GUERRA E PACE di Lev Nicoàevic Tolstòj.

    Traduzione dal russo di Giacinta De Dominicis Jorio.


    LIBRO PRIMO.


    PARTE PRIMA.

    CAPITOLO 1.

    - "Eh bien,  mon prince,  Gênes  et  Lucques  ne  sont  plus  que  des
    apanages,  des  "pomestja"  de  la  famille Buonaparte.  Non,  je vous
    préviens que si vous ne me dites pas que nous avons la guerre, si vous
    vous permettez encore de  pallier  toutes  les  infamies,  toutes  les
    atrocités de cet Antichrist (ma parole, j'y crois), je ne vous connais
    plus,  vous n'êtes plus mon "verneyj rab",  comme vous dites".  Basta,
    buon giorno, buon giorno!  "Je vois que je vous fais peur..." [Ebbene,
    principe, Genova e Lucca non sono altro, ormai, che appannaggi, feudi,
    della  famiglia  Buonaparte.  Vi  avverto  che se non mi dite che è la
    guerra,  se vi permettete ancora di attenuare tutte le infamie,  tutte
    le  atrocità  di quell'Anticristo (parola d'onore,  ci credo),  non vi
    riconoscerò più, non vi considererò più mio amico, mio fedele schiavo,
    come voi dite (...). Mi accorgo che vi faccio paura...].  (1) Sedetevi
    e raccontate!
    Così parlava nel luglio 1805 Anna Pàvlovna Scerer, damigella d'onore e
    persona vicinissima all'imperatrice madre Màrija Fëdorovna (2) andando
    incontro al principe Vassilij, personaggio importante e pluridecorato,
    che  giungeva  per primo al suo ricevimento.  Anna Pàvlovna tossiva da
    alcuni giorni: aveva la "grippe", come diceva lei ("grippe" era allora
    una parola nuova, usata molto raramente). Su tutti i bigliettini,  che
    quella  mattina  aveva  inviato per mezzo di un lacchè in livrea rossa
    era scritto indistintamente: ""Si vous n'avez rien de mieux  à  faire,
    M.  le comte" (oppure "mon prince"), et si la perspective de passer la
    soirée chez une pauvre malade ne  vous  effraye  pas  trop,  je  serai
    charmée  de vous voir chez moi entre 7 et 10 heures.  Annette Scerer""
    [3.  Se non avete niente di meglio da fare,  signor conte (oppure: mio
    caro  principe),  e se la prospettiva di trascorrere la serata con una
    povera ammalata non vi spaventa troppo,  sarò lieta di vedervi in casa
    mia questa sera tra le sette le dieci].
    -  "Dieu,   quelle  virulente  sortie!"  [4.  Mio  Dio,  che  violenta
    invettiva!]  -  rispose,  per nulla imbarazzato da  quell'accoglienza,
    il  principe  in  divisa  di  Corte,  ricamata,  con  calze  di seta e
    scarpette con la fibbia,  ornato di tutte le  sue  decorazioni  e  con
    un'espressione sorridente sul viso volgare.
    Egli si esprimeva in quel francese ricercato, nel quale i nostri nonni
    non solo parlavano,  ma pensavano, e con quelle intonazioni sommesse e
    protettive che sono proprie di  un  uomo  importante,  invecchiato  in
    società  e  a  Corte.  Egli si avvicinò ad Anna Pàvlovna,  le baciò la
    mano,  abbassò dinanzi a lei il cranio profumato e lucido e si sedette
    tranquillamente sul divano.
    -  "Avant  tout  dites-moi,  comment  vous  allez,  chère  amie?"  [5.
    Innanzitutto, ditemi come state, mia cara amica!] Tranquillizzatemi  -
    disse, senza mutare il tono della voce che,  nonostante le convenienze
    e  l'espressione  simpatica,   lasciava  trasparire  l'indifferenza  e
    addirittura l'ironia.
    - Com'è possibile star bene...  quando lo spirito soffre?  Come si può
    in questi tempi essere tranquilli,  se si ha un po' di sensibilità?  -
    rispose Anna Pàvlovna.  -  Spero che vorrete trascorrere qui la vostra
    serata, vero?
    - E' la festa dell'ambasciatore d'Inghilterra? Oggi è mercoledì.  Devo
    essere  presente    -    rispose  il principe.   -  Mia figlia verrà a
    prendermi e mi accompagnerà...
    - Credevo che la festa di oggi fosse stata rinviata.  "Je  vous  avoue
    que  toutes ces fêtes et tous ces feux d'artifice commencent à devenir
    insipides..." [6.  Vi confesso che tutte queste feste e  tutti  questi
    fuochi d'artificio cominciano a diventare noiosi].
    -  Se si fosse saputo che voi lo desideravate,  la festa sarebbe stata
    rinviata  -  disse il principe che per abitudine, come un orologio cui
    si sia data la carica,  ripeteva cose alle quali neppur lui pretendeva
    che si credesse.
    -  "Ne me tourmentez pas.  Eh bien,  qu'a-t-on décidé par rapport à la
    dépêche de Novosilzòv? Vous savez tout" [Non tormentatemi! Dunque, che
    cosa è stato deciso a proposito del dispaccio a Novosilzòv? Voi sapete
    tutto] (7).
    - Che posso dirvi?   -  rispose il principe in tono freddo e  seccato.
    -    "Qu'a-t-on  décidé?  On  a  décidé  que  Buonaparte  a  brûlé ses
    vaisseaux,  et je crois que nous sommes en train de brûler les nôtres"
    [8. Cosa si è deciso? Si è deciso che Buonaparte ha saltato il fosso e
    io credo che noi siamo in procinto di fare altrettanto].
    Il  principe  Vassilij  parlava sempre pigramente,  come un attore che
    reciti in una vecchia commedia.  Anna Pàvlovna Scerer,  al  contrario,
    nonostante i suoi quarant'anni, era vivace, piena di brio, entusiasta.
    L'essere entusiasta era divenuta la sua condizione consueta e talvolta
    si  dimostrava tale,  pur non volendolo,  per non deludere l'attesa di
    coloro  che  la  conoscevano.  Il  sorriso  contenuto,   che  sfiorava
    continuamente  il  viso di Anna Pàvlovna,  sebbene non si addicesse ai
    suoi lineamenti avvizziti,  esprimeva,  come nei bambini  viziati,  la
    coscienza del proprio grazioso difetto del quale ella non voleva,  non
    poteva e  non  riteneva  necessario  correggersi.  Nel  corso  di  una
    conversazione di argomento politico, Anna Pàvlovna si accalorava.
    - Ah,  non parlatemi dell'Austria! Può darsi che io non capisca nulla,
    ma l'Austria non ha mai voluto e non vuole la guerra! Essa ci tradisce
    (9).  E'  solo  la  Russia  che  deve  salvare  l'Europa.   Il  nostro
    benefattore  ne conosce l'alto destino e le sarà fedele.  Ecco la sola
    cosa in cui io abbia fede.  Al  nostro  buono,  ammirevole  imperatore
    spetta il più alto compito che esista al mondo ed egli è così virtuoso
    e  buono che Iddio non lo abbandonerà e lo aiuterà ad assolvere il suo
    compito,  a schiacciare l'idra della ribellione che è oggi più che mai
    terribile  nella persona di quell'assassino,  di quel malfattore!  Noi
    soli dobbiamo riscattare il sangue del giusto. Ditemi: su chi possiamo
    sperare? L'Inghilterra, con la sua mentalità commerciale,  non sarà in
    grado  di capire la grandezza d'animo dell'imperatore Alessandro (10).
    Essa ha rifiutato di evacuare Malta (11).  Vuole vedere e  trovare  il
    motivo  segreto  del  nostro  modo  di  agire.   Che  hanno  detto  di
    Novosilzòv? Niente. Non hanno capito, non possono capire il sacrificio
    del nostro imperatore che nulla vuole per sé, ma tutto per il bene del
    mondo. E che cosa hanno promesso?  Niente.  Ciò che hanno promesso non
    avverrà.  La  Prussia ha già dichiarato che Buonaparte è invincibile e
    che tutta l'Europa non può far nulla contro di lui...  E io non  credo
    neppure a una parola di Hardenberg...  (12). "Cette fameuse neutralité
    prussienne, ce n'est qu'un piège!" [13. La famosa neutralità prussiana
    non è altro che una trappola].  Io credo soltanto in Dio  e  nell'alto
    destino del nostro amato imperatore. Egli salverà l'Europa!
    E a un tratto Anna Pàvlovna si interruppe, con un sorriso canzonatorio
    per il proprio ardore.
    -  Io  penso    -   disse il principe sorridendo  -  che,  se avessero
    mandato  voi  invece  del  nostro  caro  Wintzingerode  (14),  avreste
    ottenuto  facilmente  il  consenso  del  re  di  Prussia.  Siete  così
    eloquente! Mi offrite una tazza di tè?
    - Subito. "A propos",  -  aggiunse Anna Pàvlovna,  calmandosi di nuovo
    -  questa sera verranno qui due uomini molto interessanti: "le vicomte
    de Mortemart,  il est allié aux Montmorency par les Rohans", una delle
    migliori famiglie francesi: un emigrato di  quelli  buoni,  di  quelli
    degni  di  questo  nome...   e  poi  "l'abbé  Morio"  (15).  Conoscete
    quest'uomo  dall'intelligenza  tanto  profonda?   E'  stato   ricevuto
    dall'imperatore. Lo sapevate?
    -  Ah!  Ne  sarò  felicissimo  -  rispose il principe.   -  Ditemi,  -
    soggiunse negligentemente,  come se si  ricordasse  all'improvviso  di
    qualche  cosa  poco  importante,  mentre quello che stava per chiedere
    costituiva lo scopo essenziale della  sua  visita    -    è  vero  che
    "l'impératrice-mère"  desidera  la  nomina del barone Funke come primo
    segretario a Vienna?  A quanto pare,  quel barone è un uomo da poco...
    -    Il  principe  Vassilij voleva far ottenere al figlio proprio quel
    posto  che,   con  l'intercessione   dell'imperatrice   madre   Màrija
    Fëdorovna,  si  voleva dare al barone.  Anna Pàvlovna chiuse quasi gli
    occhi per significare che né lei,  né alcun altro poteva giudicare ciò
    che piaceva all'imperatrice.
    -  Il  barone  Funke è stato raccomandato all'imperatrice madre da sua
    sorella  -  si limitò a dire in tono triste e asciutto.
    Quando Anna Pàvlovna nominò l'imperatrice madre,  il suo volto assunse
    di  colpo  quell'espressione  di profonda,  sincera devozione e stima,
    mista a dolore,  che assumeva  ogniqualvolta  nella  conversazione  le
    accadeva di accennare alla sua altissima protettrice. Aggiunse che Sua
    Maestà  aveva voluto dimostrare al barone Funke molta stima,  e il suo
    sguardo tornò a velarsi di tristezza.
    Il principe tacque con aria indifferente. Anna Pàvlovna, con l'abilità
    che le era propria come donna di società e dama di Corte, e con grande
    rapidità di tatto, volle punire il principe per aver osato parlare con
    quel tono di una persona raccomandata dall'imperatrice e nello  stesso
    tempo per consolarlo...
    -  "Mais  à propos de votre famille",   -  disse  -  sapete che vostra
    figlia,  da quando ha fatto il suo  ingresso  in  società,  "fait  les
    délices de tout le monde?  On la trouve belle comme le jour" [16. Ma a
    proposito della vostra famiglia (...).  sapete  che  vostra  figlia  è
    l'ammirazione di rutti? Tutti la giudicano bella come il giorno].
    Il principe s'inchinò in segno di rispetto e di gratitudine.
    - Io penso spesso,   -  proseguì Anna Pàvlovna dopo un breve silenzio,
    avvicinandosi al principe e  sorridendogli  affettuosamente  come  per
    dimostrargli  che la conversazione politica e mondana era finita e che
    ora cominciava quella intima -    io  penso  spesso  che  a  volte  la
    felicità  della vita è ingiustamente suddivisa tra gli uomini.  Perché
    la sorte vi ha dato due figli così simpatici?  Non parlo di  Anatolij,
    l'ultimo nato, che non mi piace affatto!  -  soggiunse in tono deciso,
    sollevando le sopracciglia.   -  Due figli così affascinanti? E voi, a
    dire il vero,  li apprezzate meno di  tutti,  perché  valete  meno  di
    loro...
    E sorrise del suo entusiasta sorriso.
    - "Que voulez-vous?  Lavater aurait dit que je n'ai pas la bosse de la
    paternité" [Che volete?  Lavater  avrebbe  detto  che  io  non  ho  il
    bernoccolo della paternità] (17)  -  rispose il principe.
    - Smettetela di scherzare. Vorrei parlarvi seriamente. Sapete che sono
    molto scontenta del vostro figliolo minore? Detto tra di noi,  -  e il
    suo  viso  assunse  una  espressione triste  -  si è parlato di lui in
    presenza di Sua Maestà, e voi siete stato compianto...
    Il principe non rispose,  ma Anna Pàvlovna,  in silenzio,  lo guardava
    con  aria  significativa,  in  attesa  di  una  risposta.  Il principe
    Vassilij aggrottò il viso.
    -  Che posso farci?   -  disse finalmente.   -   Voi  sapete  che  per
    l'educazione  dei  miei figliuoli tutto ciò che può fare un padre l'ho
    fatto, e il risultato è che tutti e due sono imbecilli. Ippolìt almeno
    è un imbecille tranquillo, mentre Anatolij è un imbecille irrequieto e
    turbolento.  Ecco la sola differenza tra  i  due!    -    concluse  il
    principe  con  un  sorriso  più  innaturale  e più animato del solito,
    mettendo in evidenza,  nelle rughe che gli si disegnavano attorno alla
    bocca, qualcosa di inaspettatamente volgare e spiacevole.
    -  E perché uomini come voi hanno dei figli?  Se non foste padre,  non
    potrei rimproverarvi  nulla    -    disse  Anna  Pàvlovna,  sollevando
    pensosamente gli occhi.
    -  "Je  suis vôtre "verneyj rab" et à vous seule je puis l'avouer: mes
    fils ce sont les entraves de mon existence". Sono la mia croce.  Ve lo
    dico  francamente.  "Que voulez-vous?" [18.  Io sono il vostro schiavo
    fedele e voi soltanto posso dirlo: i miei figli sono le pastoie  della
    mia esistenza. (...) Che ci volete fare?]. E tacque, esprimendo con un
    gesto la sua sottomissione al destino crudele.
    Anna Pàvlovna rimase soprappensiero.
    -  Non  avete  mai  pensato  a  dar  moglie al vostro figliuol prodigo
    Anatolij?  Si dice  -  aggiunse  -  che le vecchie  zitelle  hanno  la
    mania di combinare matrimoni. Io ancora non sento questa debolezza, ma
    una  "petite  personne"  che è molto infelice con suo padre...  E' una
    nostra parente, una principessa Bolkònskaja...
    Il principe Vassilij non rispose,  ma,  con la rapidità di pensiero  e
    della  memoria  propria delle persone di mondo,  dimostrò con un gesto
    del capo di prendere in considerazione quella notizia.
    - Sapete che  Anatolij  mi  costa  quarantamila  rubli  all'anno?    -
    esclamò,  incapace,  evidentemente,  di  frenare  il  corso  dei  suoi
    pensieri. E tacque.  -  Che avverrà tra cinque anni,  -  riprese-se le
    cose continueranno così?  "Voilà l'avantage d'être père" [19.  Ecco  i
    vantaggi di essere padre]. E' ricca la vostra principessina?
    - Il padre è ricchissimo e molto avaro.  Vive in campagna. Sapete... è
    il  famoso  principe  Bolkonskij,   revocato  al  tempo  del   defunto
    imperatore   e   soprannominato  "il  re  di  Prussia".   E'  un  uomo
    intelligentissimo,  ma originale e bizzarro.  "La  pauvre  petite  est
    malheureuse   comme   les   pierres"   [20.   La  povera  fanciulla  è
    infelicissima]. Ha un fratello che ha sposato da poco Lise Meinen,  ed
    è aiutante di campo di Kutuzòv (21). Questa sera verrà qui.
    -  "Ecoutez,  chère  Annette"   -  disse il principe,  afferrando a un
    tratto la mano della sua interlocutrice e piegandola,  chissà  perché,
    verso  il  basso.    -  "Arrangez-moi cette affaire,  et je suis vôtre
    "verneisij rab" à tout jamais" [22.  Mia cara Annetta,  conducetemi in
    porto  questa  faccenda,  ed  io sarò per sempre il vostro fedelissimo
    schiavo] ("rap",  come scrive il mio amministratore quando mi manda  i
    suoi  rapporti).  La  ragazza  è  di buona famiglia e ricca.  E' tutto
    quello che mi occorre.
    E con quei gesti disinvolti, familiari e gentili che gli erano propri,
    il principe prese di nuovo la mano della  damigella  d'onore  e,  dopo
    averla baciata con trasporto,  si abbandonò su una poltrona e volse lo
    sguardo da un'altra parte.
    - Aspettate!   -  disse Anna Pàvlovna,  riflettendo.   -  Oggi  stesso
    parlerò a Lise,  la moglie del giovane Bolkonskij,  e può darsi che la
    cosa vada in porto.  "Ce sera dans vôtre  famille  que  je  ferai  mon
    apprentissage  de  vieille fille" [23.  Sarà nella vostra famiglia che
    farò il mio tirocinio di vecchia zitella].


    CAPITOLO 2.

    Il salotto di Anna Pàvlovna cominciava,  a poco a poco,  ad affollarsi
    di  gente appartenente all'alta società di Pietroburgo: si trattava di
    persone diversissime per età e per carattere,  ma che frequentavano  e
    vivevano nel medesimo ambiente. Era giunta tra gli altri la figlia del
    principe  Vassilij,  la bellissima Elen venuta a prendere il padre per
    andare con lui alla festa dell'ambasciatore.  Indossava  un  abito  da
    ballo  con  il  distintivo  delle  damigelle d'onore dell'imperatrice.
    C'era anche la giovane principessa  Bolkònskaja,  considerata  la  più
    seducente  donna di Pietroburgo,  sposatasi l'inverno precedente e che
    ora, essendo incinta, non poteva frequentare i grandi ricevimenti,  ma
    si  limitava  ad  apparire  alle  serate più semplici.  C'era Ippolìt,
    figlio del principe Vassilij,  con Mortemart che egli presentava  agli
    invitati; e c'erano, infine, l'abate Morio e parecchie altre persone.
    - Non avete ancora visto oppure non conoscete mia zia?  -  diceva Anna
    Pàvlovna  agli  invitati  che  sopraggiungevano e con molta serietà li
    accompagnava davanti a una vecchietta  tutta  infiocchettata  che  era
    entrata  in  salotto  non  appena erano arrivati i primi ospiti.  Anna
    Pàvlovna   li   nominava   lentamente   a   uno   a   uno,   guardando
    alternativamente  loro  e  lei.  Poi si allontanava.  Tutti gli ospiti
    facevano gl'inchini d'uso a quella vecchia zia che nessuno  conosceva,
    di  cui  nessuno  s'interessava  e di cui nessuno aveva bisogno.  Anna
    Pàvlovna, con espressione solenne e triste insieme, pareva tacitamente
    approvare. La vecchia, sempre con la stessa espressione,  dava a tutti
    notizie della propria salute e di quella di Sua Maestà che ora, grazie
    a Dio,  andava migliorando...  Tutti coloro che le si avvicinavano non
    dimostravano  -  per convenienza  -  alcuna  fretta  di  allontanarsi,
    con  la  coscienza  di compiere un penoso dovere,  ma con l'intenzione
    decisa di non accostarsi più alla vecchia per tutta la serata.
    La giovane principessa Bolkònskaja aveva portato il suo lavoro in  una
    borsetta  di  velluto  ricamato in oro.  Il suo labbro superiore,  ben
    disegnato e con una lievissima peluria scura,  era  un  po'  breve  in
    rapporto  ai denti,  ma si apriva in modo molto leggiadro e con grazia
    si allungava verso quello inferiore.  Come sempre accade  nelle  donne
    seducenti, quel difetto  -  labbro corto e bocca semiaperta  -  pareva
    la sua bellezza particolare,  propria a lei.  Era un piacere per tutti
    guardare quella futura mamma,  piena di  salute  e  di  vivacità,  che
    sopportava  con  tanta  disinvoltura  la  sua  condizione.   Si  aveva
    l'impressione che i  vecchi  e  i  giovani,  dall'aria  imbronciata  e
    annoiata,  diventassero  come lei,  quando erano in sua compagnia e le
    parlavano per qualche  minuto.  Chi  discorreva  con  quella  donna  e
    scorgeva  ad ogni parola i denti candidi e scintillanti che apparivano
    continuamente  nel   radioso   sorriso,   si   sentiva   quel   giorno
    particolarmente  amabile  e  cortese.   E  ognuno  provava  la  stessa
    impressione.
    La giovane principessa, dondolandosi leggermente, fece a piccoli passi
    il giro della tavola,  tenendo  in  mano  la  borsetta  da  lavoro  e,
    accomodandosi  con  grazia  il  vestito,  andò  a  sedersi sul divano,
    accanto  al  "samovàr"  d'argento,   come  se  tutto  ciò  che  faceva
    costituisse  un  divertimento  per  lei  e  per  tutti  coloro  che la
    circondavano.
    - "J'ai apporté mon  ouvrage"    -    disse,  aprendo  la  borsetta  e
    rivolgendosi a tutti.  -  Badate, Annette, "ne me jouez pas un mauvais
    tour"  -  si rivolse alla padrona di casa;   -  "vous m'avez écrit que
    c'était une toute petite soirée: voyez comme je suis attifée..."  [24.
    Ho  portato il mio lavoro.  (...) Badate,  Annette,  non vorrei che mi
    aveste giocato un brutto scherzo;  mi avete scritto che si trattava di
    una piccola serata intima: guardate come sono vestita...].
    E tese le braccia per far vedere la veste grigia,  elegante, ornata di
    merletti, cinta, un po' sotto il petto, da un altro nastro.
    - "Soyez tranquille,  Lise,  vous serez toujours la plus jolie"   [25.
    State tranquilla,  Lise,  voi sarete sempre la più carina]  le rispose
    Anna Pàvlovna.
    - "Vous savez,  mon mari m'abandonne"  -  riprese lei  con  lo  stesso
    tono,  rivolgendosi al generale;   -  "il va se faire tuer.  Dites-moi
    pourquoi  cette  vilaine  guerre?"  [26.   Sapete?   Mio   marito   mi
    abbandona... si farà uccidere! Ditemi, perché questa orribile guerra?]
    -    continuò,  parlando  al  principe  Vassilij  e,  senza  attendere
    risposta, si rivolse alla figliuola di lui, alla bella Elen.
    - "Quelle délicieuse personne que cette petite  princesse!"  [27.  Che
    incantevole  creatura,  questa  piccola  principessa]    -    disse il
    principe Vassilij sottovoce ad Anna Pàvlovna.
    Poco dopo la giovane principessa, entrò un giovanotto grande e grosso,
    con la testa rapata, gli occhiali, un paio di pantaloni chiari secondo
    l'ultima moda e una marsina color  marrone.  Quel  giovanotto  era  il
    figlio  naturale di un gran signore,  molto noto dei tempi di Caterina
    (28),  il conte Bezuchov,  che stava morendo a Mosca.  Egli non  aveva
    ancora  prestato  servizio,  era  appena giunto dall'estero dove aveva
    compiuto gli studi e faceva la sua prima  comparsa  in  società.  Anna
    Pàvlovna  lo accolse con un saluto particolare,  riservato agli uomini
    che nel suo salotto rappresentavano il più basso grado gerarchico. Ma,
    nonostante quel saluto,  sul volto di Anna  Pàvlovna,  nello  scorgere
    Pierre che entrava, apparve un'espressione di inquietudine e di timore
    come  alla  vista  di  qualcosa di troppo grande,  che non si trovi al
    proprio posto. Sebbene,  realmente,  Pierre fosse alquanto più alto di
    tutti  i  signori presenti,  quel senso di timore si riferiva soltanto
    allo  sguardo  intelligente  e  insieme  timido  e  sincero   che   lo
    distingueva dagli altri invitati.
    -  "C'est bien aimable à vous,  monsieur Pierre,  d'être venu voir une
    pauvre malade [29.  E' molto gentile da parte vostra,  signor  Pierre,
    essere  venuto  a  trovare  una  povera  ammalata]   -  gli disse Anna
    Pàvlovna,  lanciando uno sguardo timoroso alla zia,  verso la quale lo
    stava conducendo. Pierre mormorò una parola incomprensibile e continuò
    a  cercare  qualcuno  con  gli occhi.  Sorrise lievemente,  con gioia,
    salutando la giovane principessa come una  conoscenza  e  si  avvicinò
    alla  zia.  La  paura di Anna Pàvlovna non era fuor di luogo,  giacché
    Pierre,  senza ascoltare sino in fondo le informazioni  della  vecchia
    circa  la  salute  di Sua Maestà,  fece per allontanarsi da lei.  Anna
    Pàvlovna, quasi sgomenta, lo trattenne con queste parole:
    - Non conoscete l'abate Morio? E' una persona molto interessante...  -
    disse.
    - Sì,  ho sentito parlare dei suoi progetti di  pace  eterna,  il  che
    sarebbe molto interessante... Ma è possibile?
    - Non credete?  -  chiese Anna Pàvlovna, tanto per dire qualcosa e per
    affrettarsi a ritornare ai suoi doveri di padrona di casa.  Ma Pierre,
    commettendo una scortesia,  senza attendere che ella avesse finito  di
    parlare,   si   era   già   allontanato;   poi   volle  riprendere  la
    conversazione, mentre Anna Pàvlovna doveva occuparsi di altre persone.
    A testa bassa e con le lunghe  gambe  divaricate,  egli  cominciava  a
    dimostrare  ad  Anna  Pàvlovna  perché,   secondo  lui,   il  progetto
    dell'abate fosse una utopia.
    - Ne parleremo dopo  -  disse Anna Pàvlovna, sorridendo.
    E,  allontanatasi dal giovanotto che non  conosceva  le  regole  della
    buona  società,  ritornò alla propria occupazione di padrona di casa e
    continuò ad ascoltare e a osservare, pronta a portare aiuto là dove la
    conversazione accennava a languire.  Come un abile capo  di  fabbrica,
    dopo  aver  sistemato  al  loro  posto  gli  operai,  nota,  passando,
    l'immobilità o l'insolito suono scricchiolante e  troppo  rumoroso  di
    una  macchina e si affretta a fermarla o a darle la spinta necessaria,
    così Anna Pàvlovna,  movendosi per il suo salotto,  si avvicinava a un
    gruppo  che  taceva o a un altro che parlava troppo e con una parola o
    con uno spostamento di persone riportava  alla  dovuta  regolarità  la
    macchina della conversazione.  Ma si vedeva che, pur tutta presa dalle
    sue occupazioni, ella temeva qualcosa da parte di Pierre.  Lo guardava
    preoccupata  quando  egli  si avvicinava,  ascoltava ciò che si diceva
    attorno a Mortemart e poi si dirigeva verso un altro gruppo nel  quale
    parlava  l'abate.  Per Pierre,  educato all'estero,  il ricevimento in
    casa di Anna Pàvlovna era il primo al quale prendeva parte in  Russia.
    Sapeva  che  in quel salotto erano riunite le persone più elette della
    città,  e i suoi occhi,  come quelli di un  bimbo  in  un  negozio  di
    balocchi,  non  sapevano  più  dove  guardare.  Temeva  di perdere una
    conversazione intelligente che avrebbe potuto ascoltare; osservando le
    espressioni tranquille ed  eleganti  delle  persone  riunite  in  quel
    salotto,   egli   aspettava   continuamente   di   udire  qualcosa  di
    particolarmente  interessante.   Infine  si  avvicinò  a   Morio.   La
    conversazione del gruppo gli parve attraente e si fermò, in attesa del
    momento opportuno per esprimere le proprie opinioni,  come, in genere,
    desiderano fare i giovani


    CAPITOLO 3.

    La serata di Anna Pàvlovna  procedeva  bene.  Le  conversazioni,  come
    macchine di un'officina, funzionavano regolarmente da tutte le parti e
    facevano un rumore ininterrotto.  Oltre alla vecchia zia, accanto alla
    quale sedeva ora una signora anziana, dal viso avvizzito e scarno,  un
    po'  fuori  posto in quella brillante riunione,  gli invitati si erano
    divisi in tre gruppi.  Di uno,  costituito prevalentemente di  uomini,
    l'abate era il centro;  nel secondo, giovanile, primeggiavano la bella
    Elen, figlia del principe Vassilij, e la graziosa, fresca,  sebbene un
    po'  grassoccia  per  la  sua età,  principessa Bolkònskaja;  il terzo
    gruppo attorniava il visconte Mortemart e Anna Pàvlovna.
    Il  visconte  era  un  giovane  ammodo,  dai  lineamenti  e  dal  fare
    simpatico,  che si riteneva, evidentemente, una celebrità ma che, data
    la buona educazione ricevuta,  modestamente permetteva alla  compagnia
    della quale faceva parte di approfittare di lui. Era facile capire che
    Anna Pàvlovna lo "offriva" ai suoi ospiti.  Come un abile "chef" serve
    come un piatto fine e fuori del comune quello stesso  pezzo  di  carne
    che  nessuno mangerebbe se lo avesse visto nella sudicia cucina,  così
    durante  il  ricevimento,  Anna  Pàvlovna  "serviva"  ai  suoi  ospiti
    dapprima  il  visconte  e poi l'abate come qualcosa di eccezionalmente
    raffinato. Nel gruppo di Mortemart si parlava dell'assassinio del duca
    d'Enghien (30).  Il visconte asseriva che il duca d'Enghien era  morto
    per  la  sua  magnanimità  e  che lo sdegno di Napoleone contro di lui
    aveva avuto origine da motivi particolari.
    - Ah,  sentiamo,  sentiamo!  Raccontate,  visconte!   -  esclamò  Anna
    Pàvlovna,  avvertendo  con  gioia che quella frase richiamava qualcosa
    alla Luigi Quindicesimo (31)  -  Raccontate!
    Il visconte s'inchinò in segno di obbedienza e  sorrise  cortesemente.
    Anna  Pàvlovna  fece  fare  circolo  attorno  a  lui e invitò tutti ad
    ascoltare il racconto.
    - "Le vicomte a personnellement connu le monseigneur"    -    sussurrò
    Anna Pàvlovna a uno.  -  "Le vicomte est un parfait conteur"  -  disse
    a un altro.  -  "Comme on voit l'homme de la bonne compagnie!" [32. Il
    visconte  ha  conosciuto  personalmente  il  duca...  Il visconte è un
    narratore perfetto...  Come si vede che appartiene all'alta  società!]
    -  aggiunse, rivolta a un terzo.
    Il  visconte  veniva  così  presentato agli ospiti sotto l'aspetto più
    elegante e attraente,  come un "roast-beef" su un  piatto  ben  caldo,
    contornato da verdi foglie di insalata.  Il visconte era pronto a dare
    inizio al suo racconto e sorrideva.
    - Venite qui,  "chère Hélène"  -    disse  Anna  Pàvlovna  alla  bella
    principessa  che,  seduta un po' distante,  costituiva il centro di un
    altro gruppo.
    La principessa Elen  sorrideva.  Si  alzò  con  lo  stesso  immutabile
    sorriso  di  donna perfettamente bella che aveva quando era entrata in
    salotto.  Facendo frusciare leggermente il suo bianco abito  da  ballo
    guernito  di "péluche" ed abbagliando con il candore delle spalle,  lo
    splendore dei capelli e dei brillanti, ella passò in mezzo agli uomini
    che le fecero largo,  senza guardare nessuno ma  sorridendo  a  tutti;
    come  se  concedesse a ciascuno il diritto di ammirare la bellezza del
    suo corpo,  delle spalle rotonde molto scoperte,  secondo la moda  del
    momento,  della  schiena  e  del  petto,  e come se portasse con sé lo
    splendore fastoso di una festa da ballo, si avvicinò ad Anna Pàvlovna.
    Era così bella che non solo non aveva ombra di civetteria,  ma pareva,
    anzi,  vergognarsi  di  quella  bellezza indiscutibile,  che agiva con
    troppa forza vittoriosa.  Pareva  che  desiderasse,  ma  non  potesse,
    diminuire l'effetto del proprio fascino.
    - Che bella creatura!  -  dicevano tutti coloro che la vedevano.
    Come  colpito  alla  vista  di  qualcosa  di insolito,  il visconte si
    strinse nelle spalle  e  abbassò  gli  occhi  mentre  ella,  sedendosi
    davanti a lui, lo illuminava con il suo immutabile sorriso.
    - "Madame,  je crains pour mes moyens devant un pareil auditoire" [33.
    Signora,  temo che i miei mezzi non siano adatti a un simile uditorio]
    -  disse egli con un sorriso e chinando il capo.
    La  principessa appoggiò il suo braccio nudo e grassoccio sul tavolino
    e non trovò necessario dire neppure una parola.  Aspettava sorridendo.
    Durante  tutto  il  racconto,  ella  rimase seduta con il busto eretto
    guardando  a  lunghi  intervalli  ora  il  suo  bel  braccio   rotondo
    appoggiato  leggermente  sul  tavolino,  ora  il suo petto,  anche più
    bello,  sul quale accomodava la collana di  brillanti,  lisciò  alcune
    volte  le  pieghe dell'abito e quando la narrazione produceva un certo
    effetto guardava  Anna  Pàvlovna;  il  suo  viso  assumeva  la  stessa
    espressione  di  quello  della  damigella  d'onore,   ma  subito  dopo
    riprendeva il  suo  radioso  sorriso.  Dopo  Elen,  anche  la  giovane
    principessa si allontanò dalla tavola da tè.
    -  "Attendez-moi,  je  vais  prendre  mon  ouvrage"  -  diss'ella.   -
    "Voyons,  à quoi pensez-vous?"  -  si  rivolse  al  principe  Ippolìt.
    "Apportez-moi mon ridicule" [34.  Aspettatemi,  vado a prendere il mio
    lavoro... Suvvia, a che pensate? Portatemi la borsetta].
    La principessa,  sorridendo e parlando con tutti,  si  mise  a  sedere
    comodamente e in tono allegro esclamò:
    - Ora sto bene.  -  Poi, pregando di incominciare, si mise a lavorare.
    Il  principe  Ippolìt  le  portò  la  borsetta  e  rimase  nel gruppo.
    Avvicinatosi alla poltrona di lei, le si sedette vicino.
    "Le charmant" Ippolìt colpiva per la straordinaria rassomiglianza  con
    la   bellissima   Elen  e  ancora  di  più  perché,   malgrado  questa
    somiglianza,  egli era straordinariamente brutto.  I  suoi  lineamenti
    erano come quelli della sorella,  ma in lei tutto era illuminato dalla
    gioia di vivere, dalla giovinezza, dall'immutabile sorriso e dalla non
    comune, scultorea perfezione del corpo; nel fratello, al contrario, lo
    stesso  viso,   offuscato  dall'idiozia,   esprimeva  una  presuntuosa
    incontentabilità,  e il corpo era magro e striminzito.  Gli occhi,  il
    naso, la bocca sembravano contratti da una eterna smorfia di tedio,  e
    le braccia e le gambe assumevano sempre una posizione innaturale.
    - "Ce n'est pas une histoire de revenants?  [35. Non è mica una storia
    di fantasmi?]  -  chiese egli,  sedendosi accanto alla  principessa  e
    affrettandosi  a  mettere  davanti  agli  occhi l'occhialetto come se,
    senza quell'arnese, non potesse parlare.
    - "Mais non, mon cher" [36. Ma no,  mio caro]  -  rispose il narratore
    stupito, alzando le spalle.
    -  "C'est que je déteste les histoires des revenants" [37.  Giacché io
    detesto le storie di fantasmi.]  -  replicò il principe  Ippolìt,  con
    un  tono dal quale si capiva che egli diceva parole di cui comprendeva
    il significato soltanto dopo averle pronunziate.
    Dal modo presuntuoso con cui parlava, nessuno riusciva a capire se ciò
    che egli diceva fosse molto spiritoso o molto stupido.  Indossava  una
    marsina  verde  cupo,  un  paio  di  calzoni  color  "cuisse de nymphe
    effrayée" [38.  Coscia di ninfa spaventata],  come diceva egli stesso,
    calze di seta e scarpette con fibbie.
    Il visconte raccontava in modo molto garbato l'aneddoto allora in voga
    del  duca d'Enghien che,  recatosi una volta segretamente a Parigi per
    un appuntamento con  l'attrice  George  (39),  si  era  imbattuto  con
    Bonaparte,  che  godeva  anch'egli  dei  favori della celebre attrice.
    Quell'incontro aveva causato a Napoleone uno  di  quegli  accessi  cui
    andava soggetto, e per cui si era trovato alla mercé del duca. Questi,
    però,  non ne aveva approfittato,  ma più tardi Bonaparte, proprio per
    quella magnanimità, si era vendicato facendolo uccidere.
    Il  racconto  era  molto  interessante,   specialmente   nel   momento
    dell'incontro  fra i due rivali,  e a quel punto le signore mostrarono
    una certa commozione.
    - Molto  bello!    -    disse  Anna  Pàvlovna,  guardando  con  occhio
    interrogativo la giovane principessa.
    -  Molto bello  -  ripeté questa a voce bassa,  puntando l'ago nel suo
    ricamo,  quasi volesse far capire così che la bellezza  e  l'interesse
    del racconto le impedivano di continuare a lavorare.
    Il visconte apprezzò quella muta lode e,  ringraziando con un sorriso,
    si affrettò a proseguire;  ma  in  quel  momento  Anna  Pàvlovna,  che
    guardava continuamente il giovanotto per lei terribile,  notò che egli
    parlava con l'abate in tono  troppo  alto  e  con  troppa  foga  e  si
    affrettò  allora  a  portare  aiuto  nel luogo pericoloso...  Infatti,
    Pierre  era  riuscito  a  intrecciare  con  l'abate  una   discussione
    sull'equilibrio politico,  e l'abate, che evidentemente si interessava
    all'ingenuo ardore  del  giovanotto,  gli  stava  sviluppando  la  sua
    prediletta idea. Entrambi ascoltavano e parlavano con troppa vivacità,
    e questo non andava a genio ad Anna Pàvlovna.
    -  I  mezzi  sono  l'equilibrio  europeo  e  il diritto delle genti  -
    diceva l'abate.  -  Spetta a uno stato potente come la Russia,  famosa
    per la sua barbarie,  mettersi disinteressatamente a capo di un'unione
    che abbia per scopo l'equilibrio dell'Europa: essa salverà il mondo.
    - Come otterrete un tale equilibrio?  -  prese a dire Pierre.
    Ma in quel momento si avvicinò Anna Pàvlovna e,  gettato  uno  sguardo
    severo  a Pierre,  chiese all'abate italiano come sopportasse il clima
    di  Pietroburgo.   Il  viso  dell'abate  mutò  di  colpo   e   assunse
    l'espressione falsamente offesa ma affabile, che gli era evidentemente
    abituale quando parlava con le donne.
    -  Sono talmente incantato e affascinato dallo spirito e dalla cultura
    di questa società,  e soprattutto di quella femminile,  nella quale ho
    avuto la fortuna di essere accolto,  che non ho davvero avuto il tempo
    di pensare al clima.
    Senza più abbandonare l'abate e Pierre,  Anna Pàvlovna li fece riunire
    al  gruppo  comune  per  avere agio di osservarli meglio.  Intanto nel
    salotto fece il suo ingresso un altro  personaggio.  Si  trattava  del
    giovane principe Andréj Bolkonskij,  marito della giovane principessa.
    Il principe Bolkonskij era un bellissimo giovane di media statura, dai
    lineamenti nitidi e marcati.  Tutta  la  sua  persona,  dallo  sguardo
    stanco  e  annoiato  sino  all'andatura  lenta  e  uguale,  offriva un
    notevole contrasto con quello della sua giovane,  vivacissima  moglie.
    Egli  evidentemente  non  solo conosceva tutte le persone che erano in
    salotto,  ma esse lo avevano già annoiato a tal punto  che  non  aveva
    nessuna  voglia  di  guardarle e di ascoltarle.  E tra tutti quei visi
    pareva che quello che lo infastidisse di più  fosse  proprio  il  viso
    della  sua  graziosa moglie.  Con una smorfia che gli imbruttiva i bei
    lineamenti,  egli volse altrove lo sguardo.  Baciò  la  mano  ad  Anna
    Pàvlovna e, socchiudendo gli occhi, osservò gli invitati.
    - "Vous vous enrôlez pour la guerre,  mon prince?" [40. Vi arruolerete
    per la guerra, principe?]  -  gli chiese Anna Pàvlovna.
    - Il generale Kutuzòv    -    rispose  Bolkonskij,  accentuando,  alla
    francese,  l'ultima  sillaba    -    mi ha voluto come suo aiutante di
    campo...
    - E Lise, vostra moglie?
    - Andrà in campagna.
    - Non considerate da parte vostra un peccato il privarci della  vostra
    incantevole moglie?
    -  "André",   -  disse la giovane principessa,  rivolgendosi al marito
    con lo stesso tono civettuolo con  il  quale  soleva  rivolgersi  agli
    estranei    -    se tu sapessi che cosa ci ha raccontato il visconte a
    proposito di "mademoiselle" George e di Bonaparte!
    Il principe Andréj socchiuse gli occhi e si  voltò  dall'altra  parte.
    Pierre,  che  dal  momento  in  cui  il principe Andréj era entrato in
    salotto non aveva più  distolto  da  lui  il  suo  sguardo  gioioso  e
    cordiale,  gli si avvicinò e gli prese il braccio.  Il principe, senza
    voltarsi,  atteggiò il viso a una smorfia che  esprimeva  il  dispetto
    verso chi lo toccava ma,  quando scorse il volto sorridente di Pierre,
    sorrise anch'egli di un sorriso inaspettato, buono e simpatico.
    - Ma guarda un po'! Anche tu nel gran mondo!  -  disse a Pierre.
    - Sapevo che vi avrei trovato  -  rispose Pierre.   -  Verrò a cena da
    voi    -    aggiunse  a  voce bassa per non disturbare il visconte che
    continuava il suo racconto.  -  Posso?
    - No,  impossibile!   -  rispose il principe Andréj ridendo,  con  una
    stretta  di  mano  che fece capire a Pierre che non era una domanda da
    farsi.
    Avrebbe voluto dirgli ancora qualcosa,  ma in quel momento il principe
    Vassilij  si  alzò  con  la figlia,  e i due giovani si scostarono per
    farli passare.
    - Mi scuserete,  mio caro visconte  -  disse il principe  Vassilij  al
    francese,  premendo  piano il braccio di lui per impedirgli di alzarsi
    dalla sedia.   -  Quella benedetta festa in casa dell'ambasciatore  mi
    priva di un piacere e mi obbliga ad interrompervi.  Mi rincresce molto
    abbandonare la  vostra  piacevolissima  serata    -    disse  ad  Anna
    Pàvlovna.
    Sua  figlia,   la  principessa  Elen,   sollevando  appena  le  pieghe
    dell'abito, passò tra le sedie, e un sorriso più luminoso rischiarò il
    suo bel volto.  Quando fu davanti a  Pierre,  egli  guardò  con  occhi
    estatici e quasi sgomenti la splendida fanciulla.
    - E' molto bella!  -  osservò il principe Andréj.
    - Molto!  -  ripeté Pierre.
    Passando davanti a loro, il principe Vassilij strinse la mano a Pierre
    e, rivolto ad Anna Pàvlovna, disse:
    -  Domatemi  quest'orso: è un mese che vive in casa mia ed è questa la
    prima volta che lo vedo in società. Nulla è necessario a un giovanotto
    quanto la compagnia di donne intelligenti!


    CAPITOLO 4.

    Anna Pàvlovna,  sorridendo,  promise di occuparsi di Pierre che,  come
    sapeva,  era  parente,  per  parte  di  padre,  del principe Vassilij.
    L'anziana signora, che stava seduta davanti alla vecchia zia,  si alzò
    in  fretta e raggiunse il conte Vassilij in anticamera.  Dal suo volto
    era scomparsa l'espressione di simulato interessamento di poco  prima:
    la  sua  fisionomia,  buona  e  triste,  esprimeva  soltanto  timore e
    inquietudine.
    - Che mi potete dire,  principe,  del mio Borìs?   -    chiese  quando
    l'ebbe raggiunto in anticamera.  (Pronunziava il nome di Borìs con una
    particolare accentuazione sulla "o").   -  Io non posso rimanere oltre
    a  Pietroburgo.  Ditemi,  quali  notizie  potrò  portare al mio povero
    ragazzo?
    Sebbene  il  principe  Vassilij  ascoltasse  malvolentieri   e   quasi
    scortesemente   l'anziana   signora,   dimostrando   anche  una  certa
    impazienza,  essa gli sorrideva con espressione affettuosa e  commossa
    e, nel timore che egli si allontanasse, gli prese la mano.
    - Che cosa vi costa dire una parola all'imperatore?  Basterà perché il
    mio  ragazzo  passi  subito  nella  Guardia    -     disse   in   tono
    supplichevole.
    -Vi assicuro,  principessa,  che io tenterò tutto quanto sta in me,  -
    rispose il principe Vassilij  -  ma mi è difficile  fare  una  domanda
    all'imperatore.  Vi  consiglierei  di  rivolgervi a Rumjanzòv (41) per
    mezzo del principe Golicyn (42); sarebbe la miglior cosa da farsi.
    L'anziana signora era una principessa Drubetzkaja, appartenente quindi
    a una delle migliori famiglie della Russia, ma era povera, da un pezzo
    aveva abbandonato la vita di società e perduto quindi le relazioni  di
    un  tempo.  Era  venuta  a  Pietroburgo  per ottenere una nomina nella
    Guardia per il  proprio  unico  figlio.  Soltanto  per  incontrare  il
    principe  Vassilij  si  era  fatta  invitare  al  ricevimento  di Anna
    Pàvlovna,  e soltanto per quella ragione aveva ascoltato  il  racconto
    del  visconte  su  "Mademoiselle  George"  e Bonaparte.  Le parole del
    principe Vassilij la sgomentarono: il suo volto, un tempo assai bello,
    espresse un impeto di collera che durò solo un momento. Poi ricominciò
    a sorridere e strinse più forte la mano del principe.
    - Sentite,  principe,   -  riprese l'anziana signora  -  non vi ho mai
    chiesto  niente,  non  vi  chiederò  mai  più  nulla...  Non vi ho mai
    rammentato l'amicizia che ha legato vostro padre al mio.  Ma,  adesso,
    vi  scongiuro,  in  nome di Dio,  fate questo per mio figlio,  e io vi
    considererò come mio benefattore  -  aggiunse in fretta.   -  No,  non
    andate  in  collera...  promettetemelo!  Mi  sono già rivolta al conte
    Golicyn:  ha  rifiutato.  Siate  buono  come  eravate  un  tempo!    -
    aggiunse,  tentando di sorridere, mentre i suoi occhi si riempivano di
    lacrime.
    - Papà,  arriveremo in ritardo  -   disse  la  principessa  Elen,  che
    attendeva  presso  la  porta,  voltando  verso il padre la bella testa
    eretta sulle spalle scultoree.
    L'autorità è un capitale che in società bisogna  saper  curare  perché
    non  svanisca.  Il  principe  Vassilij  non  lo ignorava e,  dopo aver
    riflettuto  che  se  avesse  interceduto  per  tutti  quelli  che   lo
    richiedevano  ben presto non avrebbe più potuto ottenere nulla per sé,
    usava di rado della propria  influenza.  Nel  caso  della  principessa
    Drubetzkaja  egli  sentì tuttavia,  dopo l'ultimo appello di lei,  una
    specie di rimorso di coscienza.  Essa gli aveva rammentato la  verità,
    giacché  i  primi  passi  nella  carriera  li  doveva al padre di lei.
    Inoltre comprese dal suo atteggiamento  che  si  trattava  di  una  di
    quelle donne,  e in particolare di quelle madri che, quando si mettono
    in mente qualche  cosa,  non  desistono  più  sino  a  che  non  hanno
    soddisfatto il loro desiderio e che,  in caso contrario, sono pronte a
    tornare alla carica ogni giorno e ogni momento e, addirittura,  a fare
    delle scenate. Quest'ultima considerazione lo fece esitare.
    - "Chère" Anna Michàjlovna,   -  disse con la sua consueta familiarità
    e il consueto tono di voce infastidito  -  mi è quasi impossibile fare
    quello che desiderate,  ma per dimostrarvi che vi voglio  bene  e  che
    ricordo devotamente vostro padre vedrò di farlo: vostro figlio passerà
    nella Guardia: ve lo prometto. Siete contenta?
    - Amico mio,  mio benefattore!  Non mi aspettavo altro da voi, giacché
    so quanto siete buono.
    Il principe fece per allontanarsi.
    - Aspettate!  Ancora una parola!  Quando mio figlio sarà passato nella
    Guardia...    -  a questo punto ebbe un momento di esitazione  -  voi,
    che siete in ottimi rapporti con Michaìl Ilarjònovic' Kutuzòv,  glielo
    raccomanderete come aiutante? Allora io sarò tranquilla e...
    Il principe Vassilij sorrise.
    -  Questo  non  ve  lo  prometto.  Non  potete  immaginare  da  quante
    raccomandazioni sia assediato  Kutuzòv  dal  giorno  in  cui  è  stato
    nominato comandante in capo dell'esercito! Mi ha detto egli stesso che
    tutte  le  signore  di Mosca si sono messe d'accordo per dargli i loro
    figli come aiutanti di campo...
    - Promettetemelo, via! Altrimenti non vi darò pace, benefattore mio...
    - Papà,   -  ripeté la bella principessa con lo stesso tono di voce  -
    arriveremo in ritardo...
    - Dunque, arrivederci...
    - Allora domani farete una relazione all'imperatore?
    - Senza dubbio, ma per Kutuzòv non vi prometto nulla...
    - Suvvia,  Vassilij,  promettetemelo!  -  esclamò Anna Michàjlovna con
    un sorriso civettuolo che forse nel passato le era stato abituale,  ma
    che ora non andava proprio d'accordo con il suo viso sciupato.
    Ella dimenticava evidentemente la propria età e metteva in opera,  per
    abitudine,  tutti i mezzi femminili di un  tempo.  Ma  non  appena  il
    principe  fu uscito,  il suo viso riprese l'espressione fredda e finta
    che aveva avuto prima.  Ritornò  nel  gruppo  in  mezzo  al  quale  il
    visconte  continuava  il  suo  racconto  e  di  nuovo fece le viste di
    ascoltare, in attesa del momento buono per andarsene, dato che ciò che
    l'interessava era ormai stato fatto.
    - Be', che ne dite della recente commedia della consacrazione a Milano
    (43)?   -  chiese Anna Pàvlovna.   -   "Et  la  nouvelle  comédie  des
    peuples  de Gênes et de Lucques,  qui viennent présenter leurs voeux à
    M. Buonaparte? M. Buonaparte assis sur un trône, et exaucant les voeux
    des nations! Adorable! Non,  mais c'est à en devenir folle!  On dirait
    que  le  monde entier a perdu la tête" [44.  E la nuova commedia delle
    popolazioni di Genova e di Lucca che porgono i loro auguri  al  signor
    Buonaparte?  Il signor Buonaparte assiso su di un trono e nell'atto di
    esaudire i voti delle nazioni!  Deliziosa!  Ah,  c'è da impazzire!  Si
    direbbe che il mondo abbia perduto la testa].
    Il principe Andréj sorrise guardando in viso Anna Pàvlovna.
    -  "Dieu me la donne,  gare à qui la touche!"  -  disse,  ripetendo le
    parole pronunziate da Bonaparte durante l'incoronazione.   -  "On  dit
    qu'il  a  été très beau en prononcant ces paroles..." [45.  "Dio me la
    dà, guai a chi la tocca!".  Dicono che sia stato molto bello nell'atto
    di  pronunciare  questa  frase...]    -  aggiunse,  e ancora una volta
    ripeté in italiano le parole:  -  "Dio me l'ha data,  guai  a  chi  la
    tocca!".
    -  Io  spero    -   continuò Anna Pàvlovna  -  "que ca a été la goutte
    d'eau qui fera déborder le  verre.  Les  souverains  ne  peuvent  plus
    supporter cet homme,  qui menace tout" [46. Spero che questa sia stata
    la goccia d'acqua che farà traboccare il vaso.  I sovrani non  possono
    più sopportare quest'uomo che minaccia ogni cosa].
    -  "Les  souverains?  Je  ne  parle  pas  de  la  Russie"  -  disse il
    visconte, cortesemente e disperatamente.  -  "Les souverains,  madame!
    Qu'ont-ils fait pour Louis Seize, pour la reine, pour madame Elisabeth
    (47)?  Rien"    -    proseguì accalorandosi.   -  "Et croyez-moi,  ils
    subissent la punition pour leur trahison de la cause des Bourbons. Les
    souverains?  Ils envoient des ambassadeurs complimenter  l'usurpateur"
    [48.  I sovrani?  Io non parlo della Russia.  I sovrani,  signora, che
    cosa hanno fatto per Luigi Sedicesimo, per la regina,  per Elisabetta?
    Nulla!  E,  credetemi,  essi  subiscono  ora  la  punizione  del  loro
    tradimento  alla  causa  dei  Borboni.  I  sovrani?   Mandano  õ  loro
    ambasciatori a complimentare l'usurpatore].
    E, con un sospiro di disprezzo, cambiò posizione. Il principe Ippolìt,
    che  già da un pezzo guardava il visconte attraverso l'occhialetto,  a
    queste  parole  si  voltò  con  tutta  la  persona  verso  la  giovane
    principessa  e,  dopo  avere  chiesto un ago,  prese a disegnare sulla
    tavola lo stemma dei Condé,  e glielo spiegò con aria di tale sussiego
    da far pensare che la principessa glielo avesse chiesto.
    -  "Bâton  de  gueules,  engrêlé de gueules d'azur: maison Condé" [49.
    Palo rosso spinato d'azzurro. Casa Condé]  -  disse.
    La principessa ascoltava sorridendo.
    - Se Buonaparte starà ancora per un anno sul trono di Francia    disse
    il visconte proseguendo la conversazione iniziata,  con l'aria di chi,
    senza ascoltare le opinioni degli altri,  segue soltanto il corso  dei
    propri   pensieri    -    se  ne  vedranno  delle  belle!   Per  mezzo
    dell'intrigo,  della violenza,  dell'esilio,  io credo che la migliore
    società francese sarà annientata per sempre, e allora...
    Egli si strinse nelle spalle e allargò le braccia.  Pierre voleva dire
    qualcosa: il discorso lo interessava,  ma  Anna  Pàvlovna,  che  stava
    all'erta, lo frenò.
    -  L'imperatore  Alessandro    -   ella disse con la tristezza con cui
    parlava sempre quando  accennava  alla  famiglia  imperiale    -    ha
    dichiarato che lascerà ai Francesi la scelta della forma di governo. E
    io  credo  che  non vi sia dubbio che tutta la nazione,  non appena si
    sarà liberata dall'usurpatore,  si butterà tra le  braccia  di  un  re
    legittimo    -  dichiarò,  cercando di essere cortese verso l'emigrato
    realista.
    -  Non è certo  -  intervenne il principe Andréj.   -    "Monsieur  le
    vicomte" pensa a ragione che se ne vedranno delle belle.  Io credo che
    sarà difficile ritornare al passato.
    -  A  quanto  ho  sentito    -    disse  Pierre,   insinuandosi  nella
    conversazione  e arrossendo  -  quasi tutta la nobiltà è già passata a
    Buonaparte.
    - Questo lo dicono i buonapartisti   -    replicò  il  visconte  senza
    guardare  Pierre.    -    Attualmente è difficile conoscere l'opinione
    pubblica francese.
    - L'ha detto Buonaparte!  -  esclamò Andréj con un sorriso. (Si capiva
    che il visconte non gli andava a genio e che, pur non guardandolo, era
    a lui che dirigeva le sue parole).  -  "Je leur ai montré le chemin de
    la gloire"  -  continuò dopo un breve silenzio, ripetendo le parole di
    Napoleone.   -  "Ils n'en  ont  pas  voulu;  je  leur  ai  ouvert  mes
    antichambres,  ils se sont precipités en foule...".  "Je ne sais pas à
    quel point il a eu le droit de le dire"  [50.  "Ho  indicato  loro  il
    cammino della gloria.  Essi non hanno voluto seguirlo;  ho aperto loro
    le mie anticamere, vi si sono precipitati in folla...". Ma non so sino
    a che punto egli abbia avuto il diritto di dire così.].
    - Nessun diritto!   -  replicò il visconte.   -  Dopo l'uccisione  del
    duca,  anche gli uomini meno imparziali hanno cessato di vedere in lui
    un eroe. "Si même ca a été un héros pour certaines gens",  -  proseguì
    il visconte rivolto ad Anna Pàvlovna  -  "depuis l'assassinat  du  duc
    il y a un martyr de plus dans le ciel, un héros de moins sur la terre"
    [51.  Se anche è stato un eroe per alcuni, dopo l'assassinio del duca,
    c'è un martire in più in cielo e un eroe in meno sulla terra.]
    Anna Pàvlovna e gli  altri  non  avevano  ancora  fatto  in  tempo  ad
    approvare con un sorriso le parole del visconte che Pierre s'intromise
    di nuovo nella conversazione e Anna Pàvlovna, pur presentendo che egli
    avrebbe detto qualcosa di inopportuno, non riuscì a trattenerlo.
    -  Il  supplizio  del  duca  d'Enghien    -   disse Pierre  -  era una
    necessità imprescindibile, e io vedo una grandezza d'animo proprio nel
    fatto che  Napoleone  non  abbia  temuto  di  assumere  su  di  sé  la
    responsabilità di quell'atto.
    - Dio! Mio Dio!  -  mormorò, atterrita, Anna Pàvlovna.
    -  "Comment,  M.  Pierre,  vous  trouvez que l'assassinat est grandeur
    d'âme?" [52.  Ma come,  signor Pierre,  voi pensate  che  l'assassinio
    denoti   grandezza  d'animo?]    -    chiese  la  giovane  principessa
    ripiegando il suo lavoro.
    - Ah! Oh!  -  esclamarono varie voci.
    - "Capital! [53. Magnifico!]  -  disse in inglese il principe Ippolìt,
    battendosi con la mano un ginocchio.  Il visconte si limitò ad  alzare
    le spalle.
    Pierre  con  aria  trionfante  guardava  gli  ascoltatori di sopra gli
    occhiali.
    - Parlo così,   -  proseguì con slancio  -  perché i Borboni fuggirono
    davanti alla rivoluzione lasciando il popolo nell'anarchia;  Napoleone
    solo seppe comprendere la rivoluzione e vincerla e proprio per questo,
    per il bene comune,  non poteva fermarsi di fronte  alla  vita  di  un
    uomo.
    - Volete venire a questa tavola?   -  chiese Anna Pàvlovna. Ma Pierre,
    senza rispondere, continuò a parlare.
    - Sì,   -  disse,  accalorandosi sempre di più  -  Napoleone è  grande
    perché si mise al di sopra della rivoluzione,  ne represse gli abusi e
    mantenne ciò che in essa vi era di buono: l'uguaglianza dei  cittadini
    e  la  libertà di parola e di stampa: soltanto per questo conquistò il
    potere.
    - Se,  conquistato il potere,  non ne avesse approfittato per compiere
    un  assassinio e lo avesse restituito al legittimo sovrano,   -  disse
    il visconte  -  lo chiamerei anch'io un grand'uomo.
    - Non avrebbe potuto compiere un simile gesto.  Il  popolo  gli  aveva
    dato  il  potere  soltanto  perché  lo  liberasse dai Borboni e perché
    vedeva in lui un grand'uomo.  La rivoluzione fu una grande opera!    -
    proseguì   "monsieur"   Pierre,   dimostrando  con  questa  provocante
    dichiarazione la sua estrema gioventù  e  il  desiderio  di  esprimere
    tutto al più presto.
    - La rivoluzione e il regicidio una grande opera?... Dopo questo... Ma
    non volete dunque venire a questa tavola?  -  ripeté Anna Pàvlovna.
    - "Contrat social" (54)  -  disse il visconte con un amabile sorriso .
    - Io non parlo dell'uccisione del re. Parlo delle idee.
    - Già, le idee del saccheggio, dell'omicidio, dell'uccisione del re  -
    interruppe di nuovo una voce ironica.
    - Senza dubbio vi furono degli eccessi, ma le cose che hanno veramente
    importanza  sono  l'uguaglianza tra i cittadini,  i diritti dell'uomo,
    l'emancipazione dai pregiudizi.  E  tutte  queste  idee  Napoleone  le
    mantenne in pieno.
    - Libertà e uguaglianza  -  disse in tono sprezzante il visconte, come
    se  finalmente  si decidesse a dimostrare seriamente a quel giovanotto
    tutta la stupidità delle sue frasi -  sono grandi parole,  compromesse
    da molto tempo.  Chi non ama la libertà e l'uguaglianza? Già il nostro
    Salvatore predicava la libertà e l'uguaglianza.  Forse gli uomini sono
    diventati più felici dopo la rivoluzione?  Al contrario.  Noi volevamo
    la libertà, e Buonaparte l'ha distrutta.
    Il principe Andréj guardava sorridendo ora Pierre,  ora  il  visconte,
    ora  la  padrona  di  casa.  Al  primo  momento  le  uscite  di Pierre
    sgomentarono Anna Pàvlovna che pure era avvezza alla vita di  società,
    ma  quando  vide  che,  nonostante le parole sacrileghe pronunziate da
    Pierre,   il  visconte  si  manteneva  calmo,   e  si  convinse  della
    impossibilità di farlo tacere,  si riprese e,  alleandosi al visconte,
    assalì l'oratore.
    - "Mais, mon cher Monsieur Pierre!"  -  esclamò Anna Pàvlovna. -  Come
    fate a spiegare che un grand'uomo abbia potuto fare uccidere il  duca,
    un uomo semplicemente come gli altri, senza processo e senza colpa?
    -  Io  domanderei  -  disse il visconte  -  in che modo questo signore
    spiegherebbe il 18 brumaio (55).  Non fu forse un inganno?  "C'est  un
    escamotage,  qui ne ressemble nullement à la manière d'agir d'un grand
    homme" [56.  E' una specie di gherminella che non somiglia affatto  al
    modo di agire di un grand'uomo].
    -  E  i prigionieri d'Africa che egli uccise?   -  aggiunse la giovane
    principessa.  -  Che cosa orribile!  -  E si strinse nelle spalle.
    - "C'est un roturier,  vous avez un beau dire" [57.  Dite  quello  che
    volete, ma è un uomo volgare.]  -  intervenne il principe Ippolìt.
    Pierre non sapeva a chi rispondere: guardava tutti e sorrideva. Il suo
    sorriso  non  era  come  quello di tutti gli altri uomini: quando egli
    sorrideva,  a un tratto il suo viso serio e un po' cupo svaniva  e  ne
    appariva un altro,  dall'espressione buona,  infantile, persino un po'
    sciocca e che pareva chiedere perdono.
    Al visconte,  che lo vedeva per la prima volta,  apparve evidente  che
    quel giacobino non era assolutamente terribile quanto le sue parole.
    Tutti tacquero.
    -  Come  volete  che egli risponda a tutti in una volta?   -  disse il
    principe Andréj.   -  Inoltre,  negli atti di un uomo di stato bisogna
    distinguere  quelli  dell'uomo  come  uomo  privato,  quelli  del capo
    dell'esercito e quelli dell'imperatore. Almeno a me pare così.
    - Certo, certo,  si capisce...   -  esclamò Pierre,  felice dell'aiuto
    che gli veniva porto.
    -  Non  si  può  non  ammettere  che  Napoleone  come  uomo  sia stato
    grandissimo al ponte d'Arcole (58),  nel  lazzaretto  di  Giaffa  dove
    diede la mano agli appestati (59); ma... ma ci sono altri atti che non
    è facile giustificare...
    Il   principe   Andréj,   che  evidentemente  aveva  voluto  addolcire
    l'inopportunità delle parole di Pierre,  si alzò  e,  preparandosi  ad
    andare via, fece un cenno a sua moglie.
    A un tratto si alzò anche il principe Ippolìt e, fermando tutti con un
    gesto, li pregò di sedersi e poi disse:
    - "Ah,  aujourd'hui on m'a raconté une anecdote moscovite,  charmante,
    il faut que je vous en régale. Vous m'excusez, vicomte, il faut que je
    raconte en russe.  Autrement on ne sentira pas le sel  de  l'histoire"
    [60.  Ah,  oggi  mi hanno raccontato un aneddoto moscovita,  veramente
    grazioso;  voglio raccontarvelo.  Mi  scuserete,  visconte,  ma  debbo
    raccontarlo in russo, altrimenti non se ne gusterebbe il sale].
    E  il principe Ippolìt si mise a parlare in russo con la pronunzia dei
    Francesi che hanno trascorso un anno o due in Russia. Tutti i presenti
    si fermarono,  tanta era l'insistenza con  cui  il  principe  chiedeva
    attenzione alla sua storia.
    - A Mosca c'è una signora, "une dame", molto avara. Essa voleva sempre
    avere due lacché in livrea dietro la carrozza.  E li voleva molto alti
    di statura.  Le  piacevano  così.  E  aveva  une  "femme  de  chambre"
    altissima. Essa le disse...
    A  questo  punto  il  principe  Ippolìt  rimase pensieroso,  poi,  con
    evidente difficoltà, riprese:
    -  Essa le disse... Sì,  essa le disse: "Ragazza,  indossa la livrea e
    vieni con me, dietro la carrozza a fare delle visite"
    E   qui  il  principe  scoppiò  in  una  risata,   molto  prima  degli
    ascoltatori,  il  che  produsse  un'impressione  svantaggiosa  per  il
    narratore.  Tuttavia  parecchie  persone,  tra cui l'anziana signora e
    Anna Pàvlovna, sorrisero.
    - La carrozza partì.  Improvvisamente si alzò  un  forte  vento.  Alla
    ragazza volò via il cappello e le si sciolsero i lunghi capelli...
    A questo punto il principe non riusciva già più a contenersi e prese a
    ridere a scatti mentre tra le risate diceva:
    - E tutti lo vennero a sapere...
    E  l'aneddoto  finì  qui.  Sebbene  non  si capisse per qual motivo il
    principe l'avesse raccontato e perché avesse dovuto  farlo  in  russo,
    Anna  Pàvlovna  e  gli  altri  apprezzarono  la galanteria mondana del
    principe Ippolìt che in modo  così  simpatico  aveva...  dirottato  la
    conversazione  sgradevole di Pierre.  Dopo l'aneddoto la conversazione
    si disperse in futili chiacchiere  sulle  feste  da  ballo  passate  e
    future,  sugli spettacoli teatrali e sul giorno e sul luogo in cui gli
    ospiti si sarebbero ritrovati.


    CAPITOLO 5.

    Dopo aver ringraziato Anna  Pàvlovna  per  la  simpatica  serata,  gli
    ospiti cominciarono ad andarsene.
    Pierre era goffo,  pesante,  di statura più alta del normale, largo di
    spalle, con enormi mani rosse. Non sapeva, come si dice, entrare in un
    salotto e meno ancora sapeva  uscirne;  ossia  non  sapeva,  prima  di
    accomiatarsi, dire qualche frase particolarmente gentile. Inoltre, era
    distratto. Alzandosi per andar via, prese, invece del suo cappello, il
    tricorno  piumato  del  generale  e  lo  tenne in mano,  agitandone il
    pennacchio, sino a quando il generale non ne chiese la restituzione...
    Ma le distrazioni e la goffaggine erano compensate da una  espressione
    di bontà, di semplicità e di modestia. Anna Pàvlovna si voltò verso di
    lui ed esprimendogli con cristiana bontà il proprio perdono per le sue
    "uscite", lo salutò, e gli disse:
    -  Spero  di  rivedervi,  ma  spero  anche che modificherete le vostre
    opinioni, mia caro "monsieur" Pierre...
    A queste parole egli non rispose: s'inchinò e ancora una volta rivolse
    a tutti il suo sorriso che non diceva nulla,  o forse diceva  soltanto
    questo:  "Le  opinioni sono opinioni;  del resto vedete che io sono un
    buon ragazzo". E tutti, compresa Anna Pàvlovna, lo sentivano.
    Il principe Andréj uscì in anticamera. Volgendo le spalle al domestico
    che gli metteva il mantello, ascoltava con indifferenza le chiacchiere
    di sua moglie e del principe Ippolìt,  uscito anch'egli in anticamera.
    Il principe Ippolìt stava accanto alla bella principessa e la guardava
    con insistenza attraverso l'occhialetto.
    -  Andate,  "Annette",  ché  rischiate  di  raffreddarvi   -  disse la
    giovane principessa salutando Anna  Pàvlovna.    -    E'  deciso!    -
    aggiunse a voce bassa.
    Anna  Pàvlovna  era  riuscita  a  parlare  a  Lise  del matrimonio che
    progettava di combinare tra Anatolij e la cognata della principessa.
    - Spero in voi,  mia cara  -    disse  Anna  Pàvlovna  sottovoce.    -
    Scrivetele e mi saprete dire che cosa ne pensa il padre.  Arrivederci!
    -  e sì allontanò dall'anticamera.
    Il principe Ippolìt si  accostò  alla  principessa  e,  avvicinando  a
    quello di lei il suo viso, prese a dirle qualcosa sottovoce.
    Due  domestici,  il  suo  e quello della principessa,  attendevano che
    finissero di parlare, tenendo uno scialle ed un pastrano e ascoltavano
    senza capire nulla; facevano però le viste di capire tutto ma di voler
    far credere che non capissero  nulla.  La  principessa,  come  sempre,
    parlava sorridendo e, sorridendo, ascoltava.
    -  Sono  molto  contento  di  non  essere  andato dall'ambasciatore  -
    diceva il principe Ippolìt.   -   Ci  si  annoia  talmente  in  quella
    casa...  Qui invece abbiamo trascorso una piacevolissima serata, non è
    vero?
    - Si dice che la festa da  ballo  sarà  bellissima    -    rispose  la
    principessa,  sollevando  il breve labbro dalla lieve peluria.   -  Vi
    prenderanno parte tutte le belle donne della migliore società.
    - Tutte no, giacché voi non ci sarete  -  rispose il principe Ippolìt,
    ridendo allegramente e,  preso lo scialle dalle mani  del  lacché,  lo
    mise  egli stesso sulle spalle della principessa.  Per distrazione o a
    bella posta  -  chi lo può dire?  -  tardò alquanto a ritirare la mano
    e parve abbracciare la giovane donna.
    Con gesto gentile,  e sempre sorridendo,  ella si scostò,  si volse  e
    guardò  il  marito.  Il  principe  Andréj  aveva gli occhi semichiusi;
    pareva stanco e assonnato.
    - Siete pronta?  -  chiese alla moglie, evitandone lo sguardo.
    Il principe Ippolìt si affrettò ad indossare il pastrano che,  secondo
    la  moda,  gli  arrivava  sino ai tacchi e,  impacciato nei movimenti,
    seguì rapidamente la principessa mentre  il  domestico  la  aiutava  a
    salire in carrozza.
    - Arrivederci, principessa!  -  gridò, impacciato nel parlare come nel
    camminare.
    La  principessa,  sollevando  un poco l'abito,  prendeva intanto posto
    nella carrozza, mentre il marito cercava di sistemare la sciabola.  Il
    principe Ippolìt, con il pretesto di aiutare, era d'impaccio a tutti.
    -  Permettete,  signore?    -    gli disse in russo,  in tono seccato,
    Andréj, cercando di passare.  -  Ti aspetto, Pierre!   -  aggiunse con
    voce affettuosa.
    Il  cocchiere  tirò  le  redini,  e la carrozza si mosse.  Il principe
    Ippolìt, ridendo a scatti,  rimase fermo sulla scalinata in attesa del
    visconte che gli aveva promesso di accompagnarlo a casa.

    -  "Eh,  bien,  mon cher,  votre petite princesse est très bien,  très
    bien"  -  esclamò il visconte,  sedendosi nella carrozza con  Ippolìt.
    -  "Très bien!"  -  E si baciò la punta delle dita.  - "Et tout à fait
    francaise"  [61.  Ebbene,  mio  caro,  la vostra piccola principessa è
    molto, molto carina. Sì molto carina! E veramente francese!].
    Ippolìt si mise a ridere.
    - "Et savez-vous que vous êtes terrible avec votre petit air innocent"
    -  proseguì il visconte.   -  "Je plains  le  pauvre  mari,  ce  petit
    officier  qui  se  donne des airs de prince régnant" [62.  E voi,  con
    quella vostra aria ingenua, siete un uomo terribile, sapete? Compiango
    il povero marito,  quell'ufficialetto che si dà delle arie da principe
    regnante].
    Ippolìt scoppiò di nuovo in una risata repressa e disse:
    -  "Et  vous  disiez  que  les  dames russes ne valaient pas les dames
    francaises.  Il faut savoir s'y prendre" [63.  E voi dicevate  che  le
    signore  russe  valgono  meno di quelle francesi!  Tutto sta nel saper
    fare].
    Pierre,  giunto prima,  era entrato direttamente,  come amico di casa,
    nello studio del principe Andréj e,  secondo la sua abitudine,  si era
    steso sul divano,  aveva preso dallo scaffale il primo libro  che  gli
    era  capitato  sottomano  (erano  i  "Commentari"  di  Cesare) (64) e,
    appoggiatosi sul gomito, aveva cominciato a leggerlo, a metà.
    - Che cosa hai fatto con la signorina Scerer? Ora si ammalerà  - disse
    il principe Andréj, entrando nello studio e stropicciandosi le piccole
    mani bianche.
    Pierre si girò con tutto il corpo in  modo  da  far  scricchiolare  il
    divano, volgendo verso l'amico il volto animato, sorrise e, facendo un
    gesto con la mano, disse:
    -  Quell'abate  è  molto  interessante,  ma non capisce come stanno le
    cose...  Secondo me la pace  universale  è  possibile,  ma  non  posso
    dirlo... Però non sarà l'equilibrio politico...
    Il  principe  Andréj non si interessava affatto,  si vedeva,  a quella
    conversazione astratta.
    - Non è possibile,  mio caro,  dire sempre e dappertutto  ciò  che  si
    pensa.  Dunque, hai finalmente deciso qualcosa? Entrerai nella Guardia
    o diventerai diplomatico?  -  chiese, dopo un minuto di silenzio.
    Pierre, sedette sul divano incrociando le gambe sotto di sé.
    - Ci credereste che non lo so ancora?  Né l'una  né  l'altra  cosa  mi
    vanno a genio.
    - Ma bisogna pur prendere una decisione, no? Tuo padre aspetta.
    All'età di dieci anni Pierre era stato mandato, accompagnato da un aio
    abate,  all'estero  dove  era vissuto sino ai venti anni.  Ritornato a
    Mosca,  il padre aveva licenziato l'abate e aveva  detto  al  giovane:
    "Ora,  figlio  mio,  va' a Pietroburgo: guardati attorno e scegli.  Io
    acconsentirò a tutto.  Eccoti una lettera per il principe Vassilij  ed
    eccoti del denaro.  Scrivimi tutto; io sono pronto ad aiutarti in ogni
    cosa".  Pierre da tre mesi ormai  si  occupava  della  scelta  di  una
    carriera,  ma non prendeva alcuna decisione.  E proprio a proposito di
    tale scelta stava ora parlandogli Andréj.  Pierre si  passò  una  mano
    sulla fronte.
    - Ma dev'essere massone  -  disse, pensando ancora all'abate che aveva
    incontrato quella sera.
    -  Queste sono fantasticherie!   -  lo interruppe di nuovo il principe
    Andréj.   -  E' meglio che discorriamo un po'  dei  tuoi  affari.  Sei
    andato alla sede della Guardia a cavallo?
    - No,  non ancora,  ma ecco ciò che ho pensato e che volevo dirti. Ora
    c'è la guerra contro Napoleone.  Se si trattasse di una guerra per  la
    libertà,  la  capirei,  e sarei il primo ad entrare nell'esercito,  ma
    aiutare l'Austria e  l'Inghilterra  contro  il  più  grande  uomo  del
    mondo... no... non è bene...
    Il  principe  Andréj si limitò ad alzare le spalle alle puerili parole
    di Pierre,  facendo capire che a  simili  sciocchezze  non  si  poteva
    neppure ribattere. E, in realtà, sarebbe stato difficile rispondere in
    altro modo a quell'ingenua opinione.
    - Se tutti facessero la guerra soltanto per convinzione, le guerre non
    esisterebbero più  -  disse egli.
    - E sarebbe una gran bella cosa!  -  rispose Pierre.
    Il principe Andréj sorrise.
    - Sì, sarebbe certo una gran bella cosa, ma non accadrà mai...
    - E perché andate alla guerra, voi?  -  chiese Pierre.
    - Perché?  Non lo so.  Però bisogna andarci. E poi... io ci vado...  -
    E a questo punto si fermò un momento.   -  Ci vado perché la vita  che
    conduco qui è una vita che non fa per me!


    CAPITOLO 6.

    Dalla  stanza  accanto giunse il fruscio di una veste femminile.  Come
    destandosi di colpo,  il principe Andréj si  scosse,  e  il  suo  viso
    assunse  la stessa espressione che aveva quando si trovava nel salotto
    di Anna Pàvlovna.  Pierre tirò giù  le  gambe  dal  divano.  Entrò  la
    principessa.  Indossava  già  un  altro abito,  da casa,  ma anch'esso
    fresco ed elegante.  Il principe Andréj  si  alzò  e  cortesemente  le
    avvicinò una poltrona.
    - Spesso mi domando,  -  prese a dire la principessa in francese, come
    sempre,  in fretta e sedendosi con un po' di difficoltà nella poltrona
    -  mi domando come mai Annette non abbia preso  marito.  Quanto  siete
    sciocchi tutti voi,  "messieurs",  a non averla sposata! Scusatemi, ma
    vi assicuro che in fatto di donne capite  assai  poco.  Con  che  foga
    discutete, "monsieur" Pierre!
    -  Sì,  e discuto sempre con vostro marito: non riesco a capire perché
    voglia  andare  in  guerra    -    disse  Pierre,   rivolgendosi  alla
    principessa  senza  quel  fare  complimentoso  che di solito usano gli
    uomini rivolgendosi alle giovani signore.
    La principessa sussultò: evidentemente,  le parole di Pierre l'avevano
    toccata sul vivo.
    - Ah,  ecco ciò che dico anch'io!   -  rispose.   -  Non capisco,  non
    capisco assolutamente perché  gli  uomini  non  possano  vivere  senza
    guerra.  E  perché  mai,  invece,  noi  donne non vogliamo nulla,  non
    abbiamo bisogno di nulla. Sentite e giudicate. Glielo dico sempre: qui
    è  aiutante  di  campo  di  suo  zio,  ha  quindi  una  brillantissima
    posizione.  Tutti  lo  conoscono  e  tutti  hanno per lui molta stima.
    Giorni  or  sono  in  casa  degli  Apraksin  ho  sentito  una  signora
    esclamare: "C'est ca le fameux prince André?".  "Ma parole d'honneur!"
    [65.  "Ah,  quello è il famoso principe Andréj?".  Proprio!]  -  E  si
    mise  a ridere.   -  Egli è bene accolto ovunque e potrebbe facilmente
    diventare aiutante di campo dell'imperatore.  Sapete che  l'imperatore
    gli  ha  parlato  con molta affabilità?  Annette e io riteniamo che la
    cosa potrebbe effettuarsi con molta facilità. Che ne pensate?
    Pierre  diede  un'occhiata  al  principe  Andréj  e,   visto  che   la
    conversazione non andava molto a genio all'amico, non rispose.
    - Quando partirete?  -  domandò.
    - "Ah,  ne me parlez pas de ce départ,  ne m'en parlez pas! Je ne veux
    pas en entendre parler" [66.  Ah,  non mi parlate di questa  partenza,
    non  me  ne  parlate!  Non  voglio  sentirne  parlare!]    -  disse la
    principessa con quel tono scherzosamente capriccioso che  aveva  usato
    parlando  con  Ippolìt  nel  salotto  di  Anna  Pàvlovna,  ma  che ora
    evidentemente stonava in  quella  conversazione  di  famiglia  di  cui
    Pierre  era  considerato  un  membro.    -   Oggi,  quando pensavo che
    bisognerà interrompere tante care relazioni... E poi lo sai,  "André"?
    -   guardò significativamente il marito.   -  Ho paura,  ho paura!   -
    sussurrò, mentre un brivido le percorreva la schiena.
    Il marito la guardò come stupito nell'accorgersi che nella  stanza  si
    trovasse un'altra persona, oltre a lui e a Pierre; con fredda cortesia
    si rivolse alla moglie:
    - Di che cosa hai paura, Liza? Non riesco a capirlo  -  le disse.
    - Ecco come sono egoisti gli uomini!  Tutti,  tutti egoisti! Egli, per
    suo capriccio, Dio sa perché, mi lascia e mi confina sola in campagna.
    -  Con mio padre e mia sorella,  non dimenticarlo!    -    rispose  il
    principe Andréj a bassa voce.
    - In ogni caso sola,  senza i "miei" amici... E vuole che io non abbia
    paura...
    Il tono della  principessa  suonava  leggero  rimprovero:  il  piccolo
    labbro  superiore  si sollevava,  dando al viso non più un'espressione
    gioiosa, ma quella di una bestiolina, di uno scoiattolo.  Ella tacque,
    come  se  ritenesse  sconveniente  parlare  davanti a Pierre della sua
    gravidanza, giacché era questo il nocciolo della discussione.
    - Tuttavia non capisco di che cosa abbia paura  -   ripeté  lentamente
    il principe Andréj, senza distogliere gli occhi dalla moglie.
    La principessa arrossì e allargò le braccia in gesto disperato.
    - "Non,  André,  je dis que vous avez tellement,  tellement changé..."
    [67. No, Andréj, io dico che siete molto, molto mutato!].
    - Il dottore ti ha ordinato di coricarti presto la sera  -   disse  il
    principe,  -  dovresti andare a dormire.
    La  principessa  non rispose e ad un tratto il suo piccolo labbro ebbe
    un fremito;  il marito si alzò e,  stringendosi nelle spalle  prese  a
    camminare su e giù per la stanza.
    Pierre  con aria stupefatta e ingenua guardava attraverso gli occhiali
    ora il principe, ora la moglie di lui;  si mosse come se volesse andar
    via, ma poi si fermò, soprappensiero.
    - Che mi importa che ci sia monsieur Pierre?   -  disse a un tratto la
    giovane principessa,  e il suo grazioso visetto si  contrasse  in  una
    smorfia di pianto.   -  Da un pezzo volevo chiederti,  "André", perché
    sei così mutato verso di me! Che cosa ti ho fatto? Parti per la guerra
    e non hai compassione di me. Perché?
    - Lise!  -  si limitò ad esclamare il principe.  Ma quella sola parola
    conteneva una preghiera e una minaccia e, soprattutto, la certezza che
    essa non avrebbe aggiunto altro. Ma lei continuò a parlare:
    -  Ti  comporti  con me come se fossi una malata o una bambina.  Me ne
    accorgo benissimo. Eri forse così sei mesi or sono?
    - Lise,  ti prego di smetterla!   -  disse il principe Andréj in  tono
    anche più significativo.
    Pierre,  che si sentiva sempre più turbato da quella conversazione, si
    alzò e si avvicinò alla principessa. Pareva che non potesse sopportare
    la vista delle lacrime e che fosse sul punto di mettersi egli stesso a
    piangere.
    - Calmatevi,  principessa.  Voi parlate così,  ma  vi  assicuro...  Ho
    provato anch'io...  perché...  perché...  No,  scusate, io qui sono un
    estraneo, sono di troppo... Calmatevi, addio...
    Il principe Andréj lo trattenne per un braccio.
    - No, Pierre,  resta.  La principessa è così buona che non vorrà certo
    privarmi del piacere di trascorrere la serata con te.
    -  Già,  egli  pensa  soltanto a se stesso  -  esclamò la principessa,
    senza riusare a trattenere lacrime di collera.
    - Lise!   -  disse seccamente il principe Andréj,  alzando la voce  in
    modo da far capire che la sua pazienza era ormai esaurita.
    A  un tratto,  il visetto grazioso della principessa assunse un non so
    che di attraente,  che  suscitava  pietà  e  timore;  essa  guardò  di
    sfuggita  il  marito  con  i suoi bellissimi occhi,  con l'espressione
    umile e sottomessa del cane che agita rapidamente la coda  davanti  al
    padrone.
    - Mio Dio,  mio Dio!   -  esclamò e, sollevando con una mano le pieghe
    dell'abito, si avvicinò al marito e lo baciò sulla fronte.
    - Buona sera,  Liza    -    disse  il  principe  Andréj,  alzandosi  e
    baciandole cortesemente la mano, come a un'estranea.

    Gli  amici  rimasero  silenziosi:  né  l'uno  né l'altro riprendeva la
    conversazione. Pierre guardava il principe Andréj che si passava sulla
    fronte la piccola mano.
    - Andiamo a cena!   -  disse con un sospiro,  alzandosi e  dirigendosi
    verso la porta.
    Entrarono  nella  sala  da  pranzo,  rimessa  a nuovo ed elegantemente
    ammobiliata. Tutto, dalla tovaglia all'argenteria,  dalle ceramiche ai
    cristalli,  aveva  quella particolare impronta di nuovo che si osserva
    di solito nelle case di giovani sposi. A metà della cena,  il principe
    Andréj  si appoggiò con il gomito alla tavola e,  come chi da un pezzo
    ha  qualcosa  sul  cuore  e  decide  a  un  tratto  di  sfogarsi,  con
    un'espressione  di  irritazione e di nervosismo quale Pierre non aveva
    mai notato nell'amico, prese a parlare:
    - Non sposarti, non sposarti mai, amico mio!  Ascolta il mio consiglio
    o, per lo meno, non sposarti sino a quando non potrai dire a te stesso
    di  aver  fatto  tutto  il possibile per cessare di amare la donna che
    avrai scelto e prima di vederla qual è in realtà... Se no. commetterai
    un errore crudele e irreparabile...  Sposati quando non sarai più  che
    un  vecchio buono a nulla...  Se no annullerai tutto ciò che c'è in te
    di buono e di nobile... Tutto si disperderà in inezie. Sì, sì, sì! Non
    guardarmi con quell'aria così stupefatta!  Se attenderai da te  stesso
    qualcosa  per  l'avvenire,  ti  accorgerai a ogni passo che tutto sarà
    finito,  tutto ti sarà chiuso,  fuorché il salotto,  dove  sarai  alla
    stregua di un valletto di corte o di un idiota... Proprio così!
    E fece un gesto energico con la mano.
    Pierre si tolse gli occhiali, il suo viso mutò, assunse un'espressione
    di maggiore bontà e guardò stupefatto l'amico.
    -  Mia  moglie    -   proseguì il principe Andréj  -  è una bellissima
    donna.  E' una di quelle poche donne alle quali si può tranquillamente
    affidare il proprio onore. Ma, mio Dio, quanto pagherei ora per essere
    scapolo!  A  te  solo  e  a te per primo dico tutto questo,  perché ti
    voglio bene.
    Il principe Andréj,  mentre parlava,  assomigliava meno che mai a quel
    Bolkonskij  che,  sprofondato  in  una  poltrona  del  salotto di Anna
    Pàvlovna,  con gli occhi  socchiusi,  pronunziava  ironiche  frasi  in
    francese.  Il  suo  viso magro tremava,  vibrando nervosamente in ogni
    muscolo;  gli occhi,  nei quali poco prima sembrava  spento  il  fuoco
    della  vita,  ora  scintillavano  di una limpida luce.  Si vedeva che,
    quanto più egli pareva di solito privo di vitalità,  tanto più in quel
    momento di irritazione appariva energico e volitivo.
    - Tu non capisci perché io dica queste cose  -  proseguì.  -  Eppure è
    tutta  la  storia  della  mia vita.  Tu parli di Bonaparte e della sua
    carriera  -  disse,  sebbene Pierre  non  avesse  affatto  parlato  di
    Bonaparte.   -  Tu parli di Bonaparte ma, quando egli lavorava, quando
    un passo dopo l'altro camminava  verso  la  sua  meta,  era  libero  e
    null'altro  vedeva  se  non quella meta;  per questo la raggiunse.  Ma
    quando sei legato a  una  donna,  come  un  galeotto  incatenato,  hai
    perduto qualsiasi libertà.  E tutto ciò che c'è in te di speranza e di
    forza viene annientato,  e il pentimento ti  tormenta.  I  salotti,  i
    pettegolezzi, i balli, le ambizioni, le nullità... questo è il circolo
    vizioso  dal quale non posso uscire.  Ora parto per la guerra,  per la
    più grande guerra che mai sia stata combattuta;  io non so nulla,  non
    sono capace di fare niente altro.  Sono molto cortese e molto caustico
    -  proseguì il principe Andréj  -  e in casa di Anna Pàvlovna tutti mi
    ascoltano.  E quella stupida società,  senza la quale mia  moglie  non
    potrebbe  vivere,  e quelle donne...  Se tu sapessi come sono tutte le
    donne distinte,  e in genere tutte le donne!  Mio  padre  ha  ragione.
    Egoismo,  ambizione,  stupidità,  nullità  in  tutto:  ecco  le  donne
    allorché si mostrano veramente quali sono.  Quando le vedi in società,
    ti  pare  che  in  esse  ci sia qualcosa e invece no,  non c'è niente,
    niente, niente, niente! No, amico mio caro, non sposarti!  -  concluse
    il principe Andréj.
    - Mi pare buffo  -  disse Pierre  -   che  consideriate  voi,  proprio
    "voi" come un uomo inetto e la vostra vita come una vita rovinata.  Ma
    se avete dinanzi tutto l'avvenire! E invece...
    A questo "voi" s'interruppe,  ma  il  suo  tono  già  indicava  quanta
    considerazione  avesse  per il suo amico e quanto si aspettasse da lui
    nell'avvenire.
    "Ma com'è possibile che dica questo?",  pensava Pierre.  Egli riteneva
    il  principe  Andréj  un modello di tutte le perfezioni,  precisamente
    perché il principe Andréj riuniva in sé, al massimo grado,  le qualità
    che  mancavano  a  lui  e  che si potevano riassumere tutte in un solo
    concetto: forza di volontà.
    Pierre si meravigliava sempre della capacità del  principe  Andréj  di
    comportarsi  serenamente  con  ogni  genere  di  persone,   della  sua
    eccezionale memoria,  della sua cultura letteraria (egli  aveva  letto
    tutto,  sapeva tutto) e, in special modo, della facilità di studiare e
    di imparare. E se,  abbastanza spesso,  Pierre era stato colpito dalla
    mancanza,   nel  principe  Andréj,   della  capacità  della  filosofia
    contemplativa (alla quale  Pierre  era  particolarmente  portato)  non
    vedeva in ciò un difetto, ma piuttosto una forza.
    Nei rapporti migliori,  più amichevoli e più semplici,  l'adulazione e
    la lode sono indispensabili,  quanto è indispensabile il  grasso  alla
    ruota perché giri senza stridere.
    - Sono un uomo finito!   -  esclamò il principe Andréj.   -  Che altro
    devo dire di me? Parliamo piuttosto di te  -  aggiunse dopo una pausa,
    sorridendo ai suoi sconfortanti pensieri.
    Quel sorriso in quel momento illuminò anche il viso di Pierre.
    - Ma di me cosa si può dire?  -  esclamò questi,  atteggiando la bocca
    a un sorriso allegro e spensierato.   -  Chi sono io?  Un bastardo!  -
    E ad un tratto il suo volto si coprì di  rossore:  pareva  che  avesse
    fatto un grande sforzo su se stesso per pronunziare quella parola.   -
    Senza nome, senza fortuna...  Ora sono libero e sono felice...  Ma non
    so proprio di dove cominciare. Vorrei consigliarmi seriamente con voi.
    Il  principe  Andréj  lo  guardò  con  i  suoi occhi buoni,  ma il suo
    sguardo, amichevole e affettuoso, espresse tuttavia la coscienza della
    propria superiorità.
    - Tu mi sei caro, specialmente perché sei l'unico uomo vivo nel nostro
    ambiente.  Per te tutto è facile.  Puoi scegliere quello che vuoi: per
    te,  tutto è uguale.  Tu starai bene ovunque, ma ascolta quello che ti
    dico: smetti di frequentare Kuragin e di condurre la vita che  conduce
    lui. Non ti si addice: tutte quelle orge, quelle baldorie...
    - "Que voulez-vous,  mon cher"  -  rispose Pierre,  stringendosi nelle
    spalle;  -  "les femmes, mon cher, les femmes!" [68.  Eh,  che volete,
    mio caro; le donne, mio caro, le donne'].
    -  Non  capisco   -  rispose Andréj.   -  "Les femmes comme il faut" è
    un'altra cosa,  ma "les femmes de Kuragin,  les femmes et le vin" [69.
    Le donne perbene (...) le donne di Kuragin, le donne e il vino (...)],
    non le capisco!
    Pierre  viveva  in  casa  del principe Kuragin e partecipava alla vita
    dissoluta di Anatolij suo figlio, quello stesso che si voleva unire in
    matrimonio con la sorella del  principe  Andréj,  nella  speranza  che
    cambiasse vita.
    -  Sapete?    -  disse Pierre,  come se all'improvviso gli fosse sorta
    un'idea felice;   -  da un pezzo sto seriamente pensando che,  con  la
    vita che conduco, non posso né decidere nulla, né riflettere su nulla.
    La testa mi duole;  non ho denaro.  Oggi mi ha invitato da lui, ma non
    ci andrò.
    - Dammi la tua parola d'onore; non andrai più con quell'uomo?
    - Parola d'onore!
    Era  già  l'una  dopo  mezzanotte,   una  chiara   notte   di   giugno
    pietroburghese,  quando  Pierre  uscì  dalla casa dell'amico.  Salì in
    carrozza con il proposito di andare  a  casa.  Ma  quanto  più  vi  si
    avvicinava, tanto più sentiva che gli sarebbe stato impossibile andare
    a dormire in una notte così chiara da sembrare quasi giorno. Le strade
    erano deserte,  e lo sguardo giungeva lontano.  Strada facendo, Pierre
    ricordò che quella sera in casa di  Anatolij  Kuragin  doveva  essersi
    riunito il consueto gruppo di giocatori,  che dopo il gioco si sarebbe
    svolta la solita orgia,  che si sarebbe conclusa con uno dei godimenti
    prediletti da Pierre...
    "Sarebbe piacevole andate da Kuragin...", pensò. Ma rammentò la parola
    d'onore  data ad Andréj di non frequentare più quell'uomo.  Poco dopo,
    però,  come accade alle persone prive  di  carattere,  provò  un  così
    sfrenato  desiderio di godere ancora una volta quella vita dissoluta a
    lui tanto nota che decise di andare. Lì per lì, per giustificarsi,  si
    disse  che  la  parola  data ad Andréj non aveva alcun valore giacché,
    prima che ad Andréj,  aveva promesso ad Anatolij di recarsi da lui;  e
    finalmente  decise  tra  sé  e sé che tutte quelle parole d'onore sono
    cose  convenzionali,  prive  di  senso  preciso,  specialmente  se  si
    considera  che  si  potrebbe  morire  il  giorno  dopo  o che potrebbe
    accadere qualcosa di così straordinario  per  cui  non  avrebbero  più
    senso  né  l'onore  né  il  disonore.  Spesso a Pierre si affacciavano
    ragionamenti di tal  genere  che  annullavano  qualsiasi  decisione  e
    proponimento. E finì con l'andare da Kuragin.
    Giunto  all'ingresso  di  una  grande casa,  non lontana dalla caserma
    della Guardia a cavallo, nella quale abitava Anatolij, salì lo scalone
    illuminato e, trovata la porta aperta, entrò.  In anticamera non c'era
    nessuno: erano sparsi qua e là bottiglie vuote,  pastrani, calosce; si
    sentiva odor di vino e si udivano voci e grida lontane.
    La cena e il gioco erano finiti,  ma gli ospiti  non  se  ne  andavano
    ancora.  Pierre  si tolse il pastrano ed entrò nella prima stanza dove
    erano evidenti i resti della cena e dove un  domestico,  pensando  che
    nessuno  lo  vedesse,  scolava di nascosto i bicchierini non del tutto
    vuoti.  Dalla terza camera proveniva un gran frastuono: risate,  grida
    di  voci  conosciute  e  il  ruggito  di  un orso.  Otto giovanotti si
    accalcavano ansiosi davanti ad  una  finestra  aperta.  Altri  tre  si
    divertivano  con  un  orsacchiotto  che uno di essi trascinava per una
    catena, spaventando gli amici.
    - Scommetto cento rubli su Stivens! gridò uno.
    - Badate, eh, nessuno deve sorreggerlo!  -  rispose un altro.
    - Io scommetto su Dòlochov!  -  gridò un terzo.  -  Dividi, Kuragin!
    - Ebbene, lasciate Miska (70)! Si tratta di una scommessa.
    - Tutta d'un fiato, se no, avrà perso!  -  gridò un quarto.
    - Jakov! Qua una bottiglia, Jakov!  -  gridò a sua volta il padrone di
    casa,  un bel giovane alto,  ritto in mezzo agli altri,  in maniche di
    camicia  dallo  sparato aperto sul petto.   -  Aspettate signori!  Oh,
    eccoti qui Petruscia, mio caro!  -  esclamò, rivolgendosi a Pierre.
    Una voce,  che dominava per la sua fermezza tutte le  altre,  alterata
    dal  vino,  appartenente a un giovane di non alta statura,  dai chiari
    occhi azzurri, gridò dalla finestra:
    - Vieni qui! Giudica tu!
    Era Dòlochov,  ufficiale del reggimento  Semënovskij  (71),  notissimo
    giocatore  e  spadaccino,  che abitava con Anatolij.  Pierre si guardò
    attorno e sorrise allegramente.
    - Non capisco nulla!  -  esclamò.  -  Di che si tratta?
    - Aspettate,  lui non è ubriaco.  Datemi  una  bottiglia    -    disse
    Anatolij,  e,  preso un bicchiere dal tavolo, si avvicinò a Pierre.  -
    Prima di tutto, bevi.
    Pierre prese a mandar giù  un  bicchiere  dopo  l'altro,  osservò  gli
    ospiti ubriachi raggruppati vicino alla finestra e prestò attenzione a
    quanto  dicevano.  Anatolij  continuava a versargli vino e intanto gli
    raccontava che  Dòlochov  scommetteva  con  Stivens,  ufficiale  della
    marina inglese, che si trovava lì, di bere una bottiglia di rum stando
    seduto  su  quella  finestra  del terzo piano,  con le gambe penzoloni
    verso l'esterno.
    - Suvvia,  bevila tutta!   -  concluse  Anatolij,  porgendo  a  Pierre
    l'ultimo bicchiere.
    - No.  non ne voglio più!   -  rispose Pierre,  respingendo Anatolij e
    avvicinandosi alla finestra.
    Dòlochov  teneva  per  un  braccio  l'inglese  ed  esponeva  in   ogni
    particolare  le  condizioni  della  scommessa,  rivolgendosi  in  modo
    speciale ad Anatolij e a Pierre.
    Dòlochov, un uomo sui venticinque anni, era di media statura,  aveva i
    capelli  ricciuti,  non  portava  baffi,  come  tutti gli ufficiali di
    fanteria e la sua  bocca,  il  tratto  più  caratteristico  del  viso,
    appariva  completamente  scoperta.  Il  disegno  di  quella  bocca era
    finemente ricurvo;  la linea del labbro superiore,  formando un angolo
    quasi  acuto,  scendeva  bruscamente  sul labbro inferiore,  piuttosto
    grosso,  e agli angoli parevano disegnati due sorrisi,  uno  per  ogni
    angolo;  tutto  l'insieme,  specialmente  perché  accompagnato  da uno
    sguardo ardito e intelligente, era di un effetto che non si poteva non
    notare.  Dòlochov non era  ricco  e  non  aveva  relazioni,  e  benché
    Anatolij  spendesse decine di migliaia di rubli e Dòlochov abitasse in
    casa di lui,  gli amici comuni stimavano  Dòlochov  più  di  Anatolij.
    Dòlochov  giocava  tutti  i giochi e quasi sempre vinceva.  Per quanto
    bevesse, non perdeva mai la lucidità di pensiero. E Kuragin e Dòlochov
    erano  in  quel  tempo  considerati  tra  i  più  noti  fannulloni   e
    scapestrati di Pietroburgo.
    Fu  portata  una  bottiglia  di  rum:  due  domestici,   evidentemente
    istupiditi e sollecitati dagli ordini,  dai consigli e dalle grida dei
    signori  che  li circondavano,  stavano demolendo l'intelaiatura della
    finestra che impediva di sedere sulla sporgenza esterna del davanzale.
    Anatolij,  con la sua  aria  da  conquistatore,  si  avvicinò.  Voleva
    rompere qualche cosa.  Scostò i lacché e tiro a sé l'intelaiatura,  ma
    questa non cedette. E allora fracassò i vetri.
    - A te, atleta!  -  gridò a Pierre.
    Pierre si aggrappò all'intelaiatura,  la tirò con forza e  la  strappò
    con fracasso.
    -  Levala  via  del tutto,  se no penseranno che io mi sia afferrato a
    qualcosa  -  disse Dòlochov.
    - L'inglese si vanta, nevvero? Va bene, così?  -  chiese Anatolij.
    - Bene!  -  disse Pierre,  guardando Dòlochov che,  presa la bottiglia
    di rum, si avvicinava alla finestra attraverso la quale si scorgeva il
    cielo chiaro su cui si fondevano le luci del mattino e della sera.
    Dòlochov, con la bottiglia in mano, saltò sulla finestra.
    - Statemi a sentire!   -  gridò, in piedi sul davanzale e rivolgendosi
    a coloro che erano nella stanza.
    Tutti tacquero.
    - Scommetto...   -  parlava in francese perché l'ufficiale inglese  lo
    capisse  anche  se  parlava  quella lingua piuttosto male -  scommetto
    cinquanta imperiali  (72)  o  anche  cento,  se  volete  -    proseguì
    rivolgendosi all'inglese.
    - No, cinquanta!  -  rispose questi.
    -  Bene,  scommetto  cinquanta  imperiali che berrò l'intero contenuto
    della bottiglia,  senza riprendere fiato,  seduto sul davanzale con le
    gambe  penzoloni verso l'esterno  -  e si piegò indicando la sporgenza
    inclinata della parete  -  e senza appoggiarmi a nulla... d'accordo?
    - Benissimo!  -  rispose l'inglese.
    Anatolij gli si avvicinò,  lo afferrò per un bottone della  giubba  e,
    guardandolo dall'alto in basso (l'inglese era basso di statura), prese
    a ripetergli in inglese le condizioni della scommessa.
    - Aspetta!  -  gridò Dòlochov, battendo con la bottiglia sul davanzale
    per  attirare l'attenzione.   -  Aspetta,  Kuragin!  Ascoltate!  Se un
    altro farà la stessa cosa,  perderò volentieri cento imperiali.  Avete
    capito?
    L'inglese  fece un cenno con il capo senza dare in alcun modo a capire
    se avesse intenzione o no di accettare la  nuova  scommessa.  Anatolij
    non si scostava da lui e sebbene questi,  con ripetuti cenni,  facesse
    intendere di capire tutto benissimo,  Anatolij continuava a  tradurgli
    in  inglese  ogni parola di Dòlochov.  Un giovane magro,  in divisa da
    ussaro,  che durante la serata aveva perso parecchio,  si sporse dalla
    finestra e guardò nella via.
    -  Uh...   uh...  uh!    -    esclamò  costatando  l'altezza  sino  al
    marciapiede.
    - Silenzio!   -  gridò Dòlochov e allontanò dalla finestra l'ufficiale
    che, impacciato dagli speroni, stava goffamente nella stanza.
    Posata  la  bottiglia  sul  davanzale per poterla prendere facilmente,
    Dòlochov lo scavalcò con prudenza,  lasciando penzolare  le  gambe,  e
    distese le braccia verso i bordi della finestra;  si sedette, si mosse
    a destra e a sinistra e prese la bottiglia. Anatolij portò due candele
    e le posò sul davanzale,  sebbene ci si vedesse ancora  benissimo.  La
    schiena  di  Dòlochov,  coperta  dalla  camicia bianca,  e il suo capo
    ricciuto,  furono  illuminati  da  entrambi  i  lati.  Gli  ospiti  si
    affollarono  vicino alla finestra.  L'inglese si mise davanti a tutti.
    Pierre sorrideva senza dir nulla.  Uno dei presenti,  il più  anziano,
    con  un'espressione  spaventata  e  irritata nello stesso tempo,  a un
    tratto mosse qualche passo avanti e fece per afferrare Dòlochov per un
    braccio.
    - Signori, è una pazzia!  Si ucciderebbe!   -  disse quello che pareva
    essere più ragionevole degli altri.
    Anatolij lo fermò.
    - Non toccarlo... lo spaventeresti e lo faresti cadere. E allora ?
    Dòlochov  si voltò,  si rimise a posto,  distese di nuovo le braccia e
    disse:
    - Se qualcuno s'impiccerà  ancora  nei  fatti  miei,    -    proseguì,
    pronunziando le parole a denti stretti  -  lo butterò giù. Intesi?
    Dopo aver detto "intesi?" si voltò di nuovo, abbassò le braccia, prese
    la   bottiglia  e  se  la  portò  alla  bocca,   rovesciando  il  capo
    all'indietro,  e tenendo il braccio libero disteso perché  facesse  da
    contrappeso.
    Uno  dei  domestici,  che  stava raccogliendo i vetri rotti,  si fermò
    nella posizione in cui si trovava e non distolse più lo sguardo  dalla
    finestra  e  dalla schiena di Dòlochov.  Anatolij era immobile con gli
    occhi spalancati. L'inglese,  sporgendo le labbra in avanti,  guardava
    da  una parte.  Colui che aveva cercato di fermare Dòlochov si rifugiò
    in un angolo della camera e si coricò sul divano con la  faccia  volta
    verso la parete. Pierre si coprì gli occhi con le mani e le sue labbra
    si fermarono atteggiate a un lieve sorriso sebbene egli fosse assalito
    da  un  brivido  di  paura.  Tutti tacevano.  Pierre abbassò le mani e
    guardò.  Dòlochov era ancora seduto nella stessa posizione,  ma teneva
    la  testa  all'indietro,  cosicché  i  capelli ricciuti della nuca gli
    toccavano il collo della camicia e la mano che  reggeva  la  bottiglia
    continuava ad alzarsi, tremando per lo sforzo. La bottiglia si vuotava
    visibilmente  e  nello  stesso tempo si sollevava,  mentre la testa si
    arrovesciava sempre di più.  "Perché ci  vuole  tanto  tempo?",  pensò
    Pierre.  Gli pareva che fosse trascorsa più di mezz'ora.  Ad un tratto
    Dòlochov fece un movimento con il dorso e la sua mano ebbe un  tremito
    nervoso;  quel tremito sarebbe stato sufficiente a far scivolare tutto
    il corpo seduto sul davanzale  spiovente.  La  mano  e  la  testa  del
    giovane  tremarono di più per lo sforzo che egli faceva.  L'altra mano
    si sollevò per  cercare  un  appiglio,  e  poi  si  riabbassò.  Pierre
    richiuse  gli  occhi e si ripromise di non riaprirli più.  A un tratto
    sentì che tutto attorno gli altri si agitavano.  Si  decise  allora  a
    guardare:  Dòlochov era ancora seduto sul davanzale.  Il suo volto era
    pallido ma illuminato di gioia.
    - E' vuota !
    Gettò la bottiglia all'inglese che abilmente l'afferrò. Dòlochov balzò
    giù dalla finestra.  Dalla sua bocca si sprigionava un forte odore  di
    rum.
    - Magnifico!  Avete vinto la scommessa!  Corbezzoli,  siete davvero in
    gamba!  -  si gridava da ogni parte.
    L'inglese tirò fuori il borsellino e contò il denaro della  scommessa.
    Dòlochov,  con le sopracciglia aggrottate,  taceva. Pierre balzò verso
    la finestra.
    - Signori! Chi vuole scommettere con me? Farò anch'io ciò che ha fatto
    Dòlochov!   -  gridò.   -  Ma anche senza scommessa.  Fate portare una
    bottiglia. Vedrete che anch'io... Una bottiglia, su!
    - Bene, bene!  -  esclamò Dòlochov sorridendo.
    - Che ti piglia?  Sei impazzito? Chi te lo lascerà fare? Ti vengono le
    vertigini solo a salire una scala...  -  si udì dire qua e la.
    - Berrò! Datemi la bottiglia!   -  gridò Pierre con un gesto deciso da
    ubriaco, battendo un colpo sulla tavola, e salì sulla finestra .
    Cercarono  di  afferrarlo  per le braccia,  ma egli era così forte che
    respingeva lontano chiunque cercasse di avvicinarglisi.
    - Non riusciremo a persuaderlo a nessun costo  -  disse Anatolij;    -
    aspettate,  lo ingannerò.  Ascolta,  Pierre, scommetterò io con te, ma
    per domani: adesso andiamo tutti da...
    - Andiamo   -  gridò Pierre  -  andiamo! E porteremo con noi il nostro
    Miska.
    E,  afferrato l'orsacchiotto,  se lo prese tra le braccia e si mise  a
    girare con lui per la stanza.


    CAPITOLO 7.

    Il  principe  Vassilij  aveva mantenuto la promessa,  fatta la sera in
    casa di Anna Pàvlovna alla principessa Drubetzkaja, di intercedere per
    il suo unico figlio Borìs.  Era stato parlato di lui al sovrano  e  in
    via   eccezionale   il   giovanotto  poté  entrare  con  il  grado  di
    sottotenente nel reggimento della Guardia di  Semënovskij.  Purtroppo,
    però, non era stato nominato aiutante di Kutuzòv, nonostante i passi e
    gli  intrighi di Anna Michàjlovna.  Poco tempo dopo quella serata essa
    tornò a Mosca,  dai suoi ricchi parenti  Rostòv,  in  casa  dei  quali
    dimorava  quando  era in città;  in quella casa era stato allevato sin
    dall'infanzia ed era vissuto per molti anni il  suo  adorato  Bòrenka,
    sino a quando cioè aveva avuto la nomina a sottotenente nel reggimento
    della Guardia. La Guardia aveva lasciato Pietroburgo sin dal 10 agosto
    e  il  figliuolo,  rimasto  a  Mosca per farsi fare la divisa,  doveva
    raggiungere Radzivilov (73).
    In casa Rostòv si festeggiava il doppio  onomastico  di  Natàlija,  la
    madre, e di Natàlija, la figlia minore. Sin dal mattino le berline dei
    visitatori  che venivano a porgere i loro auguri giungevano senza posa
    e si fermavano dinanzi al gran palazzo della contessa Rostòv,  noto  a
    tutta Mosca,  situato in via Povàrskaja. La contessa, con la sua bella
    figliuola  maggiore  e  con  i  visitatori  che  si  susseguivano   in
    continuazione, stava nel salotto.
    Era  una donna sui quarantacinque anni,  dal tipo orientale e dal viso
    magro,  visibilmente stancata dalle numerose gravidanze: aveva  avuto,
    infatti,  dodici  figli.  La  lentezza  dei  movimenti  e  del modo di
    parlare,  causata dalla mancanza  di  forze,  le  conferivano  un'aria
    imponente  che  incuteva  rispetto.  La  principessa  Anna Michàjlovna
    Drubetzkaja era anch'essa nel  salotto  e,  come  se  fosse  di  casa,
    aiutava a ricevere e a mantenere viva la conversazione tra gli ospiti.
    La  gioventù  era  riunita  in altre stanze,  non ritenendo necessario
    partecipare al ricevimento.  Il conte andava incontro ai visitatori e,
    accompagnandoli, li invitava tutti a pranzo.
    - Vi sono molto grato, "ma chère" o "mon cher"  -  diceva "ma chère" o
    "mon  cher"  senza  distinzione e senza sfumature,  sia che le persone
    fossero superiori,  sia che fossero inferiori a  lui.  Vi  sono  molto
    grato per me e per le mie due care festeggiate. Badate, eh, che dovete
    favorire a pranzo.  In caso contrario, mi offendereste, "mon cher". Vi
    prego proprio di cuore, a nome di tutta la famiglia, "mon cher"...
    Con la stessa espressione sul viso  grasso,  allegro  e  accuratamente
    rasato, la stessa stretta di mano e ripetendo gli stessi brevi saluti,
    diceva a tutti le medesime parole,  senza eccezioni e senza mutamenti.
    Dopo aver riaccompagnato un ospite,  il conte ritornava a quello  o  a
    quella  che  era  ancora  in salotto,  si sedeva su una poltrona e con
    l'aria dell'uomo che amava la vita e che l'aveva goduta,  con le gambe
    giovanilmente  allargate  e le mani sulle ginocchia,  si dondolava con
    sussiego,  faceva delle previsioni  sul  tempo,  dava  consigli  sulla
    salute,  ora in russo,  ora in un pessimo, ma disinvolto francese. Poi
    di nuovo,  con il fare di un uomo  stanco  ma  deciso  a  compiere  il
    proprio  dovere,  riaccompagnava  i  visitatori e,  lisciandosi i radi
    capelli grigi,  rinnovava  l'invito  a  pranzo.  Talvolta,  ritornando
    dall'anticamera,  passava  per  l'ampia sala dalle pareti rivestite di
    marmo dove si stava apparecchiando la tavola per  ottanta  persone  e,
    guardando  i  domestici  che  portavano l'argenteria,  i cristalli,  i
    tovagliuoli  damascati,  chiamava  Dmitrij  Vassìlevic',  un  uomo  di
    origine nobile che si occupava di tutti i suoi affari e gli diceva:
    - Mi raccomando,  eh,  Mìtenka, che tutto vada bene. Sì, così, così...
    -  aggiungeva, osservando con compiacenza l'enorme tavola.  -  La cosa
    più importante è il servizio, sicuro, sicuro...
    E se ne ritornava nel salotto con un sospiro di soddisfazione.
    - Maria Lvovna Karagina e sua figlia!   -   annunziò  con  voce  grave
    l'alto e grosso maggiordomo della contessa.
    La contessa rifletté un momento,  annusò una presa di tabacco estratta
    dalla tabacchiera d'oro ornata con il ritratto del marito.
    - Queste visite mi hanno stancata  -  esclamò.   -  Questa è  l'ultima
    che ricevo.  E' una donna talmente smancerosa...  Be' fa' entrare!   -
    ordinò con un'espressione di tristezza nella  voce  come  se  dicesse:
    "Be', dammi il colpo di grazia!".
    Un'alta,  grossa signora,  dal fare altezzoso e una fanciulla dal viso
    tondo e sorridente entrarono nel salotto tra un gran fruscio di abiti.
    "Chère comtesse, il y a si longtemps...  Elle a été alitée,  la pauvre
    enfant...  au bal des Razoumowsky...  et la comtesse Apraksine... J'ai
    été si heureuse..." [74.  Cara contessa,  da tanto tempo...  E'  stata
    ammalata,  povera figliola... al ballo dei Razumovsky... e la contessa
    Apràksina... Sono stata tanto felice], si udiva dire da vivaci voci di
    donna,  che si interrompevano e si confondevano tra fruscii di gonne e
    rumore  di sedie smosse.  Era cominciata una di quelle conversazioni a
    tal punto confuse che si aspetta un momento di pausa per alzarsi,  far
    frusciare  la gonna e dire,  per esempio: "Je suis bien charmée...  La
    santé  de  maman...  et  la  comtesse  Apraksine"  [75.  Sono  proprio
    contenta...  La salute della mamma...  e la contessa Apràksina...],  e
    poi,  tra un rinnovellato frusciar di vesti,  passare nell'anticamera,
    indossare la pelliccia o il mantello e andar via.
    La conversazione si aggirava sulla novità cittadina più importante del
    momento: la malattia del noto,  bellissimo e ricchissimo vecchio conte
    Bezuchov, famoso all'epoca di Caterina, e intanto si parlava anche del
    figlio illegittimo di lui, Pierre,  che si era comportato in modo così
    scorretto durante la serata in casa di Anna Pàvlovna Scerer.
    - Mi dispiace molto per il povero conte  -  esclamò la visitatrice;  -
    la  sua  salute è già così malandata...  e ora i dispiaceri che gli dà
    questo figlio finiranno con l'ucciderlo!
    - Che è successo?   -  chiese la contessa,  come se non sapesse a  che
    cosa volesse riferirsi l'ospite,  anche se già, almeno quindici volte,
    aveva sentito parlare dei dispiaceri del conte Bezuchov.
    - Ecco l'educazione di  oggigiorno!  All'estero  quel  giovanotto    -
    continuò la visitatrice  -  è stato abbandonato a se stesso,  e ora si
    dice che a Pietroburgo abbia commesso tali orrori da  farsi  espellere
    dalla polizia.
    - Ma come!  -  esclamò la contessa.
    -  Ha  scelto  male  i  suoi  amici  -  intervenne la principessa Anna
    Michàjlovna.   -  Il figlio del principe  Vassilij,  lui  e  un  certo
    Dòlochov  hanno fatto Dio sa che cosa!  Ma l'hanno pagata!  Dòlochov è
    stato degradato, e il figlio di Bezuchov viene mandato a Mosca. Quanto
    ad Anatolij Kuragin...  il padre è riuscito a soffocare  lo  scandalo.
    Tuttavia è stato ugualmente espulso da Pietroburgo.
    - Ma, insomma, che cosa hanno fatto?  -  insisté la contessa.
    -  Roba  da  briganti,  specialmente  quel  Dòlochov!    -  rispose la
    visitatrice.   -  E  pensare  che  è  il  figlio  di  Màrija  Ivànovna
    Dòlochova,  una signora così perbene! Figuratevi che tutti e tre hanno
    preso non so dove un orso, l'hanno messo a sedere in carrozza con loro
    e l'hanno portato in casa di certe attrici dove,  a causa del  baccano
    provocato,  è  dovuta intervenire la polizia per farli smettere.  Essi
    hanno  afferrato  il  poliziotto  e  l'hanno  legato,  schiena  contro
    schiena,  all'orso,  poi hanno gettato l'orso nella Moika (76); l'orso
    si è messo a nuotare con il poliziotto sulla schiena...
    - Bella figura, "ma chère", doveva fare quel poliziotto!   -  gridò il
    conte, torcendosi dalle risate.
    - Ah, che orrore! Come potete ridere così, conte?
    Ma, pur senza volerlo, ridevano anche le signore.
    -  A  fatica  si  è  potuto  salvare  quel disgraziato  -  proseguì la
    visitatrice.   -  Ed  è  il  figlio  del  conte  Kirill  Vladimìrovic'
    Bezuchov  che  si  diverte  in  modo così intelligente!   -  commentò.
    Eppure si diceva che  fosse  un  giovane  così  perbene  e  dotato  di
    notevole   ingegno!   Ecco  a  che  cosa  l'ha  condotto  l'educazione
    all'estero! Spero che qui nessuno lo vorrà ricevere, sebbene sia tanto
    ricco. Me lo volevano presentare,  ma io ho recisamente rifiutato.  Ho
    delle figlie, capirete...
    -  Perché  dite  che  quel  giovanotto  è  tanto ricco?   -  chiese la
    contessa, scostandosi un po' dalle signorine,  le quali finsero subito
    di  non  ascoltare.   -  Il conte ha soltanto dei figli naturali...  e
    pare che lo sia anche Pierre.
    La visitatrice fece un gesto vago con la mano.
    - Credo che di figli naturali ne abbia... una ventina.
    La  principessa   Anna   Michàjlovna   volle   prendere   parte   alla
    conversazione  desiderando,  era  evidente,  far sapere che ella aveva
    molte relazioni e che era molto al corrente degli avvenimenti mondani.
    - Ecco,  in realtà,  di che si tratta  -  disse a voce bassa,  in tono
    grave.   -  Si sa che il conte Kirìll Vladimìrovic'...  ha perso la...
    contabilità dei suoi figli... Ma Pierre è sempre stato il prediletto.
    - Come era ancora bello quel vecchio,  l'anno scorso!   -  esclamò  la
    contessa.  -  Non ho mai veduto un uomo più bello di lui!
    - Ma ora è assai mutato  -  osservò Anna Michàjlovna.  -  Ecco ciò che
    volevo  dire    -    proseguì.   -  Da parte di sua moglie il principe
    Vassilij è l'erede diretto di tutta la sostanza...  Ma il padre  amava
    molto Pierre, provvide alla sua educazione e scrisse all'imperatore...
    cosicché  nessuno  sa  a chi,  alla sua morte (sta così male che la si
    attende da un minuto all'altro e  Lorain  è  venuto  da  Pietroburgo),
    andrà  la  sua  enorme  sostanza:  se a Pierre o al principe Vassilij.
    Quattromila anime e molti milioni!  Lo so con certezza perché me  l'ha
    detto  lo stesso principe Vassilij.  E Kirìll Vladimìrovic' mi è anche
    prozio per parte di madre.  Ha tenuto a battesimo Borìs  -   aggiunse.
    come se non attribuisse a questo fatto alcuna importanza.
    - Il principe Vassilij è arrivato da Mosca ieri. Mi hanno riferito che
    è venuto per una ispezione  -  disse la visitatrice.
    - Sì,  ma, detto tra noi,  -  osservò Anna Michàjlovna  -  questo è un
    pretesto: egli è venuto proprio  per  il  conte  Kirìll  Vladimìrovic'
    avendo saputo che sta male.
    - Però,  "ma chère",  è stato un bello scherzo, quello dell'orso disse
    il conte; ma, notando che la visitatrice non lo ascoltava,  si rivolse
    alle  signorine:    -    Immagino  la bella faccia che avrà fatto quel
    poliziotto!
    E, mostrando come il poliziotto doveva agitare le braccia, proruppe di
    nuovo in una risata profonda e sonora,  scotendo tutto il corpo obeso,
    una  di  quelle  risate  particolari  agli  uomini che sono abituati a
    mangiare e soprattutto a bere bene.
    - Dunque  -  concluse  -  pranzerete con noi?... ve ne preghiamo...


    CAPITOLO 8.

    Seguì un silenzio.  La contessa guardava la visitatrice,  sorridendole
    gentilmente  pur  senza  cercare  di  nascondere  che  non  le sarebbe
    spiaciuto affatto se si fosse alzata e se  ne  fosse  andata  via.  La
    figlia della visitatrice si rassettava già la veste,  interrogando con
    lo sguardo la madre,  quando dalla stanza attigua si sentirono  ad  un
    tratto  correre verso la porta giovani e ragazze e si udì un rumore di
    sedie smosse e ribaltate;  poi  si  vide  accorrere  nel  salotto  una
    ragazzetta  sui  tredici  anni,   che  nascondeva  qualcosa  sotto  la
    gonnellina di mussola e che si fermò di colpo in  mezzo  alla  stanza.
    Evidentemente  nello  slancio incontrollato della corsa,  la bimba era
    piombata lì solo per caso.  Quasi  nello  stesso  momento,  comparvero
    sulla soglia uno studente in divisa dal bavero violaceo,  un ufficiale
    della Guardia,  una ragazza quindicenne  e  un  ragazzotto  paffuto  e
    colorito in giacchetta.
    Il  conte  balzò  in piedi e,  dondolandosi,  tese le braccia verso la
    bimba che era arrivata di corsa.
    - Ah,  eccola qui  -  esclamò ridendo  -  la festeggiata!  La mia cara
    festeggiata!
    - "Ma chère,  il y a un temps pour tout!" [77.  Ogni cosa a suo tempo,
    mia cara!]  -  disse la contessa,  fingendosi seccata.   -  Tu la vizi
    troppo, Elie...  -  aggiunse, rivolgendosi al marito.
    - Buon giorno,  mia cara,  tanti auguri!  -  disse la visitatrice. Che
    graziosa creatura!  -  esclamò, guardando la madre.
    La fanciulla dagli occhi neri e dalla  bocca  un  po'  larga  non  era
    bella,  ma  vivacissima.  Con  le  nude,  gracili spalle infantili che
    uscivano dal corsetto per lo slancio  della  corsa,  i  riccioli  neri
    gettati all'indietro, le sottili braccia nude anch'esse e le mutandine
    guernite di merletti che sporgevano di sotto la gonnella,  ella era in
    quella dolce età in cui una ragazza non  è  più  una  bambina,  e  una
    bambina non è ancora una ragazza. Sfuggendo al padre, si slanciò verso
    la  madre  e  senza  badare  alla sua osservazione severa,  nascose il
    visetto accaldato tra i merletti della mantiglia materna e si  mise  a
    ridere.  Aveva  un motivo per ridere: ansando,  la bimba parlava della
    bambola che estrasse di tra le pieghe della gonnella.
    - Vedete? La mia bambola... Mimì...
    E Natascia,  non potendo più parlare (tanto la cosa le pareva  buffa),
    si  abbandonò  sul  petto  della  madre  e proruppe in una risata così
    argentina e squillante che tutti,  compresa  l'imponente  visitatrice,
    risero pur senza volerlo.
    -  Su,  vattene,  vattene  con  il  tuo  mostro!    -  disse la madre,
    scostando la bimba con aria fintamente irritata.   -  Questa è la  mia
    ultima...  -  spiegò all'ospite.
    Natascia, sollevando per un momento la testa dalle trine dello scialle
    materno,  guardò  di sottecchi la visitatrice: poi,  ridendo sino alle
    lacrime, la nascose di nuovo.
    L'ospite, costretta ad assistere a quella scenetta familiare,  ritenne
    necessario prendervi parte.
    -  Vorrei  sapere,  "ma  chère",   -  disse rivolta a Natascia  -  che
    parentela avete con Mimì... E' vostra figlia, vero?
    Non piacquero a Natascia il tono indulgente  e  la  domanda  infantile
    rivoltale dalla visitatrice. Non rispose e la guardò con aria seria.
    In  quel  momento  tutta  la  giovane  generazione  composta da Borìs,
    l'ufficialetto figlio della principessa Anna Michàjlovna;  da  Nikolàj
    studente,   primogenito   del  conte;   da  Sònja,   la  sua  nipotina
    quindicenne,  e dal piccolo Petruska,  l'ultimo nato,  si stabilì  nel
    salotto,  cercando  evidentemente  di contenere nei limiti della buona
    educazione la vivacità e l'allegria che animavano ancora i loro  visi.
    Si capiva che nell'altra stanza,  di dove erano arrivati a precipizio,
    la conversazione era stata più allegra di quella che si  svolgeva  nel
    salotto   sui  pettegolezzi  mondani,   sul  tempo  e  sulla  contessa
    Apràksina.  Di tanto in tanto i ragazzi si scambiavano delle  occhiate
    e, a fatica, si trattenevano dal ridere.
    I due giovanotti,  lo studente e l'ufficiale, amici sin dall'infanzia,
    erano coetanei, e tutti e due belli, ma di una bellezza diversa. Borìs
    era un  giovane  alto,  biondo,  dai  lineamenti  fini  e  regolari  e
    dall'espressione tranquilla;  Nikolàj, non molto alto, aveva i capelli
    ricciuti e  un  volto  franco  e  aperto.  Sul  suo  labbro  superiore
    compariva  già una lieve peluria,  e tutta la sua fisionomia esprimeva
    ardore ed entusiasmo. Nikolàj, entrando in salotto, si fece rosso. Era
    chiaro che cercava e non sapeva che cosa dire; Borìs al contrario, con
    calma scherzosa, assicurò che conosceva assai bene quella Mimì-bambola
    sin dalla sua gioventù,  quando non aveva  ancora  il  naso  rotto,  e
    osservò che in cinque anni era molto invecchiata da come la ricordava,
    poiché nella testa aveva un grosso buco...  Mentre diceva queste cose,
    guardava Natascia.  La bimba si voltò e rivolse la sua  attenzione  al
    fratellino   minore   che,    tenendo   chiusi   gli   occhi,   rideva
    silenziosamente;  e,  incapace di frenarsi,  fece un salto e corse via
    dal  salotto  con  tutta  la rapidità che le consentivano le sue agili
    gambette. Borìs non rideva.
    - Mi pare, "maman", che vogliate andar via anche voi.  Faccio chiamare
    una carrozza?  -  domandò, rivolgendosi alla madre con un sorriso.
    -  Sì,  va'...  va'  a ordinarne una  -  rispose ella,  ricambiando il
    sorriso.
    Borìs uscì piano piano dietro a Natascia;  il  ragazzotto  paffuto  li
    seguì di corsa e pareva irritato per lo scompiglio che avevano portato
    nelle sue occupazioni.


    CAPITOLO 9.

    Dei  giovani,  senza  contare  la  figlia maggiore della contessa (che
    aveva  quattro  anni  di  più  della  sorella  e  si  considerava  già
    un'adulta)  e  la  figlia della visitatrice,  erano rimasti in salotto
    soltanto Nikolàj e la nipote Sònja.  Sònja era una  brunetta  sottile,
    dal  viso  fine,  dallo sguardo dolce velato dalle lunghe ciglia;  una
    folta treccia di capelli neri le girava due volte attorno al  capo,  e
    la pelle,  specialmente quella del collo e delle braccia nude,  magre,
    ma  graziose  e  muscolose,  aveva  delle  sfumature  giallognole.  La
    leggerezza dei movimenti, la finezza e la grazia delle membra e i modi
    un  po' artificiosi e contenuti,  facevano pensare a una graziosa,  ma
    non ancora del tutto sviluppata gattina,  che  sarebbe  diventata  una
    splendida gatta...  Era chiaro che riteneva conveniente dimostrare con
    il sorriso che partecipava alla conversazione generale; ma,  pur senza
    che  ella  lo  volesse,  i  suoi occhi dalle folte ciglia fissavano il
    cugino,  che stava per partire per la guerra,  con una adorazione così
    appassionata  che  il  suo sorriso non poteva ingannare nessuno,  e si
    capiva che la gattina si era seduta soltanto per saltare di più, dopo,
    e per giocare con il cugino non appena,  come avevano  fatto  Borìs  e
    Natascia, fossero usciti insieme dal salotto.
    -  Sì,  "ma  chère",    -   disse il vecchio conte,  rivolgendosi alla
    visitatrice e indicando Nikolàj  -  poiché il suo amico Borìs è  ormai
    ufficiale,  per  amicizia  egli  non  vuole separarsi da lui;  lascerà
    l'università, abbandonerà me,  vecchio come sono,  e andrà soldato.  A
    quanto  pare la sua nomina era già pronta negli archivi.  E' una prova
    di amicizia questa, non vi pare, "ma chère"?
    - Si dice infatti che la guerra sia già stata dichiarata  -    rispose
    la visitatrice
    -  Sì,  lo  si  afferma da parecchio tempo  -  disse il conte.   -  Si
    parla,  si parla,  ma le cose rimangono sempre allo  stesso  punto.  E
    intanto,  "ma chère", Nikolàj entra in un reggimento di ussari. Questa
    è amicizia, eh?
    La visitatrice, non sapendo che cosa dire, scoteva il capo.
    - Non lo faccio assolutamente per amicizia!   -   intervenne  Nikolàj,
    accalorandosi  e  giustificandosi  come  se  fosse  stato  atrocemente
    calunniato.  -  Non lo faccio per amicizia, ma semplicemente perché mi
    sento attratto verso la vita militare.
    Si volse  verso  la  cugina  e  la  figlia  dell'ospite;  entrambe  lo
    guardavano con un sorriso di approvazione.
    -  Oggi  pranzerà da noi Schubert,  il comandante del reggimento degli
    ussari di Pavlograd.  Egli era qui in licenza e condurrà  Nikolàj  con
    sé.  Che  farci?    -    disse  il conte,  stringendosi nelle spalle e
    cercando  di  parlare  con  disinvoltura  di  quella   partenza   che,
    evidentemente, gli procurava molto dispiacere.
    - Vi ho già detto, papà,  -  riprese il figlio  -  che, se proprio non
    volete  lasciarmi partire,  io resterò.  Ma so che a nulla sono adatto
    quanto  al  servizio  militare,   non  mi  sentirei  di  diventare  né
    diplomatico, né funzionario. Sono incapace di nascondere ciò che sento
    -  aggiunse,  sempre guardando,  con quella civetteria dei giovani che
    sanno di essere belli, Sònja e la figliuola dell'ospite.
    La gattina,  tenendo puntati gli occhi su  di  lui,  pareva  pronta  a
    mettersi a giocare e a dar prova del suo carattere felino.
    -  Va  bene,  va  bene!    -  disse il vecchio conte.   -  Vedete come
    s'infiamma subito!  Quel Buonaparte fa girare la testa a tutti;  tutti
    credono di poter fare come lui: da tenentini diventare imperatori! Dio
    lo   volesse...     -    aggiunse,   senza  notare  l'ironico  sorriso
    dell'ospite.
    Gli adulti si misero a parlare di Bonaparte.  Julie,  la figlia  della
    principessa Karagina, si rivolse al giovane Rostòv.
    -  Peccato  che  giovedì  non  siate  venuto  dagli Archarov!  Mi sono
    annoiata senza di voi!  -  aggiunse, guardandolo affettuosamente.
    Il giovane, lusingato,  le si avvicinò con il civettuolo sorriso della
    giovinezza,  e  iniziò con la fanciulla una conversazione a tu per tu,
    senza accorgersi che il suo spontaneo sorriso colpiva, con il coltello
    della gelosia,  il cuore di Sònja,  che si era fatta rossa e aveva  la
    bocca atteggiata a un sorriso forzato.  Ma, a metà del colloquio, egli
    la guardò e vide che la fanciulla lo fissava con due occhi  cattivi  e
    appassionati e che, trattenendo a stento le lacrime si alzava e usciva
    dalla  stanza  con un ironico risolino sulle labbra.  Tutto il brio di
    Nikolàj si spense. Attese la prima pausa della conversazione e, con il
    viso turbato, uscì dal salotto per andare a cercare Sonja.
    - Come sono "cuciti a filo bianco" i  segreti  di  questi  giovani!  -
    esclamò Anna Michàjlovna,  accennando a Nikolàj che stava uscendo.   -
    "Cousinage,  dangereux voisinage" [78.  Cugini,  pericolosi vicini]  -
    aggiunse poi.
    - Sì!   -  disse la contessa,  allorché fu scomparso il raggio di sole
    portato nel salotto da quella  gioventù  e,  come  rispondendo  a  una
    domanda  che  nessuno  le  rivolgeva,  ma che le stava sempre a cuore,
    riprese:  -  Quante sofferenze,  quante preoccupazioni abbiamo  dovuto
    sopportare per giungere a guardarli con piacere!  E ora, in verità, si
    hanno più timori che gioie.  Sempre,  sempre paura!  E' proprio  l'età
    piena di pericoli per le ragazze e per i giovanotti...
    - Tutto dipende dall'educazione  -  osservò la visitatrice.
    - Sì,  avete ragione  -  proseguì la contessa.   -  Signora,  grazie a
    Dio,  io sono stata un'amica per i miei figliuoli e  ho  goduto  della
    loro  fiducia  -  disse ripetendo l'errore di molti genitori,  i quali
    si illudono che i figli non abbiano per loro alcun segreto.  -  So che
    sarò sempre la prima "confidente" (79) delle mie ragazze e che  quando
    Nikòlenka, dato il suo carattere vivace, commetterà qualche marachella
    (non  è  possibile  che  un  giovane non ne commetta qualcuna!) non si
    tratterà di cose  gravi,  quali  purtroppo  commettono  i  giovani  di
    Pietroburgo.
    - Sì,  i nostri ragazzi sono bravi giovani  -  confermò il conte,  che
    risolveva sempre le questioni gravi con il lodare  tutti  quanti.    -
    Eh,  che  volete,  "ma  chère"?  Mio  figlio vuol proprio diventare un
    ussaro!
    - Che cara creatura la vostra piccina!   -  disse la  visitatrice.  Ha
    l'argento vivo addosso!
    -  Sì,  davvero!   -  rispose il conte.   -  Ha preso da me.  E ha una
    voce... Sebbene sia mia figlia,  devo dire la verità...  diventerà una
    cantante.   Un'altra  Salomoni  (80)!  Le  abbiamo  preso  un  maestro
    italiano.
    - Non è troppo presto?  Dicono che studiare a  quell'età  danneggi  la
    voce.
    -  Oh  no,  non è troppo presto!   -  ribatté il conte.   -  Le nostre
    mamme non si sposarono forse a dodici o tredici anni?
    - Ora è persino innamorata di Borìs,  nevvero?   -  disse la contessa,
    sorridendo  con  dolcezza  nel  guardare  la  madre del giovane.  Poi,
    rispondendo evidentemente al pensiero che sempre  le  stava  a  cuore,
    proseguì:  -  Vedete,  se fossi troppo severa con lei,  se la frenassi
    troppo... sa Iddio che cosa farebbero di nascosto...   -  (La contessa
    pensava  che si scambiassero qualche bacio).   -  Invece così so tutto
    quello che si dicono. E' lei stessa che,  alla sera,  mi racconta ogni
    cosa.  Forse  la  vizio  anche  un  po',  ma  credo che sia il sistema
    migliore. Con la mia figliuola maggiore sono stata più severa...
    - Sì, io sono stata educata in modo assai diverso  -  disse sorridendo
    la bella contessa Vera.
    Ma il sorriso non abbelliva il volto di Vera,  contrariamente a quanto
    accade  di  solito.  Anzi  gli conferiva un'espressione non naturale e
    perciò sgradevole. Vera era bella, intelligente, beneducata, aveva una
    voce simpatica  e  tutto  quello  che  diceva  era  sempre  sensato  e
    opportuno.  Ma,  cosa  strana,  tutti,  comprese  la  visitatrice e la
    contessa,  la guardavano come stupiti che ella avesse parlato  a  quel
    modo e provarono un senso di disagio.
    - Con i primi figliuoli accade sempre così: si vuol farne degli esseri
    fuori del comune  -  disse la visitatrice.
    -  Bisogna  essere  sinceri,  "ma  chère"!  La contessa è stata troppo
    severa con la nostra figliuola maggiore  -  osservò il conte.   - Ma a
    ogni  modo  Vera  è  diventata molto brava!   -  aggiunse,  strizzando
    affettuosamente l'occhio alla figliuola.
    Le visitatrici si alzarono e se ne andarono,  promettendo di ritornare
    per il pranzo.
    - Ah, mio Dio, che visita lunga! Non se ne andavano più...  -  esclamò
    la contessa, dopo aver accompagnato le due ospiti.


    CAPITOLO 10.

    Uscita di corsa dal salotto, Natascia giunse sino alla serra. Quivi si
    fermò  tendendo  l'orecchio alla conversazione che si svolgeva di là e
    aspettando  Borìs.  Già  cominciava  a  rodersi  dall'impazienza,   e,
    pestando  i  piedi,  stava  quasi  per  piangere perché egli tardava a
    uscire,  quando udì i passi di lui non rapidi né lenti,  ma  risoluti.
    Natascia si nascose in fretta e furia dietro a grossi vasi di fiori.
    Borìs si fermò in mezzo alla stanza,  diede un'occhiata, scosse via un
    granello di polvere da una manica  della  divisa  e  si  accostò  allo
    specchio,  osservando il suo bel viso.  Natascia,  dal nascondiglio in
    cui si trovava, guardava attenta a ciò che stava per fare.  Il giovane
    rimase per un momento davanti allo specchio,  sorrise,  poi si diresse
    verso la porta di uscita. La fanciulla fu lì lì per chiamarlo, ma dopo
    aver riflettuto un attimo, si trattenne.
    "Cerchi,  cerchi pure!",  disse tra sé.  Non appena Borìs  fu  uscito,
    dall'altra porta comparve Sònja,  tutta rossa in viso,  mormorando tra
    le lacrime parole di collera.  Natascia frenò il suo primo impulso che
    fu  quello di slanciarsi verso di lei e rimase nel nascondiglio,  come
    sotto un berretto magico che le permetteva di osservare non vista, ciò
    che accadeva nel mondo.  Provava un piacere nuovo  tutto  particolare.
    Sònja, mormorando rapidamente qualcosa, teneva lo sguardo rivolto alla
    porta del salotto; sulla soglia comparve Nikolàj.
    - Sònja!  Che hai?  E' possibile?...  -  disse egli, correndo verso la
    fanciulla.
    - Niente, niente, lasciatemi  -  esclamò Sònja, singhiozzando.
    - No, so di che si tratta...
    - Benissimo; allora, se lo sapete, andate pure da lei!
    - Sò-o-nja!  Lasciami dire una parola.  E' possibile che  ci  dobbiamo
    tormentare  tutti  e due per una cosa immaginaria?   -  disse Nikolàj,
    prendendole una mano.
    Sònja non ritirò la mano e smise di piangere.
    Natascia,  immobile e  quasi  senza  respirare,  osservava  con  occhi
    scintillanti dal suo nascondiglio, pensando: "Che accadrà, ora?".
    -  Sònja!  Non  m'importa nulla della gente!  Tu sola conti per me,  -
    disse Nikolàj  -  e te lo dimostrerò.
    - Non mi piace che tu parli a quel modo!
    - Bene non lo farò più!  Perdonami,  Sònja.   -  E,  attirata a sé  la
    fanciulla, la baciò.
    "Ah,  come  dev'essere  bello!",  pensò  Natascia e,  allorché Sònja e
    Nikolàj uscirono dalla stanza, essa li seguì e chiamò Borìs.
    - Borìs, venite qui!   -  disse con aria furba e significativa.  -  Ho
    bisogno di dirvi una cosa.  Qui,  qui...   -  aggiunse,  e lo condusse
    nella serra,  proprio in mezzo ai vasi dietro ai quali si era nascosta
    prima. Borìs, sorridendo, la seguì.
    - Allora, qual è "questa cosa"?  -  chiese il giovane.
    Ella  si  turbò,  si guardò attorno e,  scorta la sua bambola su di un
    vaso, la prese in braccio.
    - Baciate la bambola, Borìs...
    Borìs guardò con tenerezza il viso animato di Natascia e non rispose.
    - Non volete?  Ebbene,  venite qui!   -  ella disse e,  gettata via la
    bambola,  s'inoltrò  più  profondamente  tra i vasi e i fiori.   - Più
    vicino!  -  sussurrò afferrando l'ufficialetto per i polsini.  Sul suo
    viso,  intensamente rosso,  si leggevano timore e gravità insieme.   -
    Neppure me volete baciare?   -    sussurrò  in  tono  appena  udibile,
    guardando di sottecchi il giovane, sorridendo e quasi piangendo per il
    turbamento.
    Borìs arrossì.
    -  Quanto  siete  strana!    -    esclamò,  chinandosi  verso di lei e
    facendosi sempre più rosso,  incerto  sul  da  farsi  e  rimanendo  in
    attesa.
    Natascia  a un tratto saltò su di una cassa in modo da essere più alta
    di lui,  gli cinse il collo con le braccia esili  e  nude  e,  gettati
    indietro i capelli con un rapido movimento della testa, lo baciò sulla
    bocca.
    Poi,  scivolando tra le piante, raggiunse l'altro lato della stanza e,
    abbassata la testa, si fermò.
    - Natascia...  -  disse Borìs;  -  sapete che io vi amo, ma...
    - Siete innamorato di me?  -  lo interruppe la fanciulla.
    - Sì,  sono innamorato,  ma vi prego non facciamo più ciò che  abbiamo
    fatto ora...  Dobbiamo lasciare passare ancora quattro anni...  Allora
    io chiederò la vostra mano.
    Natascia rifletté.
    - Tredici, quattordici, quindici,  sedici...   -  disse poi,  contando
    sulle dita sottili.  -  Sta bene! Siamo d'accordo, allora?
    E un sorriso di gioia fiduciosa le illuminò il viso.
    - D'accordo!  -  rispose Borìs.
    - Per sempre?  -  chiese la fanciulla.  -  Sino alla morte?
    E, preso Borìs sottobraccio, con il viso illuminato dalla felicità, si
    avviò con lui verso l'attigua camera dei divani.


    CAPITOLO 11.

    La  contessa  si  sentiva  così stanca per le visite che ordinò di non
    ricevere più nessuno e il portiere ebbe solo l'ordine  di  invitare  a
    pranzo tutti coloro che si fossero presentati per fare gli auguri.  La
    contessa voleva parlare a tu per tu con la sua  amica  d'infanzia,  la
    principessa  Anna Michàjlovna,  che aveva appena veduto di sfuggita da
    quando era arrivata a  Pietroburgo.  Anna  Michàjlovna,  con  il  viso
    triste e simpatico, si avvicinò alla poltrona della contessa.
    - Sarò assolutamente sincera con te  -  prese a dire Anna Michàjlovna:
    -    ormai  sono pochi gli amici di un tempo che ci sono rimasti!  Per
    questo mi è tanto cara la tua amicizia!
    Poi  guardò  Vera  e  si  interruppe.  La  contessa  strinse  la  mano
    all'amica.
    -  Vera,  possibile  che  tu  non  capisca e non ti accorga che la tua
    presenza qui è superflua? Va' con le tue sorelle, va'...   -  disse la
    contessa,  rivolgendosi  alla  figliuola maggiore che non pareva molto
    amata.
    La bella Vera ebbe un sorriso sprezzante ed evidentemente non si sentì
    per nulla offesa.
    - Se me lo aveste detto prima,  mamma,  me ne  sarei  già  andata    -
    rispose, e si ritirò nella sua camera.
    Ma,  nell'attraversare  il salottino,  notò che presso ad ognuna delle
    due finestre sedeva una coppia.  Si fermò e un sorriso sdegnoso sfiorò
    le  sue  labbra.  Sònja  era  seduta  accanto  a  Nikolàj che le stava
    ricopiando dei versi: i primi che avesse composto.  Borìs  e  Natascia
    stavano  presso  l'altra  finestra e,  all'entrare di Vera,  tacquero.
    Sònja e Natascia la guardarono con espressione colpevole e felice a un
    tempo.
    Era piacevole e commovente vedere quelle due fanciulle innamorate,  ma
    quella vista non suscitò in Vera alcun sentimento gradevole.
    - Quante volte vi ho pregati  -  disse  -  di non toccare le cose mie?
    -  E prese il calamaio che Nikolàj stava usando.
    - Eccolo, eccolo...  -  rispose questi, intingendo ancora una volta la
    penna.
    -  Non  sapete  mai  fare le cose a tempo opportuno  -  disse Vera.  -
    Poco fa siete entrati  in  salotto  in  modo  che  tutti  se  ne  sono
    vergognati.
    Quantunque  tutto  quello  che  diceva fosse perfettamente giusto  - o
    forse proprio per questo  -  nessuno le rispose,  e tutti e quattro si
    limitarono  a  scambiarsi  un'occhiata.  Vera  si  fermò in mezzo alla
    stanza con il calamaio in mano.
    - E quali segreti potete avere alla vostra età,  tu,  Natascia,  e tu,
    Nikolàj, e voi due, Borìs e Sònja? Stupidaggini!
    -  Ma a te che importa,  Vera?   -  rispose Natascia,  con una vocetta
    dolce e implorante.
    Quel giorno ella era evidentemente più  buona  e  più  affettuosa  del
    solito verso tutti.
    -  Sì,  stupidaggini  -  ripeté Vera  -  e mi vergogno per voi.  Quali
    segreti potete avere?
    - Ognuno ha i propri... Noi ti lasciamo in pace con il tuo Berg...   -
    riprese Natascia, accalorandosi.
    - Credo che non vi dobbiate occupare dei fatti miei,   -  replicò Vera
    -  perché nelle mie azioni non c'è mai nulla da ridire. Ma io riferirò
    alla mamma come ti comporti con Borìs!
    - Natàlija Ilìnisna si comporta verso di me  molto  bene    -    disse
    Borìs.  -  Non posso davvero lagnarmi...
    -  Smettetela,  Borìs...  Siete  un  tal  diplomatico!   -  (La parola
    "diplomatico" veniva  molto  usata  dai  ragazzi  con  il  significato
    particolare che essi solevano darle).
    -  Tutto  questo  è  insopportabile!    -    esclamò Natascia con voce
    tremante nella quale vibrava l'offesa.   -  Perché Vera mi  rimprovera
    così?  Tu, queste cose non le capirai mai,  -  proseguì rivolta a Vera
    -  giacché non hai mai amato nessuno: non hai cuore, tu!  Sei soltanto
    una "madame de Genlis"! (81).  - (Questo soprannome, considerato molto
    offensivo, era stato dato a Vera da Nikolàj).  -  E il tuo piacere più
    grande consiste nel dare fastidio agli altri.  Fa' la civetta con Berg
    quanto ti piace...  -  esclamò con foga.
    - Senza dubbio io,  in presenza di ospiti,  non correrei dietro  a  un
    giovanotto!
    -  Bene,  hai  raggiunto il tuo scopo  -  intervenne Nikolàj;   -  hai
    detto cose spiacevoli a  tutti,  hai  rovinato  tutto!  Andiamo  nella
    camera dei ragazzi!
    Tutti e quattro,  come uno stormo d'uccelli spaventati,  si alzarono e
    uscirono dalla stanza.
    - Mi hanno detto delle cose sgradevoli, mentre io non ho detto nulla a
    nessuno  -  concluse Vera.
    - "Madame de Genlis! Madame de Genlis!"  -  gridarono dietro all'uscio
    delle voci canzonatorie.
    La bella Vera,  che produceva su tutti un effetto  così  spiacevole  e
    irritante, sorrideva e, per nulla turbata da ciò che le avevano detto,
    si  accostò  allo  specchio  e  si  rassettò  la  sciarpa e i capelli.
    Osservando il suo bel volto parve diventare anche  più  fredda  e  più
    calma.

    Nel salotto, intanto, la conversazione continuava.
    - Ah,  "ma chère",  -  diceva la contessa  -  non è tutta rosea la mia
    vita!  Credi che non mi renda conto che,  con il tenore  di  vita  che
    conduciamo,  le nostre ricchezze non potranno durare a lungo?  E tutto
    per causa del club (82)...  E non ci riposiamo neppure quando  viviamo
    in campagna!  Il teatro,  le partite di caccia, e Dio sa che altro! Ma
    perché ti parlo di me?  Dimmi un po' come mai  ti  sei  ridotta  così!
    Spesso  mi meraviglio,  Annette,  che alla tua età tu debba correre da
    sola in carrozza da viaggio a Mosca, a Pietroburgo,  andare da tutti i
    ministri,  da  tutti  i  personaggi  importanti...  e  che tu riesca a
    cavartela con tutti! Non riesco proprio a capire come fai...
    - Ah, amica mia!   -  rispose la principessa Anna Michàjlovna.   - Che
    Iddio ti guardi dal provare quanto sia duro restar vedova, senza mezzi
    e con un figlio per il quale hai una vera adorazione!  -  proseguì con
    un  certo  orgoglio.    -  La necessità insegna.  Quando ho bisogno di
    vedere uno  di  quei  pezzi  grossi,  gli  scrivo  un  biglietto:  "La
    principessa Tale desidera conferire con il Tale..." e mi presento.  Ci
    ritorno due, tre,  anche quattro volte,  sino a quando non ho ottenuto
    ciò che mi occorre. Poco m'importa di ciò che pensano di me!
    -  A chi ti sei rivolta per Bòrenka?   -  chiese la contessa.   -  Tuo
    figlio è già ufficiale della Guardia,  il  mio  Nikoluska  è  soltanto
    allievo.  Non  abbiamo  nessuno  a  cui  raccomandarlo.  A  chi ti sei
    rivolta, tu?
    - Al principe Vassilij. E' stato molto gentile. Ha subito acconsentito
    a inviare una relazione all'imperatore  -   disse  con  entusiasmo  la
    principessa Anna Michàjlovna, dimenticando del tutto l'umiliazione che
    aveva subito per raggiungere il suo scopo.
    -  E'  invecchiato il principe Vassilij?   -  chiese la contessa.  Non
    l'ho riveduto dal tempo degli spettacoli in casa Rumjanzòv.  Credo che
    non  si  ricordi  più  di  me.  Mi faceva la corte...   -  rammentò la
    contessa, con un sorriso.
    - E' tale e quale,   -  rispose Anna Michàjlovna  -  sempre gentile  e
    amabile.  "Les  grandeurs  ne lui ont pas tourné la tête du tout" [83.
    Gli onori non gli hanno dato alla testa.].  "Mi rincresce di non poter
    fare  di  più per voi,  mia cara principessa",  mi ha detto.  "In ogni
    modo,  comandatemi!".  Sì,  è veramente una eccellente  persona  e  un
    ottimo parente.  Ma tu sai, "Nathalie", quanto sia grande il mio amore
    per mio figlio.  Non so che cosa farei per la  sua  felicità.  La  mia
    situazione  è  così  triste,    -    aggiunse Anna Michàjlovna in tono
    afflitto,  triste e a voce più bassa  -  triste al  punto  da  poterla
    definire  terribile.  Il mio disgraziato processo divora tutto ciò che
    possiedo,  senza andare avanti di un passo.  Figurati che non  ho  più
    dieci copechi, "à la lettre", e non so come farò a pagare la divisa di
    Borìs...    -   Tirò fuori il fazzoletto e si mise a piangere.   -  Mi
    occorrono cinquecento rubli e non ho che un biglietto da  venticinque.
    Capirai  che  in una situazione simile...  La mia unica speranza è ora
    riposta nel conte Kirìll Vladimìrovic' Bezuchov.  Se  egli  non  vorrà
    aiutare  il suo figlioccio (è il padrino di Borìs) e fissare una cifra
    per il suo mantenimento,  tutti i miei sforzi saranno  stati  inutili:
    non potrò fornirgli il corredo militare.
    La contessa piangeva e, in silenzio, rifletteva.
    -  Io  mi  chiedo  spesso,    -    riprese  la  principessa   -  forse
    commettendo  un  peccato...  mi  chiedo  spesso:  il  principe  Kirìll
    Vladimìrovic'  vive solo...  è immensamente ricco...  Perché vive?  La
    vita per lui non è più che un  peso  mentre  Borìs  incomincia  appena
    adesso a vivere...
    - Senza dubbio lascerà qualche cosa a Borìs  -  osservò la contessa.
    -  Dio  solo  lo  sa,  "chère  amie"!  Questi  ricconi  sono  talmente
    egoisti...  Ma io andrò da lui con Borìs e gli dirò  francamente  come
    stanno  le  cose.  Pensino e dicano di me ciò che vogliono!  Non me ne
    importa niente, giacché si tratta dell'avvenire di mio figlio.   -  La
    principessa si alzò.   -  Adesso sono le due,  e il pranzo avrà inizio
    alle quattro... Farò in tempo a ritornare.
    E con la disinvoltura di una signora di Pietroburgo molto affaccendata
    e che sa utilizzare bene  il  suo  tempo,  Anna  Michàjlovna  mandò  a
    chiamare il figlio e uscì con lui nell'anticamera.
    -  Addio,  mia cara  -  disse alla contessa che l'accompagnò sino alla
    porta.  -  Prega che io riesca nel mio intento...  -  aggiunse a bassa
    voce, per non essere udita dal figlio.
    - Andate dal principe Kirìll Vladimìrovic', "ma chère"?   -  chiese il
    conte,  uscendo  nell'anticamera dalla sala da pranzo.  Se il principe
    sta meglio, pregate Pierre di venire a pranzo da me.  Egli è già stato
    qui altre volte e ha ballato con le figliuole. Diteglielo senza fallo,
    "ma chère". Ora andrò a vedere che cosa fa Taràss... M'ha detto che in
    casa Orlòv non c'è mai stato un pranzo come il nostro di oggi!


    CAPITOLO 12.

    -  "Mon  cher"  Borìs...   -  disse la principessa Anna Michàjlovna al
    figlio,  allorché la carrozza della contessa Rostòv,  nella  quale  si
    trovavano,  attraversò  la  strada  ricoperta  di paglia (84) ed entrò
    nell'ampio cortile del conte Kirìll Vladimìrovic' Bezuchov.   -   "Mon
    cher" Borìs,   -  ripeté la madre, levando la mano di sotto il vecchio
    mantello e posandola con gesto timido e  affettuoso  sul  braccio  del
    figlio    -  sii gentile e premuroso.  Il conte Kirìll Vladimìrovic' è
    pur  sempre  il  tuo  padrino  e  da  lui  dipende  il  tuo  avvenire.
    Ricordatelo, "mon cher", sii gentile come sai essere...
    -  Se  almeno  sapessi che da tutto questo non verranno fuori soltanto
    umiliazioni...   -  rispose freddamente il figlio.   -  Ma io ve  l'ho
    promesso e lo farò per voi.
    Quantunque  fossero scesi da una carrozza,  il portiere guardò madre e
    figlio  (i  quali,   senza   essersi   fatti   annunziare,   entravano
    direttamente  nel vestibolo a vetri,  tra due file di statue allineate
    nelle loro nicchie) e,  osservato attentamente il vecchio mantello  di
    Anna  Michàjlovna,  chiese  loro  se desiderassero la principessa o il
    conte e, saputo che volevano parlare con il conte,  li informò che sua
    eccellenza stava peggio e che non riceveva nessuno.
    - Allora possiamo andarcene  -  disse il figlio in francese.
    -  "Mon  ami"  -  rispose la madre con voce supplichevole,  posando di
    nuovo la mano sul braccio  del  figliuolo,  come  se  con  quel  gesto
    potesse calmarlo o eccitarlo.
    Borìs tacque e, senza togliersi il cappotto, fissò la madre.
    -  Senti,    -  disse Anna Michàjlovna in tono dolce,  rivolgendosi al
    portiere  -  io so che il conte Kirill Vladimìrovic' sta molto male...
    e sono venuta proprio per questo. Sono una sua parente...  e certo non
    lo  disturberò.  Ho  soltanto  bisogno  di vedere il principe Vassilij
    Sergéevic': egli è qui. Annunziami, ti prego.
    Il portiere, con aria cupa, tirò il cordone del campanello che dava al
    piano superiore e voltò le spalle.
    - La principessa Drubetzkaja per il principe Vassilij Sergéevic'!    -
    gridò  al  domestico  in marsina che accorreva,  sporgendosi dall'alto
    della scala.
    La madre si rassettò il più possibile le pieghe  alla  veste  tinta  e
    ritinta,  si guardò nello specchio di Venezia applicato alla parete e,
    trascinando coraggiosamente le sue scarpe scalcagnate,  si avviò verso
    il piano superiore salendo la scala ricoperta da un tappeto.
    -  "Mon  cher",  mi  hai  promesso...    -    disse rivolta al figlio,
    toccandogli di nuovo il braccio.
    Borìs, ad occhi bassi, la seguì docilmente.
    Entrarono   in   una   sala   di   dove   si   accedeva   direttamente
    nell'appartamento del principe Vassilij.
    Mentre  madre  e figlio,  fermi in mezzo alla sala,  si accingevano ad
    interrogare un vecchio domestico che al loro ingresso si era alzato da
    uno sgabello, si mosse la maniglia di bronzo di una delle porte,  e il
    principe  Vassilij  in  giacca  di  velluto  da  casa,  con  una  sola
    decorazione,  uscì,  accompagnando un bell'uomo dai capelli neri.  Era
    questi Lorrain, il famoso medico di Pietroburgo.
    - "C'est donc positif?"  -  gli domandò il principe.
    -  "Mon prince,  errare humanum est..." ma...   -  rispose il dottore,
    pronunziando garbatamente alla francese le parole latine.
    - "C'est bien, c'est bien"...
    Vedendo Anna Michàjlovna con il figlio,  il principe  Vassilij  salutò
    con un inchino il dottore e in silenzio, ma con aria interrogativa, si
    avvicinò a loro. Borìs notò che ad un tratto un'espressione di intenso
    dolore  era  apparsa  negli  occhi di sua madre e un lieve sorriso gli
    sfiorò le labbra.
    - Ah, principe,  in quale triste circostanza ci dobbiamo incontrare...
    Come  sta  il  nostro  caro  ammalato?    -    chiese,  come se non si
    accorgesse dello sguardo freddo, quasi offensivo, puntato su di lei.
    Lo stesso sguardo interrogativo e perplesso  passò  da  lei  a  Borìs.
    Questi si inchinò cortesemente. Il principe Vassilij, senza ricambiare
    il saluto, si volse di nuovo verso Anna Michàjlovna. E alle domande di
    lei  rispose  con  un  movimento  del  capo  e delle labbra che voleva
    significare quanto scarse fossero ormai le speranze per l'ammalato.
    - Davvero?   -  esclamò Anna Michàjlovna.   -   Ah,  è  terribile!  E'
    terribile pensare... Ecco mio figlio  -  aggiunse, indicando Borìs:  -
    egli è venuto per ringraziarvi personalmente.
    Ancora una volta Borìs fece un cortese inchino.
    -  Credete,  principe,  il mio cuore di madre non dimenticherà mai ciò
    che avete fatto per noi.
    - Sono lieto di aver potuto esservi utile.  mia cara Anna  Michàjlovna
    -  disse il principe Vassilij,  accomodandosi il colletto della giacca
    e facendo capire con i gesti e con la  voce  alla  sua  protetta  Anna
    Michàjlovna  che lì,  a Mosca,  la sua importanza era molto più grande
    che non a Pietroburgo.   -  Cercate di fare  il  vostro  dovere  e  di
    essere  degno  di  quanto è stato fatto per voi  -  ammonì,  rivolto a
    Borìs.  -  Sono contento... Siete qui in licenza?   -  domandò poi con
    il suo tono distaccato.
    -   Aspetto   l'ordine,   eccellenza,   per  recarmi  alla  mia  nuova
    destinazione  -  rispose Borìs,  senza mostrarsi seccato dal  tono  un
    po'  brusco del principe e senza dimostrare il desiderio di continuare
    la conversazione.  A  quelle  parole,  pronunziate  in  tono  calmo  e
    indifferente, il principe lo guardò fissamente.
    - Vivete con vostra madre?
    - Qui abito in casa della contessa Rostòv  -  rispose Borìs, ripetendo
    ancora "eccellenza".
    -  In  casa  di  quell'Iljà Rostòv che ha sposato Nathalie Scìnscina -
    spiegò Anna Michàjlovna.
    - Lo so,  lo so!   -  rispose il principe Vassilij  con  la  sua  voce
    monotona.    -    "Je  n'ai jamais pu concevoir comment Nathalie s'est
    décidée à épouser cet  ours  mal  léché!  Un  personnage  complètement
    stupide  et  ridicule.  Et joueur,  à ce qu'on dit" [85.  Non sono mai
    riuscito a capire come mai Nathalie si sia decisa a sposare quell'orso
    grossolano,  un essere assolutamente stupido e ridicolo.  E,  a quanto
    pare, è anche un giocatore].
    - Ma è una brava persona,  principe!  -  osservò Anna Michàjlovna, con
    un sorriso commosso,  come per dire che sapeva  benissimo  che  Rostòv
    meritava quell'opinione,  ma che pregava di essere indulgente verso il
    povero vecchio.  -  Che cosa dicono i medici?  -  chiese dopo un breve
    silenzio,  mentre il suo viso sciupato esprimeva di nuovo una profonda
    tristezza.
    - Poche speranze  -  rispose il principe.
    -  Avrei  tanto  desiderato  ringraziare  ancora una volta mio zio per
    tutto il bene che ha fatto a me e a Borìs.  E' il suo figlioccio!    -
    aggiunse  con  un  tono  particolare,  come  se quella notizia dovesse
    rallegrare chi sa quanto il principe Vassilij.
    Il principe Vassilij si fece pensieroso e  aggrottò  la  fronte.  Anna
    Michàjlovna  capì  che  egli  temeva  di trovare in lei una rivale per
    quanto si riferiva al testamento del conte Bezuchov.  E si affrettò  a
    tranquillizzarlo.
    - Se non fosse per il mio vero affetto e la mia profonda devozione per
    lo  zio...    -    ella disse,  pronunziando queste parole con accento
    convinto e insieme noncurante.   -  Conosco il suo  carattere  nobile,
    retto...  ma  se le principessine restano sole con lui...  sono ancora
    così giovani...   -  Chinò la testa e aggiunse a voce bassa:   -    Ha
    compiuto  gli  estremi doveri,  principe?  Quanto sono preziosi questi
    ultimi momenti! Certo, se sta così male, bisognerebbe prepararlo.  Noi
    donne, principe,  -  disse, sorridendo teneramente  -  sappiamo sempre
    come dire queste cose. E' necessario che io gli parli... Che tristezza
    per me vederlo così malato!... Ma io sono abituata a soffrire.
    Il  principe  capì,  come aveva già capito sin dalla serata in casa di
    Anna Pàvlovna, che era difficile liberarsi da Anna Michàjlovna.
    - Non credete che questa vostra visita possa essergli penosa,  "chère"
    Anna Michàjlovna?   -  le chiese.  -  Aspettiamo sino a sera: i medici
    temono una crisi.
    - Ma in momenti simili, principe, non si può aspettare! "Pensez,  il y
    va  du  salut  de  son  âme...  Ah,  c'est terrible,  les devoirs d'un
    chrétien"... [86.  Pensate,  si tratta della salvezza della sua anima!
    Ah, quale tremenda responsabilità il dovere di un cristiano!]
    Una delle porte che conducevano alle stanze interne si aprì e comparve
    una delle principesse, nipoti del conte: aveva il viso cupo e freddo e
    il busto troppo lungo in proporzione alle gambe.
    Il principe Vassilij si volse verso di lei.
    - Come va?
    - Sempre lo stesso... E questo rumore...  -  soggiunse, guardando Anna
    Michàjlovna come una sconosciuta.
    -  "Ah,  chère,  je  ne  vous  reconnaissais  pas"    -    disse  Anna
    Michàjlovna,  sorridendo lietamente e avvicinandosi con passo  leggero
    alla nipote del conte.   -  "Je viens d'arriver et je suis à vous pour
    vous aider à soigner mon oncle. J'imagine, combien vous avez souffert!
    [87. Ah, mia cara,  non vi avevo riconosciuta.  Sono arrivata or ora e
    mi  metto  a  vostra disposizione per curare mio zio.  Immagino quanto
    abbiate sofferto!]  -   aggiunse,  alzando al cielo gli occhi pieni di
    compassione.
    La  principessa non rispose,  non sorrise neppure e uscì subito.  Anna
    Michàjlovna si levò i guanti e con aria vittoriosa si accomodò in  una
    poltrona, invitando il principe Vassilij a sederlesi accanto.
    - Borìs!   -  disse a suo figlio,  sorridendo.   -  Io andrò dal conte
    mio zio, e tu, caro, va' da Pierre e non dimenticarti di trasmettergli
    l'invito dei Rostòv. I Rostòv lo vogliono a pranzo,  ma penso che egli
    non ci andrà...  -  soggiunse, rivolgendosi al principe.
    -  Al  contrario    -   rispose il principe,  divenuto visibilmente di
    pessimo umore;   -  "je serais très content si vous me débarrassez  de
    ce  jeune  homme..."  [88.  Sarei  lietissimo  se mi liberaste da quel
    giovanotto].  Egli è qui,  infatti.  Il conte non ha  chiesto  di  lui
    neppure una volta.
    E alzò le spalle.  Il domestico accompagnò Borìs al pianterreno e qui,
    salendo un'altra  scala,  lo  guidò  nelle  stanze  occupate  da  Pëtr
    Kirìllovic'.


    CAPITOLO 13.

    Pierre   non  aveva  fatto  in  tempo  a  scegliersi  una  carriera  a
    Pietroburgo,   ed  effettivamente  era  stato  espulso  per   la   sua
    scapestrataggine.  La  storia  narrata  in  casa della contessa Rostòv
    corrispondeva al  vero:  Pierre  aveva  partecipato  all'atroce  burla
    giocata  al poliziotto legato all'orso.  Era giunto a Mosca da qualche
    giorno e,  come sempre,  si era stabilito in casa del  padre.  Sebbene
    immaginasse  che  la  storia  fosse  nota  a  Mosca e che le donne che
    circondavano suo padre,  sempre malevolo nei suoi confronti,  avessero
    approfittato  di  quella  occasione  per  suscitare  l'irritazione del
    conte,  tuttavia il giorno stesso dell'arrivo entrò  nell'appartamento
    del padre.  Passando nel salotto, salutò le principesse che, sedute al
    telaio,  lavoravano e ascoltavano una di esse che leggeva ad alta voce
    un libro.  Erano tre.  La maggiore,  dall'aspetto illibato, dalla vita
    lunga e dall'espressione severa  -  quella stessa venuta  incontro  ad
    Anna Michàjlovna  -  stava leggendo;  le altre due fresche e graziose,
    che si distinguevano tra di loro soltanto da un neo che una  aveva  al
    di  sopra  della  bocca e che l'abbelliva molto,  stavano ricamando al
    telaio. Pierre fu accolto come un morto o un appestato. La principessa
    più anziana interruppe la lettura e lo  fissò  in  silenzio,  con  gli
    occhi spaventati;  la seconda, quella che non aveva il neo, assunse la
    stessa espressione,  la minore,  quella  con  il  neo,  dal  carattere
    allegro  e ridanciano,  si chinò sul telaio per nascondere il sorriso,
    rallegrata probabilmente dalla scena divertente che sarebbe  avvenuta.
    Tirò  a  sé  il  filo  di  lana e si chinò come se volesse studiare il
    disegno, trattenendosi a stento dal ridere.
    - Buon giorno, cugina!  -  disse Pierre.  -  Non mi riconoscete ?
    - Vi riconosco benissimo, anche troppo...
      -   Come sta il conte?  Potrei vederlo?   -  chiese Pierre,  un  po'
    goffamente come sempre, ma senza confondersi.
    - Il conte soffre fisicamente e moralmente, e pare che voi vi diate da
    fare per procurargli la maggior quantità possibile di dispiaceri!
    - Posso vedere il conte?  -  insisté Pierre.
    -  Eh...  se volete ucciderlo,  ucciderlo del tutto,  potete andare da
    lui.  Olga,  va' a vedere se il brodo per lo zio è pronto;  tra poco è
    ora che lo prenda...   -  aggiunse, facendo così intendere che esse si
    occupavano di curare il padre  di  lui,  mentre  egli,  evidentemente,
    pensava soltanto a procurargli dispiaceri e turbamento.
    Olga uscì.  Pierre,  in piedi,  guardò le sorelle e,  dopo un inchino,
    disse:
    - Ritornerò nelle mie  stanze.  Quando  potrò  vederlo  me  lo  farete
    sapere.
    Uscì  e  una  risata  argentina,  non  trattenuta,  della minore delle
    sorelle, risonò alle sue spalle.
    Il giorno seguente arrivò il principe Vassilij che si stabilì in  casa
    del conte. Mandò a chiamare Pierre e gli disse:
    -  "Mon  cher,  si  vous  vous  conduisez ici comme à Pétersbourg vous
    finirez très mal; c'est tout ce que je vous dis [89.  Mio caro,  se vi
    comporterete  qui  come  a  Pietroburgo,  finirete  male.  Non vi dico
    altro].  Il conte  è  molto,  molto  malato:  non  devi  assolutamente
    vederlo.
    Da  allora  nessuno più si era occupato di Pierre,  che trascorreva da
    solo tutto il giorno nella sua camera.
    Quando Borìs entrò, Pierre andava su e giù per le stanze fermandosi di
    tanto in tanto in un angolo e facendo un  gesto  minaccioso  verso  le
    pareti  come  se volesse trafiggere con la spada un invisibile nemico;
    poi  guardava  severamente  di  sopra  le  lenti   e   riprendeva   la
    passeggiata,   pronunziando  parole  confuse,   alzando  le  spalle  e
    allargando le braccia.
    - "L'Angleterre a vécu"  -    disse,  aggrottando  le  sopracciglia  e
    tendendo l'indice come per indicare qualcuno.   -  "M. Pitt (90) comme
    traître à la nation et au droit des  gens,  est  condamné  à..."  [91.
    L'Inghilterra è finita! Il signor Pitt, come traditore della nazione e
    del diritto delle genti,  è condannato a...].   -  Non fece in tempo a
    completare la sua sentenza contro Pitt,  credendo in quel  momento  di
    essere  Napoleone  in  persona  e  di avere,  insieme con il suo eroe,
    compiuto la pericolosa traversata  della  Manica  e  assalito  Londra,
    quando  vide sulla soglia della camera un giovane ufficiale,  bello ed
    elegante.   Si  fermò.   Pierre   aveva   lasciato   Borìs   fanciullo
    quattordicenne e non lo ricordava assolutamente più;  tuttavia, con la
    spontaneità che gli era propria, e con la consueta cortesia, gli porse
    la mano e gli sorrise amichevolmente.
    - Vi ricordate di me?    -    domandò  tranquillamente  Borìs  con  un
    simpatico  sorriso.    -    Sono venuto con la mamma dal conte che,  a
    quanto pare, sta tutt'altro che bene.
    - Già,  pare che stia male davvero.  E lo disturbano  continuamente  -
    rispose   Pierre,   cercando  di  ricordare  chi  fosse  quel  giovane
    ufficiale.
    Borìs capì che Pierre non lo riconosceva,  ma non  ritenne  necessario
    presentarsi  e,  senza provare il minimo imbarazzo,  lo guardò diritto
    negli occhi.
    - Il conte Rostòv vi prega di favorire oggi a pranzo  in  casa  sua  -
    disse dopo un silenzio abbastanza lungo e imbarazzante per Pierre.
    - Ah! Il conte Rostòv!  -  esclamò gioiosamente Pierre.  -  Allora voi
    siete il suo figliuolo Iljà?  Al primo momento,  figuratevi, non vi ho
    riconosciuto!  Vi ricordate che  andammo  con  "madame"  Jacquot  alle
    Colline dei Passeri? Ma tanto tempo fa...
    -  Vi  sbagliate    -    disse  lentamente  Borìs  con un allegro e un
    canzonatorio sorriso.   -  Io sono Borìs,  il figlio della principessa
    Anna Michàjlovna Drubetzkaja. E' il vecchio Rostòv che si chiama Iljà,
    suo figlio è Nikolàj, e io non conosco alcuna signora Jacquot.
    Pierre  agitò  le  mani  e  scosse  la testa come se delle api o delle
    zanzare gli ronzassero attorno.
    - Ah,  mio Dio!  Che confusione ho fatto!  A Mosca ho tanti parenti...
    Voi siete Borìs... sì! Finalmente ci siamo capiti! Be', che ne pensate
    della  spedizione  di  Boulogne  (92)?  Se  la  vedrebbero  brutta gli
    Inglesi,  se Napoleone  attraversasse  il  canale?  Io  penso  che  la
    spedizione  sia  possibilissima,  purché  Villeneuve  (93)  non faccia
    qualche passo falso!
    Borìs non sapeva nulla della spedizione di  Boulogne,  non  leggeva  i
    giornali e il nome di Villeneuve lo sentiva allora per la prima volta.
    -  Qui  a  Mosca  ci  occupiamo di pranzi e di pettegolezzi più che di
    politica  -  rispose con il suo tono calmo e un po' canzonatorio.    -
    Di  tutto  quanto  dite  non so nulla e non me ne interesso.  Mosca si
    occupa specialmente di pettegolezzi  -  ripeté.-  Ora non si parla che
    di voi e del conte...
    Pierre sorrise bonariamente,  come se temesse che il suo interlocutore
    stesse  per  dire  qualcosa di cui dovesse pentirsi.  Ma Borìs parlava
    chiaramente, con decisione, guardando Pierre diritto negli occhi.
    - A Mosca non si fanno che pettegolezzi  -  proseguì.   -    Ora  sono
    tutti  curiosi di sapere a chi il conte lascerà l'eredità anche se c'è
    la possibilità che egli sopravviva a tutti noi,  il che gli auguro  di
    vero cuore...
    -  Sì,  ed  è una cosa triste,  molto triste  -  lo interruppe Pierre.
    Egli temeva sempre  che  quel  giovane  ufficiale  intavolasse,  senza
    volerlo, un discorso imbarazzante per lui.
    E potete immaginare,   -  disse Borìs, arrossendo leggermente ma senza
    mutare né voce né posizione    -    potete  immaginare  che  tutti  si
    occupano  di questa eredità perché sperano di potere avere qualcosa di
    tanta ricchezza.
    "E' proprio così", pensò Pierre.
    - E io voglio precisamente dirvi, per evitare qualsiasi malinteso, che
    vi sbagliereste di grosso se contaste tra costoro anche  mia  madre  e
    me. Noi siamo molto poveri ma, proprio perché vostro padre è ricco, io
    non  mi considero suo parente,  e né io,  né mia madre chiederemmo mai
    nulla e nulla accetteremmo da lui.
    Pierre tardò alquanto a capire, ma, allorché ebbe compreso,  balzò dal
    divano,  afferrò  la mano di Borìs con la sua consueta veemenza un po'
    goffa e,  arrossendo  più  di  Borìs  stesso,  prese  a  dire  con  un
    sentimento di vergogna e di dispetto:
    - Ecco... è strano! Forse che io... Ma chi poteva pensare che... Io so
    benis...
    Ma Borìs di nuovo lo interruppe:
    -  Sono  contento  di  aver  detto tutto.  Forse le mie parole vi sono
    spiaciute, ma scusatemi!  -  disse,  tranquillizzando Pierre invece di
    essere tranquillizzato da lui;   -  ma spero di non avervi offeso.  Ho
    l'abitudine di dire le  cose  chiaramente...  Dunque,  che  cosa  devo
    riferire? Verrete a pranzo dai Rostòv?
    E  Borìs,  evidentemente  soddisfatto di essersi liberato da un noioso
    dovere e di essere uscito da una situazione penosa  diventò  di  nuovo
    affabilissimo.
    -  Sentite,    -    rispose  Pierre,  rassicurandosi  -  siete un uomo
    sorprendente!   Ciò  che  avete  detto  ora  è  molto,   molto  bello.
    Naturalmente,  voi non mi conoscete. E' passato tanto tempo dacché non
    ci siamo più veduti: eravamo ancora ragazzi... cosicché ora voi potete
    supporre in me... Vi capisco, vi capisco molto bene.  Non farò questo,
    mi  mancherebbe  il  coraggio  di  farlo,  ma  è  molto bello.  E sono
    felicissimo di aver rinnovato la  nostra  conoscenza.  E'  strano    -
    aggiunse dopo una pausa,  sorridendo  -  che voi supponiate certe cose
    da parte mia!  -  E si mise a ridere.  -  Bene, ci conosceremo meglio,
    vero?   -  E strinse la mano a Borìs.   -  Sapete che non sono entrato
    neppure  una  volta  nella  stanza  del  conte?  Egli  non mi ha fatto
    chiamare... Mi fa pena... ma che farci?
    - E voi pensate che Napoleone riuscirà a  far  passare  l'esercito?  -
    chiese Borìs, sorridendo.
    Pierre   capì  che  Borìs  voleva  cambiare  discorso  e,   pienamente
    d'accordo, cominciò a spiegare le difficoltà e i vantaggi dell'impresa
    di Boulogne.
    Un domestico venne a chiamare Borìs da parte della  principessa.  Ella
    se  ne  andava.  Pierre  promise  di  recarsi  a pranzo dai Rostòv per
    incontrarsi  con  Borìs,  gli  strinse  forte  la  mano  e  lo  guardò
    affettuosamente negli occhi, di sotto alle lenti.
    Uscito  il  giovane ufficiale,  Pierre passeggiò ancora a lungo per la
    stanza,   ma  ora  non  minacciava  più   con   un'inesistente   spada
    l'invisibile  nemico,  ma sorrideva ripensando a quel giovane gentile,
    intelligente e risoluto.
    Come accade sempre nella prima giovinezza,  e specialmente  quando  si
    vive  in solitudine,  egli sentiva una inspiegabile tenerezza per quel
    giovane e si ripromise di stringere amicizia con lui.
    Il principe Vassilij accompagnò la  principessa:  essa  si  teneva  il
    fazzoletto sugli occhi e aveva il viso coperto di lacrime.
    - E' terribile,  terribile!   -  diceva.  -  Ma a qualsiasi costo farò
    il mio dovere.  Verrò  questa  notte  a  vegliarlo.  Non  è  possibile
    lasciarlo così. Ogni minuto è prezioso. Non capisco che cosa aspettino
    le  principesse.  Forse  Iddio  mi  aiuterà  a  trovare  il  modo  per
    prepararlo... "Adieu,  mon prince,  que le bon Dieu vous soutienne"...
    [94. Addio, principe! Che il Signore vi dia forza...].
    - Addio, amica mia  -  rispose il principe Vassilij, allontanandosi.
    - Ah,  egli è in una condizione terribile!  -  disse la madre a Borìs,
    non appena si furono seduti in carrozza.    -    Non  riconosce  quasi
    nessuno...
    - Non capisco, mamma, in quali rapporti egli sia con Pierre  -  chiese
    Borìs.
    - Dirà tutto il testamento,  mio caro; da esso dipende anche il nostro
    destino...
    - Ma perché pensate che possa lasciarci qualche cosa?
    - Ah, mio caro! Lui è tanto ricco, e noi siamo così poveri!
    - Questa, mamma, non è ancora una ragione sufficiente!
    - Ah, mio Dio... mio Dio! Come sta male!  -  ripeté la principessa.


    CAPITOLO 14.

    Quando Anna Michàjlovna uscì per recarsi con il  figlio  in  casa  del
    conte Kirìll Vladimìrovic' Bezuchov,  la contessa Rostòv rimase sola a
    lungo,  con  il  fazzoletto  premuto  sugli  occhi.   Infine  sonò  il
    campanello.
    -  Mia  cara,    -   disse in tono irritato alla cameriera che l'aveva
    fatta aspettare qualche minuto   -    non  vuoi  più  restare  al  mio
    servizio? Ti troverò un altro posto...
    La contessa era turbata per il dolore e la povertà umiliante della sua
    amica  e  perciò  di  pessimo  umore,  tanto  che  diceva  "cara" alla
    cameriera e le dava del "tu".
    - Scusatemi  -  disse la domestica.
    - Prega il conte di venire da me.
    Il conte, con la sua andatura dondolante,  si avvicinò alla moglie con
    l'aria un po' colpevole, come sempre.
    - Ah, contessa! Avremo uno squisito "sauté au Madère" di pernici. L'ho
    assaggiato. Non per niente ho pagato mille rubli per Taraska. Li vale!
    Si  mise  a  sedere  accanto  alla  moglie  e,  con  i  gomiti puntati
    baldanzosamente sulle ginocchia,  prese a  lisciarsi  i  radi  capelli
    grigi.
    - Che cosa desiderate, contessa?
    -  Ecco,  amico  mio...  Ma  che  cos'è  questa  macchia?   -  chiese,
    accennando al panciotto del marito.   -   Forse  un  po'  di  sugo  al
    "sauté"...    -  aggiunse sorridendo.   -  Ecco che cosa volevo dirvi,
    conte: mi occorre del denaro.  -  E il suo viso assunse un'espressione
    triste.
    - Ah, contessa!   -  esclamò il conte,  e si affrettò a tirar fuori il
    portafoglio.
    - Ho bisogno di una somma un po' alta, conte; mi occorrono cinquecento
    rubli!   -  E,  con il suo fazzolettino di batista cercò di smacchiare
    il panciotto del marito.
    - Subito,  subito...  Ehi,  chi c'è di là?   -   chiamò  con  il  tono
    dell'uomo   sicuro   che   qualcuno  sarebbe  immediatamente  accorso.
    Mandatemi Mìtenka!
    Mìtenka,  quel figlio di famiglia nobile,  educato in casa del conte e
    che  ora  si  occupava di tutti i suoi affari,  entrò lentamente nella
    stanza.
    - Senti,  mio caro,   -  disse il conte al giovane che  si  avvicinava
    rispettosamente  -  portami...   -  e rimase un momento pensieroso;  -
    sì,  portami settecento  rubli.  Ma  bada,  eh,  che  non  voglio  dei
    biglietti  sudici  e sgualciti come mi hai portato l'altro giorno.  Li
    voglio in buono stato: sono per la contessa.
    - Sì, Mìtenka...  vi prego che siano puliti  -  aggiunse ella,  con un
    triste sospiro.
    -  Per  quando  mi  ordinate  di  portarveli,  eccellenza?   -  chiese
    Mìtenka.   -  Favorite rendervi conto che...  Ma  in  ogni  modo...  -
    aggiunse  subito,  accorgendosi  che il conte incominciava a respirare
    forte e con frequenza,  il che era presagio di  un  vicino  scatto  di
    collera.  -  Non ricordavo che... Devo portarvi subito la somma?
    - Sì,  sì... portala subito e consegnala alla contessa. Quel Mìtenka è
    proprio un ragazzo d'oro!  -  aggiunse sorridendo, allorché il giovane
    fu uscito.   -  Non c'è nulla di impossibile per lui!  Io non sopporto
    il  pensiero  che  ci  sia qualcosa che non si possa fare.  Tutto deve
    essere possibile, tutto!
    - Ah, conte! Il denaro... il denaro... Quanto dolore in questo mondo a
    causa del denaro! E questa somma mi è molto necessaria.
    - Voi, contessa,  lo sanno tutti,  siete piuttosto prodiga  -  osservò
    il  conte  e,  dopo  aver  baciato la mano alla moglie,  tornò nel suo
    studio.
    Quando Anna Michàjlovna fu di  ritorno  dalla  casa  di  Bezuchov,  la
    contessa  aveva  già  il  denaro sul suo tavolino,  tutto in biglietti
    nuovi,  nascosti sotto il fazzoletto,  e  Anna  Michàjlovna  notò  che
    l'amica appariva turbata per qualche motivo.
    - Dunque, mia cara, come va il conte?  -  chiese la contessa.
    -  Ah,  in che stato!  E' in tali condizioni che non si riconosce più.
    Sono rimasta con lui un momento e  non  sono  riuscita  a  dirgli  due
    parole...
    - "Annette",  in nome di Dio,  non rifiutate!  -  esclamò ad un tratto
    la contessa, arrossendo,  il che faceva una strana impressione su quel
    viso non più giovane,  magro e serio, tirando fuori il denaro di sotto
    il fazzoletto.
    Anna Michàjlovna comprese in un attimo  di  che  cosa  si  trattava  e
    cominciò a chinarsi per abbracciare la contessa al momento giusto.
    - Per Borìs, a mio nome, per la sua divisa...
    Anna  Michàjlovna  la baciava e piangeva,  e con lei piangeva anche la
    contessa.  Piangevano perché erano amiche,  perché si sentivano buone,
    perché erano costrette a occuparsi di una banale questione di denaro e
    perché  la  giovinezza  era ormai passata...  Ma le loro lacrime erano
    dolci...


    CAPITOLO 15.

    La contessa Rostòv era in salotto  con  le  figliuole  e  un  numeroso
    gruppo di invitati.  Il conte condusse gli uomini nello studio per far
    loro ammirare la sua pregiata collezione di pipe turche.  Di tanto  in
    tanto  egli  usciva e domandava: "Non è ancora venuta?".  Si aspettava
    Màrija  Dmìtrevna  Achrosìmova,  detta,   in  società:  "il  terribile
    dragone",  una  signora  nota  non  già  per la sua ricchezza o i suoi
    titoli, ma per la sua grande rettitudine e il semplice, franco modo di
    comportarsi. La famiglia imperiale la conosceva,  la conoscevano tutta
    Mosca e tutta Pietroburgo,  ed entrambe le città,  pur ammirandola, la
    canzonavano un po' per la sua rudezza e raccontavano numerosi aneddoti
    sul suo conto. Nonostante ciò, tutti, senza eccezione, la rispettavano
    e la temevano.
    Nello studio, pieno di fumo, si parlava della guerra, annunziata da un
    manifesto (95), e del reclutamento.  Questo manifesto nessuno lo aveva
    ancora letto,  ma tutti sapevano che era apparso.  Il conte era seduto
    sul divano,  tra due fumatori che discorrevano tra di loro.  Egli  non
    fumava  e  non  parlava e,  piegando il capo ora verso l'uno ora verso
    l'altro,  con evidente piacere guardava  i  fumatori  e  ascoltava  la
    conversazione che era iniziata tra i due.
    Uno degli interlocutori era un signore dal viso bilioso, magro, rasato
    e  coperto  di  rughe,  un  uomo  già  prossimo alla vecchiaia sebbene
    vestito da giovane,  all'ultima moda;  con le gambe stese sul divano e
    l'aria di un ospite molto familiare, con il bocchino d'ambra affondato
    nella bocca, cacciava fuori il fumo con forza e socchiudeva gli occhi.
    Era un vecchio scapolo,  Scinscin,  cugino della contessa, una "lingua
    malefica",  come si diceva di lui nei salotti  di  Mosca.  Pareva  che
    parlasse  con indulgente degnazione al suo interlocutore.  Questi,  un
    fresco,  roseo ufficiale della Guardia,  di una lindezza  impeccabile,
    abbottonato  e accuratamente pettinato,  teneva il bocchino d'ambra in
    mezzo alla bocca,  e con le rosee labbra aspirava leggermente il fumo,
    lasciandolo  poi  uscire  in  piccoli  cerchi.  Era  il  tenente Berg,
    ufficiale del reggimento Semënovskij,  con il quale  Borìs  stava  per
    partire;  a  proposito  di  lui,  Natascia soleva tormentare Vera,  la
    maggiore delle sorelle,  dicendole che Berg era il suo  fidanzato.  Il
    conte,  seduto tra i due,  li ascoltava attentamente. La più piacevole
    occupazione,  dopo il giuoco del "boston" che lo divertiva moltissimo,
    era  per  il conte stare ad ascoltare una conversazione,  specialmente
    quando fosse riuscito a iniziarne una tra due persone molto loquaci.
    - Dunque,  caro e degno Alfons Karlyc',   -  diceva Scinscin  in  tono
    canzonatorio  e  accostando (era questa una particolarità del suo modo
    di parlare) le più semplici frasi russe alle più ricercate espressioni
    francesi  -  "vous comptez vous faire des rentes sur l'Etat" [96. Fate
    conto di farvi delle rendite sullo stato] con la vostra compagnia?
    -  No,  Pëtr  Nikolàevic',  desidero  soltanto  dimostrare  che  nella
    cavalleria  si  hanno  vantaggi  molto  minori che non nella fanteria.
    Ascoltate ora qual è la mia situazione.
    Berg parlava con molta precisione,  con calma e con cortesia.  La  sua
    conversazione  riguardava  sempre  e  soltanto  se  stesso;  quando si
    discorreva di qualcosa che non avesse con lui rapporti diretti, taceva
    tranquillamente;  e quel suo silenzio poteva durare anche per  qualche
    ora,  senza  che  egli provasse o facesse provare agli altri il minimo
    imbarazzo.  Ma non appena il discorso si riferiva a lui personalmente,
    diventava  immediatamente  loquace  e  prolisso e parlava con visibile
    piacere.
    - Figuratevi dunque la mia condizione,  Pëtr Nikolàevic': se fossi  in
    cavalleria, non riceverei più di duecento rubli in quattro mesi, anche
    con il grado di tenente; ora ne ricevo invece duecentotrenta  -  disse
    con  un  sorriso  gioioso e simpatico,  guardando Scinscin e il conte,
    come se fosse evidente che il suo successo dovesse costituire  la  più
    grande  aspirazione  degli  altri.    -    Inoltre,  Pëtr Nikolàevic',
    passando nella Guardia,  io mi metto "in vista"  -  riprese Berg  -  e
    nella  fanteria  della Guardia le licenze sono molto più frequenti.  E
    poi,  ditemi,  come potrei cavarmela con duecento rubli?  Faccio anche
    dei  risparmi  e  mando  un po di denaro a mio padre...   -  continuò,
    lanciando in aria un cerchietto di fumo.
    - Il bilancio è fatto... Il tedesco batte il grano con il manico della
    scure, come dice il proverbio  -  osservò Scinscin, facendo passare il
    bocchino d'ambra all'altro lato della bocca e strizzando  l'occhio  al
    conte.
    Il conte scoppiò in una bella risata.  Gli altri invitati, vedendo che
    Scinscin guidava la  conversazione,  si  avvicinarono  per  ascoltare.
    Berg, senza accorgersi né del tono canzonatorio, né dell'indifferenza,
    continuava  a  spiegare  come,  passando  nella  Guardia,  avesse  già
    superato di un grado i suoi colleghi di corso e come, dato che durante
    il conflitto poteva cadere  qualche  comandante  di  compagnia,  egli,
    rimanendo  il  più  anziano,  potesse facilmente diventare comandante.
    Diceva inoltre che nel reggimento era benvoluto da  tutti  e  che  suo
    padre era soddisfatto di lui.  Berg godeva visibilmente nel dire tutto
    questo,  senza neppure sospettare che altre persone avessero interessi
    propri.  Ma  tutto ciò che egli diceva era così garbatamente serio,  e
    l'ingenuità del suo giovanile egoismo appariva così evidente,  che gli
    ascoltatori si sentivano disarmati.
    -  Insomma,  mio caro,  sia nella fanteria sia nella cavalleria farete
    una buona carriera,  ve lo predìco io  -  disse Scinscin,  battendogli
    su una spalla e tirando giù le gambe dal divano.
    Berg ebbe un sorriso gioioso. Il conte, seguito dagli ospiti, passò in
    salotto.

    Era il momento, prima del pranzo, in cui gli invitati, in attesa degli
    antipasti,  non incominciano un lungo discorso e,  nello stesso tempo,
    ritengono doveroso  muoversi  e  non  restarsene  silenziosi  per  non
    mostrarsi  impazienti  di  mettersi  a  tavola.   I  padroni  di  casa
    guardavano la porta e, di tanto in tanto, si scambiavano occhiate.  Da
    quegli  sguardi gli invitati cercavano di indovinare chi o che cosa si
    dovesse ancora aspettare: se un importante parente ritardatario  o  un
    piatto non ancora pronto...
    Pierre  era  giunto  in  anticipo  e  si era messo goffamente a sedere
    proprio in mezzo al salotto, sulla prima poltrona che gli era capitata
    a tiro, impacciando così tutti gli altri. La contessa cercava di farlo
    parlare, ma egli si guardava ingenuamente attorno attraverso le lenti,
    come  se  cercasse  qualcuno,  e  le  rispondeva  a  monosillabi.  Era
    imbarazzante,  e  lui  solo  non  se  ne  accorgeva.  Gran parte degli
    invitati,   che  conoscevano  la  storia  dell'orso,   guardavano  con
    curiosità quell'uomo grande e grosso dall'aria mite,  stupiti che quel
    ragazzone dall'aspetto così semplice avesse potuto giocare un tiro del
    genere a un poliziotto.
    -  Siete venuto da poco?  -  gli chiese la contessa.
    - "Oui, madame"  -  rispose lui, guardandosi attorno.
    - Non avete ancora visto mio marito?
    - "Non, madame"  -  e sorrise, assolutamente a sproposito.
    - Mi pare che siate stato, or non è molto, a Parigi,  vero?  Penso che
    sia una città molto interessante...
    - Sì, molto interessante.
    La contessa scambiò un'occhiata con Anna Michàjlovna.  Questa capì che
    l'amica la pregava di occuparsi di quel giovanotto e allora, messasi a
    sedere accanto a lui,  cominciò a parlargli del padre: ma,  come prima
    aveva fatto con la contessa, Pierre rispondeva ora ad Anna Michàjlovna
    soltanto a monosillabi. Gli invitati conversavano tra di loro.
    - "Les Razumovskij...  ca a été charmant... Vous êtes bien bonne... La
    comtesse Apràksina...  [97.  I Razumovskij...  E'  stato  delizioso...
    Siete molto buona. La contessa Apràksina...]  -  erano le frasi che si
    udivano da tutte le parti.
    La contessa si alzò e passò nella sala.
    - Màrija Dmìtrevna!
    -  Proprio  lei!    -    rispose  una  forte voce femminile,  e Màrija
    Dmìtrevna entrò nella stanza.
    Tutte le signorine e anche le signore,  a eccezione delle più anziane,
    si alzarono.  Màrija Dmìtrevna si fermò sulla soglia e dall'alto della
    sua statura,  tenendo eretta la testa  di  cinquantenne  dai  riccioli
    grigi,  guardò gli invitati e,  quasi volesse rimboccarsele, si mise a
    rassettare le ampie maniche  del  vestito.  Màrija  Dmìtrevna  parlava
    sempre in russo.
    -  Alla  cara  festeggiata  e  alla  sua  figliuola i miei auguri!   -
    esclamò con la sua voce profonda e sonora,  che dominava  su  tutti  i
    rumori.   -  E tu,  vecchio peccatore,   -  aggiunse,  rivolgendosi al
    conte che le baciava la mano  -    ti  annoi  a  Mosca,  dove  non  si
    organizzano  partite di caccia?  Ma che vuoi farci,  mio caro?  Quando
    questi uccellini crescono  -  (e indicò le ragazze)  -  bisogna  pure,
    volere o no,  cercar loro un fidanzato.  E tu, cosacco mio?  -  disse,
    accarezzando Natascia (che soleva chiamare  con  quel  nomignolo),  la
    quale le si avvicinava tutta allegra,  senza la minima soggezione.   -
    So che sei un folletto, ma mi piaci...
    Tirò fuori dalla sua enorme borsetta un paio  di  orecchini  di  forma
    oblunga,  guarniti di rubini, e li diede alla piccola festeggiata, che
    arrossì di gioia. Poi si voltò e si rivolse a Pierre:
    - Oh, mio caro! Vieni,  vieni qui!   -  gli disse in tono forzatamente
    dolce.  -  Vieni qui, caro...
    E, con gesto minaccioso, si rimboccò le maniche.
    Pierre le si avvicinò, guardandola attraverso le lenti.
    - Avvicinati,  avvicinati, caro! Anche a tuo padre io dicevo la verità
    quando era il caso, e Dio stesso mi comanda di dirla anche a te.
    Ella tacque.  Tutti erano silenziosi,  in attesa di  ciò  che  sarebbe
    accaduto, sentendo che quella era soltanto l'introduzione.
    - Sei un bravo ragazzo,  non c'è niente da dire, un bravo ragazzo! Tuo
    padre è sull'orlo della tomba,  e tu ti diverti a legare un poliziotto
    sulla schiena di un orso!  Vergognati,  ragazzo,  vergognati!  Sarebbe
    stato meglio che tu fossi andato in guerra!
    Gli voltò le spalle e porse la mano  al  conte  che  si  tratteneva  a
    fatica dal ridere.
    - Be',  mi pare che sia ora di andare a tavola,  no?   -  disse Màrija
    Dmìtrevna.
    Il conte e Màrija  Dmìtrevna  precedettero  gli  altri;  li  seguì  la
    contessa accompagnata da un colonnello degli ussari,  uomo utilissimo,
    con  il  quale  Nikolàj  doveva  raggiungere   il   reggimento;   Anna
    Michàjlovna prese il braccio di Scinscin,  e Berg offrì il suo a Vera.
    La sorridente Julie Karagina si accompagnò a Nikolàj.  Dietro a queste
    coppie se ne formarono altre, che si sparsero per la sala, seguite dai
    fanciulli,  dai  precettori  e dalle governanti.  I camerieri erano in
    agitazione;  si udiva rumore di sedie smosse;  nella galleria cominciò
    ad un tratto la musica, mentre gli invitati prendevano posto a tavola.
    Ai  suoni dell'orchestra si mescolò ben tosto il rumore dei coltelli e
    delle forchette, del chiacchierio degli ospiti e dei passi leggeri dei
    camerieri. Al posto d'onore, a capotavola, si sedette la contessa, che
    aveva  alla  sua  destra  Màrija   Dmìtrevna,   alla   sinistra   Anna
    Michàjlovna.  All'altra  estremità,  prese  posto  il  conte,  con  il
    colonnello degli ussari a sinistra, Scinscin a destra. Una parte della
    lunga tavola era occupata dai giovani: Vera accanto a Berg.  Pierre  e
    Borìs vicini;  all'altro lato, i bambini, i precettori, le governanti.
    Il conte,  attraverso i cristalli,  le caraffe e  le  coppe  colme  di
    frutta,  guardava la moglie,  che aveva in capo una cuffietta guarnita
    di nastri celesti,  e con molto zelo versava il vino ai  suoi  vicini,
    senza  naturalmente dimenticare se stesso.  Anche la contessa,  dietro
    agli ananassi,  si occupava dei suoi  doveri  di  padrona  dl  casa  e
    lanciava  sguardi  significativi  al marito,  la cui calvizie e il cui
    viso rosso parevano stridere con i pochi capelli grigi. Dal lato delle
    signore la conversazione procedeva come  un  regolare  cinguettio;  da
    quello  degli  uomini  risonavano  voci sempre più alte e specialmente
    quella  del  colonnello  degli   ussari,   che   mangiava   e   beveva
    abbondantemente,  diventando sempre più rosso,  tanto da essere citato
    dal  conte  come  esempio  agli  altri  commensali.  Berg,  sorridendo
    teneramente,  parlava con Vera e le diceva che l'amore è un sentimento
    celeste più che terrestre.  Borìs andava nominando al suo nuovo  amico
    Pierre  gli invitati seduti attorno al tavolo e scambiava occhiate con
    Natascia, che gli era di fronte. Pierre parlava poco,  guardava i visi
    nuovi e mangiava molto. A cominciare dalle minestre, tra le quali egli
    scelse quella "alla tartaruga" e dai pasticci,  sino alle pernici, non
    rifiutò né una pietanza né uno dei vini  che  il  maggiordomo  versava
    dalla bottiglia misteriosamente avvolta in una salvietta,  dicendone i
    nomi: "dry madère", oppure "hongrois", oppure "vin du Rhin".  Prese il
    primo  dei  quattro  bicchieri  di  cristallo  con lo stemma comitale,
    allineati davanti ad ogni commensale, e bevve di gusto, osservando gli
    ospiti con sempre maggior compiacenza.  Natascia,  seduta  di  fronte,
    guardava  Borìs come le ragazzine tredicenni guardano il giovanotto al
    quale hanno appena dato il primo bacio e di cui  sono  innamorate.  Di
    tanto in tanto, rivolgeva la stessa occhiata a Pierre, il quale, sotto
    lo  sguardo  di  quella  bizzarra e vivace ragazzina,  aveva voglia di
    ridere senza sapere perché.
    Nikolàj era seduto a una  certa  distanza  da  Sònja  vicino  a  Julie
    Karagina,   e   le  parlava  di  tanto  in  tanto  con  quello  stesso
    involontario sorriso.  Sònja si sforzava  di  parere  serena,  ma  era
    evidente che la gelosia la tormentava: ora impallidiva,  ora si faceva
    tutta rossa e cercava con tutte le sue forze di  afferrare  le  parole
    che  si scambiavano Nikolàj e Julie.  La governante girava preoccupata
    lo sguardo di qua e di là,  come se  si  preparasse  a  lottare  se  a
    qualcuno  fosse venuto in mente di dire qualcosa contro i bambini.  Il
    precettore tedesco si sforzava di  tenere  a  memoria  il  nome  delle
    vivande,  dei  "desserts"  e  dei vini per poterli descrivere con ogni
    particolare in una lettera ai suoi familiari in Germania,  e se l'ebbe
    molto a male per il fatto che il maggiordomo, con la bottiglia avvolta
    nel tovagliuolo,  lo avesse trascurato.  Aggrottò il viso, ma cercò di
    far vedere che non desiderava affatto bere di quel vino;  tuttavia  si
    sentì  offeso  perché  nessuno riusciva a capire che quel vino gli era
    necessario non per saziare  la  sete,  non  per  avidità,  ma  per  la
    curiosità di conoscerlo.


    CAPITOLO 16.

    Dalla  parte  degli  uomini  la  conversazione  si  faceva  sempre più
    animata.   Il  colonnello  assicurava  che   il   manifesto   con   la
    dichiarazione  di  guerra era già apparso a Pietroburgo e che ne aveva
    visto una copia portata proprio quel giorno al generale in capo.
    - Ma perché ci vogliono trascinare a  una  guerra  con  Buonaparte?  -
    chiese  Scinscin.    -  "Il a déjà rabattu le caquet à l'Autriche.  Je
    crains que cette fois ce  ne  soit  notre  tour"  [98.  Ha  già  fatto
    abbassare  la  cresta all'Austria e non vorrei che ora fosse il nostro
    turno...].
    Il colonnello era un  tedesco  grande  e  grosso,  alto  e  sanguigno,
    evidentemente  buon patriota e buon soldato.  Le parole di Scinscin lo
    offesero.
    - Egregio signore,   -  disse con uno  spiccato  accento  tedesco    -
    l'imperatore  sa  benissimo  queste  cose.  Nel manifesto ha detto che
    proprio per questo non  può  stare  a  guardare  con  indifferenza  il
    pericolo  che  minaccia  la Russia,  la sicurezza dell'impero,  la sua
    dignità e  la  santità  delle  alleanze    -    (e  accentuò  in  modo
    particolare, chissà perché, la parola "alleanze").
    E  con  la  sua  particolare  infallibile  memoria,  ripeté  le parole
    introduttive del manifesto,  quindi riprese:    -    Il  desiderio  di
    stabilire  la  pace in Europa su solide basi,  che costituisce l'unica
    meta e aspirazione  del  governo,  lo  hanno  indotto  ora  a  mandare
    all'estero   una  parte  dell'esercito  e  a  fare  nuovi  sforzi  per
    raggiungere questo intento. Ecco perché, egregio signore,  facciamo la
    guerra  -  concluse in tono edificante,  vuotando un bicchiere di vino
    e cercando con lo sguardo l'approvazione del conte.
    - Conoscete voi il proverbio: "Erema, Erema,  se te ne restassi a casa
    a badare ai tuoi fusi"?   -  chiese Scinscin,  aggrottando la fronte e
    sorridendo.   -  E' un proverbio che ci si adatta a meraviglia.  Anche
    Suvorov  (99) è stato completamente battuto,  e dove sono ora da noi i
    Suvorov?  Ditemelo...   -  proseguì in francese,  dopo aver parlato un
    po' in questa lingua e un po' in russo.
    - Noi ci dobbiamo battere sino all'ultima goccia di sangue  -  rispose
    il colonnello, picchiando con il pugno sul tavolo  -  ed essere pronti
    a morire per il nostro imperatore! Allora tutto andrà bene. E dobbiamo
    ragionare  il  meno  po-o-ssibile    -    (strascicava  in  modo tutto
    particolare la parola "possibile");  -  sì,  il meno po-o-ssibile!   -
    concluse,  rivolgendosi  di  nuovo  al  conte.    -   Così la pensiamo
    noialtri, vecchi ussari. E voi giovanotto, voi giovane ussaro, come la
    pensate?  -  proseguì, rivolto a Nikolàj,  il quale,  sentendo parlare
    di guerra, trascurava la sua interlocutrice e con gli occhi spalancati
    e le orecchie tese ascoltava il colonnello.
    -  Perfettamente  d'accordo  con  voi!   -  rispose con foga,  facendo
    girare il piatto e spostando i bicchieri con gesti decisi e  disperati
    come  se  in  quel preciso momento corresse un grave pericolo.   -  Mi
    sono convinto che i Russi debbano vincere o morire!  -  aggiunse,  pur
    sentendo, come lo sentivano gli altri, di essersi dimostrato, dopo ciò
    che era stato detto,  troppo entusiasta, dato il momento, e persino un
    po' inopportuno.
    - "C'est bien beau ce que vous venez de dire!" [100.  E'  molto  bello
    ciò  che  avete detto]  -  esclamò con un sospiro Julie che gli sedeva
    accanto.
    Sònja,  tutta tremante,  arrossì sino alle orecchie,  al collo e  alle
    spalle mentre Nikolàj parlava.  Pierre prestava attenzione alle parole
    del colonnello e faceva con il capo cenni di approvazione.
    - Benissimo!  -  esclamò.
    - E' un vero ussaro questo  giovanotto!    -    gridò  il  colonnello,
    picchiando di nuovo con il pugno sul tavolo.
    - Perché tanto rumore?   -  risonò a un tratto la voce grave di Màrija
    Dmìtrevna.  -  Perché dài quei colpi sul tavolo?  -  chiese rivolta al
    colonnello.  -  E contro chi ti scaldi tanto? Credi forse di avere già
    i Francesi davanti a te?
    - Dico la verità!  -  rispose l'ussaro, sorridendo.
    - Sempre per la guerra!  -  gridò il conte,  attraverso la tavola.   -
    Mio figlio sta per partire, Màrija Dmìtrevna, sta per partire!
    -  Io  ho  quattro  figli  sotto le armi e non mi intenerisco affatto.
    Tutto dipende dalla volontà di Dio: puoi morire sdraiato accanto  alla
    stufa,  e Dio ti può salvare nel più furioso combattimento  -  rispose
    all'altro capo del tavolo la voce profonda di Màrija Dmìtrevna.
    - E' proprio così!
    E le conversazioni si concentrarono di nuovo ai due lati  del  tavolo:
    da una parte ripresero a discorrere le signore, dall'altra gli uomini.
    - E allora...  non domanderai...  non domanderai niente?   -  chiese a
    Natascia il fratellino minore.
    - Sì, domanderò!  -  rispose la fanciulla.
    Il viso le si infiammò improvvisamente  esprimendo  una  decisa  lieta
    risolutezza.  Si  alzò,  fece con gli occhi un cenno a Pierre,  che le
    sedeva di fronte, perché l'ascoltasse e si rivolse alla madre:
    - Mamma!   -  si udì da  tutti  i  punti  della  tavola  la  sua  voce
    infantile.
    - Che c'è?  -  chiese la contessa spaventata ma, comprendendo dal viso
    della figliuola che si trattava di una monelleria,  fece con la mano e
    con la testa un gesto minaccioso.
    La conversazione s'interruppe.
    - Mamma, che dolce ci sarà?  -  risonò,  anche più forte e più decisa,
    la vocetta di Natascia.
    La  contessa  voleva  aggrottare  le  sopracciglia,  ma non ci riuscì.
    Màrija Dmìtrevna minacciò la bimba con il dito:
    - Ah, cosacca!  -  disse in tono severo.
    - Mamma, ci sarà il dolce?   -  gridava Natascia arditamente e in tono
    allegro  e capriccioso,  sicura in anticipo che la sua audacia avrebbe
    trovato indulgenza.
    Sònja e il grasso Pétja trattenevano a stento le risa.
    - Ecco,  l'ho chiesto...   -  sussurrò  Natascia  al  fratellino  e  a
    Pierre, guardandolo di nuovo.
    -  Ci  sarà  il  gelato...  ma  per  te...  niente!    -  disse Màrija
    Dmìtrevna.
    Natascia si rese conto che non doveva avere alcun timore al riguardo e
    perciò non si turbò affatto alle parole di Màrija Dmìtrevna.
    - Che gelato, Màrija Dmìtrevna?  Che gelato?  Il gelato alla panna non
    mi piace!
    - Un gelato di carota!
    - No... Che gelato? Ditemelo, Màrija Dmìtrevna, voglio saperlo!
    Màrija   Dmìtrevna  e  la  contessa  ridevano,   imitate  da  tutti  i
    commensali. E ridevano non già per la risposta di Màrija Dmìtrevna, ma
    per l'audacia non comune e la  furberia  di  quella  bimba  che  osava
    comportarsi a quel modo di fronte a Màrija Dmìtrevna.
    Natascia  si  calmò soltanto allorché le fu detto che ci sarebbe stato
    il gelato all'ananasso. Prima del gelato fu servito lo "champagne"; la
    musica riprese a sonare,  il conte baciò la  contessa  e  gli  ospiti,
    alzatisi  in piedi,  fecero gli auguri alla festeggiata,  e toccarono,
    attraverso il tavolo,  il loro bicchiere con quello del conte e quelli
    dei  bimbi.  I  domestici si agitarono nuovamente,  si riudì il rumore
    delle sedie smosse e,  nello stesso ordine di prima,  ma più rossi  in
    viso,  gli ospiti ritornarono parte in salotto, parte nello studio del
    conte.


    CAPITOLO 17.

    Si preparavano intanto i tavoli da gioco  e  si  stavano  organizzando
    partite di "boston".  Gli ospiti del conte avevano preso posto,  parte
    nel salotto dei divani e parte nella biblioteca.
    Il conte,  con le carte aperte a  ventaglio,  resisteva  a  fatica  al
    desiderio del sonnellino pomeridiano al quale era avvezzo, e sorrideva
    a tutti.  I giovani,  chiamati dalla contessa, si riunivano attorno al
    clavicembalo e all'arpa. Julie per prima, a richiesta generale, eseguì
    un brano  per  arpa  con  variazioni  e  poi,  insieme  con  le  altre
    signorine,  pregò Natascia e Nikolàj, il cui talento musicale era noto
    a tutti,  di cantare qualcosa.  Natascia,  alla quale ci si  rivolgeva
    come a una "persona grande",  era evidentemente molto fiera ma,  nello
    stesso tempo, presa dalla timidezza.
    - Che cosa canteremo?  -  chiese a Nikolàj.
    - "La fonte" (101)  -  rispose il giovane.
    - Bene, allora cominciamo; Borìs, venite qui!   -  disse Natascia.   -
    Dov'è Sònja?
    Si guardò attorno e, non vedendo la sua amica, corse a cercarla.
    Andò  nella  camera della fanciulla,  ma non la trovò;  si recò allora
    nella camera dei bambini, ma Sònja non era neppure lì.  Natascia pensò
    allora  che  l'amica  fosse  nel  corridoio,  seduta sulla cassapanca.
    Quella cassapanca era il posto in cui la giovane generazione femminile
    di casa Rostòv andava a sfogare la propria tristezza.  Infatti  Sònja,
    senza  preoccuparsi  di  sgualcire  il  suo leggero abitino rosa,  era
    distesa bocconi sulla cassapanca sopra il sudicio materassino a  righe
    della  governante  e,  con  il  viso  nascosto  tra  le  piccole mani,
    singhiozzava facendo sussultare le gracili spalle  nude.  Il  viso  di
    Natascia,  illuminato  dalla  gioia  di  quella giornata di festa,  si
    trasformò di colpo: i suoi occhi si spalancarono e rimasero  immobili,
    un   fremito  le  percorse  il  viso,   gli  angoli  delle  labbra  si
    abbassarono.
    - Sònja, che hai? Che hai? Uh! Uh!
    E Natascia,  spalancando la sua larga bocca  e  apparendo  decisamente
    brutta,  si mise a piangere come una bambina,  senza nessun motivo, ma
    solo perché Sònja piangeva.  Sònja volle alzare il capo e  rispondere,
    ma  non ci riuscì e si coprì ancora di più il viso.  Natascia,  sempre
    piangendo, si mise a sedere sul materassino e abbracciò l'amica. Fatto
    appello a  tutte  le  sue  forze,  Sònja  si  sollevò  e  cominciò  ad
    asciugarsi le lacrime e a parlare:
    -  Nikòlenka  partirà tra una settimana...  è arrivato l'ordine...  Me
    l'ha detto egli stesso...  però io non piangerei...   -  (e  mostrò  a
    Natascia  un  foglietto  che  teneva in mano e sul quale erano scritti
    versi di Nikolàj)  -  io non piangerei, ma tu non puoi...  nessuno può
    capire quanto sia grande il cuore di Nikolàj...
    E  riprese  a  singhiozzare  perché  il  cuore  di  Nikolàj  era tanto
    grande...
    - Tu sei felice, ma io non ti invidio...  ti voglio bene e voglio bene
    anche a Borìs  -  disse, riprendendosi;  -  egli è caro, e per voi non
    esistono  ostacoli.  Nikolàj  è  mio  cugino...  bisognerebbe  che  il
    Metropolita...  ma anche così è impossibile.  E poi  la  mamma...    -
    (Sònja  considerava  la contessa sua madre e la chiamava mamma)  -  la
    mamma dirà che comprometto la carriera di Nikolàj,  che non ho  cuore,
    che  sono un'ingrata,  e io...  te lo giuro,  amo tanto la mamma e amo
    tanto tutti voi... Soltanto Vera...  ma perché?  Che cosa le ho fatto?
    Sono  tanto  grata  a  voi  tutti,  che  sarei  felice di sacrificarvi
    qualsiasi cosa, ma non ho nulla...
    Sònja non poteva più parlare;  nascose di nuovo il viso tra le mani  e
    lo  affondò  nel materassino.  Natascia cercò di tranquillizzarla,  ma
    dall'espressione del suo viso era evidente che essa comprendeva quanto
    fosse grande il dolore della cugina.
    - Sònja!  -  disse a un tratto,  come se indovinasse la vera causa del
    dolore di lei.  -  Dimmi, Vera ti ha detto qualcosa dopo pranzo? Sì?
    - Sì,  Nikolàj ha scritto proprio lui questi versi, e io li ho copiati
    insieme con altri; essa li ha trovati sul mio tavolo,  ha detto che li
    farà  vedere  alla mamma e ha aggiunto che io sono un'ingrata,  che la
    mamma non permetterà mai a Nikolàj di  sposarmi  e  che  egli  sposerà
    Julie. Vedi come sta con lei tutto il giorno? Natascia... perché?
    E  riprese  a  piangere  più  amaramente di prima.  Natascia l'aiutò a
    sollevarsi,  l'abbracciò  e,  sorridendo  tra  le  lacrime,  cercò  di
    calmarla.
    - Sònja,  non crederle,  cara,  non crederle! Ti ricordi come parlammo
    tutti e tre,  noi due e Nikòlenka nel salotto dei divani?  Ti  ricordi
    quella sera dopo cena?  Decidemmo tutto ciò che sarà... Io non ricordo
    più, ma tu certo non hai dimenticato: tutto era bello e possibile.  Lo
    sai,  vero,  che  il  fratello  di  Scinscin ha sposato una sua cugina
    germana?  E noi siamo cugini solo  in  secondo  grado...  Anche  Borìs
    assicura che la cosa è possibilissima.  Sai,  gli ho raccontato tutto.
    E' tanto intelligente, tanto buono....  -  proseguì Natascia.   -  Non
    piangere più, Sònja, mia cara, anima mia... Non piangere più, Sònja...
    -  e la baciò ridendo.   -  Vera è cattiva...  Dio la protegga!  Tutto
    andrà bene,  vedrai che non dirà niente alla mamma...  Nikolàj  stesso
    parlerà e non pensa affatto a Julie.
    E  baciò  Sònja  sui  capelli.  Sònja si alzò e sembrò una gattina che
    riprendesse vita: gli occhi le brillavano e pareva pronta  ad  agitare
    la  coda,  a  saltare  sulle morbide zampette e a riprendere a giocare
    allegramente con il gomitolo.
    - Tu credi davvero?  Giura!   -  esclamò,  rassettandosi la veste e  i
    capelli.
    -  Davvero,  te lo giuro!   -  rispose Natascia,  lisciando la treccia
    dell'amica, dalla quale sfuggivano ciocche di capelli.
    - Su, andiamo a cantare "La fonte".
    - Andiamo!
    - Se tu sapessi che tipo buffo è quel grande e grosso  Pierre  che  mi
    sedeva di fronte a tavola!  -  disse a un tratto Natascia, fermandosi.
    -  Mi diverto un mondo, oggi!
    E si mise a correre lungo il corridoio.
    Sònja si scosse la polvere di dosso e, dopo aver nascosto in seno, tra
    le  ossa  sporgenti  dello  sterno,  il  foglietto dei versi,  a passo
    leggero e con il viso  animato  e  allegro  seguì  Natascia  lungo  il
    corridoio  sino al salotto dei divani.  A richiesta degli invitati,  i
    giovani cantarono il quartetto "La fonte",  che piacque molto a tutti;
    poi Nikolàj si produsse in una canzone imparata di recente (102):

    "Nella dolce notte
    Illuminata dalla luna,
    E' bello sapere
    Che c'è qualcuno al mondo
    Che pensa a te!

    Intanto lei con la bella mano
    Che accarezza le corde dell'arpa,
    Con la sua appassionata armonia,
    Canta per te e ti chiama!

    Ancora un giorno, ancora due,
    E poi sarà il paradiso!
    Ma ahimè! il tuo amico
    Non sopravvivrà..."

    Egli  aveva  appena  pronunziato le ultime parole che già nella sala i
    giovani si preparavano a ballare,  mentre i musicanti accordavano  gli
    strumenti.

    Pierre era seduto nel salotto, dove Scinscin aveva intavolato con lui,
    appena  giunto  dall'estero,  una noiosa conversazione politica,  alla
    quale presero parte anche altri invitati.  Allorché la musica  attaccò
    le prime note, Natascia entrò in salotto e, avvicinatasi a Pierre, gli
    disse, arrossendo e ridendo:
    - La mamma mi ha ordinato di invitarvi a ballare.
    -  Temo  di  non  cavarmela  molto  bene,  ma  se volete essere la mia
    maestra...
    E, abbassando la grossa mano, la porse all'esile ragazzina.
    Mentre si formavano le coppie e i musicanti si preparavano  a  sonare,
    Pierre si sedette accanto alla sua piccola dama.  Natascia era felice:
    ballava con un grande e, per di più, giunto da poco dall'estero. Tutti
    la guardavano mentre discorreva con lui come una persona adulta. Aveva
    in mano un ventaglio che una signorina le aveva affidato e, assunto un
    atteggiamento molto  mondano  (Dio  sa  dove  l'aveva  imparato!),  lo
    agitava e sorrideva, discorrendo con il suo cavaliere.
    - Guarda guarda!  -  esclamò la vecchia contessa attraversando la sala
    e indicando Natascia, la quale si fece tutta rossa e si mise a ridere.
    - Ebbene,  mamma,  che avete? Che cos'è che vi diverte tanto? E perché
    tanto stupore?

    A metà della  terza  scozzese,  si  udì  un  rumore  di  sedie  smosse
    provenire  dal salotto dove giocavano il conte,  Màrija Dmìtrevna e la
    maggior parte degli ospiti più ragguardevoli e più anziani,  i  quali,
    stiracchiandosi dopo essere stati a lungo seduti e mettendosi in tasca
    i  portafogli  e le borsette,  si dirigevano verso la sala.  Precedeva
    Màrija Dmìtrevna con il conte,  entrambi con un  espressione  lieta  e
    sorridente. Il conte, con gravità scherzosa, come in una pantomima, le
    aveva offerto il braccio. Eresse il busto e il viso gli si illuminò di
    un particolare sorriso giovanilmente malizioso;  e non appena l'ultima
    figura della scozzese ebbe termine, egli applaudì i musicanti e gridò,
    rivolgendosi al primo violino:
    - Semen! Conosci il "Danilo Cooper"?
    Era la danza che piaceva di più al conte,  il quale  la  ballava  come
    quando era giovane (consisteva in una "figura" dell'"inglese").
    -  Guardate  papà!    -  gridò Natascia,  in modo che tutti in sala la
    udirono,   dimenticando  completamente  che  ballava  con  un  grande,
    chinando la testolina ricciuta e prorompendo in una risata sonora.
    In  realtà,  tutti  coloro che erano in sala guardavano con un gioioso
    sorriso l'allegro vecchio che avanzava accanto alla sua imponente dama
    Màrija Dmìtrevna,  di statura assai superiore alla  sua,  stendeva  le
    braccia  in circolo,  seguendo con un leggero movimento il ritmo della
    musica,  moveva le spalle,  batteva i colpi con  i  piedi  e,  con  un
    sorriso  che  pareva  allargarsi  sempre  di  più  sul suo viso tondo,
    preparava gli spettatori a ciò che stava per seguire.  Non  appena  si
    udirono le note allegre e trascinanti del "Danilo Cooper", così simili
    a quelle del gaio "trepàk" (103),  le porte della sala si gremirono da
    una  parte  e  dall'altra  di  domestici  e  di  cameriere,  dal  viso
    sorridente, che venivano a vedere il padrone che si divertiva.
    - Il nostro padre!  Che aquila!  -  esclamava a voce alta la cameriera
    più anziana, affacciata a una delle porte.
    Il conte ballava bene e lo sapeva, ma la sua ballerina non era abile e
    non tentava di fare altrettanto.  Il suo enorme corpo era  rigidamente
    eretto,  e  le  lunghe braccia penzolavano inerti (aveva affidato alla
    contessa la sua borsetta);  pareva che danzasse soltanto il  suo  viso
    severo,  ma bello. Ciò che esprimeva tutta la pingue figura del conte,
    lo esprimeva il viso sempre più  sorridente  di  Màrija  Dmìtrevna  e,
    soprattutto,  il  naso  dalle  narici  mobilissime.  Ma  se  il conte,
    eccitandosi sempre più,  affascinava gli spettatori con  gli  inattesi
    volteggi e i leggeri saltelli degli agili piedi, Màrija Dmìtrevna, con
    ogni  minimo  movimento  delle  spalle o dei piedi che pestavano nelle
    giravolte,  produceva uguale effetto,  giacché  tutti  l'apprezzavano,
    tenendo  conto  della  pesantezza  del  suo corpo e della sua consueta
    severità.  La danza andava via via animandosi.  Le coppie  "vis-à-vis"
    non  potevano attirare su di sé l'attenzione neppure per un minuto,  e
    non tentavano di farlo,  giacché l'attenzione generale era concentrata
    sul conte e su Màrija Dmìtrevna.  Natascia tirava per le maniche o per
    la gonna ora questa ora quella delle persone presenti (le quali  anche
    con  quel  silenzioso  richiamo  non  distoglievano  gli occhi dai due
    ballerini) e insisteva perché ammirassero suo padre.  Il conte,  negli
    intervalli  della  danza,  riprendeva  fiato,  si agitava e gridava ai
    musicanti di accelerare i tempi.  E  sempre,  sempre  più  in  fretta,
    volteggiava con rapidità crescente, ora sui tacchi ora sulla punta dei
    piedi,  attorno a Màrija Dmìtrevna;  infine,  accompagnando la dama al
    suo posto,  eseguì l'ultimo passo  della  danza,  alzò  l'agile  gamba
    all'indietro, reclinò la testa sudata e, sorridendo, fece un bel gesto
    con la destra,  tra uno scroscio di applausi e di risate, specialmente
    da  parte  di  Natascia.  I  due  ballerini  si  fermarono  ansimanti,
    asciugandosi il viso con i loro fazzoletti di batista.
    -  Ecco  come  si  ballava ai nostri tempi,  "ma chère"!   -  disse il
    conte.
    - Eh sì, il "Danilo Cooper"...   -  rispose Màrija Dmìtrevna,  traendo
    un lungo sospiro e tirandosi su le maniche.


    CAPITOLO 18.

    Mentre nella sala dei Rostòv si danzava la sesta "inglese" al suono di
    una  orchestra  che stonava per la stanchezza e mentre i domestici e i
    cuochi, anch'essi sfiniti, preparavano la cena,  il conte Bezuchov era
    stato  colpito da un sesto attacco.  I dottori dichiararono che non vi
    era più alcuna speranza di guarigione;  il malato si era confessato  e
    aveva   ricevuto   i   Sacramenti;   si  facevano  i  preparativi  per
    somministrargli  l'Estrema  Unzione,   e  nella  casa   regnavano   la
    confusione e l'agitazione dell'attesa,  proprie di simili momenti. Nel
    cortile,  tra gli equipaggi che si succedevano  in  continuazione,  si
    nascondevano  già  gli  addetti  alle  pompe  funebri,  nella speranza
    dell'ordinazione per un sontuoso funerale.
    Il generale governatore di Mosca,  che aveva mandato continuamente  il
    suo aiutante di campo a informarsi sulle condizioni del conte,  quella
    sera era venuto di persona a salutare il conte  Bezuchov,  il  celebre
    dignitario dei tempi di Caterina.
    La sfarzosa sala di ricevimento era piena di gente.  Tutti si alzarono
    rispettosamente in piedi allorché l'illustre visitatore,  dopo essersi
    trattenuto  per  una  mezz'ora  a tu per tu con il malato,  uscì dalla
    camera dell'infermo,  rispondendo appena agli inchini  e  cercando  di
    passare  il  più in fretta possibile davanti ai medici,  ai preti,  ai
    parenti che tenevano gli  sguardi  puntati  su  di  lui.  Il  principe
    Vassilij,  pallido  e smagrito in quegli ultimi giorni,  accompagnò il
    governatore,  mentre a bassa voce  gli  ripeteva  parecchie  volte  la
    stessa cosa.
    Dopo  aver  accompagnato  l'illustre visitatore,  il principe Vassilij
    andò a sedersi in disparte,  nel salotto,  e con le gambe accavallate,
    un  gomito puntato sul ginocchio e una mano sul viso,  rimase così per
    alcuni minuti;  poi si  alzò  e  a  passo  rapido  percorse  il  lungo
    corridoio,  guardandosi  attorno  con  aria  spaventata,  e  raggiunse
    l'altra  parte  della  casa,  dove  si  trovava  l'appartamento  della
    principessa primogenita.
    Coloro che erano rimasti nel salotto, debolmente illuminato, parlavano
    a  voce  bassa  tra di loro e di tanto in tanto tacevano guardando con
    occhi ansiosi e interrogativi la porta che conduceva nella camera  del
    moribondo e che strideva leggermente ogni qualvolta qualcuno entrava o
    usciva.
    -  Il  limite  della  vita  umana,    -  diceva un vecchio prete a una
    signora seduta di fronte a lui e  che  lo  ascoltava  con  espressione
    ingenua    -    il limite della vita umana è fissato e non è possibile
    superarlo.
    - Non sarà troppo tardi per l'Estrema Unzione?   -  chiese la  signora
    al sacerdote, come se non avesse in proposito alcuna opinione.
    -  L'Estrema  Unzione  è un gran sacramento,  signora!   -  rispose il
    vecchietto, accarezzandosi con la mano la testa calva, attraversata da
    alcune ciocche di lisci capelli grigiastri.
    - Chi è quello?  E' proprio il generale  governatore?    -    chiedeva
    qualcuno all'altra estremità della stanza.  -  Che aspetto giovanile!
    - E ha settant'anni!  Dicono che il conte non riconosca più nessuno...
    Quando gli daranno l'Estrema Unzione?
    - Conosco un tale al quale l'hanno impartita ben sette volte!
    La seconda delle principessine uscì dalla camera dell'ammalato con gli
    occhi pieni di lacrime,  e si  mise  accanto  al  dottor  Lorrain  che
    sedeva,  in grazioso atteggiamento, sotto il ritratto dell'imperatrice
    Caterina, con un gomito appoggiato a un tavolo.
    - "Très beau"  -  rispose il medico a una domanda relativa  al  tempo;
    -    "très  beau,  princesse,  et  puis,  à  Moscou,  on se croit à la
    campagne" [104. Molto bello, molto bello, principessa e poi,  a Mosca,
    sembra di essere campagna].
    - Nevvero?   -  disse con un sospiro la principessina.  -  Si può dare
    un po' da bere al malato?
    Lorrain rifletté un momento.
    - Bene, prendete un bicchiere di acqua bollita e mettetevi "une pincée
    de cremortartare"...   -  (e indicò con le sue dita sottili quello che
    intendeva per "pincée").
    -  Non  accade mai  -  diceva un medico tedesco a un aiutante di campo
    -  che dopo il terzo accesso il malato non muoia.
    - E che bell'uomo era!   -  esclamò l'aiutante.   -  E  adesso  a  chi
    andranno tutte le sue ricchezze?  -  aggiunse sottovoce.
    - Non dubitate,  pretendenti se ne troveranno!   -  rispose il tedesco
    sorridendo.
    Tutti volsero lo sguardo alla porta che strideva: era la seconda delle
    principessine che  portava  all'ammalato  la  bevanda  prescritta  dal
    dottor Lorrain. Il medico tedesco si avvicinò a Lorrain.
    -  Credete che arriverà a domattina?   -  gli chiese,  con una pessima
    pronunzia francese.
    Lorrain,  serrando  le  labbra,  fece  un  cenno  negativo,   agitando
    nervosamente l'indice davanti al proprio naso.
    -  Spirerà  questa  notte,  non  oltre   -  disse piano con un sorriso
    discreto, soddisfatto di sé,  che lasciava chiaramente intendere quale
    fosse la condizione del malato, e si allontanò.
    Frattanto  il principe Vassilij apriva l'uscio dell'appartamento delle
    principessine.  La camera nella quale entrò era semibuia: soltanto due
    piccole lampade erano accese davanti alle immagini sacre, e l'aria era
    impregnata  di  un  buon profumo di essenze e di fiori.  La stanza era
    tutta arredata  con  mobili  minuti:  stipetti  armadietti,  tavolini.
    Dietro  ad  un paravento si intravedeva la coperta candida di un letto
    molto alto. Un cagnolino abbaiò.
    - Ah, siete voi, "mon cousin"!
    La principessina si alzò,  si  accomodò  i  capelli  che  erano,  come
    sempre,  straordinariamente lisci,  tanto da parere una cosa unica con
    la testa ed essere spalmati di vernice.
    - Che c'è?  E forse accaduto qualcosa?   -  chiese.   -  Sono già così
    spaventata!
    -  Nulla,  le condizioni permangono stazionarie.  Sono venuto soltanto
    per parlare con te di un affare,  Katiscia  -   rispose  il  principe,
    abbandonandosi  con  aria  stanca  sulla  poltrona  dalla quale si era
    alzata la principessina.   -  Che caldo fa qui dentro!- aggiunse.    -
    Su, siediti e discorriamo.
    -  Ho  pensato che fosse accaduto qualcosa  -  ripeté la principessina
    e,  con il viso  atteggiato  alla  sua  immutabile,  fredda  e  severa
    espressione,  si sedette di fronte al principe,  pronta ad ascoltarlo.
    -  Ho cercato di  dormire  un  po',  "mon  cousin",  ma  non  ci  sono
    riuscita...
    - E' così,  mia cara  -  disse il principe Vassilij, prendendo la mano
    della principessina e piegandola,  secondo la sua abitudine,  verso il
    basso.
    Era  evidente  che quel "è così" si riferiva a molte cose che entrambi
    comprendevano, senza parlare.
    La principessina, magrissima e con quel busto straordinariamente lungo
    in proporzione alle gambe,  guardava  con  indifferenza  il  principe,
    tenendo  fissi su di lui gli occhi grigi sporgenti.  Scosso il capo e,
    sospirando,  volse lo sguardo  alle  immagini  sacre.  Questo  sguardo
    poteva  essere  interpretato come un segno di tristezza e di devozione
    oppure come un'espressione di stanchezza e di speranza in una prossima
    quiete. Il principe Vassilij lo interpretò come indice di stanchezza.
    - E credi che per me sia più facile?  "Je suis éreinté comme un cheval
    de  poste..."  [105.  Mi  sento  spossato  come un cavallo da posta!],
    eppure devo parlarti, Katiscia, e molto seriamente.
    Il principe Vassilij tacque. Le sue guance tremarono nervosamente, ora
    da un lato ora  dall'altro,  conferendo  al  suo  viso  un'espressione
    sgradevole, un'espressione che egli non aveva mai quando si trovava in
    un salotto. Anche i suoi occhi apparivano diversi da quelli di sempre:
    il loro sguardo era ora sfacciatamente scherzoso ora quasi spaventato.
    La principessina,  trattenendo con le mani secche e magre il cagnolino
    sulle  ginocchia,   fissava  attentamente  negli  occhi  il   principe
    Vassilij;  ma  era  chiaro  che non avrebbe interrotto il silenzio con
    alcuna domanda, anche a costo di tacere sino al mattino successivo.
    - Vedete,  mia cara principessina e  cugina  Katerina  Semënovna,    -
    proseguì  il  principe  Vassilij  accingendosi,  non  senza  una lotta
    interiore,  a proseguire il suo discorso  -  in  momenti  come  questi
    bisogna riflettere bene su tutto,  bisogna pensare al futuro, a voi...
    Io vi amo come figlie, tu lo sai...
    La principessina continuava a guardarlo, immobile e indifferente.
    - Ma io devo anche pensare alla mia famiglia  -  proseguì il  principe
    Vassilij  senza guardare la cugina e respingendo con gesto irritato il
    tavolino sul quale si era appoggiato.   -  Tu sai,  Katiscia,  che voi
    tre  sorelle  Mamontov  e mia moglie siete le uniche eredi dirette del
    conte.  Capisco,  capisco quanto ti debba  essere  penoso  parlare  di
    queste  cose.  Non è facile neppure per me,  ma,  amica mia,  ho quasi
    sessant'anni e devo essere pronto a tutto.  Tu sai che  ho  mandato  a
    chiamare  Pierre?  Sai  che  il conte,  indicando il suo ritratto,  ha
    chiesto di vederlo?
    Il principe guardò interrogativamente la principessina,  ma  non  poté
    capire  se  essa  sapesse  già  ciò  che egli le avrebbe detto o se lo
    guardasse semplicemente così...
    - Di una cosa sola non mi stanco mai di pregare Dio, "mon cousin",   -
    rispose  la  principessina  -  che lo assolva e conceda alla sua anima
    buona di abbandonare tranquillamente questa...
    - Sì,  appunto,   -  proseguì con  impazienza  il  principe  Vassilij,
    asciugandosi  la calvizie,  eccitandosi e cominciando a parlare più in
    fretta  -  ma... ma il fatto si è che, lo sai anche tu,  l'anno scorso
    il  conte  ha  fatto  un  testamento  con il quale lascia tutta la sua
    sostanza a Pierre, a danno dei suoi eredi diretti.
    - Ne ha fatti tanti, testamenti!  -  disse con calma la principessina.
    -  Ma Pierre, che è figlio illegittimo, non può ereditare.
    - "Ma chère",  -  obiettò il principe Vassilij,  riavvicinando a sé il
    tavolino  -  e se egli avesse scritto all'imperatore,  chiedendogli di
    poter adottare Pierre?  Capirai che,  dati i meriti del conte,  la sua
    richiesta sarebbe certamente accolta...
    La  principessina  sorrise con il sorriso delle persone che pensano di
    sapere una cosa molto meglio di chi ne parla.
    - Ti dirò di più  -  proseguì il principe  Vassilij,  prendendole  una
    mano;  -  la lettera è già stata scritta e l'imperatore lo sa, sebbene
    essa  non  sia  stata  ancora  spedita.  Si tratta di sapere se questa
    lettera sia stata distrutta o no.  In quest'ultimo  caso,  non  appena
    tutto sarà finito...  -  e il principe Vassilij sospirò facendo capire
    in  tal  modo  che  cosa  volessero  significare  le  sue parole  -  e
    verranno in luce tutte le  carte  del  conte,  il  testamento  con  la
    lettera  sarà consegnato all'imperatore e la richiesta sarà certamente
    accolta. Pierre, come figlio legittimo, erediterà tutto.
    - E la  nostra  parte?    -    domandò  la  principessina,  sorridendo
    ironicamente   come  per  dire  che  qualsiasi  cosa  poteva  accadere
    all'infuori di quella.
    - Ma, mia povera Katiscia, è chiaro come la luce del giorno. Egli solo
    sarà allora legittimo erede di tutto, e voi non avrete nulla.  Tu devi
    cercare di sapere,  mia cara, se il testamento e la lettera sono stati
    scritti e se sono stati distrutti  o  no.  E  se,  per  una  qualsiasi
    eventualità,  fossero  stati dimenticati,  tu dovrai cercare di sapere
    dove sono e trovarli, perché...
    - Ci mancava anche questa!   -  lo interruppe la principessina con  un
    sorriso sarcastico e senza mutare l'espressione dello sguardo.   -  Io
    sono una donna e,  secondo voi,  tutte le donne sono  stupide;  ma  so
    perfettamente  che  un  figlio  illegittimo  non  può ereditare...  Un
    bastardo!  -  aggiunse, credendo di dimostrare al principe, con questa
    parola, la sua ingenuità.
    - Ma com'è possibile che tu non capisca, Katiscia?  Tu,  che sei tanto
    intelligente,  come  fai  a  non  capire  che,  se il conte ha scritto
    all'imperatore una lettera con la richiesta di  poter  legittimare  il
    figlio,  Pierre  cesserà  di  essere semplicemente Pierre,  ma sarà il
    conte Bezuchov? E allora,  grazie al testamento,  erediterà tutto.  In
    conclusione, se il testamento e la lettera non sono stati distrutti, a
    te, all'infuori della consolazione di essere stata virtuosa, eccetera,
    eccetera..., non resterà nulla... Questo è sicuro.
    - Io so che il testamento è stato scritto,  ma so anche che esso non è
    valido e mi pare proprio che  voi,  "mon  cousin",  mi  riteniate  una
    perfetta cretina!  -  disse la principessina, con il tono che usano le
    donne  quando  credono  di  aver  detto  qualcosa  di  spiritoso  e di
    offensivo.
    -  Mia  cara  principessa  Katerina  Semënovna!    -    prese  a  dire
    spazientito  il  principe  Vassilij.    -   Non sono mica venuto da te
    perché  ci  punzecchiassimo  a  vicenda,  ma  per  parlarti  dei  tuoi
    interessi come a una buona,  vera e cara parente.  Per la decima volta
    ti ripeto che,  se la lettera all'imperatore e il testamento a  favore
    di  Pierre si trovano fra le carte del conte,  tu e le tue sorelle non
    avrete nulla! Se non credi a me, credi almeno a chi si intende di cose
    del genere: ho  parlato  poco  fa  con  Dmitrij  Onufric',  il  nostro
    avvocato  di famiglia,  e mi ha detto precisamente ciò che io ho detto
    ora a te.
    Evidentemente  qualcosa   mutò   all'improvviso   nelle   idee   della
    principessina:  le  labbra  sottili  impallidirono  (gli occhi,  però,
    rimasero gli stessi) e la voce, mentre parlava, ebbe scatti quali essa
    non si aspettava.
    - Benissimo!   -  esclamò.   -  Io non ho  mai  voluto  e  non  voglio
    niente!   -  Buttò a terra il cagnolino che le stava sulle ginocchia e
    si accomodò le pieghe della veste.   -  Ecco la riconoscenza,  ecco la
    gratitudine  per  chi  gli  ha  sacrificato  tutto!    -    disse.   -
    Benissimo! Molto bene! Io non chiedo nulla, principe!
    - Già,  ma non si tratta di te sola: hai delle sorelle  -  replicò  il
    principe Vassilij.
    Ma la principessina non lo ascoltava già più.
    - Sì lo sapevo da un pezzo, ma avevo dimenticato che all'infuori della
    bassezza,  dell'inganno, dell'invidia, dell'intrigo, all'infuori della
    più nera ingratitudine, nulla potevo aspettarmi in questa casa...
    - Ma lo sai o non lo sai dove si trova questo testamento?   -   chiese
    il principe Vassilij, con una contrazione dei muscoli delle guance più
    forte di prima.
    - Sì,  sono stata una sciocca, ho avuto fede negli uomini, li ho amati
    e mi sono sacrificata per loro.  Ma soltanto i malvagi e i vili  hanno
    fortuna... Io so, so chi ha ordito questo intrigo...
    La principessina fece per alzarsi,  ma il principe la trattenne per un
    braccio.  Ella aveva l'aria di chi,  all'improvviso,  si sente  deluso
    dall'intero genere umano e guardava irritata il suo interlocutore.
    - C'è ancora tempo,  amica mia... Ricordati, Katiscia, che tutto ciò è
    stato fatto per caso,  in un momento di ira,  durante una malattia,  e
    poi dimenticato.  Noi abbiamo il dovere, mia cara, di rimediare al suo
    errore,  di alleviargli gli ultimi momenti di vita non  permettendogli
    di commettere questa ingiustizia,  non permettendogli di morire con il
    rimorso di aver reso infelici coloro che...
    -  Coloro  che  gli  hanno  sacrificato  tutto    -      concluse   la
    principessina,  cercando  di  nuovo  di  alzarsi,  ma ancora una volta
    trattenuta dal principe;   -  ...coloro che egli  non  ha  mai  saputo
    apprezzare.  No,  "mon  cousin",    -   aggiunse con un sospiro -  non
    dimenticherò mai che in questo mondo non ci si  deve  aspettare  alcun
    premio,  che  in  questo  mondo non esistono né onore né giustizia.  A
    questo mondo bisogna essere furbi e cattivi.
    - Suvvia, calmati... Io so che hai buon cuore...
    - No, ho un cuore cattivo!
    - So che hai buon cuore  -  ripeté il principe,   -  apprezzo  la  tua
    amicizia  e  vorrei  che  tu  avessi lo stesso sentimento verso di me.
    Calmati e ragioniamo sino a che siamo in  tempo.  Forse  ci  resta  un
    giorno,  forse  un'ora...  Dimmi  tutto  ciò che sai del testamento e,
    soprattutto,  dove  si  trova.  Tu  lo  devi  sapere.   Lo  prenderemo
    immediatamente  e  lo  mostreremo  al conte.  Senza dubbio egli non ci
    pensa già più e vorrà distruggerlo.  Devi  capire  che  il  mio  unico
    desiderio è di compiere la sua volontà;  soltanto per questo sono qui,
    soltanto per aiutare lui e voi.
    - Adesso ho capito tutto. So chi è causa di tutto questo; lo so...   -
    disse la principessina.
    - Non si tratta di questo, mia cara.
    - E' stata la vostra protetta, la vostra cara Anna Michàjlovna, quella
    donna  che  non  vorrei neppure per cameriera,  quella vile,  orribile
    donna!
    - Non perdiamo più tempo!
    - Ah, non me ne parlate!  L'inverno scorso si è introdotta qui in casa
    e  ha  raccontato  al  conte  tali  infamie  e tali bassezze sul conto
    nostro,   e  specialmente  contro  Sophie,   che  non  posso   neppure
    ripetere... infamie tali che il conte se ne ammalò e per due settimane
    non volle più vederci.  Fu allora, lo so bene, che egli scrisse quella
    brutta,  maledetta lettera,  ma io pensavo che essa non  avesse  alcun
    valore!
    - Ma perché, perché non me ne hai mai parlato?
    -  E' nel portafoglio a mosaico,  che tiene sempre sotto il guanciale.
    Adesso so!   -  disse la principessina,  senza rispondere alla domanda
    che  le era stata fatta.   -  Sì,  lo confesso,  se ho un peccato,  un
    grosso peccato sulla coscienza,  è l'odio che nutro per quella  strega
    -  esclamò,  quasi gridando e divenuta irriconoscibile.   -  E perché,
    perché viene qui in mezzo a noi?  Ma dirò  tutto,  tutto...  Verrà  il
    momento, oh, se verrà!


    CAPITOLO 19.

    Mentre  tali  discorsi si svolgevano nella sala di ricevimento e nelle
    stanze della principessina,  la carrozza che portava Pierre (mandato a
    chiamare)   e   Anna   Michàjlovna   (che  aveva  ritenuto  necessario
    accompagnarlo) entrava nel cortile di casa Bezuchov. Allorché le ruote
    risonarono dolcemente sulla  paglia  stesa  sotto  le  finestre,  Anna
    Michàjlovna,  la  quale,  dopo  aver rivolto al suo compagno parole di
    conforto, lo aveva persuaso a dormire in un angolo della carrozza,  lo
    svegliò.  Quando fu desto,  Pierre,  seguendo Anna Michàjlovna,  scese
    dalla carrozza,  e soltanto allora pensò al colloquio che lo attendeva
    con  il  padre  moribondo.  Notò  che  la  carrozza non si era fermata
    davanti all'ingresso principale,  ma a quello di servizio.  Mentre  si
    accingeva  a  scendere dal predellino,  due uomini in abito dimesso si
    allontanarono frettolosamente dalla scalinata, nascondendosi all'ombra
    del muro.  Fermatosi un momento,  Pierre vide altri  uomini  simili  a
    quelli,  che  si nascondevano ugualmente nell'ombra (106).  Ma né Anna
    Michàjlovna, né il cocchiere,  né il domestico,  che pure non potevano
    non  scorgerli,   prestarono  attenzione  alla  loro  presenza.  "Così
    dev'essere", decise Pierre tra sé e sé, e seguì Anna Michàjlovna. Ella
    saliva  a  passo  rapido  la  stretta  scala  di   pietra   debolmente
    illuminata,   chiamando   Pierre  che  era  rimasto  indietro  e  che,
    quantunque non capisse perché dovesse andare dal conte,  e ancora meno
    perché dovesse salire dalla scala di servizio, giudicando dalla fretta
    di  Anna  Michàjlovna,  ritenne che tutto ciò fosse indispensabile.  A
    metà scala, per poco non fu urtato da alcuni uomini che, facendo molto
    rumore con le loro grosse scarpe, scendevano in fretta portando alcuni
    secchi.  Costoro si addossarono al muro,  per cedere il passo ad  Anna
    Michàjlovna e a Pierre,  e non mostrarono il benché minimo stupore nel
    vederli.
    - E' di qua l'appartamento  delle  principessine?    -    chiese  Anna
    Michàjlovna a uno di loro.
    - Sì,  di qua  -  rispose uno dei servi con voce forte e ardita,  come
    se ormai fosse tutto permesso.  -  La porta a sinistra, signora.
    - Forse il conte non ha chiesto di me  -    disse  Pierre  giunto  sul
    pianerottolo.  -  Andrò nella mia camera...
    Anna Michàjlovna si fermò per aspettarlo.
    - Ah, "mon ami"  -  esclamò e con lo stesso gesto affettuoso che aveva
    avuto al mattino con il figlio,  gli toccò un braccio.  -  "Croyez que
    je souffre autant que vous,  mais soyez homme"  [107.  Ah,  mio  caro.
    Credetemi, io soffro quanto voi. Siate uomo!].
    - Ma ditemi, non è meglio che me ne vada?  -  chiese Pierre, guardando
    affettuosamente Anna Michàjlovna attraverso le lenti.
    - "Ah, mon ami, oubliez les torts qu'on a pu avoir envers vous, pensez
    que  c'est  votre  père...  peut-être  à  l'agonie..."  -  E trasse un
    profondo sospiro.   -  "Je vous ai tout de suite aimé comme mon  fils.
    Fiez-vous à moi,  Pierre.  Je n'oublierai pas vos intérêts" [108.  Ah,
    mio caro, dimenticate i torti che avete subito!  Pensate che si tratta
    di vostro padre... forse in agonia... Io vi ho subito voluto bene come
    a un figlio.  Abbiate fiducia in me, Pierre. Non dimenticherò i vostri
    interessi].
    Pierre non capiva nulla,  ma si convinceva sempre di più che  le  cose
    dovessero essere così e,  ubbidiente, seguiva Anna Michàjlovna che già
    stava aprendo la porta.
    La porta dava accesso all'anticamera dove, in un angolo,  stava seduto
    il  vecchio  servitore  delle principessine,  intento a fare la calza.
    Pierre non era mai entrato in quella  parte  del  palazzo  e  ignorava
    addirittura  l'esistenza  di quelle stanze.  Anna Michàjlovna chiese a
    una cameriera  (chiamandola  colombella),  che  passava  portando  una
    caraffa  sopra un vassoio,  notizie sulla salute delle principessine e
    condusse Pierre più avanti,  lungo  il  corridoio.  La  cameriera  che
    portava la caraffa,  per la fretta (in casa in quei momenti, si faceva
    tutto  di  fretta)  non  aveva  chiuso  l'uscio,   e  Pierre  e   Anna
    Michàjlovna, passandovi davanti, guardarono senza volerlo nella stanza
    in cui stavano discorrendo,  vicini l'una all'altro,  la principessina
    più anziana e il principe Vassilij.
    Alla vista dei due che passavano, il principe Vassilij ebbe un moto di
    impazienza e si tirò indietro; la principessina balzò in piedi e,  con
    un gesto irritato, chiuse la porta sbattendola con forza.
    Quel  gesto  era  così  contrastante  con la calma abituale di lei,  e
    l'espressione di timore comparsa sul viso del principe  Vassilij  così
    contraria  all'abituale  sua alterigia che Pierre,  fermatosi,  guardò
    interrogativamente la sua guida.  Anna Michàjlovna non dimostrò alcuna
    meraviglia;  si  limitò a un sorriso appena accennato e sospirò,  come
    per significare che tutto ciò che accadeva  non  le  riusciva  affatto
    inaspettato.
    - "Soyez homme, mon ami, c'est moi qui veillerai à vos intérêts" [109.
    Siate  uomo,  amico  mio,  sarò  io  a tutelare i vostri interessi]  -
    disse in risposta a quello sguardo,  e proseguì più rapidamente  lungo
    il corridoio.
    Pierre  non  capiva che cosa accadesse e,  meno ancora capiva che cosa
    significassero le parole: "veillerai à vos intérêts";  ma sentiva  che
    tutto  così  doveva  essere.  Dal  corridoio  entrarono  in una stanza
    scarsamente illuminata,  attigua alla sala di ricevimento  del  conte.
    Era una delle tante stanze fredde e sontuose che Pierre conosceva,  ma
    accedendovi dall'entrata principale.  Ora in mezzo alla  stanza  stava
    una  tinozza  da  bagno  vuota e un tappeto tutto intriso d'acqua.  Un
    cameriere e un sacrestano, che portava un turibolo,  uscirono in punta
    di piedi,  senza badare ai due nuovi arrivati.  Essi, attraversando il
    giardino d'inverno,  entrarono nella sala da ricevimento,  ben nota  a
    Pierre,  dalle  due  finestre  all'italiana,  nella quale dominava,  a
    grandezza naturale,  un ritratto di Caterina.  Vi  stavano  sedute  le
    solite  persone,   quasi  tutte  nelle  pose  abituali,   e  parlavano
    sottovoce.  Tacquero a un tratto e guardarono  Anna  Michàjlovna,  che
    entrava con il viso pallido e dolente,  e Pierre, grande e grosso, che
    a testa bassa la seguiva docilmente.
    Il viso di Anna Michàjlovna esprimeva la consapevolezza che era giunto
    il momento decisivo;  con l'aria di  una  signora  indaffarata  entrò,
    senza lasciare Pierre,  ancora più arditamente che al mattino. Sentiva
    che,  accompagnando colui che il moribondo desiderava  vedere,  poteva
    avere la sicurezza di essere ricevuta. Diede un rapido sguardo a tutte
    le persone riunite nella stanza,  e,  scorto tra di esse il confessore
    del conte, senza inchinarsi ma come facendosi a un tratto più piccola,
    gli si avvicinò pian piano, quasi strisciando, e devotamente ricevette
    prima la benedizione di lui, poi quella di un altro sacerdote.
    - Sia lodato Iddio!  Siamo arrivati in tempo  -  disse al  confessore.
    -    Temevamo  tanto,  noi  parenti...  Questo giovanotto è figlio del
    conte...  -  aggiunse a voce più bassa.  -  Che momenti terribili!
    Dopo aver detto ciò si avvicinò al dottore.
    - "Cher docteur",   -  gli disse  -  "ce jeune homme est  le  fils  du
    comte...   Il  y  a-t-il  de  l'espoir?  [110.  Caro  dottore,  questo
    giovanotto è il figlio del conte... C'è qualche speranza?].
    Il dottore,  senza parlare,  alzò rapidamente gli occhi e  le  spalle.
    Anna Michàjlovna fece lo stesso gesto con le spalle e con gli occhi e,
    quasi chiudendoli,  sospirò;  allontanatasi dal dottore, si avvicinò a
    Pierre,  al quale si rivolse con un rispetto  particolare  e  un  tono
    tenero e triste.
    - "Ayez confiance en Sa miséricorde!" [111.  Abbiate fiducia nella Sua
    misericordia!]  -  gli disse e,  indicandogli un piccolo divano perché
    si  sedesse e l'aspettasse,  si diresse silenziosamente verso la porta
    alla quale erano rivolti gli sguardi di tutti e, seguìta dal suo lieve
    scricchiolio, scomparve al di là di essa.
    Pierre,  deciso a obbedire in tutto alla  sua  guida,  si  diresse  al
    piccolo  divano  che  Anna Michàjlovna gli aveva indicato.  Non appena
    essa fu scomparsa, egli notò che gli sguardi di tutti coloro che erano
    riuniti in quella  sala  si  puntarono  su  di  lui  con  curiosità  e
    compassione.  Notò che tutti,  bisbigliando,  se lo indicavano con gli
    occhi,  con un'espressione di timore e quasi di  timida  premura.  Gli
    dimostravano   un   rispetto   quale   prima  nessuno  mai  gli  aveva
    manifestato: una signora sconosciuta e che  stava  discorrendo  con  i
    preti  si  alzò  e  gli  offrì il proprio posto;  un aiutante di campo
    raccolse un guanto che Pierre aveva lasciato cadere e glielo porse;  i
    dottori  tacquero  rispettosamente  quando  egli  fu loro davanti e si
    scostarono per  lasciarlo  passare.  Dapprima  Pierre  voleva  sedersi
    altrove  per non scomodare la signora,  raccogliere da sé il guanto ed
    evitare che i medici si scostassero, ma ad un tratto sentì che sarebbe
    stato scortese da parte sua,  sentì  che  quella  notte  egli  era  un
    personaggio  obbligato  a compiere un rito solenne e atteso da tutti e
    che doveva, perciò, accettare i servigi che tutti gli rendevano. Prese
    quindi, senza dir nulla, il guanto che l'aiutante gli porgeva, sedette
    al posto che la signora gli offriva e,  con le grosse mani  appoggiate
    simmetricamente sulle ginocchia e una posa ingenua da statua egiziana,
    concluse ancora tra sé che le cose dovevano andare precisamente così e
    che,   quella  sera,  non  doveva  agire  di  propria  iniziativa,  ma
    abbandonarsi completamente alla volontà di chi  lo  guidava,  per  non
    correre il rischio di smarrirsi e di commettere qualche sciocchezza.
    Erano appena trascorsi due o tre minuti,  quando entrò nella stanza il
    principe Vassilij, con la giacca a tre decorazioni,  con aria maestosa
    e il capo eretto.  Pareva essere diventato più magro. Allorché, tra le
    persone  riunite  nella  stanza,  scorse  Pierre,  gli  occhi  gli  si
    allargarono. Si avvicinò al giovane, gli strinse la mano (cosa che non
    aveva  mai  fatto)  e  gliela  tirò con forza verso il basso,  come se
    volesse provarne la resistenza.
    - "Courage, courage, mon ami.  Il a demandé à vous voir.  C'est bien!"
    [112.  Coraggio,  coraggio,  amico  mio.  Ha  chiesto  di vedervi.  E'
    giusto].  -  E fece per allontanarsi.
    Ma Pierre ritenne necessario chiedergli:
    - Come sta...?   -  e rimase esitante,  non sapendo se gli  convenisse
    chiamare conte il moribondo. Si vergognava di dire: "mio padre".
    - "Il a eu encore un coup,  il y a une demi-heure". Ancora un colpo...
    "Courage, mon ami" [113. Ha avuto un altro attacco, mezz'ora fa (...).
    Coraggio, amico mio!].
    Pierre aveva una tale confusione nella testa che alla  parola  "colpo"
    pensò  trattarsi dell'urto di un corpo qualsiasi.  Guardò perplesso il
    principe e,  soltanto dopo un po',  capì che così veniva chiamata  una
    crisi della malattia.  Il principe Vassilij, passando, sussurrò alcune
    parole al dottor Lorrain e uscì in punta di piedi.  Non  gli  riusciva
    facile  camminare  così  e perciò procedeva saltellando goffamente con
    tutta la persona.  Lo seguì la maggiore  delle  principessine,  poi  i
    sacerdoti, i cantori e la servitù varcarono anch'essi la soglia. Al di
    là  della  porta  si  udì un po' di movimento e poco dopo,  pallida ma
    forte nell'adempimento del proprio dovere  comparve  Anna  Michàjlovna
    che strinse la mano a Pierre e gli disse:
    -  "La  bonté divine est inépuisable.  C'est la cérémonie de l'Extrême
    Onction qui va commencer. Venez [114.  La bontà divina è inesauribile.
    Sta per cominciare la cerimonia dell'Estrema Unzione. Venite].
    Pierre,  camminando  su un morbido tappeto,  mosse verso quell'uscio e
    notò che anche l'aiutante di campo,  la signora sconosciuta  e  alcuni
    domestici  entrarono  dopo  di  lui.  Pareva  che  ormai non fosse più
    necessario chiedere il permesso per entrare in quella stanza.


    CAPITOLO 20.

    Pierre conosceva bene  quella  vasta  camera  divisa  da  archi  e  da
    colonne,  tutta rivestita di tappeti persiani.  La parte situata al di
    là delle colonne,  dove si vedeva da un lato un alto letto  di  mogano
    avvolto  da  cortine  di  seta  e dall'altro una grande vetrina con le
    immagini  sacre,  era  vivamente  illuminata,   come  di  solito  sono
    illuminate le chiese durante le funzioni della sera.  Sotto la cornice
    luccicante  della  vetrina  era  situata  una  lunga  poltrona  "à  la
    Voltaire" e sopra quella poltrona,  dalla spalliera coperta di cuscini
    candidi come neve,  non ancora sgualciti ed evidentemente rinnovati da
    poco,  avvolta  sino  alla cintola in una coperta verde chiaro,  stava
    distesa la maestosa figura,  ben nota a Pierre,  del  conte  Bezuchov,
    dalla  grigia  criniera  leonina,  dall'ampia  fronte  e  dal bel viso
    solenne, di un giallo rossastro, attraversato da caratteristiche rughe
    profonde.  Egli giaceva proprio sotto le immagini sacre;  le larghe  e
    grosse  mani  erano  abbandonate sulla coperta.  Nella destra,  con il
    palmo rivolto in basso, era stato infilato, tra il pollice e l'indice,
    un cero,  sorretto da un vecchio servitore curvo  sopra  la  spalliera
    della poltrona. Attorno stavano i preti nei loro luccicanti e maestosi
    paramenti,  sui quali ricadevano i lunghi capelli;  tenevano in mano i
    ceri accesi e con  solenne  lentezza  celebravano  l'uffizio.  Un  po'
    discosto  da  loro erano ritte le due principessine più giovani con il
    fazzoletto agli occhi, e davanti alle sorelle stava Katiscia che,  con
    espressione  risoluta e cattiva,  non distoglieva un attimo lo sguardo
    dalle icone, come per far capire a tutti che, se si fosse voltata, non
    avrebbe più saputo rispondere di se stessa.  Anna Michàjlovna,  con la
    sua  aria  di  rassegnata  tristezza  capace di perdonare tutto,  e la
    signora sconosciuta  erano  ritte  accanto  alla  porta.  Il  principe
    Vassilij,  dall'altro lato della porta, non lontano dalla poltrona del
    conte,  dietro una sedia imbottita sul cui schienale,  che egli  aveva
    voltato  verso  di  sé,  appoggiava la mano sinistra che sorreggeva il
    cero,  con la destra si faceva segni di croce,  alzando gli  occhi  al
    cielo  ogni  volta  che  portava  le  dita  alla  fronte.  Il suo viso
    esprimeva una  religiosità  calma  e  un'assoluta  sottomissione  alla
    divina  volontà.  "Se  non capite questi sentimenti,  tanto peggio per
    voi", pareva volesse dire.
    Alle sue spalle,  a una certa distanza,  erano in piedi l'aiutante  di
    campo,  i medici e la servitù maschile; come in chiesa, uomini e donne
    formavano gruppi separati.  In mezzo al generale silenzio  si  udivano
    soltanto  la lettura dei salmi,  il canto contenuto,  basso e profondo
    dei sacerdoti e,  nei momenti di pausa,  uno  scalpiccio  di  piedi  e
    qualche   profondo   sospiro.   Anna   Michàjlovna,   con   quell'aria
    significativa con cui voleva  dimostrare  di  essere  ben  conscia  di
    quanto faceva, attraversò tutta la stanza e raggiunse Pierre, al quale
    porse un cero da tenere in mano. Egli lo accese e, distratto dalle sue
    osservazioni sui presenti,  si fece il segno della croce con la stessa
    mano che reggeva il cero.
    La minore delle principesse,  la rosea e vivace Sophie,  dal neo sopra
    la bocca,  lo guardò,  sorrise, nascose il viso nel fazzoletto e ve lo
    tenne  a  lungo;   poi  guardò  ancora  Pierre  e  sorrise  di  nuovo.
    Evidentemente  sentiva di non essere capace di guardarlo senza ridere,
    ma non poteva trattenersi dal volgere gli occhi verso di  lui  e,  per
    evitare la tentazione, si ritirò pian piano dietro una colonna. A metà
    dell'uffizio,  le  voci  salmodianti  tacquero;  i  preti  si misero a
    parlottare tra di loro,  a voce bassissima,  e il vecchio  servo,  che
    sosteneva la mano del conte, si alzò e si volse verso le signore. Anna
    Michàjlovna avanzò e,  chinatasi sull'ammalato, da dietro la spalliera
    della poltrona,  fece un cenno al dottor Lorrain.  Il medico francese,
    che  non  aveva  in  mano  alcun cero,  stava appoggiato a una colonna
    nell'atteggiamento  rispettoso  di  uno  straniero  il  quale   voglia
    dimostrare che,  nonostante la diversità di religione, comprende tutta
    la solenne impostazione della funzione che si sta svolgendo  e,  anzi,
    l'approva. Si avvicinò a passo leggero all'ammalato, gli prese la mano
    libera  sollevandola  dalla  coperta  verde  e,  con le dita sottili e
    bianche, gli tastò il polso con aria pensierosa.
    Fecero bere qualcosa  all'infermo;  vi  fu  attorno  a  lui  un  certo
    movimento, poi ognuno riprese il proprio posto e la funzione continuò.
    Durante   l'interruzione,   Pierre  notò  che  il  principe  Vassilij,
    scostatosi dalla spalliera della sedia,  con l'aria di sapere ciò  che
    faceva   -  e tanto peggio per gli altri se non lo capivano  -  non si
    avvicinò al malato ma, passatogli davanti, raggiunse la maggiore delle
    principessine e con lei si diresse in fondo alla camera,  verso l'alto
    letto dalle cortine di seta.  Di lì, passando da una porticina a muro,
    scomparvero  insieme  ma,   prima  che  l'ufficio   fosse   terminato,
    ritornarono ai loro posti.  Pierre non attribuì a quel fatto, come del
    resto a nessun altro,  alcuna importanza particolare,  dato  che,  una
    volta per tutte,  si era convinto che ciò che avveniva quella sera, in
    quella casa, doveva assolutamente essere così.
    Le note dei canti  religiosi  cessarono,  e  si  udì  la  voce  di  un
    sacerdote  che  si  compiaceva con l'ammalato perché aveva ricevuto il
    Sacramento.  L'infermo giaceva sempre immobile,  come privo  di  vita.
    Attorno a lui tutti si agitarono,  si udirono passi concitati e parole
    appena sussurrate, tra le quali dominavano quelle di Anna Michàjlovna.
    Pierre sentì che essa diceva:
    - Bisognerebbe assolutamente trasportarlo sul letto... qui non può più
    stare...
    I medici, le principessine e la servitù attorniarono il malato in modo
    tale che Pierre non ne vedeva già più la testa giallo-rossastra  dalla
    criniera grigia, la quale, nonostante la vista di tante altre persone,
    gli  era  rimasta  fissa  nella  mente durante tutta la funzione.  Dai
    movimenti prudenti di coloro che circondavano la poltrona, Pierre capì
    che l'ammalato veniva sollevato e trasportato sul letto.
    - Reggiti al mio braccio... se no lo farai cadere...  -  giunse sino a
    lui la voce sommessa e spaventata di uno dei servi.   -   Di  sotto...
    ancora uno...   -  dicevano altre voci,  mentre il calpestio si faceva
    più rapido e i respiri diventavano più affannosi,  come se il peso che
    trasportavano fosse stato superiore alle loro forze.
    I   portatori,   tra  cui  c'era  anche  Anna  Michàjlovna,   giunsero
    all'altezza di Pierre che per un attimo,  tra le  schiene  e  i  colli
    degli uomini, scorse il grosso petto nudo, le larghe spalle del malato
    sollevato  dai  servi  che  lo tenevano sotto le ascelle,  e la grigia
    testa leonina dalla chioma  ricciuta.  Quella  testa,  con  la  fronte
    eccezionalmente  ampia,  gli  zigomi  pronunziati,  la  bocca  bella e
    sensuale,  lo sguardo nobile  e  freddo,  non  era  affatto  deformata
    dall'avvicinarsi  della morte.  Era tale e quale Pierre l'aveva veduta
    tre mesi prima quando il conte lo aveva mandato a Pietroburgo,  ma ora
    quella testa oscillava inerte a ogni passo dei portatori,  e il freddo
    sguardo apatico non sapeva su cosa fermarsi.
    Seguirono alcuni minuti di grande agitazione  attorno  al  letto;  gli
    uomini  che  avevano  trasportato  il  malato  si allontanarono.  Anna
    Michàjlovna toccò un braccio a Pierre e gli disse:
    - "Venez".
    Insieme con lei,  il giovane  si  avvicinò  al  letto  sul  quale,  in
    atteggiamento solenne,  in evidente rapporto con la cerimonia svoltasi
    poco prima,  giaceva il morente,  con il capo tenuto alto da  parecchi
    guanciali.  Le mani erano simmetricamente posate sulla coperta di seta
    verde,  a palme all'ingiù.  Quando Pierre si  avvicinò,  il  conte  lo
    guardò  fisso,  con  uno  di  quegli  sguardi  di  cui non è possibile
    all'uomo comprendere il significato e l'importanza. Quello sguardo non
    significava nulla se non che,  sino  a  quando  si  hanno  gli  occhi,
    bisogna  pur posarli su qualche cosa,  oppure significava troppe cose.
    Pierre  si  fermò,   non  sapendo  che  fare   e   volse   un'occhiata
    interrogativa  alla  sua  guida.  Anna  Michàjlovna gli indicò con gli
    occhi la mano del malato e con le labbra gli fece  capire  che  doveva
    baciarla.  Pierre allora,  tendendo il collo in modo da non toccare la
    coperta,  seguì il consiglio e si chinò sulla mano larga e grossa  del
    conte. Quella mano non trasalì, e non trasalì un solo muscolo del viso
    del morente.  Pierre guardò di nuovo Anna Michàjlovna, chiedendole con
    gli occhi che cosa dovesse fare.  Essa accennò alla poltrona che stava
    accanto  al  letto: Pierre,  ubbidiente,  vi si sedette continuando ad
    interrogare con lo sguardo Anna Michàjlovna,  che gli fece con il capo
    un cenno di approvazione.
    Pierre assunse di nuovo l'atteggiamento ingenuo e simmetrico di statua
    egiziana,  rammaricandosi nel costatare che il suo goffo, grande corpo
    occupasse tanto  posto  e  facendo  tutti  gli  sforzi  possibili  per
    riuscire a sembrare meno grosso. Guardava il conte: questi guardava in
    alto, nel punto in cui poco prima si trovava il viso di Pierre, quando
    egli era in piedi... Anna Michàjlovna dimostrava di essere consapevole
    della commovente importanza di quell'ultimo incontro del figlio con il
    padre.  Esso  si  protrasse  per  due  minuti che a Pierre parvero più
    lunghi di un'ora. A un tratto, i muscoli sporgenti e le rughe del viso
    del conte ebbero un fremito. Quel fremito andò via via aumentando,  la
    bella  bocca  si  torse  (allora soltanto Pierre capì quanto suo padre
    fosse ormai vicino a morire) e dalla bocca  deformata  uscì  un  suono
    rauco e indistinto. Anna Michàjlovna guardò attentamente gli occhi del
    malato  e,  sforzandosi  di capire che cosa volesse,  gli indicava ora
    Pierre, ora il bicchiere, ora sussurrava in tono interrogativo il nome
    del principe Vassilij,  ora la  coperta.  Gli  occhi  e  il  viso  del
    moribondo  esprimevano  l'impazienza.  Fece uno sforzo per guardare il
    domestico che stava ritto e immobile accanto al letto.
    - Forse vuole girarsi sull'altro fianco   -    sussurrò  l'uomo  e  si
    avvicinò  per  voltare  con la faccia alla parete il corpo pesante del
    conte.
    Pierre si alzò per aiutarlo.
    E mentre stavano rigirando il conte, un braccio di lui, rimasto dietro
    il dorso, penzolò inerte,  e l'infermo si sforzò inutilmente di trarlo
    a  sé.  Forse  il conte si accorse dello sguardo sgomento con il quale
    Pierre fissava quel braccio senza vita? O forse qualche altro pensiero
    balenò in quell'attimo supremo alla sua mente?  Fatto si  è  che  egli
    guardò prima quel braccio che non gli obbediva più,  poi l'espressione
    di terrore apparsa sul viso di Pierre,  poi ancora il braccio,  e  sul
    suo volto balenò un sorriso debole e doloroso che non si addiceva alla
    sua  fisionomia e che pareva voler irridere alla sua stessa debolezza.
    Al vedere quel sorriso  inaspettato,  Pierre  sentì  un  sussulto  nel
    petto,  un  pizzicore  nel  naso  e  un velo di lacrime gli offuscò la
    vista.
    L'ammalato, voltato verso il muro, sospirò.
    -  "Il  est  assoupi"    -    disse  Anna  Michàjlovna  a  una   delle
    principessine che si avvicinava per darle il cambio.  -  Andiamo!


    CAPITOLO 21.

    Nella  sala  da  ricevimento  non  c'era ormai più nessuno,  tranne il
    principe Vassilij e la maggiore delle principessine che,  seduti sotto
    il  ritratto  dell'imperatrice Caterina,  parlavano animatamente.  Non
    appena videro Pierre con la sua guida,  tacquero di colpo.  E parve  a
    Pierre che la principessa nascondesse qualcosa e sussurrasse:
    - "Non posso soffrire quella donna...
    -  Katiscia  "a  fait  donner du thé dans le petit salon"  -  disse il
    principe Vassilij ad Anna Michàjlovna.   -   "Allez,  ma  pauvre  Anna
    Michàjlovna,  prenez  quelque  chose,  autrement vous ne suffirez pas"
    [115.  Katiscia ha fatto preparare del tè  nel  salotto.  Andate,  mia
    povera Anna Michàjlovna,  e prendete qualcosa,  altrimenti non potrete
    resistere].
    A Pierre non disse nulla;  si limitò a stringergli la mano.  Pierre  e
    Anna Michàjlovna passarono nel salotto.
    -  "Il  n'y  a  rien qui restaure comme une tasse de cet excellent thé
    russe après une nuit blanche" [116.  Non c'è nulla che  ristori  tanto
    quanto una tazza di questo squisito tè russo,  dopo una notte insonne]
    -  disse il dottor  Lorrain  con  animazione  contenuta,  sorbendo  la
    profumata bevanda da una fine tazza cinese senza manico, ritto davanti
    alla  tavola  sulla  quale erano apparecchiati il servizio per il tè e
    una cena fredda. Attorno alla tavola erano riunite,  per rifocillarsi,
    tutte  le  persone  che  quella  notte  si trovavano in casa del conte
    Bezuchov.  Pierre ricordava perfettamente quel  salottino,  ornato  di
    specchi  e  di tavolinetti.  Durante le feste da ballo organizzate dal
    conte,  lui che non sapeva ballare,  amava rifugiarvisi e osservare le
    signore  che  in eleganti abiti da sera,  con le spalle nude adorne di
    perle  e  di  brillanti,  passavano  attraverso  quella  stanza  e  si
    guardavano  con  compiacenza  negli  specchi  vivamente illuminati che
    riflettevano più volte la loro immagine. Ora quello stesso salotto era
    rischiarato soltanto da due candele, e nella penombra si intravedeva a
    malapena una piccola tavola su cui erano messi in disordine  le  tazze
    del tè e vari piatti,  e le diverse persone lì riunite, tutt'altro che
    festose,  parlavano a voce bassissima,  dimostrando con ogni parola  e
    con  ogni  gesto che nessuno dimenticava ciò che stava accadendo e che
    doveva compiersi nella camera da letto.
    Pierre non toccò cibo,  sebbene avesse fame.  Si volse ancora verso la
    sua guida e vide che essa entrava di nuovo,  in punta di piedi,  nella
    sala di ricevimento,  dove erano rimasti il  principe  Vassilij  e  la
    maggiore  delle  principessine.  Si  disse  ancora  una volta che così
    doveva essere e, dopo aver esitato un momento,  seguì Anna Michàjlovna
    e   la   vide   in   piedi   accanto  alla  principessina.   Parlavano
    sommessamente, con voce concitata.
    - Vi prego, principessa, permettete... io so ciò che bisogna e ciò che
    non bisogna fare  -  diceva  la  principessina,  che  appariva,  molto
    turbata,  come  quando aveva chiuso,  sbattendola,  la porta della sua
    camera.
    - Ma,  cara principessina,   -   replicava  con  ferma  dolcezza  Anna
    Michàjlovna,  trattenendo  la principessina che voleva rientrare nella
    camera da letto  -  non sarà una cosa troppo penosa per il povero zio,
    in un momento in cui ha tanto bisogno di  riposo?  Come  parlargli  di
    interessi  terreni,  in  questo  momento,  quando  la  sua anima è già
    pronta...
    Il principe Vassilij era seduto in poltrona nella sua posa prediletta,
    con  le  gambe  accavallate  l'una  sull'altra.  Le  sue  guance,  che
    apparivano  più  grosse  nella  parte  inferiore,  avevano  frequenti,
    visibili contrazioni ma,  a vederlo,  aveva l'aria di una persona  che
    non si occupasse affatto di ciò che dicevano le due donne.
    -  Via,  mia  buona  Anna Michàjlovna,  lasciate fare a Katiscia.  Voi
    sapete quanto il conte le vuol bene...
    - Io non so neppure ciò che sia scritto in questa carta  -  diceva  la
    principessina,  rivolgendosi  al  principe  Vassilij e indicandogli il
    portafoglio a mosaico che teneva in mano.   -  So soltanto che il vero
    testamento è nella scrivania della sua camera e che questa è una carta
    dimenticata...
    Ella  cercò di aggirare Anna Michàjlovna ma questa,  con un salto,  le
    sbarrò di nuovo il passo.
    - So,  so tutto,  mia cara e  buona  principessina    -    disse  Anna
    Michàjlovna,  afferrando con una mano il portafoglio con tale forza da
    apparire  chiaro  che  non  l'avrebbe   lasciato   facilmente.-   Cara
    principessina, vi prego, vi supplico... abbiate compassione di lui. Ve
    ne scongiuro!
    La principessina taceva. Si udiva soltanto il lieve rumore della lotta
    per  il  portafoglio.  Era  chiaro  che,  se  la  principessina avesse
    parlato,  non avrebbe detto nulla di lusinghiero  sul  conto  di  Anna
    Michàjlovna.  Questa  resisteva con tutte le sue forze ma,  nonostante
    ciò, la sua voce continuava a mantenersi calma e dolce.
    - Pierre, venite qui,  mio caro...  Mi pare che egli non sia di troppo
    in un consiglio di famiglia: non è vero, principe?
    -  Ma  perché  tacete,  "mon  cousin"?    -    gridò  a  un  tratto la
    principessina, in tono così alto da essere udita dalle persone riunite
    nella sala,  che ne furono spaventate.   -    Perché,  dunque,  tacete
    quando  qui  un'intrusa qualsiasi si permette di intervenire e di fare
    scenate sulla soglia della camera di  un  moribondo?  Intrigante!    -
    esclamò con voce sibilante e maligna,  tirando a sé il portafoglio con
    tutta la sua forza,  ma Anna Michàjlovna fece qualche  passo  per  non
    lasciare la presa e lo afferrò con l'altra mano.
    -  Oh!    -  esclamò il principe Vassilij,  in tono di rimprovero e di
    stupore. E si alzò.  -  "C'est ridicule, voyons!" [117. Andiamo, è una
    cosa ridicola!]. Smettetela, via, smettetela!
    La principessina lasciò il portafoglio.
    - Anche voi!  -  ordinò il principe. Ma Anna Michàjlovna non gli diede
    ascolto.
    - Lasciatelo,  vi dico!  Assumo io l'incarico.  Andrò dal conte  e  lo
    interrogherò io stesso... Ne ho abbastanza di tutto questo!
    - "Mais,  mon prince",  -  ribatté Anna Michàjlovna  -  lasciategli un
    momento di pace dopo che  ha  ricevuto  un  così  solenne  Sacramento.
    Suvvia,  Pierre,  dite  anche  voi  la  vostra  opinione  -  aggiunse,
    rivolgendosi al giovane che si avvicinava  e  guardava  stupefatto  il
    viso  della  principessina  dall'espressione  cattiva  e priva di ogni
    dignità, e le guance frementi del principe Vassilij.
    - Badate che sarete responsabile di tutte le conseguenze  -   dichiarò
    il  principe  Vassilij  in tono severo.   -  Voi non sapete quello che
    fate.
    - Infame donna!   -  gridò la principessina,  slanciandosi  con  gesto
    inaspettato   contro  Anna  Michàjlovna  e  strappandole  di  mano  il
    portafoglio.
    Il principe Vassilij abbassò il capo e spalancò le braccia.
    In quel momento la porta, quella terribile porta che Pierre aveva così
    a lungo guardato e che si apriva così silenziosamente, si spalancò con
    fracasso  e  urtò  contro  la  parete.   Sulla  soglia   comparve   la
    principessina secondogenita congiungendo le mani.
    -  Ma  che fate qui?   -  gridò disperata.   -  "Il s'en va et vous me
    laissez seule!" [118. Egli sta morendo e voi mi lasciate sola!].
    La sorella maggiore lasciò cadere il portafoglio.  Anna Michàjlovna si
    chinò  rapidamente,  lo  agguantò  ed  entrò  di corsa nella camera da
    letto.  La principessina e il principe Vassilij,  dopo un  momento  di
    sorpresa,  si  riebbero  e  la  seguirono in fretta.  Trascorsi alcuni
    minuti,  la principessina,  con il viso  pallido  e  tirato  riapparve
    mordendosi  il  labbro  inferiore.  Alla  vista  di Pierre,  quel viso
    assunse un'espressione di collera incontenibile.
    - Rallegratevi, ora!  -  disse.  -  Era questo che aspettavate...
    E, singhiozzando,  si coprì il viso con il fazzoletto e fuggì di corsa
    dalla  stanza.  Subito  dopo  comparve  anche  il  principe  Vassilij.
    Barcollando, si avvicinò al divano sul quale era seduto Pierre e vi si
    abbandonò,  coprendosi gli occhi con  le  mani.  Pierre  notò  che  il
    principe era pallidissimo e che la mascella inferiore tremava come per
    un attacco di febbre.
    - Ah, mio caro!  -  esclamò, stringendo un gomito a Pierre e nella sua
    voce  vibrava un tono di sincera dolcezza,  quale il giovane non aveva
    mai avvertito in lui.   -  Quanto  peccato,  quanta  menzogna  c'è  in
    noi... e per che cosa? Io ho quasi sessant'anni, amico mio e ormai per
    me...  Tutto  finisce  con  la  morte,  tutto...  La  morte è una cosa
    orribile...  -  E si mise a piangere.
    Ultima a uscire fu Anna Michàjlovna. Si avvicinò lentamente a Pierre.
    - Pierre!  -  esclamò.
    Pierre le rivolse uno sguardo interrogativo.  Essa baciò in fronte  il
    giovane,  bagnandogli  il  viso  di  lacrime.  Tacque un istante e poi
    mormorò:
    - E' spirato...
    Pierre la fissava attraverso le lenti.
    - "Allons, je vous reconduirai...  Tâchez de pleurer.  Rien ne soulage
    comme  les  larmes"  [119.  Andiamo,  vi  accompagnerò...  Cercate  di
    piangere. Non v'è nulla che dia sollievo quanto le lacrime].
    Lo accompagnò nel salotto semibuio,  e Pierre fu contento che  nessuno
    potesse  vederlo in viso.  Anna Michàjlovna lo lasciò e,  quando fu di
    ritorno,  lo trovò profondamente addormentato,  con le mani incrociate
    sotto la testa.
    Il mattino seguente, Anna Michàjlovna disse a Pierre:
    - "Oui,  mon cher,  c'est une grande perte pour nous tous. Je ne parle
    pas de vous. Mais Dieu vous soutiendra;  vous êtes jeune et vous voilà
    à la tête d'une immense fortune, je l'espère. Le testament n'a pas été
    encore  ouvert.  Je  vous  connais  assez pour savoir que cela ne vous
    tournera pas la tête,  mais cela vous impose des devoirs,  et il  faut
    être homme [120.  Sì, mio caro, è una grave perdita per noi tutti. Non
    parlo di voi,  si capisce,  ma Iddio vi darà forza.  Siete giovane  ed
    entrate  in  possesso  di  una  immensa fortuna.  Almeno lo spero.  Il
    testamento non è stato ancora aperto. Vi conosco abbastanza per sapere
    che la ricchezza non vi farà perdere la testa,  ma essa vi imporrà dei
    doveri e bisogna mostrarsi uomo].
    Pierre non disse nulla.
    - "Peut-être plus tard je vous dirai,  mon cher, que si je n'avais pas
    été là, Dieu sait ce qui serait arrivé!  Vous savez,  mon oncle avant-
    hier encore me promettait de ne pas oublier Borìs.  Mais il n'a pas eu
    le temps. J'espère, mon cher ami, que vous remplirez le désir de votre
    père" [121. Forse, più tardi, vi dirò,  mio caro,  che se io non fossi
    stata qui,  Dio sa che cosa sarebbe accaduto.  Voi sapete che mio zio,
    ancora ieri l'altro,  mi promise i non dimenticare  Borìs.  Ma  gli  è
    mancato il tempo.  Spero,  amico mio, che realizzerete il desiderio di
    vostro padre].
    Pierre non capiva nulla; in silenzio, arrossendo timidamente, guardava
    Anna Michàjlovna. Dopo aver parlato con Pierre,  ella tornò dai Rostòv
    e  andò  a  letto.  Raccontò  poi  agli amici e a tutti i conoscenti i
    particolari della morte del conte Bezuchov.  Diceva che il  conte  era
    morto  come  lei  stessa  avrebbe  desiderato  morire,  che la fine di
    quell'uomo era  stata  non  solo  commovente,  ma  edificante,  e  che
    l'ultimo  colloquio  tra  padre  e  figlio era stato emozionante a tal
    punto che essa non poteva ripensarci senza piangere.  Aggiunse che non
    sapeva chi si fosse comportato meglio in quel momento terribile: se il
    padre,  che nell'attimo supremo si era ricordato di tutto e di tutti e
    aveva detto al figlio parole veramente toccanti,  o Pierre che era una
    pena  guardarlo,  tanto  appariva abbattuto ma che,  nonostante tutto,
    aveva cercato di nascondere il proprio dolore per  non  affliggere  il
    padre morente.
    - "C'est pénible,  mai cela fait du bien;  ca élève l'âme, de voir des
    hommes comme le vieux comte et son digne fils" [122.  E' penoso,  ma è
    una cosa che fa bene!  E' edificante per l'anima vedere uomini come il
    vecchio conte e il suo degno figliuolo]  diceva a tutti. Non giudicava
    l'atteggiamento della principessina e del  principe  Vassilij,  ma  lo
    descriveva bisbigliando, sotto il suggello del più assoluto segreto.


    CAPITOLO 22.

    A   Lissia-Gori,   la   proprietà   del  principe  Nikolàj  Andréevic'
    Bolkonskij,  si attendeva da un giorno all'altro l'arrivo del  giovane
    principe  Andréj e della principessa;  ma l'attesa non turbava affatto
    l'ordine rigoroso secondo il quale si svolgeva  la  vita  del  vecchio
    principe.
    Il  generale in capo,  principe Nikolàj Andréevic',  soprannominato in
    società "le roi de Prusse", dal tempo in cui, sotto Paolo Primo (123),
    era stato relegato in campagna,  non  aveva  più  abbandonato  la  sua
    proprietà,  dove  viveva,  senza mai allontanarsene,  con la figliuola
    principessa Màrija e la damigella di compagnia di lei,  "mademoiselle"
    Bourienne.  Sebbene,  con  l'inizio  del nuovo regno,  gli fosse stato
    concesso il  permesso  di  rientrare  nella  capitale,  egli  continuò
    ugualmente a vivere in campagna, dicendo che, se qualcuno avesse avuto
    bisogno  di lui,  poteva benissimo percorrere le centocinquanta miglia
    per raggiungerlo e che, per conto suo, non aveva bisogno di nulla e di
    nessuno.
    Asseriva che i vizi umani avevano soltanto  due  fonti:  l'ozio  e  la
    superstizione   e   che   due   sole  erano  le  virtù:  l'attività  e
    l'intelligenza. Si occupava personalmente dell'educazione della figlia
    e,  per sviluppare in lei quelle due importanti  virtù,  le  impartiva
    lezioni  di algebra e di geometria e le regolava la vita con una serie
    di continue occupazioni.  Egli stesso,  del resto,  non stava  mai  in
    ozio:  ora  scriveva  le  sue  memorie,   ora  risolveva  problemi  di
    matematica trascendentale,  ora faceva tabacchiere al tornio,  ora  si
    occupava  del  giardino  e  sorvegliava  affinché  i  lavori nella sua
    proprietà  non  subissero  interruzioni.   Poiché  riteneva   che   la
    condizione principale di ogni attività è l'ordine, quest'ordine, nella
    sua  vita,  era spinto sino all'estremo.  I pasti si svolgevano sempre
    con il medesimo cerimoniale e avevano luogo non solo alla stessa  ora,
    ma addirittura allo stesso minuto. Con le persone che lo circondavano,
    da sua figlia ai domestici,  il principe era rigido ed esigentissimo e
    così,  pur non essendo cattivo,  suscitava un rispetto pieno di paura,
    quale non avrebbe suscitato il più crudele degli uomini. Sebbene fosse
    a  riposo  e  non  avesse ormai più alcuna autorità negli affari dello
    stato,  ogni governatore della provincia in  cui  si  trovava  la  sua
    proprietà  riteneva  suo  dovere  recarsi  a  fargli  visita  e,  come
    l'architetto,  il  giardiniere  o  la  principessina  Màrija,   doveva
    aspettare  nella  grande  sala  di  servizio  l'ora in cui il principe
    usciva.  E tutti coloro che aspettavano in quella  sala  provavano  lo
    stesso  sentimento  di rispetto e di timore allorché si apriva l'alta,
    massiccia porta dello studio e compariva  sulla  soglia,  in  parrucca
    incipriata, la piccola figura del vecchio, dalle mani secche e minute,
    dalle  sopracciglia  grigie e cadenti che,  quando egli si aggrottava,
    velavano il bagliore dello sguardo intelligente, vivido, giovanile.
    Nel giorno dell'arrivo degli sposi, la principessina Màrija entrò come
    al solito nella vasta sala di servizio all'ora fissata per  il  saluto
    mattutino al padre;  si fece il segno della croce e recitò mentalmente
    la preghiera consueta.  Ogni mattina ella entrava in quella  stanza  e
    ogni  mattina  ella  pregava  affinché  il  quotidiano incontro con il
    principe avvenisse senza incidenti.
    Il vecchio domestico in parrucca,  che stava seduto nella  stanza,  si
    alzò lentamente e a voce bassa annunziò:
    - Potete favorire.
    Di là dall'uscio si udiva il rumore ritmico del tornio in funzione. La
    principessina  spinse  la porta che si aprì silenziosamente e si fermò
    sulla soglia.  Il principe stava  lavorando  al  tornio  e  dopo  aver
    rivolto uno sguardo alla figlia, proseguì nella sua occupazione.
    La vastissima stanza era piena di oggetti che, evidentemente, venivano
    usati  di  continuo.  L'ampio  tavolo  sul  quale erano posati libri e
    disegni,  il grande scaffale a vetri con  le  chiavi  agli  sportelli,
    l'alto  leggìo  per  scrivere  in  piedi  e  sul  quale si scorgeva un
    quaderno aperto, il tornio attorno al quale erano ammucchiati utensili
    e i trucioli sparsi qua e là,  tutto stava a dimostrare  una  continua
    varia  e intelligente attività.  I movimenti del piccolo piede calzato
    di uno stivaletto tartaro ricamato d'argento,  la pressione della mano
    magra,  dalle vene sporgenti, rivelavano che il principe conservava la
    forza di una vecchiaia sana e robusta.  Dopo aver fatto compiere  alla
    ruota   alcuni   giri,   egli  sollevò  il  piede  dal  pedale,   pulì
    accuratamente la lama e la ripose in una custodia di cuoio  appesa  al
    tornio  e,  avvicinatosi al tavolo,  chiamò a sé la figlia.  Non aveva
    l'abitudine  di  benedire  i  suoi  figli,   sicché,   offrendo   alla
    principessina Màrija la guancia ispida, non ancora rasata, le disse in
    tono severo, ma nello stesso tempo premuroso e tenero:
    - Stai bene? Allora vieni e siediti.
    Prese il quaderno di geometria,  scritto di suo pugno e, con un piede,
    avvicinò al tavolo la sua poltrona.
    - Per domani!  -  disse, cercando rapidamente una pagina e facendo con
    l'unghia un segno da un paragrafo all'altro.
    La principessina si chinò verso il tavolo e guardò il quaderno.
    - Aspetta,  c'è una lettera per te  -  disse a un tratto  il  vecchio,
    traendo  dalla  tasca  appesa  al tavolo una busta vergata da una mano
    femminile e gettandola davanti alla figlia.
    Il viso della principessina,  alla vista della lettera,  si  coprì  di
    chiazze rosse. La prese in fretta e si accinse ad aprirla.
    - E' di Eloisa?  (124)  -  chiese il vecchio con un freddo sorriso che
    scoprì la dentatura giallastra, ma ancora robusta.
    - Sì,  è di Julie  -   rispose  la  figlia,  guardando  la  lettera  e
    sorridendo timidamente.
    - Lascerò passare altre due lettere,  ma leggerò la terza  -  dichiarò
    il vecchio.  -  Temo che vi scriviate molte sciocchezze.
    - Leggete anche questa,  "mon père"   -    rispose  la  principessina,
    arrossendo ancora di più e porgendogli la lettera.
    - La terza, ho detto la terza!  -  replicò il principe, respingendo la
    busta e posando sul tavolo il quaderno pieno di figure geometriche.  -
    Dunque,  signorina...    -   cominciò il vecchio,  curvandosi verso la
    figlia e appoggiando una mano  sulla  spalliera  della  sedia  da  lei
    occupata,  cosicché ella si sentì avvolta da ogni parte da quell'odore
    acuto di vecchio e di tabacco,  particolare a suo padre,  e a lei  ben
    noto  da  molto  tempo.   -  Dunque,  signorina: questi triangoli sono
    simili: osserva l'angolo A B C...
    La principessina guardava con  sgomento  gli  occhi  scintillanti  del
    padre;  le  chiazze rosse si diffondevano sul viso;  si vedeva che non
    capiva nulla e che  il  timore  le  avrebbe  impedito  di  seguire  le
    ulteriori  spiegazioni del padre,  per quanto chiare potessero essere.
    Era colpa del maestro oppure dell'alunna?  Fatto si è che ogni  giorno
    si  ripeteva la stessa cosa: le si intorbidiva la vista,  non riusciva
    più né a vedere né a sentire,  si sentiva  soltanto  addosso  il  viso
    asciutto  del  padre  severo,  ne  avvertiva  il respiro e l'odore,  e
    pensava  soltanto  al  momento  di  poter  uscire  dallo  studio   per
    ritornarsene in camera sua a risolvere in libertà il problema.
    Il  vecchio  andava in collera,  moveva avanti e indietro,  facendo un
    gran rumore,  la poltrona su cui stava seduto,  cercava inutilmente di
    non riscaldarsi troppo ma,  quasi ogni volta, prorompeva in ingiurie e
    sbatteva via il quaderno.
    La principessina sbagliò la risposta.
    - Ecco, sei proprio una stupida!  -  gridò il principe, respingendo il
    quaderno e voltandosi rapidamente; ma subito dopo si alzò,  camminò su
    e  giù  per  la  stanza,  passò una mano sui capelli della figlia e si
    rimise a sedere riprendendo la lezione.
    - Così non va, principessina, non va!  -  disse allorché la figliuola,
    dopo aver chiuso e preso il quaderno  con  la  lezione  assegnata,  si
    preparava  a  uscire.   -  La matematica è una grande cosa,  signorina
    mia.  E io non voglio che tu sia simile alle nostre  stupide  signore.
    Abbi  pazienza,  e la matematica ti piacerà.  Allora non sarai più una
    scioccherella...  -  E le accarezzò il viso.
    La fanciulla fece per avviarsi verso la porta, ma egli la fermò con un
    gesto e prese dallo scrittoio un libro nuovo, ancora intonso.
    - Eccoti ancora non so che "Chiave del mistero" (125): te lo manda  la
    tua Eloisa.  E' un libro religioso, e io non mi occupo della religione
    degli altri.  Gli ho dato una occhiata.  Prendilo...  E ora  va',  va'
    pure.
    Le batté una mano sulla spalla e chiuse egli stesso la porta dietro di
    lei.
    La  principessina  Màrija tornò nella sua stanza con quell'espressione
    triste e spaventata che di rado abbandonava  il  suo  viso  sparuto  e
    privo  di grazia,  rendendolo ancora più brutto.  Sedette davanti allo
    scrittoio su cui erano sparsi ritratti in miniatura, quaderni e libri.
    La principessina era tanto disordinata quanto il padre era ordinato  e
    preciso.  Depose il quaderno di geometria e con impazienza dissuggellò
    la lettera.  Era della sua più cara  amica  d'infanzia,  quella  Julie
    Karagina che abbiamo conosciuto alla festa in casa Rostòv.
    Ecco che cosa scriveva Julie:
    "Chère  et  excellente  amie,  quelle chose terrible et effrayante que
    l'absence!  J'ai beau me dire que la moitié de mon existence et de mon
    bonheur  est  en  vous,  que  malgré la distance qui nous sépare,  nos
    coeurs sont unis par des  liens  indissolubles;  le  mien  se  révolte
    contre  la  destinée,  et  je  ne  puis,  malgré  les  plaisirs et les
    distractions qui m'entourent,  vaincre une certaine  tristesse  cachée
    que  je ressens au fond du coeur depuis notre séparation.  Pourquoi ne
    sommes-nous pas réunies,  comme cet été,  dans votre grand cabinet sur
    le canapé bleu, le canapé a confidences? Pourquot ne puis-je, comme il
    y  a trois mois,  puiser de nouvelles forces morales dans votre regard
    si doux, si calme et si pénétrant,  regard que j'aimais tant et que je
    crois voir devant moi,  quand je vous écris?" [126.  "Mia cara, ottima
    amica,  quale cosa terribile e spaventosa è la lontananza!  Per quanto
    io  mi  dica  che  la metà della mia vita e della mia felicità sono in
    voi,  che malgrado la distanza che ci separa i nostri cuori sono uniti
    da  legami indissolubili,  il mio si ribella contro il destino e,  pur
    vivendo tra mille divertimenti,  non posso vincere una vaga  tristezza
    che avverto in fondo al cuore da quando ci siamo separate.  Perché non
    siamo ancora insieme, come la scorsa estate,  nel vostro vasto studio,
    sul divano azzurro,  il divano delle confidenze? Perché non mi è dato,
    come tre mesi or sono,  di attingere nuove  forze  morali  nel  vostro
    sguardo  così  dolce,  così  tranquillo e penetrante,  uno sguardo che
    amavo profondamente e che mi sembra di vedere mentre vi scrivo?"].
    Letta la lettera sino a questo punto,  la principessina Màrija sospirò
    e  si  guardò  nello  specchio di un "armoire" che si trovava alla sua
    destra.  Lo specchio le rimandò l'immagine di  un  corpo  sgraziato  e
    mingherlino e di un viso smunto e non bello. Gli occhi, sempre tristi,
    guardavano  ora  con  espressione  particolarmente  sconsolata  la sua
    immagine nello specchio.  "Julie mi adula",  pensò la principessina e,
    voltatasi,  riprese la lettura.  Julie, però, non adulava l'amica: gli
    occhi della principessina  Màrija,  grandi,  profondi,  luminosi,  che
    pareva  talvolta mandassero raggi di una calda luce,  erano così belli
    che  molto  spesso,  nonostante  la  bruttezza  del  viso,  erano  più
    affascinanti di qualunque bellezza.  Ma la principessina non aveva mai
    veduto la espressione dei propri  occhi,  quell'espressione  che  essi
    assumevano allorché ella non pensava a se stessa. Come accade a tutti,
    non  appena  essa  si guardava in uno specchio,  il suo volto appariva
    brutto e teso in modo innaturale. Continuò a leggere:

    "Tout Moscou ne parle que guerre.  L'un de mes deux frères est déjà  à
    l'étranger,  l'autre  est  avec  la Garde qui se met en marche vers la
    frontière.  Notre cher empereur a quitté Pétersbourg et,  à  ce  qu'on
    prétend, compte lui-même exposer sa précieuse existence aux chances de
    la guerre. Dieu veuille que le monstre corsicain, qui détruit le repos
    de  l'Europe,  soit terrassé par l'ange que le Tout-Puissant,  dans Sa
    miséricorde,  nous a donné pour souverain.  Sans parler de mes frères,
    cette guerre m'a privé d'une relation des plus chères à mon coeur.  Je
    parle du jeune Nicolas  Rostov,  qui  avec  son  enthousiasme  n'a  pu
    supporter  l'inaction  et  a  quitté l'université pour aller s'enrôler
    dans l'armée. Eh bien, chère Marie,  je vous avouerai que,  malgré son
    extrême jeunesse,  son départ pour l'armée a été un grand chagrin pour
    moi. Le jeune homme, dont je vous parlais cet été, a tant de noblesse,
    de véritable jeunesse,  qu'on rencontre si rarement dans le siècle  où
    nous  vivons  parmi nos vieillards de vingt ans.  Il a surtout tant de
    franchise et de coeur.  Il est  tellement  pur  et  poétique  que  mes
    relations avec lui, quelque passagères qu'elles fussent, ont été l'une
    des  plus  douces  jouissances  de  mon pauvre coeur,  qui a déjà tant
    souffert!  Je vous raconterai un jour nos adieux et tout ce qui  s'est
    dit en partant.  Tout cela est encore trop frais. Ah! chère amie, vous
    êtes heureuse de ne pas connaître ces jouissances  et  ces  peines  si
    poignantes.   Vous   êtes   heureuse,   puisque   les  dernières  sont
    ordinairement les plus fortes!  Je sais fort bien que le comte Nicolas
    est  trop  jeune pour pouvoir jamais devenir pour moi quelque chose de
    plus qu'un ami, mais cette douce amitié, ces relations si poétiques et
    si pures ont été un besoin pour mon coeur. Mais n'en parlons plus.  La
    grande  nouvelle  du  jour qui occupe tout Moscou est la mort du vieux
    comte  Bezouchoff,  et  son  héritage.   Figurez-vous  que  les  trois
    princesses n'ont recu que très peu de chose, le prince Basile rien, et
    que  c'est  M.  Pierre qui a tout hérité et qui par-dessus le marché a
    été reconnu pour fils légitime,  par conséquent  comte  Bezouchoff  et
    possesseur  de  la plus belle fortune de la Russie.  On prétend que le
    prince Basile a joué un très vilain rôle dans toute cette histoire  et
    qu'il est reparti tout penaud pour Pétersbourg.
    "Je  vous  avoue que je comprends très peu toutes ces affaires de legs
    et de testaments; ce que je sais,  c'est que depuis que le jeune homme
    que  nous  connaissions  tous sous le nom de M.  Pierre tout court est
    devenu comte Bezouchoff  et  possesseur  de  l'une  des  plus  grandes
    fortunes de la Russie, je m'amuse fort à observer le changement de ton
    et  de  manières  des  mamans  accablées  de  filles  à  marier et des
    demoiselles  elles-mêmes  à  l'égard  de  cet   individu,   qui,   par
    parenthèse,  m'a  paru toujours être un pauvre sire.  Comme on s'amuse
    depuis deux ans à me donner des promis que je ne connais pas  le  plus
    souvent,   la  chronique  matrimoniale  de  Moscou  me  fait  comtesse
    Bezouchoff.  Mais vous sentez bien que je ne me soucie nullement de le
    devenir.  A  propos  de mariage,  savez-vous que tout dernièrement "la
    tante en général", Anna Michàjlovna,  m'a confié sous le sceau du plus
    grand secret un projet de mariage pour vous? Ce n'est ni plus ni moins
    que  le  fils du prince Basile,  Anatole,  qu'on voudrait ranger en le
    mariant à une personne née riche et  distinguée,  et  c'est  sur  vous
    qu'est tombé le choix des parents. Je ne sais comment vous envisagerez
    la  chose,  mais j'ai cru de mon devoir de vous en avertir.  On le dit
    très beau et très mauvais sujet;  c'est tout ce que j'ai pu savoir sur
    son compte.
    "Mais assez de bavardage comme cela.  Je finis mon second feuillet, et
    maman me tait chercher pour aller dîner chez les Apraksines.  Lisez le
    livre  mystique  que  je  vous  envoie  et  qui fait fureur chez nous.
    Quoiqu'il y ait des choses, dans ce livre, difficiles à atteindre avec
    la faible conception humaine, c'est un livre admirable dont la lecture
    calme et élève l'âme. Adieu. Mes respects à monsieur votre père et mes
    compliments à Mlle Bourienne. Je vous embrasse comme je vous aime.
    Julie
    "P.S.  Donnez-moi des nouvelles de votre  frère  et  de  sa  charmante
    petite femme".
    [126.  "Tutta Mosca non parla che di guerra. Uno dei miei due fratelli
    è già all'estero, l'altro è con la Guardia, che sta per marciare verso
    la frontiera. Il nostro amato imperatore ha lasciato Pietroburgo e,  a
    quanto  si  dice,  pare  che  voglia egli pure esporre la sua preziosa
    esistenza ai casi della guerra.  Voglia Iddio che il mostro còrso  che
    distrugge   la   pace   dell'Europa   sia  atterrato  dall'angelo  che
    l'Onnipotente,  nella  Sua  infinita  misericordia,  ci  ha  dato  per
    sovrano.  Per  non  parlare  dei  miei  fratelli,  questa guerra mi ha
    privato di una delle conoscenze più  care  al  mio  cuore.  Alludo  al
    giovane Nikolàj Rostòv,  il quale,  pieno di entusiasmo com'è,  non ha
    saputo sopportare l'inattività e ha lasciato l'università  per  andare
    ad arruolarsi nell'esercito.  Vi confesso,  cara Màrija,  che, sebbene
    sia tanto giovane,  la sua partenza per l'esercito è stata per  me  un
    grande dolore.  Il giovane di cui già vi ho parlato l'estate scorsa, è
    così nobile,  ha in sé tanta vera giovinezza,  di quella che si  trova
    ormai  raramente  in  questo  secolo  in cui viviamo tra dei vecchi di
    vent'anni.  E,  soprattutto,  è dotato di tanta franchezza e di  tanto
    cuore,  è così puro e così ricco di poesia, che la mia breve relazione
    con lui è stata una delle gioie più dolci del mio povero cuore, che ha
    già tanto sofferto!  Vi racconterò un giorno il nostro addio  e  tutto
    ciò  che  ci  siamo detti nel separarci.  Adesso è ancora tutto troppo
    recente. Ah,  cara amica.  felice voi che non conoscete queste gioie e
    queste  pene così profonde!  Felice voi perché le pene sono per solito
    più forti delle gioie!  So benissimo che il  conte  Nikolàj  è  troppo
    giovane  per  poter  essere  per  me qualcosa di più che un amico,  ma
    questa dolce amicizia e i nostri rapporti tanto poetici e  tanto  puri
    erano un vero bisogno del mio cuore.  Ma non parliamone più. La grande
    notizia del giorno, della quale tutta Mosca si occupa,  è quella della
    morte  del vecchio conte Bezuchov e dell'eredità che egli ha lasciato.
    Figuratevi che le tre principessine hanno  avuto  pochissimo,  che  il
    principe  Vassilij  non  ha  avuto nulla e chi ha ereditato tutto è il
    signor Pierre che,  per  giunta,  è  stato  riconosciuto  come  figlio
    legittimo  e  pertanto  è diventato conte Bezuchov e padrone della più
    cospicua  ricchezza  di  tutta  la  Russia.  Dicono  che  il  principe
    Vassilij,   in  tutta  questa  faccenda,   abbia  recitato  una  parte
    antipatica e che sia partito per Pietroburgo scornato e afflitto.
    "Vi confesso che in tutte queste faccende di legati e di testamenti io
    ci capisco assai poco: so soltanto che da  quando  quel  giovane,  che
    tutti  conoscevamo  con  il semplice nome di Pierre,  è divenuto conte
    Bezuchov e padrone di una delle  maggiori  fortune  della  Russia,  mi
    diverto  un  mondo  a osservare il cambiamento del tono e del contegno
    delle mamme cariche di figlie da marito,  e  delle  signorine  stesse,
    verso  quell'individuo che,  tra parentesi,  a me è sempre sembrato un
    povero diavolo.  Siccome,  da  due  anni  a  questa  parte,  molti  si
    divertono  ad attribuirmi dei fidanzati che,  per la maggior parte dei
    casi,  non conosco neppure,  così adesso la  cronaca  matrimoniale  di
    Mosca mi fa già contessa Bezuchov.  Ma voi capite benissimo che io non
    penso affatto a diventarlo.  A proposito di matrimoni,  sapete che  la
    "zia di tutti",  Anna Michàjlovna,  mi ha confidato, sotto il suggello
    dello strettissimo segreto,  un progetto di  matrimonio  per  voi?  Si
    tratta nientemeno che del figlio del principe Vassilij,  Anatolij, che
    vorrebbero  sistemare  dandogli  in  moglie  una  signorina  ricca   e
    distinta,  e la scelta dei genitori è caduta proprio su di voi. Non so
    cosa penserete della cosa,  ma ho  creduto  mio  dovere  avvertirvene.
    Dicono  che  sia molto bello,  ma molto scapestrato: è tutto quanto ho
    potuto sapere sul suo conto.
    "Ma basta con le chiacchiere. Sono già alla fine del secondo foglio, e
    la mamma mi fa chiamare per andare a pranzo dagli Apraksin. Leggete il
    libro mistico che vi spedisco e che  qui  da  noi  ottiene  un  enorme
    successo. Sebbene vi siano cose difficili da comprendere per il debole
    intelletto  umano,  è un libro veramente meraviglioso,  la cui lettura
    consola ed eleva l'anima. Addio. I miei ossequi al vostro signor padre
    e molti cordiali saluti a "mademoiselle" Bourienne.  Vi abbraccio  con
    tutto il mio affetto.
    Julie
    P.S:  Datemi  notizie  di  vostro  fratello  e  della  sua incantevole
    mogliettina"].

    La principessina rimase un momento pensierosa e sorrise, mentre il suo
    volto, illuminato dagli occhi radiosi, si trasformò completamente; poi
    si alzò di scatto, si accostò con il suo passo pesante allo scrittoio,
    prese un foglio  di  carta  e  cominciò  a  tracciare  rapidamente  la
    risposta all'amica. Eccola:

    "Chère  et  excellente  amie,  votre lettre du 13 m'a causé une grande
    joie. Vous m'aimez donc toujours, ma poétique Julie.  L'absence,  dont
    vous  dites tant de mal,  n'a donc pas eu son influence habituelle sur
    vous.  Vous vous plaignez de l'absence: que devrais-je  dire  moi,  si
    j'osais  me plaindre,  privée de tous ceux qui me sont chers?  Ah,  si
    nous n'avions pas la religion pour nous consoler,  la vie serait  bien
    triste!  Pourquoi  me  supposez-vous  un  regard  sévère quand vous me
    parlez de votre affection pour le jeune homme?  Sous ce rapport je  ne
    suis rigide que pour moi.  Je comprends ces sentiments chez les autres
    et si je ne puis les approuver,  ne les ayant jamais ressentis,  je ne
    les condanne pas. Il me paraît seulement que l'amour chrétien, l'amour
    du prochain, l'amour pour nos ennemis est plus méritoire, plus doux et
    plus beau que ne le sont les sentiments que peuvent inspirer les beaux
    yeux  d'un  jeune  homme  à  une jeune fille poétique et aimante comme
    vous.
    "La nouvelle de la mort du comte Bezouchoff nous  est  parvenue  avant
    votre  lettre,  et mon père en a été très affecté.  Il dit que c'était
    l'avant-dernier représentant du grand siècle,  et qu'à  présent  c'est
    son  tour;  mais  qu'il  fera son possible pour que son tour vienne le
    plus tard possible. Que Dieu nous garde de ce terrible malheur!  Je ne
    puis  partager  votre opinion sur Pierre que j'ai connu enfant.  Il me
    paraissait toujours avoir un coeur excellent,  et c'est la qualité que
    j'estime le plus dans les gens. Quant à son héritage et au rôle qu'y a
    joué le prince Basile, c'est bien triste pour tous les deux. Ah! chère
    amie,  la  parole  de  notre  divin  Sauveur  qu'il est plus aisé à un
    chameau de passer par le trou d'une aiguille,  qu'il  ne  l'est  à  un
    riche d'entrer dans le royaume de Dieu,  cette parole est terriblement
    vraie;  je plains le prince Basile et  je  regrette  encore  davantage
    Pierre.  Si  jeune  et  accablé  de cette richesse,  que de tentations
    n'aura-t-il pas à subir!  Si on me demandait ce que je  désirerais  le
    plus  au  monde  ce  serait  d'être plus pauvre que le plus pauvre des
    mendiants. Mille grace, chère amie, pour l'ouvrage que vous m'envoyez,
    et qui fait si grande fureur chez vous.  Cependant,  puisque  vous  me
    dites  qu'au  milieu de plusieurs bonnes choses il y en a d'autres que
    la faible conception humaine ne peut atteindre,  il  me  paraît  assez
    inutile de s'occuper d'une lecture inintelligible,  qui par là même ne
    pourrait être d'aucun fruit.  Je n'ai jamais pu comprendre la  passion
    qu'ont   certaines   personnes  de  s'embrouiller  l'entendement,   en
    s'attachant à des livres mystiques,  qui n'élèvent que des doutes dans
    leurs esprits,  exaltent leur imagination et leur donnent un caractère
    d'exagération tout à fait contraire à la simplicité chrétienne. Lisons
    les Apôtres et l'Evangile.  Ne cherchons pas à pénétrer ce que ceux-là
    renferment  de  mystérieux,  car,  comment  oserions-nous,  misérables
    pécheurs que nous sommes,  prétendre à nous initier dans  les  secrets
    terribles  et  sacrés  de  la Providence,  tant que nous portons cette
    dépouille charnelle,  qui élève  entre  nous  et  l'éternel  un  voile
    impénétrable?  Bornons-nous  donc à étudier les principes sublimes que
    notre divin  Sauveur  nous  a  laissé  pour  notre  conduite  ici-bas;
    cherchons  à  nous  y  conformer et à les suivre,  persuadons-nous que
    moins nous donnons d'essor à notre faible esprit humain et plus il est
    agréable à Dieu,  qui rejette toute science ne venant pas de Lui;  que
    moins  nous  cherchons  à  approfondir ce qu'il Lui a plu de dérober à
    notre connaissance,  et plutôt Il nous en accordera la découverte  par
    Son divin Esprit.
    "Mon  père  ne m'a pas parlé du prétendant,  mais il m'a dit seulement
    qu'il a recu une lettre et attendait une visite du prince Basile. Pour
    ce qui est du projet de mariage qui me regarde,  je vous dirai,  chère
    et  excellente amie,  que le mariage,  selon moi,  est une institution
    divine à laquelle il faut se conformer.  Quelque pénible que cela soit
    pour moi,  si le Tout-puissant m'impose jamais les devoirs d'épouse et
    de mère,  je tâcherai de les remplir aussi fidèlement que je  pourrai,
    sans  m'inquiéter  de  l'examen  de  mes sentiments à l'égard de celui
    qu'il me donnera pour époux.
    "J'ai recu une lettre de mon frère qui m'annonce son arrivée  à  Lisie
    Gori avec sa femme.  Ce sera une joie de courte durée,  puisqu'il nous
    quitte pour prendre part à cette malheureuse guerre,  à laquelle  nous
    sommes  entraînés  Dieu  sait comment et pourquoi.  Non seulement chez
    vous,  au centre des affaires et du monde,  on ne parle que de guerre,
    mais  ici,  au  milieu  de ces travaux champêtres et de ce calme de la
    nature que les citadins se représentent ordinairement à  la  campagne,
    les  bruits  de la guerre se font entendre et sentir péniblement.  Mon
    père ne parle que marche et  contremarche,  choses  auxquelles  je  ne
    comprends rien; et avant-hier, en faisant ma promenade habituelle dans
    la rue du village,  je fus témoin d'une scène déchirante... C'était un
    convoi de recrues enrôlées chez nous et expédiées pour  l'armée...  Il
    fallait  voir l'état dans lequel se trouvaient les mères,  les femmes,
    les enfants des hommes qui partaient et entendre les sanglots des  uns
    e des autres!  On dirait que l'humanité a oublié les lois de son divin
    Sauveur,  qui prêchait l'amour et le pardon des offenses,  et  qu'elle
    fait consister son plus grand mérite dans l'art de s'entre-tuer.
    "Adieu,  ma  chère  et bonne amie,  que notre divin Sauveur et Sa très
    Sainte Mère vous aient en Leur sainte et puissante garde.
    Marie".
    [128.  "Cara e ottima amica,  la vostra lettera del 13 mi ha  arrecato
    una grande gioia.  Dunque mi volete ancora bene, mia poetica Julie. La
    lontananza che tanto deprecate non ha avuto il suo abituale effetto su
    di voi. Vi lamentate della lontananza; ma che cosa dovrei dire io,  se
    osassi  lagnarmi,  privata come sono di tutti coloro che mi sono cari?
    Ah, se non avessimo la religione per consolarci, quanto sarebbe triste
    la nostra vita!  Perché  attribuirmi  uno  sguardo  severo  quando  mi
    parlate del vostro affetto per quel giovane?  In simili cose,  io sono
    severa soltanto con me stessa.  Comprendo tali sentimenti negli altri;
    non  posso  approvarli,  non  avendoli  mai conosciuti,  ma nemmeno li
    condanno.  Mi sembra  soltanto  che  l'amore  cristiano,  l'amore  del
    prossimo, l'amore per i nostri nemici, sia più meritevole, più dolce e
    più  bello  dei  sentimenti  che  i  begli occhi di un giovane possono
    ispirare a una fanciulla poetica e semplice come voi siete.
    "La notizia della morte del  conte  Bezuchov  ci  giunse  prima  della
    vostra  lettera,  e  mio  padre ne fu molto colpito.  Egli dice che il
    conte Bezuchov era il penultimo rappresentante del grande secolo e che
    ora tocca a lui scomparire,  ma che farà di tutto perché il suo  turno
    venga  il  più  tardi  possibile.  Dio ci guardi da una così terribile
    sventura!  Non posso condividere la vostra opinione su Pierre,  che ho
    conosciuto bambino e che mi è sempre sembrato avere un cuore d'oro,  e
    questa è la qualità che apprezzo  di  più  in  qualsiasi  persona.  In
    quanto  alla  sua  eredità  e  alla  parte che vi ha avuto il principe
    Vassilij, è cosa ben triste per tutti e due. Ah, amica mia,  le parole
    del  nostro  divino  Salvatore   -  secondo le quali è più facile a un
    cammello il passare per la cruna di un ago che a  un  ricco  l'entrare
    nel  regno  di Dio  -  sono terribilmente vere!  Compiango il principe
    Vassilij e ancora di più Pierre. Così giovane e afflitto da una simile
    ricchezza, quante tentazioni dovrà subire! Se mi si chiedesse che cosa
    desidero di più al mondo, risponderei che vorrei essere più povera del
    più povero fra tutti i mendicanti della  terra.  Mille  grazie,  amica
    cara, per l'opera che mi avete mandato e che ottiene tanto successo da
    voi.  Ma,  poiché dite che fra molte cose buone ne contiene altre alle
    quali non può giungere il debole intelletto  umano,  mi  pare  inutile
    dedicare il tempo a una lettura inintelligibile,  che essendo tale non
    potrebbe recare alcun giovamento.  Non ho mai  potuto  comprendere  la
    passione  che  certuni  hanno  di  confondersi le idee,  ostinandosi a
    leggere dei libri mistici, i quali non possono avere altro effetto che
    quello  di   far   sorgere   dei   dubbi   nell'anima,   di   esaltare
    l'immaginazione  e  di  generare  un'esagerazione  in contrasto con la
    semplicità cristiana.  Leggiamo  gli  Apostoli  e  il  Vangelo,  senza
    cercare  di  comprendere  quanto  di  arcano  contengono,  poiché come
    potremmo osare noi,  miseri peccatori,  iniziarci al tremendi e  sacri
    misteri della Provvidenza,  sino a che portiamo questa spoglia carnale
    che stende tra noi  e  l'Eterno  un  velo  impenetrabile?  Limitiamoci
    dunque a studiare i principi sublimi che il nostro divino Salvatore ci
    ha  lasciato  come  guida  nella  nostra  vita  terrena;  cerchiamo di
    conformarci ad essi e di  seguirli;  persuadiamoci  che,  quanto  meno
    libertà  concediamo alla nostra debole mente umana,  tanto più graditi
    saremo a Dio,  il quale respinge ogni scienza che non derivi  da  Lui,
    giacché  quanto  meno  cerchiamo  di  approfondire ciò che Gli piacque
    celare al nostro intelletto,  tanto più presto Egli ce lo rivelerà per
    mezzo del suo spirito divino.
    "Mio padre non mi ha parlato del pretendente, mi ha detto soltanto che
    ha  ricevuto  una  lettera e aspetta una visita del principe Vassilij.
    Quanto al progettato matrimonio che  mi  riguarda,  vi  dirò,  cara  e
    ottima  amica,  che  lo  considero  una  istituzione divina alla quale
    dobbiamo conformarci. Per quanto la cosa mi possa riuscire penosa,  se
    l'Onnipotente vorrà impormi i doveri di moglie e di madre, cercherò di
    compierli  con la massima fedeltà possibile,  senza curarmi affatto di
    esaminare i miei sentimenti verso  colui  che  Egli  vorrà  darmi  per
    sposo.
    "Ho ricevuto una lettera da mio fratello che mi annunzia il suo arrivo
    a  Lissia-Gori  con  la  moglie.  Non  sarà una gioia di lunga durata,
    giacché egli ci lascerà presto per prendere parte a questa disgraziata
    guerra  alla  quale,  Dio  sa  come  e  perché,   siamo  tutti  quanti
    trascinati.  Non  solo  da  voi,  nel centro degli affari e della vita
    mondana, non si parla d'altro che di guerra, ma anche qui tra i lavori
    dei campi e nella pace della  natura  che  la  gente  di  città  suole
    immaginare  in campagna,  i rumori della guerra si fanno dolorosamente
    sentire.  Mio padre non parla che di marce e di contromarce,  cose  di
    cui nulla capisco;  e ieri l'altro,  durante la mia solita passeggiata
    per la strada  del  villaggio,  sono  stata  testimone  di  una  scena
    straziante...  Passava un convoglio di reclute, arruolate qui da noi e
    mandate alla guerra...  Bisognava vedere le madri,  le mogli,  i figli
    degli  uomini  che  partivano  e  udire i singhiozzi degli uni e degli
    altri!  Sembra veramente che l'umanità abbia dimenticato le leggi  del
    suo divino Salvatore, che predicava l'amore e il perdono delle offese,
    e che faccia consistere il suo maggior merito nell'arte di uccidersi a
    vicenda.
    "Addio,  mia  cara e buona amica!  Che il nostro divino Salvatore e la
    Sua  santissima  Madre  vi  tengano  sotto  la  Loro  santa  e  divina
    protezione.
    Màrija"].

    - "Ah,  vous expédiez le courrier, princesse; moi j'ai déjà expédié le
    mien. J'ai écrit à ma pauvre mère" [129. Ah, state sbrigando la vostra
    corrispondenza,  principessina?  Io ho già spedito la mia: ho  scritto
    alla mia povera mamma]  -  disse in fretta con la sua voce simpatica e
    profonda  la  sorridente  "mademoiselle"  Bourienne,  infondendo nella
    raccolta,  triste e cupa atmosfera della principessina Màrija un senso
    di gaiezza e di serenità.
    - "Princesse,  il faut que je vous prévienne"  -  soggiunse abbassando
    la voce:   -  "le prince a eu une altercation",   -  e disse la parola
    "altercation"  arrotando  ancor più la erre e ascoltandosi con piacere
    -  "une altercation avec Michel  Ivanoff.  Il  est  de  très  mauvaise
    humeur, très morose. Soyez prévenue, vous savez..." [130. Principessa,
    devo  avvertirvi  che  il  principe  ha  avuto  un alterco con Michaìl
    Ivànovic'. E' di pessimo umore e molto inquieto. Sappiatelo...].
    - "Ah, chère amie,   -  rispose la principessina Màrija  -  je vous ai
    priée de ne jamais me prévenir de l'humeur lans laquelle se trouve mon
    père.  Je ne me permets pas de le juger, et je ne voudrais pas que les
    autres le fassent" [131. Mia cara amica, vi ho pregato parecchie volte
    di non informarmi mai dell'umore di mio padre.  Io non mi permetto  di
    giudicarlo e non vorrei che neppure gli altri lo facessero].
    La principessina guardò l'orologio e,  accortasi che aveva superato di
    cinque minuti l'ora destinata al clavicembalo,  si affrettò,  con aria
    spaventata,  ad entrare nel salotto.  Da mezzogiorno alle due, secondo
    l'ordine del giorno, il principe riposava e la principessina sonava il
    clavicembalo.


    CAPITOLO 23.

    Il vecchio cameriere,  seduto sulla sua sedia  sonnecchiando,  tendeva
    l'orecchio al russare del principe,  che stava riposando nel suo vasto
    studio.  Dall'altra estremità della casa,  attraverso gli usci chiusi,
    si udivano,  ripetuti per la ventesima volta,  i passaggi difficili di
    una sonata di Dussek (132).
    In quel momento si fermarono davanti alla scalinata  del  palazzo  una
    carrozza  e un calesse.  Dalla carrozza discese il principe Andréj che
    aiutò la sua piccola moglie a scendere e la fece  passare  avanti.  Il
    vecchio  Tichòn,  in  parrucca,  comparve  sulla soglia del vestibolo,
    comunicò a voce bassa che il principe dormiva e richiuse in fretta  la
    porta.  Tichòn  sapeva  che né l'arrivo del figlio né qualsiasi altro,
    sia pure  eccezionale,  avvenimento,  dovevano  turbare  le  abitudini
    quotidiane.  Evidentemente il principe Andréj lo sapeva quanto Tichòn.
    Guardò l'orologio per controllare se le abitudini  del  padre  fossero
    mutate  da quando l'aveva visto l'ultima volta e,  assicuratosi di no,
    si volse alla moglie.
    - Tra  venti  minuti  il  principe  si  alza;  andiamo  intanto  dalla
    principessina Màrija  -  disse.
    La  piccola  moglie del principe Andréj si era molto arrotondata negli
    ultimi tempi,  ma i suoi occhi e il suo breve labbruzzo sorridente  si
    sollevarono con la stessa dolce grazia quando cominciò a parlare.
    -  Ma  questo  è un vero palazzo!   -  esclamò,  guardandosi attorno e
    parlando  al  marito  con  quell'espressione   che   si   assume   nel
    congratularsi  con il padrone di casa per una riuscita festa da ballo.
    -  Andiamo, andiamo presto!  -  E,  voltandosi,  sorrise a Tichòn,  al
    marito e al domestico che li accompagnava.
    - "C'est Marie qui s'exerce?  Allons doucement, il faut la surprendre"
    [133.  E' Màrija che si esercita?  Andiamo pian piano  per  farle  una
    sorpresa].
    Il principe Andréj la seguiva con aria cortese e triste insieme.
    - Sei invecchiato,  Tichòn  -  disse,  passando davanti al vecchio che
    gli baciava la mano.
    Dalla porta laterale della stanza,  dalla quale giungevano i suoni del
    clavicembalo,   uscì  di  corsa  nel  corridoio  la  graziosa,  bionda
    francese,  "mademoiselle" Bourienne,  che sembrava fuori di  sé  dalla
    gioia.
    - "Ah,  quel bonheur pour la princesse!"  -  esclamò.   -  "Enfin,  il
    faut que je la prévienne" [134.  Oh,  che felicità per la principessa!
    Bisogna avvertirla!].
    - "Non,  non,  de grace...  Vous êtes mademoiselle Bourienne,  je vous
    connais déjà par l'amitié que vous porte ma  belle-soeur"    disse  la
    principessa,  abbracciandola  e  baciandola.   -  "Elle ne nous attend
    pas..."  [135.  No,  no,   per  favore...   Voi  siete  "mademoiselle"
    Bourienne:  vi  conosco già per l'amicizia che ha per voi mia cognata.
    Ella non ci aspetta...].
    Si avvicinarono alla  porta  del  salotto,  donde  si  udiva  giungere
    l'insistente ripetizione di un passaggio musicale.  Il principe Andréj
    si fermò e aggrottò  il  viso,  come  se  si  aspettasse  qualcosa  di
    spiacevole.
    La principessa entrò.  I suoni cessarono di colpo; si udì un grido, il
    passo pesante della principessina Màrija  e  lo  schioccare  di  baci.
    Quando  il principe Andréj entrò a sua volta,  le due cognate,  che si
    erano appena conosciute il giorno del matrimonio del principe  Andréj,
    erano  ancora strettamente abbracciate,  immobili,  nell'atteggiamento
    del primo minuto. "Mademoiselle" Bourienne, ritta accanto a loro,  con
    le  mani  strette  al cuore e sorridendo commossa,  era pronta tanto a
    mettersi a piangere quanto a scoppiare  in  una  risata.  Il  principe
    Andréj si strinse nelle spalle e fece una smorfia,  come potrebbe fare
    un intenditore di musica che senta una nota stonata.  Le due donne  si
    separarono;   poi,   come   se   temessero   di  non  fare  in  tempo,
    ricominciarono ad abbracciarsi e a baciarsi più e più  volte  e,  cosa
    assolutamente inaspettata per il principe Andréj, si misero a piangere
    e  ad abbracciarsi di nuovo.  Anche "mademoiselle" Bourienne piangeva.
    Si capiva che il principe Andréj era a  disagio;  ma  alle  due  donne
    pareva  la  cosa  più  naturale  del  mondo  piangere e pareva che non
    potessero neppure supporre  che  quell'incontro  si  dovesse  svolgere
    diversamente.
    - "Ah, chère... Ah, Marie!"  -  esclamavano a una voce le due cognate,
    ridendo.    -    "J'ai rêvé cette nuit..."  -  "Vous ne nous attendiez
    donc pas?"  -  "Ah,  Marie,  vous avez maigri..." -    "Et  vous  avez
    repris" [136. Oh, cara... Oh Màrija! Ho sognato questa notte... Non ci
    aspettavate  dunque?  Ah,  Màrija,  siete  dimagrita...  E  voi  siete
    ingrassata...].
    -  "J'ai  tout  de  suite  reconnu  madame  la  princesse"  [137.   Ho
    riconosciuto  subito la signora principessa!]  -  disse "mademoiselle"
    Bourienne.
    - "Et moi qui ne me doutais pas!"  -  esclamò la principessina Màrija.
    -  "Ah, André,  je ne vous voyais pas" [138.  E io che non ci pensavo!
    Oh, Andréj, non ti avevo visto].
    Il principe Andréj baciò la mano alla sorella e l'abbracciò, dicendole
    che  era  sempre  la  stessa "pleurnicheuse",  la piagnucolona che era
    sempre stata.  La principessina Màrija alzò il viso verso il  fratello
    e,  attraverso le lacrime,  lo fissò con lo sguardo caldo e affettuoso
    dei suoi occhi in quel momento bellissimi e radiosi.
    La piccola principessa continuava  a  parlare  senza  posa.  Il  breve
    labbruzzo  superiore,  ornato di una lieve peluria,  si abbassava ogni
    momento, sfiorando un poco il roseo labbro inferiore,  poi di nuovo il
    sorriso   illuminava   gli   occhi   e   faceva  risplendere  i  denti
    bianchissimi.  La principessa stava raccontando un incidente  che  era
    loro  accaduto  sul  monte  Spasska  e  che,  date  le sue particolari
    condizioni,  avrebbe potuto costituire  per  lei  un  grave  pericolo;
    subito  dopo  passò  a  dire che aveva lasciato tutti i suoi vestiti a
    Pietroburgo e che qui sarebbe andata vestita Dio sa come,  che  Andréj
    era  molto  mutato,  che Kitty Odynzova aveva sposato un vecchio e che
    c'era un fidanzato per la principessina Màrija,  proprio  davvero,  ma
    che di questo avrebbe parlato poi.  La principessina Màrija continuava
    a tacere  guardando  il  fratello  e  nei  suoi  bellissimi  occhi  si
    leggevano  amore  e  tristezza.  Era  chiaro  che  nella  sua mente si
    susseguivano ora dei pensieri che non avevano nulla a che  vedere  con
    quanto  andava  dicendo  la cognata.  A mezzo della descrizione di una
    festa svoltasi a Pietroburgo, essa si volse al fratello.
    - Sei proprio deciso,  Andréj,  a partire per la guerra?   -   chiese,
    sospirando.
    Anche la principessa Liza trasalì.
    - Domani stesso!  -  le rispose il fratello.
    - "Il m'abandonne ici et Dieu sait pourquoi,  quand il aurait pu avoir
    de l'avancement..." [139.  Mi lascia qui,  e  Dio  sa  perché,  mentre
    avrebbe potuto ottenere una promozione...].
    La  principessina  Màrija,  che  continuava a seguire il filo dei suoi
    pensieri,  non l'ascoltò sino in fondo,  ma accennò con occhi pieni di
    tenerezza al ventre ingrossato e le chiese:
    - E' certo?
    Il viso della principessa mutò espressione e, sospirando, rispose:
    - Sì, è certo... Ah! E' una cosa terribile, terribile...
    Il  piccolo  labbro  di Liza prese a tremare.  Ella avvicinò il viso a
    quello della cognata e, inaspettatamente, riprese a piangere.
    - Ha bisogno di riposarsi  -  intervenne il principe Andréj corrugando
    il volto.  -  Non è vero, Liza?  Màrija,  accompagnala in camera tua e
    intanto io andrò dal babbo. Come sta? E' sempre lo stesso?
    -  Sempre  lo  stesso:  non so se sembrerà così anche a te  -  rispose
    ridendo la principessina.
    - Sempre le stesse ore per le passeggiate e per il tornio?   -  chiese
    il principe Andréj con un sorriso appena percettibile,  che dimostrava
    come,  nonostante tutto l'affetto e  il  rispetto  per  il  padre,  ne
    conoscesse e ne comprendesse le debolezze.
    - Sempre ogni cosa alla stessa ora,  e il tornio, e la matematica e le
    mie lezioni di geometria  -   rispose  allegramente  la  principessina
    Màrija,  come  se quelle lezioni fossero una delle cose più gaie della
    sua vita.
    Allorché i venti minuti che dovevano passare prima del  risveglio  del
    vecchio principe furono trascorsi,  Tichòn venne a chiamare il giovane
    principe da parte del padre.  Il vecchio,  in  onore  dell'arrivo  del
    figlio,  aveva  fatto  un'eccezione alle proprie abitudini: aveva dato
    ordine che fosse introdotto nelle sue stanze durante la  toeletta  che
    faceva  prima  del  pranzo.  Il vecchio principe si vestiva secondo la
    moda di parecchi anni addietro e portava la parrucca  incipriata.  Nel
    momento   in  cui  il  principe  Andréj  (non  già  con  l'espressione
    sprezzante che soleva assumere quando era in un  salotto,  ma  con  il
    viso  animato che aveva quando discorreva con Pierre) entrò dal padre,
    il vecchio, seduto nel suo gabinetto di toeletta, in un'ampia poltrona
    di marocchino,  avvolto in un accappatoio che gli riparava  gli  abiti
    dalla cipria, affidava la testa alle mani di Tichòn.
    - Olà, guerriero! Vuoi andare a sconfiggere Buonaparte?  -  esclamò il
    vecchio,  scotendo la testa incipriata per quanto glielo permetteva il
    codino che Tichòn teneva tra le mani  per  intrecciarlo.    -    Dàgli
    addosso a dovere,  se no, quello, tra non molto, considererà anche noi
    suoi sudditi. Salve!  -  E gli porse la guancia da baciare.
    Il vecchio era di ottimo umore dopo il sonnellino  pomeridiano.  (Egli
    soleva  dire  che il sonno pomeridiano è d'argento e prima di pranzo è
    d'oro).  Di sotto le folte sopracciglia cadenti diede  un'occhiata  al
    figlio.  Il  principe Andréj gli si avvicinò e lo baciò su una guancia
    nel punto da lui indicato.  Non rispose al prediletto tema di discorso
    del padre, ironizzante come al solito sui casi militari del momento e,
    in particolare, su Napoleone.
    - Sì,  babbo, sono venuto a trovarvi con mia moglie incinta  -  disse,
    seguendo con occhi rispettosi e attenti ogni minimo mutamento del viso
    del padre.  -  Come va la vostra salute?
    - Soltanto gli stupidi e i viziosi si  ammalano,  mio  caro...  Tu  mi
    conosci: sono occupato dalla mattina alla sera, in continuazione, sono
    sobrio e perciò sto benissimo!
    - Sia lodato Iddio!  -  rispose il figlio, sorridendo.
    -  Iddio  qui  non c'entra.  Be',  raccontami  -  proseguì il vecchio,
    tornando al suo argomento preferito  -    come  i  tedeschi  vi  hanno
    insegnato  a combattere Buonaparte secondo la nuova scienza denominata
    strategia.
    Il principe Andréj sorrise.
    - Lasciatemi pigliar fiato, padre mio  -  rispose con un sorriso,  dal
    quale si capiva che le debolezze del padre non diminuivano l'affetto e
    il rispetto verso il vecchio.  -  Non sono ancora entrato nelle nostre
    stanze...
    -  Storie,  storie...   -  gridò il vecchio,  scotendo il treccino per
    provare se era fermato bene e prendendo  per  mano  il  figlio.-    La
    camera  per  tua  moglie  è  pronta.  La  principessina  Màrija l'avrà
    accompagnata,  le mostrerà tutto e le racconterà un mucchio di cose...
    Le donne si divertono a chiacchierare. Sono contento di vederla. Siedi
    e raccontami. So già tutto sull'esercito di Michelson (140) e anche su
    quello  di Tolstòj (141),  e sullo sbarco simultaneo.  Ma l'armata del
    sud che farà?  La Prussia rimane neutrale,  lo  so.  E  l'Austria  che
    intenzioni avrà?   -  chiese,  alzandosi dalla poltrona e mettendosi a
    camminare per la stanza seguito  da  Tichòn  che  gli  correva  dietro
    porgendogli  a  uno  a  uno  gli indumenti.   -  E la Svezia?  Come si
    attraverserà la Pomerania (142)?
    Il principe  Andréj,  alle  insistenti  domande  del  padre,  dapprima
    malvolentieri  ma  via  via  animandosi  sempre più e passando,  senza
    volerlo ma per abitudine, dal russo al francese, cominciò ad esporre i
    piani d'operazione progettati per la futura campagna.  Un esercito  di
    90000  uomini  doveva  minacciare  la  Prussia  per farla uscire dalla
    neutralità e trascinarla nel conflitto; una parte di quell'esercito si
    sarebbe unito a Stralsunda con le truppe  svedesi;  220000  Austriaci,
    insieme  con  100000  Russi  avrebbero  operato  in Italia e sul Reno,
    mentre 5000 Russi e 5000 Inglesi sarebbero sbarcati a Napoli, insomma,
    un esercito di 500000 uomini avrebbe invaso la  Francia  da  tutte  le
    parti.
    Il  vecchio  principe  non  dimostrava alcun interesse alle parole del
    figlio, come se non lo ascoltasse nemmeno. Continuando a vestirsi,  lo
    interruppe inaspettatamente, per ben tre volte. A un certo momento, si
    fermò e gridò:
    - Il bianco! Il bianco!
    Ciò  significava  che  Tichòn non gli aveva dato il panciotto che egli
    desiderava. La seconda volta si fermò di nuovo e chiese:
    - Nascerà presto?   -  e,  scotendo il capo con  aria  di  rimprovero,
    disse:  -  Male... Continua, continua!
    La  terza  volta,  mentre  il  principe Andréj stava per finire il suo
    racconto,  il vecchio con voce senile e stonata prese a  canticchiare:
    "Marlborough  s'en  va à la guerre.  Dieu sait quand reviendra!" [143.
    Marlborough ne va alla guerra. Dio sa quando ritornerà].
    Il figlio si limitò a sorridere.
    - Non vi dico che io approvi questo piano  -  riprese il figlio; -  vi
    ho detto semplicemente come stanno le cose.  Napoleone avrà  anch'egli
    un piano prestabilito, non peggiore del nostro.
    - Be', non mi hai raccontato proprio nulla di nuovo.  -  E il vecchio,
    come  pensieroso,  tornò a mormorare rapidamente:  -  "Dieu sait quand
    reviendra" Va', va' in sala da pranzo!


    CAPITOLO 24.

    All'ora prefissa,  il principe,  incipriato  e  rasato  accuratamente,
    entrò in sala da pranzo dove lo attendevano la nuora, la principessina
    Màrija,  "mademoiselle" Bourienne e l'architetto di casa che,  per uno
    strano  capriccio  del  principe,  era  ammesso  alla  tavola  comune,
    sebbene,  da uomo insignificante qual era, non avesse alcun titolo per
    godere di tale onore.  Il principe,  che nella sua vita  aveva  sempre
    tenuto  molto  alla  distinzione  delle  classi  e  che  ben  di  rado
    accoglieva alla sua tavola persino  certi  funzionari  importanti  del
    distretto,  con  l'ammettere  Michaìl Ivànovic' (il quale in un angolo
    della sala si soffiava il naso con  un  fazzoletto  a  quadri),  aveva
    forse  voluto  dimostrare  che  tutti  gli uomini sono uguali e spesse
    volte aveva ripetuto alla figlia che Michaìl Ivànovic' non era affatto
    inferiore a loro due.  E a tavola rivolgeva la parola a quel taciturno
    giovanotto più spesso che agli altri commensali.
    Nella sala da pranzo, alta e vastissima, come lo erano tutte le stanze
    di  quella  casa,  attendevano  l'arrivo  del principe i familiari e i
    domestici ritti dietro le seggiole; il maggiordomo,  con una salvietta
    sul braccio, ispezionava il servizio, faceva cenni rapidi ai domestici
    e continuamente correva con lo sguardo dall'orologio a muro alla porta
    dalla  quale  doveva  entrare  il padrone di casa.  Il principe Andréj
    stava osservando in una grande cornice dorata  un  quadro,  nuovo  per
    lui,  con  l'albero  genealogico della famiglia Bolkonskij,  appeso di
    fronte a un altro che rappresentava la  figura,  piuttosto  mal  fatta
    (evidentemente  dalla  mano  di  un  pittore di casa),  di un principe
    regnante,  con la corona  in  testa,  che  sarebbe  dovuto  essere  un
    discendente  di  Rjurik  (144)  e il capostipite della generazione dei
    Bolkonskij.  Il principe Andréj contemplava quell'albero  genealogico,
    scotendo  il  capo  e sorridendo,  con quell'aria con cui si guarda un
    ritratto somigliante sino ad essere ridicolo.
    - Come lo riconosco in tutto questo!   -    disse  alla  principessina
    Màrija che gli si avvicinava.
    La  principessina  Màrija  guardò  il fratello: non comprendeva di che
    cosa egli ridesse.  Tutto ciò che faceva suo padre  suscitava  in  lei
    un'ammirazione che non tollerava discussioni.
    -  Ciascuno  ha  il  suo  tallone  d'Achille   -  proseguì il principe
    Andréj.   -  Con  una  intelligenza  come  la  sua,  "donner  dans  ce
    ridicule" [145. cadere in tali ridicolaggini!].
    La  principessina Màrija,  che non poteva capire l'ardire del giudizio
    del fratello, si preparava a rispondere, quando si udì provenire dallo
    studio il rumore dei passi attesi: il vecchio principe entrò, rapido e
    allegro come sempre,  quasi  volesse,  con  i  suoi  modi  frettolosi,
    stabilire  un evidente contrasto con l'ordine severo che regnava nella
    casa.  Proprio in quel momento il  grande  pendolo  batté  le  due,  e
    l'orologio  del  salotto  gli  rispose  con  due rintocchi più dolci e
    leggeri.  Il principe si fermò.  Di sotto le folte  sopracciglia,  gli
    occhi  vivaci  e  lucenti  volsero  su  tutti  uno sguardo severo e si
    fermarono sulla giovane principessa.  Ella  fu  presa,  ora,  da  quel
    sentimento che provano i cortigiani all'ingresso del sovrano,  da quel
    sentimento misto di paura e di rispetto che il  vecchio  suscitava  in
    tutti  coloro  che  gli  si  avvicinavano.  Egli  le accarezzò prima i
    capelli e poi, con un gesto goffo, le diede un colpetto sulla nuca.
    - Sono molto, molto contento!  -  disse,  fissandola negli occhi;  poi
    si  scostò  in  fretta  da  lei e andò a sedersi al proprio posto.   -
    Sedetevi, sedetevi Michaìl Ivànovic', sedetevi!
    Indicò alla nuora il posto accanto a sé. Il domestico tirò indietro la
    sedia perché ella potesse accomodarsi.
    - Oh, oh, oh!   -  esclamò il vecchio,  osservando il corpo ingrossato
    di lei.  -  Troppa fretta, troppa... Male!
    E  rise  di  un riso secco,  sgradevole e freddo,  come rideva sempre:
    soltanto con la bocca, mentre gli occhi rimanevano seri.
    - Bisogna camminare molto, moltissimo, il più possibile...
    La piccola principessa non sentì o non volle sentire  le  sue  parole.
    Taceva  e  appariva  confusa.  Il  principe  le parlò del padre e solo
    allora ella sorrise e  ruppe  il  suo  silenzio.  La  interrogò  sulle
    conoscenze  comuni e lei,  animandosi vieppiù,  si mise a raccontare i
    pettegolezzi della città e gli trasmise i saluti di tutti.
    - "La comtesse Apraksine, la pauvre, a perdu son mari et elle a pleuré
    les larmes de ses yeux" [146. La povera contessa Apràksina ha perso il
    marito e ha pianto tutte le sue lacrime] - disse, animandosi sempre di
    più.
    Quanto più si accentuava la vivacità  di  lei,  tanto  più  severa  si
    faceva  l'espressione  del  viso  del principe che la guardava;  ad un
    tratto,  come se l'avesse studiata abbastanza e  si  fosse  fatto  una
    chiara  opinione  di  lei,  si  voltò dall'altra parte,  verso Michaìl
    Ivànovic'.
    - Dunque, Michaìl Ivànovic',  le cose si metteranno male per il nostro
    Buonaparte! A quanto mi ha detto il principe Andréj,  -  (egli parlava
    sempre del figlio in terza persona)  -  si stanno preparando contro di
    lui  forze  eccezionali!   E  dire  che  io  e  voi  l'abbiamo  sempre
    considerato una vera nullità!
    Michaìl Ivànovic',  che ignorava nel modo più assoluto  quando  "io  e
    voi"   avessero   pronunziato  un  simile  giudizio  nei  riguardi  di
    Bonaparte,  capì tuttavia  di  essere  necessario  per  introdurre  il
    prediletto  argomento  e guardò il giovane principe,  domandandosi che
    cosa avrebbe detto.
    - Oh,  egli è un grande stratega!   -  disse il  principe  al  figlio,
    indicandogli l'architetto.
    E la conversazione riprese a trattare della guerra,  di Bonaparte, dei
    generali e degli uomini  di  stato  del  tempo.  Il  vecchio  principe
    sembrava convinto che non solo gli uomini di stato del momento fossero
    tutti  dei  ragazzi  qualsiasi  ignari  delle  più  elementari nozioni
    dell'arte militare e politica, che Bonaparte fosse un francesucolo che
    aveva avuto successo soltanto perché non esistevano dei Potëmkin (147)
    e dei Suvorov da mettergli di fronte;  ma era anche convinto del fatto
    che in Europa non ci fosse alcun contrasto politico,  che non ci fosse
    la guerra e che si assistesse soltanto a una commedia  da  marionette,
    recitata  da  uomini  che  fingevano  di  occuparsi di cose serie.  Il
    principe Andréj sopportava allegramente le canzonature del padre sugli
    uomini del tempo; anzi, con evidente piacere,  lo stuzzicava a parlare
    e lo ascoltava.
    -  Tutto ciò che è avvenuto nel passato pare sempre buono e bello,   -
    disse  -  ma forse  che  lo  stesso  Suvorov  non  cadde  nell'insidia
    tesagli da Moreau (148) e dalla quale non seppe uscire?
    - Chi ti ha detto questo?  Chi te lo ha detto?   -  gridò il principe.
    -  Suvorov!   -  E respinse violentemente il piatto che Tichòn afferrò
    al volo.   -  Suvorov! rifletti, principe Andréj... Due uomini ci sono
    stati: Fridrik (149) e Suvorov...  Moreau?  Ma  Moreau  sarebbe  stato
    fatto prigioniero,  se Suvorov avesse avuto le mani libere...  Ma egli
    doveva occuparsi dell'"Hofs-Kriegs-Wurst-Schnaps-Rat" (150) e non  era
    affare  da  poco!  Andrete  là  e  li conoscerete anche voi!  Se non è
    riuscito a venirne a capo Suvorov, come volete che possa farlo Michaìl
    Kutuzòv? No,  mio caro,   -  proseguì  -  con i vostri generali non ce
    la  farete  contro  Buonaparte: ci vorrebbero generali francesi che si
    divorerebbero l'uno con l'altro.  Si è mandato il tedesco Pahlen (151)
    a  New  York,  in  America,  a  cercare  il francese Moreau  -  disse,
    alludendo all'invito fatto quell'anno a Moreau  affinché  entrasse  al
    servizio della Russia.  -  Erano forse tedeschi i Potëmkin, i Suvorov,
    gli Orlòv (152)?  No, mio caro, o laggiù voialtri siete tutti fuori di
    senno o sono impazzito io.  Dio vi  protegga,  ma  staremo  a  vedere.
    Buonaparte,  intanto,  è considerato da loro un gran condottiero!  Ah,
    ah!
    - Io non dico che tutte le disposizioni date  sinora  siano  ottime  -
    dichiarò  il  principe  Andréj;   -  tuttavia non riesco a capire come
    possiate giudicare a questo modo Buonaparte. Ridete quanto volete,  ma
    Buonaparte resta pur sempre un grande condottiero!
    - Michaìl Ivànovic'!  -  gridò il vecchio principe all'architetto che,
    alle prese con l'arrosto, sperava di essere stato dimenticato.  -  Non
    vi  ho detto che Buonaparte è un grande stratega?  Ecco,  egli dice la
    stessa cosa.
    - Certamente, eccellenza!  -  rispose l'architetto.
    Il principe rise di nuovo del suo riso secco e freddo.
    - Buonaparte è nato con la camicia.  Ha  dei  magnifici  soldati.  Per
    prima cosa ha fatto la guerra soltanto contro i Tedeschi, e soltanto i
    buoni  a niente non riescono a sconfiggere i Tedeschi.  Da che mondo è
    mondo, tutti li hanno battuti, e loro non hanno mai battuto nessuno...
    all'infuori di se stessi.  Proprio su di loro Buonaparte ha fondato la
    propria gloria!
    E  a  questo  punto,  il  principe  cominciò  a  enumerare  gli errori
    commessi,  secondo lui,  da Bonaparte sia  nelle  campagne  sia  negli
    affari  di  stato.  Il  figlio  non  obiettava,  ma  era evidente che,
    qualsiasi argomento venisse  addotto,  non  avrebbe  mutato  opinione.
    Ascoltava  trattenendosi  dal  ribattere  e  meravigliandosi  che quel
    vecchio, che da tanti anni viveva isolato in campagna,  potesse essere
    al   corrente   con  tanti  particolari  e  tanta  sottigliezza  della
    situazione politica e militare dell'Europa di quegli ultimi anni.
    - Tu credi che io,  perché sono vecchio,  non capisca  il  vero  stato
    attuale delle cose?  -  concluse.  -  Figurarsi! Di notte non dormo...
    e ci penso.  Dimmi,  infine,  se puoi, perché Buonaparte sia un grande
    condottiero... In che modo l'ha dimostrato?
    - Sarebbe una cosa troppo lunga  -  rispose il figlio.
    - Ma smettila con il tuo Buonaparte!  "Mademoiselle  Bourienne,  voilà
    encore  un  admirateur  de votre goujat d'empereur!" [153.   Signorina
    Bourienne,  ecco  un  altro  ammiratore  di  quel  cafone  del  vostro
    imperatore!]  -  esclamò ad alta voce, in perfetta lingua francese.
    -  "Vous  savez que je ne suis pas bonapartiste,  mon prince..." [154.
    Voi sapete, principe, che io non sono bonapartista].
    - "Dieu sait quand  reviendra..."    -    canticchiò  il  principe  in
    falsetto. E, con una risatina, ancora più stonata, si alzò da tavola.
    La giovane principessa,  durante la discussione e durante il resto del
    pranzo,   non  aveva  parlato,   guardando  come  spaventata  ora   la
    principessina  Màrija  ora  il suocero.  Quando si alzarono da tavola,
    prese per mano la cognata e la condusse nella stanza attigua.
    - "Comme c'est un homme d'esprit votre père!  -  le disse;  -  c'est à
    cause de cela peut-être qu'il me fait peur!" [155.  Che uomo geniale è
    vostro padre! Forse è per questo che mi fa paura!].
    - Oh, è tanto buono!  -  rispose la principessina.


    CAPITOLO 25.

    Il  principe  Andréj partiva la sera successiva.  Il vecchio principe,
    senza mutare le sue abitudini,  dopo pranzo si era già ritirato  nelle
    proprie stanze. La principessa Liza era nella camera della cognata. Il
    principe Andréj,  in abito da viaggio senza spalline, era intento, con
    il  cameriere,   agli  ultimi   preparativi.   Aveva   già   esaminato
    personalmente  la carrozza e la sistemazione dei bagagli e dato ordine
    di attaccare i cavalli.  Nella  camera  non  rimanevano  più  che  gli
    oggetti  che  egli  portava  sempre  con  sé: un cofanetto,  un grande
    servizio d'argento di  piatti  e  posate,  due  pistole  turche  e  la
    sciabola,  dono  del  padre,  che  gliel'aveva portata dall'assedio di
    Ocakòv (156).  Tutti questi oggetti da viaggio erano tenuti dal  conte
    in perfetto ordine: lucenti come se fossero nuovi, nelle loro custodie
    di panno, accuratamente legati da cordoncini.
    Al momento di una partenza o di un mutamento di vita, tutti gli uomini
    portati a riflettere sui propri atti fanno,  di solito, un serio esame
    delle loro idee. Di solito, in circostanze del genere, si controlla il
    passato e si fanno progetti per  l'avvenire.  Il  volto  del  principe
    Andréj aveva un'espressione buona e pensosa.  Egli, con le mani dietro
    la schiena,  percorreva rapidamente la stanza da un angolo  all'altro,
    guardando avanti a sé e scuotendo di tanto in tanto il capo,  con aria
    pensierosa.  Lo rattristava il fatto di partire per la  guerra  o  gli
    doleva  di dover lasciare la moglie?  Forse l'una e l'altra cosa;  non
    desiderando,  però,  di essere sorpreso nello stato d'animo in cui  si
    trovava,  allorché  udì  un  rumore  di  passi in anticamera,  sciolse
    rapidamente le braccia e si fermò davanti allo scrittoio,  fingendo di
    essere  intento  a  chiudere la fodera del suo astuccio,  e assunse la
    consueta espressione calma e  impenetrabile.  Erano  i  passi  pesanti
    della principessina Màrija.
    -  Mi  hanno  detto  che  hai già dato ordine di attaccare i cavalli -
    disse ella,  ansimando un po' forse perché era venuta  di  corsa.    -
    Vorrei  parlare  un  momento  con te a tu per tu.  Sa Iddio per quanto
    tempo staremo lontani!  Non ti dispiace che io sia venuta?  Sei  molto
    mutato,  Andrjuscia    -    soggiunse,  come  per  giustificare la sua
    domanda.
    Pronunziando il nome di Andrjuscia, ella aveva sorriso.  Evidentemente
    le  riusciva strano pensare che quell'uomo bello e severo fosse quello
    stesso Andrjuscia,  quel ragazzetto magro e birichino che era stato il
    compagno della sua infanzia.
    -  Dov'è  Liza?    -    egli domandò,  rispondendo con un sorriso alla
    domanda della sorella.
    - Era così stanca che si è addormentata sul divano della  mia  camera.
    Ah, Andréj! Che tesoro di moglie hai!  -  osservò, mettendosi a sedere
    sul  divano,  davanti  al fratello.   -  E' una bimba,  una cara bimba
    allegra e adorabile. Le voglio tanto, tanto bene!
    Il principe Andréj taceva,  ma la principessina notò che sul  viso  di
    lui era comparsa un'espressione un tantino ironica e sprezzante.
    - Ma bisogna essere indulgenti verso certe piccole debolezze;  chi non
    ne ha,  Andréj?  Non dimenticare che essa è stata educata ed è vissuta
    nel gran mondo.  E poi,  anche la sua attuale condizione non è affatto
    rosea.   Bisogna  sempre  mettersi  nei  panni  degli   altri.   "Tout
    comprendre,  c'est  tout  pardonner"  [157.  Tutto comprendere è tutto
    perdonare].  Pensa che cosa deve essere per lei,  poveretta,  dopo  la
    vita alla quale è stata avvezza,  separarsi dal marito,  rimanere sola
    in campagna e,  per di più,  nella sua condizione!  E' una cosa  molto
    penosa.
    Il  principe  Andréj  sorrise  guardando  la sorella,  come si sorride
    quando si ascolta una persona che ci pare di conoscere sino  in  fondo
    all'anima.
    -  Anche  tu  vivi  in  campagna  e  non  trovi che sia una vita tanto
    terribile  -  disse.
    - La cosa è diversa. E poi,  che c'entro io?  Io non desidero né posso
    desiderare  un'altra  vita  perché  non conosco che questa.  Ma pensa,
    Andréj,  che cosa significa per una donna giovane,  abituata alla vita
    di  mondo,  seppellirsi,  nel fiore degli anni,  in campagna,  sola...
    perché il babbo è sempre occupato e io... tu mi conosci...  sai quanto
    io sia povera di risorse per una donna abituata alla società elegante.
    Soltanto "mademoiselle" Bourienne...
    -  Non  mi  va affatto a genio la vostra Bourienne...   -  dichiarò il
    principe Andréj.
    - Oh no! E' una cara e buona creatura e, soprattutto,  degna di pietà.
    Non  ha  più  nessuno  al  mondo.  A  dire il vero,  non solo non mi è
    necessaria, ma direi che mi è d'impaccio. Io,  tu lo sai,  sono sempre
    stata  una  selvaggia e ora più che mai mi piace star sola.  Ma nostro
    padre vuol molto  bene  a  "mademoiselle"  Bourienne.  Lei  e  Michaìl
    Ivànovic'  sono le due sole persone verso le quali egli è sempre buono
    e gentile, perché tutti e due hanno molti obblighi verso di lui.  Come
    dice Sterne (158): "Noi amiamo le persone non tanto per il bene che ci
    hanno  fatto,  quanto per il bene che noi abbiamo fatto loro".  Nostro
    padre raccolse sul lastrico la Bourienne,  orfana e sola,  ed  essa  è
    molto buona. E al babbo piace assai sentirla leggere. Alla sera gli fa
    lettura ad alta voce. E legge veramente bene.
    - Dimmi, Marie, io penso che tu spesso debba soffrire per il carattere
    di nostro padre: è così?  -  chiese a un tratto il principe Andréj.
    La  principessina  Màrija rimase dapprima stupita a quella domanda,  e
    poi fu presa quasi da sgomento.
    - Soffrire!  -  mormorò.  -  Io soffrire?
    - Egli è sempre stato severo e mi pare che ora stia  diventando  anche
    un  po' crudele...   -  disse il principe Andréj,  a bella posta,  per
    stuzzicare la sorella e metterla alla prova,  parlando a quel modo del
    padre.
    - Tu sei buono con tutti,  Andréj,  ma hai dei pensieri orgogliosi,  -
    disse la principessina,  seguendo il filo dei propri pensieri più  che
    le  parole  del  fratello    -    e  questo è un grave peccato.  Com'è
    possibile giudicare il proprio padre?  E,  se anche  lo  fosse,  quale
    altro sentimento che non sia di venerazione potrebbe suscitare un uomo
    come nostro padre?  Io mi sento tanto contenta,  tanto felice con lui!
    Vorrei soltanto che tutti voi foste felici come lo sono io.
    Il fratello scosse il capo, incredulo.
    - Una sola cosa mi addolora,  e te la dirò francamente,  Andréj: è  il
    suo  modo  di  pensare per quanto riguarda la religione.  Non riesco a
    capire come un uomo della sua intelligenza non sappia vedere ciò che è
    chiaro come il giorno e  possa  smarrirsi  così!  In  questo  consiste
    veramente la mia infelicità.  Però,  in questi ultimi tempi, ho notato
    un'ombra di miglioramento. Le sue facezie sono meno caustiche, egli ha
    ricevuto un monaco, con il quale ha avuto un lungo colloquio.
    - Ah,  mia cara,  temo che tu  e  quel  monaco  sprechiate  la  vostra
    polvere!    -    disse  il principe Andréj,  ironico e affettuoso a un
    tempo.
    - Oh, "mon ami"! Io non faccio che supplicare Iddio,  e spero che Egli
    mi  esaudirà.  Andréj,    -  soggiunse timidamente,  dopo un minuto di
    silenzio  -  ti devo rivolgere una preghiera...
    - Che cosa, mia cara?
    - Promettimi prima che non mi dirai di no.  Non ti costerà nulla e non
    è  niente  che sia indegno di te.  Mi daresti una grande consolazione.
    Promettimi, Andrjuscia!   -  ripeté,  mettendo una mano nella borsetta
    dove  prese  qualcosa che non lasciò scorgere e che costituiva,  senza
    dubbio,  l'oggetto della sua preghiera,  come se non potesse mostrarlo
    prima  di  aver  ricevuto la promessa: e intanto fissava,  con sguardo
    timido e supplichevole, il fratello.
    - Anche se la cosa mi dovesse costare un grande sforzo...   -  rispose
    Andréj, come se avesse indovinato di che cosa si trattava.
    -  Pensa  quello  che vuoi!  So che tu sei come nostro padre...  Pensa
    quello che vuoi,  ma fallo per me.  Fallo,  te ne prego!  Il padre  di
    nostro padre,  nostro nonno,  l'ha portata in tutte le guerre...  -  E
    non si decideva a tirar fuori dalla borsetta l'oggetto che teneva  tra
    le mani.  -  Me lo prometti, dunque?
    - Certo, di che si tratta?
    - Andréj,  io ti benedico con questa piccola immagine, e tu promettimi
    che non te ne separerai mai... Me lo prometti?
    - Purché non pesi tanto da  tirarmi  giù  il  collo,  ti  prometto  di
    portarla per farti piacere  -  rispose il principe Andréj,  ma in quel
    momento,  notando l'espressione addolorata della sorella all'udire  le
    sue  parole  scherzose,  si  pentì di averle pronunziate.   -  Ne sono
    molto lieto, mia cara, molto lieto davvero  -  soggiunse subito.
    - Anche tuo malgrado,  anche senza che tu lo sappia,  Egli ti salverà,
    giacché  soltanto  in  Lui  sono  la  verità  e la grazia  -  disse la
    principessina Màrija con  la  voce  tremante  per  l'emozione,  mentre
    porgeva al fratello, con gesto solenne, una vecchia immagine ovale del
    Salvatore  con  un  volto  nero  e  ricoperto d'argento,  appeso a una
    catenella pure d'argento, di squisita fattura.
    Ella si fece il segno della croce,  baciò l'immagine  e  la  diede  ad
    Andréj.
    - Te ne prego, Andréj... fallo per me!
    Dai  grandi  occhi  di  lei spirava una luminosa luce di timida bontà.
    Quegli  occhi  illuminavano  il  volto  magro   e   malaticcio   della
    principessina  e  lo rendevano bellissimo.  Il fratello volle prendere
    l'immagine, ma ella gli fermò la mano.  Andréj capì,  si fece il segno
    della  croce  e  baciò  l'effige del Salvatore.  Il suo viso esprimeva
    nello stesso tempo tenerezza (egli era un po' commosso)  e  una  lieve
    canzonatura.
    - "Merci, mon ami!"
    Ella lo baciò in fronte e riprese il suo posto sul divano. Per qualche
    tempo rimasero in silenzio.
    -  Dunque,  Andréj,  sii  buono e generoso come sei sempre stato.  Non
    giudicare severamente Liza  -  prese a dire la principessina.  -  Essa
    è così cara, così buona, e la sua condizione è ora tanto penosa!
    - Mi pare,  Mascia,  di non aver detto nulla che suoni rimprovero  per
    mia  moglie  o che dimostri che io non sia contento di lei.  Perché mi
    parli così?
    La principessina Màrija arrossì e tacque come una colpevole.
    - Io non ti ho detto nulla,  ma c'è chi ti ha già parlato...  E questo
    mi addolora.
    Chiazze rosse comparvero sul collo,  sulle guance e sulla fronte della
    principessina  Màrija.  Ella  voleva  dire  qualcosa,  ma  non  poteva
    parlare.  Il fratello credette di capire: la piccola principessa, dopo
    pranzo,  aveva pianto,  aveva rivelato  i  suoi  timori  di  un  parto
    difficile  e  si  era  lamentata  della  sua sorte,  del suocero e del
    marito.  Dopo aver pianto,  si era addormentata.  Il  principe  Andréj
    provò pietà per la sorella.
    -  Sappi  una  cosa,   Mascia:  io  non  posso  rimproverare,  non  ho
    rimproverato e non rimprovererò mai nulla a mia moglie,  ma non  posso
    neppure  rimproverare  nulla a me stesso nei miei rapporti con lei.  E
    così sarà sempre, in qualsiasi circostanza io mi debba trovare.  Ma se
    tu  vuoi  proprio  sapere  la  verità...  se  vuoi  sapere  se io sono
    felice... ebbene, ti devo dire di no. E lei è felice? No. Perché?  Non
    lo so...
    Dopo  aver  detto  queste cose,  si alzò,  si avvicinò alla sorella e,
    chinatosi su di lei,  le diede un bacio  sulla  fronte.  I  bellissimi
    occhi  gli  si  illuminarono di una luce intelligente e buona,  di uno
    splendore inconsueto, ma non guardavano la sorella bensì,  al di sopra
    della testa di lei, il vano buio della porta rimasta aperta.
    - Andiamo da Liza: devo salutarla.  Oppure va' tu sola, svegliala e io
    ti raggiungerò tra poco.  Petruska!   -  gridò al cameriere.-    Vieni
    qui, prendi questo e mettilo sul sedile, al lato destro.
    La  principessina  Màrija  si  alzò  e si avviò verso la porta.  Ad un
    tratto si fermò e disse:
    - "André, si vous aviez la foi, vous vous seriez adressé à Dieu,  pour
    qu'il vous donne l'amour que vous ne sentez pas et votre prière aurait
    été exaucée" [159.  Andréj,  se aveste fede,  vi sareste rivolto a Dio
    per pregarlo di darvi l'amore che non sentite,  e la vostra  preghiera
    sarebbe stata accolta].
    - Sì,  forse...   -  rispose il principe Andréj.   -  Va,  Mascia,  io
    vengo subito.
    Mentre si recava in camera della sorella,  nella galleria che univa  i
    due  corpi del fabbricato,  il principe Andréj incontrò "mademoiselle"
    Bourienne,  che gli sorrise amabilmente.  Era la terza volta,  in quel
    giorno, che incontrava la francese in luoghi isolati e sempre ella gli
    rivolgeva un sorriso innocente ed estatico.
    -  "Ah,  je  vous croyais chez vous!" [160.  Oh,  vi credevo in camera
    vostra!]  -  disse, arrossendo, chissà perché, e abbassando gli occhi.
    Il principe Andréj la guardò severamente,  mentre il suo viso  assunse
    di  colpo  un'espressione  di  collera.  Egli non le disse nulla ma le
    guardò la fronte e i capelli, non gli occhi, con un tale disprezzo che
    quella arrossì e si allontanò senza dire  una  parola.  Allorché  egli
    giunse alla camera della sorella,  la principessa si era già svegliata
    e la sua allegra vocetta che  ammassava  in  fretta  una  parola  dopo
    l'altra  si  udiva  anche oltre la porta chiusa.  Ella parlava come se
    volesse rifarsi del tempo perduto durante un lungo silenzio.
    - "Non, mais figurez-vous, la vieille comtesse Zouboff avec de fausses
    boucles et la bouche pleine de fausses dents,  comme si  elle  voulait
    défier les années...  Ah,  ah, Marie!" [161. No, ma pensate un po', la
    vecchia contessa Zubov con i riccioli finti,  con la  bocca  piena  di
    denti finti, come se volesse sfidare gli anni... Ah, ah, Màrija!].
    Il  principe  Andréj  aveva  già udito dalla bocca della moglie quella
    stessa frase sulla principessa  e  quella  stessa  risata  già  almeno
    cinque  volte  in presenza di estranei.  Entrò piano nella stanza.  La
    principessa, piccola, grassoccia e rossa in viso, con un lavoro tra le
    mani,  sedeva in una poltrona e  parlava  incessantemente,  rievocando
    ricordi  e  persino  frasi  pietroburghesi.  Il  principe Andréj le si
    avvicinò,  le accarezzò il capo e le chiese se si fosse  riposata  dal
    viaggio.   Ella   gli   rispose  e  riprese  subito  la  conversazione
    interrotta.

    Una carrozza a sei cavalli era ferma  davanti  all'ingresso.  Era  una
    notte  d'autunno  tanto scura che il cocchiere non riusciva a scorgere
    il timone.  Sulla scalinata andava e veniva gente munita di  lanterne.
    La   grande   casa   aveva   tutte   le   ampie  finestre  illuminate.
    Nell'anticamera erano riuniti i domestici che desideravano salutare il
    giovane principe;  in sala si trovavano  tutte  le  persone  di  casa:
    Michàil Ivànovic', "mademoiselle" Bourienne, la principessina Màrija e
    la  principessa  Liza.  Il  principe Andréj era stato chiamato nel suo
    studio dal padre,  che voleva congedarsi da lui a  tu  per  tu.  Tutti
    attendevano che uscissero.
    Allorché il principe Andréj era entrato nello studio,  il principe con
    gli occhiali sul naso e in veste da camera bianca,  con la  quale  non
    riceveva  nessuno  all'infuori del figlio,  era seduto allo scrittoio,
    intento a vergare una lettera. Si volse e domandò:
    - Parti?  -  e continuò a scrivere.
    - Sono venuto a salutarvi.
    - Dammi un bacio qui!   -  E gli indicò una guancia.   -    E  grazie,
    grazie!
    - Perché mi ringraziate?
    -  Ti  ringrazio perché non perdi il tuo tempo attaccato alle gonnelle
    di una donna. Il dovere innanzi tutto.  Grazie,  ancora grazie!   -  E
    continuò  a  scrivere,  mentre  gocce  d'inchiostro gli cadevano dalla
    penna scricchiolante sul foglio.  -  Se mi devi dire qualcosa,  parla.
    Posso fare insieme le due cose: scrivere e ascoltare...  -  soggiunse.
    -  Vorrei  parlarvi  di mia moglie.  Già così mi vergogno di lasciarla
    qui, sotto la vostra responsabilità...
    - Storie! Dimmi che cosa ti occorre...
    - Quando mia moglie sarà vicina al momento del parto,  fate venire  da
    Mosca un ostetrico... perché l'assista.
    Il  vecchio principe smise di scrivere e,  come se non capisse,  fissò
    severamente il figlio.
    - So che nessuno può aiutare,  se non aiuta la natura!   -   disse  il
    principe  Andréj,  evidentemente turbato.   -  Sono convinto che su un
    milione di casi,  uno solo ha esito  sfavorevole...  ma  questo  è  un
    desiderio suo e anche mio.  Le hanno raccontato un mucchio di cose, ha
    fatto dei brutti sogni e ora ha paura.
    - Uhm...  uhm...    -    borbottò  il  vecchio  principe,  riprendendo
    scrivere.  -  Lo farò.
    Firmò  la  lettera,  si  voltò rapidamente verso il figlio e si mise a
    ridere.
    - Brutta faccenda, eh?
    - Che cosa babbo?
    - Tua moglie!   -  disse rapidamente  il  vecchio  principe,  in  tono
    significativo.
    - Non capisco!  -  obiettò il figlio.
    - Ma non c'è niente da fare, mio caro, sono tutte così. Ma non temere,
    non dirò nulla a nessuno, e tu lo sai.
    Il principe afferrò la mano del figlio con la sua piccola e ossuta, la
    strinse fissandolo negli occhi,  con quello sguardo che pareva leggere
    sino in fondo all'anima e rise di nuovo, freddamente come sempre.
    Il figlio sospirò e confessò, con quel sospiro,  che suo padre l'aveva
    compreso.  Il  vecchio  piegò  e  suggellò  la  lettera con l'abituale
    rapidità di gesti; poi respinse il sigillo, la ceralacca e la carta.
    - Che ci vuoi fare?  E' bella!  Farò  tutto  ciò  che  desideri,  sta'
    tranquillo!  -  disse a scatti, mentre sigillava.
    Andréj  tacque;   gli  faceva  piacere,  ma  nello  stesso  tempo  gli
    dispiaceva,  che il padre l'avesse capito.  Il vecchio si alzò e porse
    al figlio la lettera.
    -  Ascolta,    -   gli disse  -  non devi preoccuparti per tua moglie:
    tutto quanto è possibile fare,  sarà  fatto.  Ora  senti:  eccoti  una
    lettera  per Michaìl Ilarjònovic' (162).  Gli ho scritto perché ti dia
    un buon posto e non ti lasci rimanere per molto tempo suo aiutante  di
    campo:  è  un brutto lavoro!  Digli che lo ricordo e gli voglio sempre
    bene.  E scrivimi,  dicendomi come ti avrà accolto.  Se sarà buono con
    te,  servilo  con  devozione,  e  ricordati  che  il figlio di Nikolàj
    Andréevic' Bolkonskij non deve prestar  servizio  presso  nessuno  per
    pura grazia. Be', ora vieni qui.
    Parlava  con una rapidità tale che non gli permetteva di completare le
    parole,  ma il figlio era abituato e lo capiva.  Lo condusse presso lo
    scrittoio, aprì un cassetto e tirò fuori un quaderno coperto dalla sua
    scrittura grossa, lunga e fitta.
    - Probabilmente morirò prima di te.  Sappi che qui sono scritte le mie
    memorie, da consegnare, dopo la mia morte, all'imperatore. Qui ci sono
    anche la ricevuta di un deposito bancario e una lettera: si tratta  di
    un  premio  per  chi  scriverà  la  storia  delle  guerre  di Suvorov.
    Dev'essere trasmesso all'Accademia. Qui ci sono certi miei appunti: li
    leggerai quando non ci sarò più e ne trarrai vantaggio.
    Andréj non disse al padre che  certamente  sarebbe  vissuto  ancora  a
    lungo. Capiva che non bisognava dirlo.
    - Eseguirò tutto, babbo!  -  rispose.
    -  Bene,  e  ora  addio!    -  Diede al figlio la mano da baciare e lo
    abbracciò.  -  Ricordati di una sola cosa, principe Andréj: se dovessi
    cadere in battaglia,  io,  povero vecchio,  ne avrò gran dolore...   -
    Tacque  improvvisamente,  ma  poi  riprese  con voce acuta:  -   Ma se
    venissi a sapere che non ti comporti come si  conviene  al  figlio  di
    Nikolàj Bolkonskij, ne avrò... vergogna!
    -  Questo  potevate anche non dirmelo,  babbo!   -  rispose il figlio,
    sorridendo.
    Il vecchio tacque.
    - Vorrei ancora rivolgervi una preghiera    -    riprese  il  principe
    Andréj:    -  se mi nascesse un figlio e io restassi ucciso in guerra,
    non allontanatelo come già vi ho detto ieri,  ma fate che egli  cresca
    accanto a voi. Ve ne prego!
    - Non vuoi che lo dia a tua moglie,  dunque?   -  chiese il vecchio, e
    si mise a ridere.
    I due uomini,  seduti l'uno di fronte all'altro,  tacevano.  Gli occhi
    mobilissimi  del  vecchio  erano fissi in quelli del figlio.  La parte
    inferiore del viso ebbe un tremito.
    - Ci siamo salutati... ora va'!  -  esclamò a un tratto.   -  Va'!   -
    ripeté,  quasi  gridando  con  voce irritata e spalancò la porta dello
    studio.
    - Che c'è?  Che succede?   -  domandarono la principessina Màrija e la
    cognata al principe Andréj e al vecchio,  apparso per un momento nella
    veste da camera bianca, senza parrucca e con gli occhiali, che gridava
    con voce irritata.
    Il principe Andréj sospirò e non rispose.
    - Be'!  -  disse, rivolgendosi alla moglie, e quel "be'" fu beffardo e
    freddo,  come se le dicesse: "Adesso potete  continuare  a  discorrere
    delle vostre sciocchezze...".
    - "André,  déjà?"  -  chiese la piccola principessa, facendosi pallida
    e volgendo al marito uno sguardo sgomento.
    Egli l'abbracciò.  Ella mandò un grido e  gli  cadde  svenuta  tra  le
    braccia.
    Con   precauzione   egli  la  scostò  dalla  spalla  sulla  quale  era
    appoggiata, la guardò in viso e la depose con cura su una poltrona.
    - "Adieu,  Marie!"  -  disse  piano  alla  sorella.  Si  baciarono  si
    strinsero la mano, poi egli uscì rapidamente dalla stanza.
    La principessa giaceva in poltrona, mentre "mademoiselle" Bourienne le
    stropicciava  le  tempie.  La  principessina  Màrija,  sorreggendo  la
    cognata, con i begli occhi pieni di lacrime,  continuava a guardare la
    porta  dalla  quale  era uscito il fratello e faceva un segno di croce
    verso di lui. Dallo studio giungeva,  simile a una serie di spari,  il
    rumore  ripetuto  e  rabbioso  che faceva il principe,  soffiandosi il
    naso.
    Il principe Andréj si era appena allontanato,  quando la  porta  dello
    studio  si  aprì  con  violenza e apparve la severa figura del vecchio
    avvolto nella veste da camera bianca.
    - E' andato?  Bene...   -   disse,  guardando  accigliato  la  piccola
    principessa  svenuta e,  scuotendo il capo con aria di rimprovero e di
    disapprovazione, si ritirò, sbattendo la porta.



















    NOTE.

    N.  1.  Genova e Lucca vengono dette "feudi" della famiglia Bonaparte,
    poiché  la  prima  venne  annessa all'impero francese da Napoleone nel
    1805 assieme alla Liguria,  mentre Lucca,  eretta a principato  il  24
    giugno 1805,  venne concessa in appannaggio da Napoleone a sua sorella
    Elisa (1777-1820),  che nel 1797 aveva sposato Felice Baciocchi e  che
    nel 1809-14 fu pure nominata da Napoleone granduchessa di Toscana.  La
    grafia  "italiana"  di  "Buonaparte"  (anziché  quella   francese   di
    "Bonaparte")  ha  qui  e anche in altri dialoghi un valore di presa di
    posizione politica: essa veniva utilizzata  infatti  dai  legittimisti
    per rinfacciare a Napoleone la sua origine italiana.  (Alla nascita di
    Napoleone, nel 1769, la Corsica era ancora possesso genovese, e quindi
    italiano).
    N.  2.  L'imperatrice madre Màrija Fëdorovna (1759-1828) fu la seconda
    moglie  dello  zar  Paolo  Primo  (1754-1801) e matrigna di Alessandro
    Primo Pavlovic' (1777-1825).  Dopo aver avuto una  benefica  influenza
    sul marito autocrate e avverso alla cultura europea dei suoi tempi, fu
    poi da lui duramente tiranneggiata.
    N.  7.  Nikolàj  Nikolàevi'c  Novosilzòv (1761-1836),  statista russo,
    ciambellano dell'imperatore Alessandro Primo,  era stato incaricato di
    una mediazione di pace tra Napoleone e l'Inghilterra.
    N. 9. L'Austria, ancora incerta nel suo atteggiamento verso Napoleone,
    aveva  compiuto  diversi gesti che giustificavano i "sospetti" di Anna
    Pàvlovna: nel 1787  infatti  aveva  cercato  di  concludere  una  pace
    separata  durante  la  guerra russo-turca e nel 1799 era cessata,  per
    colpa dell'Austria, l'alleanza militare austro-russa.
    N. 10. Alessandro Primo (1777-1825), figlio di Paolo Primo e nipote di
    Caterina Seconda (1729-1796),  zar dal 1801.  S'impegnò subito in  una
    politica  di  riforme,  valendosi anche della collaborazione di M.  M.
    Speranskij ( 1772-1839).  A.  A.  Arakceev ( 1769-1834)  lo  influenzò
    invece in senso conservatore. Infine A. N. Golicyn (1773-1844) e V. U.
    von  Krüdener  (1764-1824)  ne stimolarono le tendenze misticheggianti
    che si espressero anche nell'utopico progetto  della  Santa  Alleanza,
    che  si  proponeva  di  instaurare  tra  i  sovrani europei vincoli di
    fraternità cristiana.
    N.  11.  L'isola di Malta venne conquistata da Napoleone  nel  1798  e
    riconquistata  nel  1800  dall'Inghilterra.  Quando questa rifiutò nel
    1803 di sgombrare la guarnigione,  secondo gli impegni presi nel 1802,
    scoppiò  la  guerra  anglo-francese,  in  cui venne coinvolta anche la
    Russia.
    N.  12.  Karl August von  Hardenberg  (1750-1822),  feldmaresciallo  e
    diplomatico  prussiano,  ministro  degli  esteri  dal  1803  al  1806,
    partecipò al Congresso di Vienna (1815) come cancelliere di stato.
    N. 14. Ferdinand Fëdorovic Wintzingerode (1770-1818),  feldmaresciallo
    e  diplomatico russo;  prestò servizio dal 1805 al 1812,  quando venne
    preso prigioniero a Mosca;  combatté anche nelle campagne del  1813  e
    1814; venne sconfitto da Napoleone a Saint-Dizier.
    N.  15.  In  questo  personaggio  Tolstòj raffigurò l'abate fiorentino
    Scipione Piattoli (1749-1809).  Espulso dall'università e dalla  città
    di Modena per aver scritto un saggio contro la sepoltura nelle chiese,
    viaggiò  per l'Europa;  re Stanislao di Polonia lo mandò in missione a
    Dresda,  ma  gli  Austriaci  lo  presero  prigioniero,   tenendolo  in
    cattività dal 1794 al 1800.  Recatosi a Pietroburgo, fece amicizia col
    principe A. Cartoritzkij (1770-1861).
    N. 17. Johann Kaspar Lavater (1741-1801), filosofo e teologo svizzero,
    creatore della fisiognomia.
    N. 21. Michaìl Ilarjònovic' Kutuzòv, principe di Smolènsk, maresciallo
    russo (1745-1813), partecipò a tutte le guerre della fine del regno di
    Caterina Seconda, conseguendo il grado di maggiore generale.  Servendo
    agli ordini di Suvorov di cui fu ammiratore e amico, nel 1788, durante
    la  battaglia  di Ocakòv perdette l'occhio destro.  Successivamente fu
    mandato da Caterina Seconda a Costantinopoli come  ambasciatore  e  da
    Paolo  Primo  fu  fatto  governatore  della Finlandia e ambasciatore a
    Berlino.   Sotto  Alessandro  Primo  prese  parte  alla  battaglia  di
    Austerlitz  (2  dicembre  1805)  come  comandante  delle  truppe russe
    alleate di quelle austriache.  La battaglia,  sconsigliata da Kutuzòv,
    ebbe  esito  negativo  e  nel  corso di essa Kutuzòv venne ferito.  In
    seguito ebbe il governo della Lituania e di  Kiev.  Nel  1812,  mentre
    Napoleone,  invasa  la  Russia,  passava  di successo in successo,  fu
    chiamato  alla  testa  delle  forze  russe  e  instaurò  una   tattica
    temporeggiatrice  e  difensiva  che  lo  mise  in disaccordo con altri
    comandanti.  Ricevuto l'ordine dallo zar di  difendere  a  ogni  costo
    Mosca contro Napoleone,  si trincerò presso Borodinò, sulle rive della
    Moscova  e,  dopo  una  sanguinosa  battaglia,   abbandonò  il  campo,
    ritirandosi ordinatamente.  Mentre Napoleone entrava in Mosca, Kutuzòv
    guadagnava tempo, fingendo di avviare trattative per una tregua. Il 18
    ottobre attaccò improvvisamente Gioacchino Murat,  e Napoleone  ordinò
    la  ritirata  verso  sud-ovest;  il 24 ottobre i Francesi batterono le
    armate di Kutuzòv a Malo-Jaròslavetz, aprendosi il passo con la forza,
    ma,  sotto l'incalzare della cavalleria cosacca,  dovettero continuare
    la ritirata verso occidente.  Kutuzòv inseguì i Francesi da vicino, li
    batté presso Smolènsk (per cui ebbe il titolo di principe e  il  grado
    di maresciallo), li decimò sulla Beresina e proseguì la marcia sino in
    territorio prussiano dove,  occupata Lipsia, morì in conseguenza delle
    fatiche sopportate,  mentre stava per assumere il comando di tutti gli
    eserciti della coalizione antinapoleonica.
    Mente  strategica non comune,  Kutuzòv colpì la fantasia popolare.  La
    sua figura,  contrapposta da Tolstòj in "Guerra e pace"  a  quella  di
    Napoleone,  risalta per le sue doti di umanità,  e lo scrittore gli dà
    un intenso rilievo storico-psicologico tale da  farne  quasi  uno  dei
    protagonisti dell'opera.
    N.  29. Caterina Seconda la Grande (1729-1796). Principessa di origini
    tedesche,  sposò Pietro Terzo (1728-1762) nel 1745  e  gli  succedette
    come  zarina  nel  1762,  quando il marito venne tolto di mezzo da una
    congiura  organizzata  da  G.   Orlòv  (1734-1783).   Ammiratrice  dei
    filosofi-enciclopedisti (come Voltaire,  d'Alembert,  Grimm, Diderot),
    s'ispirava ad un dispotismo illuminato, anche sull'esempio di Giuseppe
    Secondo d'Austria (1741-1790) e Federico Secondo il Grande di  Prussia
    (1712-1786).  Dopo  la  rivolta  di Pugacëv (1742-1775),  avvenuta nel
    1773,  e per suggerimento del nuovo favorito  G.  A.  Potëmkin  (1739-
    1791),  abbandonò  ogni disegno riformistico,  garantì i privilegi dei
    nobili ed aggravò le già precarie condizioni dei servi della gleba.
    N.  30.  Louis-Antoine di Condé,  duca d'Enghien (1772-1804),  con  il
    quale  si  estinse  la  casata  di Enghien,  fece parte dell'armata di
    emigrati francesi guidata dal  nonno  Louis-Henri  principe  di  Condé
    (1736-1818)  e  di cui faceva parte anche suo padre Louis-Henri (1756-
    1830).  Scioltasi l'armata nel 1801,  il duca d'Enghien si  ritirò  ad
    Ettenheim,  nel  granducato  del Baden.  Nella notte tra il 15 e il 16
    marzo  1804  venne  sequestrato  da  alcuni  emissari  di   Napoleone.
    Trasferito  a Vincennes,  fu fucilato nella notte del 21 marzo dopo un
    processo sommario; venne quindi sepolto nel fossato del castello.  Con
    quella  esecuzione,  il  Primo Console stroncava tutti i tentativi dei
    realisti per fare del principe un luogotenente generale del regno, con
    il compito di preparare la restaurazione dei Borboni;  essa  però  gli
    alienò  molte simpatie,  tra cui quella di Chateaubriand.  Esumato nel
    1816,  il duca d'Enghien venne sepolto nella cappella del castello  di
    Vincennes.
    N.  31. Luigi Quindicesimo (1710-1774) divenne re di Francia nel 1715.
    I fatti principali del suo regno, disastroso per la Francia, furono la
    guerra contro la Spagna, le guerre per la successione polacca e per la
    successione austriaca,  la guerra dei sette anni,  durante la quale la
    Francia perse gran parte delle sue colonie,  l'espulsione dei Gesuiti,
    e l'acquisto della Lorena e della  Corsica.  Nello  stesso  tempo  una
    larga  corruzione  si  manifestava  in  tutti gli strati della società
    francese.  Voltaire,   Montesquieu,   Rousseau  e  gli  enciclopedisti
    denunciarono  gli  abusi  e  la  corruzione  della monarchia assoluta,
    preparando così la rivoluzione,  che scoppiò sotto  il  successore  di
    Luigi Quindicesimo,  Luigi Sedicesimo (1754-1793). Ciò spiega il grido
    di esultanza con il quale la notizia della  sua  morte  venne  accolta
    dalla folla parigina.
    N.  39.  "Mademoiselle  George":  nome  d'arte di Marguerite-Joséphine
    Weimar (1787-1867): attrice drammatica francese,  amante di  Napoleone
    all'epoca del Consolato.  Nel 1808-1812 abitò e lavorò a Pietroburgo e
    a Mosca.
    N. 41.  Nikolàj Petrovic' Rumjanzòv (1754-1826),  uomo di stato russo.
    Divenuto  senatore  sotto  lo  zar  Paolo  Primo,  dal 1802 al 1811 fu
    ministro del commercio;  nel 1807 divenne anche ministro degli  affari
    esteri e nel 1809 cancelliere.
    N.  42.  Aleksàndr Nikolàevic' Golicyn (1773-1844), principe. Nel 1805
    divenne procuratore generale del Santo Sinodo;  dal 1816  al  1824  fu
    ministro  dell'istruzione pubblica.  Confronta anche "Epilogo",  Parte
    prima, nota 5.
    N. 43. Si tratta dell'incoronazione di Napoleone come re d'Italia, che
    ebbe luogo a Milano il 26 maggio 1805.
    N. 47. Luigi Sedicesimo (1754-1793), nipote di Luigi Quindicesimo. Nel
    1770 sposò Maria Antonietta d'Austria (1755-1793), figlia di Francesco
    Primo e Maria Teresa.  Nel 1774 divenne  re  di  Francia.  Debole  nei
    confronti  della  moglie,  invisa ai Francesi,  regnò in un momento di
    gravi difficoltà economiche e sociali per il  paese;  gli  sforzi  dei
    suoi  ministri Turgot e Necker risultarono in gran parte insufficienti
    e inadeguati.  La convocazione degli Stati generali nel 1789 si rivelò
    una  mossa  politicamente  sbagliata,  poiché la situazione gli sfuggì
    completamente di mano. Avendo infine tentato di fuggire all'estero per
    mettersi  alla   testa   delle   forze   antirivoluzionarie,   risultò
    definitivamente   squalificato  agli  occhi  dei  rivoluzionari,   che
    esigettero la condanna a morte sia di Luigi Sedicesimo  che  di  Maria
    Antonietta.   Sulla   ghigliottina  perì  pure  la  sorella  di  Luigi
    Sedicesimo, Elisabetta (1764-1794).
    N.  54.  "Il contratto sociale",  celebre  opera  filosofica  di  Jean
    Jacques Rousseau (1712-1778).  In questo scritto il celebre filosofo e
    pedagogista,  uno dei precursori della rivoluzione  francese  e  della
    democrazia   moderna,   pone  a  fondamento  del  corpo  politico  una
    convenzione liberamente stipulata tra tutti i  suoi  membri,  con  cui
    ciascuno  si obbliga verso tutti gli altri,  donde deriva il reciproco
    dovere  di  tutti  verso  ciascuno.   Tra   le   forme   di   governo,
    l'aristocrazia è giudicata la migliore.
    N.  55.  Brumaio è il secondo mese dell'anno repubblicano francese. E'
    famoso il  18  brumaio  dell'anno  ottavo  (9  novembre  1799)  quando
    Bonaparte, reduce dall'Egitto, abbatté il Direttorio.
    N.  58.  Comune  in  provincia  di  Verona,  in  cui Napoleone riportò
    un'importante vittoria sugli Austriaci (15-17 novembre 1796).
    N.  59.  La  città  di  Giaffa,  porto  mediterraneo  che  attualmente
    costituisce  un  sobborgo di Tel Aviv,  venne conquistata da Napoleone
    nel marzo  1799  dopo  un  lungo  assedio.  L'esultanza  delle  truppe
    vittoriose  fu  di  breve durata,  poiché scoppiò ben presto una grave
    peste.  L'episodio della visita di Napoleone agli appestati di  Giaffa
    venne  immortalato in un celebre dipinto del 1804 di Antoine Jean Gros
    (1771-1835),  che  nel  1799  dipinse  pure  un  "Bonaparte  al  ponte
    d'Arcole".
    N.  64.  I  "Commentari  De bello gallico" e "De bello civili" di Caio
    Giulio Cesare (101-44  avanti  Cristo)  sono  un  modello  di  memorie
    militari.
    N. 70. Così viene familiarmente chiamato l'orso in Russia.
    N.  71.  Il reggimento Semënovskii era un reggimento di fanteria della
    Guardia, costituito da Pietro il Grande (1672-1725) nel 1687.
    N. 72. Moneta d'oro del valore di circa dieci rubli.
    N. 73. Piccola cittadina della Volinia.
    N. 76. Canale di Pietroburgo.
    N. 79. In italiano nel testo.
    N.  80.  Celebre cantante italiana,  che si esibì a Mosca  come  prima
    donna di una compagnia tedesca nell'inverno 1805-1806.
    N.  81. Stéphanie Félicité du Crest de Saint-Aubin, contessa di Genlis
    (1746-1830), scrittrice francese. Sposando il conte di Genlis, divenne
    nipote di Madame de Montesson,  segretamente sposata nel 1773 da Luigi
    Filippo  d'Orléans  (1725-1785),  che  l'introdusse  al  Palais Royal.
    Nominata dama d'onore della duchessa di Chartres,  nuora del  duca  di
    Orléans,  divenne  educatrice dei suoi figli (tra i quali il futuro re
    Luigi Filippo),  distinguendosi per i suoi originali e moderni  metodi
    pedagogici.  Dapprima favorevole alla rivoluzione,  fu poi costretta a
    lasciare la Francia. Soggiornò in Inghilterra, Svizzera,  Germania,  e
    solo  nel  1802  poté  rientrare  in patria.  Napoleone le assegnò una
    pensione e la nominò ispettrice delle scuole  elementari.  Scrisse  un
    centinaio di opere,  particolarmente romanzi pedagogici. Il suo nome è
    legato soprattutto  alle  "Memorie  inedite  sul  secolo  decimottavo"
    (1825), che suscitarono un grosso scandalo.
    N. 82. E' il celebre club o circolo inglese di Mosca fondato nel 1770,
    chiuso da Paolo Primo e riaperto da Alessandro Primo nel 1802;  la sua
    massima fioritura ebbe luogo  nel  1820-1850.  L'edificio  in  cui  si
    riunivano  i  più  alti funzionari e il gran mondo moscovita e che era
    celebre per la buona cucina (curata  dal  cuoco  Feoktisti)  e  per  i
    tavoli  del  gioco  delle  carte  è  stato  ora  adibito a museo della
    rivoluzione.
    N. 84.  Per attutire il rumore delle carrozze in prossimità della casa
    in cui si trovava il malato.
    N.  90.  William  Pitt  detto il secondo Pitt (1759-1806),  statista e
    oratore,  primo ministro a 24 anni,  introdusse efficaci riforme nella
    vita  politica  della  Gran  Bretagna  e si fece animatore di tutte le
    coalizioni contro la Francia.
    N. 92.  Boulogne-sur-mer,  città francese (Pas-de-Calais),  strategico
    porto sulla Manica. Già nel 43 dopo Cristo servì di base ai Romani per
    l'invasione della Britannia.  Dal 1803 al 1805 Napoleone vi stanziò un
    grosso accampamento militare e armò una forte flotta in  vista  di  un
    grande sbarco nell'isola.
    N.  93. Pierre Charles Jean-Baptiste Sylvestre Villeneuve (1763-1806),
    ammiraglio francese.  Scampato al disastro di Abukir (1798),  nel 1804
    venne incaricato da Napoleone di attirare Nelson (1758-1805),  insieme
    alla flotta inglese,  al largo delle Antille e di ritornare quindi con
    forze  franco-spagnole  nella Manica,  in modo da operare lo sbarco in
    Inghilterra. Il piano fallì perché Villeneuve dapprima dovette cercare
    rifugio nel porto di Cadice e infine fu duramente sconfitto da  Nelson
    a Trafalgar.
    N.  95.  E'  il  manifesto  promulgato  da  Alessandro  Primo il primo
    settembre 1805.  In realtà già dal 10 agosto l'esercito russo  si  era
    mosso  al  comando  di  Kutuzòv  da  Pietroburgo  per  unirsi a quello
    austriaco.
    N. 99.  Aleksàndr Vasilevic' Suvorov (o Suvarov) (1729-1800),  celebre
    maresciallo   russo,   si  segnalò  nella  Guerra  dei  Sette  anni  e
    soprattutto nelle guerre contro i Turchi e represse implacabilmente le
    insurrezioni della Bessarabia e della Polonia.  Inviato in Italia  nel
    1799,  vinse  i Francesi a Cassano d'Adda,  alla Trebbia e a Novi e li
    cacciò dalla valle del Po.  Mandato poi in Germania dovette  ritirarsi
    davanti alle vittoriose truppe francesi.
    N.  101.  Romanza  molto nota nella Russia di quel tempo,  musicata da
    Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791).
    N.  102.  I versi recitati da Nikolàj sono di  Dmitrij  Aleksàndrovic'
    Kavelin (1778-1851),  scrittore,  massone, seguace di M. L. Magnitzkij
    (1778-1855).
    N. 103. Danza popolare, caratterizzata da un rapido e forte battere di
    tacchi.
    N. 106. Erano le persone incaricate della preparazione dei funerali.
    N. 123. Paolo Primo (1754-1801),  figlio di Pietro Terzo (1728-1762) e
    di Caterina Seconda (1729-1796).  Sovrano autocratico e crudele, avviò
    una  politica  filonapoleonica  e  antibritannica.  Fu  ucciso  in  un
    complotto organizzato da Panin (1770-1837) e von Pahlen (1745-1826).
    N.  124.  La  battuta  del  vecchio  principe  s'ispira a "Julie ou la
    Nouvelle Héloïse",  il celebre romanzo pubblicato  nel  1761  da  Jean
    Jacques Rousseau (su cui confronta qui sopra, nota 54).
    N.  125.  E' il titolo di un'opera di Karl Eckhartshausen (1752-1803),
    scrittore mistico tedesco.  La  sua  opera  principale,  "Gefühle  und
    Tempel der Natur",  godette in Russia di grande notorietà, soprattutto
    dopo la citazione che ne fece  N.  V.  Gogol'  (1809-1852)  in  "Anime
    morte".
    N. 132. Jan Ladislav Dussek (1760-1812), compositore boemo, fece parte
    di una famiglia di musicisti.  Dal 1790 al 1800 soggiornò a Londra; fu
    poi a Parigi, a servizio di Talleyrand. Tipico artista di transizione,
    Dussek può  essere  considerato  un  classico  quanto  alle  strutture
    formali;  offrì  tuttavia qualche spunto anche a Beethoven,  Schuman e
    Liszt. Nel 1796 redasse pure un metodo per pianoforte.
    N.  140.  Ivan  Ivànovic''  Michelson  (1740-1847),   generale  russo,
    comandante di corpo d'armata durante la terza coalizione antifrancese.
    N.  141.  Aleksàndr  Ivànovic''  Osterman-Tolstòi (1770-1857),  conte,
    generale russo: combatté a Borodinò e prese parte  alle  campagne  del
    1805-1809 e del 1813.
    N. 142. La Pomerania è la regione costiera del Baltico compresa tra il
    Meclemburg ad ovest, la Prussia vera e propria ad est e il Brandeburgo
    a sud.  La parte ad ovest dell'Oder,  con Stettino,  con i trattati di
    Westfalia (1648),  venne  assegnata  alla  Svezia.  Dopo  la  disfatta
    svedese  del 1700-1721 la Prussia incamerò tutto il territorio fino al
    Peene.  L'ultimo tratto della Pomerania svedese,  invaso da  Napoleone
    nel  1812,  venne  ceduto  nel  1814  alla  Danimarca  in cambio della
    Norvegia.  Dopo la Seconda guerra mondiale,  la Pomerania orientale  è
    posta  sotto  l'amministrazione  polacca,  e  la popolazione tedesca è
    stata espulsa.
    N. 144. Rjurik (morto verso 1'879),  principe varengo-russo,  capo dei
    Variaghi,  identificabile forse con il normanno Rorik,  rifugiatosi in
    Danimarca dopo aver devastato la regione parigina e le coste  inglesi.
    Stabilitosi  a  Novgorod verso l'860 vi fondò una signoria considerata
    tradizionalmente come  l'embrione  dello  stato  russo.  Gli  successe
    Helgi, detto anche Oleg il Saggio (morto nel 912).
    N.  147. Grigorij Aleksàndrovic' Potëmkin (1739-1791), generale e uomo
    politico russo.  Dopo aver favorito  l'ascesa  al  trono  di  Caterina
    Seconda (1729-1796),  ne divenne l'amante. Dal 1774 al 1776 ricoprì la
    carica di primo ministro.  Sottrasse  la  Crimea  ai  Turchi  e  fondò
    Sebastopoli.
    N.  148.  Jean-Victor  Moreau  (1763-1813),  generale  francese,  capo
    dell'armata del Reno  nel  1795,  partecipò  nel  1796  alla  campagna
    d'Italia.  I  suoi  trionfi  ingelosirono  il  Bonaparte  che  lo fece
    arrestare,  accusandolo di tramare con i realisti.  Dopo due  anni  di
    carcere  andò  in  Spagna e negli Stati Uniti,  dove lo raggiunsero le
    proposte  di  Alessandro  Primo,  e  tornò  in  Europa.  Nel  1813  fu
    consigliere  degli  alleati  contro  la  Francia  e  contribuì al loro
    successo. Fu ferito mortalmente durante la battaglia di Dresda.
    N. 149. Federico Secondo il Grande (1712-1786) re di Prussia,  insigne
    condottiero,  combatté  nella  guerra  di  successione  austriaca e in
    quella dei Sette anni.
    N. 150. Consiglio aulico di guerra della salsiccia e dell'acquavite.
    N.  151.  Peter von Pahlen (1745-1826),  uomo politico e dignitario di
    Corte;  fu  tra  i  capi  della  rivolta di palazzo che portò al trono
    Alessandro Primo nel 1801.
    N.  152.  Grigorii Orlòv (1734-1783),  celebre  favorito  di  Caterina
    Seconda, che poi gli preferì Potëmkin.
    N. 156. Porto dell'Ucraina conquistato dai Russi nel 1737, ripreso dai
    Turchi e di nuovo dai Russi nel 1788.
    N.  158.  Laurence Sterne (1713-1768),  scrittore inglese,  autore del
    famoso romanzo "Viaggio sentimentale".
    N. 162. Nome patronimico di Kutuzòv.