parlarle a ogni costo.  Molte cose si
    erano accumulate.
    Mi era  stata  assegnata  una  piccola  stanza,  al  quarto  piano
    dell'albergo:  si  sa  qui  che  io  appartengo  al  "seguito  del
    generale".  Da ogni cosa si capisce che essi sono riusciti a  dare
    nell'occhio.  Qui  il  generale  è  creduto un ricchissimo magnate
    russo.  Ancora prima di pranzo,  ha fatto in tempo,  tra gli altri
    incarichi,  a darmi due biglietti da mille franchi da cambiare, la
    qual cosa feci alla segreteria dell'albergo. Ora ci riterranno dei
    milionari, almeno per una settimana. Volevo prendere Misha e Nàdja
    e portarli a fare una passeggiata,  ma sulla scala  mi  chiamarono
    per  conto  del  generale:  si degnava di informarsi su dove avrei
    portato i bambini.  Quest'uomo  non  può  assolutamente  guardarmi
    negli occhi: vorrebbe farlo,  ma io,  ogni volta, gli rispondo con
    uno sguardo così fisso,  vorrei dire irriverente,  che egli sembra
    confondersi.  Con  un  discorso  tronfio,  legando alla meglio una
    frase dopo l'altra e, alla fine, impappinandosi completamente,  mi
    fece  capire  che  dovevo  passeggiare  con  i bambini lontano dal
    Casinò, nel parco. E, irritandosi, concluse bruscamente:
    "Se no,  a voi salta magari in mente di portarli al  Casinò,  alla
    roulette. Mi dovete scusare," aggiunse, "ma so che siete ancora un
    po'  sventato  e capace,  Dio sa,  di mettervi a giocare.  In ogni
    caso,  anche se io non sono il vostro  mentore  e  non  ho  alcuna
    intenzione di assumere una simile parte, ho tuttavia il diritto di
    pretendere che voi, per così dire, non mi compromettiate..."
    "Ma  sapete  che non ho denaro," risposi in tutta calma,  "e,  per
    perderlo, bisogna averlo."
    "Lo  avrete  immediatamente"  rispose  il   generale,   arrossendo
    leggermente;   poi,  rovistato  nel  suo  scrittoio,  consultò  un
    libriccino e risultò che mi doveva circa centoventi rubli.
    "Per poter fare questi conti" riprese, "serve cambiare i denari in
    talleri.  Prendete per ora cento talleri,  cifra tonda;  il resto,
    naturalmente, non andrà perduto."
    Presi il denaro in silenzio.
    "Per  favore,  non offendetevi per quanto vi ho detto,  siete così   
permaloso... Se vi ho fatto un'osservazione, l'ho fatto,  per così
    dire,  allo  scopo  di mettervi in guardia e,  certamente,  con un
    certo diritto..."
    Ritornando a casa con i bambini per il pranzo, incontrai un'intera
    cavalcata: erano i nostri che andavano a  visitare  non  so  quali
    rovine...   Due   splendide   carrozze   e  dei  cavalli  superbi!
    Mademoiselle Blanche  era  in  carrozza  con  Màrja  Filìppovna  e
    Polina;  il francesino,  l'inglese e il nostro generale andavano a
    cavallo.  I passanti  si  fermavano  a  guardarli:  l'effetto  era
    raggiunto...  ma  il generale finirà male!  Ho fatto il conto che,
    aggiungendo ai quattromila franchi che ho portato  io  quelli  che
    evidentemente sono riusciti a procurarsi, avranno in tutto sette o
    ottomila franchi; troppo pochi per mademoiselle Blanche.
    Mademoiselle Blanche sta anche lei nel nostro albergo, insieme con
    la madre;  e ci sta anche, non so bene dove, il nostro francesino.
    I camerieri lo chiamano "monsieur le comte",  la madre di  Blanche
    viene  chiamata  "madame la comtesse",  e magari lo sono veramente
    "comte" e "comtesse".
    Sapevo già che "monsieur le comte"  non  mi  avrebbe  riconosciuto
    quando  ci  saremmo  trovati a tavola per il pranzo.  Il generale,
    naturalmente, non pensò a presentarci o, almeno, a presentare me a
    lui;  ma "monsieur le comte" è stato in Russia e sa benissimo  che
    persona  poco  importante sia quello che essi chiamano "outchitel"
    (1).  Egli,  d'altra parte,  mi conosce molto bene.  Ma,  se  devo
    essere  sincero,   anche  a  pranzo  sono  capitato  senza  essere
    invitato: sembra che il generale  si  fosse  dimenticato  di  dare
    disposizioni al riguardo,  se no senza dubbio mi avrebbero mandato
    a  pranzare  alla  "table  d'hôte".  Mi  presentai  così,  di  mia
    iniziativa,  tanto  che  il  generale  mi  gettò  un'occhiata poco
    soddisfatta.  La buona Màrja Filìppovna mi indicò subito un posto,
    ma  l'incontro  con  mister  Astley  mi tolse d'impiccio e,  senza
    volerlo, feci la figura di appartenere alla loro società.
    Avevo incontrato questo strano  inglese  per  la  prima  volta  in
    Prussia, in treno, dove sedevamo l'uno di fronte all'altro, quando
    ero  in viaggio per raggiungere i nostri;  poi mi ero imbattuto in
    lui entrando in Francia e,  infine,  in Svizzera;  poi un paio  di
    volte nel corso di quelle due settimane,  ed ecco che ora lo avevo
    incontrato inaspettatamente a Roulettenburg. Non mi è mai capitato
    in tutta la vita di conoscere un uomo più timido, timido fino alla
    stupidità e lui,  naturalmente,  se ne rende conto perché  stupido
    non lo è affatto.  Del resto,  è molto simpatico e tranquillo. Ero
    riuscito a farlo parlare  durante  il  nostro  primo  incontro  in
    Prussia.  Mi  disse  che nell'estate era andato al Capo Nord e che
    aveva una gran voglia di visitare la  fiera  di  Niginij-Nòvgorod.
    Non  so  come  abbia  conosciuto  il  generale:  mi sembra che sia
    innamoratissimo di Polina. Quando lei è entrata, il viso di lui si
    è fatto di bracie.  Era molto contento che a  tavola  gli  sedessi
    vicino, e mi sembra che mi consideri già come suo intimo amico.
    A  tavola il francesino si dava molte arie: è superbo e sprezzante
    con tutti. E a Mosca, mi ricordo,  non faceva che bolle di sapone.
    Parlò senza posa di finanze e di politica russa. Il generale, ogni
    tanto,  osava  contraddirlo  ma con molta discrezione,  unicamente
    quel tanto che bastava per non mettere a  repentaglio  la  propria
    importanza.
    Io  ero in uno strano stato d'animo;  si capisce,  prima ancora di
    essere a metà del pranzo mi ero già posto  la  solita  domanda  di
    tutti  i  giorni: "Perché continuo a frequentare questo generale e
    non l'ho piantato da un pezzo?" Di tanto in tanto guardavo  Polina
    Aleksàndrovna,  ma  lei  non badava assolutamente a me.  Finii con
    l'irritarmi e decisi di diventare insolente.
    E cominciai così che a un tratto,  senza  nessun  motivo  e  senza
    essere  interpellato,  mi  intromisi  nella  conversazione altrui.
    Avevo voglia,  soprattutto,  di attaccarmi con il  francesino.  Mi
    rivolsi  al  generale  e  di colpo,  a voce alta e mi sembra anche
    interrompendolo,  osservai che quell'estate  era  diventato  quasi
    impossibile per i russi mangiare alle "tables d'hôte". Il generale
    mi gettò uno sguardo stupito.
    "Se siete uno che appena si rispetti" continuai,  "immancabilmente
    vi sentirete insultare  e  dovrete  sopportare  le  più  umilianti
    mortificazioni. A Parigi, sul Reno, e persino in Svizzera, ci sono
    alle  "tables  d'hôte"  tanti  di quei polaccuzzi e francesini che
    simpatizzano tra loro che non è  possibile  dire  una  parola,  se
    siete russo."
    Dissi questo in francese. Il generale mi guardò, incerto se andare
    in  collera  o  solo meravigliarsi che io mi fossi lasciato andare
    fino a quel punto.
    "Vuol dire allora che da qualche parte qualcuno  vi  ha  dato  una
    lezione" disse il francesino, con incurante disprezzo.
    "Io,  a  Parigi,  prima  ho  attaccato  lite  con un polacco," gli
    risposi,  "poi con un ufficiale francese che aveva preso le  parti
    del polacco. Ma poi una parte dei francesi cominciò a spalleggiare
    me  quando  raccontai  loro  che  volevo  sputare  nel caffè di un
    monsignore."
    "Sputare?"  chiese  il  generale  con  espressione   incredula   e
    guardandosi in giro. Il francesino, mi fissava con diffidenza.
    "Proprio  così"  risposi.  "Poiché per due giorni fui convinto che
    avrei dovuto fare un salto a Roma per le nostre faccende, mi recai
    negli uffici dell'ambasciata del Santo  Padre  a  Parigi  per  far
    vistare  il  mio  passaporto.  Là  mi  ricevette  un  abatino  sui
    cinquant'anni,  secco e dalla fisionomia gelida che,  dopo  avermi
    ascoltato con cortesia ma con straordinaria freddezza, mi pregò di
    aspettare.  Nonostante  avessi fretta,  naturalmente mi sedetti ad
    aspettare, tirai fuori l'"Opinion Nationale" e cominciai a leggere
    alcune tremende invettive contro la Russia.  Intanto  avevo  udito
    che  qualcuno,  dalla stanza vicina,  era entrato dal monsignore e
    vidi il mio abate inchinarsi. Mi rivolsi a lui con la preghiera di
    prima: in  tono  ancora  più  asciutto,  mi  pregò  nuovamente  di
    attendere.  Dopo  un po' entrò un altro sconosciuto ma per affari,
    un austriaco;  gli diedero subito ascolto e lo  accompagnarono  di
    sopra.  Allora  cominciai  a  irritarmi,  mi  alzai  mi  avvicinai
    all'abate e gli dissi in tono deciso che,  visto che il monsignore
    riceveva, poteva sbrigare anche me. D'improvviso l'abate si spostò
    in  preda  a un insolito stupore.  Non poteva assolutamente capire
    come mai un russo qualunque  avesse  l'ardire  di  paragonarsi  ai
    visitatori di monsignore.  Con tono insolente, come se provasse un
    vero piacere nel potermi offendere,  mi  squadrò  dalla  testa  ai
    piedi,  esclamando:  "Possibile  che  voi  pensiate che monsignore
    lasci il suo caffè per voi?" Allora presi a gridare, ma ancora più
    forte di lui: "Sappiate che nel caffè del vostro monsignore io  ci
    sputo! Se non la fate immediatamente finita con il mio passaporto,
    andrò io stesso da lui..."
    "Come!  proprio  mentre  c'è da lui un cardinale!" urlò l'abatino,
    allontandosi da me con orrore:  poi  si  precipitò  alla  porta  e
    incrociò  le braccia facendo vedere che sarebbe morto piuttosto di
    lasciarmi passare.  Allora gli risposi che io ero un eretico e  un
    barbaro,  "que je suis herétique et barbare",  e che di tutti quei
    vescovi, arcivescovi, cardinali, monsignori eccetera eccetera,  me
    ne infischiavo altamente.  In una parola,  gli feci capire che non
    avrei  ceduto.   L'abate  mi  lanciò  un'occhiata  piena  di  odio
    sconfinato,  mi strappò di mano il passaporto e lo portò di sopra.
    Dopo un minuto era già vistato. Eccolo, signori, volete vederlo?"
    Tirai fuori di tasca il passaporto e mostrai il visto di Roma.
    "Voi però..." cominciò il generale...
    "Vi ha salvato il fatto che vi siete dichiarato eretico e barbaro"
    osservò ridendo il francesino. "Cela n'était pas si bête!" (2)
    "Così dunque si devono trattare i nostri russi?  Loro se ne stanno
    qui  tranquilli,  non  osano  nemmeno  fiatare e sono magari anche
    pronti a negare di essere russi.  Per lo meno,  a Parigi,  nel mio
    albergo,  avevano cominciato a trattarmi con molto più riguardo da
    quando avevo raccontato a tutti la mia lite con l'abate. Un grosso
    "pan" (3) polacco,  il più ostile verso di me alla "table d'hôte",
    era passato in seconda linea.  I francesi sopportarono addirittura
    che io raccontassi di aver visto due anni prima un uomo contro  il
    quale  un cacciatore francese aveva sparato nel '12,  soltanto per
    scaricare il fucile.  Quell'uomo era allora un ragazzino  di  soli
    dieci anni e la sua famiglia non aveva fatto in tempo a fuggire da
    Mosca."
    "Questo  non  è  possibile!" esclamò infuriato il francesino.  "Un
    soldato francese non spara contro un ragazzo!"
    "Però la cosa è successa" ribattei  io.  "Me  l'ha  raccontata  un
    rispettabile  capitano  a  riposo,  e io stesso ho visto sulla sua
    guancia la cicatrice lasciata dal proiettile."
    Il francesino si mise a parlare in fretta e senza  più  smetterla.
    Il generale stava già per spalleggiarlo,  ma io gli raccomandai di
    leggere,  per esempio,  qualche brano dalle "Memorie" del generale
    Perovskij, che nel '12 era stato prigioniero dei francesi. Infine,
    Màrja  Filìppovna  si  mise  a  parlare di non so più che cosa per
    cambiare discorso.  Il generale era molto scontento di me,  perché
    io  e  il  francese  avevamo già iniziato ad alzare la voce.  Ma a
    mister  Astley  mi  sembrò  che  fosse  molto  piaciuta   la   mia
    discussione con il francese;  alzandosi da tavola mi invitò a bere
    un bicchiere di vino. La sera mi riuscì, com'era da aspettarsi, di
    poter parlare per un quarto d'ora  con  Polina  Aleksàndrovna.  La
    nostra  conversazione avvenne durante la passeggiata.  Tutti erano
    andati nel parco,  verso il Casinò.  Polina si era seduta  su  una
    panchina,  di  fronte  alla fontana,  e aveva lasciato che Nàdenka
    andasse a giocare non lontano con  altri  bambini.  Anch'io  avevo
    lasciato  andare  Misha  alla  fontana e cosi rimanemmo finalmente
    soli.
    Si  capisce  che  iniziammo  a  parlare  di  affari.  Polina  andò
    addirittura  in  collera  quando  le consegnai in tutto settecento
    "gulden". Era sicura che gliene avrei portati da Parigi,  in pegno
    dei suoi brillanti, almeno duemila e anche di più.
    "Ho  bisogno  di  denaro,  a  ogni  costo"  mi  disse,  "e occorre
    trovarlo. Se no, sono perduta."
    Cominciai a interrogarla su quello che era successo durante la mia
    assenza.
    "Nient'altro che  questo:  abbiamo  ricevuto  da  Pietroburgo  due
    notizie,  la  prima  che  la  nonna  stava molto male e,  dopo due
    giorni,  che sembrava fosse già  morta.  Queste  notizie  ci  sono
    arrivate da Timoféj Petrovitch" aggiunse Polina,  "e lui è un uomo
    molto preciso. Aspettiamo ora la notizia definitiva."
    "Così, qui, sono tutti in attesa?" chiesi.
    "Naturalmente,  tutto e tutti;  da sei mesi  sperano  soltanto  in
    questo."
    "Anche voi ci sperate?" domandai.
    "Ma  il  fatto  è che io non le sono affatto parente,  poiché sono
    solo la figliastra  del  generale.  Ma  so  con  certezza  che  si
    ricorderà di me nel testamento."
    "Credo che anche a voi toccherà moltissimo" risposi confermando.
    "Si, mi voleva bene; ma perché voi lo credete?"
    "Ditemi,"  le risposi con un'altra domanda,  "il nostro marchese è
    anche lui dentro a tutti i segreti di famiglia?"
    "Ma voi perché ve ne interessate?" chiese Polina,  lanciandomi uno
    sguardo duro e severo.
    "Sfido io!  Se non mi sbaglio,  il generale è già riuscito a farsi
    prestar denaro da lui."
    "L'avete indovinata!"
    "Credete che gli avrebbe dato del denaro,  se  non  avesse  saputo
    della nonna?  Avete notato che lui,  a tavola,  per ben tre volte,
    parlando della nonna l'ha chiamata  'babùlenka,'  la  'baboulinka'
    (4)? Che razza di rapporti confidenziali e amichevoli!"
    "Sì,  avete ragione. Non appena saprà che mi toccherà qualcosa per
    testamento,  subito chiederà la mia mano.  Era questo che volevate
    sapere?"
    "Solo  adesso chiederà la vostra mano?  Credevo che l'avesse fatto
    da un pezzo..."
    "Sapete benissimo che non è  così!"  esclamò  con  rabbia  Polina.
    "Dove  avete incontrato questo inglese?" aggiunse,  dopo un minuto
    di silenzio.
    "Ero certo che ora avreste chiesto di lui."
    E le raccontai dei miei precedenti incontri con mister Astley.
    "E'  timido  e  si  accende  facilmente:  naturalmente,  sarà  già
    innamorato di voi!"
    "Sì, è innamorato di me" rispose Polina.
    "Ed  è,  senza dubbio,  dieci volte più ricco del francese.  Ma il
    francese possiede poi veramente qualche cosa? Non c'è alcun dubbio
    al riguardo?"
    "Non c'è alcun dubbio.  Possiede non so  quale  'château'.  Ancora
    ieri  il  generale  ne  parlava  con  sicurezza.   Ebbene,   siete
    soddisfatto?"
    "Io, al vostro posto, sposerei senz'altro l'inglese."
    "Perché?" chiese Polina.
    "Il francese è più bello, ma più vile;  l'inglese è,  soprattutto,
    onesto, e poi dieci volte più ricco" risposi seccamente.
    "Si, però il francese è marchese e è più intelligente" ribatté lei
    con la massima calma.
    "Ma è proprio vero?" continuai, con il tono di prima.
    "Verissimo!"
    A Polina le mie domande dispiacevano tremendamente, e mi accorgevo
    che  voleva  farmi  irritare  con il tono e la stranezza delle sue
    risposte; e glielo dissi subito.
    "Sapete,  mi diverte proprio vedere come vi infuriate.  Non  fosse
    altro  che  per  il  fatto  che  vi  permetto di rivolgermi simili
    domande e di fare simili congetture, dovete pagarmela."
    "Mi ritengo in pieno  diritto  di  farvi  qualsiasi  domanda,"  le
    risposi  con  tutta  calma,  "precisamente  perché  sono  pronto a
    pagarle come volete,  e la mia vita adesso non  la  stimo  proprio
    niente."
    Polina scoppiò a ridere.
    "L'ultima volta,  sullo Schlangenberg,  mi avete detto che eravate
    pronto,  alla mia prima parola,  a buttarvi giù a capofitto  e  mi
    sembra che là ci sia un salto di circa mille piedi.  Un bel giorno
    pronuncierò questa parola solo per vedere come pagherete,  e siate
    pur  certo  che  non  cambierò  idea.  Voi mi siete odioso proprio
    perché vi ho concesso tante libertà e ancora più odioso perché  mi
    siete necessario.  Ma, fino a che mi siete necessario, bisogna che
    vi tenga da conto."
    Fece per alzarsi.  Parlava con voce irritata.  Negli ultimi  tempi
    concludeva  sempre i suoi colloqui con me con irritazione e astio,
    sì, con vero astio!
    "Mi  permettete  di  chiedervi  che  cos'è   questa   mademoiselle
    Blanche?"  chiesi,  non  volendo  lasciarla  andare  via senza una
    spiegazione.
    "Lo sapete benissimo che cos'è  mademoiselle  Blanche.  Niente  di
    nuovo  si  è  aggiunto  da allora.  Mademoiselle Blanche diventerà
    senza dubbio generalessa,  naturalmente se  le  voci  sulla  morte
    della nonna verranno confermate,  poiché mademoiselle Blanche, sua
    madre e il marchese, 'cousin' di terzo grado,  sanno benissimo che
    noi siamo rovinati."
    "E il generale è proprio innamorato?"
    "Ma ora non si tratta di questo. Ascoltate e tenete bene in mente:
    prendete  questi settecento fiorini,  andate a giocare,  e vincete
    alla roulette quanto più potete;  ho bisogno  di  denaro,  a  ogni
    costo."
    Detto questo,  chiamò Nàdenka e andò verso il Casinò dove si riunì
    a tutta la nostra compagnia.  Io girai a  sinistra  per  il  primo
    sentiero   che   mi   capitò,   soprappensiero   e   meravigliato.
    Quell'ordine di andare alla roulette mi aveva fatto  l'effetto  di
    un pugno in testa. Cosa strana: avevo di che riflettere e, invece,
    mi  sprofondai  nell'analisi  dei  miei sentimenti per Polina.  In
    verità in quelle due settimane di assenza mi ero sentito meglio di
    adesso, giorno del mio ritorno,  anche se durante il viaggio avevo
    sofferto di una tremenda nostalgia di lei,  mi ero agitato come un
    ossesso e persino in sogno l'avevo continuamente davanti a me. Una
    volta (successe in Svizzera),  addormentatomi  in  treno,  mi  ero
    messo,  sembra,  a parlare ad alta voce con Polina, facendo ridere
    tutti i miei compagni di viaggio. E ancora una volta,  adesso,  mi
    chiesi se la amavo. E ancora una volta non seppi rispondere, cioè,
    per meglio dire, per la centesima volta risposi a me stesso che la
    odiavo. Sì, lei mi era odiosa. C'erano dei momenti (e precisamente
    ogni volta che concludevamo i nostri colloqui) che avrei dato metà
    della mia vita per strozzarla.  Giuro che se fosse stato possibile
    affondare lentamente nel suo petto un  acuminato  coltello,  credo
    che lo avrei afferrato con gioia.  E nello stesso tempo giuro,  su
    tutto quanto ho di più sacro, che se sullo Schlangenberg, la vetta
    di moda,  lei mi avesse  detto:  "Buttatevi  giù!"  l'avrei  fatto
    immediatamente  e  persino  con voluttà.  Lo sapevo.  In un modo o
    nell'altro, la cosa doveva decidersi.  Tutto questo lei lo capisce
    perfettamente,  e  il  pensiero che io sia convinto sinceramente e
    profondamente della sua inaccessibilità per me, dell'impossibilità
    di realizzare le mie fantasie, questo pensiero, sono convinto,  le
    procura  un  godimento  straordinario;   in  caso  contrario  come
    potrebbe lei,  tanto intelligente e prudente,  essere  con  me  in
    rapporti  così  sinceri e familiari?  Mi sembra che fino ad ora mi
    abbia considerato come quell'antica imperatrice che  si  spogliava
    davanti al suo schiavo,  non ritenendolo un uomo.  Sì, molte volte
    non mi ha considerato un uomo...
    Comunque avevo avuto da lei un incarico: vincere alla  roulette  a
    qualunque  costo.  Non  avevo  tempo  di  pensare:  perché bisogna
    vincere con tanta urgenza e  quali  nuove  considerazioni  saranno
    nate  in  quel  cervello eternamente in azione per i suoi calcoli?
    Oltre a questo era evidente che in quelle  due  settimane  si  era
    accumulato  un  sacco  di  fatti  nuovi dei quali non avevo ancora
    idea. Bisognava indovinare tutto, vedere bene in fondo a ogni cosa
    e il più presto possibile.  Ma per il  momento  non  avevo  tempo:
    dovevo vincere alla roulette.


    NOTE.
    1)  Precettore,  in  russo.  La  grafia vuole rendere la pronuncia
    francese.
    2) "Non è stata una cattiva idea!"
    3) Signore, in polacco.
    4)  Nonnina.   Deformazione  grafica  per  rendere  la   pronunzia
    francese.

















    2.

    Confesso  che  la  cosa mi riusciva spiacevole;  nonostante avessi
    ormai deciso di giocare,  non volevo assolutamente farlo  per  gli
    altri.  La cosa,  anzi,  mi sconcertava non poco,  ed entrai nelle
    sale da giuoco con una  sensazione  molto  fastidiosa.  Fin  dalla
    prima occhiata, niente là dentro mi piacque. Non posso soffrire la
    servilità  dei  "feuilletons"  dei  giornali di tutto il mondo,  e
    soprattutto quella dei nostri giornali russi, nei quali quasi ogni
    primavera gli articolisti trattano due argomenti: innanzi tutto la
    straordinaria grandiosità e lo sfarzo delle sale da  giuoco  delle
    città  sul Reno dove c'è la roulette,  e in secondo luogo i mucchi
    d'oro che, a sentire loro,  giacerebbero sui tavoli.  E sì che non
    sono  pagati  per  questo:  scrivono  queste  cose  così,  con una
    disinteressata compiacenza.  Nessuna grandiosità e nessuno  sfarzo
    in queste sudicie sale;  e,  quanto all'oro,  non solo non giace a
    mucchi sui tavoli,  ma  è  tanto  se  lo  si  vede  qualche  volta
    comparire.  Naturalmente può accadere nel corso della stagione che
    capiti qualche tipo originale, o un inglese o un qualche asiatico,
    un turco,  come  quest'estate,  che  di  colpo  perda  o  guadagni
    moltissimo;   gli   altri   giocatori  puntano  piccole  somme  e,
    mediamente, sui tavoli si trova sempre poco denaro.
    Appena entrai nella sala da giuoco (era la prima volta  nella  mia
    vita)  rimasi ancora un po' di tempo senza decidermi a giocare.  E
    per di più la folla mi spingeva.  Ma anche se  fossi  stato  solo,
    anche  allora,  penso,  me  ne  sarei  andato  subito  e non avrei
    cominciato a giocare. Confesso che il cuore mi batteva forte e che
    avevo perso tutto il mio sangue freddo; sapevo con certezza,  e da
    molto tempo lo avevo deciso,  che da Roulettenburg non me ne sarei
    andato così,  semplicemente;  nel mio destino sarebbe sopravvenuto
    qualcosa  di  radicale  e  di definitivo.  Così deve essere e così
    sarà.  Per quanto sia ridicolo  che  io  mi  aspetti  tanto  dalla
    roulette,   mi  sembra  ancora  più  ridicola  l'opinione  comune,
    accettata da tutti,  che è assurdo e stupido  aspettarsi  qualcosa
    dal  gioco.  Perché il gioco dovrebbe essere peggiore di qualsiasi
    altro mezzo per far quattrini come,  per esempio,  del  commercio?
    Vero è che, su cento, uno solo vince, ma a me che importa?
    Comunque decisi, per prima cosa, di osservare tutto attentamente e
    di non cominciare,  per quella sera, niente di serio. Quella sera,
    se doveva succedere qualcosa,  sarebbe successa  come  imprevisto,
    per caso;  così avevo deciso. Inoltre era necessario che imparassi
    il gioco poiché,  nonostante le mille descrizioni  della  roulette
    che  io  avevo sempre letto con avido interesse,  non avevo capito
    assolutamente niente del suo meccanismo fino a che non avevo visto
    io stesso.
    Innanzi tutto, ogni cosa mi sembrò così lurida,  moralmente brutta
    e  lurida!  E  non  parlo  di  quelle facce avide e inquiete che a
    decine, anzi a centinaia,  affollano i tavoli da giuoco.  Non vedo
    proprio  niente  di  sudicio  in  quel desiderio di guadagnare più
    presto e di più;  e ho sempre ritenuto sciocco il pensiero  di  un
    moralista  sazio  e ben provvisto che,  alla giustificazione di un
    tale che "si fanno solo piccole puntate"  rispose:  "Tanto  peggio
    perché  il guadagno è misero".  Come se guadagno misero e guadagno
    consistente non fossero la  stessa  cosa.  E'  solo  questione  di
    proporzione.  Quello che per Rotschild è una miseria, per me è una
    ricchezza; e, in quanto al fatto del guadagno e della vincita, gli
    uomini non solo alla roulette, ma dappertutto e sempre,  non fanno
    che  strapparsi  o  vincersi  l'un l'altro qualche cosa.  Che,  in
    generale, lucro e guadagno siano sporchi, è un'altra faccenda,  ma
    non  è  qui  il  caso  di risolverla.  Dal momento che anch'io ero
    dominato al massimo dal desiderio di vincere, così quell'interesse
    e quell'interessata bruttura, mi erano, se volete,  entrando nella
    sala,  in  certo  qual modo più familiari e più vicini.  Una delle
    cose più simpatiche è  quando  due  persone  non  fanno  tra  loro
    complimenti,  ma  agiscono  in  tutta franchezza e con il cuore in
    mano. E perché, allora, ingannare se stessi?  E' l'occupazione più
    insulsa e più imprudente che ci sia!  Particolarmente odiosa,  fin
    dal  primo  sguardo,   in  tutta  quell'accozzaglia  di  gente  da
    roulette,  era  quell'aria di rispetto per la propria occupazione,
    quella serietà e direi  quasi  riverenza  con  cui  tutti  stavano
    intorno ai tavoli. Ecco perché qui si fa una netta distinzione tra
    il  gioco  detto  di  "mauvais genre" e quello permesso alla gente
    come si deve.  Esistono due giuochi: uno da gentiluomo  e  l'altro
    plebeo,   interessato,   il  giuoco,  insomma,  che  fa  qualsiasi
    canaglia.  Qui la distinzione è molto rigida,  ma com'è  vile,  in
    fondo, questa distinzione! Il gentiluomo, per esempio, può puntare
    cinque  o  dieci  luigi,  raramente di più;  del resto,  può anche
    puntare un migliaio di franchi, se è molto ricco, ma, in sostanza,
    per il gioco  in  se  stesso,  solo  per  divertimento,  solo  per
    osservare il meccanismo della vincita o della perdita; ma non deve
    affatto  interessarsi  alla  vincita  in  sé.  Se  vince può,  per
    esempio,  ridere forte,  può fare a qualcuno  di  quelli  che  gli
    stanno  intorno  una  sua osservazione,  può persino fare un'altra
    puntata e raddoppiare  ancora,  ma  soltanto  per  curiosità,  per
    osservare le "chances",  per fare dei calcoli e mai per il volgare
    desiderio di vincere. In una parola,  tutti quei tavoli da giuoco,
    le  roulettes  e  il "trente et quarante",  deve considerarli solo
    come un passatempo, organizzato esclusivamente per il suo diletto.
    Il profitto e il trucco sui  quali  è  fondato  e  organizzato  il
    banco,  egli  non deve neanche sospettarli.  E sarebbe addirittura
    assai bello,  per esempio,  che gli sembrasse che tutti gli  altri
    giocatori,  tutta  quella  gentucola  che  trema  per un "gulden",
    fossero dei ricconi e dei gentiluomini suoi pari e che  giocassero
    unicamente  per distrazione e per passatempo.  Una simile assoluta
    ignoranza della realtà e quell'ingenuo  modo  di  considerare  gli
    uomini  sarebbero certo estremamente aristocratici.  Ho visto come
    molte mammine spingevano avanti innocenti e raffinate "misses"  di
    quindici o sedici anni, loro figliole, e come, fornitele di alcune
    monete d'oro, insegnavano loro come giocare. La signorina, sia che
    vincesse,   sia  che  perdesse,  immancabilmente  sorrideva  e  si
    allontanava molto soddisfatta. Il nostro generale si era accostato
    al tavolo  con  aria  grave  e  dignitosa;  un  servitore  si  era
    precipitato  a porgergli una sedia,  ma egli non gli aveva badato;
    con  grande  lentezza  estrasse  il  borsellino,  con  altrettanta
    lentezza ne tirò fuori trecento franchi d'oro, li puntò sul nero e
    vinse. Non ritirò la vincita e la lasciò sul tavolo. Usci di nuovo
    il nero; anche questa volta non prese il denaro e, quando la terza
    volta  venne  fuori  il rosso,  aveva perso di colpo milleduecento
    franchi.  Si allontanò con un sorriso,  senza perdere niente della
    sua dignità.  Sono convinto che si sentiva il cuore stretto e che,
    se la posta fosse stata due o tre volte più  grossa,  non  avrebbe
    saputo restare indifferente e si sarebbe palesata la sua emozione.
    Del  resto,  in mia presenza,  un francese guadagnò e poi perdette
    una  trentina  di  migliaia  di  franchi  allegramente   e   senza
    dimostrare  nessun  turbamento.   Il  vero  gentiluomo,  anche  se
    perdesse tutte le sue sostanze, non deve agitarsi. I denari devono
    essere a tal punto più in basso della sua qualità di gentiluomo da
    non mettere in conto che egli se ne dia pensiero.  E' naturale che
    sarebbe  molto aristocratico non notare affatto tutto il sudiciume
    di quella marmaglia e di quell'ambiente. A volte, però, non è meno
    aristocratico il  procedimento  inverso,  di  osservare,  cioè  di
    guardare  e  anzi  di  scrutare  a  fondo,   sia  pure  attraverso
    l'occhialino,  tutta quella marmaglia;  ma  soltanto  considerando
    quella  folla e quel sudiciume come uno svago di tipo particolare,
    come  uno  spettacolo  organizzato   per   il   divertimento   dei
    gentiluomini.  Potete  anche  voi farvi pressare in mezzo a questa
    folla,  ma guardarvi intorno con l'assoluta convinzione di  essere
    semplicemente un osservatore e di non appartenervi per niente. Del
    resto,  osservare con troppa insistenza,  non è molto conveniente:
    neppure  questo  è  da  gentiluomo,  perché,  in  ogni  caso,   lo
    spettacolo non merita una grande e troppo intensa osservazione. E,
    in   genere,   sono  pochi  gli  spettacoli  degni  di  un'attenta
    osservazione  da  parte  di   un   gentiluomo!   Comunque   a   me
    personalmente  è  sembrato che tutto ciò meritasse un'attentissima
    osservazione,  specialmente  per  chi  sia  venuto  non  solo  per
    osservare,  ma  sinceramente  e  coscienziosamente si annoveri tra
    quella  canaglia.   Per  quanto  si  riferisce  alle  mie   intime
    convinzioni morali,  esse naturalmente non trovano posto nelle mie
    attuali considerazioni.  Sia pure così: lo dico per  liberarmi  di
    coscienza. Ma una cosa voglio notare: che, in questi ultimi tempi,
    mi  è  sembrato  terribilmente odioso rapportare le mie azioni e i
    miei  pensieri  a  un  qualsiasi  metro  morale...  Ben  altro  mi
    dominava...
    La  gentaglia  gioca  veramente in maniera assai sporca.  Non sono
    nemmeno molto alieno dal  pensare  che  qui  al  tavolo  da  gioco
    accadano molte delle più comuni ruberie. I "croupiers" che, seduti
    alle  estremità  del  tavolo,  controllano  le puntate e pagano le
    vincite,  hanno un lavoro tremendo.  Ma che razza di canaglie sono
    pure loro!  Per la maggior parte sono francesi.  Del resto, io qui
    osservo e noto non certo per  descrivere  la  roulette;  cerco  di
    ambientarmi  per me stesso,  per sapere come regolarmi nel futuro.
    Ho osservato, per esempio, che non c'è niente di più comune di una
    mano ignota che si allunghi improvvisamente da dietro il tavolo  e
    vi  prenda  ciò  che  avete guadagnato.  Comincia una discussione,
    spesso si alza la voce  ma  vedete  un  po'  se  siete  capace  di
    dimostrare, trovando dei testimoni, che la puntata è vostra!
    All'inizio tutto questo era per me arabo; indovinavo e distinguevo
    solo,  alla  bell'e  meglio,  che  le  puntate  venivano messe sui
    numeri, sul pari o sul dispari, e sui colori. Del denaro di Polina
    Aleksàndrovna decisi di rischiare, per quella sera, soltanto cento
    "gulden".  Il pensiero che mi preparavo a giocare non  per  me  mi
    sconcertava. La sensazione era incredibilmente sgradevole e provai
    il desiderio di liberarmene al più presto. Mi sembrava sempre che,
    cominciando  a  giocare  per  Polina,  avrei  compromesso  la  mia
    personale buona sorte.  E possibile che non ci si possa avvicinare
    a  un  tavolo  da  giuoco  senza  essere  subito  contagiato dalla
    superstizione? Cominciai con il tirare fuori cinque federici d'oro
    (1), cioè cinquanta "gulden" e li puntai sul pari. La ruota girò e
    venne fuori il tredici: avevo perduto!  Con una certa qual morbosa
    sensazione, solamente per liberarmene in qualche modo e andarmene,
    puntai  ancora  cinque  federici sul rosso: usci il rosso.  Puntai
    nuovamente il tutto: usci  ancora  il  rosso.  Ricevetti  quaranta
    federici,  ne  puntai  venti  sui  dodici numeri di centro,  senza
    sapere che cosa ne sarebbe venuto fuori.  Mi fu pagato il  triplo.
    Cosi   i  miei  dieci  federici  erano  diventati  improvvisamente
    ottanta.  Mi sentii così a disagio,  per una sensazione insolita e
    strana,  che decisi di andarmene.  Mi sembrò che non avrei affatto
    giocato così se avessi giocato per me.  Tuttavia puntai ancora una
    volta  sul  pari tutti gli ottanta federici e usci il quattro;  mi
    sborsarono altri ottanta federici;  e,  afferrato tutto il mucchio
    dei centosessanta federici, andai a cercare Polina Aleksàndrovna.
    Stavano  tutti  passeggiando non so in quale parte del parco e non
    riuscii a vederla che a cena.  Questa volta il francese non c'era,
    e  il  generale  si  sfogò  a  parlare  e,  tra l'altro,  credette
    necessario  osservarmi  nuovamente  che  non  avrebbe   desiderato
    vedermi  al  tavolo  da  giuoco.  Secondo la sua opinione lo avrei
    compromesso molto se avessi perso una somma forte.
    "Ma anche se vinceste moltissimo,  sarei  ugualmente  compromesso"
    aggiunse  in  tono  significativo.  "Certo  non  ho  il diritto di
    disporre delle vostre azioni, ma converrete voi stesso..."
    A questo punto, secondo la sua abitudine, non finì il discorso.
    Gli risposi in tono asciutto che avevo pochissimo denaro e che, di
    conseguenza, non potevo perdere in modo troppo appariscente, anche
    se mi fossi messo a giocare.  Mentre salivo  di  sopra  riuscii  a
    consegnare  a  Polina  la  sua vincita e le dichiarai che un'altra
    volta non avrei più giocato per lei.
    "E perché?" chiese lei in tono preoccupato.
    "Perché voglio giocare per me" risposi,  guardandola con  stupore.
    "E così non posso."
    "Siete  dunque  sempre  fermamente convinto che la roulette sia la
    vostra unica via d'uscita  e  di  salvezza?"  mi  chiese  in  tono
    ironico.  Le risposi di nuovo di sì,  con molta serietà;  le dissi
    che per quanto riguardava la mia sicurezza di vincere senza fallo,
    la cosa  poteva  sembrare  ridicola,  d'accordo,  ma  che  "mi  si
    lasciasse in pace."
    Polina  Aleksàndrovna insisteva perché dividessi a metà con lei la
    vincita  della  giornata  e   voleva   darmi   ottanta   federici,
    proponendomi di continuare a giocare a quel patto.  Ma io rifiutai
    la metà offertami in modo fermo e definitivo e dichiarai  che  non
    potevo  giocare  per  gli  altri non perché non volessi farlo,  ma
    perché avrei senza dubbio perduto.
    "E tuttavia io stessa,  per quanto sciocco  sia  questo  pensiero,
    spero ormai quasi soltanto nella roulette" mi disse pensierosa, "e
    perciò  voi  dovete assolutamente continuare a giocare,  facendo a
    metà con me e, si capisce, lo farete."
    E a questo punto se ne  andò  senza  ascoltare  le  mie  ulteriori
    obiezioni.



    NOTE.
    1) Moneta tedesca, del valore di circa dieci gulden.




















    3.

    Tuttavia ieri, per l'intera giornata, non mi disse una sola parola
    che si riferisse al giuoco.  In generale, anzi, evitò di parlarmi.
    Il suo modo di fare con me non  è  cambiato.  La  stessa  assoluta
    noncuranza nel trattarmi quando ci incontriamo, e perfino qualcosa
    di sprezzante e di astioso. In genere, lei non cerca di nascondere
    la  sua  avversione per me;  lo vedo benissimo.  Però non nasconde
    nemmeno che io le sono necessario e che,  per qualche suo  motivo,
    mi  tiene  buono.  Tra  di  noi  si  sono  stabiliti  certi strani
    rapporti, sotto molti punti di vista per me incomprensibili, se si
    considera il suo orgoglio e la sua fierezza con tutti. Lei sa, per
    esempio, che io l'amo pazzamente,  mi permette perfino di parlarle
    della mia passione e,  naturalmente, in nessun altro modo potrebbe
    esprimere di più il suo  disprezzo  che  con  questo  permesso  di
    rivelarle  senza  ostacoli  e  senza  divieti  il  mio sentimento.
    "Significa" pensa lei, "che stimo tanto poco i tuoi sentimenti che
    mi è proprio indifferente qualunque cosa tu dica e  tu  senta  per
    me".
    Anche prima mi parlava molto dei suoi affari, ma non era mai stata
    completamente sincera.  Non solo, ma nella sua noncuranza verso di
    me c'erano,  per  esempio,  raffinatezze  di  questo  genere:  lei
    sapeva,  mettiamo,  che  conoscevo  una data circostanza della sua
    vita o che  sapevo  qualcosa  che  l'inquietava  grandemente;  lei
    stessa  me  ne  raccontava  persino  alcuni  particolari  se aveva
    bisogno di servirsi di me per i suoi scopi,  come uno schiavo o un
    galoppino;  ma raccontava sempre e solo quel tanto che deve sapere
    una persona che serva per commissioni e se ancora non mi era  nota
    l'intera  concatenazione  degli  avvenimenti,  pur vedendo come mi
    inquietavo  e  mi  tormentavo  per  le   sue   pene   e   le   sue
    preoccupazioni,  non  si  sarebbe comunque mai degnata di calmarmi
    pienamente con un'amichevole franchezza; anche se,  servendosi non
    di  rado  di  me  per  commissioni  non solo fastidiose ma persino
    pericolose, avrebbe dovuto, secondo il mio parere,  essere sincera
    con me. Ma vale forse la pena di preoccuparsi dei miei sentimenti,
    del  fatto  che  io mi agito e forse mi tormento e mi inquieto tre
    volte più di lei, per i suoi crucci e i suoi insuccessi?
    Già da tre settimane ero  al  corrente  della  sua  intenzione  di
    giocare alla roulette. Mi aveva persino avvertito che avrei dovuto
    farlo  al  posto  suo,  perché  per lei sarebbe stato sconveniente
    giocare.  Dal tono delle sue parole mi ero subito reso  conto  che
    doveva  avere  qualche  seria  preoccupazione  e  non  il semplice
    desiderio di vincere denaro.  Che cosa è per lei il denaro  in  se
    stesso?  Qui  c'è uno scopo,  qui ci sono circostanze che io posso
    indovinare ma che, fino a questo momento, non conosco. Si capisce,
    lo stato di sottomissione e di schiavitù in cui mi tiene  potrebbe
    darmi (e spesso me la dà) la possibilità di interrogarla io stesso
    in  modo  chiaro  e brutale.  Poiché per lei sono uno schiavo e ai
    suoi occhi niente altro che una nullità,  così non c'è motivo  che
    si  offenda  della mia volgare curiosità.  Ma il fatto è che,  pur
    permettendomi di farle delle domande,  non risponde.  Certe  volte
    non se ne accorge neppure. Ecco come stanno le cose tra di noi!
    Ieri si è parlato molto del telegramma spedito quattro giorni fa a
    Pietroburgo  e che non ha avuto risposta.  Il generale è agitato e
    preoccupato, è chiaro; si tratta, naturalmente, della nonna. Anche
    il francese è inquieto.  Ieri,  dopo  pranzo,  per  esempio,  essi
    conversarono a lungo e seriamente.  Il tono del francese con tutti
    noi è straordinariamente altero e noncurante. E' proprio giusto il
    proverbio: fallo sedere a tavola e sulla  tavola  metterà  pure  i
    piedi.  Anche  con Polina è indifferente fino alla villania;  però
    prende parte con piacere alle passeggiate comuni al Casinò, o alle
    cavalcate e alle gite fuori  città.  Da  parecchio  tempo  conosco
    alcune delle circostanze che hanno legato il francese al generale:
    in  Russia  essi  avevano  progettato  di  mettere  su insieme una
    fabbrica,  ma non so se il progetto sia andato a monte o se ancora
    se ne parli.  Inoltre sono venuto per caso a sapere,  in parte, un
    segreto di famiglia: il francese, l'anno scorso,  è davvero venuto
    in  aiuto  al  generale e gli ha dato trentamila rubli per coprire
    l'ammanco di cassa al momento  delle  sue  dimissioni.  E  così  è
    facile capire che il generale è nelle sue mani; ma adesso, proprio
    adesso,  la  parte  principale in tutta la faccenda la rappresenta
    mademoiselle Blanche,  e sono certo che anche  in  questo  non  mi
    sbaglio.  E chi è questa mademoiselle Blanche?  Qui da noi si dice
    che è una francese dell'alta società che viaggia con  la  madre  e
    che possiede una sostanza colossale. Si sa anche che è parente del
    nostro  marchese,  ma molto alla lontana,  una cugina in secondo o
    terzo grado. Si dice pure che, prima del mio viaggio a Parigi,  il
    francese   e   mademoiselle   Blanche  si  trattassero  molto  più
    cerimoniosamente e che  fossero  in  rapporti  molto  più  fini  e
    delicati;  adesso,  invece, la loro conoscenza, la loro parentela,
    l'amicizia si mostrano in una luce più cruda, più intima, per così
    dire.  Probabilmente i nostri affari sembrano loro in così cattive
    condizioni   che   non   ritengono   più  necessario  fare  troppi
    complimenti con noi e fingere.  Già dall'altro ieri  avevo  notato
    come mister Astley osservava mademoiselle Blanche e sua madre.  Mi
    è sembrato che le conoscesse;  e mi è sembrato anche che il nostro
    francese  avesse  già  prima incontrato mister Astley.  Del resto,
    mister Astley è così timido,  modesto e taciturno che di lui ci si
    può fidare: non porta certo le immondizie fuori della casa altrui.
    Per  lo meno,  il francese lo saluta appena e quasi non lo guarda:
    quindi non lo teme.  Questo ancora lo  capisco,  ma  perché  anche
    mademoiselle  Blanche  quasi non lo guarda?  Tanto più che ieri il
    marchese  si  è  tradito:  ha  detto  all'improvviso,  durante  la
    conversazione,  non  so  più a che proposito,  che mister Astley è
    enormemente ricco e che lui lo sa; appunto per questo mademoiselle
    Blanche dovrebbe guardare mister Astley. In complesso, il generale
    è in uno stato di grande inquietudine.  Si capisce quello che  ora
    può  significare  per lui il telegramma che annunci la morte della
    zia!
    Anche se mi sembra sicuro che Polina eviti di parlare con  me  per
    partito preso, io stesso ho assunto un'aria fredda e indifferente;
    pensavo sempre che un bel momento sarebbe stata lei ad avvicinarsi
    a  me.  Ieri  e  oggi,  in compenso,  ho rivolto la mia attenzione
    soprattutto a mademoiselle Blanche.  Povero generale,  è  perduto,
    senza scampo! Innamorarsi a cinquantacinque anni e di una passione
    così violenta,  è certamente una disgrazia! Aggiungete a questo la
    sua vedovanza,  i figli,  la  proprietà  interamente  rovinata,  i
    debiti  e,  infine,  la donna di cui gli è capitato d'innamorarsi.
    Mademoiselle Blanche è bella.  Ma non so se mi  si  capirà  quando
    dico  che ha uno di quei visi che possono fare paura;  io,  per lo
    meno,  ho sempre avuto paura di  donne  simili.  Deve  essere  sui
    venticinque anni. E' alta di statura, con spalle larghe e rotonde;
    il  collo e il petto sono stupendi;  la carnagione è olivastra,  i
    capelli neri come l'inchiostro  di  china  e  talmente  folti  che
    basterebbero  per  due  acconciature.  Ha  gli occhi neri,  con il
    bianco  tendente  al  giallo,   lo  sguardo  sfrontato,   i  denti
    bianchissimi,  le  labbra  sempre truccate;  emana da lei odore di
    muschio.  Veste in modo molto vistoso,  ricco,  ricercato,  ma con
    molto  buon  gusto.  Ha piedi e mani meravigliosi,  e una profonda
    voce di contralto.  A volte scoppia a ridere  mettendo  in  mostra
    tutti i denti,  ma di solito ha l'aria taciturna e insolente,  per
    lo meno in presenza di Polina e di Màrja  Filìppovna.  (Corre  una
    voce  strana:  che  Màrja Filìppovna parta per la Russia.) Mi pare
    che mademoiselle Blanche non abbia nessuna istruzione e forse  non
    sia  neppure  intelligente,  però è diffidente e furba.  Credo che
    nella sua vita non manchino le avventure.  A volerla  dire  tutta,
    può  anche  darsi che il marchese non le sia affatto parente e che
    la madre non sia affatto sua madre.  Ma si sa che a Berlino,  dove
    le abbiamo incontrate, lei e la madre avevano alcune conoscenze di
    gente  perbene.  Per  quanto  riguarda  personalmente il marchese,
    anche  se  io  dubito  ancora  che  egli  sia  marchese,   la  sua
    appartenenza alla buona società sia da noi,  a Mosca, sia qua e là
    in Germania,  sembra non si possa mettere in dubbio.  Non  so  che
    posizione  abbia  in  Francia.  Dicono  che possegga un "château"!
    Credevo che in quelle due settimane molta  acqua  sarebbe  passata
    sotto  i  ponti;  al  contrario  non so ancora con certezza se tra
    mademoiselle Blanche e il generale sia  stato  detto  qualcosa  di
    decisivo.  E'  certo  che ora tutto dipende dal nostro patrimonio,
    ossia se il generale sarà in grado  oppure  no  di  mostrare  loro
    molto denaro.  Se,  per esempio, arrivasse la notizia che la nonna
    non è morta,  sono convinto che  mademoiselle  Blanche  sparirebbe
    immediatamente.  Mi meraviglio e rido io stesso nel costatare come
    io sia diventato pettegolo! Oh, come tutto questo mi disgusta! Con
    quale soddisfazione  pianterei  tutto  e  tutti!  Ma  posso  forse
    allontanarmi da Polina,  posso forse rinunciare a starle intorno a
    spiare? Lo spionaggio certo è spregevole, ma a me che importa?
    Ieri e anche oggi mister Astley mi è  sembrato  strano.  Sì,  sono
    convinto  che  egli  è  innamorato  di Polina!  E' curioso e buffo
    pensare quante cose possa esprimere lo sguardo di un uomo timido e
    morbosamente  pudico,  preso  dall'amore,  e  questo  proprio  nel
    momento  in  cui  quest'uomo  preferirebbe sprofondare sotto terra
    piuttosto che dimostrare o esprimere qualunque cosa con la  parola
    o  lo  sguardo.  Mister  Astley  molto  spesso  ci  incontra  alle
    passeggiate. Si toglie il cappello e ci passa accanto, morendo, si
    capisce,  dal desiderio di unirsi a noi.  Ma se  lo  si  invita  a
    farlo,  subito  rifiuta.  Nei luoghi di ritrovo,  al Casinò,  dove
    suona la musica o davanti alla fontana,  si ferma  immancabilmente
    in  un punto non lontano dalla nostra panchina e,  dovunque noi ci
    troviamo, sia nel parco,  sia nel bosco,  sia sullo Schlangenberg,
    basta   soltanto   alzare   gli   occhi,   guardarsi   intorno   e
    immancabilmente da qualche parte,  o dal sentiero più vicino o  da
    dietro qualche cespuglio,  ecco apparire mister Astley.  Mi sembra
    che cerchi l'occasione di parlare con me a tu per  tu.  Stamattina
    ci  siamo incontrati e abbiamo scambiato due parole.  A volte egli
    parla a scatti.  Ancora  prima  di  aver  detto  "Buongiorno"  già
    esclamava:
    "Ah,  mademoiselle Blanche! Ho visto molte donne come mademoiselle
    Blanche!"
    Tacque,  rivolgendomi un'occhiata significativa.  Non so che  cosa
    volesse  dire perché,  alla mia domanda che cosa ciò significasse,
    fece un cenno con la testa, sorridendo furbescamente, e aggiunse:
    "Proprio così. A mademoiselle Polina piacciono molto i fiori?"
    "Non lo so, non lo so davvero" risposi.
    "Ma come!  Non sapete neanche questo?" esclamò con il  più  grande
    stupore.
    "Non lo so, non ci ho mai fatto caso" ripetei ridendo.
    "Ehm... questo mi fa nascere un'idea particolare..."
    A questo punto mi fece un cenno con la testa e passò oltre.  Aveva
    però un'aria soddisfatta. Parliamo insieme in un pessimo francese.



















    4.

    Oggi è stata una giornata buffa, scandalosa, assurda.  Ora sono le
    undici  di  notte.  Sono seduto nella mia stanzetta e ripenso alle
    cose successe.  E' cominciato  così,  che  stamattina  sono  stato
    costretto   ad   andare   alla   roulette  a  giocare  per  Polina
    Aleksàndrovna.  Presi i  suoi  centosessanta  federici  ma  a  due
    condizioni: prima, che non avrei giocato a mezzo con lei, cioè, se
    avessi vinto,  non mi sarei preso niente; seconda, che questa sera
    Polina mi avrebbe spiegato perché aveva così bisogno di vincere  e
    quanto  precisamente  le  serviva.  A ogni modo,  però,  non posso
    credere che sia soltanto per il denaro.  E' evidente che il denaro
    le è indispensabile,  e al più presto possibile, per qualche scopo
    particolare. Mi ha promesso di spiegarmelo,  e sono andato.  Nelle
    sale da giuoco c'era una folla spaventosa.  Che gente sfrontata, e
    come sono tutti avidi!  Mi intrufolai tra la folla e  mi  sistemai
    proprio  vicino al croupier;  quindi cominciai un timido inizio di
    giuoco,  puntando soltanto due o tre monete.  Intanto osservavo  e
    notavo;  mi  sembrava  che  il calcolo in se stesso servisse molto
    poco e non avesse affatto quell'importanza che molti giocatori gli
    attribuiscono.  Essi se ne stanno seduti davanti  a  foglietti  di
    carta rigata,  segnano i colpi,  contano, deducono le probabilità,
    fanno calcoli e  infine  puntano  e  perdono  come  noi,  semplici
    mortali,  che  giochiamo senza calcoli.  In compenso ho tratto una
    conclusione che mi sembra giusta: realmente, nel susseguirsi delle
    probabilità favorevoli c'è,  se non un  sistema,  un  certo  quale
    ordine,  il  che  è,  naturalmente,  molto  strano.  Succede,  per
    esempio,  che dopo i dodici numeri  di  mezzo,  escano  fuori  gli
    ultimi dodici;  per due volte, mettiamo, la pallina cade su questi
    ultimi dodici per poi passare sui primi dodici. Dopo essere caduta
    sui primi dodici, passa di nuovo sui dodici di centro,  cade tre o
    quattro  volte di seguito su questi,  e di nuovo passa agli ultimi
    dodici di dove,  dopo altri due colpi,  torna ai primi;  batte sui
    primi;  sui primi batte una volta e torna ancora per tre volte sui
    medi,  e così la faccenda prosegue per un'ora e mezzo o  due  ore.
    Uno,  tre e due;  uno,  tre e due. Divertentissimo. Certi giorni o
    certe mattine capita, per esempio,  che il rosso si alterni con il
    nero  e  viceversa,  questo  senza nessun ordine,  a ogni momento,
    cosicché più di due o tre colpi di seguito non cadono sul rosso  o
    sul nero.  Il giorno dopo o la sera dopo, esce di seguito soltanto
    il rosso;  esce,  per esempio,  più di dodici volte di fila e così
    continua  infallibilmente per un certo tempo,  magari per tutta la
    giornata.  Molte cose mi spiegò in  proposito  mister  Astley  che
    aveva  passato  tutta  la mattinata ai tavoli da giuoco,  ma senza
    fare nemmeno una puntata. Per quanto mi riguarda,  perdetti tutto,
    fino  all'ultimo centesimo,  e in pochissimo tempo.  Avevo puntato
    sul pari, tutti insieme, venti federici e vinsi; puntai di nuovo e
    di nuovo vinsi e così ancora per due o tre volte.  Penso  di  aver
    avuto  in  mano,   in  forse  cinque  minuti,  circa  quattrocento
    federici.  Sarebbe  stato  a  questo  punto  il  vero  momento  di
    andarmene,  ma era nata in me una sensazione strana, una specie di
    sfida al  destino,  un  desiderio  di  dargli  un  buffetto  e  di
    mostrargli   la   lingua.   Feci  la  più  alta  puntata  ammessa,
    quattromila gulden, e persi. Allora, eccitatomi, tirai fuori tutto
    quanto mi era rimasto,  feci un'altra puntata come quella e  persi
    di  nuovo.   A  questo  punto  mi  allontanai  dal  tavolo,   come
    istupidito.  Non  capivo  nemmeno  quello  che  mi  succedeva,   e
    annunciai  la  mia  perdita  a  Polina Aleksàndrovna soltanto poco
    prima del pranzo.  Fino a quel momento  avevo  girovagato  per  il
    parco.
    A pranzo ero di nuovo in uno stato d'animo eccitato,  proprio come
    tre giorni prima.  Il francese e mademoiselle  Blanche  pranzavano
    con  noi.  Risultò  che  mademoiselle  Blanche  si  era trovata la
    mattina nelle sale da giuoco e aveva  assistito  alle  mie  gesta.
    Questa  volta  si  mise  a  parlare  con  me  con  un  po'  più di
    attenzione,  mentre  il  francese,   più  sbrigativo,   mi  chiese
    semplicemente  se avevo perduto del denaro proprio mio.  Mi sembra
    che egli sospetti di Polina. Insomma,  qui c'è sotto qualcosa.  Io
    mentii subito e dissi che era denaro mio.
    Il  generale era oltremodo stupito: dove avevo preso tanto denaro?
    Gli spiegai che avevo cominciato con dieci  federici,  che  sei  o
    sette colpi consecutivi mi avevano portato, raddoppiando sempre, a
    cinque  o  seimila  gulden  e  che  poi in due colpi avevo perduto
    tutto.
    Tutto questo,  naturalmente,  era verosimile.  Mentre davo  queste
    spiegazioni,  guardai Polina, ma niente potei capire dal suo viso.
    Tuttavia mi aveva lasciato mentire e  non  mi  aveva  ripreso;  da
    questo dedussi che dovevo proprio mentire e nascondere che giocavo
    per  lei.  In  ogni  caso,  mi  dicevo,  è in obbligo di darmi una
    spiegazione e prima mi ha promesso di rivelarmi qualche cosa.
    Credevo che il generale mi avrebbe fatto qualche osservazione,  ma
    rimase  zitto;  però  notai  sul suo viso segni di agitazione e di
    inquietudine. Può darsi che,  data la sua situazione critica,  gli
    fosse  semplicemente  penoso  sentire  che  un  così  rispettabile
    mucchietto d'oro fosse capitato e sfuggito in un quarto d'ora a un
    imbecille come me.
    Sospetto che ieri sera tra lui  e  il  francese  sia  avvenuto  un
    colloquio molto animato.  Essi hanno parlato a lungo e con foga di
    non so che cosa,  dopo aver chiuso a chiave la porta.  Il francese
    se  ne  andò con aria irritata,  e stamattina presto è tornato dal
    generale per continuare il colloquio di ieri.
    Dopo aver sentito della mia perdita, il francese, in tono caustico
    e persino astioso,  mi fece osservare  che  bisognava  essere  più
    giudiziosi.  Non  so  perché abbia soggiunto che,  sebbene i russi
    giochino molto,  tuttavia,  secondo la  sua  opinione,  non  sanno
    neanche giocare.
    "Invece,  secondo  me,  la  roulette è fatta soltanto per i russi"
    ribattei io e, quando il francese sorrise sprezzantemente a questo
    mio giudizio, gli feci osservare che la verità era certo dalla mia
    parte poiché,  parlando dei russi come di giocatori,  li criticavo
    molto più di quanto non li lodassi e che,  per conseguenza,  mi si
    poteva credere.
    "Su che cosa basate la vostra opinione?" mi chiese il francese.
    "Sul fatto che  nel  catechismo  delle  virtù  e  dei  meriti  del
    civilissimo uomo occidentale è entrata storicamente, e quasi sotto
    l'aspetto di caposaldo, la capacità di procurarsi capitali. Invece
    il  russo non solo non è capace di procurarsi dei capitali,  ma li
    sperpera a  casaccio,  in  maniera  scandalosa.  Nonostante  ciò,"
    aggiunsi,  "anche  a  noi  russi  il  denaro  è  necessario  e  di
    conseguenza ci piace molto e ci sentiamo portati verso quei mezzi,
    come per esempio la roulette,  che ci permettono di arricchire  di
    colpo,  in due ore, senza alcuna fatica! Questo ci attrae molto e,
    poiché  giochiamo  senza  riflettere  e   senza   faticare,   così
    perdiamo!"
    "Questo in parte è giusto!" osservò il francese, soddisfatto.
    "No,  è  ingiusto,  e  dovreste vergognarvi di esprimervi così sul
    conto della vostra patria" ribatté con aria severa e autorevole il
    generale.
    "Ma scusate" gli  risposi,  "non  so  davvero  che  cosa  sia  più
    disgustoso:  se  l'irregolatezza  dei russi o il metodo tedesco di
    accumulare denaro con un onesto lavoro."
    "Che idea assurda!" esclamò il generale.
    "Che idea russa!" esclamò il  francese.  Io  ridevo  e  avevo  una
    voglia terribile di attaccar lite.
    "Io  preferirei  trascorrere tutta la vita in una tenda kirghisa,"
    esclamai, "piuttosto che inchinarmi all'idolo tedesco."
    "Quale idolo?" gridò il generale,  incominciando a infuriarsi  sul
    serio.
    "Il metodo tedesco di ammucchiare ricchezze. Non sono qui da molto
    tempo, però quello che ho già avuto modo di vedere e di costatare,
    rivolta  il  mio  sangue tartaro.  Giuro che non voglio virtù come
    queste!  Ieri sono riuscito a fare nei dintorni un giro  di  forse
    dieci miglia.  Ebbene, è precisamente come si legge nei libriccini
    moralisti tedeschi illustrati; ovunque,  in ogni casa,  c'è il suo
    'Vater'   (1),   straordinariamente  virtuoso  ed  eccezionalmente
    onesto.  Così onesto che fa paura  avvicinarglisi.  Io  non  posso
    soffrire  gli  uomini  onesti  che fa paura avvicinare.  Ognuno di
    questi 'Vater' ha la propria famiglia,  e la sera leggono tutti ad
    alta voce dei libri istruttivi.  Sopra la casetta stormiscono olmi
    e castagni.  Il sole tramonta,  c'è la cicogna sul tetto e tutto è
    insolitamente   poetico  e  commovente...   Voi,   generale,   non
    irritatevi,  ma permettetemi di raccontare le cose in  maniera  un
    po'  patetica...  Io  stesso  mi ricordo che mio padre buon'anima,
    sotto i tigli del giardinetto, leggeva anche lui alla sera, a me e
    a mia madre,  libri di quel genere...  Posso quindi  giudicare  di
    queste  cose  con  cognizione di causa.  Ebbene,  ognuna di queste
    famiglie,  qui,  è completamente sottomessa e schiava  del  padre.
    Tutti  lavorano  come  bestie,  e  tutti  ammucchiano  denaro come
    giudei. Mettiamo che il 'Vater' abbia già messo da parte una certa
    quantità di 'gulden' e punti sul figlio maggiore per trasmettergli
    il mestiere o il  campicello;  per  questo  non  danno  dote  alla
    figlia,  e lei resta zitella.  Sempre per questo vendono il figlio
    minore come servo o lo mandano a fare  il  soldato,  e  aggiungono
    questo denaro al capitale di famiglia. Davvero, qui si fa così: mi
    sono informato.  Tutto questo si fa unicamente per onestà,  per un
    sentimento eccessivo di onestà,  al  punto  che  anche  il  figlio
    minore,  venduto,  crede  di  non  essere stato venduto se non per
    onestà;  e questo è proprio l'ideale,  quando la vittima stessa  è
    contenta di essere portata al sacrificio.  E poi?  Poi succede che
    neppure per il figlio maggiore le cose  vanno  bene:  lui  ha  una
    certa  Amalchen  alla  quale è unito con il cuore,  ma che non può
    sposare  perché  non  sono  ancora  stati   ammucchiati   'gulden'
    sufficienti. E allora pure loro aspettano onestamente e si avviano
    anch'essi al sacrificio con il sorriso sulle labbra.  E intanto le
    guance di Amalchen si sono incavate e sono avvizzite.  Finalmente,
    dopo quasi vent'anni,  il patrimonio si è accresciuto e i 'gulden'
    sono stati ammucchiati in modo leale e onesto. Il 'Vater' benedice
    l'ormai quarantenne figlio maggiore e la trentacinquenne  Amalchen
    dal seno flaccido e dal naso rosso...  E allora il 'Vater' piange,
    fa la morale e  passa  a  miglior  vita.  Il  figlio  maggiore  si
    trasforma  a  sua  volta  in  un  virtuoso 'Vater' e ricomincia la
    stessa storia.  Dopo una cinquantina o una sessantina di anni,  il
    nipote  del  primo  'Vater'  realizza  effettivamente  un notevole
    capitale  e  lo  trasmette  al  proprio  figlio,  questo  al  suo,
    quest'altro al suo e,  dopo cinque o sei generazioni,  viene fuori
    il barone Rotschild in persona oppure Hoppe e Co.  o il diavolo sa
    chi.  Ebbene, signori, non è forse uno spettacolo meraviglioso? La
    fatica  di  un  secolo  o  di  due  secoli,   di  generazione   in
    generazione:   pazienza,   ingegno,   onestà,   dirittura  morale,
    carattere,  fermezza,  calcolo,  cicogna sul tetto!  Che volete di
    più?  Niente è più sublime di questo, ed è proprio da questo punto
    di vista che costoro iniziano a giudicare  il  mondo  intero  e  a
    condannare a morte i colpevoli,  cioè quelli che appena appena non
    somigliano a loro. Ebbene, signori,  ecco dunque di che si tratta:
    io  preferisco debosciarmi alla russa o arricchirmi alla roulette.
    Non voglio essere Hoppe e Co.  tra cinque  generazioni.  A  me  il
    denaro è necessario per me stesso,  e non considero me stesso come
    un indispensabile accessorio al capitale.  So  di  aver  detto  un
    mucchio di spropositi, ma è così. Queste sono le mie convinzioni."
    "Non  so  se  ci  sia  molto  di  vero in quello che avete detto,"
    osservò pensieroso il generale, "ma so con certezza che cominciate
    a fare lo spiritoso in maniera insopportabile,  non appena  vi  si
    permette di uscire un pochino dai limiti..."
    Ma,  come  sempre,  non  completò la frase.  Se il nostro generale
    cominciava a parlare di qualche cosa  che  fosse  un  tantino  più
    serio dei soliti discorsi di ogni giorno non finiva mai di dire il
    suo pensiero.  Il francese ascoltava con noncuranza, con gli occhi
    spalancati.  Non aveva capito quasi niente di ciò che avevo detto.
    Polina  mi  guardava con suprema indifferenza.  Sembrava che,  non
    soltanto non avesse sentito me, ma neppure una parola di quanto si
    era detto a tavola.


    NOTE.
    1) Padre.















    5.

    Era insolitamente pensierosa ma,  non appena ci alzammo da tavola,
    mi  chiese di accompagnarla a fare una passeggiata.  Prendemmo con
    noi i bambini e ci avviammo nel parco, verso la fontana.
    Poiché mi trovavo in uno  stato  di  particolare  eccitazione,  le
    lanciai  in  modo  stupido e brusco la domanda: come mai il nostro
    marchese De-Grieux,  il francesino,  adesso non  soltanto  non  la
    accompagnava,  quando  lei andava da qualche parte,  ma nemmeno le
    rivolgeva la parola per giornate intere?
    "Perché è un vigliacco" mi  rispose  stranamente.  Non  avevo  mai
    sentito  da lei un simile giudizio su De-Grieux e tacqui,  temendo
    di comprendere la ragione della sua irritabilità.
    "Avete notato che oggi non va d'accordo con il generale?"
    "Voi volete sapere di che si tratta?" mi rispose in tono  asciutto
    e  seccato.  "Sapete  che  il  generale  ha tutto il suo ipotecato
    presso di lui, tutta la proprietà, e che,  se la nonna non morirà,
    il  francese entrerà immediatamente in possesso di tutto ciò che è
    sotto ipoteca."
    "Ah, è dunque proprio vero che tutto è ipotecato?  L'avevo sentito
    dire, ma non sapevo che si trattasse proprio di tutto."
    "E come no?"
    "E  allora  addio,  mademoiselle  Blanche!" osservai.  "Allora non
    diventerà generalessa!  Sapete?  Mi sembra  che  il  generale  sia
    innamorato al punto da arrivare magari a uccidersi se mademoiselle
    Blanche   lo   dovesse   piantare.   Alla  sua  età  è  pericoloso
    innamorarsi."
    "Sono anch'io del  parere  che  gli  succederà  qualcosa"  osservò
    Polina Aleksàndrovna, pensierosa.
    "Magnifico!" gridai io. "Non si potrebbe dimostrare in maniera più
    brutale  che  lei  acconsentiva  a  sposarlo  solo  per il denaro.
    Neanche le convenienze  sono  state  salvate,  tutto  fatto  senza
    cerimonie.  E' straordinario! E, a proposito della nonna, che cosa
    ci può essere di più comico e di più ripugnante che il mandare  un
    telegramma dietro l'altro per domandare se è morta o no?  Eh?  Che
    ve ne sembra, Polina Aleksàndrovna?"
    "Tutte  queste  sono   sciocchezze"   mi   disse   con   disgusto,
    interrompendomi.  "Io, invece, mi meraviglio che voi siate in così
    allegra disposizione di spirito. Perché siete cosi contento? Forse
    perché avete perduto il mio denaro?"
    "Perché me l'avete dato da perdere?  Ve lo  avevo  detto  che  non
    posso giocare per gli altri, e tanto meno per voi. Io vi obbedisco
    in  qualsiasi  cosa mi comandiate,  ma il risultato non dipende da
    me.  Vi avevo preavvertita che non ne sarebbe venuto fuori  niente
    di  buono.  Ditemi,  siete  molto  abbattuta  per aver perso tanto
    denaro? Perché ve ne serve tanto?"
    "A che scopo queste domande?"
    "Voi stessa mi avevate promesso una spiegazione...  Ascoltate:  io
    sono  perfettamente convinto che quando comincerò a giocare per me
    (e ho dodici  federici)  vincerò.  Allora  quello  che  vi  serve,
    prendetelo da me."
    Ella fece una smorfia sprezzante.
    "Non andate in collera" continuai,  "per questa mia proposta. Sono
    tanto consapevole di essere ai vostri occhi una nullità che potete
    benissimo prendere da me del denaro.  Non potete offendervi per un
    mio regalo. Per di più, io ho perduto il vostro."
    Mi  diede una rapida occhiata e,  accortasi che io parlavo in tono
    irritato e sarcastico, di nuovo mi interruppe:
    "Non c'è niente che possa  interessarvi  nelle  mie  faccende.  Se
    volete saperlo,  ho semplicemente un debito. Ho preso del denaro a
    prestito e vorrei restituirlo. Avevo la pazzesca e strana idea che
    avrei senz'altro vinto qui, al tavolo da giuoco.  Non capisco come
    mai  avessi quest'idea,  ma ci credevo.  Chi sa,  forse ci credevo
    perché non mi restava nessun'altra possibilità di scelta".
    "Oppure  perché  avevate   troppa   necessità   di   vincere.   E'
    precisamente  come  quando  chi  sta per annegare si afferra a una
    pagliuzza.  Converrete anche voi che,  se non stesse per annegare,
    non scambierebbe una pagliuzza per un ramo di albero..."
    Polina si stupì.
    "E  come  mai" domandò,  "avete anche voi la stessa speranza?  Due
    settimane fa voi stesso mi avete parlato un giorno molto a  lungo,
    della vostra assoluta convinzione di vincere, qui, alla roulette e
    volevate  persuadermi  a non considerarvi come un pazzo;  o allora
    scherzavate?  Ma ricordo che parlavate così seriamente che non era
    possibile prendere le vostre parole come uno scherzo."
    "Questo è vero" risposi soprappensiero. "Sono ancora oggi convinto
    che vincerò.  E vi confesso anche che voi, ora, mi avete indotto a
    pormi questa domanda: perché mai la mia perdita di oggi, stupida e
    assurda,  non ha lasciato in me  nessun  dubbio?  Io  sono  ancora
    convinto  che,  non  appena  comincerò  a giocare per me,  vincerò
    certamente."
    "Perché siete tanto convinto?"
    "A dire il vero,  non lo so.  So  soltanto  che  ho  necessità  di
    vincere  e  che  anche per me è questa l'unica via d'uscita.  Ecco
    perché mi sembra di dover sicuramente vincere."
    "Ne avete  dunque  anche  voi  estrema  necessità  se  siete  così
    fanaticamente sicuro?"
    "Scommetto che mettete in dubbio che io sia in condizione di avere
    una seria necessità."
    "Per me è proprio lo stesso" rispose Polina, calma e indifferente.
    "Se volete saperlo,  ebbene,  sì,  dubito che possiate tormentarvi
    per qualcosa di serio.  Potete  tormentarvi,  ma  non  seriamente.
    Siete un uomo disordinato e incerto. Per che cosa avete bisogno di
    denaro?  Tra  tutte  le ragioni che mi avevate esposto,  non ne ho
    trovata nessuna abbastanza seria."
    "A proposito," la interruppi,  "avete detto che dovete  pagare  un
    debito, dunque! Forse al francese?"
    "Che domande sono queste? Oggi siete particolarmente rude. Sareste
    per caso ubriaco?"
    "Voi  sapete  che  io  mi  permetto di parlare e di fare domande a
    volte molto sincere.  Lo ripeto,  sono il  vostro  schiavo:  degli
    schiavi  non  si ha vergogna e quello che dice uno schiavo non può
    offendere."
    "Tutte sciocchezze!  Non posso soffrire questa vostra teoria della
    schiavitù!"
    "Badate  che  io  non vi parlo della mia schiavitù perché desidero
    essere vostro schiavo,  ma ne parlo semplicemente come di un fatto
    che non dipende assolutamente da me."
    "Ditemi francamente: perché vi occorre denaro?"
    "E a voi perché occorre saperlo?"
    "Come volete" rispose lei, e alzò alteramente il capo.
    "Non  potete  soffrire la 'teoria della schiavitù',  ma esigete la
    schiavitù: 'rispondere e non discutere!'  E  sta  bene,  sia  pure
    così!  A che scopo mi serve il denaro,  mi chiedete?  Come,  a che
    scopo? Il denaro è tutto!"
    "Capisco,  ma non bisogna,  per questo desiderio,  ridursi  in  un
    simile stato di pazzia! Perché anche voi arrivate all'esaltazione,
    al fanatismo... Qui sotto c'è qualcosa, c'è uno scopo particolare.
    Parlate senza tanti giri di parole, lo voglio!"
    Sembrava  che  cominciasse a irritarsi,  e a me piaceva moltissimo
    che mi interrogasse con tanta foga.
    "Si capisce che c'è uno scopo," dissi io, "ma non saprei spiegarvi
    quale.  Forse nient'altro che questo: con il denaro diventerò  per
    voi un altro uomo, e non uno schiavo."
    "Come? Come otterrete questo?"
    "Come l'otterrò?  Come, non capite nemmeno come potrò ottenere che
    non mi consideriate uno schiavo? Ecco quello che non voglio, tutti
    questi stupori e queste perplessità."
    "Avete detto che questa schiavitù è per voi una gioia. E io stessa
    pensavo che fosse così."
    "Pensavate così!" esclamai con una strana soddisfazione. "Ah com'è
    bella tanta ingenuità da parte vostra! Sì, sì, la schiavitù che mi
    viene da voi è per me una gioia.  Ci può essere  una  gioia  anche
    nell'estremo    grado   dell'avvilimento   e   dell'annullamento!"
    continuai come in delirio.  "Lo sa il diavolo...  forse una  gioia
    c'è  anche  nello  scudiscio  quando  vi  colpisce  e  vi  strappa
    brandelli di carne...  Ma può darsi che io  voglia  provare  anche
    altri  godimenti.  Poco  fa,  a  tavola,  in  vostra presenza,  il
    generale mi ha fatto una predica per  quei  settecento  rubli  che
    magari  non  mi  darà  neppure.  Il  marchese  De-Grieux mi guarda
    dall'alto in basso  inarcando  le  sopracciglia  e,  nello  stesso
    tempo,  non si accorge di me.  E io,  per parte mia,  ho quasi una
    voglia pazza di prendere per il naso il marchese De-Grieux davanti
    a voi!"
    "Discorsi da bambino!  In ogni situazione ci si può comportare con
    dignità. Se c'è lotta, essa ci innalza e non ci abbassa."
    "Parole modello!  Basta che voi supponiate che io,  forse,  non so
    comportarmi con dignità. Cioè,  io sono magari un uomo degnissimo,
    ma  non  so  comportarmi  con  dignità.   Capite  che  questo  può
    succedere? Ma tutti i russi sono così,  e sapete perché?  Perché i
    russi  sono  troppo  variamente  e  riccamente  dotati per potersi
    trovare con facilità una forma decorosa.  Si tratta di forma.  Noi
    russi siamo,  per la maggior parte,  tanto riccamente dotati,  che
    per avere una forma conveniente ci serve la genialità: già,  ma la
    genialità  il  più  delle volte manca perché,  in genere,  è molto
    rara. Soltanto nei francesi e forse in alcuni altri popoli europei
    la forma è così ben determinata da  poter  dare  loro  un  aspetto
    dignitosissimo,  pur essendo personalmente persone indegne. E' per
    questo che attribuiscono alla  forma  tanto  valore.  Il  francese
    sopporterà  un'offesa,  una  vera  e propria offesa,  senza batter
    ciglio,  ma non sopporterà a nessun costo  un  buffetto  sul  naso
    perché  questo  buffetto costituisce la violazione di una forma di
    convenienza,  accettata e perpetuata.  Precisamente per questo  le
    nostre signorine hanno un debole per i Francesi, perché i Francesi
    hanno una bella forma.  Secondo me,  però, non esiste la forma, ma
    esiste soltanto il gallo,  'le coq gaulois'!  Però questo  non  lo
    posso  capire perché non sono una donna.  Forse anche i galli sono
    belli. Ma, in conclusione,  ho detto un mucchio di sciocchezze,  e
    voi non mi interrompete.  Interrompetemi più spesso;  quando parlo
    con voi, voglio dire tutto, tutto. Perdo ogni forma.  E sono anche
    d'accordo  nel  dire che non solo non ho forma,  ma nemmeno alcuna
    dignità.  Ve lo dichiaro.  E non mi importa affatto di  non  avere
    alcun merito.  Ora tutto si è fermato in me.  E voi sapete perché.
    Nella mia testa non c'è più un solo pensiero umano.  Già da  molto
    tempo non so più che cosa accada nel mondo,  né in Russia, né qui.
    Ecco, sono passato per Dresda, e non ricordo come sia Dresda.  Voi
    sapete  che  cosa  mi  divora.  Poiché non ho alcuna speranza e ai
    vostri occhi sono una nullità,  lo dico francamente: vedo  ovunque
    soltanto voi, e tutto il resto mi è indifferente. Perché e come vi
    ami  non  so.  Sapete  che  forse  non  siete neppure molto bella?
    Figuratevi, non so se siete bella o no, neppure di viso! Il vostro
    cuore certamente non è bello, e che la vostra mente non sia nobile
    è molto possibile."
    "Forse per questo contate di comperarmi con il denaro," disse lei,
    "perché non credete alla mia nobiltà?"
    "Quando mai ho pensato di comperarvi con il denaro?" esclamai.
    "Vi siete imbrogliato e avete perso il filo del discorso.  Se  non
    me, pensavate di comperare con il denaro almeno la mia stima."
    "Ebbene  no,  non  è  proprio  così!  Vi  ho  già  detto che trovo
    difficile spiegarmi. Voi mi schiacciate. Non andate in collera per
    le mie chiacchiere.  Voi capite perché con me non si può andare in
    collera: perché io sono semplicemente pazzo.  Ma,  del resto, mi è
    indifferente, anche se andate in collera. Quando sono lassù, nella
    mia stanzetta,  mi basta ricordare e immaginare il  fruscio  della
    vostra  veste  e  mi vien voglia di mordermi le mani.  E perché vi
    irritate con me?  Perché dico che sono uno schiavo?  Approfittate,
    approfittate  della mia schiavitù,  approfittatene!  Sapete che un
    giorno o l'altro vi ucciderò?  Non vi ucciderò perché non vi amerò
    più  o  sarò  geloso  di voi,  ma vi ucciderò così,  semplicemente
    perché  qualche  volta  mi  sento  trascinato  a  divorarvi.   Voi
    ridete..."
    "Non rido affatto" disse lei con sdegno. "Vi ordino di tacere."
    S'interruppe,  riuscendo  appena  a  respirare per la collera.  Vi
    giuro che non so se fosse bella, ma mi è sempre piaciuto guardarla
    quando si fermava così,  di fronte  a  me,  e  perciò  mi  piaceva
    provocare  spesso  la  sua collera.  Forse lei se ne era accorta e
    faceva apposta ad arrabbiarsi. E glielo dissi.
    "Che schifo!" esclamò lei con un gesto di disgusto.
    "Non  me  ne  importa  niente"  continuai.   "Sapete   che   anche
    passeggiare  insieme  noi  due  soli è pericoloso?  Molte volte mi
    sento invincibilmente tentato di  picchiarvi,  di  sfregiarvi,  di
    strangolarvi... E che credete? Che non si arriverà a questo punto?
    Voi mi porterete alla pazzia.  Pensate che io tema lo scandalo? La
    vostra collera?  Ma che m'importa della vostra collera?  Io vi amo
    senza speranza e so che, dopo, vi amerei mille volte di più. Se un
    giorno vi ucciderò,  dovrò certo uccidere anche me,  ma lo farò il
    più  tardi  possibile,   tanto   per   aver   tempo   di   provare
    l'intollerabile  dolore della vostra mancanza.  Volete che vi dica
    una cosa incredibile? Ogni giorno vi amo di più, anche se questo è
    quasi impossibile.  E dopo di ciò  non  dovrei  essere  fatalista?
    Ricordate? L'altro giorno sullo Schlangenberg, eccitato da voi, ho
    mormorato: dite una parola e mi butterò nel precipizio.  Se aveste
    detto quella parola mi sarei buttato.  Possibile che crediate  che
    non l'avrei fatto?"
    "Che stupide chiacchiere!" esclamò lei.
    "A  me non importa proprio niente se siano stupide o intelligenti"
    risposi.  "Io so che davanti a  voi  devo  parlare,  parlare...  e
    parlo.  In  vostra presenza perdo ogni amor proprio,  e tutto mi è
    indifferente."
    "A che scopo dovrei farvi  saltar  giù  dallo  Schlangenberg?"  mi
    chiese  in  tono  asciutto  e particolarmente offensivo.  "Sarebbe
    proprio inutile per me!"
    "Magnifico!" esclamai "A bella posta avete  detto  quel  magnifico
    'inutile' per schiacciarmi.  Io vedo dentro di voi. Inutile, avete
    detto?  Ma un piacere è  sempre  utile  e  un  feroce,  illimitato
    potere,  sia pure su una mosca,  è anch'esso,  nel suo genere,  un
    piacere.  L'uomo è despota per natura e gli piace torturare.  E  a
    voi piace terribilmente..."
    Ricordo che essa mi osservava con un'attenzione tutta particolare.
    Senza dubbio il mio viso esprimeva,  in quel momento, tutte le mie
    insensate,  assurde sensazioni.  Ora ricordo che effettivamente la
    nostra  conversazione avvenne quasi parola per parola come io l'ho
    riportata. I miei occhi si erano iniettati di sangue.  Agli angoli
    delle  labbra  mi  si  era  raggrumata  la  saliva.  Per quanto si
    riferisce allo Schlangenberg lo giuro sul mio onore anche  adesso:
    se  essa mi avesse ordinato di buttarmi giù,  io mi sarei buttato!
    Se  l'avesse  detto  solo  per  scherzo,  se  l'avesse  detto  con
    disprezzo,  sputandomi addosso...  ebbene, anche in questo caso mi
    ci sarei buttato!
    "No,  ma perché?  Io vi credo" disse  Polina  con  quel  modo  che
    soltanto  lei  sa  usare  per  dire  le cose con tanto disprezzo e
    malignità che,  vivaddio,  avrei potuto ucciderla in quel momento.
    Rischiava. Anche su questo non avevo mentito, dicendoglielo.
    "Voi non siete un vigliacco?" mi chiese all'improvviso.
    "Non lo so,  può anche darsi che lo sia.  Non so... da tanto tempo
    non ci ho pensato."
    "Se io vi dicessi: uccidete quell'uomo, lo uccidereste?"
    "Chi?"
    "Chi vorrò io."
    "Il francese?"
    "Non interrogate,  ma rispondete.  Chi  vi  indicherò  io.  Voglio
    sapere se poco fa avete parlato seriamente."
    Aspettava  una  risposta  con  un'aria  così dura e impaziente che
    provai una strana impressione.
    "Ma mi direte una buona volta che  cosa  succede  qui?"  esclamai.
    Avete  forse paura di me?  Li vedo anch'io tutti i pasticci che ci
    sono qui...  Voi siete la figliastra di un uomo rovinato e  pazzo,
    ossessionato  dalla passione per quel demonio di Blanche;  poi c'è
    questo francese con la sua misteriosa influenza su di voi; ed ecco
    che ora voi mi fate una simile domanda in tono così serio.  Che io
    almeno  sappia:  altrimenti  finirò  con  l'impazzire  e combinare
    qualche guaio.  Oppure vi  vergognate  di  degnarmi  della  vostra
    sincerità? Possibile che vi vergogniate di me?"
    "Non  sto  affatto  parlando di questo.  Vi ho fatto una domanda e
    aspetto la risposta."
    "Si capisce,  ucciderò" gridai,  "chiunque  voi  mi  ordiniate  di
    uccidere, ma potete voi forse... me l'ordinerete, forse?"
    "E  che  cosa  credete?  Che  avrei  compassione  di voi?  Vi darò
    l'ordine e resterò in disparte.  Vi sentirete  di  farlo?  Ma  no,
    figuriamoci!  Voi,  magari,  ucciderete  per  mio  ordine,  ma poi
    verrete a uccidere me perché ho osato mandarvi."
    A queste parole fu come se qualcosa mi avesse colpito al capo.  Si
    capisce  che anche allora consideravo la sua domanda come un mezzo
    scherzo,   come  una  sfida;   eppure  lei  aveva  parlato  troppo
    seriamente.  Nonostante  tutto  ero sorpreso che lei si fosse così
    scoperta, che si riservasse un tale diritto e un tale potere su di
    me e che così chiaramente dicesse: "Va' alla rovina,  e io  me  ne
    sto  in  disparte!"  C'era  in queste parole un non so che di così
    cinico e di così franco che mi pareva  esagerato.  Dopo  una  cosa
    simile, che concetto poteva avere di me? Si era ormai oltrepassato
    il limite della schiavitù e dell'abiezione. Quando si ha un simile
    punto di vista si innalza l'uomo fino a sé. E, per quanto assurdo,
    per  quanto incredibile fosse stata tutta la nostra conversazione,
    il mio cuore ebbe un sussulto.
    All'improvviso  lei  scoppiò  a  ridere.  Eravamo  seduti  su  una
    panchina,  davanti ai ragazzi che giocavano,  proprio di fronte al
    posto in cui si fermavano le carrozze e scendeva la gente  davanti
    al Casinò.
    "Vedete  quella  grassa  baronessa?"  mi chiese.  "E' la baronessa
    Wurmerhelm.  E' arrivata solo da tre giorni.  Guardate suo marito:
    un  prussiano  lungo e secco con il bastone in mano.  Vi ricordate
    come ci osservava l'altro ieri?  Andate subito,  avvicinatevi alla
    baronessa, toglietevi il cappello e ditele qualcosa in francese."
    "Perché?"
    "Avete  giurato  che  vi  sareste buttato giù dallo Schlangenberg;
    avete giurato di essere pronto a uccidere a un mio ordine.  Invece
    di tutti questi omicidi e queste tragedie,  voglio soltanto ridere
    un po'.  Andate,  senza fare tante storie.  Voglio vedere come  il
    barone vi bastonerà."
    "Voi mi sfidate; credete che non lo farò?"
    "Sì, vi sfido! Andate, lo voglio."
    "D'accordo,  vado, anche se si tratta di una stravagante fantasia.
    Una cosa sola,  però: non vorrei che ci fossero seccature  per  il
    generale e,  da parte sua,  per voi! Vi giuro che non mi preoccupo
    per me, ma per voi e anche... sì... anche per il generale.  Ma che
    fantasia è mai questa di mandare a offendere una donna?"
    "Eh  sì,  a  quanto  vedo  voi siete soltanto un chiacchierone" mi
    disse lei con disprezzo.  "Avevate gli occhi iniettati di  sangue,
    poco fa, ma probabilmente solo perché a pranzo avete bevuto troppo
    vino.  Credete  forse che non capisca anch'io che si tratta di una
    cosa stupida e volgare e che  il  generale  si  infurierà?  Ma  ho
    voglia di ridere.  Sì,  voglia di ridere.  E perché, poi, dovreste
    offendere una donna? Piuttosto bastoneranno voi."
    Mi girai e in silenzio andai a eseguire il suo ordine.  Certo  era
    una  cosa  stupida,  certo  non  seppi cavarmela,  ma ricordo che,
    quando  cominciai  ad  avvicinarmi  alla  baronessa,  qualcosa  mi
    stuzzicò,   e   precisamente  mi  stuzzicò  il  desiderio  di  una
    monelleria.  E poi ero eccitato,  terribilmente eccitato,  come se
    fossi ubriaco...

    6.

    Ecco  che  sono già passati due giorni da quella stupida giornata.
    Quante grida, quanto rumore, quante chiacchiere, quanto trambusto!
    E che disordine,  che confusione,  che stupidità e volgarità...  e
    tutto per causa mia.  Però a volte viene da ridere... a me, per lo
    meno.  Non so rendermi conto di ciò che mi succede:  se  mi  trovi
    veramente  in  uno  stato  di  esaltazione  o se semplicemente sia
    uscito di senno e commetta  sconvenienze  fino  a  quando  non  mi
    legheranno.  A volte mi sembra che la mia mente sia sconvolta. E a
    volte ho l'impressione di non essere  lontano  dall'infanzia,  dai
    banchi  della scuola,  e di fare semplicemente delle monellerie da
    scolaro.
    E Polina, sempre Polina!  Forse non ci sarebbero monellerie se non
    ci fosse lei.  Chi sa, magari faccio tutto questo per disperazione
    (per quanto, del resto, sia stupido ragionare così). E non capisco
    che cosa ci sia di bello in lei!  Bella,  però,  è  bella,  sembra
    bella.
    Fa impazzire anche gli altri.
    E' alta e ben fatta,  solo un po' sottile. Mi dà l'impressione che
    si potrebbe farne un nodo o piegarla in  due.  La  forma  del  suo
    piede è lunga e sottile, crudele. Proprio crudele. I capelli hanno
    una sfumatura rossiccia,  gli occhi sono veri occhi da gatta... ma
    come sa usarli con orgogliosa fierezza!  Quattro mesi  fa,  quando
    ero  appena  arrivato in casa loro,  lei,  una sera si trattenne a
    lungo in  sala  a  discutere  animatamente  con  De-Grieux.  E  lo
    guardava in un modo tale che poi,  quando mi ritirai in camera mia
    per coricarmi,  mi immaginai che lei gli avesse dato uno schiaffo,
    glielo avesse appena dato e gli stesse così davanti a guardarlo...
    Ecco, da quella sera mi sono innamorato di lei.
    Ma veniamo ai fatti!
    Per  un  sentiero  uscii  sul  viale,  mi sistemai nel bel mezzo e
    attesi il barone e la baronessa.  A cinque passi  di  distanza  mi
    tolsi il cappello e mi inchinai.
    Ricordo  che  la baronessa indossava un abito di seta larghissimo,
    di colore grigio chiaro,  con volanti,  crinolina e strascico.  E'
    piccola di statura e di una grassezza straordinaria,  con un mento
    terribilmente carnoso e floscio,  tanto che non  le  si  vede  per
    niente il collo. La sua faccia è paonazza. Gli occhi sono piccoli,
    maligni e sfacciati.  Cammina come se facesse un onore a tutti. Il
    barone è secco,  alto.  Il suo volto,  come  spesso  si  vede  nei
    Tedeschi,  è  storto  e solcato da mille piccole rughe;  porta gli
    occhiali; è sui quarantacinque anni. Le gambe gli cominciano quasi
    dal petto: segno di razza, dicono.  E' tronfio come un pavone.  Un
    po' goffo.  Nell'espressione di quel viso c'è qualcosa del montone
    che, a modo suo, sostituisce la profondità di pensiero.
    Tutto questo mi passò davanti agli occhi in tre secondi.
    Il mio inchino e il cappello tra  le  mani  all'inizio  attirarono
    appena la loro attenzione.  Soltanto il barone aggrottò lievemente
    le sopracciglia. La baronessa navigava direttamente verso di me.
    "Madame la baronne," proferii con chiarezza a voce alta, scandendo
    bene ogni parola "j'ai l'honneur d'être votre esclave!" (1)
    Poi mi inchinai,  misi il cappello e  passai  davanti  al  barone,
    girando cortesemente il viso verso di lui e sorridendo.
    Era stata lei, Polina, a ordinarmi di togliermi il cappello, ma mi
    inchinai e feci la monelleria di mia iniziativa. Che diavolo mi ci
    ha spinto? Era come se volassi giù da una montagna.
    "Hein!"  gridò o,  per meglio dire,  gracchiò il barone volgendosi
    verso di me con irritato stupore.
    Mi girai e mi fermai in ossequiosa attesa, continuando a guardarlo
    e  a  sorridere.   Egli,   evidentemente  perplesso,   inarcò   le
    sopracciglia  sino  al  "nec  plus ultra".  Il suo volto diventava
    sempre più scuro.  Anche la baronessa si girò dalla  mia  parte  e
    anche lei mi guardò con indignato stupore.
    "Hein!"  gridò  di  nuovo  il  barone con raddoppiato gracchiare e
    raddoppiato sdegno.
    "Ja wohl!  (2)" dissi  strascicando  le  parole  e  continuando  a
    guardarlo negli occhi.
    "Sind   Sie  rasen?   (3)"  gridò,   agitando  il  suo  bastone  e
    cominciando, mi sembra, ad avere un po' di paura. Forse lo turbava
    il vestito. Indossavo un abito decente,  direi quasi elegante,  da
    persona appartenente alla buona società.
    "Ja wo-o-o-ohl!" gridai a un tratto,  a tutta forza,  strascicando
    la "o" come fanno i berlinesi che,  in ogni  momento,  durante  la
    conversazione,  usano  l'intercalare  "ja  wohl" e strascicano più
    meno la "o"  per  esprimere  varie  sfumature  di  pensiero  e  di
    sensazioni.
    Il  barone  e la baronessa si girarono e si allontanarono quasi di
    corsa, spaventati. Tra il pubblico, alcuni si misero a commentare,
    altri a guardarmi perplessi. Però, non me ne ricordo bene.
    Mi girai e  con  il  mio  solito  passo  mi  avviai  verso  Polina
    Aleksàndrovna.  Ma  non  ero  ancora  arrivato a cento passi dalla
    panchina su cui lei era seduta che la vidi alzarsi e dirigersi con
    i bambini verso l'albergo.
    La raggiunsi vicino alla scalinata.
    "Ho eseguito...  quella stravaganza..." le  dissi,  quando  l'ebbi
    raggiunta.
    "E  con  questo?  Adesso  sbrigatevela   voi" mi rispose e,  senza
    nemmeno guardarmi, cominciò a salire la scala.
    Per tutta quella sera passeggiai nel parco.  Attraverso il parco e
    poi attraverso un bosco raggiunsi addirittura un altro principato.
    In una casetta di contadini mangiai una frittata e bevvi del vino:
    e per questa idilliaca cena vollero un tallero e mezzo.
    Soltanto  alle undici tornai a casa.  Subito fui chiamato da parte
    del generale.
    I nostri occupano nell'albergo due appartamenti: quattro stanze in
    tutto. La prima, grande, è un salone con un pianoforte. Attigua ce
    n'è un'altra,  pure grande: lo studio del generale.  Qui  egli  mi
    aspettava,  dritto  in  piedi  nel bel mezzo,  in un atteggiamento
    straordinariamente maestoso.  De-Grieux stava semisdraiato  su  un
    divano.
    "Egregio  signore,   permettetemi  di  chiedervi  che  cosa  avete
    combinato" cominciò immediatamente il generale, rivolgendosi a me.
    "Desidererei, generale,  che entraste subito in argomento" risposi
    io.  "Probabilmente  alludete  al  mio  incontro  di  oggi  con un
    tedesco..."
    "Con un tedesco?  Ma quel tedesco  è  il  barone  Wurmerhelm,  una
    persona  importante!  Siete  stato molto villano verso di lui e la
    baronessa."
    "Ma niente affatto!"
    "Li avete spaventati, egregio signore" gridò il generale.
    "Neppure per sogno. Già a Berlino mi aveva colpito l'orecchio quel
    'ja  wohl!'  che  i  Tedeschi  ripetono  in  ogni  momento  e  che
    strascicano  in  modo  così odioso.  Quando oggi ho incontrato nel
    viale il barone, improvvisamente quel 'ja wohl',  non so perché mi
    è  tornato  in mente e ha agito su me da eccitante.  Per di più la
    baronessa è già la terza volta che mi incontra,  ha l'abitudine di
    venirmi addosso, come se fossi un verme che si può schiacciare con
    un piede.  Anch'io, vorrete convenirne, ho il mio amor proprio. Mi
    sono tolto il cappello e ho detto cortesemente  (cortesemente,  vi
    assicuro): 'Madame j'ai l'honneur d'être votre esclave.' Quando il
    barone  si  girò  e  mi  lanciò  il suo 'hein!' mi sentii spinto a
    gridare: 'Ja wohl!'.  E lo gridai due  volte:  la  prima  come  al
    solito,  ma  la  seconda  strascicando le parole il più possibile.
    Ecco tutto."
    Confesso che  ero  terribilmente  felice  di  quella  spiegazione,
    monellesca  al massimo.  Avevo una voglia pazza di gonfiare quella
    storia nel modo più assurdo che potessi.
    E quanto più andavo avanti, tanto più ci prendevo gusto.
    "Voi mi prendete in giro, eh?" gridò il generale.
    Si girò verso De-Grieux e gli spiegò in francese  che  io  cercavo
    decisamente  di  provocare  dei  guai.  De-Grieux fece un risolino
    sprezzante e alzò le spalle.
    "Oh,  non pensate una cosa simile,  non è vero affatto!" gridai al
    generale.  "Il mio gesto, certo, non è stato bello, ve lo confesso
    con la massima sincerità.  Esso  può  anche  essere  definito  una
    stupida  e  sconveniente monelleria,  ma niente di più.  E sapete,
    generale, ne sono pentitissimo. Ma c'è una circostanza che ai miei
    occhi mi libera persino dal pentimento. In questi ultimi tempi, da
    due o tre settimane,  io non mi sento molto  bene:  sono  nervoso,
    irritabile,  stravagante e,  in certi casi, perdo completamente il
    dominio di me.  Davvero,  mi è già venuto qualche  volta  un  gran
    desiderio  di  rivolgermi al marchese De-Grieux e...  ma non posso
    finire la frase: forse si offenderebbe. In una parola tutti questi
    sono i sintomi di una malattia.  Non so se la baronessa Wurmerhelm
    vorrà  tener  presente questa circostanza quando le chiederò scusa
    (perché ho intenzione di chiederle scusa). Penso però di no, tanto
    più che,  a quanto mi risulta,  negli ultimi tempi si è cominciato
    ad  abusare  di  una simile circostanza nel mondo giudiziario: gli
    avvocati  nelle  cause   penali   hanno   preso   l'abitudine   di
    giustificare  molto  spesso  i loro clienti criminali con il fatto
    che essi, al momento del delitto, non ricordavano più niente e che
    questo è una specie di malattia.  "Ha picchiato"  dicono,  "e  non
    ricorda  più niente." E figuratevi,  generale,  che la medicina li
    appoggia,  affermando che esiste davvero una simile malattia,  una
    specie  di  pazzia  temporanea,  durante la quale un individuo non
    ricorda più niente o ricorda a metà,  o ricorda per un quarto.  Ma
    il  barone e la baronessa sono gente della vecchia generazione,  e
    per  di  più  latifondisti  prussiani.  Molto  probabilmente  essi
    ignorano   i  progressi  del  mondo  medico-legale  e  perciò  non
    accetteranno le mie spiegazioni. Che ne pensate, generale?"
    "Basta,  signore!" disse il generale in tono aspro  e  con  sdegno
    trattenuto.  "Basta!  Cercherò, una volta per sempre, di liberarmi
    dalle vostre ragazzate!  Non dovrete scusarvi davanti al barone  e
    alla  baronessa  perché  ogni  rapporto  con voi,  anche se basato
    soltanto sulla vostra preghiera di essere scusato sarebbe per loro
    troppo umiliante.  Il barone,  saputo che voi appartenete alla mia
    casa,  si è già spiegato con me al Casinò e vi confesso che poco è
    mancato che non esigesse soddisfazione da me. Capite a che cosa mi
    avete esposto,  egregio signore?  Sono stato costretto a  chiedere
    scusa  al barone e a dargli la mia parola che immancabilmente,  da
    oggi, voi smetterete di appartenere alla mia casa..."
    "Permettete,  permettete,  generale,  ma è  stato  proprio  lui  a
    esigere che io non appartenessi più alla vostra casa,  come voi vi
    siete degnato di esprimervi?"
    "No,  ma sono stato io stesso a ritenermi  in  obbligo  di  dargli
    questa soddisfazione e,  si capisce, il barone è rimasto contento.
    Noi ci separeremo, egregio signore.  Voi dovete ancora ricevere da
    me questi quattro federici e tre fiorini,  al calcolo di qui. Ecco
    il denaro ed ecco il foglietto con il conto:  potete  verificarlo.
    Addio. Da questo momento siamo degli estranei. A parte seccature e
    dispiaceri,  da  voi  non  ho  avuto  altro.  Chiamerò  subito  il
    cameriere e lo avvertirò che, da domani,  non risponderò più delle
    vostre   spese  in  albergo.   Ho  l'onore  di  essere  il  vostro
    servitore."
    Presi il denaro,  il foglio sul quale era stato fatto il  conto  a
    matita, mi inchinai al generale e molto seriamente gli dissi:
    "Generale,  la cosa non può finire così. Mi dispiace molto che voi
    abbiate avuto delle seccature da parte del barone ma, scusatemi se
    ve lo dico,  la colpa è vostra.  Come mai vi  siete  addossato  di
    fronte  al  barone la responsabilità del mio gesto?  Che significa
    l'espressione che io appartengo alla  vostra  casa?  Nella  vostra
    casa  io sono semplicemente il precettore,  nient'altro.  Non sono
    vostro figlio,  non sono sotto la vostra tutela,  e voi non potete
    essere   responsabile   dei   miei  atti.   Io  sono  una  persona
    giuridicamente responsabile.  Ho venticinque anni,  sono laureato,
    sono  nobile  e  per  voi un estraneo.  Soltanto il mio illimitato
    rispetto per la vostra dignità mi trattiene dal pretendere ora  da
    voi  soddisfazione  e  ulteriori  spiegazioni  per il fatto che vi
    siete arrogato il diritto di rispondere per me."
    Il generale fu tanto stupefatto che allargò le braccia, poi,  a un
    tratto, si rivolse al francese e gli riferì rapidamente che io per
    poco  non  l'avevo sfidato a duello.  Il francese si mise a ridere
    forte.
    "Ma non intendo perdonarla al barone," continuai io  con  assoluto
    sangue freddo,  senza lasciarmi turbare dalla risata di De-Grieux,
    "e poiché voi, generale, accettando oggi di ascoltare le lamentele
    del barone e prendendo le sue parti,  vi siete fatto partecipe  di
    tutta la faccenda, ho l'onore di dirvi che non più tardi di domani
    mattina  esigerò  dal  barone,  a  mio  proprio nome,  una formale
    spiegazione del motivo per il quale,  avendo una questione con me,
    egli si è rivolto,  scavalcandomi,  a un'altra persona, come se io
    non fossi degno di rispondergli personalmente."
    Quello che prevedevo successe.  Il generale nell'ascoltare  questa
    nuova sciocchezza, si prese una terribile paura.
    "Ma  com'è  possibile  che abbiate intenzione di continuare questa
    maledetta  storia?"  gridò.   "Che  cosa  dunque   volete   ancora
    combinarmi?  Badate,  badate a quello che fate, egregio signore, o
    vi giuro che... Anche qui ci sono delle autorità e io... io... con
    il mio grado, basterà una parola...  e anche il barone...  Con una
    parola  vi  faremo  arrestare e mandare via da qui per mezzo della
    polizia,  affinché  non  attacchiate  più  brighe!  Avete  capito,
    signore?"  E  benché  per lo sdegno gli mancasse quasi il respiro,
    aveva tuttavia una tremenda paura.
    "Generale," risposi con una calma per lui insopportabile,  "non si
    può arrestare per violenza prima che la violenza sia avvenuta.  Io
    non ho ancora cominciato le mie spiegazioni col barone,  e voi non
    sapete  assolutamente  ancora  in  che  modo  e  su  quali basi ho
    intenzione di affrontare la questione.  Desidero soltanto chiarire
    la supposizione, per me offensiva, che io mi trovi sotto tutela di
    una persona che avrebbe un potere sulla mia libera volontà. Quindi
    vi agitate e vi inquietate inutilmente."
    "Per amor di Dio,  per amor di Dio, Alekséj Ivànovitch, rinunciate
    a questo proposito insensato!" mormorò il generale,  cambiando  di
    colpo in supplichevole il suo tono indignato, e prendendomi per le
    mani.  "Suvvia, vi immaginate che cosa ne potrebbe venir fuori? Di
    nuovo dispiaceri.  Dovete convenire che qui io devo comportarmi in
    maniera  particolare,  soprattutto adesso!  Oh,  voi non conoscete
    tutte le circostanze! Quando ce ne andremo di qui, sono disposto a
    riprendervi con me.  Ora lo faccio solo così...  in una  parola...
    voi lo capite il perché..." gridò disperato.  "Alekséj Ivànovitch!
    Alekséj Ivànovitch!"
    Mentre mi avvicinavo alla porta,  lo pregai vivamente  ancora  una
    volta  di  non  inquietarsi,  gli promisi che tutto sarebbe andato
    bene e nel modo più corretto, e mi affrettai a uscire.
    A volte i russi all'estero sono troppo timorosi e hanno  una  gran
    paura  di  quello  che possono dire gli altri,  di come li possono
    guardare e se una cosa sarà più o meno corretta...  in una parola,
    si  comportano  come  se  fossero stretti nel busto e specialmente
    quelli che hanno la pretesa di essere importanti...  Quello a  cui
    tengono di più è una certa qual forma prestabilita che,  una volta
    fissata,   essi  seguono   servilmente   negli   alberghi,   nelle
    passeggiate,  nelle riunioni,  in viaggio... Ma il generale si era
    lasciato sfuggire che oltre a questo  c'erano  alcune  circostanze
    particolari   per   cui   gli   serviva   comportarsi  in  maniera
    'particolare'.  Per questo di punto in bianco  si  era  con  tanta
    pusillanimità spaventato e aveva cambiato tono nei miei confronti.
    Ne presi atto e lo annotai.  Certo egli, per storditaggine, poteva
    il giorno dopo rivolgersi  a  qualche  autorità  e  quindi  dovevo
    realmente andare molto cauto.
    D'altronde,   poi,  non  volevo  per  nessun  motivo  irritare  il
    generale,  ma  volevo  fare  arrabbiare  Polina.   Polina  si  era
    comportata  con  me  in maniera tanto crudele e mi aveva spinto su
    una strada tanto sciocca che volevo proprio portarla al  punto  in
    cui  sarebbe  stata  lei  stessa  a  pregare  di fermarmi.  La mia
    ragazzata poteva, infine,  compromettere anche lei.  Inoltre erano
    nate  in me altre sensazioni ed erano spuntati altri desideri;  se
    io, per esempio, mi annullo volontariamente davanti a lei,  questo
    non  significa  affatto che di fronte agli altri io debba sembrare
    un  pulcino  bagnato  e  che,  di  conseguenza,  il  barone  possa
    picchiarmi  con il bastone.  Mi venne una voglia matta di prendere
    tutti in giro e di uscirne fuori,  facendo una bella  figura!  Che
    vedano un po'! Lei ha paura dello scandalo e mi chiamerà di nuovo.
    E,  se  anche  non  mi  chiamerà,  vedrà lo stesso che non sono un
    pulcino bagnato.. .
    (Una notizia sbalorditiva:  ho  sentito  proprio  ora  dire  dalla
    bambinaia,  che ho incontrato sulla scala,  che Màrja Filìppovna è
    partita oggi tutta sola per Karlsbad, con il treno della sera, per
    andare da sua cugina.  Che novità è questa?  La bambinaia dice che
    si preparava da un pezzo; ma come mai nessuno lo sapeva? Può anche
    darsi,  però,  che fossi io solo a non saperlo.  La bambinaia si è
    lasciata sfuggire che Màrja Filìppovna, due giorni fa, aveva avuto
    un colloquio un po' vivace con il generale. Capisco.  Certamente a
    causa di mademoiselle Blanche.  Sì, si sta avvicinando qualcosa di
    decisivo.)

    NOTE.
    1) "Signora, ho l'onore di essere vostro schiavo!"
    2) "Ebbene".
    3) "Ma siete pazzo?"


















    7.

    La mattina dopo chiamai il cameriere e lo avvertii che mi  facesse
    il  conto  a  parte.  La  mia  camera  non  era  poi  così cara da
    spaventarmi e da costringermi a lasciare subito  l'albergo.  Avevo
    sedici  federici  e  là...  là  forse  mi  aspettava la ricchezza!
    Strano,  non ho ancora vinto,  ma già mi comporto,  sento e  penso
    come  se  fossi  un  riccone  e  non  posso immaginarmi in un modo
    diverso.
    Avevo deciso,  nonostante l'ora mattutina,  di  andare  da  mister
    Astley  all'Hôtel  d'Angleterre,  non  molto  lontano  dal nostro,
    quando all'improvviso entrò in camera mia  De-Grieux.  Questo  non
    era  ancora mai successo e per di più con quel signore ero,  negli
    ultimi tempi,  in rapporti molto  tesi.  Egli  non  nascondeva  in
    nessun  modo  il  suo  disprezzo per me,  anzi faceva di tutto per
    metterlo in evidenza;  e io...  io avevo i miei particolari motivi
    per non risparmiarlo. In una parola, lo odiavo. La sua comparsa mi
    sorprese  moltissimo.  Subito capii che qualcosa stava bollendo in
    pentola.
    Egli entrò con un'aria molto cortese e mi fece  un  complimento  a
    proposito della mia stanza.  Vedendo che avevo il cappello in mano
    si informò se veramente uscissi  a  passeggio  così  di  buon'ora.
    Quando  seppe che stavo per andare da mister Astley per un affare,
    rifletté,   capì  e  il  suo  viso  prese   un'espressione   molto
    preoccupata.
    De-Grieux era come tutti i francesi, cioè allegro e gentile quando
    serviva  e  gli  conveniva,  ma  insopportabilmente  noioso quando
    mancava la necessità di essere allegro e cortese.  Il  francese  è
    raramente  cortese per natura;  lo è sempre,  come a comando,  per
    calcolo.  Se,  per esempio,  vede la necessità di essere bizzarro,
    originale,  un  po'  fuori  del  comune,  la sua fantasia è la più
    sciocca e innaturale,  fatta di forme prestabilite e già da  lungo
    tempo  diventate banali.  Allo stato naturale il francese è invece
    un insieme di qualità più borghesi,  meschine  e  comuni:  in  una
    parola  è  l'essere più noioso del mondo.  Secondo me,  soltanto i
    novellini e in particolar modo  le  signorine  russe  si  lasciano
    incantare  dai  Francesi.  Ma  a  ogni  persona  perbene  è subito
    evidente e intollerabile quel burocratismo di  forme  prestabilite
    di gentilezza, di disinvoltura e di allegria da salotto.
    "Vengo   da   voi   per   un  affare,"  cominciò  con  incredibile
    disinvoltura,  anche se molto cortesemente,  "e non vi  nasconderò
    che  vengo  da parte del generale come ambasciatore o,  per meglio
    dire,  come mediatore.  Poiché conosco molto male la lingua russa,
    ieri  non  ho  capito quasi niente,  ma il generale mi ha spiegato
    ogni cosa dettagliatamente e vi confesso che..."
    "Ma ascoltate,  monsieur  De-Grieux,"  lo  interruppi,  "anche  in
    questa faccenda vi siete assunto l'incarico di intermediario.  Io,
    si sa,  sono un 'outchitel' e non ho mai preteso l'onore di essere
    amico di questa casa o di avere con essa relazioni particolarmente
    intime  e perciò non sono al corrente di tutte le circostanze;  ma
    spiegatemi: è possibile che  voi  facciate  già  parte  di  questa
    famiglia?  Perché,  infine,  prendete  sempre  tanta parte in ogni
    cosa, e fate immancabilmente da mediatore in tutto..."
    Le mie domande non gli piacquero. Per lui erano troppo allusive, e
    lui non voleva tradirsi in nessun modo.
    "Mi legano al generale, in parte certi affari e, in parte,  alcune
    particolari  circostanze" mi disse seccamente.  "Il generale mi ha
    mandato a pregarvi di rinunciare ai vostri propositi di ieri sera.
    Tutto quello che avete immaginato è senza dubbio molto  spiritoso,
    ma  egli  mi ha precisamente chiesto di farvi presente che la cosa
    non vi riuscirà;  non solo,  ma che il barone non vi  riceverà  e,
    infine,  che  egli  ha in ogni caso tutti i mezzi per liberarsi da
    ulteriori seccature da parte vostra. Convenitene anche voi.  A che
    scopo,  ditemi,  continuare?  Il  generale,  poi,  vi  promette di
    riprendervi  senz'altro  in  casa  sua,   alla   prima   occasione
    favorevole,  e di pagarvi fino ad allora il vostro stipendio, 'vos
    appointements'. Tutto questo mi sembra abbastanza vantaggioso, non
    vi pare?"
    In tutta calma gli spiegai che si sbagliava alquanto; che,  forse,
    il  barone  non  mi  avrebbe  fatto scacciare ma,  al contrario mi
    avrebbe ascoltato,  e gli chiesi di confessare che egli era venuto
    per informarsi del modo con cui mi sarei preparato all'impresa.
    "Oh,  Dio mio,  se il generale si interessa tanto,  si capisce che
    gli farà piacere sapere che cosa farete e come. E' così naturale!"
    Cominciai  a  spiegarglielo,   e  lui  si   mise   ad   ascoltare,
    semisdraiato, con la testa un po' piegata verso la mia parte e con
    una   chiara,    malcelata   sfumatura   di   ironia   sul   viso.
    Complessivamente si comportava con grande  superbia.  Cercavo  con
    tutte  le mie forze di fingere che consideravo la cosa da un punto
    di vista molto serio. Gli spiegai che,  visto che il barone si era
    rivolto  al generale lamentandosi di me come se fossi un domestico
    del generale, in primo luogo con il suo gesto mi aveva privato del
    posto e in secondo luogo mi aveva trattato come persona che non  è
    in  condizione di rispondere di se stessa e con la quale non mette
    conto di parlare. Certo, era giusto che mi sentissi offeso;  però,
    tenendo conto della differenza di età,  della posizione in società
    eccetera eccetera (a  questo  punto  mi  trattenni  a  fatica  dal
    ridere),  non volevo macchiarmi di una nuova leggerezza,  ossia di
    richiedere direttamente soddisfazione al barone o  anche  soltanto
    di proporglielo.  Tuttavia mi ritenevo in pieno diritto di porgere
    a lui, e specialmente alla baronessa, le mie scuse;  tanto più che
    negli ultimi tempi mi sentivo realmente poco bene,  nervoso e, per
    così dire,  strano eccetera eccetera.  Ma il  barone  con  il  suo
    gesto, offensivo per me, di essersi rivolto al generale e di avere
    insistito perché il generale mi togliesse il posto, mi aveva messo
    in una tale situazione che ormai non potevo più presentare a lui e
    alla baronessa le mie scuse,  poiché lui,  la baronessa e tutto il
    mondo avrebbero certo pensato che ero andato a scusarmi per  paura
    e  per  riavere il posto.  Da tutto questo derivava che mi trovavo
    costretto a pregare il barone in primo luogo di  scusarsi  con  me
    nei termini più moderati, dicendo per esempio che non aveva voluto
    assolutamente offendermi.  E quando il barone avesse detto questo,
    allora io mi sarei sentite le mani libere e  con  tutta  sincerità
    gli  avrei  presentato  le  mie scuse.  "In una parola," conclusi,
    "pregherò soltanto il barone che mi sciolga le mani."
    "Ahimè,  che eccesso di scrupolo  e  che  raffinatezza!  E  perché
    dovrebbe  egli  scusarsi con voi?  Vorrete convenire,  monsieur...
    monsieur... che voi ideate tutto questo a bella posta per irritare
    il generale...  e forse avete qualche mira speciale...  'mon  cher
    monsieur,  pardon, j'ai oublié votre nom... monsieur Alexis? n'est
    ce pas?' (1)"
    "Ma permettete, 'mon cher marquis': a voi che cosa importa?"
    "Mais le général..."
    "Che cosa,  il generale?  Ieri sera accennava al  fatto  che  deve
    mantenersi  in una certa situazione...  ed era così preoccupato...
    ma io non ho capito niente."
    "Qui si verifica, in realtà,  una particolare circostanza" riprese
    De-Grieux  con  tono  di  preghiera nel quale affiorava sempre più
    l'irritazione. "Voi conoscete mademoiselle de Cominges?"
    "Volete dire mademoiselle Blanche?"
    "Sì, mademoiselle Blanche de Cominges...  et madame sa mère...  ne
    converrete anche voi,  il generale... in una parola, il generale è
    innamorato,  e può anche darsi che qui ci  sia  un  matrimonio.  E
    immaginatevi  che  intanto  ci  siano  questi  scandali  e  queste
    storie..."
    "Non  vedo  qui  né  scandali,   né  storie  che   riguardino   il
    matrimonio..."
    "Mais  le  baron  est  si irascible,  un caractère prussien,  vous
    savez, enfin il fera une querelle d'Allemand. (2)"
    "Ebbene,  la farà a me,  non a voi,  poiché io non appartengo  più
    alla  casa...  (A bella posta mi sforzavo di essere il più assurdo
    possibile.) Ma scusate,  è proprio deciso che mademoiselle Blanche
    sposi  il  generale?  Che  cosa  aspettano?  Voglio  dire,  perché
    nascondere la cosa anche a noi che siamo di casa?"
    "Io non posso...  del resto la cosa  non  è  ancora  del  tutto...
    Tuttavia... lo sapete, aspettano notizie dalla Russia: il generale
    deve sistemare i suoi affari..."
    "Ah, ah! la 'baboulinka!'"
    De-Grieux mi guardò con odio.
    "In una parola," disse, interrompendomi, "io spero vivamente nella
    vostra  innata  cortesia,  nella  vostra intelligenza,  nel vostro
    tatto...  voi,  sono certo,  lo farete per questa  famiglia  nella
    quale  siete  stato  accolto  come un parente,  siete stato amato,
    rispettato..."
    "Permettete, sono stato scacciato! Voi, ecco,  ora affermate che è
    stato  solo  per le apparenze: ma convenite che,  se vi dicessero:
    'Io,  certo,  non voglio tirarti le orecchie,  ma per le apparenze
    permetti che te le tiri...' è quasi la stessa cosa..."
    "Se  è così,  se nessuna preghiera influisce su di voi" cominciò a
    dire in tono severo  e  autoritario,  "allora  permettete  che  vi
    assicuri  che  saranno  prese  le necessarie misure.  Qui esistono
    delle autorità, vi manderanno via oggi stesso...  'que diable!  Un
    blanc-bec  comme  vous'  (3) vuole sfidare a duello un personaggio
    autorevole come  il  barone!  E  voi  pensate  che  vi  lasceranno
    tranquillo?  Credetemi,  nessuno  qui  ha paura di voi!  E se sono
    venuto a pregarvi,  l'idea è venuta da  me  perché  voi  rendevate
    inquieto  il  generale.  E'  mai  possibile,  è  mai possibile che
    pensiate che il barone non vi faccia semplicemente scacciare da un
    servo?"
    "Ma io non ci andrò personalmente;" risposi con molta  calma,  "vi
    sbagliate,  monsieur  De-Grieux;  tutto  avverrà in modo molto più
    decoroso di quanto non pensiate. Ora andrò subito da mister Astley
    e lo pregherò di essere il mio intermediario, in una parola,  'mon
    second'! Quest'uomo mi vuole bene e certamente non rifiuterà. Egli
    andrà  dal  barone,  e  il  barone  lo  riceverà.  Se  io  sono un
    'outchitel', qualcosa, pare, come un dipendente,  e,  in sostanza,
    senza difesa,  mister Astley,  invece,  è nipote di un lord, di un
    autentico lord (questo lo sanno tutti),  di lord  Peabroke,  e  il
    lord è qui.  Credetemi, il barone sarà gentile con mister Astley e
    lo ascolterà. E se non lo ascolterà,  mister Astley considererà la
    cosa  come  un'offesa  personale  (voi sapete che gli inglesi sono
    ostinati) e manderà al barone da parte sua  un  amico,  e  lui  ha
    degli  ottimi  amici.  Riflettete,  ora,  che  forse  le  cose non
    andranno come voi pensate."
    Il francese era decisamente impaurito:  in  realtà,  tutto  questo
    aveva  l'apparenza della verità e sembrava proprio che io fossi in
    grado di suscitare una questione.
    "Ma ve ne prego,"  cominciò  in  tono  addirittura  supplichevole,
    "lasciate  perdere tutto!  Si direbbe che vi faccia piacere che ne
    venga fuori uno scandalo! A voi non interessa la soddisfazione, ma
    lo scandalo!  Ho detto  che  tutto  questo  sarebbe  divertente  e
    spiritoso,  il che è,  a quanto pare,  ciò che voi desiderate, ma"
    concluse vedendo che io mi alzavo e prendevo  il  cappello,  "sono
    venuto   a  consegnarvi  due  parole  da  parte  di  una  persona:
    leggetele. Sono incaricato di aspettare la risposta."
    Detto questo, tirò fuori dalla tasca e mi consegnò un bigliettino,
    piegato e sigillato con un'ostia.
    Di mano di Polina c'era scritto:

    "Mi è sembrato che abbiate l'intenzione  di...  continuare  questa
    storia.  Vi  siete arrabbiato e cominciate a fare delle ragazzate.
    Ma qui  ci  sono  delle  circostanze  particolari  che,  forse  in
    seguito,   vi  spiegherò,  ma  voi,  ve  ne  prego,  smettetela  e
    calmatevi. Che cosa sono queste sciocchezze? Mi siete necessario e
    avete promesso di ubbidirmi. Ricordate lo Schlangenberg.  Vi prego
    di essere ubbidiente e, se serve, ve lo ordino.

    Vostra P.

    P.S.  Se  siete  in  collera  con me,  per quanto è accaduto ieri,
    perdonatemi."

    Quando ebbi letto quelle righe fu come  se  tutto  si  confondesse
    davanti  ai miei occhi.  Le labbra mi si sbiancarono e cominciai a
    tremare.  Il maledetto francese  mi  guardava  con  aria  umile  e
    distoglieva gli occhi da me come per non vedere il mio turbamento.
    Sarebbe stato meglio che mi avesse riso in faccia.
    "Bene"   risposi.   "Dite  a  mademoiselle  che  stia  tranquilla.
    Permettetemi però di domandarvi" aggiunsi in tono brusco,  "perché
    avete  aspettato  tanto  a  consegnarmi  il  biglietto.  Invece di
    parlare di sciocchezze,  mi pare che sarebbe stato  vostro  dovere
    cominciare  da  questo...  se veramente siete venuto con un simile
    incarico."
    "Oh, io volevo...  tutto l'insieme è così strano che voi scuserete
    la  mia  naturale  impazienza.  Avevo voglia di conoscere,  da voi
    personalmente, le vostre intenzioni.  Non so,  d'altra parte,  che
    cosa  ci  sia  nel  biglietto  e pensavo che sarei sempre stato in
    tempo a consegnarvelo."
    "Capisco.  Vi  è  stato  ordinato,   senza  tante  cerimonie,   di
    consegnarmelo solo in caso estremo e di non darmelo addirittura se
    vi riusciva di accomodare la faccenda a parole.  E' così?  Parlate
    francamente, De-Grieux!"
    "Peut-être!"  rispose,   assumendo   un'espressione   discreta   e
    rivolgendomi uno sguardo particolare.
    Io  presi il cappello;  egli fece un cenno con il capo e uscì.  Mi
    sembrò che sulle sue labbra balenasse un sorriso ironico.  E  come
    poteva essere diversamente?
    "Noi due, francesuccio, faremo ancora i conti, ci troveremo ancora
    di  fronte"  borbottavo,  scendendo  la  scala.  Non potevo ancora
    coordinare le idee,  come se avessi ricevuto un colpo sulla testa;
    ma l'aria fresca mi rianimò un poco.
    Due  minuti  dopo,  non  appena  cominciai a capire meglio,  mi si
    affacciarono nitidamente due pensieri: primo, che per tali inezie,
    per simili incredibili minacce da scolaretto dette  ieri  a  volo,
    era  nato  un così generale scompiglio;  secondo,  qual era mai il
    potere di quel francese su Polina.  Una sua  sola  parola,  e  lei
    faceva  tutto  quello  che  egli  voleva,  scriveva un biglietto e
    addirittura mi pregava. Certo,  i loro rapporti erano sempre stati
    per me un mistero da quando avevo cominciato a conoscerli; però in
    questi  ultimi  giorni avevo notato in lei una decisa avversione e
    persino del disprezzo verso il francese,  mentre egli  nemmeno  la
    guardava  ed era addirittura scortese.  Io l'avevo notato.  Polina
    stessa mi  aveva  parlato  di  avversione;  si  era  già  lasciata
    sfuggire  delle confessioni notevoli...  Significava semplicemente
    che egli la dominava e che la teneva, per così dire, in catene...


    NOTE.
    1) "Caro signore, scusate, ho dimenticato il vostro nome... signor
    Alexis, non è vero?"
    2) "Ma il barone è così  irritabile,  un  temperamento  prussiano,
    sapete, finirà col farne una questione dell'altro mondo!"
    3) "Che diavolo! Uno sbarbatello come voi!"











    8.

    Sulla  "promenade",  come  la  chiamano  qui,  ossia sul viale dei
    castagni, incontrai il mio inglese.
    "Oh! oh!" cominciò egli,  vedendomi,  "io venivo da voi,  e voi da
    me. Così, vi siete separato dai vostri?"
    "Ditemi,  prima  di  tutto,  come  voi  lo sapete," gli chiesi con
    stupore; "è possibile che la cosa sia già nota a tutti?"
    "Oh no!  Non a tutti,  e non vale neppure  la  pena  che  lo  sia.
    Nessuno ne parla."
    "E allora, come lo sapete?"
    "Lo  so,  cioè  ho  avuto  occasione di saperlo.  Ma adesso,  dove
    andate? Io vi voglio bene e per questo venivo da voi."
    "Siete proprio un'eccellente persona,  mister Astley,"  gli  dissi
    (ero rimasto veramente sorpreso: come l'aveva saputo?) "e,  poiché
    non ho ancora preso il caffè e voi,  probabilmente,  l'avete preso
    cattivo,  andiamo al caffè del Casinò, ci sediamo là, facciamo una
    fumatina  e  intanto  io  vi  racconterò  tutto...   e  voi   pure
    racconterete tutto a me..."
    Il caffè era a cento passi.
    Ci  servirono  subito,   ci  mettemmo  a  sedere,  io  accesi  una
    sigaretta, mister Astley non accese niente e,  con gli occhi fissi
    su di me, si preparò ad ascoltarmi.
    "Non andrò in nessun posto, resterò qui" cominciai a dire.
    "Ero  anch'io convinto che sareste rimasto" rispose mister Astley,
    in tono di approvazione.
    Andando da mister Astley,  non solo non avevo nessuna  intenzione,
    ma di proposito non volevo dirgli niente del mio amore per Polina.
    In  tutti quei giorni non gliene avevo quasi fatto parola.  Per di
    più egli era timidissimo.  Fin dalla prima volta  avevo  osservato
    che  Polina  gli aveva suscitato un'impressione straordinaria,  ma
    lui non pronunciava mai il suo nome. Ma,  cosa strana,  non appena
    fui  seduto  ed  egli  ebbe  puntato su di me il suo sguardo color
    dello stagno, mi venne improvvisamente voglia,  non so perché,  di
    raccontargli tutto, cioè tutto il mio amore in ogni sua sfumatura.
    Parlai  per una mezz'ora,  provando uno straordinario piacere: era
    la prima volta che toccavo quell'argomento!  Resomi conto  che  in
    certi punti particolarmente ardenti egli si turbava,  accrescevo a
    bella posta il calore del mio racconto.  Di una cosa mi pento:  di
    aver forse detto qualcosa di troppo sul francese...
    Mister  Astley  ascoltava,   seduto  di  fronte  a  me,  immobile,
    silenzioso e guardandomi  negli  occhi;  ma,  quando  cominciai  a
    parlare  del  francese,  mi  interruppe  improvvisamente e in tono
    severo mi chiese  se  avevo  il  diritto  di  accennare  a  quella
    circostanza  estranea.  Mister  Astley  faceva  le domande in modo
    molto strano.
    "Avete ragione: temo di no" risposi.
    "Di questo marchese e di miss Polina non  potete  dire  niente  di
    preciso, all'infuori di semplici supposizioni?"
    Di  nuovo mi meravigliai di una simile categorica domanda da parte
    di un uomo così timido come mister Astley.
    "No, niente di preciso" risposi. "Niente, naturalmente. Se le cose
    stanno così,  avete agito male,  non solo nel parlarne con me,  ma
    anche nell'averci pensato."
    "Bene, bene, lo ammetto. Ma adesso non si tratta di questo" dissi,
    interrompendolo e meravigliandomi dentro di me. A questo punto gli
    raccontai   tutta   la  storia  del  giorno  prima,   in  tutti  i
    particolari, la pensata di Polina, la mia avventura con il barone,
    il mio licenziamento, l'incredibile viltà del generale e,  infine,
    gli  esposi  dettagliatamente  la  visita  di  De-Grieux,  in ogni
    sfumatura; e, come conclusione, gli feci vedere il biglietto.
    "Che cosa ne deducete?" gli chiesi.  "Sono venuto da  voi  proprio
    per conoscere il vostro pensiero.  Per quello che mi riguarda,  mi
    sembra che  ucciderei  quel  francesino...  e  può  darsi  che  lo
    faccia."
    "Anch'io" disse mister Astley. "In quanto a miss Polina... sapete,
    noi  entriamo  a  volte  in rapporti anche con persone che ci sono
    odiose se a ciò ci obbliga la necessità.  In questo  caso  possono
    esserci  rapporti  a  voi sconosciuti che dipendono da circostanze
    estranee.  Io penso che possiate star  tranquillo;  in  parte,  si
    capisce.  In  quanto  al  suo modo di agire di ieri,  certo esso è
    strano,  e non perché lei abbia desiderato liberarsi di voi  e  vi
    abbia  spinto  sotto la mazza del barone (e non capisco perché non
    l'abbia usata,  dato che l'aveva tra le mani),  ma perché una tale
    pensata da parte di una così...  di una così eccellente miss non è
    corretta...  Certo lei  non  poteva  indovinare  che  voi  avreste
    eseguito alla lettera il suo buffo desiderio..."
    "Sapete  che  cosa?"  gridai a un tratto,  osservando attentamente
    mister Astley.  "Ho l'impressione che abbiate già sentito  parlare
    di tutto questo... e sapete da chi? Proprio da miss Polina!"
    Mister Astley mi guardò con stupore.
    "I  vostri  occhi mandano lampi,  e io leggo in essi il sospetto,"
    disse,  riprendendo subito la calma,  "ma voi non avete il  minimo
    diritto di manifestarlo.  Non posso riconoscervi questo diritto, e
    mi rifiuto nel modo  più  categorico  di  rispondere  alla  vostra
    domanda."
    "Ebbene,  basta!  Non  importa!" gridai,  agitandomi stranamente e
    senza capire come mai mi fosse  venuta  in  mente  quell'idea!  Ma
    quando,  dove,  in  che  modo  mister Astley avrebbe potuto essere
    scelto da Polina come uomo di fiducia?  Negli ultimi tempi,  anzi,
    avevo  perduto un po' di vista mister Astley,  e Polina era sempre
    stata per me un mistero,  un mistero a  tal  punto  che  ora,  per
    esempio,  preparatomi  a  raccontare tutta la storia del mio amore
    per lei ad Astley, all'improvviso, durante il racconto,  ero stato
    colpito dal fatto che non potevo dire quasi niente di preciso e di
    positivo sui miei rapporti con la fanciulla.  Al contrario,  tutto
    era fantastico, strano, infondato e persino inverosimile!
    "Sì,  va bene,  va bene;  sono confuso,  e molte cose non le posso
    ancora  considerare come si deve" risposi,  quasi ansimando.  "Del
    resto,  voi siete una brava persona.  Adesso c'è un'altra cosa: vi
    chiedo non il vostro consiglio, ma la vostra opinione."
    Tacqui un momento e cominciai:
    "Che  pensate  del  fatto che il generale si sia tanto spaventato?
    Perché dalla mia stupida monelleria tutti hanno tirato  fuori  una
    questione  tanto grossa,  grossa al punto che persino De-Grieux ha
    ritenuto indispensabile immischiarsene (e lui  si  immischia  solo
    nei  casi  più  importanti),  è  venuto  in  persona da me,  mi ha
    pregato, e supplicato... ha supplicato me, lui, De-Grieux? Infine,
    notate,  è venuto alle nove,  anzi un po' prima delle nove,  e  il
    biglietto  di  miss  Polina  era  già nelle sue mani.  Quando,  mi
    chiedo,  è stato scritto?  Forse hanno svegliato miss  Polina  per
    questo?  Inoltre,  proprio  da questo capisco che miss Polina è la
    sua schiava (poiché mi chiede persino perdono!) e, a parte questo,
    che c'entra lei,  personalmente,  in tutto questo?  Perché  se  ne
    interessa tanto?
    Come  mai  si  sono così spaventati di un barone qualsiasi?  E che
    cosa significa che  il  generale  sposa  mademoiselle  Blanche  de
    Cominges? Loro dicono che, in seguito a questa circostanza, devono
    tenere un contegno in un certo senso particolare,  ma ormai questo
    contegno è già un po' troppo particolare,  convenitene anche  voi!
    Che  ne  pensate?  Dal  vostro  sguardo  mi convinco che di questa
    faccenda ne sapete molto più di me!"
    Mister Astley sorrise e scosse la testa.
    "Effettivamente anche qui credo  di  saperne  molto  più  di  voi"
    disse.  "Qui tutta la faccenda riguarda solo mademoiselle Blanche,
    e io sono sicuro che questa è l'assoluta verità."
    "E allora,  mademoiselle Blanche?" gridai con impazienza  (mi  era
    balenata  all'improvviso  la  speranza che avrei scoperto qualcosa
    sul conto di Polina).
    "Mi pare che mademoiselle  Blanche  abbia  in  questo  momento  un
    particolare interesse a evitare in tutti i modi un incontro con il
    barone  e  con  la  baronessa,  tanto  più un incontro sgradito o,
    peggio ancora, uno scandalo."
    "Ebbene? Ebbene?"
    "Mademoiselle Blanche,  due anni fa,  è già stata qui,  durante la
    stagione,  a Roulettenburg.  E c'ero anch'io. Mademoiselle Blanche
    allora non si chiamava mademoiselle  de  Cominges,  e  sua  madre,
    madame  veuve  Cominges  allora  non  esisteva.  Almeno  non se ne
    parlava.  De-Grieux...  neppure De-Grieux c'era.  Ho  la  profonda
    convinzione  che  non  solo  essi  non siano parenti fra loro,  ma
    neppure  conoscenti  di  lunga  data.  Marchese,  De-Grieux  lo  è
    diventato  recentemente,  e di questo sono certo a causa una certa
    circostanza.  Si può  persino  supporre  che  abbia  cominciato  a
    chiamarsi  De-Grieux  da  poco tempo.  Conosco qui una persona che
    l'ha incontrato anche sotto un altro nome."
    "Ma ha realmente una cerchia di conoscenze serie?"
    "Oh,  può darsi.  Persino mademoiselle Blanche può averla.  Ma due
    anni  fa  mademoiselle  Blanche,  su  richiesta  di  questa stessa
    baronessa,  ricevette dalla polizia locale l'invito di lasciare la
    città, e la lasciò."
    "Come mai?"
    "Ella  era allora comparsa qui prima con un italiano,  un principe
    dal nome storico, un nome come Barberini o un qualcosa del genere.
    Un uomo tutto anelli e brillanti,  e nemmeno  falsi.  Andavano  in
    giro  in  una splendida carrozza.  Mademoiselle Blanche giocava al
    'trente et quarante,' all'inizio con fortuna,  poi la buona  sorte
    le girò le spalle.  Me lo ricordo, e ricordo che una sera perdette
    una somma enorme.  Ma il peggio fu che  'un  beau  matin'  il  suo
    principe scomparve,  non si sa dove; e scomparvero con lui cavalli
    e carrozza;  scomparve tutto.  Il debito in  albergo  era  enorme.
    Mademoiselle  Zelma  (da Barberini si era improvvisamente cambiata
    in mademoiselle Zelma) era all'estremo limite della  disperazione.
    Piangeva  e  strillava  così  forte  da  farsi  sentire  per tutto
    l'albergo e nella furia si  strappava  persino  i  vestiti.  C'era
    allora  ospite nell'albergo un conte polacco (tutti i polacchi che
    viaggiano sono conti),  e mademoiselle Zelma che si  strappava  le
    vesti  e si graffiava come una gatta il viso con le sue bellissime
    mani  profumate,   produsse  su  di  lui  una  certa  impressione.
    Scambiarono  qualche parola e a pranzo lei appariva già consolata.
    La sera egli arrivò al Casinò a braccetto  con  lei.  Mademoiselle
    Zelma  rideva  forte,  secondo  la  sua  abitudine,  e nel modo di
    comportarsi sembrava sicura e disinvolta.  Era  ormai  entrata  in
    quella  categoria di signore che giocano alla roulette,  le quali,
    avvicinandosi al tavolo,  spingono a  spallate  un  giocatore  per
    prendergli il posto.  E' un particolare chic di queste signore. Le
    avrete certamente notate."
    "Oh, sì!"
    "Non merita neppure notarle. A dispetto del pubblico perbene, esse
    sono inestirpabili,  almeno quelle tra di  loro  che  ogni  giorno
    cambiano al tavolo da giuoco biglietti da mille franchi. Però, non
    appena   smettono   di   cambiar   biglietti,   sono   pregate  di
    allontanarsi. Mademoiselle Zelma continuò ancora a cambiare: ma il
    suo giuoco era sempre più sfortunato.  Notate che  queste  signore
    molto   spesso   giocano  con  fortuna:  hanno  una  straordinaria
    padronanza di sé.  Ma la mia storia è  finita...  Un  bel  giorno,
    proprio come il principe, sparì anche il conte. Mademoiselle Zelma
    si presentò a giocare la sera da sola;  ma quella volta nessuno le
    offrì il braccio.  In due giorni perdette tutto,  definitivamente.
    Puntato  e perduto l'ultimo luigi d'oro,  essa si guardò attorno e
    vide accanto a sé il barone  Wurmerhelm  che  la  osservava  molto
    attentamente  e con profonda indignazione.  Mademoiselle Zelma non
    vide l'indignazione e,  rivolgendosi al barone con il suo ben noto
    sorriso,  lo pregò di puntare per lei dieci luigi d'oro sul rosso.
    In seguito a questo,  su denuncia della baronessa lei ricevette la
    sera  stessa  l'invito  a  non  farsi più vedere al Casinò.  Se vi
    meravigliate che io  sappia  tutti  questi  piccoli  e  del  tutto
    sconvenienti  particolari  è  perché  li  ho sentiti raccontare da
    mister Feeder,  un mio parente,  che quella sera stessa accompagnò
    nella sua carrozza mademoiselle Zelma da Roulettenburg a Spa.  Ora
    capite:   mademoiselle   Blanche    vuole    essere    generalessa
    probabilmente  per  non  ricevere  più inviti del genere di quello
    ricevuto due anni addietro dalla polizia del  Casinò.  Adesso  non
    giuoca più perché possiede,  a quanto pare, un capitale che presta
    ai giocatori di qui, a interesse.  Questo è molto più conveniente.
    Io  ho persino il sospetto che anche quel disgraziato generale sia
    suo debitore.  E che forse lo sia anche De-Grieux,  oppure che De-
    Grieux  sia in società con lei.  Converrete anche voi che,  almeno
    fino al giorno del  matrimonio,  lei  non  vorrà  in  nessun  modo
    attirare sopra di sé l'attenzione del barone e della baronessa. In
    poche parole,  nella condizione in cui si trova, uno scandalo è la
    cosa che meno le converrebbe.  Voi,  poi,  siete legato alla  loro
    casa,  e  le  vostre  azioni  potrebbero veramente far nascere uno
    scandalo,  tanto più che lei compare ogni giorno  in  pubblico  al
    braccio del generale o con miss Polina. Capite ora?"
    "No, non capisco!" gridai, battendo sul tavolo con tanta forza che
    il cameriere arrivò spaventato.
    "Dite,  mister  Astley"  ripetei  furibondo,  "se  voi  eravate al
    corrente di tutta questa storia e di conseguenza sapete a  memoria
    chi  sia  questa  mademoiselle  Blanche de Cominges,  come mai non
    avete avvertito almeno me, il generale e, soprattutto, miss Polina
    che si faceva vedere qui al Casinò,  in pubblico,  sotto braccio a
    mademoiselle Blanche? E' possibile?"
    "Avvertire  voi  sarebbe  stato  inutile perché non potevate farci
    niente" rispose con calma mister Astley. "E, del resto,  avvertire
    di che cosa?  Il generale probabilmente sa di mademoiselle Blanche
    più di quanto ne so io e tuttavia va a passeggio  con  lei  e  con
    miss  Polina.  Il  generale  è  un  disgraziato.  Ho  veduto  ieri
    mademoiselle Blanche che galoppava su  un  bellissimo  cavallo  in
    compagnia  di monsieur De-Grieux e di quel piccolo principe russo,
    e il generale che galoppava loro dietro su un  cavallo  sauro.  Al
    mattino  aveva  detto  che  gli facevano male le gambe,  ma la sua
    posizione in sella era buona.  E proprio  in  quel  momento  mi  è
    venuto   all'improvviso   in   mente   che   quello  era  un  uomo
    definitivamente rovinato. Per di più, tutto questo non mi riguarda
    e solo da poco tempo ho avuto l'onore di conoscere miss Polina. Ma
    del resto (si riprese di colpo mister Astley), vi ho già detto che
    non posso ammettere che abbiate  diritto  a  fare  certe  domande,
    sebbene vi sia sinceramente affezionato..."
    "Basta" dissi, alzandomi, "ora mi è chiaro come il giorno che miss
    Polina  è  al  corrente  di  tutto  quanto  riguarda  mademoiselle
    Blanche,  ma che non può  staccarsi  dal  suo  francese  e  perciò
    acconsente  ad  andare  in giro con lei.  Credetemi,  nessun'altra
    forza l'avrebbe  indotta  a  passeggiare  con  miss  Blanche  e  a
    supplicarmi  nel biglietto di non toccare il barone.  Deve proprio
    trattarsi di quella suggestione davanti alla quale  ogni  cosa  si
    inchina!  E  tuttavia  fu  lei  a  spingermi contro il barone.  Il
    diavolo mi porti se ci si capisce qualcosa!"
    "Voi  dimenticate  prima  di  tutto  che  questa  mademoiselle  de
    Cominges  è  la fidanzata del generale e in secondo luogo che miss
    Polina, figliastra del generale, ha un fratellino e una sorellina,
    veri figli del generale,  ormai completamente abbandonati da  quel
    pazzo e, sembra, anche da lui rovinati."
    "Sì,  sì...  è così!  Lasciare quei bambini significa abbandonarli
    del tutto,  restare significa difendere i loro interessi  e  forse
    anche salvare qualche briciolo della proprietà.  Sì,  sì...  tutto
    ciò è vero!  Ma però,  però!  Oh,  capisco perché adesso tutti  si
    interessano tanto della 'baboulinka!'"
    "Di chi?" chiese mister Astley.
    "Di  quella vecchia strega di Mosca che non si decide a morire e a
    proposito della quale sono tutti  in  attesa  del  telegramma  che
    annunci che sta per andarsene all'altro mondo."
    "Ma sì, certo, tutto l'interesse si è concentrato su di lei. Tutto
    dipende dall'eredità. Quando l'eredità sarà sicura, il generale si
    sposerà; miss Polina sarà libera e De-Grieux..."
    "Ebbene, e De-Grieux?"
    "A  De-Grieux  verrà  pagato  il debito: egli qui aspetta soltanto
    questo."
    "Soltanto? Voi credete che aspetti soltanto questo?"
    "Io non so altro" e mister Astley tacque ostinatamente.
    "Io, invece, lo so, lo so!" ripetei con rabbia. "Aspetta anche lui
    l'eredità perché Polina riceverà la dote  e,  non  appena  avrà  i
    denari,  gli  si getterà al collo.  Tutte le donne sono uguali!  E
    sono proprio le più orgogliose che  si  rivelano  le  schiave  più
    umili! Polina è capace soltanto di amare appassionatamente: niente
    altro! Questa è la mia opinione su di lei. Osservate, specialmente
    quando è sola, soprappensiero: ha qualche cosa di predestinato, di
    fatale, di maledetto! Essa è portata a tutti gli orrori della vita
    e  della  passione...  essa...  essa...  Ma  chi è che mi chiama?"
    esclamai a un tratto.  "Chi grida?  Ho sentito gridare  in  russo:
    "Alekséj Ivànovitch!" Una voce di donna, ascoltate, ascoltate!"
    Intanto  ci  stavamo avvicinando all'albergo.  Da un pezzo,  quasi
    senza accorgercene, avevamo lasciato il caffè.
    "Ho sentito delle grida di donna,  ma non so chi fosse a chiamare,
    parlava russo.  Ora vedo da dove arriva la voce," mi indicò mister
    Astley,  "chi grida è quella donna che sta seduta  in  una  grande
    poltrona  che  alcuni domestici hanno portato ora sulla scalinata.
    Le portano dietro le valigie,  segno  che  è  appena  arrivato  il
    treno."
    "Ma perché chiamare me?  Ecco che ricomincia a gridare.  Guardate,
    ci fa dei segni..."
    "Vedo, sì, che fa dei segni" rispose mister Astley.
    "Alekséj Ivànovitch! Alekséj Ivànovitch! Ah, Signore, che razza di
    tontolone!" si  sentiva  gridare  disperatamente  dalla  scalinata
    dell'albergo.
    Raggiungemmo  quasi di corsa la scalinata.  Salii sul ripiano e...
    le braccia mi caddero dallo stupore, e i piedi rimasero inchiodati
    a terra!











    9.

    Sul  pianerottolo  superiore  dell'alta  scalinata   dell'albergo,
    portata  su  per  i  gradini  in  una  poltrona  e  circondata  da
    servitori,   cameriere  e  dal  numeroso,   ossequiente  personale
    dell'albergo, alla presenza del capo cameriere in persona uscito a
    incontrare  l'illustre  ospite  arrivata  con  tanto  trambusto  e
    fracasso,  con la sua servitù particolare e una gran  quantità  di
    bauli e di valigie,  troneggiava... la nonna! Sì, era proprio lei,
    la terribile,  ricchissima settantacinquenne  Antonida  Vassìlevna
    Tarassevitcheva,   proprietaria  e  gran  signora  moscovita,   la
    'baboulinka,' sul conto della quale si spedivano e  si  ricevevano
    telegrammi;  era  quella vecchia sempre sul punto di morire ma che
    non moriva mai e che, d'improvviso, era piombata in persona tra di
    noi, come una tegola sulla testa. Era apparsa,  benché senza l'uso
    delle  gambe  e  portata  come  sempre negli ultimi cinque anni in
    poltrona, ardita, battagliera,  contenta di sé,  eretta sul busto,
    come  suo  solito,  gridando  forte e imperiosamente,  rampognando
    tutti, proprio come io avevo avuto l'onore di vederla due volte da
    quando  ero  entrato  come  precettore  in  casa   del   generale.
    Naturalmente  rimasi  davanti a lei come impietrito dallo stupore.
    Già a cento passi di distanza,  mentre la portavano  dentro  sulla
    poltrona,  lei mi aveva visto con il suo occhio di lince, mi aveva
    riconosciuto e mi chiamava con il nome e con  il  patronimico  che
    lei,  com'era sua abitudine,  aveva imparato una volta per sempre.
    "E proprio lei si aspettavano di vedere  chiusa  nella  bara  dopo
    aver  lasciato  l'eredità?" mi passò a volo nella mente.  "Lei che
    vivrà più a lungo di noi e di tutto l'albergo!  Mio  Dio,  ma  che
    succederà  ora  ai  nostri,  che  succederà  al generale?  Quella,
    adesso, metterà sottosopra tutto!"
    "Dunque,  bàtiushka,  perché te ne stai lì impalato con gli  occhi
    sbarrati?"  continuava  a  gridare  la nonna.  "Salutare,  dare il
    benvenuto non sai,  eh?  O ti dai delle arie  e  non  vuoi  farlo?
    Senti,  Potapytch," disse rivolta a un vecchietto canuto in frac e
    cravatta bianca con una rosea calvizie,  il  suo  maggiordomo  che
    l'accompagnava nel viaggio,  "senti,  non mi riconosce! Mi avevano
    già seppellita!  Mandavano un telegramma dietro l'altro: è morta o
    non  è  morta?  So  tutto!  E  io,  invece,  vedi...  sono qui,  e
    vivissima."
    "Ma scusate,  Antonida Vassìlevna,  perché dovrei desiderarvi  del
    male?"  le risposi allegramente,  riavendomi dallo stupore.  "Sono
    rimasto semplicemente sorpreso...  e come potevo non esserlo...  è
    un avvenimento così inatteso..."
    "E che c'è da meravigliarsi?  Sono salita in treno e sono partita.
    In treno  si  sta  bene,  non  ci  sono  scossoni.  Eri  andato  a
    passeggio?"
    "Sì, ero andato a far due passi verso il Casinò."
    "Qui è bello" disse la nonna,  guardandosi intorno.  "Fa caldo,  e
    gli alberi sono coperti di foglie.  Mi piace!  I  nostri  sono  in
    casa? E il generale?"
    "Oh sì, sono in casa; a quest'ora sono certamente tutti in casa."
    "Anche qui hanno le loro ore fisse e tutte le altre cerimonie?  Si
    danno molte arie.  E hanno la  carrozza,  ho  sentito  dire,  'les
    seigneurs russes'! Hanno sperperato tutto e poi, via all'estero! E
    Praskòvja è con loro?"
    "Sì, Polina Aleksàndrovna è con loro."
    "E  anche il francesino?  Bene,  ma li vedrò tutti da me,  Alekséj
    Ivànovitch;  indicami la strada per andare direttamente da lui.  E
    tu, ti trovi bene, qui?"
    "Così così, Antonida Vassìlevna."
    "Tu,  Potapytch,  di' a questo babbeo di cameriere che mi diano un
    appartamento comodo,  grazioso,  non in alto,  e  fa'  trasportare
    subito i bagagli.  Ma perché tutti vogliono portarmi? Perché tanti
    strisciamenti?  Che  schiavi!  E  chi  c'è  lì  con  te?"  chiese,
    rivolgendosi di nuovo a me.
    "E' mister Astley" risposi.
    "Quale mister Astley?"
    "Un  viaggiatore,  una  mia  buona  conoscenza;  conosce  anche il
    generale."
    "Un inglese.  Ecco perché mi guarda fisso e a denti  stretti.  Del
    resto,   gli  inglesi  mi  piacciono.   Su,   portatemi  di  sopra
    direttamente al loro appartamento; dove si trova?"
    Portarono  su  la  nonna;   io  precedevo  per   l'ampio   scalone
    dell'albergo.  Il nostro corteo faceva molto effetto. Tutti quelli
    con i quali ci imbattevamo, si fermavano e ci guardavano con tanto
    d'occhi. Il nostro albergo è considerato il migliore,  il più caro
    e  il  più  aristocratico  qui alle acque.  Per le scale e lungo i
    corridoi  si  incontrano  sempre  dame  elegantissime  e   inglesi
    dall'aspetto imponente. Molti chiedevano informazioni giù, al capo
    cameriere,  il  quale,  a  sua  volta,  era rimasto assai colpito.
    Naturalmente, a tutti quelli che lo interrogavano, egli rispondeva
    che si trattava di una straniera importante,  di 'une  russe,  une
    comtesse,   grande   dame,'   che   avrebbe   occupato  lo  stesso
    appartamento occupato la settimana prima dalla grande 'duchesse de
    N.' L'aspetto autoritario e imperioso della nonna,  trasportata in
    poltrona,  faceva un grande effetto. Ogni volta che incontrava una
    persona nuova,  la misurava subito con uno sguardo curioso,  e  di
    ognuna  mi  chiedeva  informazioni  ad alta voce.  La nonna era di
    costituzione robusta e, sebbene non si alzasse dalla poltrona,  si
    capiva,  guardandola,  che doveva essere di alta statura. Aveva la
    schiena diritta come un'asse e non si appoggiava  alla  spalliera.
    La  sua  grossa  testa  dai capelli bianchi,  dai tratti marcati e
    forti, stava eretta;  guardava in maniera quasi insolente con aria
    di  sfida;  e  si  vedeva  che sguardo e gesti erano perfettamente
    naturali.  Nonostante i suoi settantacinque anni,  aveva  un  viso
    abbastanza  fresco,   e  anche  i  denti  erano  ancora  in  buone
    condizioni.  Indossava un abito di seta nera e aveva in testa  una
    cuffietta bianca.
    "Quella  donna mi interessa moltissimo" mi sussurrò mister Astley,
    salendo con me.
    "Lei è al corrente dei  telegrammi"  pensai.  "Conosce  anche  De-
    Grieux,  ma  sembra  conoscere  ancor  poco mademoiselle Blanche."
    Subito lo comunicai a mister Astley.
    Che peccatore sono mai!  Non appena passato il  primo  momento  di
    stupore,  mi rallegrai moltissimo per il fulmine a ciel sereno che
    stava per colpire il generale.  Era come se qualcosa mi eccitasse,
    e camminavo davanti a tutti con straordinaria allegria.
    I  nostri alloggiavano al terzo piano;  io non annunciai nessuno e
    neppure bussai;  semplicemente spalancai la porta,  e la nonna  fu
    portata dentro in trionfo.  Nemmeno a farlo apposta,  si trovavano
    tutti riuniti nello studio del generale. Erano le dodici e stavano
    progettando,  sembra,  una gita,  un po' in  comitiva,  un  po'  a
    cavallo;  c'erano  anche degli invitati loro conoscenti.  Oltre al
    generale e a Polina con i bambini e  le  loro  bambinaie,  c'erano
    nello   studio:  De-Grieux,   mademoiselle  Blanche,   vestita  da
    amazzone,  sua madre madame veuve Cominges,  il piccolo principe e
    anche  un  certo dotto viaggiatore,  un tedesco che vedevo da loro
    per  la  prima  volta.   La  poltrona  della  nonna   fu   portata
    direttamente nel bel mezzo dello studio, a tre passi dal generale.
    Mio  Dio,  non  dimenticherò mai quell'impressione!  Prima che noi
    entrassimo, il generale stava raccontando qualcosa, e De-Grieux lo
    contraddiceva. Bisogna notare che mademoiselle Blanche e De-Grieux
    già da due o tre giorni,  non so  perché,  facevano  la  corte  al
    piccolo  principe 'à la barbe du pauvre général';  e la compagnia,
    anche se un po' artificiosamente,  sembrava  di  umore  allegro  e
    gioiosamente  familiare.  Vedendo la nonna,  il generale rimase di
    stucco,  spalancò la bocca e si fermò a metà  di  una  parola.  Mi
    fissò  con  gli  occhi sbarrati come incantato dallo sguardo di un
    basilisco. Anche la nonna lo guardava in silenzio, immobile...  ma
    che  sguardo  trionfatore,  provocante  e  ironico era il suo!  Si
    fissarono così, per almeno dieci secondi, tra il profondo silenzio
    di  tutti  i  presenti.   De-Grieux  sulle   prime   era   rimasto
    pietrificato,   ma   ben  presto  una  inquietudine  straordinaria
    comparve sul suo viso.  Mademoiselle Blanche con  le  sopracciglia
    sollevate e la bocca aperta, guardava la nonna con aria strana. Il
    principe  e  lo  scienziato  osservavano  la scena,  profondamente
    perplessi.  Gli occhi di Polina espressero un enorme stupore,  e a
    un tratto si fece pallida come un cencio; dopo un attimo, però, il
    sangue  le  risalì  al  viso  e le inondò le guance.  Sì,  era una
    catastrofe per tutti!  Io non facevo altro  che  spostare  il  mio
    sguardo dalla nonna a tutti i presenti, e viceversa. Mister Astley
    se ne stava in disparte, calmo e dignitoso come sempre.
    "Dunque,  eccomi  qui  invece del telegramma!" disse finalmente la
    nonna, interrompendo il silenzio. "Non mi aspettavate, eh?"
    "Antonida  Vassìlevna...  zia...   ma  in  che  modo..."  balbettò
    l'infelice generale. Se la nonna avesse continuato a tacere ancora
    per qualche secondo, forse gli sarebbe venuto un colpo.
    "Come,  in che modo?  Sono salita sul treno e sono partita. Che ci
    sta a fare la ferrovia?  Voi tutti pensavate che io avessi  tirato
    le  cuoia  e vi avessi lasciato l'eredità?  So benissimo che tu da
    qui spedivi telegrammi.  E credo che  avrai  speso  parecchio  per
    farlo... Non costano certo poco. E io, invece, gambe in spalla, ed
    eccomi  qui.  E'  questo quel tal francese?  Monsieur De-Grieux mi
    sembra."
    "Oui,  madame" rispose De-Grieux "croyez,  je suis si  enchanté...
    votre  santé...  c'est un miracle...  vous voir ici,  une surprise
    charmante...(1)"
    "Già, già, 'charmante:' ti conosco, buffone, e non ti credo, ecco,
    neanche tanto così!" e gli mostrò il dito mignolo "E  questa,  chi
    è?"   esclamò   rivolgendosi  e  indicando  mademoiselle  Blanche.
    L'eccentrica francese,  vestita da amazzone,  con il  frustino  in
    mano, l'aveva evidentemente colpita. "E' di qui?"
    "E' mademoiselle Blanche de Cominges, e questa è sua madre, madame
    de Cominges; abitano in questo albergo" riferii io.
    "E'  sposata  la  figlia?"  chiese  la  nonna,  senza  fare  tanti
    complimenti.
    "Mademoiselle  de  Cominges  è  nubile"  risposi  nel   modo   più
    rispettoso e, a bella posta, a mezza voce.
    "E' allegra?"
    Non capii subito la domanda.
    "Non  ci  si  annoia  con lei?  Capisce il russo?  De-Grieux,  per
    esempio, da noi,  a Mosca,  era riuscito a dire malamente qualcosa
    nella nostra lingua."
    Le  spiegai che mademoiselle Blanche de Cominges non era mai stata
    in Russia.
    "Bonjour!" disse la nonna,  volgendosi all'improvviso  bruscamente
    verso mademoiselle Blanche.
    "Bonjour,  madame"  rispose  mademoiselle  Blanche  con un inchino
    cerimonioso ed elegante,  affrettandosi,  sotto l'apparenza di una
    straordinaria modestia e cortesia,  a dimostrare con l'espressione
    del viso e di tutta la persona il suo stupore per una così  strana
    domanda e un così strano comportamento.
    "Oh,  ha  abbassato gli occhi,  fa smancerie e cerimonie;  si vede
    subito che tipo è: una qualche attrice.  Io,  qui all'albergo,  mi
    sono  fermata giù" disse a un tratto,  rivolta al generale.  "Sarò
    tua vicina: sei contento o no?"
    "Oh, zia! Credete ai sentimenti sinceri...  della mia contentezza"
    rispose il generale.  Si era in parte ripreso e poiché,  quand'era
    il caso, sapeva parlare bene, gravemente e con pretesa di un certo
    effetto,  cominciava a  dilungarsi  anche  adesso.  "Eravamo  così
    inquieti  e  preoccupati  per  le  notizie  della vostra salute...
    Abbiamo ricevuto dei telegrammi così disperati,  ed ecco che a  un
    tratto..."
    "Frottole, frottole!" lo interruppe la nonna.
    "Ma  come  mai,"  interruppe  a  sua  volta,  alzando la voce,  il
    generale che si era sforzato di non notare quel  'frottole',  come
    mai  vi  siete decisa a un simile viaggio?  Sarete d'accordo anche
    voi che alla vostra età e nelle vostre condizioni di  salute...  è
    per lo meno una cosa così inattesa...  che rende ben comprensibile
    il nostro stupore.  Ma io sono così contento...  e  noi  tutti  (e
    cominciò   a  sorridere  di  un  sorriso  entusiastico  e  tenero)
    cercheremo con tutte le nostre forze di rendervi questo  soggiorno
    il più possibile piacevole..."
    "Be',  basta  adesso;  tutte  chiacchiere inutili.  Secondo il tuo
    solito hai cominciato a dire delle stupidaggini.  So benissimo  io
    come passare il tempo.  Del resto non starò lontana da voi: io non
    porto rancore. Come mai, vuoi sapere? Ma che c'è da meravigliarsi?
    Nel più  semplice  dei  modi.  E  perché  tutti  si  meravigliano?
    Buongiorno, Praskòvja. Che fai qui?"
    "Buongiorno, nonna" rispose Polina, avvicinandosi a lei. "Siete in
    viaggio da molto?"
    "Ecco,  questa  è la domanda più intelligente di tutte,  invece di
    tanti 'ah!  ah!'.  Ecco,  senti: dopo essere stata a letto un  bel
    po', ed essermi curata e curata... ho finito con il cacciare via i
    dottori  e  ho  fatto  venire il sacrestano di San Nicola.  Quello
    aveva guarito una donnetta  dalla  mia  stessa  malattia,  con  un
    tritume  di  fieno.  Ebbene,  ha  fatto  bene anche a me: dopo due
    giorni feci una gran sudata e mi alzai dal letto. Poi si riunirono
    di  nuovo  i  miei  tedeschi  e,  inforcati  gli  occhiali,  hanno
    cominciato  a sputar sentenze: "Se voi ora" hanno detto,  "andaste
    all'estero,   alle  acque,   a  fare   la   cura,   gli   ingorghi
    scomparirebbero definitivamente".  "E perché no?" mi sono chiesta.
    E quegli stupidi intriganti eccoli a frignare:  "Ma  come  potrete
    arrivarci?" Figuriamoci!  In un giorno mi sono preparata e venerdì
    della settimana scorsa ho preso con me una ragazza,  Potapytch,  e
    il  domestico  Fëdor;  ma questo Fëdor,  a Berlino,  l'ho cacciato
    perché ho visto che non avevo affatto bisogno di lui e  che  anche
    sola   soletta   sarei   arrivata...   Prendo  uno  scompartimento
    riservato, e in tutte le stazioni ci sono facchini che,  per venti
    copeche,  ti  portano  dove  vuoi.  Ma che po' po' di appartamento
    occupate!" concluse,  guardandosi attorno.  "E con  quale  denaro,
    bàtjushka?  Hai tutto ipotecato...  Soltanto con questo francesino
    che debito hai? Perché io, vedi, so tutto, so tutto!"
    "Io,  zietta..." prese a dire il generale tutto  confuso,  "io  mi
    meraviglio,  zietta... Io penso di poter fare a meno del controllo
    di chiunque...  e poi le spese non superano le mie  possibilità  e
    noi qui..."
    "Non superano le tue possibilità,  hai detto?  Ma allora i bambini
    li hai spogliati di tutto quello che avevano, eh, tutore?"
    "Dopo di questo...  dopo simili parole..." cominciò il generale in
    tono indignato "io non so più..."
    "Non sai,  non sai!  Immagino che qui non ti sarai mai allontanato
    dalla roulette! Hai fatto bancarotta?"
    Il generale era così sbalordito che per poco non rimase  soffocato
    dall'impeto della sua indignazione.
    "Alla  roulette!  Io,  con  la  mia  posizione?  Io?  Ma,  zietta,
    ritornate in voi... forse non vi sentite ancora bene..."
    "Frottole, frottole! Immagino che non riusciranno a distaccartene!
    Io sì, che andrò a vedere che cos'è questa roulette, ci andrò oggi
    stesso. Tu, Praskòvja, dimmi che cosa c'è qui da visitare, Alekséj
    Ivànovitch ci darà qualche  indicazione  e  tu,  Potapytch,  segna
    tutti i posti dove dobbiamo andare.  Che cosa c'è da vedere, qui?"
    chiese a un tratto, rivolgendosi di nuovo a Polina.
    "Qui vicino ci sono le  rovine  di  un  castello,  e  poi  c'è  lo
    Schlangenberg."
    "Che cos'è questo Schlangenberg? Un boschetto, o che altro?"
    "No, non un boschetto, ma una montagna; c'è una 'pointe...'"
    "Che cos'è questa 'puànt??"
    "Il  punto più alto della montagna,  un posto recintato.  Da lassù
    c'è un panorama stupendo..."
    "E si potrà trascinare la poltrona fin là?  Riusciranno a  tirarla
    su, o no?"
    "Be', si possono trovare dei portatori" risposi io.
    In quel momento si avvicinò,  per salutare la nonna,  Fedòssja, la
    bambinaia, che portava i bambini del generale.
    "Su, su, niente sbaciucchiamenti!  Non mi piace baciare i bambini:
    sono tutti mocciosi. E tu, come ti trovi qui, Fedòssja?"
    "Qui ci sto bene, molto, molto bene, màtushka Antonida Vassìlevna"
    rispose Fedòssja. "E voi come state, màtushka? Siamo rimasti tanto
    in pena per voi!"
    "Lo so, tu sei un'anima semplice. E chi sono tutti questi? Ospiti,
    forse?"  chiese,  rivolgendosi  di  nuovo  a  Polina.  "Chi è quel
    mingherlino con gli occhiali?"
    "E' il principe Nilskij, nonna" le sussurrò Polina.
    "Ah,  è un russo?  E io credevo che non capisse.  Ma forse non  ha
    sentito.  Mister Astley l'ho già visto. Ma eccolo di nuovo qui" lo
    scorse   la   nonna.   "Buongiorno!"   lo   salutò,   rivolgendosi
    improvvisamente verso di lui.
    Mister Astley si inchinò in silenzio.
    "Ebbene,  che mi dite di bello?  Raccontatemi qualcosa...  Polina,
    traducigli quello che dico..."
    Polina tradusse.
    "Dico che vi vedo con molto piacere e mi  rallegro  che  siate  in
    buona  salute"  rispose  mister  Astley  in tono serio e con molta
    prontezza.   Queste  parole  furono   tradotte   alla   nonna   e,
    evidentemente, le piacquero.
    "Come  sanno rispondere sempre bene gli Inglesi" osservò.  "Non so
    perché,  ma mi sono sempre  piaciuti;  non  c'è  confronto  con  i
    Francesi! Venite a trovarmi" disse, rivolgendosi di nuovo a mister
    Astley.  "Cercherò  di  non darvi troppa noia.  Traduci Polina,  e
    digli che io sto qui sotto,  qui sotto...  sentite?  qui  sotto...
    sentite" ripeté a mister Astley, accennando con il dito in giù.
    Mister Astley fu molto contento dell'invito.
    La  nonna  esaminò  Polina  dalla  testa  ai piedi con uno sguardo
    attento e soddisfatto:
    "Tu mi piaceresti, Praskòvja" disse all'improvviso, "sei un'ottima
    ragazza,  la migliore di tutti,  ma hai un  carattere  che...  uh!
    Anch'io,  però,  ho  un caratterino...  Girati un po': non hai per
    caso una treccia finta nei capelli?"
    "No, nonna, sono capelli miei."
    "Bene,  bene...  non mi piace la sciocca moda di  oggigiorno.  Sei
    molto  bella.  Se  fossi un uomo mi innamorerei di te.  Perché non
    prendi marito?  Ma adesso è ora che me ne vada.  Ho voglia di fare
    una passeggiata dopo tanto treno, sempre treno... E tu, sei ancora
    arrabbiato?" disse, rivolta al generale.
    "Ma  figuratevi,  zietta,  non  ci  pensate  neppure!"  rispose il
    generale, riprendendosi. "Capisco, alla vostra età..."
    "Cette vieille est tombée en enfance!" (2) mi sussurrò De-Grieux.
    "Ecco,   ora  qui  voglio  vedere  tutto.   Mi  cederesti  Alekséj
    Ivànovitch?" continuò, rivolta al generale.
    "Oh,  sì,  quanto volete...  ma anch'io... e Polina e monsieur De-
    Grieux...   tutti  noi,   insomma,   ci  faremo  un   piacere   di
    accompagnarvi".
    "Mais,  madame,  cela  sera  un  plaisir"  disse  De-Grieux con un
    incantevole sorriso.
    "Già, già 'plaisir'... Sei buffo, bàtjushka. Denaro, però,  non te
    ne darò" aggiunse all'improvviso,  rivolta al generale.  "E adesso
    voglio scendere nel mio appartamento: voglio dargli un'occhiata  e
    poi andremo dappertutto. Su, sollevatemi!"
    Sollevarono  di  nuovo  la nonna e tutti si avviarono in folla giù
    per le scale,  al seguito della poltrona.  Il  generale  camminava
    come  stordito  da  una mazzata sulla testa.  De-Grieux rimuginava
    qualche cosa.  Mademoiselle Blanche avrebbe voluto restare ma poi,
    chi  sa  perché,  decise di andare con tutti gli altri.  Subito le
    tenne  dietro  il  principe  e  di  sopra,  nell'appartamento  del
    generale, rimasero soltanto il tedesco e madame veuve Cominges.


    NOTE.
    1) "Sì,  signora,  e, credetemi, sono felice... la vostra salute è
    un miracolo... e vedervi qui è una piacevole sorpresa..."
    2) "Questa vecchia è rimbambita!"




















    10.

    Alle terme - e,  a quanto pare,  in tutta l'Europa -  i  direttori
    d'albergo  e  i capi camerieri nell'assegnare ai clienti le camere
    sono guidati non tanto dalle esigenze e  dai  desideri  di  questi
    quanto  dal primo colpo d'occhio e,  bisogna dirlo,  difficilmente
    sbagliano.  Ma  alla  nonna,  chi  sa  perché,   avevano  dato  un
    appartamento  così lussuoso da sembrare persino esagerato: quattro
    stanze  arredate  splendidamente,  con  il  bagno,  camere  per  i
    domestici,  una  stanzetta  particolare  per la cameriera eccetera
    eccetera...
    Effettivamente quelle stanze erano  state  occupate  la  settimana
    prima da non so quale "grande duchesse" il che, è naturale, veniva
    subito   riferito   ai   nuovi   ospiti   per   dare   più  valore
    all'appartamento. Portarono o, per meglio dire,  spinsero la nonna
    per  tutte le stanze,  e lei le osservò con severa attenzione.  Il
    capo cameriere,  un  uomo  già  anziano  dalla  testa  pelata,  la
    accompagnava con deferenza in questa prima visita.
    Non  so  per chi prendessero la nonna ma,  a quanto pare,  per una
    persona  importante  e,  soprattutto,  ricchissima.  Nel  registro
    scrissero    subito:    "Madame   la   Générale,    princesse   de
    Tarassevìtcheva"  nonostante  la   nonna   non   sia   mai   stata
    principessa.    La    servitù,    lo   scompartimento   riservato,
    quell'inutile montagna di cassette,  valigie  e  persino  i  bauli
    arrivati  insieme con la nonna,  avevano probabilmente dato inizio
    al suo prestigio; e la poltrona, il tono,  la voce imperiosa della
    vecchia,  le  sue  domande  stravaganti  fatte  con  la più grande
    disinvoltura e con  l'aria  di  non  ammettere  repliche,  in  una
    parola,  tutta la figura della nonna diritta, brusca, autoritaria,
    avevano completato il generale senso di reverenza  verso  di  lei.
    Durante la visita,  la nonna ordinava all'improvviso di fermare la
    poltrona,   indicava  qualche  oggetto  dell'arredamento   e   con
    inaspettate  domande si rivolgeva all'ossequioso e sorridente capo
    cameriere che quasi quasi cominciava ad avere un po' di paura.  La
    nonna  rivolgeva  le  sue  domande  in  francese,  lingua che però
    parlava alquanto male,  cosicché spesso  io  dovevo  tradurre.  Le
    risposte  del capo cameriere non erano,  per la maggior parte,  di
    suo gradimento e le sembravano poco soddisfacenti. Anche lei, poi,
    faceva un mucchio di domande che non si riferivano all'oggetto  in
    questione, ma a Dio sa che cosa.
    A un certo punto, per esempio, si era fermata davanti a un quadro,
    copia  piuttosto  mal  riuscita di un famoso originale di soggetto
    mitologico.
    "E' il ritratto di chi?"
    Il capo cameriere le dichiarò che  probabilmente  si  trattava  di
    qualche contessa.
    "Come  mai  non lo sai?  Vivi qui e non sai.  Perché si trova qui?
    Perché ha gli occhi storti?"
    A tutte queste domande il capo cameriere non  poté  rispondere  in
    modo soddisfacente e si smarrì persino.
    "Che scemo!" dichiarò la nonna in russo.
    La portarono oltre. La stessa storia si ripeté con una statuina di
    Sassonia che la nonna osservò a lungo e poi ordinò di portare via,
    non si sa per quale motivo. Infine si appiccicò al capo cameriere:
    quanto  costavano  i tappeti della camera?  dove li tessevano?  Il
    capo cameriere promise di informarsi.
    "Che razza di asini!" borbottò la nonna,  e dedicò  tutta  la  sua
    attenzione al letto.
    "Che baldacchino lussuoso! Disfate il letto!"
    Il letto fu disfatto.
    "Ancora,  ancora,  togliete tutto!  Via le federe,  via i cuscini,
    sollevate i piumini!" Tutto fu capovolto.  La nonna osservava  con
    attenzione.
    "Bene! Non ci sono cimici. E adesso via questa biancheria! Portate
    la mia e il mio guanciale.  Però tutto qui è troppo lussuoso;  che
    serve a me, vecchietta come sono, un appartamento così? Da sola mi
    annoio.  Alekséj  Ivànovitch,  vieni  a  trovarmi  il  più  spesso
    possibile, quando avrai finito le tue lezioni ai bambini."
    "Da  ieri  non  sono più al servizio del generale" risposi io,  "e
    vivo nell'albergo completamente per conto mio."
    "E perché?"
    "Alcuni giorni fa è arrivato qui un importante barone tedesco  con
    la baronessa, sua consorte, da Berlino. Ieri, alla passeggiata, mi
    sono  rivolto  a  lui  in  tedesco,  senza  seguire  la  pronunzia
    berlinese."
    "Be', e con questo?"
    "Il barone  l'ha  considerata  un'insolenza  e  ha  fatto  le  sue
    lamentele al generale, e il generale ieri mi ha licenziato."
    "Ma  tu l'hai forse ingiuriato questo barone?  E se anche l'avessi
    offeso, poco male!"
    "Oh no! Anzi, il barone ha alzato il bastone su di me."
    "E  tu,   bavoso,   hai  permesso  che  trattassero  così  il  tuo
    precettore?"  chiese  rivolgendosi  al  generale.  "E  l'hai anche
    cacciato dal posto!  Siete tutti dei babbei,  dei veri  babbei,  a
    quanto vedo..."
    "Non  inquietatevi,  zietta,"  rispose  il  generale con una certa
    sfumatura altera e familiare insieme,  "so trattare da me  i  miei
    affari.  Inoltre  Alekséj  Ivànovitch  non  vi ha riferito le cose
    fedelmente."
    "E tu l'hai inghiottita?" chiese, rivolgendosi a me.
    "Volevo sfidare il barone a duello" risposi il più modestamente  e
    tranquillamente possibile, "ma il generale si è opposto."
    "E  perché  ti  sei  opposto?" chiese la nonna rivolta di nuovo al
    generale.  "E  tu,  bàtjushka,   vattene,   verrai  quando  ti  si
    chiamerà," disse al capo cameriere,  "non è il caso che te ne stia
    là a bocca spalancata...  (Non posso  sopportare  questo  muso  di
    Norimberga...!)"   Il   cameriere   s'inchinò   e   uscì,   senza,
    naturalmente, aver capito il... complimento della nonna.
    "Ma scusate,  zietta,  sono forse possibili i duelli?" rispose  il
    generale con un sorrisetto ironico.
    "E  perché non sono possibili?  Gli uomini sono dei galli;  quindi
    devono combattere. Siete tutti dei grandi babbei, a quanto vedo, e
    non sapete far rispettare la vostra patria. Su, alzate! Potapytch,
    disponi  che  siano  sempre  pronti  due  portatori:   trovali   e
    impegnali.  Non ne servono più di due;  si tratta di portarmi solo
    per le scale perché,  quando siamo sul piano,  nella  strada,  c'è
    solo  da  spingere.  Diglielo,  e  pagali in anticipo: saranno più
    rispettosi.  Tu mi starai sempre vicino e tu,  Alekséj Ivànovitch,
    durante la passeggiata,  mi indicherai quel barone: vorrei proprio
    vedere che razza di 'von'-baron è. Be', dov'è questa roulette?"
    Le spiegai che le roulettes sono poste nelle sale del Casinò.  Poi
    iniziarono  le  domande:  ce  ne  sono  molte?   Sono  numerosi  i
    giocatori? Giocano per l'intero giorno?  Come funzionano?  Risposi
    che la miglior cosa era vedere con i propri occhi, perché spiegare
    tutto era piuttosto difficile.
    "Be'  allora  mi  si  porti direttamente là!  Va' avanti,  Alekséj
    Ivànovitch!"
    "Ma,  zietta,  è  possibile  che  non  vi  riposiate  nemmeno  dal
    viaggio?"  chiese  premuroso  il generale.  Era quasi spaventato e
    tutti,  con un'aria imbarazzata,  si scambiavano  delle  occhiate.
    Probabilmente   si  sentivano  a  disagio  e  persino  un  po'  si
    vergognavano di accompagnare la nonna direttamente al Casinò dove,
    si capisce,  poteva commettere qualche stravaganza e,  per di più,
    in  pubblico;   tuttavia  tutti  si  offrirono  spontaneamente  di
    accompagnarla.
    "E perché dovrei riposarmi?  Non sono  stanca;  sono  stata  ferma
    cinque  giorni.  E poi vedremo le sorgenti e le acque minerali che
    ci sono qui,  e dove sono.  E poi...  quella...  come  hai  detto,
    Praskòvja... quella 'puànt'... o come?"
    "'Pointe,' nonna."
    "Bene, se è 'pointe,' sia 'pointe.' E che altro c'è ancora?"
    "Ci sono molte cose, nonna" disse Polina con un certo imbarazzo.
    "Ma,  insomma,  vedo che non lo sai nemmeno tu!  Marfa, verrai con
    me" disse alla sua cameriera.
    "Perché anche  lei,  zia?"  interruppe  preoccupato  il  generale.
    "Questo  non  è  possibile.  E  anche  Potapytch  difficilmente lo
    lasceranno entrare."
    "Sciocchezze!  Siccome è una domestica bisognerebbe piantarla?  E'
    anche  lei  una  creatura  viva;  è ormai una settimana che stiamo
    viaggiando, e anche lei ha voglia di vedere qualche cosa.  Con chi
    potrebbe farlo,  se non con me?  Da sola non oserà neppure mettere
    il naso fuori della porta..."
    "Ma, nonna..."
    "Ti vergogni a uscire con me? E allora rimani in casa,  nessuno ti
    chiede  niente.  Guarda  un po' che generale!  Ma sono anch'io una
    generalessa. E perché dovrei trascinarmi dietro un simile codazzo?
    Andrò a visitare tutto con Alekséj Ivànovitch..."
    Ma De-Grieux insisté decisamente perché tutti la accompagnassero e
    usò le frasi più cortesi a proposito del piacere di  accompagnarla
    eccetera eccetera. Tutti si mossero.
    "Elle  est  tombée  en  enfance,"  ripeté  De-Grieux  al generale,
    "seule,  elle fera  des  bêtises  (1)".  Di  più  non  sentii,  ma
    evidentemente  egli  aveva  dei  progetti  e,   forse,  gli  erano
    addirittura tornate delle speranze.
    Il Casinò era lontano un  mezzo  miglio  dall'albergo.  La  nostra
    strada passava per un viale di castagni,  fino al piazzale, girato
    il quale  ci  si  trovava  davanti  all'ingresso  del  Casinò.  Il
    generale si era un po' calmato,  poiché il nostro corteo, anche se
    discretamente eccentrico, era tuttavia decoroso e corretto.  E poi
    non  c'era  niente  di sorprendente nel fatto che alle terme fosse
    venuta una persona malata e debole,  priva dell'uso  delle  gambe.
    Ma,  evidentemente,  egli  temeva  il  Casinò:  perché una persona
    malata,  dalle gambe paralizzate e per  di  più  vecchia,  sarebbe
    andata alla roulette? Polina e mademoiselle Blanche camminavano ai
    due   lati   della   poltrona   che  procedeva  davanti  a  tutti.
    Mademoiselle Blanche rideva,  era allegra ma con discrezione,  e a
    volte,  molto  cortesemente,  scherzava  con  la  nonna  tanto che
    questa,  alla fine,  la  elogiò.  Polina,  dall'altro  lato  della
    poltrona,   era   costretta   ogni   momento   a  rispondere  alle
    innumerevoli domande della nonna, domande di questo genere: "Chi è
    quello lì che passa? E quella là in carrozza?  E' grande la città?
    E'  grande il giardino?  Che alberi sono questi?  E che monti sono
    quelli?  Ci sono delle aquile  qui?  Che  cos'è  quel  tetto  così
    buffo?" Mister Astley,  che camminava vicino a me, mi sussurrò che
    da quella mattina si  aspettava  molte  cose.  Potapytch  e  Marfa
    seguivano  da  vicino la poltrona: Potapytch in marsina e cravatta
    bianca ma con il berretto, e Marfa, zitella sulla quarantina dalle
    guance rosse,  ma che cominciava ormai a farsi grigia,  in cuffia,
    abito  di percalle e con un paio di scricchiolanti scarpe di pelle
    di capretto.  Molto spesso la nonna si girava e scambiava con loro
    qualche  parola.  De-Grieux  e  il  generale  erano rimasti un po'
    indietro e discutevano con grande foga di  non  so  che  cosa.  Il
    generale  era  assai abbattuto;  De-Grieux parlava in tono deciso.
    Magari cercava di fargli coraggio o gli dava qualche consiglio. Ma
    la nonna aveva ormai pronunciato la frase fatale: "Denaro  non  te
    ne  darò".  Forse a De-Grieux questa notizia sembrava incredibile,
    ma il generale conosceva bene la  vecchia.  Io  osservai  che  De-
    Grieux   e   mademoiselle   Blanche   continuavano   a  scambiarsi
    strizzatine d'occhio. Il principe e il viaggiatore tedesco li vidi
    proprio in fondo al viale; erano rimasti indietro e se ne andavano
    da un'altra parte.
    Al Casinò entrammo trionfalmente.  Il guardaportone e i  camerieri
    ci  manifestarono la stessa reverenza che già aveva manifestato il
    personale dell'albergo.  Ci guardavano,  però,  con curiosità.  La
    nonna,  per  prima  cosa,  ordinò di portarla in giro per tutte le
    sale;  lodò alcune cose,  di fronte ad altre rimase  perfettamente
    indifferente;  di  tutto  chiedeva  informazioni.  Infine entrammo
    nelle sale da giuoco.  Il cameriere,  che stava di guardia  vicino
    alla porta chiusa, sbalordito, la spalancò immediatamente.
    La comparsa della nonna vicino alla roulette produsse una profonda
    impressione  sul  pubblico.  Al  tavolo da giuoco della roulette e
    all'altra estremità della sala dove si trovava il  tavolo  con  il
    "trente  et  quarante",  si  affollavano  forse  centocinquanta  o
    duecento giocatori,  in varie file.  Quelli che erano  riusciti  a
    farsi  strada  fino al tavolo,  di solito si tenevano ben fermi al
    loro posto e non lo cedevano fino a  quando  non  avevano  perduto
    tutto;  poiché  non è permesso rimanere come semplici spettatori a
    occupare inutilmente un posto di giuoco. Nonostante che intorno al
    tavolo siano anche sistemate delle sedie, pochi tra i giocatori si
    siedono,  specialmente quando c'è molta folla,  perché in piedi si
    sta  più fitti e di conseguenza si guadagna posto e si possono più
    agevolmente fare le  puntate.  La  seconda  e  la  terza  fila  si
    pigiavano  dietro  alla  prima,  aspettando e sorvegliando il loro
    turno;  ma nell'impazienza a volte allungavano la  mano  oltre  la
    prima  fila per fare le loro puntate.  Perfino dalla terza fila si
    ingegnavano così ad allungare le puntate; per questo non passavano
    dieci e neppure cinque minuti senza che a un'estremità del  tavolo
    non  avvenisse qualche 'storia' per poste controverse.  La polizia
    del Casinò,  del resto,  è  abbastanza  indulgente.  La  ressa,  è
    naturale, non si può evitare; anzi si è contenti dell'affollamento
    di  pubblico  perché è una cosa che conviene;  ma otto "croupiers"
    che siedono attorno al tavolo,  tengono attentamente  d'occhio  le
    poste, fanno i conti e, quando nascono controversie, sono loro che
    le risolvono.  Nei casi estremi chiamano la polizia, e la faccenda
    si conclude in un minuto. Gli agenti si trovano nella sala stessa,
    in abiti borghesi,  confusi tra la gente,  per cui non è possibile
    riconoscerli.  Essi  tengono specialmente d'occhio i ladruncoli di
    professione che alle roulettes si incontrano in gran  numero,  per
    la straordinaria comodità di esercitare il loro mestiere.  Infatti
    in qualsiasi altro posto bisogna rubare dalle tasche o forzare  le
    serrature, cosa che, in caso di insuccesso, finisce sempre in modo
    alquanto spiacevole.  Qui, invece, basta semplicemente avvicinarsi
    alla  roulette,   cominciare  a  giocare  e  poi,   a  un  tratto,
    pubblicamente e in modo palese,  prendere la vincita di un altro e
    mettersela in tasca;  se poi nasce  qualche  lite,  il  lestofante
    insiste a voce alta e decisa che la puntata era la sua. Se la cosa
    è  fatta  con  furbizia  e i testimoni tentennano,  il ladro molto
    spesso riesce ad impadronirsi del denaro sempre che,  si  capisce,
    la  somma  non sia molto notevole.  In caso contrario,  essa viene
    certamente fin da prima notata dai "croupiers" o da qualcuno degli
    altri giocatori.  Ma se la somma non è  molto  cospicua,  il  vero
    proprietario   a  volte  rinuncia  a  proseguire  la  discussione,
    timoroso  di  uno  scandalo  e  si  ritira.  Ma  se  si  riesce  a
    smascherare il ladro, lo si porta subito fuori con grande chiasso.
    La nonna guardava tutte queste cose da lontano,  con straordinaria
    curiosità.  Le era  molto  piaciuto  che  si  mettessero  fuori  i
    ladruncoli.  Il  "trente  et  quarante"  suscitò in lei pochissima
    curiosità;  la  interessò  maggiormente  la  roulette  con  quella
    pallina che rotolava.  Espresse, infine, il desiderio di osservare
    il gioco più da vicino. Non so come fu, ma i lacchè e alcuni altri
    personaggi pieni di zelo (in prevalenza polacchi che  hanno  perso
    tutto  e  che  offrono  i  loro servigi ai giocatori fortunati e a
    tutti gli stranieri)  trovarono  e  liberarono  immediatamente  un
    posto  per  la nonna nonostante l'affollamento,  proprio al centro
    del tavolo,  vicino al croupier principale e vi  spinsero  la  sua
    poltrona.  Molti visitatori, che non giocavano, ma che in disparte
    osservavano il giuoco (specialmente inglesi con le loro famiglie),
    fecero subito ressa intorno al tavolo per poter guardare la  nonna
    al  di  sopra delle teste dei giocatori.  Molti occhialini vennero
    puntati dalla sua parte.  I "croupiers" sentirono nascere  qualche
    speranza:  una  giocatrice  così  straordinaria  pareva promettere
    qualcosa di non comune.  Una donna di settantacinque anni  con  le
    gambe  paralizzate  e  che  aveva  voglia di giocare rappresentava
    certo un caso fuori del comune.  Mi feci  anch'io  strada  tra  la
    folla  e  andai  a  mettermi vicino alla nonna.  Potapytch e Marfa
    erano rimasti indietro,  da una parte,  in mezzo  alla  gente.  Il
    generale,  Polina,  De-Grieux e mademoiselle Blanche rimasero pure
    loro da parte, tra gli spettatori.
    La nonna prima si mise a osservare i  giocatori.  Mi  rivolgeva  a
    mezza voce brusche, rapide domande: quello chi è? chi è quella? Le
    piacque  in  modo particolare,  all'estremità del tavolo,  un uomo
    molto giovane,  che faceva  un  giuoco  molto  sostenuto;  puntava
    migliaia  di franchi e ne aveva già vinti,  si sussurrava in giro,
    circa quarantamila che gli stavano davanti in mucchi di oro  e  di
    biglietti di banca.  Era pallido;  gli occhi gli sfavillavano e le
    mani gli tremavano; puntava ormai senza nessun calcolo, quello che
    la  mano  riusciva  ad   afferrare,   eppure   vinceva,   vinceva,
    ammucchiava,   ammucchiava...   I  lacchè  gli  si  affaccendavano
    attorno, gli spingevano sotto la poltrona,  gli facevano un po' di
    largo  perché avesse più spazio,  perché la gente non gli premesse
    addosso,  e tutto questo in attesa di una ricca ricompensa.  Certi
    giocatori danno loro a volte una parte della vincita senza nemmeno
    contare,  ma  così,  per  la  gioia,  quanto  con  la mano possono
    pigliare dalla tasca.  Vicino al giovane si era già  sistemato  un
    polacchino,  che  si  dava  da  fare  in  tutti i modi,  e in tono
    rispettoso, ma senza pausa, gli sussurrava qualcosa, probabilmente
    indicandogli come puntare,  dando consigli e guidando il gioco  e,
    si  capisce,  in  attesa  anche lui di un regalo!  Ma il giocatore
    quasi  non  lo  guardava,  puntava  a  casaccio  e  continuava  ad
    ammucchiare. Era visibilmente smarrito.
    La nonna lo osservò per qualche minuto.
    "Digli," esclamò improvvisamente agitandosi e spingendomi,  "digli
    che la smetta,  che prenda al più presto il denaro e se  ne  vada.
    Perderà,  ora  perderà  tutto!"  si  affannava,  senza  quasi  più
    respirare per l'agitazione. "Dov'è Potapytch?  Mandagli Potapytch!
    Ma  diglielo,  diglielo,  dunque!"  mi  urtava.  "Dov'è,  insomma,
    Potapytch? 'Sortez,  sortez!'" cominciò quasi a gridare lei stessa
    al giovanotto.  Mi chinai e le sussurrai in tono deciso che lì non
    si poteva gridare e che non era permesso neppure alzare un po'  la
    voce  perché  questo  disturbava  i  calcoli,  e  che ci avrebbero
    cacciati via.
    "Che rabbia!  E' un uomo che si perde...  ma si vede che è lui che
    lo vuole... Non posso più guardarlo, mi mette in agitazione... Che
    babbeo!" e la nonna si girò in fretta dall'altra parte.
    Là,  a  sinistra,  all'altra  metà  del  tavolo,  si  notava tra i
    giocatori una giovane signora e vicino a lei una specie  di  nano.
    Chi  fosse  quel  nano  non  so: se un suo parente o se lo tenesse
    così,  per fare colpo.  Quella signora l'avevo  già  vista  prima:
    compariva ogni giorno al tavolo da giuoco, all'una del pomeriggio,
    e  se ne andava alle due in punto: giocava ogni giorno per un'ora.
    La conoscevano tutti e si affrettavano a  porgerle  una  poltrona.
    Ella  tirava  fuori  di  tasca un po' d'oro,  qualche banconota da
    mille franchi e cominciava a puntare calma, fredda,  calcolatrice,
    segnando con la matita su un foglio di carta le cifre,  e cercando
    di trovare un sistema secondo il  quale,  a  un  certo  punto,  si
    raggruppavano le possibilità.  Puntava somme notevoli. Ogni giorno
    vinceva mille, duemila franchi,  non mai più di tremila e,  subito
    dopo aver vinto, se ne andava. La nonna la osservò a lungo.
    "Be',  quella non perderà!  Quella non perderà! Chi è? Non lo sai?
    Di dove viene?"
    "E' una francese, dev'essere una di quelle..." sussurrai io.  "Ah,
    dal volo si conosce l'uccello.  Si vede che ha l'unghietta aguzza.
    Spiegami adesso che  cosa  significa  ogni  giro  e  come  bisogna
    puntare."
    Le  spiegai  come  potevo  che  cosa  significassero  le  numerose
    combinazioni delle puntate,  "rouge et noir",  "pair  et  impair",
    "manque  et passe" e,  infine,  le varie sfumature nel sistema dei
    numeri; la nonna ascoltava attenta, ricordava, chiedeva di nuovo e
    imparava.  A ogni sistema di puntata si poteva subito  portare  un
    esempio,   cosicché  era  possibile  imparare  e  ricordare  molto
    facilmente e in fretta. La nonna rimase molto contenta.
    "E che cos'è lo zero?  Ecco,  quel croupier ricciuto,  quello  più
    importante,  ha  gridato ora: zero!  E perché ha rastrellato tutto
    quanto era sul tavolo? Tutto per sé ha preso quel bel mucchio? Che
    significa questo?"
    "Lo zero, nonna, è il guadagno del banco. Se la pallina cade sullo
    zero tutto quello che è  stato  puntato  spetta  al  banco,  senza
    calcolo.  In verità,  si concede ancora un colpo alla pari,  ma il
    banco non paga niente."
    "Ma guarda un po'! E io non ricevo niente?"
    "No, nonna, ma se voi prima avete puntato sullo zero,  allora,  se
    esce lo zero, vi pagano trentacinque volte la posta."
    "Come?  Trentacinque volte?  Esce spesso? E perché, allora, questi
    tonti non puntano?"
    "Ci sono trentasei probabilità contro, nonna."
    "Sciocchezze, sciocchezze! Potapytch, Potapytch!  Aspetta,  ho del
    denaro  con  me,  ecco!" Ella tirò fuori dalla tasca un borsellino
    molto gonfio e ne prese un federico.
    "Tieni, punta subito sullo zero."
    "Nonna, lo zero è uscito soltanto adesso," dissi io, "e ora per un
    bel po' non uscirà. Perderete molto; aspettate almeno un po'..."
    "Storie! Punta, ti dico!"
    "Permettete, ma forse non uscirà più fino a sera, potreste perdere
    anche mille federici: è già successo."
    "Sciocchezze! Sciocchezze! Se hai paura del lupo,  non puoi andare
    nel bosco. Che? Hai perso? Punta ancora!"
    Perdemmo  anche il secondo federico e puntammo il terzo.  La nonna
    stava ferma a fatica al suo posto,  divorava con occhi febbrili la
    pallina  saltellante  per  le dentellature della ruota che girava.
    Perdemmo anche il terzo. La nonna era fuori di sé,  non riusciva a
    stare ferma,  batté persino un pugno sul tavolo quando il croupier
    proclamò "trente-six" invece dell'atteso zero.
    "Guarda un po'!" esclamava  infuriata  la  nonna.  "Quando  uscirà
    questo  maledetto  zeruccio?  Voglio  morire,  se non starò qui ad
    aspettare che venga fuori lo zero.  E' quel maledetto crupieruccio
    dai  capelli  ricci  che  fa  in  modo  che non esca mai!  Alekséj
    Ivànovitch, punta due monete d'oro alla volta! Ne perdi tanti che,
    se anche uscirà lo zero, non prenderai nulla."
    "Nonna!"
    "Punta, punta! Non è denaro tuo."
    Puntai due federici.  La pallina volò a lungo sulla ruota,  infine
    prese  a saltellare sui dentelli.  La nonna tratteneva il respiro,
    stringendo il mio braccio. A un tratto: tac!
    "Zero!" proclamò il croupier.
    "Vedi, vedi!" disse la nonna, rivolgendosi verso di me,  raggiante
    e soddisfatta.  "Te lo dicevo, te lo dicevo! E' proprio il Signore
    che mi ha suggerito di  puntare  due  marenghi  d'oro.  E  adesso,
    quanto riceverò?  Perché non pagano?  Potapytch,  Marfa, dove sono
    andati? E i nostri dove si sono cacciati? Potapytch, Potapytch!"
    "Nonna,  dopo..." le bisbigliai.  "Potapytch è vicino alla  porta,
    qui non lo lasciano venire.  Guardate,  nonna, vi danno il denaro,
    prendetelo!" Gettarono alla nonna un pesante rotolo  sigillato  in
    carta  azzurra  con cinquanta federici e le contarono ancora venti
    federici sciolti.  Ammucchiai tutto  davanti  alla  nonna  con  la
    paletta.
    "Faites le jeu,  messieurs!  Faites le jeu,  messieurs! Rien ne va
    plus  (2)"  annunciava  il  croupier,   avvertendo  di  puntare  e
    preparandosi a far girare la roulette.
    "O Signore!  Siamo in ritardo!  Ora gireranno!  Punta,  punta!" si
    affannava la nonna.  "Non perdere tempo,  fa'  presto..."  gridava
    quasi fuori di sé, urtandomi a tutta forza.
    "Ma dove devo puntare, nonna?"
    "Sullo  zero,  sullo  zero!  Di  nuovo  sullo  zero!  Punta il più
    possibile! Quanto abbiamo in tutto? Settanta federici?  Non c'è da
    rimpiangerli, puntane venti per volta!"
    "Tornate in voi, nonna! Magari non esce più per duecento volte! Vi
    assicuro che perderete un capitale!"
    "Storie,  storie...  Punta!  Ecco,  mi fischiano le orecchie... So
    quello che faccio..." replicò la  nonna,  tremando  tutta  per  la
    frenesia.
    "Secondo  il  regolamento  non  è  permesso  puntare più di dodici
    federici alla volta sullo zero, nonna; ecco, li ho puntati."
    "Come,  non è permesso?  Non mi racconti mica delle storie,  vero?
    'Mussiè!  Mussiè'"  e  urtò il "croupier" che stava seduto proprio
    alla sua sinistra  e  si  preparava  a  far  girare  la  roulette.
    "Combien zero? douze? douze?"
    Mi affrettai a spiegargli la domanda in francese.
    "Oui,  madame" confermò cortesemente il croupier,  "così pure ogni
    singola puntata non deve oltrepassare i  quattromila  fiorini  per
    volta: è il regolamento" aggiunse come chiarimento.
    "Be', non c'è niente da fare... puntane dodici!"
    "Le jeu est fait (3)" gridò il croupier. La ruota si mise a girare
    e venne fuori il tredici! Avevamo perduto!
    "Ancora!  Ancora!  Punta  ancora!" gridava la nonna.  Ormai non la
    contraddicevo più e, stringendomi nelle spalle, misi ancora dodici
    federici.  La ruota girò a lungo.  La nonna ne  seguiva  il  moto,
    tremando addirittura.  "Ma possibile che creda veramente di far di
    nuovo zero!" pensai,  guardandola  con  meraviglia.  Una  risoluta
    convinzione di vincere le illuminava il viso,  l'attesa sicura che
    tra poco avrebbero gridato: zero! La pallina saltò in una casella.
    "Zero!" annunziò il croupier.
    "Cosa?" gridò la nonna, rivolgendosi a me in preda a una frenetica
    esultanza.
    Ero anch'io un giocatore;  lo sentii in quel preciso  momento.  Le
    gambe  e  le braccia mi tremavano,  ebbi l'impressione di ricevere
    una mazzata sulla testa!  Certo era stato un caso raro che in  una
    decina di volte fosse saltato fuori per tre volte lo zero;  ma non
    c'era niente di particolarmente straordinario. Ero stato io stesso
    testimonio di come due giorni prima lo zero era uscito  tre  volte
    di  seguito,  e uno dei giocatori che segnava diligentemente su un
    foglietto i colpi, aveva osservato, a voce alta, che non più tardi
    del giorno precedente questo stesso zero era  capitato  una  volta
    sola nel giro di ventiquattro ore.
    Alla  nonna,  come  alla  giocatrice  che aveva vinto la somma più
    alta,  il  pagamento  fu  effettuato  con  particolare,  deferente
    attenzione.   Le   spettavano  giusto  quattrocentoventi  federici
    esatti,  cioè  quattromila  fiorini  e  venti  federici.  I  venti
    federici glieli passarono in oro e i quattromila in banconote.
    Questa  volta la nonna non chiamò Potapytch;  era ben diversamente
    occupata. Non si agitava neppure e,  apparentemente,  non tremava.
    Essa,  se  così  ci  si  può  esprimere,  tremava  dentro.  Si era
    concentrata tutta in un solo pensiero: l'aveva preso di mira!
    "Alekséj Ivànovitch!  Ha detto che  si  possono  puntare  soltanto
    quattromila  fiorini?  Su,  prendi,  punta  questi quattromila sul
    rosso!" ordinò la nonna.
    Era inutile provare a dissuaderla. La ruota si mise a girare.
    "Rouge." proclamò il croupier.
    Di nuovo una vincita di quattromila  fiorini,  in  tutto,  quindi,
    otto.
    "Quattromila  dalli  a me e gli altri quattro puntali di nuovo sul
    rosso!" ordinò la nonna.
    Ne puntai altri quattromila.
    "Rouge!" proclamò di nuovo il "croupier".
    "Dodicimila in tutto! Dammeli. Versa l'oro qui, nel borsellino,  e
    i biglietti nascondili.  E adesso basta. A casa! Spingete indietro
    la poltrona!"


    NOTE.
    1) "Da sola, farà delle sciocchezze."
    2) "Puntate, signori, puntate! Basta, non si può più puntare!"
    3) "Il gioco è fatto!"
    11.

    La poltrona fu fatta rotolare verso la porta,  all'altra estremità
    della  sala.  La  nonna  era  raggiante.  Tutti  i  nostri  le  si
    affollarono intorno congratulandosi con lei. Per quanto eccentrico
    fosse il comportamento della  nonna,  il  suo  trionfo  compensava
    molte  cose,  e  il  generale  stesso  non  aveva  più  timore  di
    compromettersi in pubblico per i suoi rapporti  di  parentela  con
    una  donna così strana.  Con un sorriso indulgente e familiarmente
    allegro,  come se facesse divertire un bambino,  si  felicitò  con
    lei.  Del  resto,  come  tutti  gli altri spettatori,  era rimasto
    visibilmente colpito.  Tutt'intorno la gente parlava e indicava la
    vecchia signora.  Molti le passavano accanto per osservarla più da
    vicino.  Mister Astley,  in disparte,  parlava di lei con due suoi
    conoscenti   inglesi,   mentre   alcune   signore  spettatrici  la
    guardavano con solenne perplessità come un prodigio.  De-Grieux si
    profondeva in sorrisi e in rallegramenti.
    "Quelle victoire! (1)" esclamava.
    "Mais,  madame,  c'etait  du  feu  (2)"  aggiunse  con  un sorriso
    incantevole mademoiselle Blanche.
    "Sissignori, mi ci sono buttata e ho vinto dodicimila fiorini!  Ma
    che dodici!  E l'oro?  Con l'oro sono quasi tredicimila. E quant'è
    in moneta nostra?  Saranno seimila rubli,  no?"  Risposi  che,  al
    cambio  del  momento,  erano  circa  settemila e che,  magari,  si
    sarebbe arrivati anche a otto.
    "Uno scherzo, ottomila! E voi, citrulli, ve ne state qui senza far
    niente! Potapytch, Marfa, avete visto?"
    "Màtushka, ma come avete fatto?  Ottomila rubli..." esclamò Marfa,
    agitandosi tutta.
    "Prendete, eccovi cinque marenghi per ciascuno..."
    Potapytch e Marfa si precipitarono a baciarle la mano.
    "Anche  ai  portatori  date  un  federico.  Dagli un marengo d'oro
    ciascuno,  Alekséj Ivànovitch.  Perché questo domestico  fa  tanti
    inchini?  E  anche  quell'altro?  Si  congratulano?  Da'  anche un
    federico a loro."
    "Madame la princesse... un pauvre expatrié... malheur continuel...
    les princes russes  sont  si  genereux...(3)"  mormorava,  girando
    attorno  alla  poltrona,  un  individuo  dal soprabito logoro,  il
    panciotto variopinto, con i baffi, il berretto a sghimbescio e con
    un sorriso strisciante sulle labbra...
    "Dagli un federico anche a lui.  No,  dagliene  due...  Ma  adesso
    basta,  altrimenti con questa gente non la finiamo più.  Alzatemi,
    portatemi   via!    Praskòvja"   disse   rivolgendosi   a   Polina
    Aleksàndrovna,  "domani  ti  comprerò un vestito e ne comprerò uno
    anche a quella mademoiselle...  come  si  chiama?...  mademoiselle
    Blanche, vero? Traduci quello che ho detto, Praskòvja!"
    "Merci,  madame"  rispose  mademoiselle  Blanche  con  un grazioso
    inchino,  atteggiando la bocca a un sorriso canzonatorio scambiato
    con il generale e con De-Grieux.  Il generale era un po' confuso e
    si rallegrò moltissimo quando arrivammo al viale.
    "E Fedòssja? Immagino come ora si meraviglierà Fedòssja," disse la
    nonna,  ricordandosi della bambinaia  del  generale  che  lei  ben
    conosceva.  "Anche  a  Fedòssja bisognerà regalare un abito.  Ehi,
    Alekséj Ivànovitch,  Alekséj Ivànovitch,  da'  qualcosa  a  questo
    mendicante!"
    Per  la  strada passava uno straccione con la schiena curva,  e ci
    guardava.
    "Quello,  forse,  non è neppure un mendicante,  nonna,  ma solo un
    poco di buono qualsiasi..."
    "Ma su, su... dagli un gulden!"
    Mi  avvicinai  e  glielo  diedi.  Egli  mi  guardò  con una strana
    perplessità,  tuttavia prese il gulden  in  silenzio.  Puzzava  di
    vino.
    "E tu, Alekséj Ivànovitch, non hai ancora tentato la sorte?"
    "No, nonna."
    "Eppure ti brillavano gli occhi... l'ho visto."
    "Ma in seguito tenterò sicuramente, nonna!"
    "E  punta  subito  sullo zero!  Vedrai...  A quanto ammonta il tuo
    capitale?"
    "Venti federici in tutto, nonna!"
    "Poco.  Ti impresterò,  se vuoi,  cinquanta federici.  Ecco questo
    rotolo,  prendilo,  ma tu,  bàtjushka,  non aspettare, a te non ne
    darò!" disse all'improvviso, rivolta al generale.
    Questi si sentì tutto rimescolare, ma non fiatò. De-Grieux fece il
    viso scuro.
    "Que diable, c'est une terrible vieille! (4)" disse tra i denti al
    generale.
    "Un mendicante,  un mendicante,  di nuovo un mendicante!" gridò la
    nonna. "Alekséj Ivànovitch, da' anche a lui un gulden."
    Questa  volta  c'eravamo  imbattuti in un vecchio canuto,  con una
    gamba di legno,  che indossava una specie di  soprabito  a  lunghe
    falde  di  color turchino e aveva un bastone in mano.  Sembrava un
    vecchio soldato.  Ma quando gli porsi un  gulden,  fece  un  passo
    indietro e mi guardò con aria minacciosa.
    "Was  ist's  der  Teufel  (5)" gridò,  aggiungendovi una decina di
    insulti.
    "Che razza di imbecille!" esclamò la  nonna,  agitando  una  mano.
    "Portatemi oltre!  Mi è venuta fame! Ora si mangerà subito, poi mi
    riposerò un po' e poi di nuovo là!"
    "Volete giocare ancora, nonna?" gridai.
    "E che cosa credevi?  Che se voi state qui a  inacidire  io  debba
    restare a guardarvi?"
    "Mais,  madame..."  si  avvicinò  De-Grieux,  "les chances peuvent
    tourner, une seule mauvaise chance et vous perdrez tout... Surtout
    avec votre jeu... c'était terrible! (6)"
    "Vous perdrez absolument (7)" cinguettò mademoiselle Blanche.
    "E a voi che importa? Non perdo mica del vostro...  perdo del mio!
    e dov'è quel mister Astley?" mi chiese.
    "E' rimasto al Casinò, nonna."
    "Peccato; è una persona tanto simpatica!"
    Arrivati  a  casa,  la  nonna,  incontrando  sulla  scala  il capo
    cameriere,  lo chiamò a sé e si vantò della vincita;  fece  quindi
    venire  Fedòssja,  le  regalò  tre federici e ordinò di servire il
    pranzo.  Fedòssja e Marfa,  per tutta la  durata  del  pranzo,  si
    profusero in ringraziamenti davanti a lei.
    "Io  vi  guardavo,  màtushka,"  cinguettava  Marfa,  "e chiedevo a
    Potapytch che cosa mai voleva fare la madre nostra.  E sul  tavolo
    quanto denaro,  quanto denaro.  Santi benedetti!  In tutta la vita
    non avevo mai visto  tanto  denaro,  e  lì  intorno  erano  seduti
    soltanto  signori.  Di  dove  vengono,  chiesi a Potapytch,  tutti
    questi signori?  E pensavo: 'Aiutala  tu,  santa  Madre  di  Dio!'
    Pregavo per voi,  màtushka,  mi sentivo mancare il cuore,  ecco...
    mancare il cuore e tremavo,  tremavo  tutta!  'Signore,  aiutala!'
    pregavo,  e  il  Signore,  ecco,  vi ha aiutata!  E ancora adesso,
    màtushka, come tremo, come tremo tutta..."
    "Alekséj Ivànovitch,  dopo pranzo,  verso le  quattro,  preparati,
    andremo.  E adesso, intanto, addio, e non dimenticarti di mandarmi
    a chiamare un dottorucolo qualsiasi: bisogna  pur  bere  anche  le
    acque. Se no, magari me ne dimentico."
    Lasciai la nonna quasi inebetito. Cercavo di immaginare quello che
    sarebbe  successo di tutti i nostri e quale piega avrebbe preso la
    faccenda.  Vedevo chiaramente che loro (il  generale  soprattutto)
    non  erano  ancora  riusciti  a  riprendersi  neanche  dalla prima
    impressione.  Il fatto  della  comparsa  della  nonna  invece  del
    telegramma  che  annunciasse  la  sua  morte,  aspettato da un'ora
    all'altra (e quindi anche dell'eredità), aveva tanto scombussolato
    tutto il sistema dei loro propositi e delle  decisioni  prese  che
    essi,  con autentica perplessità e con una specie di sbalordimento
    che si era abbattuto su tutti, pensavano alle prossime gesta della
    nonna alla roulette.  E intanto questo secondo avvenimento non era
    meno  importante del primo perché,  nonostante la nonna avesse per
    ben due volte dichiarato che non avrebbe dato denaro al  generale,
    tuttavia,  chi  sa,  non si doveva ancora perdere completamente la
    speranza.  E non la perdeva De-Grieux,  interessato  in  tutte  le
    faccende  del  generale.  Io ero convinto che neppure mademoiselle
    Blanche,  anche lei molto interessata (e sfido io!  Si trattava di
    diventare  generalessa  e  di una cospicua eredità!),  non avrebbe
    perso le speranze e avrebbe usato tutta  la  seduzione  delle  sue
    moine  con  la  nonna,  in  contrasto  con quella ostinata e fiera
    Polina,  incapace di essere affettuosa con  chiunque.  Ma  adesso,
    adesso  che  la  nonna  aveva compiuto simili gesta alla roulette,
    adesso che la personalità della vecchia si era  rivelata  loro  in
    modo  così tipico ed evidente (una vecchia bisbetica,  ambiziosa e
    "tombée  en  enfance"),  adesso,  sì,  forse  tutto  era  perduto;
    contenta  come un bambino di aver trovato qualcosa su cui gettarsi
    e per cui darsi da fare,  si sarebbe rovinata.  Mio  Dio,  pensavo
    (perdonami,  Signore),  con il più maligno dei miei sorrisi,  ogni
    federico che la nonna ha puntato poco fa è stata  una  ferita  nel
    cuore  del  generale,  ha  mandato  in bestia De-Grieux e ha fatto
    infuriare mademoiselle de Cominges,  che si vedeva passare davanti
    alla bocca il cucchiaio pieno. Ed ecco un'altra circostanza: anche
    dopo la vincita, quando la nonna per la gioia distribuiva denaro a
    tutti  e scambiava ogni passante per un mendicante,  anche in quei
    momenti le era sfuggito contro il generale: "Ma a te,  del  resto,
    denaro,  non  ne  darò!"  Questo significava che si era fissata su
    quel pensiero,  che vi si era intestardita e l'aveva giurato a  se
    stessa; era molto, molto pericoloso!
    Queste  considerazioni  passavano  per  la mia testa mentre salivo
    dall'appartamento della nonna,  per lo scalone,  all'ultimo  piano
    dov'era  la  mia  cameretta.  Tutto  ciò occupava vivamente il mio
    pensiero;  sebbene,  com'è logico,  potessi già  prima  indovinare
    quali  erano i fili più evidenti e importanti che legavano davanti
    a me gli attori,  tuttavia non conoscevo  in  modo  definitivo  le
    pieghe  e  i  segreti  del gioco.  Polina non era mai stata con me
    pienamente fiduciosa.  Se pure capitava,  a dire il  vero,  che  a
    volte  mi  aprisse  quasi  involontariamente  il suo cuore,  avevo
    osservato che spesso, anzi quasi sempre, dopo queste confidenze, o
    volgeva  in  riso  tutto  quello  che  era  stato  detto,   o   lo
    ingarbugliava  e,  con intenzione,  dava a tutto un falso aspetto.
    Oh,  molte cose lei nascondeva!  In ogni caso io sentivo che stava
    avvicinandosi  il  finale  di quella situazione tesa e misteriosa.
    Ancora un altro colpo,  e tutto si sarebbe  concluso  e  chiarito.
    Della mia sorte, benché interessato com'ero a tutto questo, non mi
    preoccupavo quasi per niente.  Che strano stato d'animo il mio: in
    tasca ho venti federici,  sono lontano,  in  un  paese  straniero,
    senza  un  posto  e senza mezzi di sostentamento,  senza speranze,
    senza progetti e non me ne preoccupo!  Se non fosse il pensiero di
    Polina,   mi   abbandonerei   del   tutto   al  prossimo,   comico
    scioglimento, e ci riderei su di gusto. Ma Polina mi turba; la sua
    sorte si sta decidendo, questo l'ho preavvertito ma,  lo confesso,
    non è affatto la sua sorte che mi inquieta. Ho voglia di penetrare
    i  suoi  segreti,  vorrei che lei venisse da me a dirmi: "Ma io ti
    amo!" e se no, se questa follia non è neppure pensabile, allora...
    che cosa mai mi resta  da  desiderare?  So  forse  io  quello  che
    desidero?  Sono  io  stesso come smarrito;  vorrei soltanto essere
    vicino a lei, nella sua aureola,  nella sua luce,  in eterno,  per
    sempre, per tutta la vita. Oltre a questo, non so niente! Ma posso
    forse allontanarmi da lei?
    Al terzo piano, nel loro corridoio, sentii come un urto. Mi voltai
    e,  a venti passi o poco più, vidi Polina che usciva da una porta.
    Sembrava che mi avesse aspettato e spiato; subito mi chiamò a sé.
    "Polina Aleksàndrovna!"
    "Più piano!" mormorò.
    "Figuratevi," le dissi in un bisbiglio,  "che poco fa  ho  sentito
    come un urto al fianco...  Mi volto...  e vedo voi! come se da voi
    emanasse un fluido elettrico!"
    "Prendete questa lettera!" disse Polina con fare preoccupato e con
    il viso accigliato,  certamente senza avere sentito quello che  le
    avevo  detto,  "e  consegnatela  personalmente  a  mister  Astley,
    subito. Il più presto possibile, vi prego. Non serve risposta. Lui
    stesso..."
    Non finì la frase.
    "A mister Astley?" chiesi con stupore.
    Ma Polina era già scomparsa dietro la porta.
    "Ah!  Sono dunque  in  corrispondenza!"  pensai.  Corsi  subito  a
    cercare  mister Astley prima nel suo albergo,  dove non lo trovai,
    poi al Casinò dove percorsi invano tutte le sale, infine, stizzito
    e  quasi  in  preda  alla  disperazione,   lo  incontrai,   mentre
    rientravo,  a cavallo tra un gruppo di signori e dame inglesi.  Lo
    chiamai con un cenno,  egli  si  fermò,  e  io  gli  consegnai  la
    lettera. Non facemmo in tempo nemmeno a scambiarci un'occhiata. Ma
    io  sospetto  che  mister  Astley  abbia a bella posta prontamente
    fatto partire il cavallo.
    Mi tormentava forse la gelosia?  Ma io ero in  uno  stato  d'animo
    abbattutissimo. Non volevo neppure sapere che cosa si scrivessero.
    Dunque,  era il suo uomo di fiducia! "Amico, certo, lo è" pensavo,
    "questo è evidente (ma quando ha fatto in tempo a diventarlo?), ma
    c'è poi amore, lì? Certo che no", mi sussurrava la ragione.  Ma si
    sa  che in simili casi la ragione da sola non basta.  In ogni caso
    c'era da chiarire anche questo.  La faccenda andava  complicandosi
    spiacevolmente.
    Non  ebbi  tempo di entrare nell'albergo che il portiere e il capo
    cameriere,  uscito  dalla  sua  stanza,   mi  avvertirono  che  mi
    cercavano  e  che  già  ben  tre  volte avevano mandato a chiedere
    dov'ero; e mi si pregava di andare al più presto nell'appartamento
    del generale.  Ero di pessimo umore.  Nello  studio  del  generale
    trovai,   oltre  a  lui,  naturalmente  De-Grieux  e  mademoiselle
    Blanche,  sola,  senza la madre.  La  madre  era  decisamente  una
    comparsa  che si usava soltanto per figura;  ma quando si trattava
    di un affare vero e proprio,  allora mademoiselle Blanche agiva da
    sola.  E  chi  sa  poi se quell'altra sapeva qualcosa degli affari
    della sua sedicente figliola!
    Essi, i tre, discutevano con calore su non so che cosa,  e persino
    la porta dello studio era stata chiusa,  il che non succedeva mai.
    Avvicinandomi alla porta,  sentii delle voci concitate: la parlata
    insolente e maligna di De-Grieux,  le grida insultanti e furibonde
    di Blanche e la voce piagnucolosa del generale,  che evidentemente
    si  giustificava  di  qualche accusa.  Al mio apparire tutti e tre
    sembrarono frenarsi e assumere un contegno diverso.  De-Grieux  si
    lisciò  i  capelli e mutò il viso irato in un viso sorridente,  di
    quel brutto sorriso francese,  ufficialmente amabile,  che io odio
    tanto.  Il  generale,  abbattuto e smarrito,  cercò di assumere un
    aspetto dignitoso,  ma come meccanicamente.  La sola  mademoiselle
    Blanche non aveva quasi mutato il suo aspetto che sprizzava sdegno
    e si limitò a tacere,  puntando su di me uno sguardo di impaziente
    attesa. Noterò che lei si era, fino a quel momento, comportata con
    me con una noncuranza inverosimile  all'eccesso,  non  rispondendo
    addirittura ai miei saluti: semplicemente non mi notava.
    "Alekséj  Ivànovitch"  cominciò  a  dire  il  generale  in tono di
    affettuoso rimprovero,  "permettetemi di  farvi  osservare  che  è
    strana,  straordinariamente  strana...  in  una parola,  la vostra
    condotta verso di  me  e  la  mia  famiglia...  in  una  parola  è
    straordinariamente strana!"
    "Eh!  ce n'est pas ça! (8)" interruppe De-Grieux in tono di stizza
    e di disprezzo.  (Decisamente  egli  dirigeva  tutto!)  "Mon  cher
    monsieur,  notre  cher général se trompe (9),  assumendo un simile
    tono" (continuò il suo discorso in russo) "ma egli voleva dirvi...
    cioè avvertirvi  o,  meglio  ancora,  pregarvi  vivamente  di  non
    rovinarlo...     sì,     di    non    rovinarlo!    Uso    proprio
    quest'espressione..."
    "Ma in che modo, in che modo?" lo interruppi.
    "Scusate,  voi vi incaricate di far da guida (o come dovrei dire?)
    a  quella vecchia,  cette pauvre,  terrible vieille," continuò De-
    Grieux confondendosi anche  lui,  "ma  quella  perderà  tutto,  si
    rovinerà  completamente!   Avete  visto  anche  voi,  siete  stato
    spettatore del suo modo di giocare! Se comincerà a perdere, non si
    allontanerà più da quel tavolo  per  ostinazione,  per  rabbia,  e
    giocherà  tutto,  giocherà  tutto...  e  in  simili casi non è più
    possibile rifarsi, e allora... allora..."
    "E allora," intervenne il generale,  "allora voi  avrete  rovinato
    tutta la famiglia! Io e la mia famiglia siamo i suoi eredi; non ha
    parenti  più  stretti.  Vi  dirò  francamente:  i miei affari sono
    malandati,  molto malandati.  Voi stesso in parte lo sapete...  Se
    lei  perderà una somma considerevole,  o magari anche tutto il suo
    patrimonio (oh Dio!),  che sarà allora di noi,  dei miei bambini?"
    Il  generale  si  girò a guardare De-Grieux.  "E di me!" (A questo
    punto diede  un'occhiata  a  mademoiselle  Blanche  che  con  aria
    sprezzante   si   girò  dall'altra  parte.)  "Alekséj  Ivànovitch,
    salvateci, salvateci!"
    "Ma come, generale, come posso... Che cosa conto io, qui?"
    "Rifiutate, rifiutate di accompagnarla!"
    "E allora troverà un altro!" esclamai io.
    "Ce n'est pas ça,  ce n'est pas ça" interruppe di nuovo De-Grieux,
    "que  diable!   No,   non  lasciatela,  ma  almeno  consigliatela,
    esortatela,  distraetela...  E,  infine,  non permettete che perda
    troppo, cercate di allontanarla in qualche modo..."
    "Ma  come farò?  Se ve ne incaricaste voi,  monsieur De-Grieux" lo
    interruppi con l'aria più ingenua possibile.
    A questo punto notai uno sguardo rapido, infuocato e interrogativo
    di mademoiselle Blanche a De-Grieux.  Sul viso di De-Grieux balenò
    qualcosa di sincero che egli non era riuscito a nascondere.
    "Ma  il  fatto è proprio questo,  che lei adesso non mi vorrebbe!"
    gridò gesticolando De-Grieux. "Se... poi..."
    De-Grieux lanciò un rapido e significativo sguardo a  mademoiselle
    Blanche.
    "O  mon  cher  monsieur Alexis,  soyez si bon...(10)" disse con un
    affascinante sorriso mademoiselle Blanche in persona,  facendo  un
    passo verso di me,  afferrandomi entrambe le mani e stringendomele
    forte.   Il  diavolo  mi  porti!   Quel  viso   diabolico   sapeva
    trasformarsi   in   un   attimo.   In   quell'istante  esso  prese
    un'espressione supplichevole dolcissima,  infantilmente sorridente
    e  persino  birichina;  verso  la fine della frase essa mi strizzò
    furbescamente  un  occhio,  di  nascosto  a  tutti;  voleva  forse
    confondermi  in  un  colpo  solo?  E la cosa non le riuscì neppure
    male, a parte il fatto che era tremendamente volgare.
    Dopo di lei, saltò su il generale, proprio saltò su:
    "Alekséj Ivànovitch,  perdonate se poco fa ho cominciato a parlare
    così con voi...  ma non volevo affatto dire quello... Io vi prego,
    vi supplico, mi inchino davanti a voi,  alla russa: voi solo,  voi
    solo   potete   salvarci!   Io   e  mademoiselle  de  Cominges  vi
    supplichiamo...   voi  capite,   vero,   voi  capite?"  implorava,
    indicandomi con lo sguardo mademoiselle Blanche.  Faceva veramente
    pena.
    In quel momento risuonarono tre colpi leggeri  e  rispettosi  alla
    porta; fu aperto; aveva bussato il cameriere del piano e dietro di
    lui,  a qualche passo, stava Potapytch. Li aveva mandati la nonna,
    con l'ordine di trovarmi e farmi andare immediatamente da lei; "E'
    arrabbiata" cominciò Potapytch.
    "Ma sono soltanto le tre e mezzo!"
    "Non ha potuto nemmeno dormire, ha continuato a rigirarsi di qua e
    di là;  poi di colpo si è alzata,  ha chiesto la poltrona e mi  ha
    mandato a chiamarvi. Adesso è sulla scala..."
    "Quelle mégère (11)" gridò De-Grieux.
    In   realtà  trovai  la  nonna  già  sulla  scala,   fuori  di  sé
    dall'impazienza perché io non c'ero ancora.  Non  aveva  resistito
    fino alle quattro.
    "Su, alzatemi!" gridò, e ci avviammo di nuovo alla roulette.


    NOTE.
    1) "Che vincita!"
    2) "Ma che fuoco, signora!"
    3)  "Signora  principessa...   un  povero  emigrante...  disgrazie
    continue... i principi russi sono tanto generosi..."
    4) "Diavolo, è una vecchia terribile!"
    5) "Che significa ciò... diavolo!"
    6)  "Ma  signora,  la  fortuna  può  cambiare...   un  solo  colpo
    sfortunato e perderete tutto... specialmente con il vostro modo di
    giocare: era terribile!"
    7) "Perderete certamente!"
    8) "Non si tratta di questo!"
    9) "Caro signore, il nostro buon generale si sbaglia."
    10) "Oh, mio caro signor Alexis, siate così buono..."
    11) "Che strega!"








    12.

    La nonna era in uno stato d'animo impaziente e irritato, si capiva
    che  la  roulette  le  stava fissa in mente.  A tutto il resto era
    indifferente e, in generale, molto distratta. Lungo la strada, per
    esempio,  non mi rivolse nessuna domanda.  Solo alla vista di  una
    lussuosa  carrozza  che era passata accanto a noi come un turbine,
    alzò una mano e chiese: "Che cos'è?  Di chi sono  i  cavalli?"  ma
    credo  che  non  abbia  nemmeno  sentito  la mia risposta;  il suo
    fantasticare era continuamente interrotto da rapidi movimenti  del
    corpo e da brusche e impazienti uscite.  Quando,  ormai già vicini
    al Casinò,  le  indicai  da  lontano  il  barone  e  la  baronessa
    Wurmerhelm,   lei   li  guardò  distrattamente  e,   con  assoluta
    indifferenza, disse: "Ah!" e, giratasi rapidamente verso Potapytch
    e Marfa che venivano dietro, brontolò:
    "Be',  perché vi siete appiccicati a me?  Non posso portarvi  ogni
    volta!  Tornate a casa!  Mi basti anche tu" aggiunse rivolta a me,
    quando  quelli,   dopo  essersi  frettolosamente   inchinati,   si
    avviarono verso casa.
    Al  Casinò  la  nonna  era ormai attesa.  Le fu subito liberato lo
    stesso posto dell'altra volta,  vicino al croupier.  Mi sembra che
    questi  croupiers,  sempre  così  composti  e con l'aria di comuni
    impiegati ai quali è quasi perfettamente indifferente che il banco
    vinca o perda, non lo siano poi completamente e che, senza dubbio,
    siano forniti di istruzioni appropriate per attirare i giocatori e
    per meglio controllare l'interesse dello stato: per la qual  cosa,
    naturalmente,  ricevono ricompense e premi.  Per lo meno, la nonna
    era  già  considerata  una  vittima.  Poi,  quello  che  i  nostri
    supponevano, successe.
    Ecco come andò.
    La  nonna  si buttò difilato sullo zero e ordinò di puntare subito
    dodici federici alla volta. Puntammo, una, due, tre volte: lo zero
    non usciva.
    "Punta, punta!" mi diceva con impazienza,  dandomi degli spintoni.
    Io ubbidivo.
    "Quante  volte  abbiamo  già  puntato?"  chiese  infine,   facendo
    scricchiolare i denti dall'impazienza.
    "Abbiamo   fatto   la   dodicesima,    nonna,    e   perduto   già
    centoquarantaquattro federici. Vi ripeto, nonna, che magari fino a
    questa sera..."
    "Taci!"  mi  interruppe la vecchia.  "Punta sullo zero e metti sul
    rosso mille fiorini. To', ecco il denaro."
    Uscì il rosso,  e lo zero  fece  cilecca.  Ci  restituirono  mille
    fiorini.
    "Vedi,  vedi!" bisbigliava la nonna.  "Ci hanno ridato quasi tutto
    quello che abbiamo puntato.  Punta di nuovo sullo zero:  punteremo
    ancora una decina di volte e poi lasceremo stare."
    Ma alla quinta volta la nonna si era già stufata.
    "Manda  al  diavolo  quello schifoso zeruccio.  Su,  punta tutti i
    quattromila fiorini sul rosso" mi ordinò.
    "Nonna!  Sarà troppo...  e se il rosso non esce?" le  dissi  quasi
    supplicando.  Poco mancò che non mi picchiasse.  (E, del resto, mi
    dava tali spintoni che era quasi come se mi battesse.)  Non  c'era
    niente da fare: puntai sul rosso tutti i quattromila fiorini vinti
    poco prima. La ruota cominciò a girare. La nonna sedeva calma e si
    era alzata con fierezza, senza il minimo dubbio sulla vittoria.
    "Zero!" esclamò il croupier.
    All'inizio  la  nonna  non  capì  ma,  quando vide che il croupier
    rastrellava i suoi quattromila gulden insieme con tutto quello che
    c'era sul tavolo e seppe che lo zero,  che così a  lungo  non  era
    uscito  e  sul quale avevamo puntato quasi duecento federici,  era
    saltato  fuori  quasi  a  bella  posta  non  appena  lei   l'aveva
    ingiuriato  e  abbandonato,  mandò  un  "ah!" e batté le mani così
    forte che l'udirono per tutta la sala.  Qualcuno,  lì attorno,  si
    mise a ridere.
    "Santi  benedetti!  Proprio quel dannato è saltato fuori!" urlò la
    nonna.  "Dannato d'un dannato!  Sei tu!  Sei  proprio  tu!"  urlò,
    scagliandosi  contro  di  me,  e  scotendomi.  "Sei  tu che mi hai
    dissuasa!"
    "Nonna,  io vi ho detto  come  stavano  le  cose;  ma  come  posso
    rispondere di tutte le probabilità?"
    "Te le darò io le probabilità!" sussurrò minacciosamente. "Vattene
    via!"
    "Addio, nonna!" e mi girai per andarmene.
    "Alekséj Ivànovitch!  Alekséj Ivànovitch, rimani! Dove vai? Su, ma
    perché, perché? Guarda un po'... si è arrabbiato! Scemo! Sta' qui,
    vieni, sta' qui, non arrabbiarti, sono io una sciocca!  Su!  Dimmi
    che cosa bisogna fare adesso!"
    "Io,  nonna,  non  vi do più nessun consiglio,  perché poi date la
    colpa a me. Giocate come vi pare: ordinate, e io punterò."
    "Su, su!  Su,  punta ancora quattromila gulden sul rosso!  Ecco il
    portafogli,  prendi!" Tirò fuori il portafogli dalla tasca e me lo
    porse. "Su, presto, prendi, ci sono ventimila rubli in contanti."
    "Nonna..." balbettai, "una puntata così..."
    "Voglio morire, se non mi rifaccio. Punta!" Puntammo e perdemmo.
    "Punta, punta, puntali tutti ottomila!"
    "Non si può nonna, la puntata più alta è di quattro..."
    "E allora puntane quattro!"
    Questa volta vincemmo. La nonna riprese animo.
    "Vedi,  vedi!" mi disse,  dandomi uno spintone.  "Puntane di nuovo
    quattro!"
    Puntammo e perdemmo; poi perdemmo ancora, e ancora.
    "Nonna, tutti i dodicimila se ne sono andati!" riferii.
    "Lo  vedo  che  se  ne sono andati tutti," disse con una specie di
    furore tranquillo, se così ci si può esprimere, "vedo,  bàtjushka,
    vedo,"  borbottava,  guardando  davanti  a  sé,  immobile  e  come
    pensierosa,  "eh!  voglio  morire,  ma  punta  ancora  quattromila
    gulden."
    "Ma  non  c'è  più  denaro,  nonna:  qui nel portafogli ci sono le
    nostre cartelle al cinque per cento e delle lettere di cambio,  ma
    niente denaro."
    "E nel borsellino?"
    "Soltanto alcuni spiccioli, nonna."
    "Non  c'è qui un cambiavalute?  Mi hanno detto che i nostri valori
    si possono cambiare, no?" mi domandò in tono deciso.
    "Oh sì, quanto si vuole! Ma nel cambio perderete tanto che persino
    un ebreo si spaventerebbe!"
    "Sciocchezze!  Avrò la rivincita!  Accompagnami.  Chiamate  subito
    quegli scemi!"
    Spinsi la poltrona, vennero i portatori e uscimmo dal Casinò.
    "Presto, presto, presto!" ordinava la nonna. "Mostragli la strada,
    Alekséj Ivànovitch... prendi la via più breve. E' lontano?"
    "Due passi, nonna."
    Ma  alla  svolta  dal  piazzale  sul viale incontrammo parte della
    nostra compagnia: il generale,  De-Grieux e  mademoiselle  Blanche
    con  la  mamma.  Polina  Aleksàndrovna  non  era con loro e mister
    Astley neppure.
    "Su,  su,  su!  Senza fermarsi!" gridava la nonna.  "Che cosa fate
    qui? Non ho tempo di stare qui con voi!"
    Io camminavo dietro; De-Grieux corse da me.
    "Ha  perduto  appena  adesso  tutto quello che aveva vinto e ci ha
    rimesso dodicimila fiorini dei suoi.  Ora andiamo a  cambiare  dei
    titoli al cinque per cento" gli sussurrai in fretta.
    De-Grieux batté il piede in terra e si precipitò a comunicare ogni
    cosa al generale. Noi continuammo a spingere la nonna.
    "Fermatela, fermatela!" mi sussurrò il generale, furioso.
    "Provate un po' voi a fermarla..." gli dissi piano.
    "Zietta!"  si  avvicinò  il generale,  "zietta...  noi ora...  noi
    ora..." e la voce gli tremava e gli veniva meno;  "noleggeremo dei
    cavalli  e  andremo  fuori città...  C'è una vista stupenda...  la
    'pointe...' venivamo a invitarvi."
    "Va' a farti benedire con  la  tua  'puànt'!"  esclamò  la  nonna,
    allontanandolo con un gesto irritato della mano.
    "Là c'è un villaggio... prenderemo il tè..." continuò il generale,
    ormai in preda alla disperazione.
    "Nous  boirons du lait sur l'herbe fraîche (1)" aggiunse De-Grieux
    con un odio furioso.
    "Du lait, de l'herbe fraîche",  ecco in che cosa consiste l'ideale
    idillico del borghese parigino;  in questo, com'è noto, sta il suo
    modo di vedere "la nature et la vérité"!
    "Va' a quel paese con il tuo latte! Bevitelo tu, che a me ha fatto
    venire il mal di pancia.  Ma perché vi  siete  appiccicati  così?"
    gridò la nonna. "Vi ho detto che non ho tempo!"
    "Siamo arrivati, nonna!" esclamai. "E' qui."
    La  spingemmo  davanti  a una casa dove si trovava l'ufficio di un
    banchiere.  Andai a cambiare;  la nonna rimase in  attesa  davanti
    all'ingresso;   De-Grieux,   il  generale  e  Blanche  stavano  in
    disparte,   non  sapendo  che  cosa  fare.   La  nonna  li  guardò
    irosamente, ed essi presero la strada per il Casinò.
    Mi  proposero un cambio così svantaggioso che non ebbi il coraggio
    di  eseguire  l'operazione  e  tornai  dalla  nonna   a   chiedere
    istruzioni.
    "Ah,  briganti!"  si  mise  a gridare,  battendo le mani.  "Ma non
    importa,  cambia lo stesso!" mi  ordinò  in  tono  deciso.  "No...
    aspetta, chiamami il banchiere."
    "Forse qualcuno degli impiegati, nonna?"
    "Sì, anche un impiegato, è indifferente. Ah, che briganti!"
    Uno degli impiegati acconsentì a uscire,  dopo aver saputo che chi
    lo pregava  era  una  vecchia  contessa  inferma  che  non  poteva
    camminare.  La nonna per un bel pezzo,  a voce alta e adirata, gli
    rinfacciò la sua furfanteria e mercanteggiò con lui in un misto di
    russo,  francese e tedesco,  mentre  io  la  aiutavo  a  tradurre.
    L'impiegato  ci guardava con espressione seria e scuoteva la testa
    in  silenzio.  Egli  fissava  la  nonna  con  una  curiosità  così
    insistente che rasentava la scortesia; infine prese a sorridere.
    "Be',  vattene!" gridò la nonna.  "Che i miei quattrini ti restino
    in gola! Cambia qui, Alekséj Ivànovitch, non abbiamo tempo,  se no
    si potrebbe andare da un altro..."
    "L'impiegato dice che gli altri danno ancora meno."
    Non  ricordo  con  precisione  il  conteggio  di  allora,   ma  fu
    spaventoso.   Cambiai  circa  dodicimila  fiorini  in  oro  e   in
    biglietti, presi il conto e lo portai alla nonna.
    "Su, su, su... E' inutile star lì a fare conti!" esclamò, agitando
    le mani. "Presto, presto, presto!"
    "Non  punterò  mai più su quel maledetto zero e neppure sul rosso"
    dichiarò, mentre ci avvicinavamo al Casinò.
    Questa volta provai con tutte le mie forze a convincerla a puntare
    il  meno  possibile,  assicurandola  che,  se  la  fortuna  avesse
    cambiato giro, avremmo sempre avuto il tempo di puntare una grossa
    cifra.  Ma lei era così impaziente che,  sebbene sulle prime fosse
    stata d'accordo,  non fu più possibile frenarla durante il giuoco.
    Aveva appena cominciato a vincere puntate di dieci, venti federici
    che già aveva ripreso a darmi degli spintoni dicendo:
    "Su,  su...  ecco!  Su,  ecco! Ecco che abbiamo vinto; se ci fosse
    stato un quattro al posto del  dieci,  avremmo  preso  quattromila
    gulden, e adesso? Sempre tu, sempre tu!"
    E,  per  quanto  mi irritassi guardando il suo gioco,  decisi alla
    fine di tacere e di non darle più consigli.
    All'improvviso accorse De-Grieux. Erano tutti e tre vicini;  notai
    che  mademoiselle  Blanche stava un po' in disparte con la mamma e
    faceva  moine  al  principe.  Il  generale  era  evidentemente  in
    disgrazia,  quasi  messo  al  bando.  Blanche  non  voleva nemmeno
    guardarlo, sebbene egli la riempisse di cortesie. Povero generale!
    Impallidiva,  arrossiva,  trepidava e quasi non seguiva neppure il
    gioco  della  nonna.  Blanche  e  il  principotto  alla fine se ne
    andarono; il generale li seguì.
    "Madame,  madame" sussurrava con voce melata De-Grieux alla nonna,
    spingendosi avanti fino al suo orecchio.  "Madame,  questa puntata
    non va...  no,  no...  non è  possibile..."  diceva  in  un  russo
    storpiato. "No!"
    "E come,  allora? Su, insegnamelo!" esclamò la nonna, rivolgendosi
    a lui.  De-Grieux improvvisamente si mise a parlare in  fretta  in
    fretta  in francese,  cominciò a dare consigli,  ad affannarsi,  a
    dire che bisognava aspettare la buona sorte,  a fare  conteggi  di
    non  so  quali  cifre...  La  nonna non ci capiva niente.  Egli si
    rivolgeva continuamente a me perché io traducessi; puntava il dito
    sul tavolo, indicava e infine, afferrata la matita,  già stava per
    iniziare a far dei conti su un foglietto, quando la nonna perse la
    pazienza.
    "Su, vattene, vattene! Non dici che sciocchezze! Madame, madame, e
    tu stesso non capisci niente. Vattene!"
    "Mais,  madame"  cinguettò De-Grieux,  riprendendo a ragionare e a
    spiegare. Era veramente molto preoccupato.
    "Su,  punta una volta come  dice  lui"  mi  ordinò  la  nonna,  "e
    vedremo: forse uscirà davvero."
    De-Grieux   voleva  soltanto  dissuaderla  dalle  grosse  puntate;
    proponeva di puntare sui  numeri,  singoli  e  a  gruppi.  Puntai,
    secondo  la  sua indicazione,  un federico su ciascun numero della
    serie dispari,  compresi tra i primi dodici,  e cinque federici su
    ciascuno  dei gruppi di cifre comprese tra il dodici e il diciotto
    e il ventiquattro; in tutto sedici federici.
    La ruota prese a girare.
    "Zero" proclamò il croupier.
    Avevamo perso tutto.
    "Che imbecille!" gridò la nonna,  rivolgendosi a  De-Grieux.  "Che
    razza  di  indegno  francesuccio  sei!  E dà anche consigli,  quel
    mostro!  Vattene,  vattene!  Non capisce niente e vuole ficcare il
    suo naso..."
    Terribilmente  offeso,  De-Grieux alzò le spalle,  guardò con aria
    sprezzante la nonna e  si  allontanò.  Cominciava  egli  stesso  a
    vergognarsi  di  essersi impicciato in quella faccenda;  era stato
    troppo impaziente.
    Nello spazio di un'ora, per quanto ci battessimo,  avevamo perduto
    tutto.
    "A casa!" gridò la nonna.
    Non pronunciò più una parola fino al viale.  Nel viale, quando già
    ci avvicinavamo all'albergo,  cominciò a  lasciarsi  sfuggire  una
    serie di esclamazioni.
    "Che sciocca! Che scioccona! Sei proprio una stupida, stupidissima
    vecchia!"
    Non appena fummo entrati nell'appartamento gridò:
    "Portatemi il tè, e preparate subito i bagagli. Partiamo!"
    "Dove volete andare màtushka?" chiese Marfa.
    "E  a  te  che  importa?  Il  grillo stia tranquillo nel suo buco!
    Potapytch, raccogli tutto, prepara il bagaglio.  Torniamo a Mosca!
    Quindicimila rubli d'argento mi sono giocata!"
    "Quindicimila  rubli,  màtushka?  Oh,  mio  Dio!" gridò Potapytch,
    unendo con aria contrita le mani  e  credendo,  probabilmente,  di
    rendersi gradito con quel gesto.
    "Su,  su,  stupido!  Mettiti anche a piagnucolare,  adesso!  Taci!
    Preparatevi! Il conto, presto, il conto!"
    "Il prossimo treno parte alle nove e mezzo, nonna" la informai per
    arrestare la sua frenesia.
    "E adesso che ore sono?"
    "Le sette e mezzo."
    "Che rabbia!  Ma non  importa!  Alekséj  Ivànovitch,  non  ho  più
    nemmeno una copeca. Eccoti ancora due obbligazioni, corri laggiù e
    cambiami anche queste. Altrimenti non so con che cosa partire."
    Mi avviai.  Dopo mezz'ora,  rientrato all'albergo, trovai i nostri
    dalla nonna.  La notizia che essa stava per partire per  Mosca  li
    aveva colpiti,  a quanto pare,  ancora di più delle sue perdite al
    giuoco.  E' vero che con la partenza si salvava il suo patrimonio,
    ma  che  sarebbe ora successo al generale?  Chi avrebbe pagato De-
    Grieux?  Mademoiselle Blanche,  si capisce,  non avrebbe aspettato
    che morisse la nonna ma,  senza dubbio,  avrebbe tagliato la corda
    con il piccolo principe o con qualcun altro. Erano tutti intorno a
    lei,  la consolavano e cercavano  di  dissuaderla.  Polina,  anche
    questa  volta,  non c'era.  La nonna imprecava furiosamente contro
    tutti.
    "Toglietevi dai piedi, diavoli! A voi che importa?  Perché,  barba
    di  caprone,  ti intrufoli qui?" gridava la nonna a De-Grieux.  "E
    tu, donnetta, che vuoi?" disse a mademoiselle Blanche,  "perché mi
    giri intorno?"
    "Diantre!" mormorò mademoiselle Blanche con gli occhi scintillanti
    di ira ma, di colpo, scoppiò in una risata e uscì.
    "Elle  vivra  cent  ans!"  gridò,  mentre  varcava  la soglia,  al
    generale.
    "Ah,  dunque,  tu fai conto sulla mia morte?"  urlò  la  nonna  al
    generale.  "Vattene! Cacciali fuori tutti, Alekséj Ivànovitch! Che
    importa a voi? Mi sono mangiata il mio, non il vostro!"
    Il generale si strinse nelle spalle, si curvò e uscì. De-Grieux lo
    seguì.
    "Chiamare subito Praskòvja!" ordinò la nonna a Marfa.
    Dopo cinque minuti Marfa tornò con Polina.  In tutto questo  tempo
    Polina  era  rimasta  in camera sua con i bambini e sembra che,  a
    bella posta,  avesse deciso di non uscirne per  tutto  il  giorno.
    Aveva un viso serio, triste e preoccupato.
    "Praskòvja,"  cominciò a dire la nonna,  "è vero ciò che ho saputo
    indirettamente poco fa, che quell'imbecille del tuo patrigno vuole
    sposare quella sciocca farfallina d'una francese,  quell'attrice o
    peggio ancora? Dimmi, è vero?"
    "Di sicuro non lo so,  nonna," rispose Polina,  "ma, a quanto dice
    la  stessa  mademoiselle  Blanche  che  non   ritiene   necessario
    nasconderlo, concludo che..."
    "Basta!" la interruppe la nonna energicamente.  "Capisco tutto! Ho
    sempre creduto che da  lui  c'era  da  aspettarselo,  l'ho  sempre
    considerato l'uomo più vuoto e più leggero del mondo.  Si dà tante
    arie perché è generale (era colonnello e è stato  promosso  quando
    era  già  in  pensione) e si crede chi sa chi.  Io,  mia cara,  so
    tutto,  so che mandavate  a  Mosca  un  telegramma  dopo  l'altro:
    'Tirerà  presto  le  cuoia,  quella  vecchia  nonna?'  Aspettavate
    l'eredità;  senza denaro  quella  vigliacca  donnetta...  come  si
    chiama?  de  Cominges o non so come...  non lo prenderebbe neanche
    come lacchè, e per di più con i denti finti.  Dicono che lei abbia
    un  mucchio di denaro,  lo presta a interesse,  denaro ammucchiato
    onestamente.  Io,  Praskòvja,  non accuso te;  non sei stata tu  a
    mandare i telegrammi;  e il passato non voglio ricordarlo.  So che
    tu hai un caratterino di quelli... una vespa! Se pungi, dove pungi
    gonfia,  ma mi fai pena perché alla buon'anima  di  Katerina,  tua
    madre,  io  volevo  bene.  Vuoi?  Pianta qui tutti e parti con me.
    Ecco, qui non hai dove ficcarti e che tu resti qui con lui non sta
    bene.  Aspetta!" continuò la nonna,  interrompendo Polina che  già
    stava per rispondere,  "non ho ancora finito. Da te non pretenderò
    niente. La mia casa a Mosca, tu lo sai, è un palazzo;  tu potresti
    occupare un piano intero e non scendere da me per delle settimane,
    se il mio carattere non ti va a genio. Su, vuoi, oppure no?"
    "Permettete che prima vi chieda se volete davvero partire subito."
    "Scherzo io forse,  màtushka? L'ho detto, e partirò. Oggi ho speso
    quindicimila  rubli,  alla  vostra  stramaledetta  roulette.   Nei
    dintorni  di  Mosca,   cinque  anni  fa,   ho  fatto  promessa  di
    ricostruire  in  pietra  la  chiesa  di  legno  e  adesso  qui  ho
    sperperato tutto. Ora, màtushka, andrò a ricostruire la chiesa."
    "E le acque, nonna? Eravate venuta per la cura delle acque, vero?"
    "Ma smettila con le tue acque!  Non farmi irritare,  Praskòvja: lo
    fai apposta, vieni o no?"
    "Vi sono molto, molto grata, nonna," disse Polina, commossa,  "per
    il  rifugio  che  mi  offrite.  Avete  in  parte indovinato la mia
    situazione.  Vi sono così grata che,  credetemi,  verrò da voi,  e
    forse anche presto;  ma ora ci sono dei motivi...  importanti... e
    non posso prendere una decisione così su due piedi.  Se voi  foste
    rimasta almeno due settimane..."
    "Sicché, non vuoi?"
    "Sicché,  non  posso.  E  non  posso,  in  ogni caso,  lasciar qui
    fratello e sorella perché...  perché può effettivamente  succedere
    che restino abbandonati... Allora, se mi prenderete con i piccoli,
    nonna,  verrò certamente da voi e,  credetemi, saprò meritarmelo!"
    aggiunse con calore. "Ma senza i bambini è impossibile, nonna!"
    "Su,   non  piagnucolare!"  (Polina  non  ci  pensava  neppure  di
    piagnucolare  e poi lei non piangeva mai!) "Anche per i pulcini si
    troverà un posto: il pollaio è grande.  E poi è ora che  vadano  a
    scuola.  Dunque,  adesso  non  vuoi  partire?  Ebbene,  Praskòvja,
    guarda! Io vorrei il tuo bene; ma,  vedi,  lo so perché non parti.
    Io  so tutto,  Praskòvja!  Non ti porterà a niente di buono,  quel
    francesuccio."
    Polina si fece di fiamma. Io sussultai. (Lo sanno tutti!  Io solo,
    dunque, non so niente!)
    "Su,  su... non accigliarti. Non starò a tirarla tanto in lungo...
    Bada soltanto che non succeda qualche guaio,  capisci?  Tu sei una
    ragazza  intelligente;  mi dispiacerebbe per te.  Ma adesso basta,
    non vorrei più avervi qui davanti! Va', addio!"
    "Io, nonna, vi accompagnerò ancora" disse Polina.
    "Non serve, non disturbarti; e poi mi siete venuti tutti a noia."
    Polina baciò la mano alla nonna,  ma quella la ritirò e  baciò  la
    fanciulla sulla guancia.
    Passandomi vicino,  Polina mi lanciò un rapido sguardo,  ma subito
    distolse gli occhi. "Suvvia, addio anche a te, Alekséj Ivànovitch!
    Manca solo più un'ora alla partenza. Anche tu ti sarai stancato di
    stare con me penso. Tieni, prendi questi cinquanta federici."
    "Vi ringrazio umilmente, nonna, ma mi vergogno..."
    "Su,  su!" gridò la nonna in  tono  così  energico  che  non  osai
    protestare e accettai.
    "A Mosca, quando correrai di qua e di là senza posto, vieni da me;
    ti raccomanderò a qualcuno. Su, vattene!"
    Mi  ritirai  in  camera mia e mi stesi sul letto.  Credo di essere
    rimasto per una mezz'ora supino, con le mani intrecciate dietro la
    testa.   La  catastrofe  ormai  era  scoppiata,   c'era   di   che
    preoccuparsi.  Decisi  che  l'indomani  avrei parlato seriamente a
    Polina. Ah! Il francesuccio? Dunque, era vero!  Ma che cosa poteva
    esserci, però? Polina e De-Grieux! Mio Dio, che confronto!
    Tutto questo era semplicemente incredibile. Balzai d'un tratto dal
    letto,  fuori  di me,  per andare subito a cercare mister Astley e
    costringerlo, a qualsiasi costo, a parlare. Egli,  senza dubbio ne
    sapeva più di me. Mister Astley? Ecco un altro mistero per me!
    Ma,  improvvisamente,  sentii  bussare  alla mia porta.  Guardo: è
    Potapytch.
    "Bàtjushka, Alekséj Ivànovitch, la signora vi vuole!"
    "Che c'è? Parte, no? Al treno mancano ancora venti minuti."
    "E' inquieta,  bàtjushka,  non può star ferma.  'Presto,  presto!'
    ripete,  cioè  vuole  voi,  bàtjushka:  per  amore di Cristo,  non
    indugiate."
    Mi precipitai giù.  La nonna l'avevano già portata nel  corridoio.
    Nelle mani teneva il portafogli.
    "Alekséj Ivànovitch, cammina avanti, andiamo!"
    "Dove, nonna?"
    "Voglio  morire,  se  non mi rifarò!  Avanti,  march,  senza tante
    domande! Là si giuoca sino a mezzanotte, eh?"
    Ero rimasto di stucco, riflettei, ma presi subito una decisione.
    "Come volete, Antonida Vassìlevna, ma io non ci andrò."
    "E perché? Che significa? Avete tutti le smanie?"
    "Come credete,  ma poi dovrei rimproverare me stesso: non  voglio!
    Non  voglio  essere  né  spettatore,  né partecipe.  Dispensatemi,
    Antonida Vassìlevna.  Ecco i vostri cinquanta federici: addio!" E,
    deposto il rotolo dei federici su un tavolino,  vicino al quale si
    trovava la poltrona della nonna, mi inchinai e me ne andai.
    "Che assurdità!" mi gridò  alle  spalle  la  nonna.  "Non  venire,
    pazienza: troverò la strada da sola;  Potapytch, vieni con me! Su,
    sollevate la poltrona, portatemi!"
    Non trovai mister Astley e tornai a casa.  Sul tardi,  già dopo la
    mezzanotte,  seppi  da  Potapytch come si era conclusa la giornata
    della nonna. Aveva perduto tutto quanto avevo poco prima cambiato,
    cioè, in moneta nostra, ancora diecimila rubli. Le si era di nuovo
    appiccicato quel piccolo polacchino al quale aveva dato prima  due
    federici,  e  l'aveva guidata durante tutto il gioco.  All'inizio,
    prima del polacchino,  stava già per far puntare Potapytch ma  ben
    presto l'aveva mandato via; e proprio allora si era precipitato il
    polacchino.  Come a farlo apposta, egli capiva il russo e persino,
    alla bell'e meglio,  lo  parlava,  in  un  misto  di  tre  lingue,
    cosicché riuscivano quasi a capirsi a vicenda.  La nonna per tutto
    il tempo lo insolentì senza pietà e,  sebbene quello  non  facesse
    che  "strisciare  ai  piedini  della pani" tuttavia "non si poteva
    certo  confrontarlo  con  voi,   Alekséj  Ivànovitch"   raccontava
    Potapytch.  "Voi vi trattava proprio come un signore,  e quello...
    quello l'ho visto io,  con i miei occhi,  Dio mi fulmini se mento,
    le rubava il denaro dal tavolo.  Lei stessa lo pescò due volte sul
    fatto e l'ha insolentito, insolentito con ogni sorta di parolacce,
    bàtjushka, e una volta, davvero, non dico bugie....  una volta gli
    tirò  persino i capelli tanto che tutt'intorno scoppiò una risata.
    Tutto, bàtjushka, ha perduto: tutto ciò che voi le avete cambiato.
    Adesso l'abbiamo portata qui,  la matushka;  soltanto un bicchiere
    d'acqua  ha  chiesto,  si  è fatta il segno della croce e subito è
    andata a letto.  Sarà  stata  stanca,  perché  si  è  addormentata
    immediatamente.  Che  Iddio  le mandi sogni d'angelo!  Oh,  questo
    estero!" concluse Potapytch. "Lo dicevo io,  che non portava bene!
    Potessimo  tornare  presto  nella nostra Mosca!  Che cosa ci manca
    nella nostra casa a Mosca? Il giardino,  dei fiori come qui non se
    ne vedono,  il profumo, i meli pieni di germogli, lo spazio... no:
    bisognava venire all'estero! Oh-oh-oh!"


    NOTE.
    1) "Berremo del latte sull'erbetta fresca!"









    13.

    E' passato ormai quasi un mese da quando non ho più toccato queste
    mie note,  iniziate sotto l'influsso di impressioni forti  sì,  ma
    disordinate.   La  catastrofe,   la  cui  imminenza  avevo  allora
    previsto,  si abbatté realmente,  ma cento volte  più  violenta  e
    inaspettata  di quanto io non pensassi.  E' stata una cosa strana,
    scandalosa e addirittura tragica, almeno per me.  Mi sono capitati
    alcuni casi quasi miracolosi;  così,  almeno,  mi sembrano tuttora
    anche  se,   a  considerarli  da  un  altro  punto  di  vista   e,
    soprattutto,  giudicando  dal  vortice  in cui allora mi aggiravo,
    essi erano forse soltanto non del tutto comuni.  Ma per me la cosa
    più  miracolosa  è  il modo con cui io mi sono comportato in tutti
    quegli avvenimenti.  Non riesco ancora oggi a capire me stesso!  E
    tutto è volato via come un sogno; anche la mia passione - e sì che
    era  intensa  e sincera - dove mai è andata a finire?  Davvero,  a
    volte mi balena quest'idea: "Ma non sono forse impazzito allora  e
    non  sono stato tutto questo tempo in qualche manicomio dove forse
    mi trovo ancora oggi,  così che tutto ciò mi è  sembrato  e  anche
    adesso mi sembra soltanto?"
    Ho  raccolto  e  riletto  i  miei  foglietti.  (Chi sa,  forse per
    convincermi di non averli scritti in un manicomio?)
    Ora  sono  solo  soletto.   L'autunno  si  avvicina,   le   foglie
    ingialliscono. Me ne sto in questa triste cittadina (oh, come sono
    tristi  le cittadine tedesche!) e,  invece di riflettere sul passo
    che sto per compiere,  vivo sotto l'influsso di sensazioni  appena
    spente,  di  ricordi freschi,  sotto l'influsso di tutto il fresco
    turbine che allora mi ha trascinato in quel vortice e che di nuovo
    mi ha scagliato fuori,  chi sa dove.  Mi sembra,  ogni  tanto,  di
    aggirarmi  ancora  in  quello  stesso  turbine e che da un momento
    all'altro  si  scatenerà  un'altra  volta  la  tempesta   che   mi
    afferrerà,  passandomi  accanto,  con  la sua ala,  e io uscirò di
    nuovo dall'ordine e dal  senso  della  misura  e  girerò,  girerò,
    girerò...
    Del resto,  forse mi fermerò in qualche posto e smetterò di girare
    se darò a me stesso,  per quanto possibile,  esatto conto di tutto
    quello che è successo in questo mese.  La penna mi attrae di nuovo
    e spesso, la sera,  non so proprio che cosa fare.  Strano,  pur di
    occuparmi   in   qualche  modo,   prendo  nella  locale,   cattiva
    biblioteca,  i romanzi di Paul de Kock (in traduzione tedesca) che
    quasi non posso soffrire, ma li leggo, e mi stupisco di me stesso:
    è  come  se  avessi  paura  che  un  libro serio o qualsiasi seria
    occupazione  potesse  spezzare  l'incanto  di  ciò  che  è  appena
    passato.  Mi  è  proprio  così caro quel brutto sogno con tutte le
    impressioni rimastemi,  da temere  persino  che,  sfiorandolo  con
    qualcosa  di  nuovo debba dissolversi come fumo?  Mi è dunque così
    caro tutto questo?  Sì,  certamente mi è caro,  e forse anche  tra
    quarant'anni lo ricorderò...
    E,  così mi metto a scrivere.  Del resto,  tutto si può raccontare
    ora,  in parte,  anche più brevemente: le impressioni non sono più
    quelle...

    Per  prima  cosa,  concludiamo il discorso sulla nonna.  Il giorno
    dopo,  ella perse tutto,  definitivamente.  Così doveva  accadere:
    chi, tra le persone come lei, capita una volta su quella strada, è
    come  se  scivolasse in slitta da una china nevosa,  sempre più in
    fretta, sempre più in fretta...  Giocò tutto il giorno,  fino alle
    otto  di  sera;  io  non  fui  presente al suo gioco e so soltanto
    quello che ho sentito dire.
    Potapytch rimase di guardia vicino a lei al Casinò  per  tutta  la
    giornata. I polaccucci che guidavano la nonna si allontanarono più
    volte  durante il giorno.  Ella iniziò con lo scacciare il polacco
    del giorno prima,  quello che aveva tirato per  i  capelli,  e  ne
    prese un altro,  il quale, però, risultò quasi peggiore del primo.
    Scacciato anche questo e  ripreso  il  primo  -  che  non  si  era
    allontanato  e  durante  tutto  il  tempo  dell'esilio era rimasto
    sempre lì dietro la poltrona  sporgendo  continuamente  avanti  la
    testa  -  si  lasciò  prendere  da  vera disperazione.  Il secondo
    polacco scacciato non  voleva  andarsene  neppure  lui,  a  nessun
    costo;  uno si sistemò a destra, l'altro a sinistra. Durante tutto
    il tempo non fecero che litigare  e  scambiarsi  ingiurie  per  le
    puntate  e  le  mosse;  si  dicevano a vicenda lajdaki (1) e altri
    complimenti polacchi,  poi si riappacificavano,  gettavano via  il
    denaro  senza  alcun  ordine,  prendevano  decisioni  a  casaccio.
    Attaccata di nuovo  lite,  essi  puntavano  ognuno  dalla  propria
    parte,  uno,  per esempio,  sul rosso e l'altro sul nero. Finì che
    stordirono e confusero tanto  la  nonna  che  lei,  quasi  con  le
    lacrime  agli  occhi,  si  rivolse  al "croupier",  un vecchietto,
    pregandolo di difenderla e di scacciarli.  Infatti  furono  subito
    mandati  via,  nonostante  le  loro  grida  e  le  loro  proteste;
    strillavano tutti e due insieme,  e cercavano di dimostrare che la
    nonna era in debito verso di loro,  che li aveva imbrogliati,  che
    aveva  agito  nei  loro  riguardi  in  modo  disonesto  e   basso.
    L'infelice  Potapytch mi raccontò tutto questo con le lacrime agli
    occhi la sera stessa della perdita,  e lamentandosi  che  essi  si
    fossero riempite le tasche di denaro, assicurava di aver visto con
    i  suoi  occhi  come rubavano senza scrupolo e come ogni minuto si
    mettevano quattrini in tasca. Se uno, per esempio,  otteneva dalla
    nonna  cinque federici per le sue fatiche,  subito li puntava alla
    roulette, vicino alla puntata della nonna.  La nonna vinceva e lui
    gridava  che a vincere era stata la sua puntata e che quella della
    nonna aveva perso. Quando li stavano scacciando, Potapytch si fece
    avanti e riferì che essi avevano le tasche piene d'oro.  La  nonna
    pregò  subito  il  croupier  di  intervenire  e,  per quanto i due
    polaccucci gridassero  (come  due  galli  afferrati  di  sorpresa)
    arrivò  la  polizia  e  subito  le  loro  tasche  furono vuotate a
    vantaggio della nonna.  La nonna,  fino a che non ebbe perso tutto
    godette  per  l'intera  giornata,  presso i "croupiers" e presso i
    dirigenti del Casinò, di una palese autorità. A poco a poco la sua
    fama si era diffusa per la  città.  Tutti  i  frequentatori  delle
    terme di tutte le nazioni,  quelli comuni e quelli più importanti,
    accorrevano  a  vedere  "une  vieille  comtesse  russe  tombée  en
    enfance" (2) che aveva perduto "parecchi milioni".
    Ma  la  nonna  ebbe  ben  poco vantaggio dal fatto di essere stata
    liberata dai due polacchi.  Al posto loro comparve immediatamente,
    a   offrirle  i  suoi  servigi,   un  terzo  polacco  che  parlava
    perfettamente in russo,  vestito  da  gentiluomo  sebbene  un  po'
    somigliante  a  un lacchè,  con un enorme paio di baffi e pieno di
    boria.  Anch'egli baciò "i piedini della pani",  ma verso la gente
    che  era  intorno  si  comportava  in  modo insolente,  impartendo
    disposizioni   in   tono   dispotico;   in   una   parola,   prese
    immediatamente un atteggiamento non da servo,  ma da padrone della
    nonna. Continuamente,  a ogni mossa,  si rivolgeva a lei e giurava
    con  i più terribili giuramenti che era anche lui un 'onorato' pan
    e che non avrebbe preso nemmeno una copeca del denaro della nonna.
    E ripeteva così spesso tali giuramenti  che  quella  finì  con  lo
    smarrirsi del tutto.  Ma poiché pare che,  all'inizio,  questo pan
    avesse corretto il suo giuoco e avesse incominciato a vincere,  la
    nonna  stessa  non poteva più staccarsene.  Un'ora più tardi i due
    piccoli polacchi di prima che erano stati allontanati  dal  Casinò
    riapparvero dietro la sedia della nonna,  rinnovando l'offerta dei
    loro servigi,  se non altro come galoppini.  Potapytch giurava che
    "l'onorato pan" scambiava con i due strizzatine d'occhio e passava
    persino  qualcosa  nelle  loro  mani.  Poiché  la  nonna non aveva
    pranzato e non aveva quasi  mai  lasciato  la  poltrona,  uno  dei
    polacchi  si rese effettivamente utile: corse nella sala da pranzo
    del Casinò e le portò prima una tazza di brodo e poi anche del  tè
    Del resto, correvano tutti e due. Ma verso la fine della giornata,
    quando a tutti era ormai chiaro che la nonna perdeva il suo ultimo
    biglietto  di  banca,  dietro  la  sua  sedia  stavano  ormai  sei
    polacchini,  mai visti né conosciuti prima.  Quando poi  la  nonna
    stava  perdendo  le sue ultime monete,  tutti loro non solo non la
    ascoltavano più, ma neanche le badavano; si spingevano al di sopra
    della sua testa per arrivare al tavolo,  prendevano il denaro,  ne
    disponevano    e    lo   puntavano,    discutevano   e   gridavano
    intrattenendosi amichevolmente con "l'onorato pan" che sembrava si
    fosse addirittura dimenticato dell'esistenza della nonna.  Persino
    quando  la  nonna,  dopo  aver  definitivamente  perso  tutto,  si
    preparava verso le otto di  sera  a  tornare  all'albergo,  tre  o
    quattro  piccoli  polacchi  non si decidevano ancora a lasciarla e
    correvano  intorno  alla  poltrona  gridando  a  tutta   forza   e
    assicuravano,  parlando  velocissimamente,  che  la nonna li aveva
    ingannati e che doveva loro qualche cosa.  E così arrivarono  fino
    all'albergo da dove, finalmente, furono cacciati a spintoni.
    Secondo il conto di Potapytch, la nonna aveva perso in quel giorno
    circa  novantamila  rubli,  oltre al denaro perso il giorno prima.
    Tutti i titoli  -  obbligazioni  al  cinque  per  cento,  prestiti
    interni,  azioni - che aveva portato con sé, li aveva cambiati uno
    dopo l'altro.  Io mi meravigliavo,  pensando  come  avesse  potuto
    resistere quelle sette o otto ore seduta in poltrona e quasi senza
    spostarsi dal tavolo,  ma Potapytch raccontò che per ben tre volte
    aveva effettivamente cominciato  a  vincere  forte  e,  trascinata
    dalla speranza,  non aveva più potuto allontanarsi.  Del resto,  i
    giocatori  sanno  benissimo  come  si  possa  restare  magari  una
    giornata  intera allo stesso posto giocando a carte,  senza girare
    gli occhi né a destra, né a sinistra.
    Intanto anche da noi, all'albergo, erano accadute quel giorno cose
    d'importanza decisiva.  Già dalla  mattina,  prima  delle  undici,
    quando la nonna era ancora in casa,  i nostri,  cioè il generale e
    De-Grieux,  si erano decisi al passo estremo.  Saputo che la nonna
    non  voleva  più partire ma che,  anzi,  si preparava ad andare al
    Casinò, si presentarono da lei in conclave (a eccezione di Polina)
    per parlarle definitivamente e anche  sinceramente.  Il  generale,
    trepidante   e   sentendosi   quasi  venir  meno  in  vista  delle
    conseguenze per lui terribili,  esagerò persino: dopo mezz'ora  di
    preghiere e di suppliche e dopo aver francamente confessato tutto,
    cioè  i  debiti e anche la passione per mademoiselle Blanche (egli
    si era smarrito completamente),  il generale dico,  prese di colpo
    un  tono  minaccioso  e  cominciò  a  inveire  contro la nonna e a
    pestare i piedi, gridando che lei disonorava la famiglia,  che era
    diventata  lo  scandalo di tutta la città e arrivò infine a queste
    parole: "Voi disonorate il nome russo,  signora,  e per questo c'è
    la polizia!"
    La  nonna  lo  cacciò via con il bastone (un autentico bastone) Il
    generale e De-Grieux si consultarono ancora due o tre volte quella
    mattina,  e precisamente su  questo:  non  sarebbe  stato  proprio
    possibile  far  intervenire  la  polizia?   Dire  che,  ecco,  una
    disgraziata,   una  rispettabile  vecchia  era  impazzita,   stava
    perdendo  al gioco gli ultimi soldi eccetera?  In una parola,  non
    era possibile ottenere una tutela o una interdizione? De-Grieux si
    limitava a stringersi nelle spalle e rideva in faccia al  generale
    che  ormai non sapeva più quello che diceva e correva su e giù per
    lo studio.  Infine De-Grieux fece un gesto di rinuncia e scomparve
    chi  sa  dove.  A  sera  si  seppe  che  aveva  lasciato l'albergo
    definitivamente,   dopo  aver  avuto  un  colloquio  risolutivo  e
    misterioso   con   mademoiselle   Blanche.   Per  quanto  riguarda
    mademoiselle  Blanche  lei,  fin  dal  mattino,  aveva  preso  dei
    provvedimenti decisivi: si era completamente liberata dal generale
    e  non  gli  permetteva  neppure più di presentarsi davanti a lei.
    Quando il generale  le  corse  dietro  al  Casinò  e  la  incontrò
    sottobraccio  al principe,  tanto lei quanto madame veuve Cominges
    finsero di non conoscerlo.  E neppure il principe lo  salutò.  Per
    tutto  quel  giorno  mademoiselle  Blanche  sondò  e  si lavorò il
    principe perché finalmente si dichiarasse. Ma ahimè!
    Si era crudelmente ingannata nei suoi calcoli sul principe! Questa
    piccola catastrofe accadde alla sera;  di colpo si scoprì  che  il
    principe  era  povero in canna e che contava proprio su di lei per
    avere quattrini  in  prestito  contro  cambiali  da  giocare  alla
    roulette.  Blanche, indignata, lo cacciò via e si chiuse nella sua
    camera.
    La mattina di quello stesso giorno ero andato da mister Astley  o,
    per meglio dire,  lo avevo cercato,  ma non ero riuscito in nessun
    modo a trovarlo. Non c'era né in casa, né al Casinò,  né al parco.
    Quella  volta  non  aveva  pranzato nel suo albergo.  Lo vidi a un
    tratto,  verso le cinque,  che dalla stazione  ferroviaria  andava
    verso  l'albergo d'Angleterre.  Camminava in fretta e vidi che era
    preoccupato sebbene fosse molto difficile scorgere  sul  suo  viso
    segni  di  preoccupazione  o  di  qualsiasi  turbamento.  Mi  tese
    cordialmente la mano con la sua abituale  esclamazione:  "Ah!"  ma
    senza fermarsi e continuando, a passi piuttosto frettolosi, il suo
    cammino.  Mi attaccai a lui,  ma egli seppe rispondermi in un modo
    tale che non riuscii a chiedergli niente. Inoltre,  chi sa perché,
    sentivo  un  tremendo  senso  di  vergogna a parlare di Polina;  e
    neppure lui mi disse, a quel proposito, una parola.  Gli raccontai
    della nonna; mi ascoltò attento e serio e si strinse nelle spalle.
    "Perderà tutto!" gli dissi.
    "Oh,  certo!"  mi rispose.  "Anche poco fa,  quando io partivo,  è
    andata a giocare, e perciò ero sicuro che sarebbe finita così.  Se
    avrò tempo,  andrò un attimo al Casinò a vedere, perché è una cosa
    curiosa..."
    "Dove siete stato?" chiesi,  sorpreso  di  non  averglielo  ancora
    domandato.
    "Sono stato a Francoforte."
    "Per affari?"
    "Sì, per affari."
    Che   cosa  potevo  chiedergli  di  più?   Tuttavia  continuavo  a
    camminargli vicino,  ma egli a un tratto svoltò nella strada  dove
    sorgeva  l'albergo Des Quatre Saisons,  mi salutò con un cenno del
    capo e sparì. Tornando a casa, mi resi a poco a poco conto che, se
    anche avessi parlato con lui per due ore,  non avrei saputo niente
    perché...  non avevo niente da chiedergli!  Già,  proprio così. In
    nessun modo avrei ora potuto formulare la mia domanda.
    Per tutto quel giorno Polina  o  passeggiò  con  i  bambini  e  la
    bambinaia  nel  parco,  o  rimase  in casa.  Da un pezzo ormai lei
    evitava il generale e non parlava quasi mai  con  lui,  almeno  su
    argomenti seri. L'avevo notato già da un pezzo. Ma, sapendo in che
    situazione  si  trovasse  quel giorno il generale,  pensai che non
    avrebbe potuto evitarla,  cioè  che  tra  di  loro  sarebbe  stata
    necessaria  qualche importante spiegazione di carattere familiare.
    Però quando io,  rientrando all'albergo dopo il mio colloquio  con
    mister  Astley,  incontrai  Polina  con  i  bambini,  il  suo viso
    rifletteva la più serena tranquillità,  come se tutte le  tempeste
    familiari  non l'avessero nemmeno sfiorata.  Al mio saluto rispose
    con un cenno del capo. Entrai in camera mia pieno di stizza.
    Naturalmente,  io evitavo di parlarle e non mi ero più trovato con
    lei  dopo l'incidente con il barore Wurmerhelm.  Per di più facevo
    il sostenuto e mi davo delle arie ma, quanto più il tempo passava,
    tanto più ribolliva in me una vera indignazione.  Anche se lei non
    mi amava affatto, non si poteva, mi sembra, calpestare così i miei
    sentimenti   e   accogliere   con   un  simile  disprezzo  le  mie
    confessioni!  Lei sapeva che io l'amavo veramente;  lo ammetteva e
    mi  permetteva di parlarle così.  In verità,  tutto era cominciato
    tra di noi in modo alquanto strano. Qualche tempo prima,  circa un
    due mesi,  avevo notato che Polina voleva fare di me il suo amico,
    il suo confidente e che, in parte, ci si provava. Ma la cosa,  chi
    sa perché,  non aveva avuto allora buon esito e,  in cambio, erano
    rimasti tra noi gli strani rapporti odierni;  per  questo  appunto
    avevo  preso  a  parlare  così  con  lei.  Ma  se  il mio amore le
    ripugnava, perché non proibirmi senz'altro di parlargliene?
    Non me lo vietava; a volte, anzi, mi induceva lei stessa a toccare
    quell'argomento e...  naturalmente lo faceva per beffa.  Lo so con
    certezza, perché avevo osservato molto bene che le faceva piacere,
    dopo   avermi   ascoltato   e  stuzzicato  fino  alla  sofferenza,
    sconcertarmi improvvisamente con qualche uscita  che  rivelava  il
    massimo  disprezzo  e  la  più grande indifferenza.  Eppure sapeva
    benissimo che senza di lei io non potevo vivere. Ecco adesso erano
    passati tre giorni dall'incidente con il barone, e io non riuscivo
    più a sopportare la nostra separazione.  Quando l'avevo incontrata
    poco  fa  vicino  al  Casinò,  il cuore aveva preso a battermi con
    tanta violenza che ero impallidito.  Eppure  nemmeno  lei  avrebbe
    potuto cavarsela senza di me!  Io le ero necessario; ma possibile,
    possibile che lo fossi soltanto come il buffone Balakirev (3)?
    Lei aveva un segreto: questo era chiaro!  Il suo colloquio con  la
    nonna  mi aveva ferito dolorosamente il cuore.  Eppure mille volte
    l'avevo invitata a essere sincera con me,  e lei sapeva  benissimo
    che io ero pronto a sacrificarle la mia testa. Ma lei se ne faceva
    gioco sempre,  quasi con disprezzo e,  invece del sacrificio della
    vita che io le offrivo,  pretendeva da me delle gesta sul tipo  di
    quelle con il barone! Non era forse una cosa disgustosa? Possibile
    che  per  lei  tutto il mondo fosse racchiuso in quel francese?  E
    mister Astley?  A questo punto la cosa diventava incomprensibile e
    intanto, mio Dio, come mi tormentavo!
    Arrivato  a  casa,  in  un  impeto di rabbia,  presi la penna e le
    scrissi quanto segue:

    "Polina  Aleksàndrovna,   vedo  chiaramente  che  è  arrivato   lo
    scioglimento che,  è naturale,  riguarderà anche voi. Per l'ultima
    volta vi ripeto: vi serve,  oppure no,  la mia testa?  Se vi  sarà
    utile per qualsiasi cosa,  disponete di me;  intanto io sono nella
    mia camera e, almeno per un bel pezzo,  non me ne allontanerò.  Se
    vi servirà, scrivetemi o fatemi chiamare."

    Sigillai il biglietto e glielo mandai tramite il cameriere del mio
    piano,  con  l'ordine di consegnarlo personalmente.  Non aspettavo
    risposta ma,  dopo tre minuti,  il cameriere tornò con la  notizia
    che la signorina "aveva dato ordine di salutarmi".
    Dopo le sei fui chiamato dal generale.
    Era  nel  suo  studio,  vestito come se si preparasse ad andare da
    qualche parte.  Cappello e bastone erano  posati  sul  divano.  Mi
    sembrò,  entrando,  che  egli  stesse  in mezzo alla stanza con le
    gambe larghe,  la testa bassa e che parlasse tra sé e sé  ad  alta
    voce.  Ma  non appena mi vide si gettò verso di me quasi gridando,
    tanto che io, istintivamente, indietreggiai e quasi volli fuggire;
    ma egli mi prese per tutt'e due le mani e  mi  trascinò  verso  il
    divano, si mise a sedere, fece sedere me su una poltrona di fronte
    a lui e,  senza lasciare le mie mani,  con le labbra tremanti,  le
    lacrime che gli brillavano tra le ciglia e con voce implorante  mi
    disse:
    "Alekséj Ivànovitch, salvatemi, salvatemi, abbiate pietà!"
    Per un bel po' non riuscii a capire niente: lui parlava,  parlava,
    parlava e continuava a ripetere: "Abbiate pietà!  Abbiate  pietà!"
    Finalmente  indovinai  che egli aspettava da me forse un consiglio
    o, per meglio dire, abbandonato da tutti, angosciato e triste,  si
    era  ricordato  di  me e mi aveva fatto chiamare solo per parlare,
    parlare, parlare...
    Era quasi impazzito o, per lo meno,  al culmine dello smarrimento.
    Giungeva  le mani ed era pronto a gettarsi ai miei piedi (che cosa
    credete?) perché io  andassi  subito  da  mademoiselle  Blanche  a
    pregarla e a consigliarla di tornare a lui e di sposarlo.
    "Ma via, generale" esclamai, "fino a oggi mademoiselle Blanche non
    si è neppure accorta di me. Che posso fare io?"
    Ma  le  obiezioni erano inutili: egli non capiva quello che gli si
    diceva.  Si mise a parlare anche della nonna  in  modo  del  tutto
    sconclusionato: era sempre dell'idea di far chiamare la polizia
    "Da noi,  da noi" cominciò a gridare, ribollendo all'improvviso di
    indignazione,  "da noi,  in uno stato bene organizzato dove esiste
    un'autorità, una vecchia così la metterebbero subito sotto tutela!
    Sì,  egregio  signore,  sì..." continuava,  cadendo di colpo in un
    tono di rimprovero,  balzando in piedi e mettendosi a  passeggiare
    per  lo studio,  "voi non sapevate ancora,  egregio signore" fece,
    rivolgendosi a un immaginario egregio signore  in  un  angolo,  "e
    adesso  lo  sapete...  sì...  sì...  che  da noi simili vecchie le
    mettono al giogo, al giogo, sicuro... che il diavolo le porti!"
    E si abbandonava di nuovo sul divano ma,  dopo  un  attimo,  quasi
    singhiozzando  e  ansimando,   si  affrettava  a  raccontarmi  che
    mademoiselle Blanche non l'aveva sposato  proprio  perché,  invece
    del telegramma, era arrivata la nonna e che ormai era evidente che
    egli non avrebbe avuto l'eredità. Gli sembrava che di tutto questo
    io  non  fossi  affatto  al  corrente.  Cominciai a parlare di De-
    Grieux, ma egli fece un gesto di disperazione:
    "E' partito! Tutto quanto possiedo è ipotecato da lui: sono povero
    in canna!  Di quei denari che portaste...  di quei denari  non  so
    quanto  è  rimasto...  mi  sembra  un  settecento franchi e niente
    altro; è tutto lì e poi... non so, non so!"
    "Ma come farete a pagare il conto dell'albergo?"  gli  chiesi  io,
    spaventato. "E poi, che accadrà?"
    Egli mi guardò pensieroso, ma ebbi l'impressione che non capisse e
    addirittura  non  mi  sentisse.   Provai  a  parlargli  di  Polina
    Aleksàndrovna e dei bambini. Egli rispose alla svelta sì...  sì...
    ma subito si rimise a parlare del principe,  del fatto che Blanche
    ora sarebbe partita con lui e allora... allora... "Che mi resta da
    fare,  Alekséj Ivànovitch?" si rivolse d'un tratto a  me.  "Ve  lo
    giuro  sul  nome  di  Dio!  Che  cosa  posso  fare?  Dite,  non  è
    ingratitudine, questa? Non è ingratitudine?"
    Infine si mise a piangere a dirotto.
    Con un uomo simile non c'era niente da fare,  era pericoloso anche
    lasciarlo solo, poteva magari accadergli qualcosa. Riuscii in ogni
    modo  a  liberarmene,  ma  avvertii  la bambinaia che andasse ogni
    tanto a dargli un'occhiata e, inoltre, parlai con il cameriere del
    piano,  un ragazzo molto giudizioso,  e mi promise che,  da  parte
    sua, lo avrebbe tenuto d'occhio.
    Avevo  appena  lasciato il generale che comparve da me Potapytch a
    chiamarmi da parte della nonna.  Erano le otto,  e lei era  appena
    tornata  dal  Casinò dopo l'ultima,  definitiva perdita.  Andai da
    lei: la vecchia era seduta in poltrona,  evidentemente  sfinita  e
    sofferente.  Marfa le stava porgendo una tazza di tè che le faceva
    bere  quasi  a  forza.  La  voce  e  il  tono  della  nonna  erano
    decisamente cambiati.
    "Buongiorno,  bàtjushka Alekséj Ivànovitch" mi disse,  chinando la
    testa con un'espressione  grave,  "scusate  se  vi  ho  disturbato
    ancora  una  volta,  perdonate  a una vecchia.  Io,  mio caro,  ho
    lasciato tutto là, quasi centomila rubli. Avevi ragione,  ieri,  a
    non venire con me!  Ora sono senza quattrini, non ho più un soldo.
    Non voglio aspettare oltre: alle nove e mezzo partirò.  Ho mandato
    a chiamare mister Astley o come si chiama,  per chiedergli tremila
    franchi per una settimana.  Ebbene,  convincilo tu a non pensare a
    chi sa che cosa e a non rifiutare.  Io,  ragazzo mio,  sono ancora
    abbastanza ricca.  Possiedo tre campagne e due case.  E ho  ancora
    del  denaro:  non  l'avevo  portato tutto con me.  Questo lo dico,
    affinché egli non abbia dubbi di nessun genere... Ah,  eccolo!  Si
    vede che è una brava persona."
    Mister Astley si era affrettato a venire alla prima chiamata della
    nonna.  Senza  pensarci  su e senza far tante parole,  le consegnò
    immediatamente tremila franchi contro una cambiale  che  la  nonna
    firmò. Concluso l'affare, egli salutò e si affrettò a uscire.
    "E ora vattene anche tu,  Alekséj Ivànovitch.  E' rimasta poco più
    di  un'ora:  voglio  coricarmi.   Mi  fanno  male  le  ossa.   Non
    rimproverarmi, sono una vecchia stupida. Adesso non accuserò più i
    giovani  di  sventatezza,  e  anche  quel  disgraziato  del vostro
    generale,  commetterei peccato se lo accusassi...  Ma  denaro  non
    gliene  darò,  come  vorrebbe  lui  perché,  secondo me,  è troppo
    stupido;  però io,  vecchia stupida,  non sono più intelligente di
    lui.  E'  proprio  vero  che  Iddio  è severo anche con i vecchi e
    punisce l'arroganza. Be', addio! Alzami, Marfusha!"
    Io, però, volevo accompagnare la nonna.  Inoltre ero in una specie
    di  attesa:  mi  sembrava  che  da  un  momento  all'altro dovesse
    succedere qualcosa.  Non riuscivo a rimanere fermo in camera  mia.
    Uscivo  ogni tanto nel corridoio e andai persino un minuto fuori a
    passeggiare nel viale. La mia lettera a lei era chiara e decisiva,
    e l'attuale catastrofe senza dubbio definitiva. All'albergo sentii
    parlare della partenza di De-Grieux. Infine, se mi avesse respinto
    come amico,  forse non mi avrebbe  respinto  come  servo.  Le  ero
    necessario, magari anche soltanto per fare il galoppino: come no?
    Verso  l'ora della partenza del treno,  corsi alla stazione e feci
    salire  la  nonna.  Presero  tutti  posto  in  uno  scompartimento
    riservato, per famiglia.
    "Ti ringrazio,  bàtjushka, per la tua disinteressata simpatia," mi
    disse,  accomiatandosi da me,  "e ripeti a Praskòvja quello che le
    ho detto ieri: io l'aspetterò."
    Tornai  a  casa.  Passando  davanti all'appartamento del generale,
    incontrai la governante e m'informai di lui. "Eh,  bàtjushka,  non
    c'è male!" mi rispose quella,  in tono triste. Io, però, entrai lo
    stesso,   ma  sulla  porta  dello  studio  mi  fermai  stupefatto,
    mademoiselle  Blanche e il generale ridevano allegramente insieme.
    La veuve Cominges stava  anche  lei  lì,  seduta  sul  divano.  Il
    generale era evidentemente fuori di sé dalla gioia, balbettava una
    serie di stupidaggini,  una dietro l'altra, e prorompeva in lunghe
    risate nervose che gli increspavano il viso in una enorme quantità
    di rughe,  mentre gli occhi quasi scomparivano.  Seppi però  dalla
    stessa Blanche che lei, cacciato il principe e venuta a conoscenza
    delle  lacrime  del  generale,  aveva pensato di consolarlo ed era
    venuta a trovarlo. Ma non sapeva, il povero generale,  che in quel
    minuto  la  sua sorte era già stata decisa e che Blanche aveva già
    cominciato a preparare i bagagli per partire  l'indomani,  con  il
    primo treno del mattino, alla volta di Parigi.
    Dopo essere rimasto un po' sulla soglia dello studio del generale,
    decisi  di  non  entrare  e  mi allontanai non visto.  Risalito in
    camera mia e aperta la porta,  notai a un tratto,  nella penombra,
    una  figura,  seduta  su  una  sedia,  in  un angolo,  vicino alla
    finestra.  Essa  non  si  alzò  al  mio  apparire.   Mi  avvicinai
    rapidamente,  guardai  e...  mi  sentii  mancare  il  respiro: era
    Polina!


    NOTE.
    1) Farabutti.
    2) "Una vecchia contessa russa rimbambita."
    3) Celebre buffone dei tempi di Pietro il Grande.


    14.

    Mandai un grido.
    "Che c'è?  Che c'è?" domandò lei in tono strano.  Era  pallida,  e
    aveva un'espressione cupa.
    "Come, che c'è? Voi? Qui, da me?"
    "Se io vengo, vengo tutta. E' la mia abitudine. Lo vedrete subito:
    accendete una candela."
    Accesi  la  candela.  Lei  si  alzò,  si avvicinò al tavolo e mise
    davanti a me una lettera dissigillata.
    "Leggete!" mi ordinò.
    "Questa...  questa  è  la  calligrafia  di  De-Grieux!"  esclamai,
    afferrando  la  lettera.   Le  mani  mi  tremavano,   e  le  righe
    saltellavano davanti ai miei  occhi.  Ho  dimenticato  le  precise
    espressioni  della lettera,  ma eccola,  se non proprio parola per
    parola, almeno pensiero per pensiero.

    "Mademoiselle," scriveva De-Grieux,  "sfavorevoli  circostanze  mi
    costringono a partire immediatamente.  Voi certo avrete notato che
    a bella  posta  ho  evitato  di  avere  con  voi  una  spiegazione
    definitiva fino a quando non si fossero chiarite tali circostanze.
    L'arrivo della vecchia (de la vieille dame),  vostra parente, e il
    suo assurdo comportamento hanno messo fine alle mie perplessità. I
    miei affari dissestati mi impediscono di continuare a  nutrire  le
    dolci speranze delle quali mi ero permesso di pascermi per qualche
    tempo.  Mi rammarico di quello che è accaduto,  ma spero che nella
    mia condotta non troverete niente d'indegno di un gentiluomo e  di
    un  onest'uomo (gentilhomme et honnête homme).  Avendo perso quasi
    tutto il mio denaro nei crediti concessi al  vostro  patrigno,  mi
    trovo  nell'assoluta  necessità  di  approfittare di quello che mi
    resta: ho  già  dato  istruzioni  ai  miei  amici  di  Pietroburgo
    affinché  dispongano immediatamente per la vendita della proprietà
    ipotecata a mio favore; sapendo, però,  che quella testa vuota del
    vostro patrigno ha sperperato anche il denaro di vostra proprietà,
    ho  deciso  di condonargli cinquantamila franchi e gli restituisco
    per questa somma una parte delle  ipoteche  sulla  sua  proprietà,
    affinché voi abbiate la possibilità di riavere tutto ciò che avete
    perduto,   esigendo  da  lui,   per  via  legale,  quello  che  vi
    appartiene.  Spero,  mademoiselle,  che allo stato  attuale  delle
    cose,  il  mio  gesto vi sarà molto utile.  Spero anche che,  così
    agendo,  io assolva pienamente il  dovere  di  un  uomo  onesto  e
    nobile.  Siate  certa  che  il  ricordo  di voi rimarrà per sempre
    impresso nel mio cuore."

    "Ebbene,  tutto questo è  molto  chiaro,"  dissi,  rivolgendomi  a
    Polina,  "è  possibile  che  voi  vi aspettaste qualcosa d'altro?"
    aggiunsi con indignazione.
    "Io non mi  aspettavo  niente,"  mi  rispose  lei,  apparentemente
    calma,  mentre qualcosa sembrava tremarle nella voce, "da un pezzo
    ero certa di tutto,  leggevo nel suo pensiero e sapevo quello  che
    pensava.   Egli   credeva   che   io  cercassi...   che  io  avrei
    insistito..." Si fermò e,  senza completare la frase,  si morse un
    labbro  e  tacque.  "A bella posta raddoppiai il mio disprezzo per
    lui," riprese a dire,  "in attesa di quello che avrebbe fatto.  Se
    fosse  giunto  il  telegramma dell'eredità,  gli avrei sbattuto in
    faccia il debito  di  quell'idiota  del  mio  patrigno  e  l'avrei
    cacciato  via!  Da un pezzo,  da un pezzo mi era diventato odioso!
    Oh,  non era  più  quell'uomo  di  prima,  mille  volte  migliore.
    Adesso...  adesso...  oh, con quale felicità sbatterei su quel suo
    muso da vigliacco questi cinquantamila franchi  e  ci  sputerei...
    sì, ci sputerei sopra!"
    "Ma   il   documento,   la   carta   che  riguarda  l'ipoteca  dei
    cinquantamila franchi da lui restituita,  l'avrà il generale,  no?
    Prendetela e ridatela a De-Grieux!"
    "Oh, non si tratta di questo! Non si tratta di questo!"
    "Sì,  è vero, non si tratta di questo! E poi, di che cosa è capace
    adesso il generale? E la nonna?" gridai all'improvviso.
    Polina mi guardava con un'espressione distratta e impaziente.
    "Che c'entra la nonna?" chiese con stizza. "Io non posso andare da
    lei... E non voglio chiedere perdono a nessuno" aggiunse irritata.
    "Che fare, dunque?" gridai.  "Ma come,  come potevate amare questo
    De-Grieux?  Oh,  il  miserabile,  il  miserabile!  Se  volete,  lo
    ucciderò in duello. Dov'è, adesso?"
    "E' a Francoforte, dove si fermerà tre giorni."
    "Ditemi una sola parola e io, domani stesso,  partirò con il primo
    treno!" dissi, in preda a uno sciocco entusiasmo.
    Lei si mise a ridere.
    "Sarebbe   magari   capace   di   dire:   "Prima   restituitemi  i
    cinquantamila franchi!"  E  poi,  perché  dovrebbe  battersi?  Che
    assurdità!"
    "E  allora  dove,  dove  trovare  questi  cinquantamila  franchi?"
    ripetevo,  digrignando i denti,  come  se  fosse  stato  possibile
    raccattarli da terra.  "Ascoltate: mister Astley?" chiesi,  mentre
    una strana idea cominciava a prender forma nel mio cervello.
    I suoi occhi lampeggiarono.
    "Ebbene,   proprio  tu,   vuoi  che  ti  lasci   per   andare   da
    quell'inglese?"  disse,  fissandomi  con  uno sguardo penetrante e
    sorridendo amaramente.  Per la prima volta mi aveva dato del "tu".
    Mi sembrò che,  per l'agitazione del momento, fosse stata presa da
    una vertigine: ad un tratto si sedette sul divano, spossata.
    Fu come se il fulmine mi avesse colpito: stavo lì e non credevo ai
    miei occhi, non credevo alle mie orecchie! Dunque,  mi amava!  Era
    venuta da me e non da mister Astley!  Lei, da sola, una fanciulla,
    era venuta  da  me  in  una  stanza  d'albergo,  senza  timore  di
    compromettersi  agli  occhi  di tutti e io...  io ero lì davanti a
    lei... e ancora non avevo capito!
    Uno strano pensiero mi balenò alla mente.
    "Polina,  dammi soltanto un'ora!  Aspettami qui un'ora  sola  e...
    ritornerò! E' indispensabile! Vedrai. Resta qui, resta qui!"
    Mi  precipitai  fuori  della  stanza,   senza  rispondere  al  suo
    stupefatto sguardo interrogativo;  mi gridò qualcosa,  ma  io  non
    tornai...
    Sì, a volte il pensiero più strano, il pensiero apparentemente più
    impossibile,  si  conficca  con  tanta  forza  nella  testa che lo
    prendi, alla fine,  per qualcosa di attuabile...  Ma non basta: se
    l'idea è legata a un forte,  appassionato desiderio, allora magari
    la  prendi  per  qualcosa  di  fatale,   di   indispensabile,   di
    predestinato,  qualcosa  che  non  può  non  essere  e non può non
    accadere!  Forse qui interviene ancora una qualche combinazione di
    presentimenti,  un  qualche  straordinario  sforzo di volontà,  un
    autoavvelenamento della propria fantasia o qualche altra cosa  che
    non so;  ma a me quella sera (che mai più dimenticherò) accadde un
    fatto  prodigioso.   Sebbene  esso  possa   essere   perfettamente
    giustificato  con  l'aritmetica,  tuttavia  resta  per  me tuttora
    miracoloso.  E perché,  perché quella certezza era penetrata  così
    profondamente,  così  saldamente  nel  mio  animo e ormai da tanto
    tempo? Certo io ci pensavo,  ripeto,  e non come a un caso che può
    accadere  tra  molti  altri (e quindi può anche non accadere),  ma
    come a qualcosa che non possa assolutamente non accadere!
    Erano le dieci e un quarto;  entrai nel Casinò con ferma  speranza
    ma,  nello stesso tempo, in uno stato di agitazione come non avevo
    mai provato.  Nelle sale da giuoco c'era ancora abbastanza  gente,
    sebbene molto meno che la mattina.
    Dopo  le  dieci,  ai  tavoli  da giuoco rimangono solo i giocatori
    veri,  disperati,  per i  quali  alle  terme  non  esiste  che  la
    roulette,  che  sono  venuti  solo  per  essa,  che  quasi  non si
    accorgono di quello che accade intorno a loro,  che di  niente  si
    interessano  durante  tutta  la stagione,  che non fanno altro che
    giocare dalla mattina alla sera e che  sarebbero  anche  pronti  a
    giocare tutta la notte fino all'alba,  se fosse possibile...  E si
    allontanano sempre con dispetto quando, a mezzanotte, si chiude la
    roulette.  E  allorché  il  capo  croupier,  poco  prima  dell'ora
    fissata, annunzia: "Les trois derniers coups, messieurs! (1)" sono
    a  volte  capaci  di  perdere  in  queste ultime tre puntate tutto
    quello che hanno in tasca,  ed è proprio allora che  subiscono  le
    perdite  maggiori.  Andai  al  tavolo dove poco prima era stata la
    nonna.  Non c'era molta gente,  quindi potei  subito  occupare  un
    posto in piedi vicino al tavolo. Proprio davanti a me, sul tappeto
    verde, era disegnata la parola: "Passe".
    "Passe"  è  la serie di cifre dal diciannove incluso al trentasei.
    La prima serie, invece, dall'uno al diciotto incluso,  costituisce
    il  "Manque";  ma a me che importava?  Io non feci nessun calcolo,
    non sapevo  neanche  su  quale  numero  fosse  caduta  la  pallina
    all'ultimo colpo e non mi preoccupai di saperlo, prima di puntare,
    come   avrebbe   fatto   ogni   giocatore  appena  appena  un  po'
    calcolatore.  Tirai fuori i miei venti federici e  li  gettai  sul
    Passe che era davanti a me.
    "Vingt deux!" gridò il croupier.
    Avevo  vinto,  e  puntai  di  nuovo  tutto:  quello  di prima e la
    vincita.
    "Trente et un!" proclamò il  croupier.  Di  nuovo  vincita!  Avevo
    quindi  ottanta  federici.  Li  spostai  tutti  sulle dodici cifre
    centrali (vincita tripla, ma con due probabilità sfavorevoli);  la
    ruota girò e uscì il ventiquattro.  Mi furono pagati tre rotoli da
    cinquanta federici e dieci monete d'oro; in tutto,  con quello che
    avevo prima, mi ritrovai duecento federici.
    Ero  come  in  preda  alla  febbre;  spostai tutto quel mucchio di
    denaro sul rosso,  e di colpo tornai in me!  Solo  una  volta,  in
    tutta  quella sera,  durante tutto il gioco,  la paura mi percorse
    con il suo brivido gelido che mi fece  tremare  le  braccia  e  le
    gambe.  Con  orrore  sentii  e  compresi  immediatamente  che cosa
    avrebbe significato ora per me perdere!  Era in gioco tutta la mia
    vita!
    "Rouge!" gridò il croupier.
    Ripresi  fiato;  un  formicolio  infuocato  mi  corse per tutto il
    corpo.  Fui pagato in biglietti di banca;  erano così,  in  tutto,
    quattromila  fiorini e ottanta federici (allora potevo ancora fare
    dei conti!).
    Poi, ricordo, puntai altri duemila fiorini sulle cifre di centro e
    perdetti; puntai il mio oro e gli ottanta federici e perdetti.  La
    frenesia  s'impadronì  di  me: afferrai gli ultimi duemila fiorini
    che mi erano  rimasti  e  li  puntai  sui  dodici  primi  così,  a
    casaccio,  senza  fare  alcun  calcolo!  Ci fu un attimo di attesa
    molto simile, penso, come impressione,  all'impressione provata da
    madame  Blanchard  (2)  quando,  a  Parigi,  precipitò dal pallone
    aerostatico.
    "Quatre!" gridò il croupier. In tutto,  con la posta di prima,  mi
    ritrovai  di  nuovo  seimila  fiorini.  Avevo  già  l'aspetto  del
    vincitore; ormai non temevo più niente; gettai quattromila fiorini
    sul nero.  Una decina di persone si precipitarono,  dopo di me,  a
    puntare   sul   nero.   I  croupiers  si  scambiavano  occhiate  e
    parlottavano tra loro. Attorno si parlava e si aspettava.
    Uscì il nero. Non ricordo più,  a questo punto,  né i calcoli,  né
    l'ordine delle mie puntate.  Ricordo soltanto,  come un sogno, che
    avevo ormai vinto, mi pare,  sedicimila fiorini;  improvvisamente,
    in tre colpi sfavorevoli,  ne persi dodicimila; quindi spostai gli
    ultimi quattromila sul Passe  (ma  ormai  non  provavo  quasi  più
    niente;  aspettavo soltanto, quasi macchinalmente, senza pensieri)
    e vinsi di nuovo;  poi  vinsi  altre  quattro  volte  di  seguito.
    Ricordo che raccoglievo i quattrini a migliaia,  ricordo anche che
    più spesso degli altri uscivano i dodici numeri di mezzo, ai quali
    mi ero attaccato.  Essi venivano fuori regolarmente,  senza fallo,
    tre  o  quattro  volte  di  fila,  poi sparivano per due volte per
    riapparire  per  altre   tre   o   quattro   consecutive.   Questa
    meravigliosa  regolarità si verifica a volte a ondate ed è questo,
    precisamente,  che sconcerta i giocatori di professione,  i  quali
    fanno  i  calcoli  matita  alla  mano.  E quali tremende beffe del
    destino si verificano a volte in questi casi!
    Credo che dal mio arrivo non fosse passata più di mezz'ora.  A  un
    tratto  il  croupier mi informò che avevo vinto trentamila fiorini
    e,  poiché il banco non può pagare  di  più  per  un  solo  colpo,
    avrebbero  chiuso la roulette sino al mattino.  Presi tutto l'oro,
    lo ficcai in tasca,  agguantai tutti  i  biglietti  e  mi  spostai
    subito  a  un  altro  tavolo,  in  un'altra sala,  dove funzionava
    un'altra roulette; dietro di me si precipitò tutta la folla; lì mi
    fecero subito posto,  e io ripresi a puntare,  a casaccio e  senza
    fare calcoli. Non capisco che cosa mi abbia salvato!
    A volte,  però, cominciava a spuntare nel mio cervello un calcolo.
    Mi sentivo legato a certe cifre e a  certe  combinazioni,  ma  ben
    presto    le    abbandonavo   e   riprendevo   a   puntare   quasi
    inconsapevolmente.  Dovevo essere molto  distratto;  tanto  che  i
    croupiers  parecchie  volte  dovettero  correggere  il  mio gioco.
    Facevo degli sbagli grossolani.  Avevo le tempie fradice di sudore
    e le mani che tremavano.  Si erano precipitati,  a offrirmi i loro
    servigi, piccoli polacchi, ma io non ascoltavo nessuno. La fortuna
    continuava!  All'improvviso si alzarono intorno a me voci sonore e
    risate.  "Bravo,  bravo!" gridavano tutti, mentre alcuni battevano
    addirittura le mani.  Strappai anche lì trentamila fiorini,  e  il
    banco fu di nuovo chiuso fino al giorno dopo!
    "Andatevene, andatevene!" sussurrava una voce alla mia destra. Era
    un  ebreo di Francoforte;  era rimasto per tutto il tempo vicino a
    me e qualche volta, sembra, mi aveva aiutato nel giuoco.
    "Per  amor  di  Dio,   andatevene!"  mi  sussurrò  un'altra   voce
    all'orecchio sinistro. Gettai una rapida occhiata. Era una signora
    modestamente  ma decorosamente vestita,  sui trent'anni,  dal viso
    stanco,  di un pallore malato,  ma che ricordava una  meravigliosa
    bellezza passata. In quel momento mi stavo riempiendo le tasche di
    banconote  che  addirittura  sgualcivo e raccoglievo l'oro rimasto
    sulla tavola.  Dopo aver afferrato l'ultimo  rotolo  di  cinquanta
    federici  riuscii,  del  tutto inosservato,  a metterlo nella mano
    della pallida signora;  mi era venuto un invincibile desiderio  di
    fare  così  e  ricordo  che  le dita sottili e magroline di lei mi
    strinsero con forza la mano in segno di  viva  gratitudine.  Tutto
    questo accadde in un attimo.
    Dopo  aver  raccolto  tutto,  passai  rapidamente  al  "trente  et
    quarante".   Al  "trente  et  quarante"  partecipa   un   pubblico
    aristocratico.  Non si tratta qui di roulette,  ma di un gioco con
    le carte.  Il banco risponde per centomila talleri alla volta.  La
    posta  più  alta  è  ugualmente  di  quattromila  fiorini.  Io non
    conoscevo affatto il gioco,  e non conoscevo nessuna  combinazione
    tranne  il rosso e nero che c'erano anche lì.  A questi appunto mi
    attaccai. Tutto il Casinò si affollò lì intorno. Non mi ricordo se
    durante quel tempo pensassi  una  sola  volta  a  Polina.  Sentivo
    soltanto un irresistibile godimento nell'arraffare e rastrellare i
    biglietti di banca che si ammucchiavano davanti a me.
    Sembrava  proprio che fosse il destino a spronarmi.  Questa volta,
    come a farlo apposta, accadde un fatto che,  del resto,  si ripete
    abbastanza spesso nel gioco.  Succede, per esempio, che la fortuna
    si attacchi al rosso e non lo lasci più per dieci o anche quindici
    volte di seguito.  Avevo sentito dire due  giorni  prima,  che  il
    rosso, la settimana scorsa, era uscito ventidue volte consecutive;
    nemmeno  alla  roulette  si ricordava un caso del genere,  e se ne
    parlava con stupore. Tutti, si capisce, in questo caso abbandonano
    il rosso e, dopo la decima volta,  per esempio,  quasi nessuno osa
    più  puntare  su di esso.  Ma neppure sul nero,  opposto al rosso,
    punta più un bravo giocatore,  perché il giocatore esperto sa  che
    cosa  significhi  questo  'capriccio del caso'.  Sembrerebbe,  per
    esempio,  che dopo la sedicesima volta  che è uscito il rosso,  il
    diciassettesimo colpo dovrebbe infallibilmente cadere sul nero.  E
    sul  nero  si  gettano,  infatti,   in  folla,   i  novellini  che
    raddoppiano,   triplicano  le  puntate  e...  perdono  in  maniera
    spaventosa!
    Ma io, per non so quale strano capriccio,  avendo osservato che il
    rosso  era uscito sette volte di seguito,  apposta mi ci attaccai.
    Sono convinto che per metà si trattasse di  amor  proprio:  volevo
    stupire  gli  spettatori  con  un  rischio pazzesco e- oh,  strana
    sensazione! - ricordo benissimo che a un tratto, e realmente senza
    nessuna spinta dell'amor proprio,  una tremenda sete di rischio si
    impadronì   di  me.   Probabilmente,   passando  attraverso  tante
    impressioni,  l'anima non  si  sazia,  ma  soltanto  si  eccita  e
    pretende  sensazioni  sempre  più  forti,  fino  alla  spossatezza
    definitiva.  E,  davvero non mento,  se il regolamento  del  gioco
    avesse  consentito  di  puntare  cinquantamila  fiorini  in un sol
    colpo, li avrei certamente puntati. Intorno si gridava che era una
    pazzia, che il rosso era uscito già per la quattordicesima volta!
    "Monsieur a gagné dejà cent mille florins (3)" risuonò vicino a me
    la voce di qualcuno.
    Di colpo mi riscossi.  Come?  Avevo vinto  quella  sera  centomila
    fiorini?  E  a  che  scopo  me ne servivano di più?  Mi gettai sui
    biglietti di banca,  li spiegazzai  ficcandomeli  in  tasca  senza
    contarli,  raccolsi  tutto  il  mio  oro,  tutti  i  rotoli  e  mi
    precipitai fuori del Casinò.  Mentre attraversavo le  sale,  tutti
    ridevano   guardando  le  mie  tasche  rigonfie  e  il  mio  passo
    irregolare per il peso dell'oro.  Credo che  raggiungesse  più  di
    mezzo  pud  (4).  Alcune  mani  si  allungarono  verso  di me;  io
    distribuivo a manciate quanto riuscivo ad afferrare.  Due ebrei mi
    fermarono vicino all'uscita.
    "Siete audace! Siete molto audace!" mi dissero. "Ma partite domani
    mattina  senza  indugio,  partite  più  presto  che potete,  se no
    perderete tutto, tutto..."
    Non li ascoltavo nemmeno.  Il viale era buio,  tanto da non  poter
    distinguere  la  propria  mano.  Per arrivare all'albergo c'era da
    percorrere un mezzo miglio.  Non ho mai avuto paura né dei  ladri,
    né  dei  briganti,  neppure  quando ero piccolo,  e non ci pensavo
    neppure adesso.  Non ricordo,  del resto,  a che cosa pensassi per
    strada; non avevo pensieri. Sentivo soltanto una terribile sete di
    successo,  di  vittoria,  di  potere...  non  so  come esprimermi.
    Balenava davanti a me l'immagine di Polina; ricordavo e mi rendevo
    conto che andavo da lei,  che tra poco  l'avrei  incontrata  e  le
    avrei  raccontato tutto,  le avrei mostrato...  Ma in quel momento
    quasi quasi non ricordavo quello  che  lei  mi  aveva  detto  poco
    prima,  e perché ero andato là, e tutte quelle recenti sensazioni,
    provate non più di un'ora e mezzo prima, già mi sembravano passate
    da chi sa  quanto  tempo,  remote,  invecchiate,  alle  quali  non
    avremmo   più   fatto   cenno   perché  da  adesso  tutto  sarebbe
    ricominciato da capo.  Quasi all'estremità del viale,  fui preso a
    un   tratto   dalla   paura:   "E  se  ora  mi  uccidessero  e  mi
    depredassero?" A ogni passo il terrore raddoppiava.  Andavo  quasi
    di  corsa.  Improvvisamente,  in fondo al viale,  brillò il nostro
    albergo,  illuminato da innumerevoli luci scintillanti.  Grazie  a
    Dio, ero a casa!
    Salii di corsa al mio piano e aprii in fretta la porta. Polina era
    là,  seduta sul mio divano, davanti alla candela accesa, a braccia
    conserte.  Mi guardò stupefatta:  in  quel  momento  avevo,  senza
    dubbio, un aspetto molto strano. Mi fermai davanti a lei e presi a
    gettare sul tavolo tutto quel mucchio di denaro.


    NOTE.
    1) "Le ultime tre puntate, signori!"
    2) Aeronauta francese precipitata dal pallone nel 1819.
    3) "Il signore ha già guadagnato centomila franchi!"
    4) Equivalente a chilogrammi 16,38.







    15.

    Ricordo  che  lei  mi guardava con una fissità tremenda,  ma senza
    muoversi dal suo posto, senza cambiare posizione.
    "Ho  vinto  duecentomila  franchi"  gridai,  buttando  sul  tavolo
    l'ultimo rotolo.
    L'enorme  mucchio di biglietti e di rotoli d'oro occupava tutto il
    tavolo e non potevo distoglierne lo sguardo; a tratti, dimenticavo
    perfino Polina.  Ora  mi  mettevo  a  riordinare  quei  mucchi  di
    biglietti di banca,  riunendoli tutti insieme, ora disponevo in un
    solo mucchio l'oro;  ora lasciavo tutto e mi mettevo a camminare a
    passi  rapidi  per la stanza,  soprappensiero;  poi a un tratto mi
    avvicinavo di nuovo al tavolo e riprendevo a contare il denaro. Di
    colpo,  come ritornando in me stesso,  mi lanciai verso la porta e
    la chiusi in fretta con due giri di chiave.  Poi mi fermai davanti
    alla mia piccola valigia.
    "Devo  mettere  tutto  nella  valigia  fino  a  domani?"   chiesi,
    girandomi   a   un   tratto   verso   Polina,   come  ricordandomi
    improvvisamente di lei.  Lei sedeva ancora immobile,  allo  stesso
    posto,  ma  mi  seguiva  attentamente con lo sguardo.  Il suo viso
    aveva una  certa  strana  espressione;  quell'espressione  non  mi
    piacque! Non sbaglio, se dico che in essa c'era dell'odio...
    Mi avvicinai alla fanciulla.
    "Polina, ecco venticinquemila fiorini: sono cinquantamila franchi,
    e anche più. Prendeteli, e domani sbatteteglieli sul viso."
    Lei non mi rispose.
    "Se volete, glieli porterò io stesso domattina presto. Va bene?"
    Si mise improvvisamente a ridere, e rise a lungo.
    Io  la guardavo stupefatto e con un senso di tristezza.  Quel modo
    di ridere era molto simile al suo recente ridere di me,  frequente
    e   ironico,   che   seguiva   sempre   le  mie  più  appassionate
    dichiarazioni.   Finalmente  smise  e  si  accigliò;   mi   guardò
    severamente, di traverso.
    "Io non prenderò il vostro denaro" dichiarò in tono sprezzante.
    "Come? Perché?" chiesi. "Polina, ma perché?"
    "Non prendo il denaro per niente."
    "Ma io ve lo offro come amico. Vi offro la mia vita."
    Lei  mi  rivolse  un  lungo  sguardo  indagatore,  come se volesse
    passarmi da parte a parte.
    "Voi pagate bene," disse sorridendo,  "l'amante di  De-Grieux  non
    vale cinquantamila franchi..."
    "Polina,  ma  come  potete parlare così con me?" gridai in tono di
    rimprovero. "Sono forse De-Grieux, io?"
    "Vi odio!  Sì...  sì...  non vi amo più di quanto non  amassi  De-
    Grieux" gridò con gli occhi lampeggianti.
    A  questo  punto  si  coprì  il  viso con le mani e fu presa da un
    attacco isterico. Mi precipitai verso di lei.
    Capii che durante la mia assenza le era accaduto qualche cosa: era
    proprio fuori di sé!
    "Comprami! Vuoi? Vuoi? Per cinquantamila franchi, come De-Grieux?"
    proruppe, singhiozzando convulsamente. La presi tra le braccia, le
    baciai le mani e i piedi e caddi in ginocchio davanti a lei..
    L'attacco isterico stava passando.  Lei aveva posato le mani sulle
    mie spalle e mi fissava; sembrava che volesse leggere qualcosa sul
    mio viso. Mi sentiva, ma evidentemente non ascoltava quello che le
    dicevo.  Un'espressione  inquieta  e pensierosa le era apparsa sul
    volto.  Temevo per lei: mi pareva proprio che la  sua  ragione  si
    alterasse. Ora, di colpo, cominciava ad attirarmi dolcemente a sé,
    e  un  sorriso  fiducioso sfiorava il suo viso;  poi,  altrettanto
    improvvisamente,  mi respingeva e riprendeva a  fissarmi  con  uno
    sguardo fosco.
    All'improvviso mi gettò le braccia al collo.
    "Perché  tu  mi  ami,  mi  ami?" diceva.  "Perché tu...  tu volevi
    batterti con il barone per me!" E di nuovo scoppiò in una  risata,
    come  se  qualcosa  di  buffo  e  di grazioso le fosse balenato al
    pensiero. Piangeva e rideva insieme. Che cosa dovevo fare?  Ero io
    stesso come febbricitante.  Ricordo che lei cominciò a parlare, ma
    io non riuscivo a capire quasi niente.  Era una specie di delirio,
    il  suo,  una specie di balbettìo,  come se volesse comunicarmi in
    fretta qualcosa, un delirio che,  interrotto a tratti dal riso più
    gioioso,  cominciava a spaventarmi.  "No, no, sei caro, sei caro!"
    ripeteva. "Mio fedele!" e di nuovo mi posava le mani sulle spalle,
    di nuovo mi scrutò,  continuando a  ripetere:  "Tu  mi  ami...  mi
    ami...  mi  amerai?"  Io  non  distoglievo  gli occhi da lei;  non
    l'avevo ancora mai vista in quegli slanci di tenerezza e di amore;
    è vero che si trattava di delirio,  ma...  notando il mio  sguardo
    appassionato,  a  un tratto si mise a ridere maliziosamente e,  di
    punto in bianco, prese a parlare di mister Astley.
    Del  resto,   lei   parlava   continuamente   di   mister   Astley
    (specialmente quando,  poco prima,  si era sforzata di raccontarmi
    qualche cosa),  ma che cosa precisamente  dicesse  non  riuscii  a
    capire; mi sembra perfino che ridesse di lui; ripeteva di continuo
    che  egli  aspettava...  e  mi  chiedeva se sapevo che ora egli si
    trovava certamente sotto la finestra.
    "Sì, sì... sotto la finestra...  Apri,  guarda,  guarda...  Egli è
    qui, è qui!"
    E mi spingeva verso la finestra, ma non appena facevo un movimento
    per avvicinarmici, scoppiava in una risata e io le restavo vicino,
    mentre lei si precipitava tra le mie braccia.
    "Partiremo?  Ce  ne  andremo  domani?"  chiedeva,  seguendo un suo
    inquieto  pensiero.   "Ebbene,   ebbene,"  continuava,   facendosi
    pensierosa, "faremo in tempo a raggiungere la nonna? Che ne pensi?
    A Berlino, io credo, potremo raggiungerla. Che cosa credi che dirà
    quando  l'avremo raggiunta e lei ci vedrà?  E mister Astley?  Be',
    quello non si butterà giù dallo Schlangenberg,  che ne  pensi?"  e
    scoppiò a ridere. "Ora ascolta: sai dove andrà la prossima estate?
    Vuole andare al Polo Nord per ricerche scientifiche e portarmi con
    sé,  ah,  ah,  ah!  Dice  che  noi russi,  senza gli europei,  non
    sappiamo niente e non siamo capaci di niente...  Ma è buono  anche
    lui! Lo sai che egli scusa il generale? Dice che Blanche... che la
    passione...  be',  non  so,  non  so..." ripeté a un tratto,  come
    distraendosi e perdendo il filo del discorso. "Poveretti,  come li
    compiango...  e  anche la nonna...  Su,  ascolta,  ascolta: perché
    dovresti uccidere De-Grieux?  E'  possibile  che  tu  pensassi  di
    ucciderlo?  Sciocco!  Potevi  davvero  credere  che  io  ti  avrei
    permesso di batterti con De-Grieux?  Ma tu non uccideresti nemmeno
    il barone," aggiunse,  mettendosi a ridere, "oh, quanto eri buffo,
    allora, con il barone; io vi guardavo entrambi dalla panchina... e
    che poca voglia avevi di andare quando ti ho mandato! Come ho riso
    allora,  come ho riso!"  concluse,  scoppiando  di  nuovo  in  una
    risata.
    A un tratto riprendeva a baciarmi e ad abbracciarmi,  premendo con
    appassionata tenerezza il suo viso al mio.  Io non  pensavo  ormai
    più a niente, non sentivo più niente. La testa mi girava.
    Penso  che fossero circa le sette di mattina quando mi risvegliai;
    il sole illuminava la stanza.  Polina era seduta vicino a me e  si
    guardava stranamente intorno,  come se uscisse dal buio e cercasse
    di riordinare i suoi ricordi.  Anche lei si era appena svegliata e
    fissava il tavolo e i denari. La testa mi pesava e mi faceva male.
    Volevo prendere Polina per mano;  lei di colpo mi respinse e balzò
    in piedi.  Spuntava  una  giornata  grigia;  prima  dell'alba  era
    piovuto.  Polina  si avvicinò alla finestra,  l'aprì mise fuori la
    testa e il petto e,  appoggiandosi con le mani e puntando i gomiti
    al davanzale, rimase così due o tre minuti, senza girarsi verso di
    me  e  senza  ascoltare quello che le dicevo.  Con terrore pensai:
    "Che accadrà,  ora?  Come finirà tutto ciò?" A un tratto si staccò
    dalla  finestra,   si  avvicinò  al  tavolo  e,   guardandomi  con
    un'espressione di odio infinito,  mi disse con le labbra  tremanti
    di furore:
    "Be', ora dammi i miei cinquantamila franchi!"
    "Polina, di nuovo, di nuovo?" cominciavo a dirle.
    "Hai cambiato idea, forse? Ah, ah, ah! Forse già li rimpiangi?"
    I  venticinquemila fiorini,  contati fin dalla sera,  erano posati
    sul tavolo; li presi e glieli porsi.
    "Adesso  sono  miei,  no?  E'  così?   E'  così?"  mi  chiese  con
    cattiveria, tenendo in mano il denaro.
    "Ma sono sempre stati tuoi!" dissi io.
    "Ebbene, eccoteli i tuoi cinquantamila franchi!" Alzò il braccio e
    me  li sbatté addosso.  Il fascio mi colpì dolorosamente in viso e
    si sparpagliò sul pavimento.  Fatto questo,  Polina uscì di  corsa
    dalla stanza.
    So  bene  che  in  quel momento lei era fuori di sé,  anche se non
    riesco a capire quella follia momentanea. Vero è, però, che ancora
    oggi, dopo un mese,  è ancora ammalata.  Ma tuttavia,  quale fu la
    causa  di  quello  stato  e,  soprattutto,  di  quel gesto?  Forse
    l'orgoglio offeso?  O la disperazione per essersi decisa a  venire
    da  me?  L'avevo  forse indotta a credere che mi vantavo della mia
    fortuna e che,  proprio come De-Grieux,  volevo liberarmi  di  lei
    dopo  averle regalato cinquantamila franchi?  Ma non è stato così,
    lo so, in coscienza.  Penso che la causa sia stata,  in parte,  la
    sua  vanità;  la vanità le aveva suggerito di non prestarmi fede e
    di offendermi,  sebbene tutto  ciò  fosse,  anche  per  lei,  poco
    chiaro.  In  questo  caso,  certo,  io pagavo per De-Grieux ed ero
    incolpato senza essere colpevole. Vero è anche che tutto era stato
    solo delirio;  vero è che io sapevo che lei delirava e  non  avevo
    tenuto  conto  di  questa  circostanza.  Forse  lei non può adesso
    perdonarmelo? Sì, adesso, ma allora?  Il suo delirio e il suo male
    erano poi così gravi da farle dimenticare completamente quello che
    faceva  venendo  da  me  con  la lettera di De-Grieux?  Lei dunque
    sapeva ciò che faceva.
    In fretta e furia raccolsi alla bell'e meglio il  mio  mucchio  di
    biglietti  e d'oro,  lo ficcai nel letto,  lo coprii e uscii dieci
    minuti dopo Polina.  Ero certo che era  corsa  in  camera  sua,  e
    volevo,   di   nascosto,   entrare   nel   loro   appartamento  e,
    nell'anticamera,  chiedere alla  bambinaia  notizie  sulla  salute
    della signorina. Quale non fu il mio stupore quando, incontrata la
    governante sulle scale,  seppi che Polina non era ancora tornata e
    che la bambinaia stava appunto venendo da me per cercarla.
    "Proprio adesso," le dissi,  "proprio adesso è  uscita  di  camera
    mia... non più di dieci minuti fa. Dove mai si sarà cacciata?"
    La governante mi guardò con espressione di rimprovero.
    Intanto  era  venuta  fuori tutta una storia che già circolava per
    l'albergo.  Dal portiere e dal capo cameriere si sussurrava che la
    Fräulein (1) alle sei di mattina era fuggita dall'albergo sotto la
    pioggia  e  si  era  avviata  di  corsa  in direzione dell'albergo
    d'Angleterre.  Dalle loro parole e allusioni capii  che  essi  già
    sapevano  che  lei  aveva passato tutta la notte nella mia camera.
    Del resto, si chiacchierava su tutta la famiglia del generale; era
    noto che questi,  il giorno prima,  era quasi impazzito e piangeva
    in modo tale che tutto l'albergo lo sentiva. Si raccontava inoltre
    che  la  vecchia  arrivata  all'improvviso  era sua madre,  venuta
    apposta dalla Russia per impedire  al  figlio  il  matrimonio  con
    mademoiselle Blanche de Cominges e,  in caso di disubbidienza, per
    privarlo  dell'eredità;   poiché  effettivamente  lui  non   aveva
    ubbidito,  la contessa,  sotto i suoi stessi occhi,  aveva perduto
    apposta alla roulette il suo denaro,  affinché non  gli  rimanesse
    più  niente.  "Diese  Russen!"  (2)  ripeteva  indignato  il  capo
    cameriere,  scuotendo  la  testa.  Gli  altri  ridevano.  Il  capo
    cameriere intanto preparava il conto. La mia vincita era già nota;
    Karl,  il  cameriere del mio piano,  fu il primo a rallegrarsi con
    me. Ma io avevo ben altro per la testa!  Mi precipitai all'albergo
    d'Angleterre.
    Era  ancora  presto;  mister Astley non riceveva nessuno;  saputo,
    però,  che c'ero io,  uscì nel corridoio e si fermò davanti a  me,
    fissandomi  in silenzio con il suo sguardo color dello stagno e in
    attesa che io parlassi. Gli chiesi subito di Polina.
    "E' ammalata" mi rispose mister Astley,  continuando a fissarmi in
    viso e senza distogliere gli occhi da me.
    "Allora è veramente qui da voi?"
    "Si, è da me."
    "E dunque voi... voi avete intenzione di tenerla presso di voi?"
    "Oh sì, ho quest'intenzione."
    "Mister  Astley,  questo provocherà uno scandalo: non è possibile.
    Inoltre lei è proprio malata; non ve ne siete forse accorto?"
    "Oh sì, me ne sono accorto e ve l'ho anche detto che è malata.  Se
    non fosse stata malata non avrebbe passato la notte da voi."
    "Allora sapete anche questo?"
    "Lo so.  Ieri stava venendo qui,  e io l'avrei accompagnata da una
    mia parente ma, dato che era malata, si è sbagliata ed è venuta da
    voi."
    "Ma figuratevi!  E allora mi rallegro con voi,  mister  Astley.  A
    proposito,  mi fate venire un'idea: non siete per caso stato tutta
    la notte sotto la mia finestra?  Miss Polina me la  faceva  aprire
    tutti  i momenti per vedere se eravate là sotto e rideva a più non
    posso."
    "Davvero?  No,  io non ero sotto la  finestra,  ma  aspettavo  nel
    corridoio andando su e giù."
    "Ma bisogna pur curarla, mister Astley!"
    "Oh sì! Ho già mandato a chiamare il dottore e, se dovesse morire,
    mi renderete conto della sua morte."
    Rimasi stupefatto.
    "Di grazia, mister Astley, ma che volete dire?"
    "Ed è vero che ieri avete vinto duecentomila talleri?"
    "In tutto soltanto centomila fiorini."
    "Ecco, vedete! Allora, partite stamattina stessa per Parigi... "
    "Perché?"
    "Tutti  i  russi,  avendo  denaro,  vanno  a Parigi" spiegò mister
    Astley con la voce e il tono di chi legge un libro.
    "Che andrei a fare adesso, d'estate, a Parigi?  Io la amo,  mister
    Astley, lo sapete anche voi..."
    "Davvero?  Io sono convinto di no.  Per di più,  se rimarrete qui,
    perderete certamente tutto e non avrete più i mezzi per andare poi
    a Parigi."
    "Bene, addio! Però a Parigi non ci vado. Pensate, mister Astley, a
    quello che succederà adesso da noi. In una parola,  il generale...
    e adesso quest'avventura con miss Polina...  farà il giro di tutta
    la città."
    "Sì,  di tutta la città;  quanto al generale,  credo  che  non  ci
    pensi:  ha  ben altro per la testa!  E quanto a quella famiglia si
    può giustamente dire che ormai non esista più."
    Camminavo e sorridevo dentro  di  me  della  strana  sicurezza  di
    quell'inglese che io sarei partito per Parigi.  "Egli, però, vuole
    uccidermi in duello," pensavo, "se Polina muore;  ma guarda un po'
    che  storia!" Giuro che mi dispiaceva per Polina ma,  strano,  fin
    dal primo istante in cui, il giorno prima, avevo toccato il tavolo
    da giuoco e preso a rastrellare mucchi di quattrini,  il mio amore
    era passato come in secondo piano.  Questo lo dico ora,  ma allora
    ancora non me ne rendevo chiaramente conto.  Possibile che io  sia
    davvero un giocatore,  possibile che io amassi Polina in modo così
    strano?  No,  io l'amo ancora adesso,  lo vede  Iddio!  E  quando,
    uscito da mister Astley,  andavo verso casa, soffrivo sinceramente
    e  accusavo  me  stesso...   Ma  a  questo  punto  mi  capitò  una
    stranissima e molto assurda storia.
    Andavo  in  tutta fretta dal generale quando improvvisamente,  non
    lontano dal loro appartamento,  una porta si aprì  e  qualcuno  mi
    chiamò.  Era  madame  veuve Cominges che mi chiamava per ordine di
    mademoiselle Blanche.  Entrai nell'appartamentino di  mademoiselle
    Blanche.
    Era un quartierino di due stanze. Dalla camera da letto giungevano
    le  risa  e  gli  strilli  di  mademoiselle  Blanche.  Ella  stava
    alzandosi da letto.
    "Ah,  c'est lui!  Viens donc,  bête!  E' vero 'que tu as gagné une
    montagne d'or et d'argent? J'aimerais mieux l'or! (3)"
    "Ho vinto" risposi io, ridendo.
    "Quanto?"
    "Centomila fiorini."
    "Bibi,  comme  tu es bête!  Ma avvicinati,  non sento nulla.  Nous
    ferons bombance, n'est-ce pas? (4)"
    Entrai da lei.  Era coricata sotto una coperta di  raso  rosa,  da
    sotto  la  quale  sporgevano  due  splendide  spalle  brune  e ben
    modellate,  spalle che si vedono soltanto in sogno,  velate appena
    da  una  camicia  di batista bianca ornata di candidi pizzi che si
    accordavano magnificamente con la sua pelle abbronzata.
    "Mon fils, as-tu du coeur?  (5)" esclamò a voce alta vedendomi,  e
    scoppiò a ridere.  Rideva sempre molto gaiamente e anche, a volte,
    con grande spontaneità.
    "Tout autre... (6)" fui lì lì per dire, parafrasando Corneille.
    "Ecco,  vedi,  'vois-tu,'" cominciò improvvisamente a  cinguettare
    "in primo luogo,  cercami le calze e aiutami a infilarle;  poi, si
    tu n'es pas trop bête, je te prends à Paris (7). Lo sai, vero, che
    parto per Parigi?"
    "Subito?"
    "Tra mezz'ora."
    Infatti tutto era stato messo via.  Le valigie  erano  pronte.  Il
    caffè era stato servito da un pezzo.
    "Eh bien!  Se vuoi, verrai a Parigi. 'Dis donc qu'est-ce que c'est
    qu'un outchitel? Tu étais bien bête quand tu étais outchitel!' (8)
    Dove sono le calze? Infilamele, su!"
    Tirò fuori un piedino veramente incantevole, piccolo,  bruno,  non
    deformato  come quasi tutti quei piedini che appaiono così piccoli
    negli stivaletti.  Io mi misi a ridere e cominciai a  infilare  la
    calza di seta.  Mademoiselle Blanche,  intanto,  seduta sul letto,
    continuava a cicalare.
    "'Eh bien,  que feras-tu,  si je te prends avec?' In primo  luogo,
    'je veux cinquante mille francs'. Me li darai a Francoforte. 'Nous
    allons  à  Paris';  là  vivremo  insieme  'et je te ferai voir des
    étoiles en plein jour' (9).  Là vedrai delle donne come non ne hai
    mai certamente viste!"
    "Aspetta, sicché io dovrei darti cinquantamila franchi... e allora
    che mi resterà?"
    "'Et cent cinquante mille francs',  li hai dimenticati? Per di più
    acconsento a vivere nel tuo appartamento un mese,  due...  chi sa!
    Noi,    naturalmente,    ci   mangeremo   in   due   mesi   questi
    centocinquantamila franchi.  Vedi 'je suis bonne enfant' e  te  lo
    dico prima, 'mais tu verras des étoiles (10)'"
    "Possibile? Tutto in due mesi?"
    "Come? La cosa ti spaventa? Ah, 'vil esclave!' (11) Ma non sai che
    un mese solo di quella vita vale di più di tutta la tua esistenza?
    Un mese solo e 'après, le déluge! Mais tu ne peux comprendre, va!'
    Vattene, vattene, non lo meriti! 'Ah, que fais-tu? (12)'"
    In  quel  momento io stavo calzando l'altro piedino,  ma non potei
    trattenermi e lo baciai.  Lei lo tirò via e cominciò a percuotermi
    il viso con la punta del piede. E infine mi cacciò via.
    "'Eh bien,  mon outchitel,  je t'attends, si tu veux (13)'; tra un
    quarto d'ora parto!" mi gridò alle spalle.
    Tornando nella mia camera,  era già come se avessi  le  vertigini.
    Non  era  mica  colpa mia se Polina mi aveva sbattuto in faccia un
    fascio di biglietti  e  ancora  ieri  mi  aveva  preferito  mister
    Astley!  Alcuni  dei  biglietti di banca erano ancora sparpagliati
    sul pavimento;  li raccolsi.  In quel momento si aprì la  porta  e
    apparve  il  capo  cameriere in persona (che prima non mi guardava
    nemmeno) con un invito: non mi  sarebbe  piaciuto  trasferirmi  al
    piano di sotto, nel magnifico appartamento occupato sino ad allora
    dal conte V.?
    Riflettei un momento.
    "Il  conto!" gridai.  "Parto subito,  tra dieci minuti." "Se ha da
    essere Parigi,  ebbene,  Parigi sia!" pensai.  "Si  vede  che  era
    scritto così!"
    Un  quarto  d'ora  dopo  sedevamo  davvero  tutti  e  tre  in  uno
    scompartimento per famiglia: io,  mademoiselle  Blanche  e  madame
    veuve  Cominges.  Mademoiselle Blanche rideva,  guardandomi,  fino
    alle convulsioni. Veuve Cominges le faceva eco; non dirò che io mi
    sentissi allegro.  La mia vita si spezzava in due ma,  dal  giorno
    prima,  mi  ero  abituato a puntare tutto su una carta.  Forse era
    proprio vero che non avevo resistito al peso del  denaro  e  avevo
    perso  la testa.  "Peut-etre,  je ne demandais pas mieux!" (14) Mi
    sembrava che per un po' di tempo, ma solo per un po' di tempo,  lo
    scenario cambiasse.  "Ma tra un mese sarò qui e allora... e allora
    ce la vedremo ancora,  mister Astley!" No,  come  adesso  ricordo,
    anche  allora  ero  oppresso da una terribile tristezza,  anche se
    ridevo a gara con quella sciocchina di Blanche!
    "Ma che hai?  Come sei stupido!  Oh come sei  stupido!"  esclamava
    Blanche, interrompendo le sue risate e cominciando a rimproverarmi
    sul serio.  "Ma sì,  ma sì, spenderemo i tuoi duecentomila franchi
    ma in compenso 'tu seras heureux,  comme un petit  roi  '(15);  ti
    farò  io  il  nodo alla cravatta e ti farò conoscere Hortense.  E,
    quando avremo speso tutto il denaro,  tu ritornerai qui e farai di
    nuovo saltare il banco.  Che cosa ti hanno detto quegli ebrei?  La
    cosa più importante è l'audacia,  e tu ce l'hai;  più di una volta
    mi porterai dei denari a Parigi.  'Quant à moi,  je veux cinquante
    mille francs de rente et alors...(16)'"
    "E il generale?" le chiesi.
    "Il generale,  lo sai anche tu,  va ogni giorno,  a  quest'ora,  a
    prendere  un  mazzo di fiori per me.  Stavolta gli avevo chiesto a
    bella posta di portarmi i fiori più rari.  Il poveraccio ritornerà
    ma  l'uccellino sarà volato via!  Vedrai che ci volerà dietro.  Ah
    ah, ah! Ne sarò molto contenta. A Parigi mi farà molto comodo;  il
    suo conto, qui, lo pagherà mister Astley..."
    Ed ecco in che modo partii allora per Parigi.


    NOTE.
    1) Signorina
    2) "Questi russi!"
    3)  "Ah,   eccolo!  Vieni  dunque,  scioccone!  E'  vero  che  hai
    guadagnato una montagna d'oro e d'argento? Io preferirei l'oro..."
    4) "Caro, come sei sciocco! Faremo baldoria, non è vero?"
    5) "Hai coraggio, ragazzo mio!"
    6) "Tutt'altro..."
    7) "Se non sei troppo sciocco, ti porto a Parigi con me..."
    8) "Ebbene,  dimmi: cos'è  un  'outchitel'?  Eri  proprio  stupido
    quando facevi l''outchitel'..."
    9)  "Be',  che  farai  se  ti porto con me?  Voglio per prima cosa
    cinquantamila franchi.  Andremo a Parigi...  e ti farò  vedere  le
    stelle in pieno giorno."
    10) "Io sono una brava ragazza... ma tu vedrai delle stelle!"
    11) "Ah, vile schiavo!"
    12) "E poi il diluvio!  Ma tu non puoi capire, va'... Ma cosa stai
    facendo!"
    13) "Ebbene, mio 'outchitel', ti aspetto, se vuoi..."
    14) "Probabilmente non chiedevo di meglio!"
    15) "Tu sarai felice come un piccolo re..."
    16) "Quanto a me,  io voglio cinquanta mila franchi di  rendita  e
    allora..."












    16.

    Che  dirò  di  Parigi?  Fu tutto un delirio,  una pazzia.  Vissi a
    Parigi solo poco più di tre settimane,  e in quel periodo di tempo
    sfumarono  completamente  i miei centomila franchi.  Parlo solo di
    centomila, poiché gli altri centomila li avevo dati a mademoiselle
    Blanche in denaro liquido:  cinquantamila  a  Francoforte  e,  tre
    giorni  dopo,  a  Parigi,  una  cambiale  per altre cinquantamila,
    cambiale che una settimana dopo lei si fece pagare da me,  "et les
    cents mille francs qui nous restent tu les mangeras avec moi,  mon
    outchitel!" (1)  Continuava  sempre  a  chiamarmi  precettore.  E'
    difficile immaginarsi in questo mondo una categoria di persone più
    calcolatrici,  più  avare  e  più  spilorce  di  quella alla quale
    apparteneva mademoiselle Blanche.  Ma questo per ciò che  riguarda
    il  suo  denaro.  Per  ciò  che  riguarda  invece i miei centomila
    franchi,  mi dichiarò in seguito che essi le erano serviti per una
    prima  sistemazione a Parigi,  "così ora mi sono messa su un piede
    decoroso,  una volta per sempre,  e ormai per un bel pezzo nessuno
    mi  butterà più giù;  così almeno ho deciso" aggiunse.  Del resto,
    quei centomila franchi si può dire che io non li vidi neanche;  il
    denaro,  lo teneva sempre lei e nel mio borsellino,  nel quale lei
    ogni giorno curiosava,  non  si  accumulavano  mai  più  di  cento
    franchi e, quasi sempre, molti di meno.
    "Ma  via,  a che ti serve il denaro?" mi diceva a volte con l'aria
    più innocente del mondo, e io non discutevo. In compenso, con quel
    denaro sistemò in modo molto confortevole il  suo  appartamento  e
    quando poi mi trasferì nella nuova dimora,  mi disse,  mostrandomi
    le stanze: "Ecco che cosa si può fare con  l'economia  e  il  buon
    gusto, sia pure con i mezzi più miseri".
    Quella miseria costava,  però,  esattamente cinquantamila franchi!
    Con i rimanenti cinquantamila mise su carrozza e cavalli;  inoltre
    organizzammo  due balli,  cioè due serate alle quali presero parte
    Hortense, Lisette e Cléopatre,  donne notevoli sotto molti aspetti
    e  tutt'altro  che  brutte.  Queste  due serate io fui costretto a
    sostenere la stupidissima parte del padrone di casa,  a ricevere e
    a   intrattenere   alcune   goffissime  mercantesse,   arricchite,
    ignoranti e sfrontate  fino  all'inverosimile,  vari  tenentini  e
    miseri  scrittorucoli e nullità da rivista che comparivano in frac
    alla moda e guanti gialli,  con una superbia e una prosopopea così
    smisurate,  che  sarebbero  state inammissibili persino da noi,  a
    Pietroburgo; e questo è già molto.  Essi avevano persino l'idea di
    farsi  beffe  di  me,  ma  io  mi  ubriacai di champagne e andai a
    rifugiarmi in una stanza lontana.  Tutto questo  mi  rivoltava  al
    massimo  grado.  "C'est  un  outchitel," diceva di me mademoiselle
    Blanche,  "il a gagné cent mille francs (2)  e  senza  di  me  non
    saprebbe come spenderli. Dopo farà di nuovo il precettore: non c'è
    qualcuno  che sappia di un posto?  Bisogna fare qualcosa per lui."
    Avevo cominciato a ricorrere molto spesso allo champagne perché mi
    sentivo  sempre   oppresso   dalla   tristezza   e   mi   annoiavo
    tremendamente.  Vivevo nell'ambiente più borghese e più mercantile
    che  si  possa  immaginare,  dove  ogni  soldo  veniva  contato  e
    misurato. Blanche non aveva nessuna inclinazione per me, nelle due
    prime  settimane  me  ne  accorsi;  in verità,  mi mandava vestito
    elegantemente e ogni giorno mi annodava lei stessa la cravatta, ma
    in cuor suo mi disprezzava sinceramente.  A  ciò  non  badavo  per
    niente. Triste e annoiato, avevo preso l'abitudine di andarmene al
    Château  des Fleurs dove ogni sera,  regolarmente,  mi ubriacavo e
    imparavo il can can (che laggiù si balla in maniera indecente), e,
    in seguito,  acquistai anche una certa notorietà in questo genere.
    Infine  Blanche  imparò  a conoscermi: in precedenza,  non so come
    mai,  si era messa in mente che io,  durante la nostra convivenza,
    le sarei andato dietro con carta e matita in mano,  e avrei sempre
    fatto  i  conti  di  quanto  aveva   speso   e   rubacchiato;   e,
    naturalmente,  era  convintissima  che  per  ogni dieci franchi ci
    sarebbe stata tra noi battaglia.  Per ogni  mio  attacco,  da  lei
    precedentemente  immaginato,  aveva già preparato le obiezioni ma,
    non vedendo nessun attacco da parte mia,  all'inizio si era  messa
    lei stessa a obiettare.  E a volte con molta foga ma,  vedendo che
    io tacevo-  quasi  sempre  sdraiato  sul  divano  con  lo  sguardo
    immobile,  fisso  al  soffitto  -  finì con il restare addirittura
    stupefatta.  Sulle prime pensò  che  io  fossi  semplicemente  uno
    sciocco,   un   "outchitel"   e  interrompeva  senz'altro  le  sue
    spiegazioni  pensando  probabilmente:  "Tanto  è  uno  stupido,  è
    inutile  mettergli  la  pulce nell'orecchio,  se non ci capisce da
    sé".  Succedeva che si allontanasse,  ma dopo dieci minuti era già
    di  ritorno  (questo  accadeva  nel periodo delle spese più pazze,
    spese  assolutamente  non  adatte  alle  nostre  possibilità:  per
    esempio,  cambiò  i  cavalli  e comperò per sedicimila franchi una
    pariglia).
    "Allora, Bibi, non sei arrabbiato?" diceva, avvicinandosi a me.
    "No-o-o! Mi secchi!" le rispondevo, spostandola con la mano, ma la
    cosa le sembrava così strana che subito mi si sedeva vicino.
    "Vedi, se mi sono decisa a spendere tanto, è perché si trattava di
    un'occasione. Si possono rivendere per ventimila franchi."
    "Ci credo, ci credo; sono cavalli bellissimi,  e tu hai adesso una
    superba pariglia; ti farà comodo, e questo basta."
    "Allora non ti arrabbi?"
    "Ma perché? Tu agisci saggiamente nel procurarti certe cose che ti
    sono indispensabili.  Tutto questo ti servirà in seguito. Mi rendo
    conto che hai realmente bisogno di  sistemarti  su  questo  piede;
    altrimenti  non  arriverai  al  milione.  Qui  i  nostri centomila
    franchi sono soltanto un inizio, una goccia nel mare."
    Blanche,  che meno di ogni altra cosa si aspettava  da  me  simili
    ragionamenti,  invece di chi sa quali strilli e rimproveri, sembrò
    cadere dalle nuvole.
    "E così tu...  così tu ecco come sei!  'Mais tu as  l'esprit  pour
    comprendre!  Sais-tu,  mon garçon' (3),  benché tu sia 'outchitel'
    avresti dovuto nascere principe!  Allora non rimpiangi che da  noi
    il denaro sfumi così presto?"
    "Ma che sfumi anche più presto!"
    "'Mais...  sais-tu...  mais dis donc',  sei forse ricco? Ma lo sai
    che disprezzi un po' troppo il denaro!  'Qu'est ce  que  tu  feras
    après, dis donc? (4)'"
    "Dopo andrò a Homburg e vincerò di nuovo centomila franchi."
    "'Oui,  oui,  c'est  ça,  c'est  magnifique!'  (5)  E io so che tu
    vincerai senza fallo e che li porterai qui. Dimmi,  ma tu farai in
    modo che io ti amerò davvero?  Ebbene,  poiché sei così, per tutto
    questo tempo ti amerò e non ti farò neppure una  infedeltà.  Vedi,
    in questo tempo,  anche se non ti ho amato,  'parce que je croyais
    que tu n'est qu'un outchitel  (quelque  chose  comme  un  laquais,
    n'est ce pas?)', ti sono stata tuttavia fedele, 'parce que je suis
    bonne fille. (6)'"
    "Eh,  storie!  Non ti ho forse visto, la volta scorsa, con Albert,
    quell'ufficialucolo bruno?"
    "Oh, oh, ma tu..."
    "Bugie, bugie! Ma tu credi che io mi arrabbi? Me ne infischio: 'il
    faut que jeunesse se passe (7)'.  Come puoi scacciarlo,  se  c'era
    prima di me e lo ami? Però, a lui, denaro non devi darne: intesi?"
    "Allora  non  ti  arrabbi nemmeno per questo?  'Mais tu es un vrai
    philosophe!'"  gridò  entusiasta.  "Eh  bien,  je  t'aimerai,   je
    t'aimerai, tu verras, tu seras content! (8)'"
    E  infatti,  da  allora  sembrò  essersi  legata a me,  persino di
    amicizia,  e così passarono  i  nostri  ultimi  dieci  giorni.  Le
    "stelle" promesse non le vidi, ma sotto certi aspetti lei mantenne
    la parola data.  Per di più mi fece conoscere Hortense,  una donna
    più che notevole nel suo genere e che nella nostra cerchia  veniva
    chiamata "Therèse-philosophe"...
    Del  resto,  non  è  il  caso  di dilungarsi su questo;  tutto ciò
    potrebbe costituire  un  racconto  a  parte,  con  una  coloritura
    particolare,  che io non voglio inserire in questo racconto. Fatto
    sta che con tutte le mie forze desideravo che tutto ciò finisse al
    più presto.  Ma i nostri centomila franchi bastarono,  come già ho
    detto, quasi per un mese, cosa di cui sinceramente mi meravigliai;
    almeno  per  ottantamila franchi della somma,  Blanche aveva fatto
    degli acquisti per sé,  e  noi  non  spendemmo  più  di  ventimila
    franchi,  e  tuttavia  bastarono.  Blanche,  che verso la fine era
    ormai quasi del tutto sincera con me (per lo meno in qualcosa  non
    mi mentiva) mi confessò che almeno su di me non sarebbero ricaduti
    i debiti che era stata costretta a fare.  "Non ti ho fatto firmare
    né  conti,  né  cambiali"  mi  diceva,  "perché  mi  facevi  pena;
    un'altra, però, l'avrebbe fatto certamente e ti avrebbe mandato in
    prigione.  Vedi,  vedi,  come ti ho amato e come sono buona!  Solo
    questo matrimonio del diavolo che cosa mi verrà a costare!"
    E ci fu davvero un matrimonio in casa.  Capitò  proprio  verso  la
    fine  del nostro mese,  e bisogna pensare che per esso siano stati
    spesi gli ultimi resti dei miei centomila franchi; e con questo si
    concluse la faccenda cioè il nostro mese,  dopo di  che  io  diedi
    formalmente le mie dimissioni.
    Accadde  così:  una  settimana  dopo  che  ci  eravamo sistemati a
    Parigi,  arrivò il generale.  Venne direttamente da Blanche e fino
    dalla  prima  visita  si  stabilì  quasi  del  tutto  da  noi.  Un
    quartierino suo, in verità, da qualche parte lo aveva.  Blanche lo
    accolse  gioiosamente,  con  strilli  e risate,  e gli si gettò al
    collo,  la cosa si svolse in tal modo che  fu  lei  stessa  a  non
    lasciarlo  più  andare  via,  ed egli doveva seguirla ovunque: sul
    boulevard, nelle passeggiate in carrozza, a teatro e in visita dai
    conoscenti.  Per quest'uso  il  generale  andava  bene:  aveva  un
    aspetto  ancora  imponente e decoroso,  era quasi alto di statura,
    con baffi e basette tinti (un tempo aveva servito nei corazzieri),
    con un bel viso,  sebbene un  po'  flaccido.  I  suoi  modi  erano
    eccellenti,  il  frac sapeva indossarlo con molta disinvoltura.  A
    Parigi cominciò a portare le sue decorazioni.  Passeggiare per  il
    boulevard a fianco di un uomo simile non solo era possibile ma, se
    così  ci  si può esprimere,  perfino "raccomandabile".  Il buono e
    fatuo generale era contentissimo di tutto questo; senza dubbio non
    se lo aspettava quando era comparso da noi al suo arrivo a Parigi.
    Allora si era presentato quasi  tremante  di  paura:  credeva  che
    Blanche  si  sarebbe  messa a strillare e l'avrebbe fatto cacciare
    via,  e perciò,  vista la piega che aveva preso la  faccenda,  era
    andato  in  visibilio,  e tutto quel mese lo passò in uno stato di
    euforia insensata;  e in questo stato lo lasciai.  Fu lì che seppi
    in tutti i particolari che,  dopo la nostra improvvisa partenza da
    Roulettenburg,  era stato colpito,  quella mattina stessa,  da una
    specie  di colpo apoplettico.  Era caduto a terra privo di sensi e
    per una settimana intera era stato come pazzo e aveva continuato a
    vaneggiare.  Lo stavano curando  quando,  un  bel  momento,  aveva
    piantato tutto,  era salito in treno ed era partito per Parigi. E'
    naturale che l'accoglienza di  Blanche  si  dimostrò  la  migliore
    medicina;  ma  le  tracce  della  malattia  gli  durarono a lungo,
    nonostante lo stato di gioia e di esaltazione in cui  si  trovava.
    Ragionare,  o  anche  solo  intrattenere  una conversazione un po'
    seria,  non gli  era  possibile;  in  quel  caso  si  limitava  ad
    aggiungere a ogni parola un "Hm!" e a scuotere la testa, e così se
    la cavava.  Spesso rideva, ma di un riso isterico e morboso, quasi
    convulso;  altre volte se ne stava seduto per ore intere cupo come
    la notte,  con le folte sopracciglia aggrottate. Di molte cose non
    si  ricordava  neppure;   era  diventato   distratto   fino   alla
    sconvenienza  e  aveva  preso  l'abitudine  di  parlare  da  solo.
    Soltanto Blanche poteva rianimarlo,  e quegli  attacchi  di  umore
    cupo,  quando si ficcava in un angolo,  indicavano soltanto che da
    molto tempo non aveva visto Blanche,  o che Blanche era andata  da
    qualche parte senza prenderlo con sé,  oppure che era uscita senza
    fargli una carezza. D'altra parte,  non avrebbe egli stesso saputo
    dire  che  cosa  desiderasse e non si rendeva egli stesso conto di
    essere così cupo e triste. Dopo essere rimasto seduto un'ora o due
    (lo notai un paio di volte,  quando Blanche stava  fuori  l'intera
    giornata, probabilmente con Albert), egli cominciava a un tratto a
    guardarsi intorno,  ad agitarsi, a dare occhiate di qua e di là, e
    sembrava che si sforzasse  di  ricordare  qualcosa  o  di  cercare
    qualcuno;  ma non vedendo nessuno e non ricordando che cosa avesse
    voluto cercare, ricadeva in quello stato di apatia fino al momento
    in cui compariva Blanche, allegra,  vivace,  elegante,  con la sua
    risata  argentina;  correva da lui,  cominciava a stuzzicarlo e lo
    baciava persino, cosa,  però,  con cui raramente lo premiava.  Una
    volta  il  generale  nel  vederla  si  rallegrò  tanto che si mise
    addirittura a piangere, e io ne rimasi assai stupito.
    Blanche,  fin dal momento in cui egli era comparso in casa nostra,
    aveva cominciato a difenderlo davanti a me.  Diventava addirittura
    eloquente;  ricordava che aveva tradito il generale per causa mia,
    che  era  quasi ormai la sua fidanzata,  che gli aveva dato la sua
    parola;  che per lei egli aveva abbandonato  la  famiglia  e  che,
    infine,  avendo io servito in casa sua, avrei dovuto sentire tutto
    ciò e...  come mai non mi vergognavo...  Io tacevo sempre,  e  lei
    ciarlava a tutto spiano. Una volta, alla fine, scoppiò a ridere, e
    la cosa finì così che, mentre prima lei aveva pensato che fossi un
    imbecille,  si fermò sul concetto che fossi invece un uomo buono e
    giudizioso.  In una parola,  ebbi  la  buona  sorte  di  meritare,
    proprio  in ultimo,  la piena benevolenza di quella degna ragazza.
    (Blanche era del resto  un'ottima  ragazza;  nel  suo  genere,  si
    capisce; io non l'avevo apprezzata così, all'inizio.)
    "Tu  sei  un  uomo  intelligente  e  buono" era solita dirmi negli
    ultimi tempi,  "e io...  mi dispiace  soltanto  che  tu  sia  così
    stupido!  Niente, mai niente riuscirai a combinare! Un vrai russe,
    un calmouk (9)".  Più volte mi mandò  a  portare  a  passeggio  il
    generale,  proprio  come  un  cagnolino  con il lacchè.  Io poi lo
    portavo anche a teatro,  al  Bar-Mabille  e  nei  ristoranti.  Per
    queste  cose  Blanche ci passava il denaro necessario,  sebbene il
    generale ne avesse di suo e gli piacesse  molto  tirare  fuori  il
    portafogli  davanti  alla gente.  Una volta dovetti quasi usare la
    forza per impedirgli di comperare una spilla da settecento franchi
    di cui si era innamorato al Palais Royal e che a ogni costo voleva
    regalare a Blanche. Che cosa ne avrebbe fatto, lei,  di una spilla
    da settecento franchi?  E il generale,  in tutto, non ne possedeva
    più di mille...  che non potei mai  sapere  da  dove  gli  fossero
    venuti.  Penso  da  mister  Astley,  tanto più che era stato lui a
    pagare per loro il conto dell'albergo.  In quanto poi  a  come  il
    generale  mi  considerasse  durante questo periodo,  mi sembra che
    nemmeno lui sospettasse  i  miei  rapporti  con  Blanche.  Sebbene
    avesse  sentito  confusamente dire che io avevo vinto un capitale,
    credeva senza dubbio che in casa di Blanche io fossi una specie di
    segretario o, forse, anche, di servitore. Almeno,  egli mi parlava
    sempre dall'alto in basso come prima,  da superiore,  e a volte mi
    dava persino qualche lavata di capo.
    Una mattina fece ridere a crepapelle me e Blanche, in casa nostra,
    mentre prendevamo il caffè.  Era un uomo per niente permaloso,  ma
    quel giorno, a un tratto, se la prese con me, per che cosa? Ancora
    oggi  non lo capisco.  Ma certo non lo capiva neanche lui.  In una
    parola,  cominciò un discorso  senza  capo  né  coda,  '"  batons-
    rompus";  diceva  che  io  ero  un  ragazzaccio,  che  mi  avrebbe
    insegnato lui... mi avrebbe fatto capire...  e via di seguito.  Ma
    nessuno riuscì a capire che cosa avesse in mente. Blanche rideva a
    più  non  posso:  finalmente  riuscimmo  a calmarlo e a portarlo a
    passeggio.  Molte volte tuttavia notavo che diventava triste,  che
    soffriva  evidentemente  di nostalgia per qualcuno,  nonostante la
    presenza di Blanche.  In quei  momenti,  due  volte  cominciò  lui
    stesso  a  parlare  con me,  ma non riuscì mai a spiegarsi in modo
    sensato;  ricordava la sua  carriera,  la  moglie  morta,  la  sua
    proprietà,  i  suoi  affari.  Si fermava su qualche parola,  se ne
    rallegrava e la ripeteva cento volte  al  giorno,  sebbene  quella
    parola  non  esprimesse  affatto  né i suoi sentimenti,  né i suoi
    pensieri.  Provavo a parlargli dei suoi bambini;  ma  egli  se  la
    cavava in fretta e passava subito a un altro argomento: "Sì, sì, i
    bambini,  avete  ragione,  i bambini!" Una volta sola si commosse,
    mentre stavamo andando a teatro.  "Sono dei bambini  disgraziati!"
    disse a un tratto.  "Proprio così,  signore,  sono dei bambini di-
    sgra-ziati!" E poi parecchie volte,  in  quella  sera,  ripeté  le
    parole:  bambini  disgraziati.  Quando  un  giorno  mi  capitò  di
    parlargli di Polina,  diventò furioso:  "E'  una  donna  ingrata,"
    esclamò,  "una donna ingrata e cattiva! Ha disonorato la famiglia!
    Se qui ci fossero delle leggi,  l'avrei piegata io!  Sì,  signore,
    proprio  così!" Per quanto riguarda De-Grieux,  non voleva nemmeno
    sentirne parlare. "Mi ha rovinato," diceva, "mi ha derubato, mi ha
    assassinato! E' stato il mio incubo per due anni interi!  Per mesi
    e  mesi  l'ho sognato tutte le notti!  E'...  è...  è...  Oh,  non
    parlatemi mai più di lui!"
    Mi ero accorto che loro due stavano combinando  qualche  cosa  ma,
    come al solito,  tacevo.  Blanche me lo annunciò per prima, giusto
    una settimana prima che ci separassimo.  "Il ya  du  changé  (10)"
    prese  a  cinguettare.  "La baboutchka è adesso davvero ammalata e
    morirà  certamente.   Mister  Astley  ha  mandato  un  telegramma:
    convieni  anche  tu  che egli è pur sempre l'erede di lei.  E,  se
    anche non lo fosse,  non impedirebbe niente.  Prima di tutto ha la
    sua  pensione,  e,  in secondo luogo,  abiterà nella stanza vicina
    alla mia e  sarà  completamente  felice.  E  io  sarò  'madame  la
    génerale.'  Entrerò  nella  buona  società (era questo il costante
    sogno di  Blanche),  e  in  seguito  sarò  una  possidente  russa,
    'j'aurais  un  château,  des moujiks et puis j'aurais toujours mon
    milion (11)'"
    "Già,  ma se lui comincerà a esser geloso,  a esigere...  sa Iddio
    che cosa, capisci?"
    "Oh  no,  no,  no!  Come  oserebbe?  Ho  preso le mie misure,  non
    preoccuparti.  Gli ho già fatto firmare alcune cambiali a nome  di
    Albert. Basterà un nonnulla, e sarà castigato. Ma non oserà!"
    "Be', sposati..."
    Le  nozze  furono celebrate senza particolare solennità,  in forma
    familiarmente modesta. Furono invitati Albert e qualcuno fra i più
    intimi. Hortense, Cléopatre e le altre furono decisamente lasciate
    da parte.  Lo sposo si interessava straordinariamente del  proprio
    stato.  Blanche  stessa  gli  annodò  la  cravatta,  lei stessa lo
    impomatò,  e nella sua marsina con il panciotto bianco egli  aveva
    l'aria "très comme il faut".
    "Il  est  pourtant  très  comme il faut (12)" mi dichiarò Blanche,
    uscendo dalla stanza del generale,  come se l'idea che il generale
    era "très comme il faut" l'avesse colpita.  Io mi interessavo così
    poco  dei  particolari  e  partecipavo  a  tutto  in  qualità   di
    spettatore  così  svogliato  che  molte  cose  le  ho dimenticate.
    Ricordo solo che Blanche non era affatto de Cominges, come pure la
    madre di lei, per niente veuve de Cominges,  ma du-Placet.  Perché
    fino  a quel momento fossero state de Cominges,  non lo so.  Ma il
    generale fu molto contento anche di questo e du-Placet gli piacque
    ancora di più che de Cominges.  La mattina delle nozze  egli,  già
    tutto vestito, andava su e giù per la sala ripetendo continuamente
    con  straordinaria serietà e aria grave: "Mademoiselle Blanche du-
    Placet! Blanche du-Placet!"
    E una certa espressione soddisfatta di sé illuminava il suo  viso.
    In chiesa, davanti al "maire" e a casa, durante il rinfresco, egli
    sembrava non solo gioioso e soddisfatto,  ma persino orgoglioso. A
    tutt'e due era accaduto  qualcosa.  Anche  Blanche  aveva  assunto
    un'aria di particolare dignità.
    "Ora devo comportarmi in modo del tutto diverso," mi disse in tono
    straordinariamente serio, "mais vois-tu, non avevo neppure pensato
    a  una  cosa noiosissima;  figurati che non sono ancora riuscita a
    imparare il mio nuovo cognome: Zagorjanskij, Zagorjanskij, 'madame
    la générale de Zago-Zago,  ces  diables  des  noms  russes,  enfin
    madame  la  générale  à quatorze consonnes!  Comme c'est agréable,
    n'est-ce-pas?'" (13)
    Finalmente ci lasciammo e Blanche,  quella  stupida  Blanche,  nel
    separarsi  da  me  versò anche qualche lacrimuccia.  "Tu étais bon
    enfant" diceva piagnucolando.  "Je te croyais bête et tu en  avais
    l'air (14),  ma ciò ti si confà." E,  strettami definitivamente la
    mano, esclamò all'improvviso:
    "Aspetta!" corse nel suo salottino e dopo un minuto mi  portò  due
    biglietti da mille franchi. Non avrei mai creduto una cosa simile!
    "Ti  saranno utili;  tu sei forse un outchitel molto sapiente,  ma
    sei un  uomo  molto  sciocco.  Più  di  duemila  non  te  ne  darò
    assolutamente perché tanto li perderai al giuoco.  Addio,  dunque!
    'Nous serons toujours bons amis' e, se vincerai di nuovo,  ritorna
    senza fallo da me, 'et tu seras heureux! (15)'"
    A me,  personalmente,  restavano ancora circa cinquecento franchi;
    inoltre possiedo un magnifico orologio  che  ne  vale  mille,  dei
    gemelli  in  brillanti  eccetera,  tanto  da  poter  tirare avanti
    abbastanza  senza  preoccupazioni.   Mi  sono  fermato  in  questa
    cittadina  per raccogliermi e,  soprattutto,  per aspettare mister
    Astley.  Ho saputo con certezza che  egli  passerà  di  qui  e  si
    fermerà ventiquattro ore,  per un affare.  Mi informerò di tutto e
    poi... poi andrò difilato a Homburg.  A Roulettenburg non ci andrò
    se  non  forse il prossimo anno.  In realtà si dice che porti male
    tentare la fortuna due volte di seguito allo stesso tavolo e  poi,
    a Homburg, si fa un giuoco più serio.


    NOTE.
    1) "E i centomila franchi che ci rimangono,  li mangeremo insieme,
    mio outchitel!"
    2) "E' un outchitel, ha guadagnato centomila franchi."
    3) "Ma tu sei abbastanza di spirito  per  capire!  Sappi,  ragazzo
    mio..."
    4) "Ma sai... ma dimmi dunque... Dopo che cosa farai?"
    5) "Ah, bene, è magnifico!"
    6)  "Perché  credevo  che  tu non fossi che un outchitel (qualcosa
    come un lacchè, nevvero?)... perché io sono una brava ragazza."
    7) "Bisogna che la gioventù si sfoghi!"
    8) "Ma tu sei un vero filosofo!  Ebbene,  io ti amerò,  ti  amerò,
    vedrai, sarai contento!"
    9) "Un vero russo, un calmucco."
    10) "C'è qualche novità."
    11)  "Avrò  un castello,  dei contadini,  e poi avrò sempre il mio
    milione."
    12) "Eppure ha l'aria davvero distinta!"
    13) "La generalessa Zago... Zago... questi indiavolati nomi russi;
    insomma,  la signora  generalessa  dalle  quattordici  consonanti.
    Bello, no?"
    14) "Eri un bravo ragazzo. Ti credevo uno sciocco e ne avevi tutta
    l'aria."
    15) "Saremo sempre buoni amici... ritorna da me, e sarai felice."





















    17.

    Ecco,  ormai è un anno e otto mesi che non ho più dato uno sguardo
    a queste memorie e soltanto  ora,  oppresso  dall'angoscia  e  dal
    dolore  come  sono,  ho  pensato  di distrarmi e le ho rilette per
    caso.  Le avevo interrotte al momento in cui stavo  per  andare  a
    Homburg.  Mio Dio!  Con che cuore leggero, relativamente parlando,
    avevo scritto allora le ultime righe!  O,  per meglio dire,  non a
    cuor  leggero,  ma  con  quale  sicurezza in me stesso,  con quali
    incrollabili speranze! Dubitavo, forse,  in qualche modo di me?  E
    ecco che è passato un anno e mezzo e sono diventato, a mio parere,
    peggio di un mendicante!  Ma che mendicante! Me ne infischio della
    mendicità!  Mi sono semplicemente rovinato!  Del  resto,  non  c'è
    quasi  niente  con  cui poter fare confronti,  e è proprio inutile
    farsi la morale.  Niente ci può essere di più assurdo,  al  giorno
    d'oggi, della morale! Oh, gli uomini soddisfatti di se stessi, con
    quale orgoglioso compiacimento sono pronti,  quei chiacchieroni, a
    pronunciare la loro sentenza!  Se sapessero fino a  che  punto  io
    stesso  capisco  tutto  quanto c'è di ripugnante nella mia attuale
    situazione,   non  muoverebbero  certo   la   lingua   per   darmi
    insegnamenti.  E poi,  che cosa possono dirmi di nuovo, che io già
    non sappia? Ma si tratta forse di questo?  Il fatto è che basta un
    giro  di  ruota  per  cambiare  tutto,  e  quegli stessi moralisti
    verrebbero  per   primi   (ne   sono   convinto)   a   rallegrarsi
    amichevolmente con me. E allora non mi volterebbero le spalle come
    fanno adesso.  Ma me ne infischio di tutti loro! Che cosa sono io,
    adesso?  Uno zero.  Che cosa posso  essere  domani?  Domani  posso
    risuscitare dai morti e ricominciare a vivere!  Posso ritrovare in
    me l'uomo, fino a che non è ancora perduto!
    Allora  andai  davvero  a  Homburg  ma...   poi  fui  di  nuovo  a
    Roulettenburg,  fui  a  Spa,  fui  anche a Baden,  dove andai come
    cameriere del consigliere Hinze,  un mascalzone  che  fu  già  mio
    padrone qui.  Sì,  perché ho fatto anche il lacchè per cinque mesi
    interi!  Questo accadde subito dopo la prigione (perché sono stato
    anche  in prigione a Roulettenburg,  per un debito fatto qui.  Uno
    sconosciuto pagò per me il riscatto. Chi?  Mister Astley?  Polina?
    Non lo so,  ma il debito, duecento talleri, fu pagato, e io riebbi
    la libertà). Dove dovevo andare? Così entrai al servizio di questo
    Hinze.  E' un uomo giovane e fatuo,  gli piace  oziare,  e  io  so
    parlare e scrivere in tre lingue. All'inizio andai da lui come una
    specie  di  segretario,  a trenta gulden al mese,  ma finii con il
    diventare un vero servitore;  tenere un  segretario  cominciò  con
    l'essere  una spesa superiore alle sue possibilità e mi diminuì lo
    stipendio;  non sapendo dove andare,  rimasi e mi trasformai da me
    stesso  in  lacchè.  Non  mangiavo  né bevevo a sufficienza al suo
    servizio ma,  in compenso,  in cinque mesi  raggranellai  settanta
    fiorini.  Una sera, a Baden, gli dichiarai che volevo lasciarlo e,
    quella sera stessa, andai alla roulette.  Oh,  come batteva il mio
    cuore!  No,  non  era  il denaro che m'importava...  Allora volevo
    soltanto che l'indomani tutti quegli Hinze,  quei capi  camerieri,
    quelle  magnifiche  signore  di  Baden,  che  tutta  quella gente,
    insomma, parlasse di me, raccontasse la mia storia,  mi ammirasse,
    mi lodasse e si inchinasse davanti alla mia nuova vittoria.  Erano
    tutti sogni,  tutte fantasie infantili ma...  chi sa?  Avrei forse
    anche  incontrato  Polina,  le avrei raccontato la cosa,  e lei si
    sarebbe resa conto che io sono superiore a  tutti  questi  assurdi
    colpi  del  destino...  Oh,  non sono i quattrini che m'importano!
    Sono convinto che li avrei sperperati di  nuovo  con  una  Blanche
    qualsiasi e che avrei di nuovo girato Parigi per tre settimane con
    una  pariglia di cavalli di mia proprietà,  da sedicimila franchi.
    Perché so con certezza che non sono avaro; credo, anzi,  di essere
    prodigo;  intanto,  però, con quale ansia, con quale mancamento di
    cuore ascolto il grido del croupier: "trente et un, rouge,  impair
    et  passe",  oppure:  "quatre,  noir,  pair et manque"!  Con quale
    cupidigia guardo il tavolo da gioco sul quale sono sparsi i luigi,
    i federici,  i talleri,  e le pile d'oro quando dai rastrelli  dei
    croupiers  vengono  sparpagliate  in  mucchi  ardenti  come brace,
    oppure le alte pile di monete d'argento,  sistemate  attorno  alla
    ruota!  Mentre  ancora  sono lontano due sale da quella da gioco e
    riesco appena  a  sentire  il  tintinnio  delle  monete  mi  sento
    rabbrividire.
    Oh,  quella  sera in cui puntai i miei settanta fiorini sul tavolo
    da giuoco fu anch'essa una sera memorabile!  Cominciai  con  dieci
    fiorini e nuovamente dal passe. Per il passe ho una superstizione.
    Perdetti.  Mi  rimanevano sessanta gulden in monete d'argento.  Ci
    pensai su un momento e scelsi lo zero.  Mi misi  a  puntare  sullo
    zero  cinque gulden alla volta;  alla terza puntata ecco,  lo zero
    esce.  Poco  mancò  che  non  morissi  dalla  gioia  nel  ricevere
    centosettantacinque  gulden.  Non  ero stato così felice quando ne
    avevo vinto centomila.  Subito ne puntai cento sul  rouge:  vinsi.
    Tutti i duecento sul rouge: vinsi.  Tutti i quattrocento sul noir:
    vinsi.  Tutti gli ottocento sul manque: vinsi!  Calcolando  quanto
    avevo prima,  possedevo,  ora,  millecinquecento fiorini,  e tutto
    questo in  meno  di  cinque  minuti!  Sì,  in  momenti  simili  si
    dimentica  ogni  insuccesso  passato!  Sicuro,  perché  io ottenni
    questo rischiando più della vita!  Ecco,  avevo osato rischiare ed
    ero di nuovo tra gli uomini!
    Mi  presi una stanza,  mi ci rinchiusi e fin verso le tre rimasi a
    contare il mio denaro. Al mattino, quando mi svegliai, non ero più
    un lacchè. Decisi di partire quello stesso giorno per Homburg;  là
    non avevo fatto il servitore e non ero stato in prigione! Mezz'ora
    prima  che partisse il treno,  andai per fare due puntate,  non di
    più, e perdetti millecinquecento fiorini.  Tuttavia mi trasferii a
    Homburg, e è ormai un mese che soro qui...
    Certo  vivo  in  ansia  continua,  gioco  puntando  poste minime e
    aspetto non so che cosa, faccio calcoli e passo intere giornate al
    tavolo da gioco osservandone l'andamento; perfino in sogno vedo il
    gioco,  eppure mi sembra di essere diventato di  legno,  quasi  mi
    fossi  impantanato nella melma.  Lo deduco dall'impressione che ho
    provato imbattendomi in mister Astley. Non ci eravamo più visti da
    allora e ci incontrammo per caso: ecco come fu.  Camminavo per  il
    giardino  e  pensavo  che  ormai  ero  quasi senza denaro,  ma che
    possedevo, però,  cinquanta gulden e che all'albergo,  dove occupo
    una  stanzetta,  avevo  due  giorni  prima  regolato il conto.  Mi
    restava dunque la  possibilità  di  andare  una  sola  volta  alla
    roulette;  se avessi vinto, sia pure poco, avrei potuto continuare
    il giuoco;  se avessi perso,  sarei stato costretto ad  andare  di
    nuovo a fare il lacchè, nel caso che non avessi subito trovato dei
    russi ai quali servisse un precettore. Immerso in questi pensieri,
    facevo  la  mia  passeggiata  quotidiana  attraverso il parco e il
    bosco fino al principato vicino.  A volte giravo così per  quattro
    ore  e tornavo a Homburg stanco e affamato.  Ero appena uscito dal
    giardino nel parco quando, a un tratto,  vidi mister Astley seduto
    su una panchina.  Egli mi vide per primo e mi chiamò.  Gli sedetti
    vicino.  Notando in lui un certo distacco,  frenai subito  la  mia
    gioia; se no mi sarei rallegrato moltissimo nel vederlo.
    "Dunque  siete qui!  Lo pensavo che vi avrei incontrato" mi disse.
    "Non disturbatevi a raccontare: so tutto, so tutto.  Conosco tutta
    la vostra vita di quest'anno e questi otto mesi."
    "Ah,  come seguite i vecchi amici!" gli risposi.  "Vi fa onore che
    non li dimentichiate... Aspettate, però... mi fate venire un'idea.
    Siete stato voi a riscattarmi dal carcere  di  Roulettenburg  dove
    ero  rinchiuso  per  un  debito  di duecento gulden?  E' stato uno
    sconosciuto a pagare per me..."
    "No,  oh no!  Non sono stato  io  a  riscattarvi  dal  carcere  di
    Roulettenburg  dove vi trovavate per un debito di duecento gulden,
    ma sapevo che  eravate  in  carcere  per  un  debito  di  duecento
    gulden..."
    "Vuol dire, dunque, che sapete chi ha pagato per me?".
    "Oh no, non posso proprio dire di sapere chi vi ha riscattato."
    "E' strano: dei nostri russi nessuno mi conosce,  e i russi di qui
    magari non mi riscatterebbero neppure;  è da noi,  in Russia,  che
    gli  ortodossi riscattano gli ortodossi.  E io credevo proprio che
    l'avesse fatto qualche originale inglese, così, per stravaganza!"
    Mister Astley mi ascoltava con un certo  stupore.  Mi  sembra  che
    egli credesse di trovarmi triste e abbattuto.
    "Mi  fa  molto  piacere,  tuttavia,  vedere  che  avete conservato
    perfettamente la vostra  indipendenza  di  spirito  e  perfino  la
    vostra allegria" disse con un'aria abbastanza simpatica.
    "Cioè,  dentro  di  voi  vi  rodete  di  stizza perché non sono né
    triste, né abbattuto" risposi ridendo.
    Egli non capì subito ma, dopo che ebbe capito, sorrise.
    "Mi piacciono le vostre osservazioni.  Riconosco in queste  parole
    il mio intelligente amico di una volta,  entusiasta e cinico nello
    stesso tempo; soltanto i russi possono riunire in sé, nello stesso
    tempo, qualità così contrastanti. Infatti l'uomo ama vedere il suo
    migliore amico umiliato davanti a lui;  sull'umiliazione è fondata
    per lo più l'amicizia.  E questa è una verità che tutte le persone
    intelligenti conoscono, ma in questo caso, ve lo assicuro, io sono
    sinceramente contento che voi non siate abbattuto. Dite, non avete
    intenzione di lasciare il gioco?"
    "Oh, al diavolo il gioco! Lo pianterei subito, purché..."
    "Purché poteste rifarvi? Pensavo proprio così; non proseguite,  lo
    so, l'avete detto involontariamente, quindi avete detto la verità.
    Oltre che del giuoco, vi occupate di qualcosa?"
    "No, di niente altro."
    Egli  cominciò  a esaminarmi.  Io non sapevo niente,  non guardavo
    quasi i giornali ed effettivamente in tutto quel tempo  non  avevo
    aperto un libro.
    "Vi  siete  fatto  di legno," osservò,  "non solo avete rinunciato
    alla vita,  agli interessi vostri e a  quelli  della  società,  ai
    doveri  di un cittadino e di un uomo,  ai vostri amici (e di amici
    ne avevate),  non solo avete rinunciato a ogni altro scopo  tranne
    che  a  quello  di  vincere al gioco,  ma avete anche rinunciato a
    tutti i vostri ricordi.  Vi  rammento  in  un  momento  ardente  e
    intenso  della  vostra vita;  ma sono sicuro che avete dimenticato
    tutte le vostre migliori impressioni di allora;  i  vostri  sogni,
    quelli di adesso,  i vostri quotidiani desideri non vanno oltre al
    'pair et impair,  rouge et noir',  ai dodici numeri medi e così di
    seguito, Ne sono sicuro!"
    "Basta,  mister Astley,  ve ne prego, non ricordatemelo!" esclamai
    con stizza e quasi con astio.  "Sappiate che  non  ho  dimenticato
    niente;  soltanto  momentaneamente ho scacciato tutto questo dalla
    mia testa,  anche i ricordi,  fino a  quando  non  avrò  sistemato
    radicalmente  la  mia  situazione;  allora...  allora  vedrete che
    risorgerò dai morti!"
    "Voi sarete qui ancora tra dieci anni" mi  disse.  "Scommetto  con
    voi che vi ricorderò tutto questo, se sarò ancora vivo, proprio su
    questa stessa panchina!"
    "Basta, via!" lo interruppi con impazienza. "E per dimostrarvi che
    non ho dimenticato il passato,  permettete che vi chieda dov'è ora
    miss Polina.  Se non  siete  stato  voi  a  riscattarmi,  è  stata
    certamente lei. Da allora non ne ho saputo più niente!"
    "No,  oh no!  Non credo che sia stata lei a riscattarvi. Ora lei è
    in Svizzera,  e voi mi farete un grande favore  se  smetterete  di
    chiedermi  di  miss Polina" dichiarò in tono deciso e anche un po'
    seccato.
    "Questo significa che lei  ha  ferito  profondamente  anche  voi!"
    dissi, ridendo involontariamente.
    "Miss  Polina  è  la  migliore  creatura tra tutte le creature più
    degne di rispetto ma,  vi ripeto,  mi farete un grandissimo favore
    se smetterete di chiedermi di lei.  Voi non l'avete mai conosciuta
    e il suo nome sulle vostre labbra io lo considero un'offesa al mio
    senso morale."
    "Davvero? Però,  avete torto;  di che altro potrei parlarvi se non
    di questo?  Giudicate anche voi.  Appunto in questo stanno tutti i
    miei ricordi. Del resto, non preoccupatevi: non ho proprio bisogno
    dei vostri affari intimi, segreti... Io m'interesso soltanto,  per
    così  dire,  della  situazione esteriore di miss Polina,  soltanto
    dell'attuale ambiente di lei.  E questo si può comunicare  in  due
    parole."
    "D'accordo,  purché con queste due parole tutto sia concluso. Miss
    Polina è stata a lungo malata;  è vissuta per un certo periodo con
    mia  madre  e mia sorella nell'Inghilterra del nord.  Sei mesi fa,
    sua nonna,  ve la ricordate,  vero?  Quella vecchia pazza  morì  e
    lasciò,  a lei personalmente, un patrimonio di settemila sterline.
    Ora miss Polina viaggia con la famiglia di mia sorella  che  si  è
    sposata.  Il fratellino e la sorellina,  anch'essi messi al sicuro
    dal testamento della nonna,  studiano a Londra.  Il generale,  suo
    patrigno,  è  morto un mese fa a Parigi,  di un colpo apoplettico.
    Mademoiselle Blanche lo trattava bene,  ma tutto ciò  che  lui  ha
    ereditato dalla nonna è riuscita a farselo intestare.  Ecco tutto,
    mi sembra."
    "E De-Grieux? Non sta forse viaggiando anche lui in Svizzera?"
    "No.  De-Grieux non sta viaggiando in Svizzera e non  so  dove  si
    trovi; inoltre, una volta per sempre, vi avverto di evitare simili
    allusioni  e  indegni accostamenti,  altrimenti avrete da fare con
    me."
    "Come! Nonostante i nostri amichevoli precedenti rapporti?"
    "Sì, nonostante i nostri amichevoli rapporti."
    "Vi chiedo mille scuse, mister Astley.  Ma permettete: qui non c'è
    niente  di  offensivo  e  di  ignobile:  non accuso di niente miss
    Polina.  Inoltre un francese e una signorina  russa,  parlando  in
    generale,  costituiscono  un  tale accostamento che né io,  né voi
    mister  Astley,   riusciremo   a   risolvere   o   a   comprendere
    definitivamente".
    "Se  non  pronuncierete il nome di De-Grieux insieme a quell'altro
    nome,  vi pregherò  di  spiegarmi  che  cosa  intendete  dire  con
    l'espressione:   'un   francese   e  una  signorina  russa'.   Che
    'accostamento' è questo?  Perché proprio un francese e proprio una
    signorina russa?"
    "Vedete, vi ha interessato. Ma questo è un argomento vasto, mister
    Astley.  Bisognerebbe  conoscere  preventivamente molte cose.  Del
    resto, è una questione importante,  per quanto a prima vista possa
    sembrare una cosa buffa.  Il francese,  mister Astley, è una forma
    bella,  ben  definita.  Voi,  come  inglese,   potete  non  essere
    d'accordo su questo;  neanch'io, come russo, lo sono, magari anche
    soltanto per invidia;  ma le nostre signorine  possono  essere  di
    un'altra   opinione.   Voi   potete  giudicare  Racine  manierato,
    artificioso e cincischiato e, probabilmente,  non vi metterete mai
    a   leggerlo.   Anch'io   lo  giudico  manierato,   artificioso  e
    cincischiato e, da un certo punto di vista,  perfino ridicolo;  ma
    egli è affascinante,  mister Astley,  e,  soprattutto, è un grande
    poeta,  sia che noi lo vogliamo  o  no.  La  forma  nazionale  del
    francese,  cioè  del parigino,  è cominciata a diventare una forma
    elegante quando noi eravamo ancora degli orsi.  La rivoluzione  ha
    ereditato dalla nobiltà. Ora il più volgare francesuccio può avere
    modi, tratti, espressioni e anche pensieri di una forma pienamente
    elegante, senza partecipare a questa forma né con l'iniziativa, né
    con  l'anima,  né  con  il  cuore;  tutto  questo gli è toccato in
    eredità.  Per se stesso può essere più vuoto del vuoto e più  vile
    di  qualsiasi viltà.  Ebbene,  mister Astley,  vi dirò ora che non
    esiste essere al mondo più fiducioso e più schietto di una  buona,
    intelligente  e  non  troppo  sofisticata signorina russa.  Un De-
    Grieux che compaia a  recitare  una  qualche  parte,  che  compaia
    mascherato,  può conquistarne il cuore con straordinaria facilità;
    egli ha una forma elegante, mister Astley,  e la signorina scambia
    questa  forma  per  la  sua  stessa  anima,  per la forma naturale
    dell'anima e del cuore di lui,  e non per una veste toccatagli  in
    eredità.  Con  vostro  grandissimo dispiacere devo confessarvi che
    gli inglesi sono, per la maggior parte, spigolosi e ineleganti,  e
    i  russi  possiedono  sufficiente  sensibilità  per riconoscere la
    bellezza,  di cui sono avidi.  Ma per distinguere la  bellezza  di
    un'anima  e l'originalità della persona,  serve,  senza confronto,
    più indipendenza e libertà di giudizio di quanto non ne abbiano le
    nostre donne e tanto più le nostre  signorine  e,  in  ogni  caso,
    serve una maggiore esperienza.  A miss Polina (perdonatemi, ma ciò
    che è detto è detto!) serve molto,  molto tempo  per  decidersi  a
    preferire  voi a quel mascalzone di De-Grieux.  Lei vi apprezzerà,
    vi diventerà amica,  vi aprirà il suo  cuore;  ma  in  quel  cuore
    regnerà tuttavia l'odioso mascalzone,  il laido,  meschino usuraio
    De-Grieux. E questo succederà, tanto per dire,  per testardaggine,
    e per amor proprio,  perché quello stesso De-Grieux le era apparso
    un giorno  circondato  dall'aureola  del  marchese  elegante,  del
    liberale  deluso  e della persona che si era rovinata (sarà così?)
    per aiutare la famiglia di lei e il generale  dalla  testa  vuota.
    Tutte  le truffe sono state scoperte dopo;  ora datele di nuovo il
    De-Grieux di prima: ecco che cosa le serve! E, quanto più lei odia
    il De-Grieux di oggi,  tanto più  sente  nostalgia  di  quello  di
    prima, sebbene egli sia esistito solo nella sua immaginazione. Voi
    siete produttore di zucchero, mister Astley?"
    "Sì,  faccio  parte  della società del noto zuccherificio Lowell e
    Co."
    "Ecco,  vedete,  mister Astley,  da una parte  il  raffinatore  di
    zucchero,  dall'altra  l'Apollo del Belvedere: tutto questo non va
    molto d'accordo. E io non sono neppure un raffinatore di zucchero,
    io sono semplicemente un piccolo giocatore di roulette e ho  fatto
    perfino il lacchè,  il che, senza dubbio, è già noto a miss Polina
    perché ella ha, a quanto pare, un ottimo servizio di polizia."
    "Siete esasperato,  e  perciò  dite  tutte  queste  assurdità"  mi
    rispose  mister Astley con calma,  dopo un momento di riflessione.
    "Inoltre nelle vostre parole non c'è nessuna originalità."
    "D'accordo!  Ma l'orrore della cosa sta proprio in questo,  nobile
    amico  mio,  che  tutte  le  mie  accuse,  per quanto invecchiate,
    volgari e per quanto degne di un vaudeville,  sono  tuttora  vere.
    Malgrado tutto, voi e io non abbiamo ottenuto niente!"
    "Questa  è  un'abominevole  sciocchezza...   perché...   perché...
    sappiate dunque" disse mister Astley con voce tremante, "sappiate,
    uomo ingrato e indegno, meschino e sciagurato,  che io sono venuto
    a Homburg precisamente per suo incarico,  per vedervi,  parlarvi a
    lungo e a cuore aperto e poi riferirle tutto: i vostri sentimenti,
    i vostri pensieri, le vostre speranze e... i vostri ricordi!"
    "Possibile?  Possibile?" gridai,  mentre una  pioggia  di  lacrime
    cadde  dai  miei  occhi.   Non  potevo  trattenerle  e  questo  mi
    succedeva, credo, per la prima volta nella vita.
    "Sì,  uomo sciagurato,  lei vi amava e posso  rivelarvelo  perché,
    tanto,  voi siete un uomo perduto!  Non basta, ma se anche vi dirò
    che vi ama tuttora, voi continuerete ugualmente a restare qui. Sì,
    vi siete rovinato  con  le  vostre  mani.  Avevate  qualche  buona
    attitudine,  un  temperamento  vivace  ed  eravate  tutt'altro che
    cattivo;  avreste potuto perfino essere utile alla  vostra  patria
    che ha tanto bisogno di uomini,  ma voi non vi muoverete di qui, e
    la vostra vita è finita. Io non vi accuso.  A mio parere,  tutti i
    russi  sono  così  o,  almeno,  tendono  a  esserlo.  Se  non è la
    roulette,  sarà un'altra cosa del genere.  Le eccezioni sono molto
    rare.  Non  siete voi il primo a non capire che cosa sia il lavoro
    (non  parlo  del  vostro  popolo).   La  roulette  è   un   giuoco
    squisitamente  russo.  Finora siete stato onesto e avete preferito
    andare a fare il lacchè piuttosto che rubare...  ma mi spaventa il
    pensare a quello che potrà accadere in futuro! E ora basta, addio!
    Avrete certo bisogno di denaro.  Eccovi, da parte mia dieci luigi,
    di più non vi do, perché tanto li perderete al giuoco.  Prendeteli
    e addio! Prendeteli!"
    "No, mister Astley, dopo tutto ciò che è stato detto oggi..."
    "Pren-de-teli!"   gridò.   "Sono  convinto  che  siete  ancora  un
    galantuomo e do a voi come un amico può dare a un vero  amico.  Se
    potessi  essere  sicuro  che  voi  abbandonaste  subito il giuoco,
    Homburg, e che tornaste nella vostra patria,  sarei pronto a darvi
    immediatamente mille sterline per iniziare una nuova vita.  Ma non
    vi do mille sterline,  vi do soltanto  dieci  luigi  perché  mille
    sterline o dieci luigi sono per voi,  al momento,  la stessa cosa,
    poiché comunque li perdereste. Prendete, e addio!"
    "Li prenderò se mi permettete di abbracciarvi nel dirvi addio!"
    Ci abbracciammo sinceramente, e mister Astley si allontanò.
    No,  egli non ha ragione!  Anche se sono stato pungente e  sciocco
    riguardo  a  Polina  e  a  De-Grieux,  egli lo è stato riguardo ai
    russi. Di me non dico niente. Del resto...  del resto non è questo
    il momento.  Sono tutte parole, parole, parole... e servono fatti!
    Qui l'importante è adesso la Svizzera.  Domani  stesso...  oh,  se
    potessi  partire domani stesso!  Di nuovo rinascere,  risuscitare!
    Bisogna dimostrare loro...  Sappia  Polina  che  io  posso  ancora
    essere  un  uomo.  Basta soltanto...  Adesso,  però,  è tardi,  ma
    domani...   Oh  sì,   ho  un  presentimento  e  non   può   essere
    diversamente!  Ora  ho quindici luigi e ho cominciato con quindici
    gulden! Se si comincia con prudenza...  E' possibile,  è possibile
    che  io sia proprio così bambino?  E' possibile che io non capisca
    che sono un uomo perduto?  Ma perché  non  potrei  risorgere?  Sì!
    Basta  essere  almeno  una volta nella vita cauto e paziente: ecco
    tutto! Basta, almeno una volta nella vita, dimostrare carattere e,
    in un'ora,  posso cambiare  il  mio  destino!  L'essenziale  è  il
    carattere.  Basta ricordare che cosa mi è accaduto in questo senso
    sette mesi fa a Roulettenburg prima della mia definitiva  perdita!
    Oh,  quello  fu  un notevole caso di fermezza avevo allora perduto
    tutto, tutto... Esco dal Casino,  guardo nella tasca del panciotto
    trovo ancora un gulden.  "Ah, avrò dunque di che pranzare!" pensai
    ma,  dopo aver fatto cento passi cambiai idea e  tornai  indietro.
    Puntai  quel  gulden  sul  manque (quella volta ero fissato per il
    manque) e, in verità, c'è qualcosa di particolare nella sensazione
    che provi quando solo, in un paese straniero, lontano dalla patria
    e  dagli  amici,  senza  sapere  che  cosa  mangerai  oggi,  punti
    l'ultimo,  proprio  l'ultimo,  l'ultimissimo gulden!  Vinsi e dopo
    dieci minuti uscii dal Casinò con centosettanta gulden  in  tasca.
    E'  un  fatto!  Ecco  che  cosa  può  significare a volte l'ultimo
    gulden!  E che cosa sarebbe accaduto  se  allora  mi  fossi  perso
    d'animo, se non avessi avuto il coraggio di decidermi?
    Domani, domani tutto finirà!