GUERRA E PACE di Lev Nicoàevic Tolstòj.


    LIBRO PRIMO.

    PARTE SECONDA.


    CAPITOLO 1.

    Nell'ottobre 1805 l'esercito russo occupava  i  villaggi  e  le  città
    dell'arciducato  d'Austria  e  nuovi  reggimenti  che  continuavano ad
    arrivare dalla Russia opprimevano  con  i  loro  acquartieramenti  gli
    abitanti  e  si accampavano attorno alla fortezza di Braunau (1),  che
    era il quartier generale del comandante in capo Kutuzòv.
    L'11 ottobre 1805 uno dei reggimenti  di  fanteria,  appena  giunto  a
    Braunau, si era accampato a mezzo miglio dalla città, in attesa che il
    comandante  lo  passasse  in  rivista.  Nonostante che la località non
    fosse russa (frutteti,  recinti di pietra,  tetti di tegole,  montagne
    che si profilavano in lontananza), nonostante che la popolazione fosse
    straniera  e  guardasse  con curiosità i soldati,  il reggimento aveva
    tutto l'aspetto di un qualsiasi reggimento russo che si  preparasse  a
    una rivista in una qualsiasi località dell'interno della Russia.
    L'ordine  per  l'ispezione  del  comandante  in capo era giunto a sera
    durante l'ultima  tappa.  Benché  il  testo  della  comunicazione  non
    apparisse  molto  chiaro al comandante del reggimento e fosse sorto il
    problema se bisognasse presentarsi o no in tenuta di marcia, era stato
    deciso  dal  Consiglio  dei  capi  di  battaglione  di  presentare  il
    reggimento in uniforme di parata, basandosi sul principio che è sempre
    meglio,  in  fatto  di ossequio,  eccedere piuttosto che mancare.  E i
    soldati,  dopo una marcia di trenta  miglia,  dovettero,  senza  poter
    chiudere  occhio,  passare tutta la notte a rammendare e a ripulire le
    divise.  All'alba il reggimento,  invece  di  una  folla  allungata  e
    disordinata  quale era stata il giorno avanti,  si presentava come una
    massa ordinata di duemila uomini,  ciascuno  dei  quali  conosceva  il
    proprio  posto  e  il  proprio ufficio e su cui ogni cinghietta e ogni
    bottone erano in ordine  e  brillavano,  accuratamente  lucidati.  Non
    soltanto l'apparenza era perfetta, ma se al generalissimo fosse venuto
    in  mente di guardare sotto ogni giubba,  avrebbe visto una camicia di
    bucato e se avesse voluto esaminare gli zaini vi avrebbe trovato tutti
    gli oggetti prescritti dal regolamento, "filo e sapone", come dicono i
    soldati.  Vi era una cosa,  tuttavia,  per cui nessun  soldato  poteva
    sentirsi  tranquillo: la calzatura.  Più della metà degli uomini aveva
    gli stivali  rotti,  ma  tale  manchevolezza  non  era  imputabile  al
    comandante  del  reggimento  poiché,  nonostante  le  sue  ripetute  e
    insistenti richieste,  l'amministrazione militare  austriaca  non  gli
    aveva  fornito  il  materiale,  e il reggimento aveva già marciato per
    mille miglia.
    Il comandante del reggimento era  un  generale  attempato,  sanguigno,
    dalle  sopracciglia  e le fedine brizzolate,  più largo dal petto alla
    schiena che non da una spalla all'altra. Indossava una divisa nuova di
    zecca,  dalle pieghe  stirate  e  dalle  grosse  spalline  dorate  che
    facevano  apparire più alte le spalle massicce.  Aveva l'aspetto di un
    uomo che stava per compiere felicemente uno degli atti più  importanti
    della sua vita. Camminava davanti alle truppe schierate, sussultando a
    ogni  passo  e con la schiena un po' curva.  Si capiva che ammirava il
    suo reggimento,  che ne era orgoglioso e che ad  esso  aveva  dedicato
    tutte le sue forze spirituali;  ma,  nonostante ciò,  quel suo modo di
    camminare esitante e  indeciso  rivelava  che,  oltre  agli  interessi
    militari,  occupavano  una  non  piccola parte del suo animo anche gli
    interessi mondani e quelli per il gentil sesso.
    - Dunque,  mio caro Michailo Mitric',   -  disse a  un  comandante  di
    battaglione  che  avanzava  sorridendo e che aveva come il generale un
    aspetto felice  -  ci è toccata una nottata ben faticosa... Ma mi pare
    che quanto al reggimento non ci  sia  niente  da  dire...  non  è  dei
    peggiori, vi pare?
    Il  comandante di battaglione capì l'allegra ironia di quelle parole e
    si mise a ridere.
    - Non sfigurerebbe neppure sulla piazza d'armi di Tzarizyn...
    - Cosa?  -  chiese il generale.
    In quel momento,  sulla strada che proveniva dalla città e sulla quale
    erano stati disposti soldati in vedetta,  comparvero due cavalieri: un
    aiutante di campo seguito da un cosacco.
    L'aiutante di campo  era  stato  mandato  dal  quartier  generale  per
    precisare  al comandante del reggimento ciò che non era ben chiaro nel
    comunicato del  giorno  prima  e  precisamente  che  il  generalissimo
    desiderava vedere il reggimento come se fosse in marcia: gli uomini in
    cappotto, le armi nei foderi e senza preparazione alcuna.
    Il giorno precedente,  un membro del Consiglio di guerra austriaco era
    giunto da  Vienna  presso  Kutuzòv  con  la  proposta  e  l'ordine  di
    ricongiungersi  al  più presto con l'esercito dell'arciduca Ferdinando
    (2)  e  di  Mack  (3),   ma  Kutuzòv,   non   ritenendo   utile   quel
    congiungimento,  tra  le  altre dimostrazioni per sostenere la propria
    opinione,  aveva intenzione di far vedere  al  generale  austriaco  le
    tristi  condizioni  in  cui  gli giungevano le truppe dalla Russia.  A
    questo scopo voleva muovere  incontro  al  reggimento  e,  quanto  più
    deplorevoli  ne  fossero  state  le condizioni,  tanto più la cosa gli
    avrebbe fatto piacere.  L'aiutante  di  campo,  pur  ignorando  questo
    particolare,  comunicò  al  comandante  del  reggimento  l'ordine  del
    generalissimo: i soldati dovevano essere in tenuta di  marcia  perché,
    in caso contrario, il generalissimo sarebbe stato malcontento.
    A quell'ordine,  il comandante del reggimento abbassò il capo, alzò in
    silenzio le spalle e con gesto irritato allargò le braccia.
    - Abbiamo combinato un bell'affare!  -  esclamò.  -  Ve l'avevo detto,
    Michailo Mitric',  che siamo in marcia e quindi ci vuole l'uniforme da
    campagna    -    aggiunse  in  tono  di  rimprovero  al  comandante di
    battaglione.  -  Ah, mio Dio!  -  aggiunse, e si fece avanti con passo
    deciso.  -  Signori comandanti di battaglione!   -  gridò con voce usa
    al  comando.    -   Sergenti maggiori!   -  e poi:-  Verrà presto?   -
    chiese,  volgendosi all'aiutante di campo con una certa espressione di
    cortesia rispettosa, che evidentemente si riferiva alla persona di cui
    parlava.
    - Tra un'ora, credo.
    - Faremo in tempo a cambiare tenuta?
    - Non so, generale...
    Il  comandante  del  reggimento,   avvicinatosi  alle  truppe,   diede
    personalmente l'ordine di cambiarsi e  di  indossare  il  cappotto.  I
    comandanti  di  compagnia  si  misero  a correre tra i loro uomini;  i
    sergenti maggiori  si  agitarono  (i  cappotti  non  erano  in  ordine
    perfetto)  e  tutti  i  reparti sino allora immobili e silenziosi,  si
    scomposero,  si mossero,  gridarono.  Da  tutte  le  parti  i  soldati
    andavano  e  venivano di corsa,  sollevavano le spalle togliendosi gli
    zaini,  ne tiravano fuori i cappotti e,  alzando  le  braccia,  se  li
    infilavano.
    Mezz'ora  dopo,  i reparti erano di nuovo nell'ordine di prima,  ma da
    neri erano diventati grigi.  Il comandante del  reggimento  ricomparve
    con la sua andatura saltellante e guardò di lontano i suoi uomini.
    - Che c'è ancora?  Che cosa significa questo?   -  gridò ad un tratto,
    fermandosi.  -  Dov'è il capitano della terza compagnia?
    - Comandante della terza compagnia,  dal  generale!  Comandante  della
    terza compagnia,  dal generale!  -  si udì gridare tra le file, mentre
    un aiutante di campo corse a cercare l'ufficiale che non rispondeva.
    Quando  finalmente  le  voci  zelanti  che  gridavano  in  mezzo  alla
    confusione  giunsero all'interessato,  l'ufficiale spuntò da dietro la
    propria compagnia e,  sebbene  fosse  un  uomo  già  attempato  e  non
    abituato  a  correre,  saltellando  sulla punta dei piedi si precipitò
    verso il generale. Il suo viso esprimeva l'inquietudine di uno scolaro
    al quale si ordina di ripetere una  lezione  non  studiata.  Sul  viso
    rosso  (che rivelava mancanza di sobrietà) erano apparse delle chiazze
    e le labbra tremavano. Il comandante del reggimento lo squadrava dalla
    testa ai piedi, mentre egli,  avvicinandosi,  rallentava a mano a mano
    il passo.
    - Un bel giorno farete indossare ai vostri soldati il "sarafàn" (4)...
    Che significa questo?  -  gridò, sporgendo le mascelle e indicando tra
    le file della terza compagnia, un soldato in cappotto di panno grezzo,
    diverso  da  tutti  gli  altri.   -  E voi,  dove vi eravate nascosto?
    Stiamo aspettando il comandante in capo,  e  voi  vi  allontanate  dal
    vostro posto?  Vi insegnerò io a vestire gli uomini con la casacchina,
    in attesa di una rivista!
    Il capitano,  senza distogliere gli occhi  dal  viso  del  comandante,
    serrava  sempre più forte le due dita alla visiera del berretto,  come
    se da quella pressione dipendesse la sua salvezza.
    - Be', perché tacete? E chi è quello laggiù, vestito da ungherese?   -
    disse in tono severamente scherzoso il comandante.
    - Eccellenza...
    -  Eccellenza che cosa?  Eccellenza!  Eccellenza,  Eccellenza che cosa
    nessuno lo sa.
    - Eccellenza, quello è Dòlochov,  l'ufficiale che è stato degradato  -
    rispose a bassa voce il capitano.
    - Degradato a feldmaresciallo, forse, o a soldato? E, se è degradato a
    soldato, deve vestire come tutti gli altri, in uniforme.
    -  Eccellenza,  voi stesso lo avete autorizzato a vestirsi così per le
    marce.
    - Autorizzato! Autorizzato! Già, con voi giovanotti,  è sempre così  -
    disse il comandante del reggimento,  calmandosi un po'.-  Autorizzato!
    Vi si dice una cosa, e voi...  -  e tacque un momento.   -  Vi si dice
    una cosa, e voi ecco... Insomma, vestite i vostri soldati come si deve
    -  concluse,  irritandosi di nuovo.  E,  voltatosi verso l'aiutante di
    campo,  continuò con la sua andatura saltellante a passare in  rivista
    il reggimento. Si vedeva che era soddisfatto della sua sfuriata e che,
    camminando davanti ai soldati, cercava un pretesto per un'altra lavata
    di  testa.  Dopo  aver  rimproverato  un  ufficiale  per  i  gradi non
    abbastanza lucidi e un altro perché non  perfettamente  allineato,  si
    avvicinò alla terza compagnia.
    - Così si sta in fila?  Dov'è il tuo piede destro? Dov'è il tuo piede?
    -  gridò con un'espressione di sofferenza nella  voce,  già  a  cinque
    uomini di distanza da Dòlochov, che indossava un cappotto azzurro.
    Dòlochov  lentamente  drizzò  la  gamba  piegata  e  fissò il viso del
    generale con i suoi occhi chiari e sfrontati.
    - Perché un cappotto azzurro? Via!  Sergente maggiore,  fate rivestire
    questa can...  -  Ma non finì la frase.
    - Generale,  io ho il dovere di obbedire ai vostri ordini, ma non sono
    obbligato a sopportare...  -  interruppe vivamente Dòlochov.
    - Nei ranghi non si parla! Non si parla, non si parla!
    - Non sono obbligato a sopportare gli insulti  -  concluse a voce alta
    e chiara Dòlochov.
    Gli occhi del generale e del  soldato  si  incrociarono.  Il  generale
    tacque, tirandosi nervosamente la sciarpa troppo tesa.
    -  Vogliate indossare un altro cappotto,  per favore  -  disse dopo un
    momento, e si allontanò.


    CAPITOLO 2.

    - Arriva!   -  gridò  in  quel  momento  un  soldato  di  vedetta.  Il
    comandante del reggimento arrossì,  corse al suo cavallo,  afferrò con
    le mani tremanti la staffa, chinò il corpo, balzò in sella, sguainò la
    spada e, con il viso raggiante e risoluto, torse la bocca di lato e si
    precipitò a dare il suo comando. Il reggimento ondeggiò per un attimo,
    poi rimase immobile.
    - At-ten-ti!   -  gridò il generale con una voce che scuoteva l'anima,
    gioiosa per lui stesso,  severa per il reggimento, rispettosa verso il
    superiore che si avvicinava.
    Per l'ampia strada polverosa,  fiancheggiata da due  file  di  alberi,
    avanzava   al   piccolo   trotto  un'alta  carrozza  viennese  dipinta
    d'azzurro,   dalle  ruote  leggermente  scricchiolanti.   Dietro  alla
    carrozza  cavalcavano  gli  ufficiali  del  séguito  e un drappello di
    croati.  Accanto a Kutuzòv stava seduto un generale austriaco,  la cui
    giubba  bianca  spiccava stranamente tra le divise nere dei russi.  La
    carrozza si fermò a  breve  distanza  dal  reggimento.  Kutuzòv  e  il
    generale  austriaco  stavano  discorrendo  sottovoce e Kutuzòv sorrise
    appena quando, con passo pesante,  scese dal predellino come se non ci
    fossero  là  davanti quei duemila uomini che,  trattenendo il respiro,
    guardavano fissi lui e il loro comandante.
    Risonò un ordine,  di nuovo il reggimento si  scosse,  presentando  le
    armi.  In  un silenzio di tomba si levò la debole voce del generale in
    capo. Il reggimento unanime urlò: "Evviva vostra eccellenza!".  E,  da
    capo,  tutto fu silenzio. Dapprima Kutuzòv restò ritto e immobile allo
    stesso posto, mentre il reggimento gli sfilava davanti;  poi,  insieme
    con  il  generale  in  divisa  bianca,  accompagnato  dal suo séguito,
    cominciò a percorrere le file.
    Dal modo con cui aveva salutato il generale in capo, bevendolo con gli
    occhi, dal modo con cui,  moderando il passo saltellante si chinava in
    avanti  seguendo il superiore,  scattando a ogni parola e a ogni gesto
    di lui,  era evidente che il comandante del  reggimento  adempiva  con
    maggior  piacere  i  suoi  doveri di inferiore che quelli di capo.  Il
    reggimento,  grazie  alla  sua  severità  e  alle  sue  cure,  era  in
    condizioni  eccellenti  a  confronto  con quelle degli altri giunti da
    poco a Braunau.  Tra ritardatari  e  malati,  mancavano  soltanto  217
    uomini e tutto era in ordine perfetto, eccetto le calzature.
    Kutuzòv passava tra le file,  fermandosi qua e là,  rivolgendo qualche
    parola affettuosa agli  ufficiali  che  aveva  conosciuto  durante  la
    campagna  di  Turchia  e  talvolta  anche  ai  soldati.  Guardando gli
    stivali,  più volte crollò tristemente il capo e li indicò al generale
    austriaco,  come  per dire che,  pur non volendo rimproverare nessuno,
    non poteva non notare  che  erano  assai  malandati.  Ogni  volta,  il
    comandante  del  reggimento correva un po' avanti,  temendo di perdere
    sia pure una sola parola del  generalissimo  che  riguardasse  il  suo
    reggimento.  Dietro  Kutuzòv,  a  una distanza così breve che ogni sua
    parola,  anche se pronunziata a  bassa  voce,  potesse  essere  udita,
    camminavano  una  ventina di ufficiali del séguito.  Essi discorrevano
    tra di loro e di tanto in tanto ridevano.  Seguiva assai da vicino  il
    generale  un  bell'aiutante di campo: era il principe Bolkonskij,  che
    aveva al fianco il collega Nesvitzkij,  ufficiale di  stato  maggiore,
    alto,  molto  grasso,  dal  bel  viso buono e sorridente e dagli occhi
    dolci.  Nesvitzkij tratteneva a stento il riso,  eccitato da un  bruno
    ufficiale  degli ussari che gli camminava a fianco.  L'ufficiale degli
    ussari,  senza sorridere e senza mai mutare l'espressione degli  occhi
    immobili,  guardava  con  aria  seria  la  schiena  del comandante del
    reggimento e imitava ogni sua mossa: ogni volta che quello  sussultava
    e  faceva  un inchino,  l'ufficiale degli ussari faceva esattamente lo
    stesso.   Nesvitzkij  rideva  e  dava  gomitate  agli   altri   perché
    guardassero quel burlone.
    Kutuzòv camminava lentamente e pigramente davanti a quelle migliaia di
    occhi  che quasi schizzavano dalle orbite per seguirlo.  Arrivato alla
    terza compagnia,  tutto a un tratto si fermò.  Il séguito,  non avendo
    preveduto quella sosta, involontariamente gli si trovò quasi addosso.
    - Ah, Timochin!  -  esclamò il generalissimo, riconoscendo il capitano
    dal  naso  rosso  che  aveva  avuto una lavata di capo per il cappotto
    azzurro.
    Pareva impossibile riuscire ad irrigidirsi più di quanto  aveva  fatto
    Timochin,  mentre  il  suo  comandante  lo rimproverava.  Ma quando il
    generalissimo gli rivolse la parola,  il capitano si  irrigidì  a  tal
    punto  da  far  pensare  che  non  avrebbe potuto resistere oltre,  se
    Kutuzòv l'avesse guardato ancora e perciò Kutuzòv,  che  evidentemente
    aveva capito la sua situazione e desiderava ogni bene al capitano,  si
    affrettò a voltar la testa dall'altra parte,  ma sul suo viso  grasso,
    sfregiato da una cicatrice, passò il lampo di un sorriso.
    -  Un  altro  compagno  di  Ismaìl  (5)    -   disse.   -  Un valoroso
    ufficiale! Sei contento di lui?  -  chiese,  rivolto al comandante del
    reggimento.
    E questi, imitato come da uno specchio a lui invisibile dall'ufficiale
    degli ussari, ebbe un sussulto, avanzò e rispose:
    - Molto contento, eccellenza!
    -  Nessuno  di  noi  è  esente da qualche debolezza  -  disse Kutuzòv,
    sorridendo e allontanandosi.   -   Quel  capitano  era  un  devoto  di
    Bacco...
    Il comandante del reggimento si turbò,  come se fosse lui colpevole, e
    non rispose. In quel momento l'ufficiale degli ussari notò il riso del
    capitano dal naso rosso e la pancia fortemente ritirata indietro e  lo
    imitò  così  bene  che  Nesvitzkij  non  poté  trattenersi dal ridere.
    Kutuzòv si voltò.  Ma era evidente che l'ussaro poteva  atteggiare  il
    proprio  viso  come  voleva;  nel  momento  in cui Kutuzòv si voltava,
    l'ufficiale riuscì a fare una smorfia e  ad  assumere,  immediatamente
    dopo, un'espressione seria, rispettosa e innocente. La terza compagnia
    era l'ultima e Kutuzòv si era fatto pensieroso, cercando evidentemente
    di richiamarsi qualcosa alla memoria. Il principe Andréj si staccò dal
    séguito e gli disse sottovoce, in francese:
    - Mi avete ordinato di ricordarvi il degradato Dòlochov,  che si trova
    in questo reggimento.
    - Dov'è Dòlochov?  -  chiese Kutuzòv.
    Dòlochov, che aveva già indossato il cappotto grigio dei soldati,  non
    aspettò  di  essere chiamato.  La sua snella figura di soldato biondo,
    dagli occhi azzurri, uscì dalle file,  avanzò verso il generalissimo e
    presentò le armi.
    -  Un  reclamo?    -    domandò  Kutuzòv,  corrugando  leggermente  le
    sopracciglia.
    - Questo è Dòlochov  -  disse il principe Andréj.
    - Ah!  -  esclamò Kutuzòv.  -  Spero che la lezione ti servirà. Fa' il
    tuo dovere. L'imperatore è magnanimo.  E io non mi dimenticherò di te,
    se ti comporterai bene.
    I  chiari  occhi azzurri guardavano ora il generalissimo con lo stesso
    ardire con cui prima avevano guardato il comandante del reggimento,  e
    la loro espressione parve abolire quel velo convenzionale che separava
    il comandante supremo dal soldato semplice...
    -  Io domando soltanto una cosa,  eccellenza  -  disse con la sua voce
    sonora, ferma e lenta.  -  Domando soltanto che mi sia dato il modo di
    cancellare  la  mia  colpa  e   di   dimostrare   la   mia   devozione
    all'imperatore e alla Russia.
    Kutuzòv si voltò. Nei suoi occhi lampeggiò lo stesso sorriso di quando
    si  era  allontanato  dal  capitano  Timochin.  Si voltò e aggrottò la
    fronte,  come se volesse dire che quanto gli diceva Dòlochov e  quanto
    gli avesse potuto ancora dire egli lo sapeva da un gran pezzo, gli era
    venuto  a noia e non era affatto ciò che occorreva.  Volse le spalle e
    si avviò verso la carrozza.
    Il reggimento si dispose per compagnie e si diresse ai  quartieri  che
    gli erano stati assegnati, a breve distanza da Braunau dove sperava di
    calzarsi, vestirsi e riposarsi dopo le faticose marce.
    -  Non  mi serbate rancore,  vero,  Prochòr Ignàtevic'?   -  chiese il
    comandante  del  reggimento,   dopo  essersi  avvicinato  al  capitano
    Timochin  che  camminava  in  testa alla terza compagnia.  Il viso del
    comandante del  reggimento  esprimeva,  dopo  la  rivista  felicemente
    conclusa,  una  incontenibile  gioia.    -    E' il servizio...  non è
    possibile altrimenti...  A volte,  di fronte al reggimento,  capita di
    riscaldarsi...  Mi  scuserò  io  per  primo,  voi  mi conoscete...  Ha
    espresso il suo vivo compiacimento!   -  E tese la mano al  comandante
    di compagnia.
    -  Ma  figuratevi,  generale,  come  potrei  osare...    -  rispose il
    capitano, mentre il naso gli si faceva più rosso del consueto, ed egli
    sorrideva mostrando il vuoto lasciato da due denti anteriori  spezzati
    sotto Ismaìl dal calcio di un fucile.
    -   Riferite  al  signor  Dòlochov  di  star  tranquillo  che  non  lo
    dimenticherò.  E,  a proposito,  ditemi una  cosa  che  volevo  sempre
    domandarvi: che cosa fa? Come si comporta?
    -  Quanto  al servizio è molto a posto,  eccellenza,  ma...  quanto al
    carattere...  -  disse Timochin.
    - Ah, com'è il carattere?
    - Va a giorni, eccellenza  -  rispose il capitano.  -  Qualche volta è
    intelligente, ragionevole, buono; qualche volta,  invece,  diventa una
    bestia.  In  Polonia,  se  lo  volete  sapere,  per poco non uccise un
    ebreo...
    - Eh sì,  eh sì...  tuttavia bisogna compatire un  giovane  che  è  in
    disgrazia.  Ha  relazioni  notevoli,  quindi  voi...    -    disse  il
    comandante del reggimento.
    - Obbedirò,  eccellenza  -  rispose Timochin,  facendo capire  con  un
    sorriso di aver compreso il desiderio del suo superiore.
    - Ma sì, ma sì...
    Il  comandante  del  reggimento  cercò tra le file Dòlochov e fermò il
    cavallo.
    - Al primo scontro, le spalline!  -  gli disse.
    Dòlochov lo guardò, non rispose e non mutò l'espressione ironica della
    bocca sorridente.
    - Tutto è andato bene  -   proseguì  il  comandante  del  reggimento.-
    Agli  uomini  un  bicchiere  di acquavite da parte mia  -  aggiunse in
    modo che i soldati sentissero.   -  Grazie a tutti!  Sia lodato Iddio!
    -  E, oltrepassata quella compagnia, passò a un'altra.
    -  Be',  è  davvero  un  brav'uomo,  con lui si presta bene servizio -
    dichiarò Timochin all'ufficiale subalterno che gli camminava a fianco.
    - Un vero re  di  cuori!    -    (Così  era  stato  soprannominato  il
    comandante del reggimento) rispose, ridendo, l'ufficiale subalterno.
    Il  buon  umore  dei  superiori  dopo  la  rivista si era trasmesso ai
    soldati.  Le compagnie  marciavano  allegramente.  Da  ogni  parte  si
    intrecciavano le parole degli uomini.
    - Chi diceva che Kutuzòv è cieco da un occhio?
    - E come no? E' guercio.
    -  No,  mio caro,  ha più occhi di te.  E ha guardato tutto: stivali e
    pezze da piedi...
    - Quando si è fermato e ha guardato i miei... be', ho pensato...
    - E quell'altro,  l'austriaco che era con lui,  sembrava  spalmato  di
    gesso. Bianco come farina ! Immagino come puliranno le divise!
    -   Senti   un  po',   Fedjoscëv,   ha  detto  quando  cominceranno  i
    combattimenti?  Tu gli stavi vicino...  Dicevano tutti che "Bunaparte"
    era qui a Braunau!
    - "Bunaparte" qui a Braunau?  Che inventi,  imbecille? Che cosa non sa
    lui!  Ora è il prussiano  che  si  ribella,  e  l'austriaco  lo  tiene
    sottomesso.  Quando quello si sarà calmato, allora comincerà la guerra
    con Bunaparte. E tu dici che "Bunaparte" è a Braunau?  Si vede proprio
    che sei scemo. Ascolta meglio, un'altra volta!
    -  Ah,  quei diavoli di furieri!  Guarda,  la quinta compagnia sta già
    svoltando nel villaggio;  loro avranno già cotto il rancio,  e noi non
    saremo ancora arrivati!
    - Ehi, tu, diavolo, dammi un po' di galletta...
    -  Ma  tu,  caro,  mi hai dato il tabacco,  ieri?  Be',  fa lo stesso:
    prendi, to'!
    - Se almeno si facesse qui una sosta: se  no,  si  marcia  ancora  per
    cinque chilometri senza mangiare...
    -  Sarebbe una bella cosa,  eh,  se questi Tedeschi ci dessero le loro
    carrozze. Si cammina bene, in carrozza...
    - Ma qui,  mio caro,  la gente è povera.  Prima erano tutti  polacchi,
    sempre gente che sta sotto la Russia, ma adesso sono tutti Tedeschi.
    - Avanti i cantori!  -  gridò il capitano.
    Da diverse file uscirono allora venti uomini e si misero in testa alla
    compagnia.  Il tambur maggiore, capo dei cori, si voltò verso di loro,
    fece un cenno con la mano e  intonò  la  lenta  canzone  militare  che
    comincia:  "Non  è  l'aurora,  non è il sole che si è levato..." e che
    termina con le parole:  "Ah,  quanta  gloria  conquisteremo  con  papà
    Kamenskij  (6)...",  Questa canzone,  composta in Turchia,  veniva ora
    cantata in Austria con una sola variazione: invece di papà  Kamenskij,
    i soldati dicevano: "papà Kutuzòv".
    Staccando  queste ultime parole alla maniera militare e fatto un gesto
    con le mani come se gettasse qualcosa in terra, il tambur maggiore, un
    bel soldato sui quarant'anni,  guardò severamente i cantori e aggrottò
    il viso.  Poi, convinto che tutti gli sguardi fossero fissi su di lui,
    fece il gesto di sollevare cautamente sopra  la  testa,  con  ambo  le
    mani,  un invisibile oggetto prezioso, di tenerlo così qualche secondo
    e poi come scagliandolo risolutamente, attaccò:

    "O tu casa, casa mia!"

    "Casa mia,  tutta nuova..." ripresero venti voci,  e  il  sonatore  di
    castagnette,  nonostante il peso dello zaino,  balzò arditamente fuori
    dalle  file  e,  messosi  a  camminare  all'indietro,  in  testa  alla
    compagnia,  cominciò  ad  agitare  le  spalle,  facendo  il  gesto  di
    minacciare qualcuno con le sue castagnette.  I soldati,  dondolando le
    braccia   al   ritmo   della   musica,   marciavano  a  lunghi  passi,
    istintivamente accordandovisi. Dietro la compagnia si udì un rumore di
    ruote, uno scricchiolio di molle e uno scalpitio di cavalli. Kutuzòv e
    il suo séguito ritornavano in città.  Il comandante in  capo  fece  un
    segno che i soldati continuassero a marciare liberamente e il suo viso
    e   quello   degli  ufficiali  del  séguito  assunsero  un'espressione
    soddisfatta all'udire quei canti e al vedere quel soldato che  ballava
    e  l'andatura allegra e ardita della compagnia.  Nella seconda fila di
    destra,  lungo la quale passava la carrozza,  colpiva  lo  sguardo  un
    soldato  dagli  occhi  azzurri:  era  Dòlochov  che,  con  una  grazia
    particolare e svelta,  camminava a tempo di musica e fissava  in  viso
    gli  ufficiali che gli passavano a lato con l'aria di compiangere chi,
    in quel momento,  non marciava con  la  compagnia.  L'ufficiale  degli
    ussari   che   faceva  parte  del  séguito  di  Kutuzòv  e  che  aveva
    scimmiottato il comandante del reggimento, rimase un po indietro dalla
    carrozza e si avvicinò a Dòlochov.
    Quell'ussaro,  Zerkòv,  un tempo a Pietroburgo aveva  fatto  parte  di
    quella  scapigliata  compagnia  capeggiata  da Dòlochov.  Zerkòv aveva
    incontrato all'estero Dòlochov,  già degradato,  ma non aveva ritenuto
    necessario riconoscerlo.  Ora, dopo le parole di Kutuzòv al degradato,
    si volse a lui con la cordialità di un vecchio amico:
    - Come va, caro?   -  chiese tra il frastuono della musica,  adeguando
    il passo del cavallo a quello della compagnia.
    - Come va?  -  ripeté freddamente Dòlochov.  -  Lo vedi...
    La  vivace  canzone  conferiva  un particolare significato all'allegro
    tono disinvolto con cui Zerkòv parlava e alla decisa  freddezza  della
    risposta di Dòlochov.
    - Be', come te la cavi con i superiori?  -  chiese l'ussaro.
    - Non c'è male.  Sono brave persone.  E tu, come hai fatto a cacciarti
    nello stato maggiore?
    - Addetto a servizi speciali.
    Tacquero entrambi un poco.
    "Con il braccio destro ella ha lanciato il falco",  diceva la canzone,
    suscitando  un  senso  istintivo  di  allegria.  La loro conversazione
    sarebbe stata  probabilmente  diversa  se  non  si  fosse  svolta  con
    l'accompagnamento di quel canto.
    - E' vero che gli Austriaci sono stati sconfitti?  -  chiese Dòlochov.
    - Chi lo sa? Dicono...
    -  Sono  contento  -  rispose Dòlochov,  in tono secco e deciso,  come
    voleva la canzone.
    - Vieni da noi qualche sera, giocheremo a faraone  -  disse Zerkòv.
    - Avete molto denaro adesso?
    - Vieni.
    - Non è possibile!  Ho dato la mia parola: non bevo e non gioco sino a
    quando non avrò riconquistato le spalline.
    - Al primo combattimento...
    - Allora si vedrà.
    E di nuovo tacquero ambedue.
    -  Se  ti  occorre qualche cosa,  vieni da noi: allo stato maggiore ti
    aiuteranno tutti  -  disse Zerkòv.
    Dòlochov sorrise.
    - Non ti preoccupare: se ho bisogno di qualche cosa, non lo domanderò,
    me lo prenderò.
    - Be', dicevo così...
    - Dicevo così anch'io...
    - Addio.
    - Sta' bene.

    "...In alto e lontano
    Al paese natio...".

    Zerkòv spronò il cavallo che per tre  volte  si  impennò  e  scalpitò,
    incerto su quale zampa partire; infine si decise, si slanciò veloce al
    galoppo,  anch'esso sul ritmo della canzone, oltrepassò la compagnia e
    raggiunse la carrozza.


    CAPITOLO 3.

    Al ritorno dalla rivista,  Kutuzòv,  sempre accompagnato dal  generale
    austriaco,  passò  nel  suo  studio  e,  chiamato l'aiutante di campo,
    ordinò che gli si portassero alcuni documenti relativi alle condizioni
    delle truppe e le lettere avute dall'arciduca Ferdinando che comandava
    l'esercito di prima linea.  Il principe Andréj Bolkonskij entrò con le
    carte  richieste.  Dinanzi  alla tavola,  su cui era spiegato un piano
    delle operazioni, sedevano Kutuzòv e il generale, membro del Consiglio
    superiore di guerra austriaco.
    - Ah!   -  disse Kutuzòv,  volgendosi verso Bolkonskij,  come  se  con
    questa  parola  lo  invitasse ad aspettare,  e continuò in francese il
    discorso iniziato.
    - Io dico soltanto questo,  generale  -    proseguì  Kutuzòv  con  una
    gradevole   eleganza   di   espressione  e  di  accenti  che  imponeva
    l'attenzione a ogni parola che egli pronunziava  senza  fretta  e  che
    egli  stesso  ascoltava  con  evidente  piacere.   -  Io dico soltanto
    questo,  generale,  che se la questione dipendesse dal  mio  personale
    desiderio, la volontà di sua maestà l'imperatore Francesco (7) sarebbe
    esaudita da un pezzo. Da molto tempo avrei accontentato l'arciduca; e,
    credetemi  sul  mio  onore,  che  per me personalmente sarebbe un gran
    sollievo cedere il comando supremo dell'armata a generali più  esperti
    e più abili di me dei quali l'Austria è tanto ricca, liberando così me
    stesso   da   questa   pesantissima  responsabilità.   Ma  sovente  le
    circostanze sono più forti di noi, generale...
    E sorrise con un'espressione che voleva dire: "Avete pieno diritto  di
    non  credermi,  e  il  fatto  che  mi crediate o no mi è assolutamente
    indifferente,  ma non avete alcun  motivo  per  dirmelo,  e  questo  è
    l'essenziale".
    Il  generale  austriaco  aveva  l'aria  scontenta,  ma  non  poté  non
    rispondere con lo stesso tono cortese.
    - Al contrario  -  disse egli con voce irritata e seccata,  in  aperta
    contraddizione con le parole lusinghiere che stava per pronunziare;  -
    al  contrario,  la  partecipazione  di  vostra  eccellenza all'impresa
    comune è  molto  apprezzata  da  sua  maestà,  ma  noi  riteniamo  che
    l'attuale   lentezza  privi  il  glorioso  esercito  russo  e  i  suoi
    comandanti di quegli  allori  che  sono  usi  cogliere  sui  campi  di
    battaglia    -    concluse,  con  una frase evidentemente preparata in
    anticipo.
    Kutuzòv fece un inchino, senza modificare il proprio sorriso.
    - E io sono convinto e,  in base all'ultima lettera inviatami  da  sua
    altezza l'arciduca Ferdinando, ritengo che le truppe austriache, sotto
    la  guida  di un capo abilissimo qual è il generale Mack,  abbiano già
    riportato una vittoria decisiva e non abbiano più bisogno  del  nostro
    aiuto.
    Il  generale aggrottò le sopracciglia.  Sebbene non si avessero ancora
    notizie sicure sulla sconfitta  degli  Austriaci,  troppe  circostanze
    ormai confermavano le voci pessimistiche e perciò l'ipotesi di Kutuzòv
    circa una vittoria austriaca aveva tutta l'aria di una canzonatura. Ma
    Kutuzòv  continuava  a  sorridere  serenamente,  sempre  con la stessa
    espressione che affermava  il  suo  diritto  a  una  supposizione  del
    genere.  E infatti, l'ultima lettera di Mack, giuntagli dal campo, gli
    aveva comunicato la notizia delle vittorie riportate  e  gli  riferiva
    circa la vantaggiosa posizione strategica dell'esercito.
    - Dammi quella lettera  -  disse Kutuzòv al principe Andréj.  -  Ecco,
    vogliate ascoltarne voi stesso il contenuto  -  e sempre con lo stesso
    sorriso  canzonatorio  agli  angoli delle labbra,  lesse in tedesco al
    generale austriaco  il  brano  seguente  della  lettera  dell'arciduca
    Ferdinando:

    "Wir haben vollkommen zusammengehaltene Kräfte, nahe an 70000 Mann, um
    den  Feind,  wenn  er  den  Lech passierte,  angreifen und schlagen zu
    können. Wir konnen, da wir Meister von Ulm sind, den Vorteil, auch von
    beiden Ufern der Donau Meister zu  bleiben,  nicht  verlieren;  mithin
    auch  jeden  Augenblick  wenn der Feind den Lech nicht passierte,  die
    Donau ubersetzen, uns auf seine Communikations-Linie werfen, die Donau
    unterhalb repassieren und dem Feinde,  wenn er sich gegen unsere treue
    Allirte  mit  ganzer  Macht  wenden  wollte,  seine  Absicht  alsobald
    vereilten.  Wir  werden  auf  solche  Weise  dem  Zeitpunkt,   wo  die
    Kaiserlich-Russische    Armée    ausgerustet    sein   wird,    muthig
    entgegenharren,  und sodann leicht  gemeinschaftlich  die  Möglichkeit
    finden, dem Feinde das Schicksal zu bereiten, so er verdient".
    [8.   "Noi  disponiamo  di  circa  settantamila  uomini  perfettamente
    concentrati in modo da poter attaccare e  battere  il  nemico  qualora
    attraversasse il Lech.  Poiché occupiamo Ulma,  possiamo conservare il
    vantaggio di dominare anche le due rive del Danubio e quindi,  in caso
    che il nemico non attraversasse il Lech, passare il Danubio e piombare
    in qualsiasi momento sulle sue linee di comunicazione,  riattraversare
    più in basso il Danubio e rendere vano il disegno del nemico se questi
    volesse  volgersi  contro  i  nostri  fedeli  alleati.   In  tal  modo
    aspetteremo  con  animo  fermo  il momento in cui l'esercito imperiale
    russo sia fermo per poter cogliere l'occasione di infliggere al nemico
    la sorte che si merita"].

    Terminata la lettura di  quel  periodo,  Kutuzòv  trasse  un  profondo
    respiro  e  guardò  con  espressione  benevola e attenta il membro del
    Consiglio superiore della guerra.
    - Ma voi,  eccellenza,  conoscete la saggia regola  che  prescrive  di
    supporre sempre il peggio  -  disse il generale austriaco, desiderando
    evidentemente  di  finirla  con  gli  scherzi  e  di  entrare nel vivo
    dell'argomento.
    Senza volerlo, si volse a guardare l'aiutante di campo.
    - Scusate, generale  -  interruppe Kutuzòv, volgendosi anch'egli verso
    il principe Andréj.    -  Senti,  caro,  portami tutti i rapporti  dei
    nostri  informatori  che  ha Kozlovskij (9).  Ecco qui due lettere del
    conte Nostitz (10), ecco la lettera dell'arciduca Ferdinando,  ed ecco
    ancora  queste carte  -  concluse,  porgendogli alcuni fogli.   -  Con
    tutto questo materiale redigerai accuratamente, in lingua francese, un
    memorandum di tutte le notizie che abbiamo  relative  alle  operazioni
    dell'esercito austriaco. E poi lo consegnerai a sua eccellenza.
    Il principe Andréj chinò la testa, facendo intendere con quel gesto di
    aver  capito  sin  dalle  prime  parole non solo ciò che gli era stato
    detto,  ma anche ciò che Kutuzòv avrebbe desiderato dirgli.  Prese  le
    carte,  fece un inchino e,  camminando leggermente sul tappeto,  entrò
    nella sala di ricevimento.
    Quantunque non fosse trascorso molto tempo dacché  aveva  lasciato  la
    Russia,  il  principe  Andréj  era molto mutato.  Nell'espressione del
    viso, nei gesti,  nel modo stesso di camminare,  non si notavano quasi
    più  quel  senso  di  simulazione,  di stanchezza,  di indolenza di un
    tempo; ora egli aveva l'aspetto di un uomo che non ha tempo di pensare
    all'impressione che può produrre sugli altri e che è  occupato  in  un
    lavoro  piacevole  e interessante.  Il suo volto esprimeva una maggior
    soddisfazione di sé e di coloro che gli stavano attorno;  lo sguardo e
    il sorriso erano più sereni e attraenti.
    Kutuzòv,  che egli aveva raggiunto ancora in Polonia, lo aveva accolto
    molto affettuosamente,  gli aveva promesso  di  non  dimenticarlo,  lo
    aveva scelto tra gli altri aiutanti di campo, l'aveva portato con sé a
    Vienna  ove  gli  affidava  gli  incarichi più importanti.  Da Vienna,
    Kutuzòv aveva scritto al suo vecchio compagno  d'armi,  al  padre  del
    principe  Andréj:  "Vostro  figlio  promette di diventare un ufficiale
    eccezionale per la fermezza e la  coscienza  con  cui  compie  i  suoi
    doveri.  Mi  considero  fortunato  di  avere  al  mio fianco un simile
    ufficiale".
    Nello stato maggiore di Kutuzòv,  tra i colleghi  e  nell'esercito  in
    genere, il principe Andréj, proprio come già nella migliore società di
    Pietroburgo,  godeva di due reputazioni assolutamente opposte: alcuni,
    e costituivano la minoranza,  lo consideravano un essere  eccezionale,
    diverso  da  loro  e da tutti gli altri,  si attendevano da lui grandi
    cose, lo ascoltavano,  lo ammiravano,  lo imitavano e con costoro egli
    era  semplice  e  affabile;  gli  altri,  ed erano i più,  non avevano
    simpatia per lui, lo ritenevano pieno di boria, freddo e antipatico. E
    con questi ultimi,  il principe Andréj si comportava in modo da essere
    rispettato e persino temuto.
    Uscito dal gabinetto di lavoro di Kutuzòv,  il principe Andréj, con le
    carte in mano,  si avvicinò a un  suo  collega,  l'aiutante  di  campo
    Kozlovskij, che sedeva presso la finestra con un libro in mano.
    - Ebbene, principe?  -  gli chiese Kozlovskij.
    - Ha ordinato di preparare un rapporto dal quale risulti il motivo per
    cui non avanziamo.
    - E perché?
    Il principe Andréj si strinse nelle spalle.
    - Ci sono notizie da Mack?  -  proseguì Kozlovskij.
    - No.
    - Se fosse vero che è stato sconfitto, la notizia sarebbe arrivata.
    - Penso di sì  -  disse il principe Andréj, dirigendosi verso l'uscio,
    ma  proprio in quel momento entrava,  chiudendosi con violenza l'uscio
    alle spalle, un generale austriaco, in cappotto, con la testa fasciata
    da un fazzoletto nero e l'Ordine di Maria Teresa al collo. Il principe
    Andréj si fermò.
    - Il generalissimo  Kutuzòv?    -    chiese  rapidamente  il  generale
    austriaco con duro accento tedesco,  guardando a destra e a sinistra e
    avanzando, senza fermarsi, verso il gabinetto da lavoro di Kutuzòv.
    - Il generalissimo è occupato  -  disse Kozlovskij,  avvicinandosi  in
    fretta al nuovo venuto e sbarrandogli il passo.-  Chi devo annunziare?
    L'ignoto  generale  guardò dall'alto in basso,  con un certo disprezzo
    Kozlovskij,  che era di bassa statura,  come stupefatto di non  essere
    riconosciuto.
    - Il generalissimo è occupato  -  ripeté con calma Kozlovskij.
    Il  viso  del  generale  si  rabbuiò,  le  sue  labbra  si  storsero e
    tremarono.  Estrasse un taccuino,  scrisse rapidamente alcune parole a
    matita,  strappò il foglio, lo consegnò e, avvicinatosi a passo rapido
    alla finestra,  si lasciò cadere  su  una  sedia  e  volse  gli  occhi
    attorno,  quasi chiedendosi perché mai lo guardassero. Dopo un momento
    alzò il capo,  allungò il collo come se si preparasse a dire qualcosa,
    ma subito dopo, quasi stesse canticchiando con noncuranza tra sé e sé,
    emise  uno  strano  suono  che  immediatamente  soffocò.  La porta del
    gabinetto da lavoro si  aprì  e  sulla  soglia  comparve  Kutuzòv.  Il
    generale  dalla testa fasciata,  curvandosi come se volesse evitare un
    pericolo, con rapidi e lunghi passi delle gambe sottili, si avvicinò a
    Kutuzòv.
    - Vous voyez le malheureux Mack [11.  Ecco dinanzi a voi lo sventurato
    Mack!]  -  disse con voce spezzata.
    Il viso di Kutuzòv,  che stava ritto sulla soglia,  rimase per qualche
    secondo assolutamente immobile.  Poi su di esso passò  ondeggiando  un
    fremito,  e  la  sua fronte si spianò;  chinò rispettosamente il capo,
    chiuse gli occhi e si scostò  facendo  passare  Mack  avanti  a  sé  e
    chiudendo egli stesso la porta alle proprie spalle.
    La  voce  che  già  circolava  circa la sconfitta degli Austriaci e la
    capitolazione sotto Ulma di tutto l'esercito, era confermata. Mezz'ora
    dopo, alcuni aiutanti di campo vennero inviati in diverse direzioni ad
    annunziare che le truppe russe, sino allora inattive, avrebbero dovuto
    affrontare il nemico.
    Il principe Andréj era uno dei pochi ufficiali  dello  stato  maggiore
    che  dimostrasse  il  massimo interesse per l'andamento generale della
    guerra.  Al vedere Mack e all'udire i particolari della sua sconfitta,
    comprese  che la campagna era per metà perduta,  comprese quanto fosse
    difficile la situazione dell'esercito russo,  e  immaginò  rapidamente
    quanto  esso doveva attendersi e quale parte avrebbe dovuto sostenere.
    Involontariamente  provava   un   senso   di   letizia   al   pensiero
    dell'umiliazione  subita  dalla  tracotante  Austria e al pensiero che
    forse tra una settimana egli stesso avrebbe assistito e partecipato  a
    uno scontro tra Russi e Francesi,  il primo,  dopo Suvorov.  Tuttavia,
    pur temendo  il  genio  di  Bonaparte  che  avrebbe  potuto  rivelarsi
    superiore  al  valore  dell'esercito  russo,  non  poteva ammettere la
    possibilità di una sconfitta per il suo eroe.
    Agitato e turbato da questi pensieri,  il  principe  Andréj  si  avviò
    verso  la  sua  camera  per scrivere,  come faceva ogni giorno,  a suo
    padre.  Nel corridoio s'imbatté  nel  collega  Nesvitzkij  e  in  quel
    burlone di Zerkòv; come sempre, i due ridevano di qualche cosa.
    - Perché sei tanto cupo?   -  domandò Nesvitzkij,  che aveva notato il
    suo viso pallido e gli occhi luccicanti del principe Andréj.
    - Non c'è proprio di che essere allegri!  -  rispose Bolkonskij.
    Mentre il principe Andréj si tratteneva con Nesvitzkij e  con  Zerkòv,
    dall'altra  estremità  del  corridoio giungevano Strauch,  il generale
    austriaco addetto allo stato maggiore di Kutuzòv quale  sovrintendente
    all'approvvigionamento dell'esercito russo,  e un membro del Consiglio
    superiore della guerra, arrivato il giorno precedente.  L'ampiezza del
    corridoio  permetteva  che  i  generali passassero liberamente accanto
    agli ufficiali,  ma Zerkòv,  scostando con una spinta Nesvitzkij,  gli
    disse con voce affannata:
    -  Vengono!  Vengono!  Fate largo!  Lasciate libero il passaggio,  per
    favore!
    I generali passavano,  evidentemente desiderosi di sottrarsi a ossequi
    imbarazzanti.  Sul  viso  del  faceto  Zerkòv  apparve a un tratto uno
    stupido sorriso di gioia incontenibile.
    -  Eccellenza,    -    disse  egli  in  tedesco,  facendosi  avanti  e
    rivolgendosi  al  generale austriaco  -  ho l'onore di porgervi le mie
    congratulazioni.
    Aveva chinato la  testa  e,  con  quell'aria  goffa  dei  bambini  che
    imparano a ballare, prese a battere ora l'uno ora l'altro tacco.
    Il  generale,  membro  del  Consiglio  di guerra austriaco,  lo guardò
    severamente;  ma accortosi della serietà di quello stupido sorriso non
    poté  rifiutare  un  momento di attenzione.  Aggrottò un po' il viso e
    dimostrò di essere pronto ad ascoltare.
    - Ho l'onore di congratularmi con voi;  il generale Mack è arrivato in
    ottima  salute,  salvo  una  leggera  ferita  qui   -  aggiunse con un
    sorriso radioso e toccandosi la testa.
    Il generale si accigliò e andò oltre.
    - "Gott, wie naiv!" [12. Dio,  com'è ingenuo!]  -  esclamò con rabbia,
    già lontano di alcuni passi.
    Nesvitzkij,  con uno scoppio di risa, abbracciò il principe Andréj, ma
    Bolkonskij, fattosi ancora più pallido,  con un'espressione di collera
    sul viso,  lo scostò e si voltò verso Zerkòv. L'agitazione nervosa che
    gli avevano causato la vista di Mack, le notizie della situazione e il
    pensiero di ciò che attendeva  l'esercito  russo,  trovava  uno  sfogo
    nell'irritazione per l'inopportuno scherzo di Zerkòv.
    -  Se voi,  egregio signore,   -  disse con voce tagliente,  mentre la
    mascella inferiore gli tremava  -  volete  fare  il  buffone,  io  non
    posso  certo  impedirvelo;  ma  vi  assicuro che se,  in mia presenza,
    oserete ancora  permettervi  certe  pagliacciate,  vi  insegnerò  come
    dovete comportarvi.
    Nesvitzkij  e  Zerkòv  erano  così  stupefatti per quella sfuriata che
    guardarono in silenzio Bolkonskij, con gli occhi sbarrati.
    - Ma come? Io non ho fatto che congratularmi  -  disse Zerkòv.
    - Non scherzo, e vi prego di tacere!   -  gridò Bolkonskij e preso per
    un braccio Nesvitzkij,  si allontanò da Zerkòv che non sapeva che cosa
    rispondere.
    - Che hai, mio caro?  -  gli chiese Nesvitzkij, cercando di calmarlo.
    - E me lo chiedi?  -  rispose il principe Andréj,  fermandosi in preda
    a  violenta  agitazione.    -  Devi capire che,  o siamo ufficiali che
    serviamo il nostro imperatore e la nostra patria e ci rallegriamo  dei
    comuni successi e ci rattristiamo per le sconfitte, o siamo dei lacché
    che  non  si  interessano affatto di ciò che riguarda il loro padrone.
    "Quarante mille hommes massacrés et l'armée de nos alliés détruite, et
    vous trouvez là le mot pour rire"  -   disse,  come  se  quella  frase
    pronunziata in francese desse maggior vigore alla propria opinione.  -
    "C'est bien pour un garcon de rien, comme cet individu, dont vous avez
    fait  un  ami,  mais pas pour vous,  pas pour vous" [13.  Quarantamila
    uomini massacrati,  l'esercito dei nostri  alleati  distrutto,  e  voi
    potete  scherzarci  su!  (...)  Vada per un ragazzetto da nulla,  come
    quell'individuo di ci cui siete diventato amico,  ma non per voi,  non
    per voi...].  Soltanto un ragazzaccio può divertirsi così  -  continuò
    il principe Andréj,  in russo,  pronunziando  le  parole  con  accento
    francese, perché aveva notato che Zerkòv poteva ancora udirlo.
    Rimase in attesa di una risposta, ma Zerkòv gli voltò le spalle e uscì
    dal corridoio.


    CAPITOLO 4.

    Il  reggimento degli ussari di Pàvlograd era accampato a due miglia da
    Braunau.  Lo squadrone,  al quale  apparteneva  come  alfiere  Nikolàj
    Rostòv,  era  stanziato  nel villaggio tedesco di Saltzeneck.  Al capo
    dello squadrone,  capitano Denissov,  conosciuto in tutta la divisione
    di  cavalleria  come  Vaska Denissov,  era stato assegnato il migliore
    alloggio del villaggio.  Il giovane Rostòv,  da quando aveva raggiunto
    il proprio reggimento in Polonia, alloggiava insieme con il comandante
    dello squadrone.
    L'11 ottobre,  giorno in cui il quartier generale era in subbuglio per
    la notizia della sconfitta subita da Mack,  al comando dello squadrone
    la vita trascorreva tranquilla come al solito. Denissov, che per tutta
    la  notte  aveva  perduto alle carte,  non era ancora rincasato quando
    Rostòv,  di buon mattino,  era già di ritorno,  a  cavallo,  dall'aver
    provveduto al foraggiamento.  In uniforme di alfiere, si avvicinò alla
    scaletta della casa,  fermò il cavallo e,  gettata indietro con  gesto
    deciso  e  giovanile una gamba,  rimase un attimo sulla staffa come se
    gli dispiacesse staccarsi dall'animale e infine saltò a terra e chiamò
    l'ordinanza.
    - A te, amico Bondarenko  -  disse all'ussaro che si precipitava verso
    il cavallo.   -  Fallo passeggiare un po'  -  proseguì con  quel  tono
    gioioso  e fraterno con il quale i bravi ragazzi,  quando sono felici,
    si rivolgono a tutti.
    - Signorsì, eccellenza  -  rispose l'ucraino,  accennando allegramente
    con il capo.
    - E bada, sai, di farlo passeggiare adagino.
    Un  altro  ussaro si era intanto avvicinato al cavallo,  ma Bondarenko
    aveva già afferrato le briglie.  Era evidente che l'alfiere dava mance
    abbondanti e che era vantaggioso servirlo.  Rostòv accarezzò l'animale
    sul collo, poi sulla groppa e si fermò all'entrata. "Bene!  E' proprio
    un buon cavallo" disse tra sé e,  sorridendo, si agganciò al fianco la
    sciabola e salì di corsa la scaletta, facendo risonare gli speroni.
    Il padrone di casa, un tedesco, in maglia di lana e con il berretto in
    testa,  tenendo in mano il forcone con il quale  stava  rivoltando  il
    letame,  si affacciò alla porta della stalla.  Il suo viso, non appena
    ebbe scorto Rostòv,  si  illuminò  di  gioia.  Sorrise  e,  felice  di
    salutare il giovane, ripeté due volte:
    -  "Schön,   gut  Morgen!   Schön,   gut  Morgen!   [14.   Buongiorno!
    Buongiorno!].
    - "Schön fleissig!"  -  disse Rostòv,  sorridendo  con  quel  gioioso,
    cordiale  sorriso  che non abbandonava mai il volto vivace.   -  "Hoch
    Oesterreicher!  Hoch Russen!  Kaiser  Alexander  hoch!"  [15.  Già  al
    lavoro! (...) Evviva gli Austriaci! Evviva i Russi! Evviva lo zar!]  -
    disse al tedesco, ripetendo le parole che il padrone usava spesso.
    Il tedesco si mise a ridere,  uscì dalla stalla, si levò il berretto e
    agitandolo sopra la testa, gridò:
    - "Und die ganze Welt hoch!" [16. Evviva anche tutto il mondo!].
    Anche Rostòv agitò il berretto sopra la testa,  imitando il tedesco  e
    ridendo gli fece eco:  - "Und vivat die ganze Welt!" .  Sebbene non vi
    fosse alcun particolare motivo di gioia né per il tedesco che ripuliva
    la sua stalla,  né per Rostòv che ritornava dopo aver fatto incetta di
    foraggio,  quei  due  uomini  si  guardarono  con  entusiasmo felice e
    cordialità fraterna, si fecero scambievoli cenni in segno di affetto e
    si separarono sorridendo;  il contadino rientrò nella stalla e  Rostòv
    nella casa che abitava con Denissov.
    -  Dov'è  il tuo padrone?   -  chiese a Lavruska,  lo scaltro servo di
    Denissov, noto a tutto il reggimento.
    - Da ieri non è  rientrato.  Certamente  avrà  perduto  al  gioco    -
    rispose  Lavruska.    -  Ormai lo so: quando vince torna presto a casa
    per vantarsi ma,  se non rientra sino al mattino,  vuol  dire  che  ha
    perduto, e allora sarà di pessimo umore. Volete il caffè?
    - Sì, portalo, portalo...
    Dopo dieci minuti Lavruska ricomparve con il caffè.
    - Sta venendo!  -  avvertì.  -  Ora sono guai...
    Rostòv  guardò  dalla  finestra e vide Denissov che veniva verso casa.
    Era quasi un ometto di piccola statura, con la faccia rossa, gli occhi
    neri lucenti, i baffi e capelli scuri e arruffati. Portava il mantello
    sbottonato,   ampi  pantaloni  sgualciti  e  il  berretto  da  ussaro,
    ammaccato  e  buttato all'indietro sulla nuca.  Cupo in viso e a testa
    bassa, si avvicinava alla scaletta.
    - Lavruska!  -  gridò forte,  con voce irritata,  pronunziando male la
    "erre".  -  Su, idiota, aiutami a levarmi il mantello!
    -  E'  quello  che  sto  facendo  -  si sentì rispondere dalla voce di
    Lavruska.
    - Ah, sei già alzato?  -  chiese Denissov, entrando nella camera.
    - Da un pezzo  -  rispose Rostòv;   -  sono già andato per il foraggio
    e ho visto "Fräulein Mathilde" [17. Signorina Matilde].
    -  Bene!  E  io  ieri sera ho perso come un figlio di cane!   -  gridò
    Denissov.  -  Che scalogna! Una vera disdetta. Appena te ne sei andato
    via, è cominciata la iella. Ehi, tu, portami il tè!
    Denissov,  contorcendo il volto in una specie di sorriso e mettendo in
    mostra  i  denti  piccoli  e  forti,  cominciò ad arruffarsi i fitti e
    ispidi capelli con entrambe le mani dalle dita corte.
    - E che diavolo mi ha trascinato da quel Topo  -  (era  il  soprannome
    di  un  collega)  continuò  Denissov,  stropicciandosi  con le mani la
    fronte e il viso.   -  Figurati che non mi ha dato neppure  una  carta
    buona, neppure una!
    Denissov  prese  la  pipa accesa che Lavruska gli porgeva,  la strinse
    forte nel pugno e,  facendone uscire il tabacco fumante,  percosse con
    essa il pavimento,  continuando a gridare.  Finì con lo spezzarla e la
    buttò via. Tacque un poco,  poi a un tratto guardò allegramente Rostòv
    con i suoi occhi scintillanti.
    - Se almeno ci fossero delle donne!  Ma qui, all'infuori che bere, non
    si può fare altro.  Auguriamoci che presto ci sia da menare  le  mani!
    Ehi,  chi  va là?   -  chiese a un tratto,  voltandosi verso la porta,
    all'udire dei passi pesanti che  si  fermarono  con  un  tintinnio  di
    speroni e un rispettoso tossicchiare al di là dell'uscio.
    - Il maresciallo d'alloggio!  -  rispose Lavruska.
    Le smorfie sulla faccia di Denissov si accentuarono.
    - Andiamo male  -  disse,  gettando a Rostòv il borsellino con qualche
    moneta d'oro.   -  Rostòv,  mio caro,  conta quanto c'è dentro  e  poi
    caccia il borsellino sotto il guanciale  -  disse,  e uscì incontro al
    maresciallo d'alloggio.
    Rostòv prese il denaro e,  distribuite macchinalmente le monete in due
    mucchietti,  uno  di quelle nuove e uno di quelle vecchie,  cominciò a
    contarle.
    - Ah, salve, Teljanin! Ieri mi hanno sistemato bene!   -  giunse dalla
    stanza attigua la voce di Denissov.
    -  Da chi?  Da Bykrov,  eh,  dal Topo?  Lo sapevo  -  rispose con voce
    acuta,  e sùbito dopo entrò  nella  stanza  il  tenente  Teljanin,  un
    ufficiale del loro stesso squadrone.
    Rostòv  cacciò  il  borsellino sotto il guanciale e strinse la piccola
    mano sudaticcia che gli veniva tesa.  Teljanin,  prima della campagna,
    era  stato  espulso  dalla Guardia per non si sapeva quale motivo.  Al
    reggimento si comportava benissimo,  ma nessuno aveva simpatia per lui
    e  Rostòv,  più degli altri,  non riusciva a vincere e a nascondere la
    propria invincibile avversione verso quell'ufficiale.
    - Ebbene, giovane cavaliere,  come vi pare il mio Gracik?   -  (Gracik
    era  il  cavallo  da  sella  che Teljanin aveva venduto a Rostòv).  Il
    tenente non guardava mai in viso la persona con cui  parlava;  i  suoi
    occhi  si spostavano continuamente da un oggetto all'altro.   -  Vi ho
    visto passare, oggi.
    - Non c'è male,  è un discreto cavallo   -    rispose  Rostòv,  benché
    l'animale, pagato da lui settecento rubli, non valesse nemmeno la metà
    -    Però  si  è  messo  a  zoppicare  un  po'  dalla  zampa anteriore
    sinistra...  -  aggiunse.
    - Gli si è spaccato lo zoccolo!  Non  è  nulla.  Vi  mostrerò  io,  vi
    insegnerò come ribadire i chiodi.
    - Sì, insegnatemelo, ve ne prego  -  disse Rostòv.
    - Senz'altro,  non è un segreto.  E mi ringrazierete per quel cavallo,
    ne sono certo!
    - Allora lo farò  portare  qui    -    disse  Rostòv,  desiderando  di
    liberarsi da Teljanin, e uscì per dare l'ordine.
    Nel vestibolo, Denissov, con la pipa in bocca, stava accoccolato sulla
    soglia dell'uscio,  di fronte al maresciallo d'alloggio che gli faceva
    rapporto.  Alla vista  di  Rostòv,  Denissov  aggrottò  la  fronte  e,
    indicando  con  il pollice al di sopra della spalla,  la stanza in cui
    Teljanin era rimasto solo,  fece una  smorfia  ed  ebbe  un  gesto  di
    disgusto.
    - Ah, quel giovanotto proprio non mi va!  -  disse, senza preoccuparsi
    della presenza del maresciallo d'alloggio.
    Rostòv  alzò le spalle,  come per dire: "Neppure a me,  ma che ci vuoi
    fare?" e, dato l'ordine riguardante il cavallo, tornò da Teljanin.
    Teljanin era ancora seduto nello stesso atteggiamento indolente in cui
    l'aveva lasciato Rostòv e si stava fregando le piccole mani bianche.
    "Vi  sono  certe  fisionomie  veramente  ripugnanti"   pensò   Rostòv,
    rientrando in camera.
    - E allora,  avete dato ordine che vi conducano il cavallo?  -  chiese
    Teljanin, alzandosi e guardandosi attorno con noncuranza.
    - Sì.
    - Ma andiamoci noi.  Sono  passato  di  qui  soltanto  per  sapere  da
    Denissov  qualcosa  circa  gli  ordini  di  ieri.  Li  avete ricevuti,
    Denissov?
    - Non ancora. Dove andate?
    - A insegnare a questo giovanotto come si deve ferrare un cavallo    -
    rispose Teljanin.
    Uscirono  sul terrazzino e si avviarono verso la scuderia.  Il tenente
    insegnò come il cavallo doveva essere ferrato e se ne andò.
    Quando Rostòv rientrò,  trovò sul tavolo una bottiglia di vodka  e  un
    salame.  Denissov,  seduto  lì accanto,  faceva scricchiolare la penna
    sopra un foglio di carta.  Con aria cupa alzò  gli  occhi  in  viso  a
    Rostòv.
    - Scrivo a lei  -  disse.
    Puntò  i  gomiti sulla tavola,  con la penna in mano e,  evidentemente
    felice dell'occasione che gli si presentava di dire a  viva  voce  ciò
    che  si  accingeva  a  scrivere,  si  mise a raccontare la sua lettera
    all'amico.
    - Vedi, mio caro,  sino a che non si ama,  si dorme.  Siam figli della
    polvere...  ma,  non appena ti innamori,  eccoti un dio, puro come nel
    primo giorno della creazione... Chi altri c'è? Mandalo al diavolo! Ora
    non ho tempo!   -  gridò a Lavruska che,  senza dimostrare  la  minima
    timidezza, gli si era avvicinato.
    -  Chi  volete  che  sia?   Avete  dato  l'ordine  voi  stesso:  è  il
    maresciallo, venuto per il denaro.
    Denissov aggrottò il viso,  fu  sul  punto  di  gridare  qualcosa,  ma
    tacque.
    "Brutto  affare"  disse  tra  sé  e  sé.    -    Quanto  è rimasto nel
    borsellino?  -  chiese a Rostòv.
    - Sette rubli nuovi e tre vecchi.
    - Ah, brutto affare davvero! Perché te ne stai lì impalato?  Manda via
    il maresciallo...  -  gridò.
    - Ti prego,  Denissov, prendi il denaro in prestito da me: io ne ho  -
    offrì Rostòv, arrossendo.
    - Non mi piace farmi prestar denaro,  non  mi  piace!    -    borbottò
    Denissov.
    - Se non accetti il mio denaro,  da amico, mi offendi. Ti assicuro che
    ne ho  -  ripeté Rostòv.
    - Ma no... no!
    Denissov si avvicinò al letto per prendere il borsellino da  sotto  il
    guanciale.
    - Dove l'hai messo, Rostòv?
    - Sotto il primo guanciale.
    - Ma non c'è!
    Denissov gettò a terra i due guanciali: il borsellino non c'era.
    - Un bel fatto!
    - Aspetta: non l'avrai mica fatto cadere?  -  chiese Rostòv alzando un
    guanciale dopo l'altro e scuotendolo.
    Tolse  dal  letto e scosse anche la coperta,  ma non trovò traccia del
    borsellino.
    - Che me ne sia scordato? Ma no, no... Anzi,  ho pensato che l'avresti
    messo  sotto la testa,  come un tesoro  -  disse Rostòv-  e l'ho messo
    qui. Dov'è adesso?  -  chiese, rivolto a Lavruska.
    - Io non sono nemmeno entrato. Sarà dove l'avete messo.
    - Ma non c'è.
    - Vi succede sempre così: gettate la roba chi sa dove,  e  poi  ve  ne
    dimenticate. Guardatevi in tasca!
    -  No!  Se  non  avessi  pensato al tesoro,  potrebbe anche darsi,  ma
    ricordo benissimo di averlo messo lì  -  rispose Rostòv.
    Lavruska buttò per aria il letto,  ci guardò sotto,  frugò in tutta la
    stanza,  poi  si  fermò  in  mezzo  e  rimase immobile.  Denissov,  in
    silenzio,  aveva seguito i movimenti  di  Lavruska  e,  quando  costui
    allargò  le  braccia  con aria stupita,  dicendo che il borsellino non
    c'era, guardò Rostòv.
    - Rostòv, non vuoi mica scherzare...
    Rostòv, sentendo su di sé lo sguardo di Denissov,  sollevò gli occhi e
    nello stesso momento li riabbassò. Tutto il sangue che gli aveva fatto
    nodo in gola,  gli salì di colpo al viso e agli occhi;  non poteva più
    respirare.
    - E in camera non c'era stato nessuno eccetto voi e il tenente. Quindi
    dev'essere qui, da qualche parte  -  insisté Lavruska.
    - E tu,  fantoccio del diavolo,  muoviti e cerca!   -  gridò Denissov,
    facendosi  paonazzo  e,   con  gesto  minaccioso,   si  slanciò  verso
    l'ordinanza.   -  Il borsellino  c'era  e  si  deve  trovare;  se  no,
    frusterò tutti a sangue.
    Rostòv,  squadrando Denissov,  si abbottonò la giubba,  si affibbiò la
    sciabola e si mise il berretto.
    - Ti dico che il borsellino c'era  -  gridava Denissov, scrollando per
    le spalle Lavruska e sbattendolo contro il muro.
    - Denissov,  lascialo: io  so  chi  l'ha  preso    -    disse  Rostòv,
    avviandosi verso l'uscio, senza sollevare gli occhi.
    Denissov  si  fermò,  rifletté  un  momento  e,  avendo  evidentemente
    compreso a chi avesse voluto alludere Rostòv, lo prese per un braccio.
    - Sciocchezze!   -  gridò così forte che le vene  del  collo  e  della
    fronte  gli  si gonfiarono come corde.   -  Ti dico che sei impazzito.
    Non permetterò una cosa simile... Il borsellino è qui: leverò la pelle
    a questa canaglia a forza di frustate e vedrai che salterà fuori.
    - Io so chi l'ha preso  -  ripeté Rostòv con voce tremante, e mosse un
    altro passo verso l'uscio.
    - E io ti ripeto di non osare  una  cosa  simile    -    gridò  ancora
    Denissov, slanciandosi verso l'alfiere, per trattenerlo.
    Ma  Rostòv liberò il braccio con furore,  come se si trattasse del suo
    peggior nemico e gli piantò gli occhi addosso.
    - Ma tu capisci quel che dici?  -  gli chiese con la voce che tremava.
    -  All'infuori di me, nella stanza non è entrato nessuno.  Dunque vuol
    dire che se non è come dico io, allora...
    Non poté finire la frase e uscì a precipizio dalla stanza.
    -  Ah!  Andate  al diavolo tu e tutti gli altri!   -  furono le ultime
    parole che gli giunsero alle orecchie.
    Rostòv si recò all'alloggio di Teljanin.
    - Il signore non è in casa, è andato allo stato maggiore  -  gli disse
    l'attendente.  -  E' forse accaduto qualcosa?  -  chiese, sorpreso dal
    viso sconvolto dell'alfiere.
    - No, no, nulla...
    - Proprio per poco non l'avete trovato  -  aggiunse l'attendente.
    Lo stato maggiore si trovava a tre miglia da Saltzeneck. Rostòv, senza
    rientrare in casa,  prese il  cavallo  e  si  diresse  alla  sede  del
    comando.  In  quel  villaggio,  occupato  dallo stato maggiore,  c'era
    un'osteria frequentata dagli ufficiali,  alla quale Rostòv si diresse.
    All'ingresso scorse il cavallo di Teljanin.
    Nella seconda saletta, il tenente sedeva a tavola, davanti a un piatto
    di salame e a una bottiglia di vino.
    - Ah,  siete venuto qui anche voi,  giovanotto?  -  disse sorridendo e
    sollevando le sopracciglia.
    - Sì  -   rispose  Rostòv,  come  se  pronunziare  quella  parola  gli
    costasse un'enorme fatica, e sedette alla tavola accanto.
    Tacevano entrambi. In quella saletta si trovavano anche due tedeschi e
    un  ufficiale russo.  Nessuno parlava e non si udiva altro all'infuori
    del rumore dei coltelli contro i piatti e del masticare  rumoroso  del
    tenente.  Quando  Teljanin  ebbe  finito di far colazione,  tirò fuori
    dalla tasca un borsellino doppio,  con le dita bianche e  delicate  ne
    aprì  il  fermaglio  e  ne  prese  una moneta d'oro.  Sollevate poi le
    sopracciglia, la porse al cameriere.
    - Presto, per favore  -  disse.
    La moneta d'oro era nuova. Rostòv si alzò e si avvicinò a Teljanin.
    - Permettetemi di guardare questa borsa  -    disse  con  voce  appena
    udibile.
    Con gli occhi che correvano da tutte le parti,  ma con le sopracciglia
    sempre sollevate, Teljanin porse il borsellino.
    - Sì... è un bel borsellino... sì, sì...  -  disse in fretta e,  tutto
    a un tratto, si fece pallido.  -  Guardate pure, giovanotto!
    Rostòv prese il borsellino,  lo guardò, guardò il denaro che conteneva
    e poi fissò Teljanin. Il tenente, secondo la sua abitudine, volgeva lo
    sguardo su tutto ciò che lo circondava e,  a un  tratto,  parve  farsi
    molto allegro.
    -  Quando  saremo  a Vienna spenderò tutto,  ma qui,  in queste misere
    cittaduzze,  non si sa davvero come fare!   -  disse,  e aggiunse:   -
    Ridatemi il borsellino, giovanotto, me ne vado!
    Rostòv taceva.
    -  E  voi che fate?  Aspettate che vi servano la colazione?  Si mangia
    benino qui. Datemi il borsellino, dunque!
    Tese la mano e fece  il  gesto  di  prenderlo.  Rostòv  glielo  porse.
    Teljanin  lo  prese  e  lo  mise  nella  tasca dei calzoni,  mentre le
    sopracciglia gli si sollevavano leggermente e la  bocca  si  schiudeva
    appena,  come  se  volesse  dire:  "Sì,  mi metto il mio borsellino in
    tasca, cosa molto semplice e che non riguarda nessuno".
    - Ebbene,  giovanotto?   -  disse poi,  traendo un sospiro e  fissando
    Rostòv  di  sotto  le  sopracciglia  sollevate.  Un lampo passò con la
    rapidità di una scintilla elettrica dagli occhi di Teljanin  a  quelli
    di Rostòv e viceversa, e poi ancora e ancora, tutto nello spazio di un
    minuto.
    -  Venite  qui  -  disse Rostòv,  afferrando Teljanin per un braccio e
    trascinandolo quasi sotto  la  finestra.    -    Questo  denaro  è  di
    Denissov, e voi lo avete preso...  -   gli bisbigliò all'orecchio,
    - Cosa? Cosa? Come osate?  -  disse Teljanin.
    Ma  quelle  parole  risonarono  come  un  grido  lamentoso  e come una
    preghiera che invoca pietà.  Non appena Rostòv ebbe udito il suono  di
    quella  voce,  l'enorme peso del dubbio gli cadde dal cuore.  Provò un
    senso di gioia e insieme di pietà per  quell'infelice  che  gli  stava
    dinanzi; ma bisognava andare sino in fondo.
    -  Sa  Iddio  che  cosa  penserà  qui  la  gente  -  mormorò Teljanin,
    prendendo il berretto  e  dirigendosi  verso  una  stanza  vuota;    -
    dobbiamo spiegarci.
    - So quello che dico e lo dimostrerò  -  dichiarò Rostòv.
    - Io...
    Il  viso  spaventato e pallido di Teljanin prese a tremare;  gli occhi
    correvano rapidamente di qua e di là,  ma volti sempre  in  basso  non
    osavano  sollevarsi  verso  il  viso  di  Rostòv.  Poi  si udirono dei
    singhiozzi:
    - Conte,  non rovinate un giovane...  Eccovi questo maledetto  denaro,
    prendetelo...   -  E lo gettò sulla tavola.  -  Ho un padre vecchio...
    una madre...
    Rostòv prese il denaro,  evitando lo sguardo di Teljanin e,  senza dir
    parola,  uscì dalla stanza.  Ma,  giunto accanto all'uscio, si fermò e
    tornò indietro.
    - Mio Dio,  -  disse con le lacrime agli occhi;   -  come avete potuto
    fare una cosa simile?
    - Conte...  -  rispose Teljanin, avvicinandosi al giovane.
    - Non mi toccate!   -  esclamò Rostòv, indietreggiando.  -  Se proprio
    questo denaro vi occorre, tenetelo!  -  Gli gettò il borsellino e uscì
    di corsa dall'osteria.


    CAPITOLO 5.

    La sera di quello stesso giorno,  si svolse in casa  di  Denissov  una
    animatissima conversazione tra gli ufficiali dello squadrone.
    - E io insisto nel dirvi,  Rostòv,  che dovete fare le vostre scuse al
    comandante del reggimento   -    esclamava,  rivolgendosi  al  giovane
    ufficiale rosso in viso e turbato,  un capitano in seconda,  alto, dai
    capelli grigi,  un enorme paio di baffi  e  i  lineamenti  pronunziati
    sulla faccia rugosa.
    Il capitano in seconda Kirsten era stato per ben due volte degradato a
    soldato  semplice  per  questioni  di  onore  e  per  due  volte aveva
    riconquistato il grado perduto.
    - Non permetterò a nessuno di affermare che mento!   -  gridò  Rostòv.
    -   Egli mi ha detto che mentivo,  io gli ho risposto che il mentitore
    era lui e non ritratterò nulla.  Mi metta pure  di  servizio  tutti  i
    giorni,  mi metta agli arresti,  se vuole, ma nessuno mi costringerà a
    scusarmi perché se lui, comandante del reggimento,  ritiene indecoroso
    per sé di darmi soddisfazione, allora...
    -  Ma  suvvia,  mio  caro,  ascoltatemi   -  lo interruppe il capitano
    Kirsten con la sua voce da basso,  accarezzandosi lentamente i  lunghi
    baffi.    -    Voi  in  presenza  di  altri ufficiali,  avete detto al
    colonnello che un collega ha rubato...
    - Non è colpa mia se la conversazione è avvenuta in presenza di  altri
    ufficiali.  Forse non dovevo parlare davanti a loro, ma io non sono un
    diplomatico.  Sono entrato negli ussari proprio perché pensavo che qui
    non  ci  fosse  bisogno  di  tante  sottigliezze...  e lui mi dice che
    mento... Deve quindi darmi soddisfazione.
    - D'accordo, nessuno pensa che siate un vigliacco, ma non si tratta di
    questo.  Domandate a Denissov  se  è  mai  possibile  che  un  alfiere
    pretenda soddisfazione da un colonnello...
    Denissov  ascoltava  la discussione con aria cupa,  mordicchiandosi un
    baffo,  con l'evidente desiderio di non prendervi parte.  Alle  parole
    del capitano Kirsten, scosse il capo negativamente.
    -Voi,  in presenza di altri ufficiali,   -  continuò il capitano - gli
    avete parlato di quella porcheria e Bogdanyc'  -  (così si chiamava il
    colonnello)  -  vi ha richiamato all'ordine.
    - Non mi ha richiamato all'ordine, ha detto che mentivo!
    - D'accordo,  ma voi gli avete risposto delle  stupidaggini  e  dovete
    scusarvi.
    - Per nulla al mondo!  -  gridò Rostòv.
    -  Non  mi  aspettavo  da voi una simile ostinazione  -  disse in tono
    serio e severo il capitano in seconda.   -  Voi  non  volete  fare  le
    vostre scuse mentre, mio caro, siete colpevole non solo davanti a lui,
    ma  davanti a tutto il reggimento e a tutti noi.  E vi dico perché: se
    aveste prima riflettuto,  se vi foste consigliato su come  comportarvi
    in  questa  faccenda...  ma  invece  no,  avete  tirato diritto e,  in
    presenza degli altri ufficiali, avete spifferato ogni cosa.  Che resta
    ora da fare al colonnello?  Dovrebbe sottoporre a giudizio l'ufficiale
    e disonorare tutto il reggimento?  E dovrebbe coprirlo  di  fango  per
    colpa  di  una  sola canaglia?  Dovrebbe far questo,  secondo voi?  Ma
    secondo noi no,  no davvero.  E Bogdanyc' ha fatto bene  a  dirvi  che
    mentivate.  E'  una cosa spiacevole,  ma è colpa vostra.  E ora che si
    vuole soffocare  la  faccenda,  voi,  per  presuntuosità  e  orgoglio,
    rifiutate  di  scusarvi e volete raccontare tutto.  Vi secca essere di
    servizio ogni giorno,  vero?  Ma che vi  costa  chiedere  scusa  a  un
    vecchio e onesto ufficiale? Bogdanyc', qualunque sia il suo carattere,
    è  pur  sempre  un  vecchio  colonnello  onesto e coraggioso e così vi
    sentite offeso;  ma non vi  importa  di  gettare  fango  su  tutto  il
    reggimento!    -    La  voce  del  capitano  in seconda incominciava a
    tremare.  -  Voi, mio caro, siete da poco qui tra noi; oggi vi trovate
    qui e domani potreste essere chi  sa  dove  come  aiutante  di  campo;
    perciò  ve  ne  infischiate  che  si  dica:  "Tra  gli  ufficiali  del
    reggimento di Pàvlograd ci sono dei ladri!".  Ma a noialtri questo non
    è indifferente, no! Non è così, Denissov? A noi è forse indifferente?
    Denissov  continuava  a  tacere e non si muoveva;  di tanto in tanto i
    suoi neri occhi lucenti si volgevano a Rostòv.
    - Voi insistete nel vostro  punto  di  vista,  non  volete  scusarvi,-
    proseguì  il  capitano    -  ma a noi vecchi,  che siamo cresciuti nel
    reggimento e che nel reggimento se Dio vorrà moriremo,  sta a cuore il
    suo onore,  e Bogdanyc' lo sa.  Oh, quanto ci sta a cuore, mio caro! E
    ciò che fate non è bello, non è affatto bello. Che vi offendiate o no,
    io dico sempre la verità. Non è bello, no!
    E il capitano in seconda si alzò e voltò le spalle a Rostòv.
    - E' vero,  per tutti i diavoli!   -   gridò  Denissov,  scattando  in
    piedi.  -  Suvvia, Rostòv, per favore!
    Rostòv,  arrossendo  e  impallidendo,  guardava  ora l'uno ora l'altro
    ufficiale.
    - No, signori, no... non dovete supporre che io... Capisco benissimo e
    avete torto se supponete che io...  per me...  Anche a me sta a  cuore
    l'onore del reggimento... e ve lo dimostrerò con i fatti. Anche per me
    l'onore della bandiera...  Ebbene,  sì, è vero che ho torto!  -  aveva
    le lacrime agli occhi.   -   Ho  torto,  assolutamente  torto...  Cosa
    volete di più?
    - Così va bene,  conte!   -  disse il capitano in seconda,  volgendosi
    verso di lui e battendogli la grossa mano sulla spalla.
    - Te lo dicevo io che è un bravo ragazzo,  te lo dicevo!   -   esclamò
    Denissov.
    -  Così  va bene,  conte  -  ripeté il capitano,  come se in premio di
    aver ammesso il proprio torto lo gratificasse del titolo.  -  E adesso
    andate a presentare le vostre scuse.
    - Signori,  farò tutto,  tutto...  nessuno udrà più uscire una  parola
    dalla mia bocca,  -  disse Rostòv con voce supplichevole-  ma scusarmi
    non  posso...  Quanto è vero Dio,  non posso;  dite quello che volete!
    Come faccio a presentare le mie scuse,  come  un  bambino  che  chieda
    perdono?
    Denissov rise.
    -  Peggio  per  voi!  Bogdanyc'  è  un  uomo capace di serbar rancore:
    pagherete cara la vostra ostinazione!  -  disse il capitano in seconda
    Kirsten.
    - Ma non si tratta di ostinazione,  ve  lo  giuro!  Non  so  esprimere
    quello che sento, non posso...
    - Come volete!  -  interruppe il capitano.  -  Dove si è nascosto quel
    mascalzone?  -  chiese a Denissov.
    -  Si è dato malato.  Domani,  per ordine superiore sarà esonerato dal
    servizio  -  rispose Denissov.
    - Dev'essere proprio una malattia,  la sua: non  si  può  spiegare  in
    altro modo  -  disse il capitano in seconda.
    - Malattia o non malattia,  si guardi bene dal farsi vedere...  se no,
    l'ammazzo!  -  gridò Denissov con furore.
    Nella stanza entrò Zerkòv.
    - Tu?  Come mai sei qui?   -  chiesero gli  ufficiali,  volgendosi  al
    nuovo venuto.
    -  Si  riprende la marcia,  signori.  Mack si è arreso prigioniero con
    tutto l'esercito!
    - Non è vero!
    - L'ho veduto io stesso...
    - Ma come?  Hai visto Mack in carne e ossa?  Con le braccia e  con  le
    gambe?
    - In marcia!  In marcia!  Una bottiglia a Zerkòv per la notizia che ci
    ha portato. E come mai sei capitato qui?
    - Mi hanno mandato al reggimento per colpa di quel diavolo di Mack. Un
    generale  austriaco  ha  fatto  le  sue  lagnanze   perché   mi   sono
    congratulato con lui per l'arrivo di Mack...  E tu,  Rostòv,  che hai?
    Pare che tu esca dal bagno...
    - Eh, mio caro, da due giorni siamo in un tale subbuglio, qui...
    Poco dopo entrò l'aiutante di campo e confermò la notizia  portata  da
    Zerkòv. L'ordine di mettersi in marcia era per l'indomani.
    - In marcia, signori!
    - Siano grazie a Dio! Siamo rimasti fermi abbastanza!


    CAPITOLO 6.

    Kutuzòv aveva ripiegato su Vienna, distruggendo alle proprie spalle il
    ponte sull'Inn (a Braunau) e quello sul Traun (a Linz).  Il 23 ottobre
    le truppe russe passavano l'Enns.  I  carriaggi,  le  artiglierie,  le
    colonne  dei  soldati attraversarono in pieno giorno la città di Enns,
    al di qua e al di là del ponte.
    Era una giornata d'autunno, tiepida e piovosa.  L'ampia visuale che si
    apriva  sotto  l'altura  su  cui erano schierate le batterie russe che
    difendevano il ponte, ora scompariva dietro un velo di pioggia obliqua
    ora, a un tratto,  si allargava e,  alla luce del sole,  tutte le cose
    apparivano  chiare  e splendenti come se fossero coperte di lacca.  In
    basso si scorgeva la cittadina con  le  sue  case  bianche  dai  tetti
    rossi,  la cattedrale e il ponte, ai due lati del quale si accalcavano
    e fluivano le truppe russe.  Oltre la svolta del Danubio  si  vedevano
    alcune  imbarcazioni,  un'isola,  un  castello con il parco circondato
    dalle acque dell'Enns che in quel punto si buttano nel Danubio,  e  si
    distinguevano  la  riva sinistra del fiume tutta coperta di rocce e di
    foreste di abeti,  le cime verdeggianti e le gole azzurrine dei  monti
    che  andavano  svanendo  in  una misteriosa lontananza.  Emergevano in
    mezzo a un'abetaia,  fitta come una foresta vergine,  le torri  di  un
    monastero  e  di  fronte,  lontano,  sulla  sponda  opposta dell'Enns,
    apparivano le pattuglie nemiche.
    Tra  i  cannoni  postati  sull'altura,   stava  il  comandante   della
    retroguardia che,  con il suo ufficiale d'ordinanza,  esaminava con un
    cannocchiale il terreno;  un  po'  indietro  Nesvitzkij,  mandato  dal
    generalissimo  alla  retroguardia,  stava  seduto  sull'affusto  di un
    cannone.  Il cosacco che lo accompagnava gli aveva portato una borsa e
    una  fiaschetta,  e  Nesvitzkij  offriva  agli  ufficiali pasticcini e
    doppio Kümmel autentico.  I  colleghi  lo  circondavano  allegramente,
    alcuni in ginocchio, altri seduti alla turca sull'erba umida.
    -  Non  era davvero uno sciocco quel principe austriaco che si è fatto
    costruire qui il suo castello!  Un posto incantevole...  Ma perché non
    mangiate, signori?  -  chiese Nesvitzkij.
    - Grazie infinite,  principe  -  rispose uno degli ufficiali, lieto di
    parlare con un personaggio così importante dello stato  maggiore.    -
    E'  davvero  un  posto  bellissimo.  Siamo  passati davanti al parco e
    abbiamo visto due cervi. E che stupenda costruzione!
    - Guardate,  principe  -  disse un altro,  il  quale  aveva  una  gran
    voglia di prendere ancora dei pasticcini ma, poiché non osava, fingeva
    di  osservare  il  paesaggio.    -    Vedete?  I nostri fanti sono già
    arrivati laggiù... Guardate, là in fondo,  dietro al villaggio,  ce ne
    sono  tre  che  trascinano  qualcosa...  Scommetto che svaligeranno il
    castello!  -  disse con tono di evidente approvazione.
    - Eh già,  certo  -  rispose Nesvitzkij.   -  Io  vorrei  arrampicarmi
    lassù    -    aggiunse,  sgranocchiando  con la bocca rossa e umida un
    pasticcino;   -  mi piacerebbe veramente!   -  E indicava le torri del
    monastero  che  si  ergevano  sul  monte.  Sorrise  mentre  gli  occhi
    socchiusi gli si illuminarono.  -  Sarebbe bello davvero!
    Gli ufficiali scoppiarono in una risata.
    - Si potrebbe spaventare un po' quelle  monachelle!  Si  dice  che  vi
    siano lassù delle giovani italiane...  In verità, darei cinque anni di
    vita per...
    - Tanto più che, senza dubbio, si annoieranno  -  disse,  ridendo,  il
    più ardito degli ufficiali.
    Nel frattempo l'ufficiale d'ordinanza,  ritto più innanzi sull'altura,
    indicava qualcosa al generale,  il quale volse il binoccolo da  quella
    parte.
    -  Sì,  sì,  è  proprio  così,  è  proprio  così    -  disse irritato,
    abbassando il binoccolo e stringendosi nelle spalle.   -   E'  proprio
    così:  i  Francesi ci attaccheranno mentre attraverseremo il fiume.  E
    che cosa stanno facendo laggiù i nostri?
    Sulla riva opposta si vedeva,  anche a occhio nudo,  il nemico con  le
    sue  batterie  dalle  quali  si levò una spirale di fumo bianco latte;
    subito dopo si udì una detonazione  lontana  e  si  videro  le  nostre
    truppe affrettarsi per attraversare il fiume.
    Nesvitzkij si alzò sbuffando e si avvicinò sorridendo al generale.
    - Posso offrirvi qualcosa, eccellenza?
    -  Brutta faccenda!   -  esclamò il generale,  senza rispondergli.-  I
    nostri hanno indugiato troppo.
    - Volete  che  faccia  una  corsa  laggiù,  eccellenza?    -    chiese
    Nesvitzkij.
    -  Sì,  andate,  ve ne prego  -  rispose il generale e ripeté l'ordine
    dato in precedenza,  in ogni particolare.   -   Dite  agli  ussari  di
    attraversare  per  ultimi il fiume e di incendiare il ponte non appena
    l'avranno attraversato, come ho già ordinato... e che controllino bene
    il materiale infiammabile già preparato sul ponte stesso.
    - Benissimo  -  disse Nesvitzkij.
    Fece venire il cosacco con il cavallo,  gli ordinò di riporre la borsa
    e  la  fiaschetta e balzò in sella con leggerezza,  nonostante il peso
    del suo corpo.
    - Vi assicuro che poi vado a trovare le monachelle    -    disse  agli
    ufficiali che lo guardavano sorridendo. Indi si allontanò, discendendo
    lungo il sinuoso sentiero montano.
    -  Ora  a voi,  capitano: vediamo un po' se li centrate!   -  disse il
    generale, rivolgendosi al capitano della batteria.   -  Divertitevi un
    po'!
    -  I  serventi  ai  pezzi!    -   comandò l'ufficiale.  Un minuto dopo
    arrivarono  di  corsa  gli  artiglieri  e  caricarono  allegramente  i
    cannoni.
    - Prima batteria, a voi!  -  comandò il capitano.
    La  prima  batteria  fece  fuoco.  Con  un assordante colpo metallico,
    l'arma sparò e la granata,  sibilando,  passò a volo sulla  testa  dei
    nostri  e,  senza  aver raggiunto il nemico,  rivelò con una fumata il
    punto in cui era caduta e scoppiata.
    I volti dei soldati e degli ufficiali  assunsero  una  espressione  di
    gioia  a  quel  fragore;  tutti  balzarono  in piedi e osservarono con
    attenzione i movimenti delle nostre truppe che  si  vedevano,  giù  in
    basso,  così  distintamente  come  se  fossero sul palmo della mano e,
    dirimpetto,  quelle del nemico che si avvicinava.  In quel momento  il
    sole uscì del tutto dalle nuvole e lo splendido fragore di quell'unica
    cannonata  si  fuse  con il fulgore del sole in una sola sensazione di
    ardimento e di allegria.


    CAPITOLO 7.

    Due granate nemiche avevano già oltrepassato  volando  il  ponte,  sul
    quale  si  accalcavano un'enorme quantità di soldati.  A metà ponte il
    principe Nesvitzkij, sceso da cavallo, stava ritto con il grosso corpo
    appoggiato al parapetto.  Ridendo si volgeva  indietro  verso  il  suo
    cosacco che,  ad alcuni passi di distanza, teneva per le briglie i due
    cavalli.  Non appena il principe si accingeva a proseguire,  soldati e
    carri lo urtavano e lo immobilizzavano contro il parapetto e a lui non
    restava altro da fare che sorridere.
    -  Ehi,  amico    -    diceva il cosacco a un soldato alla guida di un
    traino di salmerie che premeva contro la fanteria ammassata attorno ai
    veicoli e ai cavalli.   -  Non potresti aspettare?  Lo vedi,  no,  che
    deve passare un generale?
    Ma  il  conducente,  senza  prestar  alcuna  attenzione  al  titolo di
    generale, gridava contro i soldati che gli sbarravano la strada.
    - Ehi, paesani, tenete la sinistra. Aspettate!
    Ma i paesani, stretti spalla a spalla, impigliandosi con le baionette,
    si movevano sul ponte senza intervallo,  come una massa  compatta.  Il
    principe  Nesvitzkij,  chino  sul  parapetto,  vedeva le onde rapide e
    fragorose dell'Enns che, confondendosi, si frangevano contro il pilone
    del ponte e si inseguivano tumultuose. Guardando il ponte, vedeva onde
    simili,  ma viventi: onde di soldati,  di berretti,  di chepì  con  le
    fodere,  di zaini, di baionette, di lunghi fucili e, sotto i chepì, le
    facce dagli zigomi larghi,  dalle guance incavate  e  dall'espressione
    stanca e inebetita; vedeva onde di piedi che si trascinavano nel fango
    viscido e appiccicoso di cui il ponte era coperto.  Di tanto in tanto,
    tra le ondate regolari dei soldati,  simile a uno spruzzo  di  schiuma
    bianca tra le acque dell'Enns,  emergeva la figura di un ufficiale dal
    mantello chiaro e dalla fisionomia che si distingueva  da  quelle  dei
    soldati;  a tratti, come una scheggia di legno galleggiante sul fiume,
    appariva sul ponte, trascinato dalle ondate della fanteria,  un ussaro
    appiedato, un attendente o un abitante della città; a momenti, ancora,
    come  una  trave  navigante  sulla  superficie del fiume,  passava sul
    ponte,  premuto da ogni parte,  il carro di una compagnia o di qualche
    ufficiale, carico sino alla cima e coperto di cuoio.
    -  Ma  guarda  che  roba!  E'  come  se si fosse rotta una diga...   -
    esclamò il cosacco,  fermandosi disperato.   -  C'è ancora molta gente
    che deve passare?
    - Un milione di uomini meno uno!  -  rispose scherzosamente un soldato
    che  indossava  un  cappotto  lacero,  e poi scomparve.  Lo seguiva un
    altro, un veterano.
    - Se "quello"  -  ("quello" era il nemico)   -    adesso  si  mette  a
    sparare  sul  ponte    -    diceva con aria cupa il vecchio soldato al
    compagno  -  ti assicuro che dimenticherai persino di grattarti.
    E passò oltre. Dietro a lui ne veniva un altro, sopra un carro.
    - Dove diavolo hai cacciato le  fasce  da  piedi?    -    chiedeva  un
    attendente che seguiva di corsa il veicolo e vi frugava dentro.
    E passò anche quello, insieme con il carro.
    Dietro  a  questi  camminava un gruppo di soldati molto allegri,  che,
    senza dubbio, avevano bevuto.
    - Con che soddisfazione,  caro il mio uomo,  gli ha dato sui denti con
    il  calcio  del  fucile!    -    diceva allegramente uno di essi,  dal
    cappotto molto rialzato, facendo un ampio gesto con le braccia.
    - Guarda, guarda... del prosciutto dolce!  -  gli rispondeva un altro,
    ridendo.
    E anch'essi passarono,  cosicché Nesvitzkij non poté  mai  sapere  chi
    fosse stato colpito sui denti e che cosa c'entrasse il prosciutto...
    - Eh, che fretta! Perché "quello" ha sparato un colpo, pensano già che
    ci ammazzeranno tutti!  -  disse un sottufficiale in tono sprezzante e
    beffardo.
    - Quando la granata mi è passata davanti agli occhi,  zietto mio, poco
    è mancato che morissi!   -   disse  un  giovane  soldato  dalla  bocca
    enorme,  trattenendosi a stento dal ridere.   -  Ti giuro che ho avuto
    una paura con i fiocchi!   -  aggiunse,  quasi  vantandosi  della  sua
    pusillanimità.
    E anch'egli passò oltre.  Dietro a lui veniva un veicolo assolutamente
    diverso dagli altri che erano transitati sino  allora.  Era  un  carro
    tedesco, trainato da due cavalli, che pareva carico di un'intera casa,
    lo guidava un tedesco e, dietro, vi era legata una bella mucca pezzata
    dalle mammelle enormi. Sulle sponde del carro stavano sedute una donna
    con  un  lattante,  una vecchia e una robusta giovinetta tedesca dalle
    guance  rubiconde.  Erano  evidentemente  abitanti  del  luogo,  fatti
    sgombrare,  e  ai  quali avevano concesso il permesso di passare.  Gli
    occhi di tutti i soldati si volsero alle  donne  e,  mentre  il  carro
    procedeva avanzando a passo rapido,  tutte le osservazioni dei soldati
    riguardavano soltanto le due giovani donne. Un sorriso quasi identico,
    che rivelava pensieri sconvenienti, errava sulla bocca di tutti...
    - Vedi un po', anche la salsiccia se ne va!
    - Vendimi la mamma!  -  disse un altro,  calcando sull'ultima sillaba,
    rivolgendosi al tedesco che, con gli occhi bassi, adirato e impaurito,
    camminava a grandi passi.
    - Com'è tutta in ghingheri, accidenti!
    - Che ne diresti, Fëdotov, di stare con loro?
    - Ne ho già viste tante, fratello!
    - Dove andate?  -  chiese un ufficiale di fanteria che stava mangiando
    una mela e guardava anch'egli con un mezzo sorriso la bella ragazza.
    Il tedesco, chiudendo gli occhi, significava di non capire.
    -  Vuoi?  Prendi!    -    disse  l'ufficiale,  porgendo  la  mela alla
    giovinetta.
    Ella sorrise e accettò.  Nesvitzkij,  come tutti coloro che erano  sul
    ponte,  non  distolse  lo  sguardo  dalle  donne sino a che non furono
    passate.  E,  quando furono passate,  vennero ancora e ancora  soldati
    simili agli altri, che facevano gli stessi discorsi, e alla fine, a un
    tratto, tutti si fermarono. Come spesso accade, all'uscita del ponte i
    cavalli  di  un  carro di compagnia si impuntarono e tutta la folla fu
    costretta ad aspettare.
    - Ma perché si fermano laggiù?  Che confusione!    -    esclamavano  i
    soldati.   -  Non spingere,  diamine!  Non puoi aspettare?  Sarà molto
    peggio  quando  "quello"  incendierà  il  ponte.   Guardate...   anche
    quell'ufficiale  non  riesce  a  passare...   -  si udiva dire da ogni
    parte da quella massa di uomini fermi,  che si guardavano l'un l'altro
    e premevano avanti verso l'uscita del ponte.
    Mentre  stava  chino  sulla  spalletta  a guardare le acque dell'Enns,
    Nesvitzkij udì a un tratto un rumore,  nuovo per  lui,  che  si  stava
    avvicinando rapidamente... il rumore di qualcosa di grosso che, con un
    tonfo fragoroso, cadesse nell'acqua.
    - Ma guarda dove mira!   -  disse severamente un soldato che gli stava
    vicino, volgendosi a quel rumore.
    La folla si mosse di nuovo.  Nesvitzkij capì che si era trattato di un
    proiettile.
    - Ehi,  cosacco,  dammi il cavallo!   -  disse.   -  E voi,  fatevi da
    parte. Largo! Largo!
    Con grande fatica raggiunse il cavallo. Senza smettere di gridare,  si
    spinse  avanti.  I soldati si serravano l'un contro l'altro per fargli
    strada,   ma  poi  di  nuovo  gli  si  strinsero  addosso,   tanto  da
    schiacciargli  una gamba.  I più vicini non ne avevano colpa,  giacché
    essi stessi venivano spinti dagli altri.
    - Nesvitzkij!  Nesvitzkij!  Tu qui,  brutto muso!   -  gridò alle  sue
    spalle una voce rauca.
    Nesvitzkij si voltò e vide,  a quindici passi di distanza, separato da
    lui dalla massa viva della  fanteria  che  avanzava,  Vaska  Denissov,
    rosso,  nero, arruffato, con il berretto sulla nuca e il "dolman" (18)
    spavaldamente gettato su una spalla.
    - Ordina tu a  questi  demoni  di  lasciarmi  passare!    -    gridava
    Denissov,  che  si  trovava  evidentemente  in  preda  a un accesso di
    furore,  sprizzando scintille dalle pupille nere come il  carbone  nel
    bianco  infiammato  degli  occhi,  e  agitando  la sciabola ancora nel
    fodero, che egli teneva con la piccola mano nuda, rossa come il viso.
    - Ehi, Vaska!  -  rispose gioiosamente Nesvitzkij.  -  Che fai?
    - Non si può far passare lo  squadrone    -    gridò  Vaska  Denissov,
    mostrando  rabbiosamente  i denti bianchi e spronando Beduino,  il suo
    bel purosangue morello che,  sbattendo le orecchie  sotto  le  punture
    delle  baionette contro le quali urtava,  sbuffava e gettava attorno a
    sé spruzzi di schiuma che gli usciva dal morso, scalpitando sulle assi
    del ponte, e sembrava pronto a saltare il parapetto,  se appena il suo
    cavaliere glielo avesse permesso.
    - Ma che fanno?  Montoni sembrano, niente altro che montoni! Indietro!
    Fate  largo!  Fermi  lì,  con  quel  carro,  diavolo...  Vi  prendo  a
    sciabolate, sapete...  -  sbraitava e, snudata la sciabola, cominciava
    a rotearla.
    I soldati,  con le facce spaventate,  si strinsero l'uno all'altro,  e
    Denissov riuscì ad avvicinarsi a Nesvitzkij.
    - Come mai oggi non sei brillo?   -   chiese  Nesvitzkij  a  Denissov,
    allorché questi gli fu accanto.
    -  Non ti danno nemmeno il tempo di bere!   -  rispose Vaska Denissov.
    -  Non fanno altro che trascinare il reggimento di qua e di là.  Se si
    deve combattere, ebbene, si combatta! Ma lo sa il diavolo che cosa sta
    succedendo adesso!
    -  Come  sei  elegante,  oggi!    -  osservò Nesvitzkij,  guardando il
    "dolman" nuovo e la gualdrappa del collega.
    Denissov sorrise,  cavò dalla tasca  della  sella  un  fazzoletto  che
    sparse  un'ondata  di  essenze  profumate e lo cacciò sotto il naso di
    Nesvitzkij.
    - Non si può fare diversamente: vado a battermi! Mi sono sbarbato,  mi
    sono lavato i denti e mi sono profumato!
    La figura imponente di Nesvitzkij,  accompagnato dal suo cosacco, e la
    decisione con cui Denissov roteava  la  sciabola  e  gridava  come  un
    dannato,  fecero sì che i due ufficiali riuscissero ad attraversare il
    ponte e a  fermare  la  fanteria.  Nesvitzkij  trovò  allo  sbocco  il
    colonnello  al  quale  doveva trasmettere l'ordine e,  compiuta la sua
    missione, tornò indietro.
    Dopo essersi aperta la via,  Denissov  si  fermò  in  capo  al  ponte.
    Trattenendo il suo stallone che si slanciava scalpitando verso i suoi,
    fissava  lo  squadrone  che  gli  veniva  incontro.  Le assi del ponte
    risonarono del limpido suono  degli  zoccoli  come  se  fossero  pochi
    cavalli  al  galoppo,  e  lo squadrone,  in fila per quattro,  con gli
    ufficiali  in  testa,  si  allungò  sul  ponte  e  cominciò  a  uscire
    dall'altra parte.
    I  fantaccini fermi,  ammassati presso il ponte con i piedi nel fango,
    osservavano gli ussari puliti ed  eleganti  che  passavano  davanti  a
    loro,  con  quel particolare senso di ostilità che sempre si manifesta
    quando si incontrano truppe appartenenti a corpi diversi.
    - Che giovanotti eleganti! Ma quelli vanno al Podnòvinskoe (19)!
    - A che servono costoro? Soltanto per far bella figura!
    - Fanteria, non sollevar polvere!  -  disse, scherzando,  un ussaro il
    cui cavallo, scalpitando, aveva fatto schizzare spruzzi di fango su un
    fantaccino.
    - Se tu avessi fatto due marce con lo zaino in spalla,  i tuoi alamari
    non sarebbero così lustri!   -  ribatté il fante,  togliendosi con  la
    manica il fango dalla faccia...   -  Non sei un uomo tu, ma un uccello
    a cavallo...
    - Eh,  Zikin,  se mettessero te su un cavallo,  saresti elegante anche
    tu!    -    esclamò un caporale,  rivolgendosi a uno sparuto soldatino
    curvo sotto il peso dello zaino.
    - Mettiti un bastone tra le gambe ed eccoti a cavallo!    -    scherzò
    l'ussaro, e si allontanò.


    CAPITOLO 8.

    Anche il resto della fanteria, stringendosi a imbuto in capo al ponte,
    lo percorreva a passo rapido.  Finalmente passarono tutti i carri,  la
    calca diminuì e l'ultimo battaglione si  accinse  all'attraversamento.
    Soltanto  gli  ussari  dello squadrone di Denissov restavano all'altra
    estremità,  di fronte al nemico che,  già visibile in lontananza dalle
    alture,   non   si   vedeva   ancora   dal  ponte  perché  l'orizzonte
    dell'avvallamento, in cui scorreva il fiume,  era limitato da un colle
    che  si  ergeva  a  non  più  di mezzo miglio di distanza.  Davanti si
    stendeva uno spazio libero,  nel quale si movevano pattuglie di nostri
    cosacchi in ricognizione. A un tratto, in cima all'altura opposta alla
    strada, comparvero truppe in cappotto turchino e pezzi di artiglieria.
    Erano i Francesi. Un drappello di cosacchi raggiunse al trotto i piedi
    del  monte.  Tutti  gli  ufficiali  e  i  soldati  dello  squadrone di
    Denissov,  sebbene cercassero di parlare di  cose  indifferenti  e  di
    guardare da una parte e dall'altra,  non cessavano di pensare a quanto
    stava accadendo là sulla montagna e continuamente volgevano lo sguardo
    alle macchie  azzurre  che  apparivano  all'orizzonte  e  nelle  quali
    riconoscevano  truppe  nemiche.  Il  tempo,  dopo mezzogiorno,  si era
    rimesso al bello, e il sole declinante dardeggiava i suoi ultimi raggi
    sul Danubio e sulle cupe montagne  circostanti.  Tutto  era  silenzio;
    solo a tratti giungevano,  da quell'altura,  i suoni delle trombe e le
    grida del nemico.  Tranne qualche pattuglia non c'era più nessuno  tra
    lo  squadrone  e  il  nemico;  li  separava  uno spazio vuoto di circa
    trecento "sagen" (20).  I Francesi avevano cessato di sparare e perciò
    si  avvertiva  più  chiaramente  la  vaga  esistenza  di  quella linea
    invisibile e minacciosa che separa due eserciti nemici.
    "A un passo al di là di quella linea,  che ricorda quella che divide i
    vivi  dai morti,  vi è l'ignoto,  la sofferenza,  la morte.  E che c'è
    laggiù,  al di là di quel campo,  di  quell'albero  e  di  quel  tetto
    illuminato dal sole?  Nessuno lo sa, eppure ognuno lo vorrebbe sapere:
    è terribile il pensiero di oltrepassare quella linea ma  nello  stesso
    tempo  si desidera oltrepassarla e non si ignora che,  presto o tardi,
    bisognerà farlo e rendersi conto di che cosa  c'è  di  là,  dall'altra
    parte,  come  si  dovrà inevitabilmente conoscere che cosa si nasconde
    oltre la morte... Eppure si è forti, sereni, sani, allegri ed eccitati
    e attorno a noi vi è gente sana, forte e ugualmente eccitata...". Così
    sente, se pur proprio non lo pensa,  ogni uomo di fronte al nemico,  e
    una  simile  sensazione  conferisce  a  tutto  ciò  che accade in quei
    momenti una forza particolare e una gioiosa intensità di impressioni.
    Sulla collina dov'era il nemico, apparve il fumo leggero di uno sparo,
    e un proiettile passò sibilando sopra  le  teste  degli  ussari  dello
    squadrone.   Gli  ufficiali,  che  erano  riuniti  in  un  gruppo,  si
    dispersero per tornare ai loro posti.  Gli ussari presero ad allineare
    con  cura  i  cavalli.   Nello  squadrone  tutto  taceva.  Gli  uomini
    guardavano dalla parte del nemico e verso il comandante,  in attesa di
    ordini.  Passarono  sibilando  un  secondo e un terzo proiettile.  Era
    evidente che il nemico mirava agli ussari;  ma la  granata,  sibilando
    con  rapidità  uniforme,  volava sopra le teste dei soldati e andava a
    cadere, chissà dove, alle loro spalle. Gli ussari non si voltavano ma,
    a ogni sibilo di proiettile che passava a volo,  tutti  insieme,  come
    obbedendo  a  un  comando,  con  le  facce  diverse  eppure  uniformi,
    trattenevano il respiro sino a che  il  proiettile  era  in  volo,  si
    rizzavano sulle staffe e poi ricadevano sulla sella.  I soldati, senza
    voltar  la  testa,  si  sbirciavano  a  vicenda,   osservando  curiosi
    l'espressione  dei compagni.  Su ogni faccia,  da quella di Denissov a
    quella del trombettiere,  affiorava attorno alle labbra e al mento  un
    tratto comune,  un'espressione di desiderio di lotta,  di eccitamento,
    di  impazienza.   Il  maresciallo  d'alloggio,   con  le  sopracciglia
    aggrottate,  guardava  i  soldati,  come  se  minacciasse  un castigo.
    L'alfiere Mironov si curvava sul cavallo al passaggio di ogni granata.
    Rostòv,  che stava sul  fianco  sinistro  in  groppa  al  suo  Gracik,
    azzoppato  ma  sempre  imponente,  aveva  l'espressione  felice di uno
    scolaro chiamato a  sostenere  un  esame  alla  presenza  di  un  gran
    pubblico, esame in cui è sicuro di far bella figura. Con occhi limpidi
    e  tranquilli,  guardava  tutti  come  se  chiedesse  attenzione  alla
    perfetta calma con cui si comportava sotto i proiettili.  Ma anche sul
    suo  viso appariva,  suo malgrado,  attorno alla bocca,  quel medesimo
    segno di un certo non so che di nuovo e di severo.
    - Chi è che s'inchina laggiù? Alfiere Mironov, non sta bene fare così!
    Guardate verso di me!  -  gridò Denissov,  che non poteva star fermo e
    si agitava sul suo cavallo davanti allo squadrone.
    Il  volto  camuso  e  scuro  di  Vaska Denissov,  tutta la sua piccola
    persona arruffata,  le mani dalle vene sporgenti e dalle dita corte  e
    coperte  di  peli  con  cui stringeva l'elsa della sciabola sguainata,
    erano quasi quelli di sempre, specialmente verso sera,  dopo che aveva
    bevuto  un  paio  di  bottiglie.  Era soltanto più rosso del solito e,
    traendo indietro la testa come  fanno  gli  uccelli  quando  bevono  e
    cacciando  senza pietà con i piccoli piedi gli speroni nei fianchi del
    suo docile Beduino, galoppò, con il busto piegato all'indietro,  verso
    l'altro  fianco  dello  squadrone  e  ordinò  con  voce  rauca  che si
    esaminassero accuratamente le  pistole.  Si  avvicinò  a  Kirsten.  Il
    capitano in seconda gli venne incontro,  al passo,  sulla sua giumenta
    dall'ampia groppa.  Il capitano dai lunghi baffi  era  serio  come  di
    consueto; soltanto gli occhi gli brillavano più del solito.
    - Non credo  -  disse a Denissov  -  che arriveremo a batterci. Vedrai
    che torneremo indietro.
    -  Lo  sa  il diavolo che cosa fanno!   -  brontolò Denissov.   -  Ah,
    Rostòv  -    gridò  rivolto  al  giovane  alfiere,  notando  l'allegra
    espressione del suo viso.  -  Ci sei arrivato, eh?
    E gli rivolse un sorriso di approvazione,  compiacendosi evidentemente
    del contegno del giovane. Rostòv si sentì completamente felice.
    In quel momento comparve sul ponte il colonnello comandante.  Denissov
    gli galoppò incontro.
    - Eccellenza, date ordine di attaccare! Li metteremo in fuga.
    -  Ma  che  attaccare!    -   rispose il comandante con voce annoiata,
    facendo una smorfia come per scacciare una mosca importuna.  -  Perché
    siete qui,  voi?  Non vedete che gli  esploratori  si  ritirano?  Fate
    ripiegare lo squadrone!
    Lo  squadrone  riattraversò il ponte e si allontanò dalla zona battuta
    dal nemico,  senza aver perduto un solo  uomo.  Lo  seguì  il  secondo
    squadrone  che  era  agli  avamposti,  e infine le ultime pattuglie di
    cosacchi abbandonarono quella riva del fiume.
    I due squadroni  di  Pàvlograd,  dopo  avere  attraversato  il  ponte,
    risalirono, uno dopo l'altro, sulla montagna. Il colonnello comandante
    Karl  Bogdanyc'  Schubert  si  avvicinò  allo  squadrone di Denissov e
    proseguì al passo,  a breve distanza da Rostòv,  senza fare la  minima
    attenzione  a  lui  sebbene,  dopo  il  loro  scontro  a  proposito di
    Teljanin,  fosse quella la prima volta che si vedevano.  E ora Rostòv,
    che  lì  al  fronte  si sentiva in potere di quell'uomo verso il quale
    sapeva di essere colpevole,  non distoglieva gli occhi  dalla  schiena
    atletica,  dalla  nuca  bionda  e dal collo rosso del comandante.  Ora
    pareva a Rostòv che Bogdanyc' fingesse  soltanto  indifferenza  e  che
    avesse come unico scopo di mettere alla prova il suo coraggio e allora
    si  raddrizzava  in  sella e si guardava allegramente attorno;  ora si
    immaginava che Bogdanyc' gli cavalcasse a bella posta accanto soltanto
    per mostrargli il proprio ardimento,  ora pensava che  il  suo  nemico
    avrebbe  lanciato  lo  squadrone  in  attacco  disperato,  proprio con
    l'intenzione di punire lui,  Rostòv;  e ora,  infine,  si figurava che
    dopo  l'attacco  il  colonnello gli si sarebbe avvicinato per stendere
    generosamente la mano a lui, ferito, in segno di riconciliazione.
    Zerkòv,  la cui aitante figura era ben conosciuta  nel  reggimento  di
    Pàvlograd, che da poco aveva lasciato, si avvicinò al colonnello. Dopo
    il  suo  allontanamento  dallo  stato  maggiore,  Zerkòv  non  era più
    ritornato al reggimento,  dicendo di non essere tanto sciocco da voler
    tirare  la  carretta  al  fronte  quando,  stando allo stato maggiore,
    avrebbe potuto senza far nulla ricevere un maggior  compenso,  ed  era
    riuscito   a  farsi  nominare  ufficiale  di  ordinanza  del  principe
    Bagratiòn (21).  Veniva ora dal suo ex-superiore  con  un  ordine  del
    comandante della retroguardia.
    - Colonnello,   -  disse con cupa serietà, rivolto al nemico di Rostòv
    e guardando i colleghi  -  l'ordine è di fermarsi e di  incendiare  il
    ponte.
    - Chi ha dato quest'ordine?  -  chiese il colonnello con fare burbero.
    - Io non so "chi abbia dato l'ordine"  -  rispose l'ufficiale; ma a me
    il  principe ha ordinato: "Va' a dire al colonnello di far retrocedere
    immediatamente gli ussari e di incendiare il ponte"
    Dopo Zerkòv, si presentò al colonnello degli ussari un altro ufficiale
    del séguito con lo stesso  ordine.  E,  subito  dopo,  su  un  cavallo
    cosacco  che  a  stento  lo  portava  al  galoppo,  arrivò  il  grosso
    Nesvitzkij.
    - Ma come, colonnello?  -  gridò mentre ancora galoppava.  -  Vi avevo
    detto di  incendiare  il  ponte...  e  adesso  qualcuno  ha  travisato
    l'ordine. Laggiù tutti sembrano impazziti e non si capisce più nulla.
    Il  colonnello,  senza  affrettarsi,  fermò  il  reggimento  e disse a
    Nesvitzkij:
    - Mi avete parlato di materie infiammabili,  ma non mi  avete  affatto
    detto di incendiare il ponte.
    -  Ma  come,  mio  caro  -  esclamò Nesvitzkij,  dopo essersi fermato,
    levandosi il berretto e lisciandosi con la mano grassoccia  i  capelli
    umidi  di  sudore;    -   come posso non avervi detto di incendiare il
    ponte, dato che vi è stato messo il materiale infiammabile?
    - Io, per voi, non sono affatto "mio caro",  signor ufficiale di stato
    maggiore,  e voi non mi avete detto di incendiare il ponte! Conosco il
    servizio e l'abitudine di eseguire rigorosamente gli ordini. Voi avete
    detto  che  il  ponte  sarebbe  stato  incendiato,   ma  chi   dovesse
    incendiarlo non lo potevo sapere dallo Spirito Santo...
    - Già, sempre così  -  disse Nesvitzkij, facendo un gesto con la mano.
    -  E tu, come mai sei qui?  -  proseguì, rivolto a Zerkòv.
    -  Per  lo  stesso  motivo.  Ma  tu sei tutto bagnato,  addirittura da
    torcere...
    -  Voi  avete  detto,  signor  ufficiale  di  stato  maggiore...     -
    continuava il colonnello in tono offeso.
    -  Colonnello,    -  lo interruppe l'ufficiale del séguito  -  bisogna
    far presto,  se no il nemico spingerà avanti i cannoni per  sparare  a
    mitraglia!
    Il colonnello,  senza aprire bocca, guardò l'ufficiale del séguito, il
    grosso  ufficiale  di  stato  maggiore  e  Zerkòv,   e   aggrottò   le
    sopracciglia.
    - Darò fuoco al ponte!   -  esclamò con voce solenne,  come se con ciò
    volesse significare che,  nonostante  le  noie  che  gli  procuravano,
    avrebbe ugualmente compiuto il proprio dovere.
    Battendo  con le lunghe gambe muscolose il cavallo,  come se l'animale
    fosse colpevole di tutto,  il colonnello si spinse davanti al  secondo
    squadrone,  quello  stesso in cui prestava servizio Rostòv agli ordini
    di Denissov e comandò di tornare indietro verso il ponte.
    "Sì, è così" pensò Rostòv. "Vuol mettermi alla prova!".
    Il cuore gli si strinse e il sangue gli salì al viso. "Sia pure; vedrà
    che non sono un vigliacco!".
    E di nuovo sulle facce allegre degli uomini dello squadrone  riapparve
    quell'espressione  seria di quando si erano trovati a portata del tiro
    francese.  Rostòv,  senza distogliere gli occhi,  guardava il  proprio
    nemico, il colonnello comandante, con il desiderio di vedere sul volto
    di lui la conferma delle proprie supposizioni; ma il colonnello non si
    voltò  neppure  un attimo verso Rostòv e come sempre,  quando era alla
    testa dei suoi uomini,  aveva uno sguardo severo e solenne.  Risonò un
    ordine.
    - Presto! Presto!  -  esclamarono alcune voci accanto a lui.
    Impigliandosi  con  le  sciabole  nelle briglie e affrettandosi tra un
    tintinnar di speroni,  gli ussari smontavano da cavallo  senza  sapere
    quali  ordini  dovessero  eseguire e si facevano il segno della croce.
    Rostòv ormai non guardava più il colonnello: non aveva tempo.  Temeva,
    con uno stringimento di cuore, di restare indietro dai suoi uomini. La
    mano  gli  tremava mentre dava le briglie all'attendente e sentiva che
    il sangue  gli  affluiva  al  cuore  a  ondate.  Denissov,  piegandosi
    all'indietro e gridando qualcosa, gli passò accanto. Rostòv non vedeva
    nulla  oltre agli ussari che si agitavano attorno a lui,  inceppandosi
    negli speroni e facendo tintinnare le sciabole.
    - Una barella!  -  gridò una voce alle sue spalle.
    Rostòv non pensò, lì per lì, che cosa significasse la richiesta di una
    barella;  correva e cercava soltanto di  essere  avanti  a  tutti,  ma
    proprio  all'imbocco  del  ponte,  non  avendo guardato dove metteva i
    piedi, finì nel fango viscido e pestacchiato,  inciampò e cadde con le
    mani avanti. Gli altri lo sorpassarono.
    -  Da  tutt'e due le parti,  capitano!   -  sentì risonare la voce del
    colonnello comandante che,  cavalcando avanti,  si era fermato a breve
    distanza dal ponte, con un'espressione di gaiezza e di trionfo.
    Rostòv,  pulendosi sui calzoni le mani imbrattate di fango, si voltò a
    guardare il suo nemico e volle correre avanti,  supponendo che  quanto
    più  riusciva ad avanzare,  tanto meglio sarebbe stato.  Ma Bogdanyc',
    pur senza averlo né guardato né riconosciuto, gridò:
    - Chi è che corre in mezzo al ponte? A destra, alfiere!  Indietro!   -
    urlò  furioso,  e  si  volse  a Denissov il quale,  per far mostra del
    proprio coraggio, si era spinto a cavallo sin sulle assi del ponte.
    - Perché arrischiare così, capitano? Sarebbe meglio che smontaste!   -
    disse il colonnello.
    -  Eh,  quello  trova  sempre  un  capro espiatorio  -  borbottò Vaska
    Denissov, e rimase in sella.
    Frattanto Nesvitzkij,  Zerkòv e l'ufficiale  del  séguito  stavano  in
    gruppo  fuori  dal tiro nemico e guardavano ora quel piccolo gruppo di
    uomini dal chepì  giallo,  tunica  verde  scuro,  alamari  ricamati  e
    calzoni  azzurri  che  s'agitavano  presso il ponte,  ora,  dall'altra
    parte, i cappotti turchini che avanzavano,  in lontananza,  e i gruppi
    di uomini e cavalli ch'era facile riconoscere come artiglieri.
    "Daranno o non daranno fuoco al ponte? Chi arriverà prima? Arriveranno
    in   tempo   i  nostri  incendiari  o  i  Francesi  avanzeranno  e  li
    annienteranno a colpi di mitraglia?".  Erano queste  le  domande  che,
    loro  malgrado,  si  ponevano con il cuore stretto tutti quei soldati,
    raccolti in massa e che nella chiara luce della  sera  osservavano  il
    ponte e gli ussari e, sull'opposta riva, i cappotti turchini avanzanti
    con le baionette e i cannoni.
    - Ahi!  Gli ussari passeranno un brutto momento!  -  disse Nesvitzkij.
    -  Ormai stanno per essere a un tiro di mitraglia!
    - E' stato male mandarci tanta gente!   -    osservò  l'ufficiale  del
    séguito.
    -  Infatti  bastavano  due  uomini  in gamba: sarebbe stato lo stesso-
    riprese Nesvitzkij.
    - Ah, eccellenza,   -  intervenne Zerkòv,  senza distogliere gli occhi
    dagli  ussari,  ma  sempre  con  quel  suo  tono ingenuo dal quale era
    difficile capire se parlasse seriamente o no.  -  Ah, eccellenza,  che
    dite?  Mandare  due  uomini?  Ma  chi  allora  ci  darebbe la croce di
    Vladimiro?  Così,  anche se le prenderanno,  si potrà sempre  proporre
    tutto  lo squadrone per una decorazione e ottenere per sé un nastrino.
    Il nostro Bogdanyc' sa quello che fa.
    - Ehi  -  disse l'ufficiale del séguito  -  questa è  mitraglia!-    E
    indicò  i  cannoni  francesi  che  venivano staccati dagli avantreni e
    portati rapidamente innanzi.
    Dalla  parte  dei  Francesi,  nei  gruppi  dove  stavano  i  pezzi  di
    artiglieria,  apparve  un fiocco di fumo e quasi contemporaneamente un
    secondo e un terzo e,  nel momento in cui si udiva il rombo del  primo
    colpo  ne  apparve  un  quarto.  Poi  si udirono due scoppi,  uno dopo
    l'altro; infine, un terzo.
    - Oh!   -  gridò Nesvitzkij come se avesse provato  un  acuto  dolore,
    afferrando per un braccio l'ufficiale del séguito.  -  Guardate, uno è
    caduto... è caduto...
    - Due, mi pare...
    - Se fossi io lo zar, non farei mai la guerra  -  dichiarò Nesvitzkij,
    volgendosi dall'altra parte.
    Intanto i cannoni francesi venivano ricaricati in fretta. La fanteria,
    in cappotto turchino, avanzava di nuovo correndo verso il ponte. E, di
    nuovo, a intervalli diversi, riapparvero le nuvolette di fumo, e colpi
    di mitraglia investirono crepitando il ponte dal quale si levò un fumo
    densissimo.  Ora Nesvitzkij non poteva più vedere ciò che accadeva sul
    ponte. Gli ussari erano riusciti a incendiarlo, e le batterie francesi
    sparavano su di loro,  non già per impedire  che  compissero  la  loro
    opera,  ma  perché i pezzi erano stati caricati e dovevano pur sparare
    su un obiettivo.
    I Francesi riuscirono a sparare altri tre colpi prima che  gli  ussari
    tornassero ai loro cavalli.  Due di questi colpi andarono a vuoto e la
    mitraglia passò oltre,  ma l'ultima scarica cadde in mezzo  al  gruppo
    degli ussari e ne atterrò tre.
    Rostòv,  preoccupato  dei  suoi  rapporti con Bogdanyc',  si fermò sul
    ponte,  non sapendo che cosa fare.  Non c'era  nessuno  da  sciabolare
    (come  egli si era sempre immaginato di dover fare in combattimento) e
    non poteva neppure aiutare a incendiare  il  ponte  poiché  non  aveva
    preso con sé, come gli altri soldati, la paglia attorcigliata. Ritto e
    immobile,  si  guardava  attorno  allorché  sul  ponte  si udì come un
    crepitio di nocciuole e uno degli ussari,  quello che  gli  stava  più
    vicino, cadde con un gemito sul parapetto. Rostòv accorse, insieme con
    altri,  verso di lui. Di nuovo qualcuno gridò: "Una barella!". Quattro
    uomini afferrarono l'ussaro e lo sollevarono.
    - Oooh!... Lasciatemi stare,  in nome di Cristo!   -  gridò il ferito;
    ma lo tirarono su ugualmente e lo stesero sulla barella.
    Nikolàj Rostòv si voltò dall'altra parte e, come se cercasse qualcosa,
    prese a guardare lontano, l'acqua del Danubio, il cielo, il sole! Come
    gli parve bello, azzurro, calmo e profondo il cielo! Come splendente e
    fulgido  il  sole  che  tramontava!  Come lucenti le acque azzurre del
    Danubio lontano!  E ancora più  belli  i  monti  azzurrognoli  laggiù,
    dietro il fiume, e il monastero, e le gole misteriose, e le foreste di
    abeti  velate  di  nebbia  sino  alle cime.  Là tutto era silenzioso e
    felice...  "Nulla,  null'altro io desidererei,  se io fossi laggiù..."
    pensava Rostòv.  "In me e in questo sole c'è tanta felicità,  e qui...
    gemiti,  sofferenze,  paure e questa incertezza  angosciosa  e  questa
    fretta...  Ecco,  gridano di nuovo qualcosa e di nuovo tutti corrono e
    io correrò con gli altri ed ecco... ecco, la morte è su di me, attorno
    a me...  Un attimo,  e io non vedrò mai più questo sole,  quest'acqua,
    queste gole...".
    In  quel  momento  il  sole  cominciò  a nascondersi dietro le nuvole;
    davanti a Rostòv comparvero altre barelle.  E le barelle,  il  terrore
    della  morte,  l'amore per il sole e per la vita,  tutto si confuse in
    un'unica sensazione di angosciosa inquietudine.
    "Signore Iddio, Tu che sei nel cielo, salvami, perdonami, proteggimi!"
    mormorò il giovane.
    Gli ussari raggiunsero i cavalli,  le voci si fecero più sonore e  più
    calme, le barelle scomparvero alla vista.
    -  Ebbene,  amico,  hai  sentito l'odore della polvere?   -  gli gridò
    all'orecchio la voce di Vaska Denissov.
    "Tutto è finito, ma io sono un vile, sì sono un vile!" pensò Rostòv e,
    sospirando profondamente,  prese dalle mani dell'attendente le briglie
    di Gracik e rimontò in sella.
    - Era mitraglia?  -  chiese a Denissov.
    - E che razza di mitraglia!  -  rispose gridando Denissov.  -  Abbiamo
    lavorato  con  coraggio...  ma che po' po' di lavoro!  La carica è ben
    altra cosa: tiri sciabolate a quei cani ma qui,  lo sa il diavolo  che
    roba è... pare di essere al bersaglio.
    E  Denissov  si  allontanò  dirigendosi  verso  il  gruppo formato dal
    colonnello comandante,  da Nesvitzkij,  da Zerkòv e dall'ufficiale del
    séguito.
    "Eppure  credo  che  nessuno  se  ne  sia accorto..." pensò Rostòv.  E
    infatti nessuno si era accorto di nulla,  perché a tutti era  nota  la
    sensazione provata dal giovane alfiere che non era mai stato al fuoco.
    -  Ci  sarà  un  bel  rapporto  e  io,  sta'  a vedere,  sarò promosso
    sottotenente!  -  disse Zerkòv.
    - Riferite al principe Bagratiòn  che  ho  incendiato  il  ponte!    -
    dichiarò il colonnello con aria solenne e soddisfatta.
    - E se sarò interrogato sulle perdite subite?
    - Inezie!  -  rispose sottovoce il colonnello.  -  Due ussari feriti e
    uno ucciso sul colpo...   -  aggiunse con evidente gioia,  incapace di
    trattenere un sorriso felice,  pronunziando con voce chiara le parole:
    "ucciso sul colpo".


    CAPITOLO 9.

    Inseguito  da  un  esercito  francese di centomila uomini comandato da
    Bonaparte,   accolto  ostilmente  dalla  popolazione  dei  paesi   che
    attraversava,  senza  più  fiducia  nei propri alleati,  provato dalla
    mancanza di viveri,  e costretto ad agire fuori  di  ogni  prevedibile
    condizione di guerra,  l'esercito russo di trentacinquemila uomini, al
    comando di Kutuzòv,  indietreggiava rapidamente a valle  del  Danubio,
    fermandosi soltanto là dov'era raggiunto dal nemico e difendendosi con
    azioni  di  retroguardia quanto era indispensabile per ritirarsi senza
    perdere i carriaggi. Erano avvenuti scontri a Lambach,  ad Amstetten e
    a Melk; ma, nonostante il coraggio e la saldezza di cui i Russi davano
    prova,  riconosciuti  dallo  stesso  nemico contro il quale i Russi si
    battevano,  i risultati di quei fatti d'arme si  riassumevano  in  una
    ritirata sempre più rapida.  Le truppe austriache, che avevano evitato
    la capitolazione sotto Ulma e che presso  Braunau  si  erano  unite  a
    Kutuzòv,  si  erano  poi  separate  dall'esercito russo,  e Kutuzòv si
    vedeva ridotto a disporre soltanto delle  sue  deboli  e  già  esauste
    forze. Non si poteva nemmeno più pensare a difendere Vienna. Invece di
    una  guerra  offensiva,  profondamente meditata secondo le leggi della
    nuova scienza strategica e il cui piano era stato consegnato a Kutuzòv
    dal Consiglio superiore  della  guerra  durante  il  suo  soggiorno  a
    Vienna, l'unico obiettivo quasi irraggiungibile che si presentasse ora
    al  generalissimo  russo  consisteva  nel congiungersi alle truppe che
    affluivano dalla Russia, senza permettere lo sfacelo del suo esercito,
    come era accaduto a Mack sotto Ulma.
    Il 28 ottobre,  Kutuzòv passò con il suo esercito sulla riva  sinistra
    del  Danubio e per la prima volta si fermò,  lasciando il fiume tra le
    sue truppe e  il  grosso  dell'esercito  francese.  Il  30  attaccò  e
    sconfisse la divisione Mortier (22) che si trovava sulla riva sinistra
    del  fiume.   In  quel  combattimento,   per  la  prima  volta  furono
    conquistati trofei:  una  bandiera,  alcuni  cannoni  e  due  generali
    nemici.  Per la prima volta, dopo due settimane di ritirata l'esercito
    russo si fermò e dopo il combattimento non  solo  rimase  padrone  del
    campo,  ma ricacciò indietro i Francesi.  Quantunque le truppe fossero
    mal equipaggiate,  lacere,  ridotte di un terzo a  causa  dei  soldati
    rimasti  indietro,  dei  caduti,  dei  feriti  e  dei  malati lasciati
    sull'altra sponda del Danubio  con  una  lettera  di  Kutuzòv  che  li
    raccomandava all'umanità del nemico, quantunque i grandi ospedali e le
    case   di  Krems  trasformate  in  altrettanti  ospedali  non  fossero
    sufficienti ad accogliere tutti i malati e i feriti,  nonostante tutto
    questo,  dico,  la  sosta  a  Krems e la vittoria riportata su Mortier
    avevano notevolmente rianimato le truppe.  In tutto l'esercito  e  nel
    quartiere   generale  circolavano  le  voci  più  liete,   per  quanto
    assolutamente false,  circa il supposto avvicinarsi di colonne  russe,
    circa  chi  sa  quale  vittoria  riportata  dagli austriaci e circa la
    ritirata di Bonaparte terrorizzato.
    Il principe Andréj si era trovato durante il combattimento accanto  al
    generale  austriaco  Schmidt  (23),  caduto in quello scontro.  Il suo
    cavallo era stato ferito e una pallottola aveva  scalfito  leggermente
    il  braccio  al  cavaliere.  Per  particolare favore del comandante in
    capo,  egli era stato incaricato  di  portare  la  notizia  di  quella
    vittoria  alla  corte  austriaca  che non si trovava già più a Vienna,
    minacciata dall'esercito francese,  ma a Brunn.  La stessa  notte  del
    combattimento,  agitato, ma non stanco (malgrado l'apparenza delicata,
    il principe Andréj poteva sopportare la stanchezza fisica molto meglio
    delle persone più robuste),  giunto a cavallo a Krems con il  rapporto
    di  Dochturov  (24)  a  Kutuzòv,  il  principe  Andréj fu spedito come
    corriere quella notte stessa a Brunn.  L'essere inviato come  corriere
    significava  allora,  per  un  ufficiale  russo,  un  gran passo nella
    carriera,  oltre alla sicura prospettiva di una ricompensa.  La  notte
    era scura, stellata; la strada si stagliava nera tra la neve caduta il
    giorno avanti,  quello della battaglia.  Ora rievocando le impressioni
    del combattimento trascorso,  ora immaginando lietamente l'impressione
    che avrebbe prodotto con l'annunzio della vittoria, ora ricordando gli
    addii  del  comandante  in  capo  e  dei colleghi,  il principe Andréj
    viaggiava in carrozza da posta, in preda ai sentimenti di un uomo che,
    dopo avere aspettato a  lungo,  abbia  finalmente  raggiunto  l'inizio
    della felicità desiderata.  Non appena chiudeva gli occhi,  gli pareva
    di riudire le scariche dei fucili,  il rombo delle cannonate,  che  si
    fondevano con il fragore delle ruote e la sensazione della vittoria. A
    tratti  si  figurava  i  Russi  in fuga e se stesso ucciso;  ma subito
    ritornava alla realtà,  felice come se per la prima  volta  venisse  a
    sapere che tutto ciò non era mai accaduto e che, al contrario, erano i
    Francesi che si erano dati alla fuga.  Riandava da capo con il ricordo
    a tutti i particolari  della  vittoria,  al  proprio  sereno  coraggio
    durante   il   combattimento   e   poi,    calmatosi,   riprendeva   a
    sonnecchiare....  Alla cupa notte stellata seguì  un  limpido  e  gaio
    mattino.  La neve si scioglieva al sole, i cavalli galoppavano rapidi,
    e a destra e a sinistra balenavano campi, foreste e villaggi,  nuovi e
    di aspetto diverso.
    A  una  delle  stazioni di posta egli raggiunse un convoglio di feriti
    russi. L'ufficiale che lo guidava,  sdraiato sul primo carro,  urlava,
    lanciando volgari ingiurie a un soldato.  In ognuno dei carri tedeschi
    traballanti sulla strada sassosa,  stavano sei e anche sette  od  otto
    feriti fasciati,  pallidi e sudici.  Alcuni di essi discorrevano (egli
    udì parlare in russo),  altri sbocconcellavano del pane,  i più  gravi
    tacevano  e  guardavano  con  il  dolce  interessamento  dei malati il
    corriere che passava al galoppo davanti a loro.
    Il principe Andréj ordinò di  fermare  il  convoglio  e  chiese  a  un
    soldato in quale azione fosse stato ferito.
    - Ieri l'altro sul Danubio  -  rispose il soldato.  Il principe Andréj
    trasse di tasca il borsellino e gli diede tre monete d'oro.
    - Per tutti  -  disse, volgendosi all'ufficiale che si avvicinava.   -
    Guarite presto, ragazzi!  -  aggiunse ai soldati.  -  C'è ancora molto
    da fare...
    -  Che  notizie  ci  sono,  signor  aiutante  di  campo?    -   chiese
    l'ufficiale, evidentemente desideroso di iniziare una conversazione.
    - Buone!...  Avanti!   -  gridò poi al postiglione il principe,  e  la
    carrozza proseguì al trotto.
    Era  ormai  buio  quando  il  principe  Andréj entrò a Brunn e si vide
    circondato dalle alte case, dalle luci delle botteghe,  delle finestre
    e  dei  lampioni,  dal  rumore  delle  ruote  delle  eleganti carrozze
    rotolanti sul selciato e da tutta quell'atmosfera di  grande,  animata
    città  che  esercita  sempre tanto fascino su un militare dopo la vita
    del campo.  Il principe Andréj,  malgrado la rapida corsa e  la  notte
    insonne,  appressandosi  al  palazzo  imperiale  si  sentiva  pieno di
    energia come il giorno innanzi,  e forse più.  Soltanto i  suoi  occhi
    brillavano  di  un  ardore  febbrile  e i pensieri si susseguivano con
    rapidità e chiarezza.  Gli si presentarono di nuovo al  vivo  tutti  i
    particolari del combattimento,  non più vaghi e confusi ma ben precisi
    nella sintetica  esposizione  che  mentalmente  stava  preparando  per
    l'imperatore Francesco. Al vivo gli si presentavano le domande che per
    caso  potevano essergli rivolte dall'imperatore e le risposte che egli
    avrebbe potuto dare.  Supponeva che l'avrebbero  subito  ammesso  alla
    presenza del sovrano.  Ma quando giunse al grande ingresso del palazzo
    gli  corse  incontro  un  funzionario  che,  riconosciuto  in  lui  un
    corriere, lo guidò a un'altra entrata.
    -  A  destra,  dopo  il  corridoio,  "Euer  Hochgeboren"  [25.  Vostra
    nobiltà],  troverete l'aiutante di campo di servizio  -  gli disse  il
    funzionario.  -  Egli vi condurrà dal ministro della guerra.
    L'aiutante  di  campo  in  servizio,  che  venne  incontro al principe
    Andréj,  lo pregò di aspettare e si recò  dal  ministro.  Dopo  cinque
    minuti  ritornò  e  molto  cortesemente  fece  passare davanti a sé il
    principe  Andréj  e  lo  condusse  attraverso  il  corridoio  sino  al
    gabinetto  di  lavoro del ministro della guerra.  L'aiutante di campo,
    con la sua estrema cortesia,  pareva volersi preservare  da  qualsiasi
    tentativo  di  familiarità  da parte dell'ufficiale russo.  Il gioioso
    sentimento,  da cui il principe Andréj era invaso,  andò  notevolmente
    affievolendosi  mentre  si  avvicinava  alla  porta  del gabinetto del
    ministro della guerra.  Si sentiva offeso,  e quel senso di offesa  si
    mutò nello stesso istante,  senza che egli se ne rendesse conto, in un
    senso di disprezzo che non aveva alcun fondamento.  Ma il suo  spirito
    pronto  e  vivace gli suggerì contemporaneamente il punto di vista che
    gli dava il diritto di disprezzare tanto l'aiutante di campo quanto il
    ministro.  "A costoro deve certo parere molto facile  conquistare  una
    vittoria  non  avendo  mai  annusato  l'odore  della polvere",  pensò.
    Socchiudendo gli occhi  con  aria  sprezzante,  entrò  lentamente  nel
    gabinetto  del ministro.  Il suo sentimento di disprezzo crebbe ancora
    quando vide il ministro che, seduto a un gran tavolo,  per i primi due
    minuti  non  prestò  alcuna  attenzione  a  colui che era entrato.  Il
    ministro teneva chinata la testa calva,  dalle tempia grigie,  tra due
    candele  di  cera  e  leggeva attentamente un foglio sul quale via via
    andava scrivendo annotazioni con la matita.  Finiva di  leggere  senza
    alzare il capo, quando si udì un rumore di passi e la porta si aprì.
    -  Prendete  e  trasmettete!    -  ordinò il ministro al suo aiutante,
    porgendogli una  carta  e  continuando  a  ignorare  la  presenza  del
    corriere.
    Il  principe Andréj ebbe l'impressione che fra tutte le cose di cui si
    occupava il ministro della  guerra,  le  operazioni  dell'esercito  di
    Kutuzòv  fossero  quasi prive di interesse o che,  per lo meno,  fosse
    necessario dare al corriere russo tale impressione. "Ma a me di queste
    cose non importa proprio nulla", pensò il principe. Il ministro smosse
    altre  carte,   le  ordinò  accuratamente  in  modo  che   i   margini
    combaciassero e alzò la testa. Aveva un volto energico e intelligente,
    ma  nel  preciso  momento  in  cui  si  volse verso il principe Andréj
    l'espressione intelligente e decisa di quel volto si trasformò, per un
    atto evidentemente volontario e cosciente: sulla sua faccia  si  fissò
    uno stupido,  artificioso sorriso che non cercava di nascondere la sua
    artificiosità,  il sorriso dell'uomo abituato  a  ricevere,  uno  dopo
    l'altro, molti postulanti.
    - Da parte del feldmaresciallo Kutuzòv?   -  chiese.   -  Spero che si
    tratti di buone notizie...  C'è stato uno  scontro  con  Mortier?  Una
    vittoria? Era tempo!
    Prese  il  dispaccio  che  era  a  suo  nome e cominciò a leggerlo con
    espressione di tristezza.
    - Ah,  mio Dio!  Mio Dio!  Schmidt,  che disgrazia!   -    esclamò  in
    tedesco.  -  Che disgrazia! Che disgrazia!
    Dopo  aver  scorso  con  gli occhi il dispaccio,  lo pose sul tavolo e
    guardò il principe Andréj, riflettendo evidentemente su qualche cosa.
    - Ah, che disgrazia!   -  ripeté.   -  L'azione voi dite,  che è stata
    decisiva? ("Tuttavia Mortier non è stato fatto prigioniero" rifletté).
    Sono  molto  lieto  che abbiate portato buone notizie,  sebbene questa
    vittoria sia stata pagata assai cara con  la  morte  di  Schmidt.  Sua
    maestà  vorrà  certo vedervi,  ma non oggi.  Grazie,  andate intanto a
    riposarvi. Domani, dopo la rivista,  trovatevi all'uscita.  Del resto,
    vi farò avvertire.
    Lo  stupido  sorriso,  scomparso  mentre parlava,  tornò a sfiorare il
    volto del ministro della guerra.
    - Arrivederci, vi ringrazio molto. Sua maestà l'imperatore vorrà certo
    vedervi  -  ripeté, e abbassò il capo in segno di saluto.
    Quando il principe Andréj fu  uscito  dal  palazzo,  sentì  che  tutto
    l'interesse  e  tutto  il giubilo suscitati dalla vittoria erano stati
    consegnati ed erano rimasti nelle mani indifferenti del ministro della
    guerra e del suo cortese aiutante.  Il corso dei  suoi  pensieri  mutò
    istantaneamente:  la  battaglia  gli  parve  un ricordo di un lontano,
    lontanissimo tempo.


    CAPITOLO 10.

    Il principe Andréj si fermò a Brünn  in  casa  di  un  conoscente:  il
    diplomatico russo Bilibin.
    - Ah,  mio caro principe,  non potrei accogliere un ospite più gradito
    -  disse Bilibin,  andandogli incontro.   -   Franz,  le  valigie  del
    principe  in  camera  mia    -  aggiunse rivolgendosi al domestico che
    aveva introdotto Bolkonskij.  -  Dunque, principe, siete messaggero di
    vittoria? Benissimo. E io, come vedete, sono malato...
    Il principe Andréj,  dopo essersi lavato e dopo avere cambiato  abito,
    entrò  nell'elegante  studio del diplomatico e prese posto alla tavola
    apparecchiata per il pranzo.  Bilibin sedette tranquillamente  davanti
    al camino.
    Il principe, che dopo il viaggio e specialmente dopo tutte le campagne
    era  stato  privo  di  qualsiasi  comodità  di  pulizia o di eleganza,
    provava ora una gradevole sensazione di riposante  benessere  tra  gli
    agi  di quella vita di lusso alla quale era avvezzo sin dall'infanzia.
    Gli  era  molto  gradito,   dopo  l'accoglienza  austriaca  di  potere
    discorrere,  sia pure non in russo (essi parlavano in francese) con un
    compatriota il  quale  condivideva  molto  probabilmente  la  generale
    avversione  (  in  quel  periodo  particolarmente sentita) che tutti i
    Russi nutrivano per gli Austriaci.
    Bilibin era uno  scapolo  sui  trentacinque  anni,  appartenente  allo
    stesso  ceto  sociale  del  principe  Andréj.  Si  conoscevano  sin da
    Pietroburgo,   ma  si  erano  molto  avvicinati  specialmente  durante
    l'ultimo  soggiorno del principe Andréj con Kutuzòv a Vienna.  Come il
    principe Andréj prometteva di andare lontano nella carriera  militare,
    così,  e  ancor  più,  Bilibin  prometteva di salire anche più in alto
    nella diplomazia.  Era un uomo ancor giovane,  ma non più  un  giovane
    diplomatico,  giacché,  incominciata  la  carriera a sedici anni,  era
    stato a Parigi e a Copenhagen e ora, a Vienna, occupava un posto molto
    importante.  Il cancelliere e  il  nostro  ambasciatore  a  Vienna  lo
    conoscevano  e  ne  avevano  grande  stima.  Egli  non era uno di quei
    diplomatici così numerosi che,  per essere ottimi  diplomatici,  hanno
    l'obbligo  di  avere  soltanto  qualità  negative,  di  non fare certe
    determinate cose e di saper parlare in francese;  egli era uno di quei
    diplomatici  che  amano  e  sanno  lavorare cosicché,  malgrado la sua
    pigrizia,  passava talvolta intere notti a tavolino.  Lavorava  sempre
    bene,  qualunque  fosse  la  natura del lavoro.  Non lo interessava la
    domanda:  "Perché?"  ma  soltanto  la  domanda:   "Come?".   Gli   era
    indifferente in che cosa consistesse l'affare diplomatico,  ma provava
    un vivo piacere nello stendere in breve tempo con abilità ed  eleganza
    una circolare, un promemoria o un rapporto. Bilibin era apprezzato non
    solo  in  quanto era abile nello scrivere,  ma anche per l'arte con la
    quale sapeva comportarsi nell'ambiente delle "alte sfere".
    Bilibin amava la conversazione quanto amava il lavoro,  soltanto  però
    quando  essa poteva essere elegante e spiritosa.  In società aspettava
    sempre l'occasione opportuna per dire qualcosa di notevole e  solo  in
    questo  caso  prendeva  parte  al  discorso.  La sua conversazione era
    sempre  costellata  di  frasi  originali,  spiritose,  eleganti  e  di
    interesse  generale,  che venivano preparate nel laboratorio intimo di
    Bilibin,  composte espressamente in modo accessibile anche alla  gente
    mediocre  affinché  potessero essere facilmente ricordate e portate da
    un salotto all'altro.  E infatti "les mots de Bilibine se colportaient
    dans  les  salons de Vienne" [26.  Le battute di Bilibin si ripetevano
    nei salotti di Vienna],  come si diceva,  e spesso avevano effetto sui
    cosiddetti affari importanti.
    Il suo volto magro,  stanco,  giallognolo,  era tutto solcato da rughe
    profonde che apparivano sempre lavate e pulite accuratamente  come  la
    punta delle dita dopo un bagno. La mobilità di quelle rughe costituiva
    il  gioco  principale  della sua fisionomia.  Ora gli si increspava la
    fronte in grandi pieghe e le sopracciglia si alzavano,  ora queste  si
    abbassavano e attorno alle guance si formavano grosse rughe. Gli occhi
    piccoli, profondamente infossati, avevano uno sguardo diritto e sempre
    gaio.
    - Suvvia, raccontatemi ora le vostre gesta  -  disse all'ospite.
    Bolkonskij con molta modestia, parlando pochissimo di sé, descrisse il
    combattimento vittorioso e l'accoglienza del ministro della guerra.
    -  "Ils  m'ont  recu  avec ma nouvelle,  comme un chien dans un jeu de
    quilles" [27. Mi hanno ricevuto,  con la mia notizia,  come un cane in
    chiesa]  -  concluse.
    Bilibin sorrise e le rughe del suo volto si spianarono alquanto.
    -  "Cependant,  mon  cher",    -    rispose,  osservandosi  a distanza
    un'unghia e arricciando la pelle sopra l'occhio sinistro  -    "malgré
    la haute estime que je professe pour" gli ortodossi combattenti russi,
    "j'avoue  que  votre  victoire  n'est  pas des plus victorieuses" [28.
    Tuttavia,  mio caro,  nonostante l'alta stima che professo per  (...),
    confesso che la vostra vittoria non è delle più vittoriose].
    Continuò  poi  a  parlare  in  francese,  dicendo in russo soltanto le
    parole alle quali voleva dare un significato spiccatamente sprezzante.
    - Ma come?  Siete piombato con tutto il peso della  vostra  massa  sul
    povero Mortier,  che aveva soltanto una divisione, e questo Mortier ve
    lo siete lasciato sfuggire? Dov'è dunque la vittoria?
    - Tuttavia, parlando seriamente, possiamo dire senza vanteria, di aver
    fatto qualcosa di meglio di quanto si fece a  Ulma    -    rispose  il
    principe Andréj.
    - Perché non avete fatto prigioniero un maresciallo, almeno uno?
    - Perché in battaglia non tutto avviene come si vorrebbe e non in modo
    così  regolare  come  in  una rivista.  Noi contavamo,  come già vi ho
    detto,  di trovarci alle spalle del nemico alle sette antimeridiane  e
    non vi eravamo arrivati neppure alle cinque pomeridiane.
    -  E  perché  non  siete  arrivati  alle sette del mattino?  Bisognava
    arrivare  -    disse  Bilibin  sorridendo.    -    Bisognava  arrivare
    assolutamente a quell'ora!
    - E perché non avete suggerito al Bonaparte,  per via diplomatica, che
    avrebbe fatto meglio a lasciar Genova?   -  disse sullo stesso tono il
    principe Andréj.
    -  Lo  so  -  interruppe Bilibin.   -  Voi pensate che l'effettuare la
    cattura di un maresciallo è molto facile standosene seduti  su  di  un
    divano  davanti  al  caminetto.  Verissimo;  tuttavia perché non avete
    preso Mortier?  E non dovete meravigliarvi se non soltanto il ministro
    della  guerra  ma  anche  l'augusto  imperatore  e re Francesco non si
    mostrerà entusiasta per la  vostra  vittoria.  E  neppure  io,  povero
    segretario dell'ambasciata russa, provo alcuna gioia particolare...
    Guardò  diritto  negli  occhi  il principe Andréj e subitamente la sua
    fronte si coprì di rughe.
    - Ora tocca a me, mio caro, chiedervi: "Perché?"  -  disse Bolkonskij.
    -  Vi confesso che non capisco;  può darsi che qui  entrino  in  gioco
    certe  finezze  diplomatiche  che  sono  al di sopra della mia modesta
    intelligenza, ma non capisco; Mack perde un'intera armata;  l'arciduca
    Ferdinando  e  l'arciduca  Carlo  (29)  non  danno  segno  di  vita  e
    commettono errori sopra errori;  alla fine  il  solo  Kutuzòv  riporta
    un'autentica  vittoria,  spezza  lo  "charme" [30.  l'incantesimo] dei
    Francesi,  e il ministro della guerra  non  si  interessa  neppure  di
    conoscere i particolari di questa vittoria!
    - Proprio per questo,  mio caro. "Voyez-vous, mon cher"; evviva per lo
    zar, per la Russia, per la fede! "Tout ca est bel et bon" [31. Vedete,
    mio caro; tutto ciò è bello e buono], ma che importa a noi, alla corte
    austriaca, intendo dire,  che importa delle vostre vittorie?  Recateci
    la  bella  notizia  di  una  vittoria  dell'arciduca  Ferdinando,  "un
    archiduc vaut l'autre" [32. Un arciduca vale l'altro] come sapete, sia
    pure la vittoria in un combattimento sopra una compagnia  di  pompieri
    di  Buonaparte,  e  allora  sarebbe  un'altra faccenda: faremmo magari
    sparare i cannoni a  salve.  Ma  questa  vostra  vittoria  pare  fatta
    apposta  per  canzonarci.  L'arciduca  Carlo non fa nulla,  l'arciduca
    Ferdinando si copre  di  vergogna.  Voi  abbandonate  Vienna,  non  la
    difendete  più  "comme si vous nous disiez" [33.  Come se ci diceste]:
    "Dio è con noi,  e andate con Dio voi e la vostra capitale!".  Avevamo
    un generale al quale tutti volevano bene,  Schmidt;  lo esponete sotto
    il tiro nemico  e  poi  ci  fate  i  rallegramenti  per  la  vittoria!
    Confessate  che  non  si  poteva  trovare nulla di più irritante della
    notizia che avete portato. "C'est comme un fait exprès,  comme un fait
    exprès!" [34.  Pare fatto apposta, pare fatto apposta!]. Inoltre anche
    se aveste riportato una vittoria splendida,  anche se l'arciduca Carlo
    vi  avesse  contribuito,  che cosa sarebbe mutato nell'andamento della
    guerra?  E' ormai troppo tardi,  adesso che Vienna  è  occupata  dalle
    truppe francesi.
    - Come, occupata? Vienna è occupata?
    -  Non solo Vienna è occupata,  ma Buonaparte è a Schönbrunn (35) e il
    nostro caro conte Wrbna (36) va da lui a ricevere ordini!
    Dopo la stanchezza e le impressioni del  viaggio,  dopo  l'accoglienza
    ricevuta  e  soprattutto  dopo  il  pranzo,  Bolkonskij sentiva di non
    capire tutta l'importanza di ciò che il diplomatico gli diceva.
    - Questa mattina è stato qui il conte Lichtenfeld  -  proseguì Bilibin
    -  e mi  ha  mostrato  una  lettera  in  cui  era  descritta  in  ogni
    particolare la parata dei Francesi a Vienna.  "Le prince Murat et tout
    le tremblement..." [Il principe Murat e tutto il diavolo a quattro...]
    (37).  Vedete dunque che la vostra vittoria non può rallegrare molto e
    che voi non potete essere accolto come un salvatore...
    -  A  me,  personalmente,  non  importa  proprio niente!   -  disse il
    principe Andréj,  cominciando a rendersi conto che  la  notizia  della
    vittoria  di Krems avesse in realtà ben poca importanza di fronte a un
    fatto grave come l'occupazione della capitale dell'Austria.    -    Ma
    come mai Vienna è stata occupata?  Il ponte e la famosa "tête de pont"
    [38. testa di ponte]?  E il principe Auersperg (39)?  Si diceva da noi
    che il principe Auersperg difendesse la città  -  soggiunse.
    - Il principe Auersperg si trova da questa parte,  dalla nostra parte,
    e ci difende; credo che ci difenda molto male, ma insomma, ci difende!
    E Vienna è dall'altra parte.  No,  il ponte non è ancora stato preso e
    spero che non lo sarà perché è minato e c'è l'ordine di farlo saltare.
    In  caso contrario noi da un bel pezzo ci troveremmo tra i monti della
    Boemia, e voi con il vostro esercito passereste un brutto quarto d'ora
    tra due fuochi.
    - Ma questo non significa tuttavia che la campagna sia finita    disse
    il principe Andréj.
    -  Io  penso,  invece,  che sia proprio finita.  E così la pensano qui
    anche i pezzi grossi,  i quali però non osano  confessarlo.  Succederà
    ciò  che io prevedevo all'inizio della campagna,  che non sarà cioè la
    vostra "échauffourée de"  [scaramuccia  di]  Dürenstein"  (40)  e,  in
    genere, non sarà la polvere da sparo a decidere la faccenda, ma quelli
    che  l'hanno  inventata    -    disse  Bilibin ripetendo una delle sue
    battute di spirito,  spianando la fronte e restando per un momento  in
    silenzio.    -    Ora  si tratta solo di sapere che cosa risulterà dal
    colloquio a Berlino tra l'imperatore Aleksàndr  e  il  re  di  Prussia
    (41).  Se  la  Prussia  entrerà  nell'alleanza  "on  forcera la main à
    l'Autriche" [42.  si forzerà la mano all'Austria] e ci sarà la guerra.
    Se  questo  non  accadrà,  si  tratterà  allora  soltanto  di mettersi
    d'accordo circa il luogo in cui formulare i preliminari di  una  nuova
    Campoformio (43).
    -  Ma  che  genio straordinario,  quel "Buonaparte"!   -  esclamò a un
    tratto il  principe  Andréj,  serrando  a  pugno  la  piccola  mano  e
    battendola sul tavolo.  -  E che fortuna ha quell'uomo!
    -  Buonaparte?   -  chiese Bilibin corrugando la fronte e facendo così
    comprendere che  stava  per  pronunziare  una  delle  sue  battute  di
    spirito.   -  Buonaparte?  -  ripeté calcando forte sulla "u".-  Penso
    però che adesso che da Schönbrunn detta legge  all'Austria,  "il  faut
    lui  faire  grace  de l'u" [44.  bisogna fargli grazia della "u"].  Io
    introduco decisamente  l'innovazione  e  lo  chiamo  Bonaparte,  "tout
    court" [45. semplicemente].
    - Ma possibile che pensiate seriamente che la campagna sia finita?   -
    chiese il principe Andréj.
    - Ecco ciò che penso.  L'Austria è rimasta giocata e,  dato che non  è
    abituata  a  esserlo,  si vendicherà.  Ma è stata giocata innanzitutto
    perché le  sue  province  sono  devastate  ("on  dit  que"  la  truppa
    ortodossa  "est terrible pour le pillage") [46.  Si dice che la truppa
    ortodossa  sia  terribile  in  quanto  a  saccheggi],   l'esercito   è
    distrutto,  la  capitale  è presa e tutto questo "pour les beaux yeux"
    [47. Per i begli occhi] di sua maestà il re di Sardegna (48).  Quindi,
    "entre  nous,  mon  cher",  ho  la sensazione che ci ingannino,  fiuto
    rapporti con la Francia e una pace segreta (49), naturalmente conclusa
    a parte.
    - Non può essere!   -  esclamò il principe Andréj.   -  Sarebbe troppo
    sleale!
    - "Qui vivra verra" [50. Chi vivrà, vedrà]  -  ribatté Bilibin, la cui
    fronte  si  spianò  di  nuovo  come  per  significare  la  fine  della
    conversazione.
    Quando il principe Andréj fu nella camera che gli era stata preparata,
    quando si stese tra candide lenzuola e posò la testa su  un  guanciale
    soffice e profumato, sentì lontana, lontanissima da sé la battaglia di
    cui  aveva  portato  la notizia.  L'alleanza prussiana,  il tradimento
    dell'Austria,  il nuovo trionfo del Bonaparte,  la rivista e l'udienza
    dell'imperatore  Francesco  per  il giorno dopo costituivano l'oggetto
    dei suoi pensieri.  Chiuse gli occhi,  ma  nello  stesso  istante  gli
    rintronarono nelle orecchie le cannonate,  il crepitio dei fucili,  lo
    strepito delle ruote della carrozza,  ed ecco di nuovo davanti  a  lui
    scendere  dalla  montagna  i  moschettieri  in  fila  indiana,  ecco i
    Francesi sparare,  ed egli sentiva il cuore battergli  con  forza  nel
    petto  mentre  insieme  con  Schmidt  correva  avanti  a  cavallo,  le
    pallottole gli  fischiavano  attorno  allegramente  ed  egli  provava,
    decuplicato,  quel  senso  della gioia di vivere che non aveva provato
    più dal tempo dell'infanzia.
    Si svegliò...
    "Sì, tutto questo è accaduto!" si disse felice, sorridendo a se stesso
    come un fanciullo e si riaddormentò di un profondo sonno giovanile.


    CAPITOLO 11.

    La mattina seguente si  svegliò  tardi.  Richiamando  al  pensiero  le
    impressioni  del  giorno prima si ricordò,  innanzi tutto,  che doveva
    presentarsi all'imperatore e ricordò  il  ministro  della  guerra,  il
    cortese aiutante di campo austriaco,  Bilibin e la conversazione della
    sera precedente.  Indossò,  per recarsi a palazzo,  l'uniforme di gala
    che da molto tempo non vestiva più e,  fresco,  vivace e bello, con il
    braccio tuttora fasciato,  entrò nel gabinetto di lavoro  di  Bilibin,
    dove   già   si   trovavano  quattro  signori  appartenenti  al  corpo
    diplomatico.  Bolkonskij conosceva già  il  principe  Ippolìt  Kuragin
    segretario dell'ambasciata. Bilibin gli presentò gli altri.
    I  signori  che  frequentavano  Bilibin,  mondani,  giovani,  ricchi e
    allegri,  costituivano,  qui come a Vienna,  un gruppetto  a  sé,  che
    Bilibin,  il  quale ne era il capo,  soleva chiamare "i nostri",  "les
    nôtres".  Questo gruppetto,  formato quasi unicamente da  diplomatici,
    non  aveva  evidentemente alcun interesse né per la guerra,  né per la
    politica, ma soltanto interessi relativi al gran mondo, ad alcune dame
    e al lavoro di cancelleria.  Essi accolsero con evidente piacere  come
    uno dei "loro" (onore che concedevano a pochi) il principe Andréj. Per
    cortesia e per iniziare la conversazione, gli rivolsero alcune domande
    sull'esercito russo e sulle battaglie,  ma ben presto la conversazione
    tornò  ad  aggirarsi  su   scherzi   allegri   e   su   insignificanti
    pettegolezzi.
    -  Ma la cosa più divertente,   -  disse uno, raccontando l'insuccesso
    di un collega diplomatico   -    la  cosa  più  divertente  è  che  il
    cancelliere  gli  ha detto chiaro e tondo che la sua nomina a Londra è
    una promozione e che tale doveva considerarla. Ve lo immaginate come è
    rimasto a queste parole?
    - Ma ciò che è peggio,  signori,  è  che  io  tradisco  Kuragin:  quel
    poveretto è in disgrazia e questo don Giovanni,  quest'uomo terribile,
    ne approfitta!
    Il principe Ippolìt che era sdraiato in una poltrona con le gambe  sui
    bracciuoli rise forte.
    - "Parlez-moi de ca" [51. Sentiamo, sentiamo!]  -  disse.
    - O don Giovanni! O serpente!  -  esclamarono alcune voci.
    -  Voi  non  sapete,  Bolkonskij,    -   disse Bilibin rivolgendosi al
    principe Andréj  -    che  tutti  gli  orrori  commessi  dall'esercito
    francese  (stavo  per dire: dall'esercito russo) sono nulla a paragone
    di quelli di cui quest'uomo si rende colpevole verso le donne.
    - "La femme est la compagne de l'homme" [52.  La donna è  la  compagna
    dell'uomo]    -    disse  il  principe  Ippolìt,  e si mise a guardare
    attraverso l'occhialino le gambe che teneva sollevate.
    Bilibin e i "nostri" scoppiarono a ridere, guardandolo negli occhi. Il
    principe Andréj si rese conto che quell'Ippolìt del quale,  doveva pur
    confessarlo, era stato quasi geloso a causa di sua moglie, non era che
    il buffone di quella compagnia.
    -  Voglio  proprio  farvi  divertire  con  Kuragin    -  disse Bilibin
    sottovoce  a  Bolkonskij.     -    Quando  ragiona   di   politica   è
    straordinario, bisogna vedere che importanza!
    Andò  a  sedere accanto a Kuragin e,  corrugando la fronte,  attaccò a
    parlare di politica. Il principe Andréj e gli altri li attorniarono.
    - "Le cabinet de Berlin ne peut pas exprimer un sentiment  d'alliance"
    -  cominciò Ippolìt,  guardandoli tutti con sussiego "sans exprimer...
    comme dans sa dernière note... vous comprenez... vous comprenez...  et
    puis  si  Sa  Majesté  l'Empereur  ne  déroge pas au principe de notre
    alliance... Attendez,  je n'ai pas fini"  -  disse al principe Andréj,
    afferrandolo  per un braccio.   -  "Je suppose que l'intervention sera
    plus forte que la non-intervention.  Et..."  -  tacque per un po'.   -
    "On ne pourra pas imputer à la fin de non-recevoir notre dépêche du 28
    novembre. Voilà comment tout cela finira" [53. Il gabinetto di Berlino
    non può manifestare un'intenzione di alleanza senza esprimere...  come
    nella sua ultima nota...  voi capite...  voi capite...  e poi  se  sua
    maestà   l'imperatore   non   viene  meno  ai  princìpi  della  nostra
    alleanza... Aspettate,  non ho finito.  Suppongo che l'intervento sarà
    più forte del non-intervento.  E.. Non si potrà imputare, come ragione
    del nostro non-intervento,  il dispaccio del 28  novembre.  Ecco  come
    finirà tutta la faccenda.].
    E  lasciò  il  braccio  di  Bolkonskij  facendo  capire così che aveva
    definitivamente concluso il suo discorso.
    - "Demosthène,  je te reconnais au caillou que tu  as  caché  dans  ta
    bouche d'or!" [54.  Demostene, ti riconosco dal sasso che hai nascosto
    nella tua bocca d'oro]  -  esclamò Bilibin, agitando per il piacere la
    folta capigliatura.
    Tutti ridevano e Ippolìt rideva più forte di tutti.  Era evidente  che
    soffriva,  che gli mancava il respiro,  ma che non poteva frenare quel
    riso violento che gli tendeva la faccia sempre immobile.
    - E ora sappiate, signori.   -  disse Bilibin  -  che Bolkonskij è mio
    ospite  in casa e qui a Brünn,  e io voglio fargli godere,  per quanto
    posso, tutti i divertimenti della vita locale. Se fossimo a Vienna, la
    cosa sarebbe stata facile ma qui,  "dans  ce  vilain  trou  morave"  è
    difficile  e  io  prego voi tutti di aiutarmi.  "Il faut lui faire les
    honneurs de Brünn" [55.  In questo  brutto  paesucolo  della  Moravia.
    (...) Bisogna fargli gli onori di Brünn]. Voi incaricatevi del teatro,
    io della società e voi, Ippolìt, si capisce, delle donne.
    -  Bisogna  fargli  conoscere Amélie: è un incanto!   -  disse uno dei
    "nostri", baciandosi la punta delle dita.
    - Insomma si tratta di condurre a sentimenti più umani questo  soldato
    sanguinario  -  disse Bilibin.
    - Non so, signori miei, se potrò approfittare della vostra ospitalità,
    e  intanto  è  ora  che  vi  lasci    -   disse Bolkonskij,  guardando
    l'orologio.
    - Dove andate?
    - Dall'imperatore.
    - Oh! Oh! Oh!
    - Arrivederci, dunque,  Bolkonskij!  Arrivederci,  principe!  Venite a
    pranzo presto... Ci occuperemo di voi  -  dissero parecchie voci.
    -   Cercate   di   lodare   il   più  possibile  la  regolarità  degli
    approvvigionamenti e delle marce quando parlerete con l'imperatore   -
    consigliò Bilibin, accompagnando l'ospite sino in anticamera.
    -  Lo farei,   -  rispose questi sorridendo  -  ma,  per quanto ne so,
    proprio non posso.
    - In ogni modo parlate quanto più  potete!  Le  udienze  sono  la  sua
    passione:  in  quanto a lui,  non gli piace e non sa discorrere,  come
    vedrete.


    CAPITOLO 12.

    Uscito dai suoi  appartamenti,  l'imperatore  Francesco  si  limitò  a
    fissare il principe Andréj, che stava ritto nel posto assegnatogli tra
    gli ufficiali austriaci,  e gli fece solo un cenno lieve con la testa.
    Ma dopo la riunione lo stesso  aiutante  di  campo  della  sera  prima
    comunicò  a  Bolkonskij,  con estrema cortesia,  il desiderio espresso
    dall'imperatore di dargli udienza.  Il sovrano lo  accolse  stando  in
    piedi  in  mezzo alla sala.  Prima che il colloquio avesse inizio,  il
    principe Andréj fu colpito dall'aria impacciata  dell'imperatore,  che
    non sapeva cosa dire e che era arrossito.
    - Dite, quando incominciò il combattimento?  -  chiese poi in fretta.
    Il  principe  Andréj rispose.  A questa domanda ne seguirono altre non
    meno banali: "Stava bene  Kutuzòv?  Da  quanto  tempo  aveva  lasciato
    Krems?"  e  altre del genere.  L'imperatore parlava con un'espressione
    tale come se il suo unico scopo consistesse nel  fare  un  determinato
    numero di domande.  Le risposte poi,  cosa oltremodo evidente,  non lo
    interessavano affatto.
    - A che ora è iniziato il combattimento?  -  ripeté l'imperatore.
    - Non potrei dire a vostra maestà a che ora è iniziato sulla linea del
    fronte,  ma a Dürenstein,  dove mi trovavo io,  le  truppe  iniziarono
    l'azione  alle  sei  pomeridiane  -  rispose Bolkonskij,  animandosi e
    supponendo che gli si offrisse l'occasione  di  fare  una  descrizione
    completa,  che aveva già pronta nella mente, di tutto ciò che sapeva e
    aveva veduto.
    Ma l'imperatore sorrise e lo interruppe.
    - Quante miglia?
    - Da dove e sino a dove, maestà?
    - Da Dürenstein a Krems.
    - Tre miglia e mezzo, maestà.
    - I Francesi hanno abbandonato la riva sinistra?
    - Secondo il rapporto degli esploratori, gli ultimi hanno attraversato
    il fiume nella notte stessa, servendosi di zattere.
    - Vi è foraggio sufficiente a Krems?
    - Il foraggio non è stato provveduto in quantità sufficiente, ma...
    L'imperatore lo interruppe.
    - A che ora venne ucciso il generale Schmidt?
    - Alle sette, mi pare.
    - Alle sette? Molto triste, veramente molto triste!
    L'imperatore disse che ringraziava e  s'inchinò.  Il  principe  Andréj
    uscì  e  i  cortigiani lo attorniarono.  Da ogni parte gli rivolgevano
    sguardi e parole affettuose.  L'aiutante di campo del giorno avanti lo
    rimproverò  perché  non  si  era  fermato a palazzo e gli offrì la sua
    casa.  Il ministro della guerra gli si avvicinò e si rallegrò con  lui
    per  l'Ordine  di  Maria  Teresa di terzo grado,  che l'imperatore gli
    aveva accordato. Il ciambellano dell'imperatrice lo invitò da parte di
    sua maestà.  Anche l'arciduchessa desiderava vederlo.  Bolkonskij  non
    sapeva  a  chi rispondere e per alcuni secondi tacque,  raccogliendo i
    propri pensieri.  L'ambasciatore russo gli  appoggiò  una  mano  sulla
    spalla,  lo  condusse  presso  la finestra e cominciò a discorrere con
    lui.
    Contrariamente alle previsioni di Bilibin,  la notizia della  vittoria
    da  lui  portata  fu  accolta  con gioia.  Fu ordinato un "Te Deum" di
    ringraziamento,  Kutuzòv fu insignito della gran croce di Maria Teresa
    e  tutto  l'esercito  ricevette ricompense.  Bolkonskij ebbe inviti da
    tutti e fu costretto a trascorrere l'intera mattinata  facendo  visita
    alle  più  importanti  autorità  austriache.  Terminate le visite alle
    cinque pomeridiane,  compilando mentalmente una lettera al padre sulla
    battaglia  alla quale aveva preso parte e sul suo viaggio a Brünn,  il
    principe Andréj tornò a casa di Bilibin.  All'ingresso  era  fermo  un
    calesse per metà carico di bagagli, e Franz, il servo del diplomatico,
    comparve  sulla  soglia  portando  a  fatica  una  valigia.  (Prima di
    ritornare da Bilibin, il principe Andréj era entrato in una libreria a
    far provvista di libri in vista della campagna e ci si era  trattenuto
    a lungo).
    - Che succede?  -  chiese Bolkonskij.
    -  "Ack!  Erlaucht!"  -  rispose Franz,  caricando a fatica la valigia
    sul calesse.   -  "Wir ziehen noch weiter.  Der  Bösewicht  ist  schon
    wieder  hinter  uns  her!"  [56.  Ah,  eccellenza!  Andiamo ancora più
    lontano! Quello scellerato ci sta di nuovo alle spalle].
    - Come? Cosa?  -  domandò il principe Andréj.
    Bilibin gli uscì incontro.  Sul suo viso sempre tanto calmo si leggeva
    una viva emozione.
    - "Non, non, avouez que c'est charmant"  -  diceva  -  "cette histoire
    du pont de Thabor"  -  (un ponte di Vienna).  -  "Ils l'ont passé sans
    coup  férir" [57.  No,  no,  confessate che è carina questa storia del
    ponte di Thabor. L'hanno passato senza colpo ferire].
    Il principe Andréj non capiva.
    - Ma di dove venite per non  sapere  una  cosa  già  nota  a  tutti  i
    vetturini della città?
    - Vengo dall'arciduchessa e là non ho sentito dire nulla...
    - E non avete visto che dappertutto si sta sgomberando?
    - No... Ma che succede?  -  domandò con impazienza il principe Andréj.
    - Che succede? Succede che i Francesi hanno passato il ponte difeso da
    Auersperg;  il ponte non è stato fatto saltare e ora Murat corre verso
    Brünn dove giungerà oggi o domani.
    - Giungerà qui?  E perché non hanno fatto saltare il ponte dal momento
    che era minato?
    - Lo domando a voi. Nessuno lo sa, nemmeno Buonaparte!
    Bolkonskij si strinse nelle spalle.
    -  Ma  se  il  ponte è stato attraversato,  significa che l'esercito è
    perduto: rimarrà tagliato fuori  -  disse.
    - Proprio questo è il bello!   -  rispose Bilibin.   -   Ascoltate.  I
    Francesi,  come  vi  ho  detto,  entrano  in Vienna.  E tutto va bene,
    benissimo.  Il giorno dopo,  cioè ieri,  i signori marescialli  Murat,
    Lannes  (58)  e  Belliard  (59)  montano  a  cavallo  e vanno verso il
    ponte... Notate che sono tutti e tre guasconi. "Signori", dice uno dei
    tre, "voi sapete che il ponte di Thabor è minato e controminato, e che
    ha una formidabile "tête de pont" difesa da  quindicimila  uomini  che
    hanno  l'ordine  di  farlo  saltare  e di impedirci di passare.  Ma il
    nostro sovrano,  l'imperatore Napoleone,  sarà  ben  contento  se  noi
    prenderemo  il  ponte.  Andiamoci noi tre e prendiamolo!".  "Andiamo",
    rispondono gli altri. Vanno, prendono il ponte, lo attraversano e ora,
    con tutto l'esercito,  sono da questa parte del Danubio e si  dirigono
    verso di noi, su di voi e sulle vostre linee di comunicazione.
    -  Smettetela  di  scherzare!    -   disse con volto triste e serio il
    principe Andréj.
    Quella notizia gli era a un tempo penosa e piacevole. Non appena aveva
    saputo  che  l'esercito  russo  si  trovava  in  una  situazione  così
    disperata,  gli  si era affacciato il pensiero che proprio a lui fosse
    riservata l'impresa di salvarlo da quella  situazione  e  che  sarebbe
    stata  questa la sua Tolone,  quella che dalla condizione di ufficiale
    sconosciuto  gli  avrebbe  aperto  la  via  della  gloria.  Ascoltando
    Bilibin,  egli calcolava già come,  raggiunto l'esercito, avrebbe dato
    al Consiglio  di  guerra  l'unico  suggerimento  che  potesse  salvare
    l'esercito  stesso  e  come  a  lui  solo  sarebbe  stata  affidata la
    realizzazione di quel piano.
    - Smettetela di scherzare!  -  ripeté.
    - Non scherzo  -  continuò Bilibin.   -  Nulla di più vero  e  di  più
    triste!  Quei signori,  dunque,  arrivano soli sul ponte, agitando dei
    fazzoletti bianchi,  affermano che c'è un armistizio  e  che  essi,  i
    marescialli,  sono  venuti per parlamentare con il principe Auersperg.
    L'ufficiale di servizio li lascia entrare nella "tête de  pont".  Essi
    gli  raccontano  una quantità di frottole,  gli dicono che la guerra è
    finita,  che l'imperatore Francesco ha fissato  un  colloquio  con  il
    Bonaparte,  che  essi  vorrebbero  vedere il principe Auersperg e così
    via...   L'ufficiale  manda  a  cercare  Auersperg.   Questi   signori
    abbracciano  gli  ufficiali,  scherzano,  si  mettono a cavalcioni sui
    cannoni e intanto un battaglione francese entra alla  chetichella  sul
    ponte, rovescia in acqua i sacchi contenenti le materie infiammabili e
    si  avvicina  alla  "tête  de  pont".  Finalmente  compare  il tenente
    generale in persona,  il nostro caro principe Auersperg von Mattern...
    "Caro  nemico!  Orgoglio  dell'esercito  austriaco!  Eroe della guerra
    turca!   L'inimicizia  è  finita:   possiamo   stringerci   la   mano!
    L'imperatore  Napoleone  arde  dal  desiderio di conoscere il principe
    Auersperg".  A farla breve,  questi signori,  che non per  nulla  sono
    guasconi,  stordiscono  il principe con una valanga di parole,  egli è
    così lusingato da quella rapida amicizia stabilitasi con i marescialli
    francesi,  così abbagliato dal mantello e dalle penne  di  struzzo  di
    Murat  "qu'il  ne  voit que du feu et oublie celui qu'il devait faire,
    faire sur l'ennemi" [60.  Che non vede che il loro fuoco  e  dimentica
    quello  che  doveva far lui sul nemico].   (Nonostante la vivacità del
    suo discorso, Bilibin, a questo punto, non dimenticò di fare una breve
    pausa  dopo  la  sua  battuta  di  spirito  per  dar  modo  che  fosse
    apprezzata).   -  Il battaglione francese,  intanto,  si precipita sul
    ponte, rende inservibili i cannoni e il ponte è preso.  Ma ecco ora il
    più  bello    -    continuò  calmando  l'agitazione con il fascino del
    proprio racconto;   -  ecco il  più  bello:  il  sergente  addetto  al
    cannone  che doveva dare il segnale dell'accensione delle mine per far
    saltare il ponte,  questo sergente,  dunque,  quando  vede  le  truppe
    francesi  correre sul ponte si accinge a sparare,  ma Lannes gli ferma
    la mano.  Il sergente,  che senza dubbio era più intelligente del  suo
    generale,  si  avvicina ad Auersperg e gli dice: "Principe,  vi stanno
    ingannando: ecco i Francesi!". Murat capisce che, se si lascia parlare
    il sergente, il colpo fallisce.  Con finto stupore,  da vero guascone,
    si  rivolge  ad Auersperg e gli dice: "Non riconosco più la disciplina
    austriaca,  famosa in tutto il mondo!  Voi permettete  che  un  vostro
    subalterno  vi parli così?".  "C'est génial.  Le prince d'Auersperg se
    pique d'honneur et fait mettre le sergent aux arrêts. Non, mais avouez
    que c'est charmant toute cette histoire du pont de Thabor. Ce n'est ni
    bêtise,  ni lâcheté..." [61.  E' geniale.  Il principe  di  Auersperg,
    punto  sul  vivo,   fa  mettere  il  sergente  agli  arresti.  Suvvia,
    confessate che questa storia del ponte di  Thabor  è  straordinaria...
    Non è né stupidità né viltà...].
    - "C'est trahison,  peut-être" [62. E' tradimento, forse...]  -  disse
    il principe Andréj,  immaginando al vivo i cappotti grigi,  le ferite,
    il fumo della polvere, il crepitio delle pallottole e la gloria che lo
    attendeva.
    - "Non plus. Cela met la Cour dans de trop mauvais draps"  -  continuò
    Bilibin.  -  "Ce n'est ni trahison, ni lâcheté, ni bêtise; c'est comme
    à  Ulm..."  -  e parve riflettere,  cercando l'espressione adatta.   -
    "C'est,  c'est du Mack...  Nous sommes mackés"  [63.  Neppure.  Questo
    metterebbe  la  Corte  nei  pasticci.  Non è né tradimento né viltà né
    stupidità,  è come ad Ulma...  E',  è  roba  da  Mack...  Siamo  stati
    "mackati"]    -  concluse Bilibin,  sentendo di aver coniato una nuova
    parola,  fresca fresca,  che sarebbe  stata  ripetuta,  chissà  quante
    volte.
    Le rughe che sino a quel momento erano state raccolte sulla fronte, si
    spianarono  rapidamente  in  segno  di  soddisfazione  e,   sorridendo
    leggermente, cominciò a guardarsi le unghie.
    - Dove andate?   -  chiese a un tratto al principe Andréj che  si  era
    alzato e si dirigeva verso la sua camera.
    - Parto.
    - Per dove?
    - Ritorno all'esercito.
    - Ma non volevate trattenervi ancora un paio di giorni?
    - Invece parto subito.
    E  il principe Andréj,  dopo aver dato gli ordini per la partenza,  si
    ritirò nella sua camera.
    - Sapete, mio caro?  -  disse Bilibin, raggiungendolo.   -  Ho pensato
    a voi. Perché dovreste partire?
    E a dimostrazione dell'indiscutibilità del suo argomento,  il viso gli
    si spianò completamente.
    Il principe Andréj guardò con aria interrogativa il suo  interlocutore
    e non rispose.
    -  Perché dovreste partire?  Lo so,  voi pensate che sia vostro dovere
    correre a raggiungere l'esercito  ora  che  esso  è  in  pericolo.  Lo
    capisco, "mon cher, c'est de l'héroïsme" [64. Mio caro, è eroismo].
    - Niente affatto  -  rispose il principe Andréj.
    -  Ma  voi che siete un "philosophe",  siatelo per intero: guardate le
    cose sotto un altro punto di vista e vi  convincerete  che  il  vostro
    dovere  è  invece  quello  di risparmiarvi.  Lasciate queste cose agli
    altri,  a coloro che non sono buoni a nulla...  Nessuno vi ha ordinato
    di tornare indietro e nessuno vi ha detto di partire da qui...  Potete
    dunque rimanere e venire con noi,  sin  dove  ci  condurrà  il  nostro
    disgraziato  destino.  Si dice che andremo a Olmütz...  E Olmütz è una
    città molto graziosa.  Potremo viaggiare tranquillamente insieme nella
    mia carrozza.
    - Smettetela di scherzare, Bilibin  -  disse Bolkonskij.
    -  Vi  parlo  con  tutta sincerità e amicizia.  Ragionate.  Per dove e
    perché partite adesso, mentre potete rimanere qui?  Le probabilità che
    vi  aspettano  sono  due    -  e così dicendo raggrinzò la pelle della
    fronte:  -  o la pace sarà conclusa prima che raggiungiate  l'esercito
    o subirete la disfatta e la vergogna con tutta l'armata di Kutuzòv.
    E  Bilibin  spianò  la  fronte,   sentendo  che  il  suo  dilemma  era
    inattaccabile.
    - Su questo argomento non posso ragionare  -  rispose  freddamente  il
    principe Andréj e pensò: "Parto per salvare l'esercito!".
    - "Mon cher,  vous êtes un héros" [65. Mio caro, voi siete un eroe]  -
    dichiarò Bilibin.


    CAPITOLO 13.

    Quella stessa notte,  dopo  essersi  accomiatato  dal  ministro  della
    guerra,  Bolkonskij  partì  per raggiungere l'esercito,  senza neppure
    sapere dove l'avrebbe trovato e temendo di  cadere  tra  le  mani  dei
    Francesi sulla strada di Krems.
    A  Brünn  tutti i cortigiani facevano le valigie e spedivano i bagagli
    più voluminosi a Olmütz. Presso Etzeldorf, il principe Andréj si trovò
    sulla strada su cui con la massima fretta e tra una immensa confusione
    avanzava l'esercito russo.  La strada era così ingombra  di  carriaggi
    che  non  gli  fu possibile percorrerla in carrozza.  Fattosi dare dal
    comandante dei cosacchi un cavallo e un soldato,  il principe  Andréj,
    stanco  e  affamato,  oltrepassati  i carri,  cavalcò alla ricerca del
    generalissimo e della sua vettura.  Correvano voci  molto  inquietanti
    circa  la  situazione  dell'esercito,  e la vista di quelle truppe che
    fuggivano disordinatamente le confermavano.
    "Cette  armée  russe  que  l'or  de  l'Angleterre  a  transportée  des
    extrémités  de l'univers,  nous allons lui taire éprouver le même sort
    (le sort de l'armée d'Ulm)" [66.  "A questo esercito russo,  che l'oro
    dell'Inghilterra ha trasportato dai confini estremi del mondo,  faremo
    sperimentare la stessa sorte (la sorte dell'esercito di  Ulma)"]:  gli
    tornavano  alla  mente  le  parole  del  proclama  di Napoleone al suo
    esercito prima dell'inizio della campagna,  e tali parole  provocarono
    in   lui  l'ammirazione  per  il  geniale  eroe  e  insieme  il  senso
    dell'orgoglio ferito e la speranza della gloria.  "E se  non  restasse
    altra  prospettiva se non quella di morire?",  pensò.  "Che farci,  se
    sarà necessario? Morirò, non peggio degli altri".
    Il principe Andréj guardava con  disprezzo  quell'infinito  numero  di
    distaccamenti,  di carri, di parchi di artiglierie e poi ancora carri,
    carri,  carri di ogni forma possibile che cercavano di sorpassarsi  e,
    in  tre o quattro file,  sbarravano la strada fangosa.  Da ogni parte,
    indietro  e  davanti,   ovunque  giungesse  l'udito,   si  sentiva  un
    incessante  fragore  di  ruote,  un  continuo  stridio di cassoni,  di
    carrette,  di affusti di cannoni,  calpestio di cavalli,  schiocchi di
    fruste grida di incitamento,  imprecazioni di soldati, di attendenti e
    di ufficiali.  Ai lati della strada si vedevano a ogni  passo  cavalli
    caduti,  scuoiati o no,  carrette rotte presso le quali,  in attesa di
    chi sa che cosa, sedevano soldati isolati, soldati staccatisi dai loro
    reparti,  che si dirigevano in folla verso  i  villaggi  vicini  o  ne
    venivano, trascinando galline, montoni, fieno e sacchi colmi di chi sa
    che cosa.  Alle discese e alle salite, la folla diventava più fitta, e
    clamori ininterrotti riempivano l'aria. I soldati, nel fango sino alle
    ginocchia,  sollevavano a forza di braccia cannoni e  carri,  facevano
    schioccare le fruste,  gli zoccoli dei cavalli scivolavano, le tirelle
    si spezzavano e i petti degli uomini si schiantavano per  la  violenza
    del  gridare.  Gli  ufficiali,  che dirigevano il movimento,  andavano
    avanti e indietro tra i carri.  Le loro voci si  udivano  appena,  nel
    tumultuoso  urlio  generale,  e  si  capiva  dai  loro  visi  che essi
    disperavano di poter frenare quel disordine caotico.
    ""Voilà la chère" truppa ortodossa",  pensò Bolkonskij,  ricordando le
    parole di Bilibin.
    Per  domandare  a  uno  qualsiasi di quegli uomini dove si trovasse il
    generale in capo,  si avvicinò a un carro.  Proprio di  fronte  a  lui
    avanzava  uno  strano  veicolo,   a  un  solo  cavallo,  evidentemente
    costruito in modo primitivo da qualche soldato, un non so che di mezzo
    tra un carro coperto, un calessino e una carrozza.  Guidava il veicolo
    un  militare,  e sotto al soffietto di cuoio,  al di là del parafango,
    sedeva una donna,  tutta avvolta in scialli.  Il  principe  Andréj  si
    avvicinò  e  già  stava  per interrogare il conducente allorché la sua
    attenzione fu attratta dalle grida disperate della  donna  seduta  nel
    veicolo.  L'ufficiale  che  guidava  il convoglio stava percuotendo il
    soldato a cassetta, perché costui voleva oltrepassare gli altri, e una
    violenta scudisciata aveva colpito il  soffietto.  La  donna  emetteva
    grida  acutissime.  Vedendo il principe Andréj,  si sporse di sotto il
    mantice e,  agitando le braccia scarne,  tratte  di  sotto  i  pesanti
    scialli, urlava:
    - Aiutante!  Signor aiutante!  Per amor di Dio,  difendeteci! Che cosa
    succederà?  Io sono  la  moglie  del  medico  del  settimo  reggimento
    cacciatori... Non ci lasciano passare; siamo rimasti indietro, abbiamo
    perduto i nostri...
    -  Ti  ridurrò  in poltiglia!  Torna indietro!   -  gridava al soldato
    l'ufficiale furibondo.  -  Torna indietro con la tua sgualdrina!
    - Signor aiutante di campo,  difendeteci!  Che succede?   -  urlava la
    moglie del medico.
    -  Lasciate  passare  questa  vettura.  Non vedete che c'è una donna?-
    disse il principe Andréj, avvicinandosi all'ufficiale.
    L'ufficiale lo guardò e,  senza  rispondere,  si  volse  di  nuovo  al
    soldato.
    - Non ti lascio passare! Indietro!
    -  Lasciatelo passare,  vi dico  -  ripeté a denti stretti il principe
    Andréj.
    - Ma tu chi sei?   -  gli gridò a  un  tratto  l'ufficiale,  ebbro  di
    furore.    -    Chi  sei  tu?  Sei per caso il comandante?   -  urlava
    accentuando il "tu".   -  Qui comando io  e  non  tu.  Indietro,  tu!-
    ripeté al soldato  -  o ti ridurrò in poltiglia.
    Evidentemente quest'espressione gli piaceva molto.
    - L'ha servito a dovere, l'aiutante!  -  risonò una voce alle spalle.
    Il  principe Andréj vedeva che l'ufficiale si trovava in uno di quegli
    accessi di incoercibile furore in cui non si sa più ciò che  si  dice.
    Vedeva  che  il  suo  intervento  in difesa della moglie del medico lo
    esponeva a ciò che egli temeva più di ogni cosa al mondo, a ciò che si
    chiama "ridicule" [67. il ridicolo],  ma il suo istinto lo consigliava
    diversamente.  L'ufficiale  non  aveva ancora finito di pronunziare le
    ultime parole che già il principe Andréj,  con il viso stravolto dalla
    collera, gli spinse contro il cavallo e alzò il frustino.
    - La-scia-te passare!  -  urlò.
    L'ufficiale  fece  un  gesto  di  stizza con la mano e si allontanò in
    fretta.
    - Tutto il disordine è sempre causato da  loro,  da  questi  ufficiali
    dello stato maggiore...  -  brontolò.  -  Fate ciò che volete.
    Il  principe Andréj,  senza neppure alzare gli occhi,  si allontanò in
    fretta dalla moglie del  medico  che  lo  chiamava  suo  salvatore  e,
    ripensando   con  disgusto  ai  minimi  particolari  di  quella  scena
    umiliante,  galoppò verso il villaggio dove,  gli  avevano  detto,  si
    trovava il generalissimo.
    Giunto  al  villaggio,  smontò da cavallo e si diresse alla prima casa
    con l'intenzione di riposarsi un poco, di rifocillarsi e di riordinare
    e mettere in chiaro i pensieri umilianti che lo tormentavano.  "Questa
    è  una  banda  di malfattori,  non è un esercito!" diceva a se stesso,
    mentre si avvicinava alla finestra della prima casa, allorché si sentì
    chiamare per nome da una voce nota.
    Si voltò. Alla finestrella stava affacciato il bel viso di Nesvitzkij,
    il quale masticava qualche cosa con le labbra carnose  e  agitando  le
    mani gli faceva cenno di entrare.
    - Bolkonskij! Bolkonskij! Non mi senti? Vieni, spicciati!  -  gridava.
    Il principe Andréj,  entrando nella casa, scorse Nesvitzkij e un altro
    aiutante che  stavano  facendo  uno  spuntino.  Si  volsero  subito  a
    Bolkonskij per chiedergli se sapesse qualcosa di nuovo.  Sui loro visi
    così noti il principe Andréj lesse un'espressione di turbamento  e  di
    inquietudine,  espressione che si notava in modo particolare sul volto
    sempre ridente di Nesvitzkij.
    - Dov'è il comandante in capo?  -  chiese Bolkonskij.
    - Là, in quella casa  -  rispose l'aiutante, indicandogliela.
    - Dunque è vero che  si  fa  la  pace  e  si  capitola?    -    chiese
    Nesvitzkij.
    - Lo chiedo a voi. Non so nulla salvo questo, che ho stentato non poco
    ad arrivare sin qui.
    - E qui da noi,  mio caro,  che orrore! Confesso la mia colpa amico...
    ho riso di Mack e adesso ci tocca ben di peggio  -  disse  Nesvitzkij.
    -  Ma siediti, mangia qualcosa.
    - Adesso, principe, non trovereste né una carrozza né altro e sa Iddio
    dove sarà il vostro Pëtr  -  disse l'altro aiutante.
    - Dov'è il quartiere generale?
    - Passeremo la notte a Znaõm.
    - Quanto a me, ho caricato su due cavalli ciò che mi occorre  -  disse
    Nesvitzkij.  -  Mi hanno costruito dei basti eccellenti. Può darsi che
    si debba fuggire anche attraverso i monti della Boemia.  Le cose vanno
    male, mio caro.  Ma che hai?  Non ti devi sentir bene per rabbrividire
    così...   -  osservò Nesvitzkij notando che il principe Andréj tremava
    come se avesse toccato una bottiglia di Leida (68).
    - Non è nulla!  -  rispose il principe Andréj.
    Aveva ripensato in quel momento al recente incontro con la moglie  del
    medico e con l'ufficiale che guidava il convoglio.
    - Che fa qui, il generalissimo?  -  chiese poi.
    - Non ci capisco nulla  -  rispose Nesvitzkij.
    -  E  io  capisco  una cosa sola: che tutto è disgustoso,  disgustoso,
    disgustoso...   -  esclamò il principe Andréj,  e si diresse verso  la
    casa dove si era fermato il comandante supremo.
    Passando  accanto  alla  carrozza di Kutuzòv,  ai malandati cavalli da
    sella del séguito e dei cosacchi,  che parlavano ad alta voce  tra  di
    loro,  il  principe  Andréj  entrò  nel vestibolo.  Come gli era stato
    detto,  Kutuzòv si trovava in quella  casa  insieme  con  il  principe
    Bagratiòn  e  con  Weirother  (69),  il  generale  austriaco che aveva
    sostituito Schmidt, ucciso. Nel vestibolo, il piccolo Kozlovskij stava
    seduto sui calcagni davanti a uno scritturale. Questi,  con i paramani
    della divisa rimboccati, scriveva rapidamente su un barile rovesciato.
    Il  viso  di  Kozlovskij era disfatto: diceva chiaramente che egli non
    aveva chiuso occhio tutta la notte.  Guardò il principe Andréj  e  non
    gli fece neppure un cenno di saluto.
    -  La  seconda  linea...  Hai  scritto?    -   proseguì a dettare allo
    scrivano.  -  Il reggimento dei granatieri di Kiev, di Podòlja...
    - Non così in fretta,  eccellenza   -    disse  lo  scrivano  in  tono
    irritato e poco rispettoso, fissando in viso Kozlovskij.
    Al di là della porta si udì in quel momento la voce vivace e scontenta
    di  Kutuzòv,  interrotta  da  un'altra voce sconosciuta.  Dal suono di
    quelle voci,  dall'indifferenza con cui Kozlovskij lo aveva  guardato,
    dal  poco  rispettoso comportamento dello scrittore stanco,  dal fatto
    che Kozlovskij e lo  scritturale  sedevano  per  terra  a  così  breve
    distanza  dal  generalissimo,  dalle  risate rumorose dei cosacchi che
    custodivano i cavalli sotto le finestre,  da  tutto  ciò  insomma,  il
    principe Andréj intuiva che doveva essere avvenuto qualcosa di grave e
    di doloroso.
    Con insistenza si mise a interrogare Kozlovskij.
    -  Subito,  principe    -    rispose  costui.    -    Sto  dettando le
    disposizioni per Bagratiòn.
    - E' la capitolazione?
    -  Niente  capitolazione.   Sono  state  date  disposizioni   per   il
    combattimento.
    Il  principe  Andréj  si  diresse  verso  l'uscio,  di  là  del  quale
    giungevano le voci.  Ma nel momento in cui stava per aprirlo,  le voci
    tacquero,  l'uscio  si  spalancò  e Kutuzòv,  con il suo naso aquilino
    nella faccia grassa,  comparve sulla soglia.  Il principe Andréj stava
    ritto  davanti a Kutuzòv,  ma dalla espressione dell'unico occhio vivo
    del generale si capiva che i pensieri e le preoccupazioni erano  tanto
    intensi  da impedirgli quasi di vedere davanti a sé.  Guardava in viso
    il suo aiutante di campo e non lo riconosceva.
    - Dunque, hai finito?  -  chiese a Kozlovskij.
    - Un momento ancora, eccellenza.
    Bagratiòn,  un uomo  di  media  statura  dal  viso  duro  e  immobile,
    tipicamente  orientale,  magro,  non  ancora  vecchio,  uscì dietro il
    comandante supremo.
    - Ho l'onore di presentarmi  -    ripeté  ad  alta  voce  il  principe
    Andréj, porgendo un plico.
    - Ah, da Vienna? Bene. Dopo, dopo...
    Kutuzòv, accompagnato da Bagratiòn, andò sino alla soglia.
    - Sicché, addio, principe  -  disse Kutuzòv a Bagratiòn.  -  Cristo ti
    accompagni. Ti benedico per la tua grande impresa.
    Il  viso  di  Kutuzòv  si  raddolcì  all'improvviso,  gli occhi gli si
    riempirono di lacrime.  Con la sinistra attirò a sé  Bagratiòn  mentre
    con  la  destra,  su  cui brillava un anello,  gli faceva con un gesto
    evidentemente abituale il segno della croce;  poi gli offrì la  grassa
    guancia da baciare, ma Bagratiòn lo baciò sul collo.
    -  Cristo  ti  accompagni!   -  ripeté Kutuzòv,  e si diresse verso la
    propria carrozza, dicendo al principe Andréj:  -  Sali con me.
    - Eccellenza,  vorrei rendermi utile qui.  Permettetemi di restare nel
    distaccamento del principe Bagratiòn.
    -  Siediti!    -    ripeté Kutuzòv e,  notando che Bolkonskij esitava,
    aggiunse:  -  Anche a me sono necessari dei bravi ufficiali.
    Presero posto nella carrozza e  per  qualche  minuto  procedettero  in
    silenzio.
    -  Abbiamo  ancora dinanzi a noi molte cose da fare  -  disse Kutuzòv,
    con un'espressione di perspicacia senile,  quasi avesse capito ciò che
    avveniva  nell'animo di Bolkonskij.   -  Se domani la decima parte del
    suo distaccamento mi ritorna sana e salva,  ne ringrazierò il  Signore
    -  aggiunse Kutuzòv, quasi parlando a se stesso.
    Il principe Andréj lo guardò e, suo malgrado, gli saltarono agli occhi
    gli orli accuratamente lavati della cicatrice sulla tempia di Kutuzòv,
    là  dove il proiettile di Ismaìl gli aveva forato il cranio e accecato
    l'occhio.  "Sì",  pensò,  "egli ha il diritto  di  parlare  con  tanta
    tranquillità della morte di quegli uomini!".
    -   E'   appunto  per  questo  che  vi  prego  di  mandarmi  con  quel
    distaccamento  -  disse.
    Kutuzòv non rispose.  Pareva avesse  già  dimenticato  ciò  che  aveva
    detto,  ed  era  immerso in profonde riflessioni.  Dopo cinque minuti,
    sobbalzando dolcemente sulle flessibili molle della carrozza,  Kutuzòv
    si  volse  al principe Andréj.  Sul suo viso non vi era più traccia di
    commozione.  Con fine ironia,  interrogò l'aiutante di campo  sul  suo
    colloquio con l'imperatore, su quanto si diceva a corte, sullo scontro
    di Krems e su alcune signore di loro comune conoscenza.


    CAPITOLO 14.

    Il  primo  novembre  Kutuzòv ricevette da uno dei suoi informatori una
    notizia da cui risultò che l'armata che egli comandava si  trovava  in
    una condizione quasi disperata. L'informatore riferiva che i Francesi,
    dopo  aver passato con forze imponenti il ponte di Vienna,  marciavano
    verso la linea su cui Kutuzòv doveva  collegarsi  con  le  truppe  che
    provenivano  dalla  Russia.  Se  Kutuzòv decideva di fermarsi a Krems,
    centocinquantamila uomini dell'esercito  di  Napoleone  gli  avrebbero
    chiuso  ogni  via  di  comunicazione,  avrebbero  accerchiato  il  suo
    esercito stremato, ed egli si sarebbe così trovato nelle condizioni di
    Mack a Ulma. Se Kutuzòv decideva, invece, di abbandonare la strada che
    lo conduceva da Krems a Olmütz  per  unirsi  alle  truppe  provenienti
    dalla  Russia,   sarebbe  stato  costretto  a  inoltrarsi,  senza  vie
    tracciate,  nelle  sconosciute  regioni  delle  montagne  boeme,  dove
    avrebbe   dovuto   difendersi   dalle  soverchianti  forze  nemiche  e
    abbandonare ogni speranza di riunirsi a  Bukshevden  (70).  Se  infine
    stabiliva di indietreggiare sulla strada da Krems a Olmütz, per unirsi
    con  le  truppe provenienti dalla Russia,  avrebbe corso il rischio di
    essere preceduto su  quella  strada  dai  Francesi,  che  già  avevano
    passato il ponte di Vienna, e costretto ad accettare battaglia durante
    la  marcia,  con  il  gravame dei bagagli e delle salmerie,  contro un
    nemico tre volte più numeroso che lo circondava da due parti.
    Kutuzòv scelse quest'ultimo partito.
    I Francesi, come aveva riferito l'informatore,  dopo aver attraversato
    il fiume a Vienna,  si dirigevano a marce forzate verso Znaõm,  che si
    trovava sulla linea di ritirata di Kutuzòv,  a  più  di  cento  miglia
    davanti a lui.  Raggiungere Znaõm prima dei Francesi significava avere
    una grande speranza di salvare l'esercito;  lasciare  ai  Francesi  la
    possibilità  di  precederlo  voleva  dire  far subire all'esercito una
    vergognosa sconfitta, quale quella di Ulma,  o la totale disfatta.  Ma
    arrivare prima dei Francesi con tutto l'esercito,  era impossibile. La
    marcia dei Francesi,  da Vienna a Znaõm,  era più breve e migliore  di
    quella che i Russi dovevano compiere da Krems a Znaõm.
    La  notte  stessa  in  cui ricevette quella notizia,  Kutuzòv mandò in
    avanguardia i quattromila uomini di Bagratiòn, a destra, attraverso le
    montagne,  dalla via  Krems-Znaõm  a  quella  Vienna-Znaõm.  Bagratiòn
    doveva  compiere  quella  marcia  senza soste,  fermarsi con il fronte
    verso Vienna e Znaõm alle spalle e, qualora fosse riuscito a prevenire
    i Francesi, doveva trattenerli quanto più potesse. Kutuzòv stesso, con
    tutti i bagagli, mosse verso Znaõm.
    Dopo aver percorso quarantacinque miglia tra i  monti,  in  una  notte
    tempestosa, con dei soldati affamati e scalzi, senza tracce di strade,
    e  aver  perduto per via un terzo dei suoi uomini,  Bagratiòn arrivò a
    Hollabrünn,  sulla strada Vienna-Znaõm alcune ore prima dei  Francesi,
    che  da  Vienna  avanzavano verso Hollabrünn.  Kutuzòv doveva marciare
    ancora una giornata intera,  con i  suoi  carriaggi,  per  giungere  a
    Znaõm, e pertanto Bagratiòn avrebbe dovuto salvare l'esercito con soli
    quattromila  uomini  affamati ed esausti,  trattenere per ventiquattro
    ore tutto l'esercito nemico  che  stava  per  incontrarsi  con  lui  a
    Hollabrünn,  il  che era evidentemente impossibile.  Ma la capricciosa
    fortuna  rese  possibile  l'impossibile.   Il  successo   dell'inganno
    mediante il quale,  senza alcuna lotta,  era caduto il ponte di Vienna
    nelle mani dei Francesi,  indusse Murat a tentare di  ingannare  anche
    Kutuzòv. Murat, incontrando il debole distaccamento di Bagratiòn sulla
    strada di Znaõm,  credette di avere a che fare con tutto l'esercito di
    Kutuzòv. Per annientarlo completamente volle aspettare le altre truppe
    rimaste indietro sulla strada di Vienna e,  a tale scopo,  propose  un
    armistizio  di  tre giorni,  a condizione che l'uno e l'altro esercito
    rimanessero fermi nelle loro  rispettive  posizioni  e  non  facessero
    alcun movimento.  Murat assicurava che erano state iniziate trattative
    di  pace  e  che  proponeva  l'armistizio  per  evitare   un   inutile
    spargimento di sangue.  Il generale austriaco,  conte Nostitz, che era
    agli avamposti,  credette alle parole dei parlamentari di Murat,  e si
    ritirò,   scoprendo   il   distaccamento   di   Bagratiòn.   Un  altro
    parlamentare, con le stesse notizie di trattative di pace, si presentò
    alle linee russe a proporre un armistizio  di  tre  giorni.  Bagratiòn
    rispose che non poteva né accettare,  né respingere la proposta e, per
    mezzo di un  aiutante  di  campo,  mandò  a  informare  Kutuzòv  della
    proposta che gli era stata fatta.
    L'armistizio era,  per Kutuzòv, l'unico mezzo per guadagnar tempo, per
    dar modo di riposare allo stanco distaccamento di Bagratiòn e per  far
    compiere  ai  carriaggi  (il  cui  movimento  avveniva  di nascosto ai
    Francesi) almeno un giorno di marcia in più verso Znaõm.
    La  proposta  di  armistizio  offriva  dunque   l'unica   e   inattesa
    possibilità  di  salvare l'esercito.  Avuta la notizia,  Kutuzòv mandò
    immediatamente il generale aiutante  Wintzingerode  al  campo  nemico.
    Egli  doveva  non  solo  accettare l'armistizio,  ma anche proporre le
    condizioni per una capitolazione;  frattanto Kutuzòv  mandava  i  suoi
    aiutanti  più indietro,  con l'ordine di affrettare il più possibile i
    movimenti dei carriaggi di tutto l'esercito sulla strada  Krems-Znaõm.
    L'esausto,  affamato  distaccamento  di Bagratiòn doveva,  per coprire
    questa marcia di carriaggi,  restare immobile di fronte  a  un  nemico
    otto volte superiore.
    Le  previsioni  di Kutuzòv si avverarono sia riguardo alla proposta di
    una capitolazione che non obbligava a nulla e  che  poté  dare  a  una
    parte  dei  carriaggi il tempo di passare,  sia riguardo all'errore di
    Murat  che  non  doveva  tardare  a  risultare  evidente.  Non  appena
    Napoleone,  che  si  trovava  a  Schönbrunn,  a  venticinque miglia da
    Hollabrünn,  ebbe ricevuto il rapporto  di  Murat  e  il  progetto  di
    armistizio  e  di capitolazione,  e si avvide dell'inganno,  scrisse a
    Murat la lettera seguente:

    "Au prince Murat.
    Schönbrunn, 25 brumaire en 1805, à huit heures du matin.

    "Il m'est impossible de trouver des  termes  pour  vous  exprimer  mon
    mécontentement.  Vous  ne  commandez que mon avantgarde et vous n'avez
    pas le droit de faire d'armistice  sans  mon  ordre.  Vous  me  faites
    perdre  le  fruit  d'une campagne.  Rompez l'armistice sur-le-champ et
    marchez à l'ennemi. Vous lui ferez déclarer que le général qui a signé
    cette capitulation n'avait pas le droit de le faire,  qu'il n'y a  que
    l'Empereur de Russie qui ait ce droit.
    "Toutes  les  fois  cependant  que l'Empereur de Russie ratifierait la
    dite convention, je la ratifierai; mais ce n'est qu'une ruse. Marchez,
    détruisez l'armée russe... Vous etes en position de prendre son bagage
    et son artillerie.  L'aide de camp de l'Empereur de Russie  est  un...
    Les officiers ne sont rien,  quand ils n'ont pas de pouvoir;  celui-ci
    n'en avait point...  Les Autrichiens se sont  laissés  jouer  pour  le
    passage du pont de Vienne, vous vous laissez jouer par un aide de camp
    de l'Empereur.
    Napoléon".
    [71. "Al principe Murat.
    Schönbrunn, il 25 brumaio 1805, alle ore otto del mattino.
    "Mi  è  impossibile  trovare  le  parole  adatte per esprimervi il mio
    malcontento.  Voi comandate soltanto la mia avanguardia e non avete il
    diritto di concludere un armistizio senza mio ordine.  Mi fate perdere
    il frutto di  una  campagna.  Rompete  immediatamente  l'armistizio  e
    marciate  contro  il nemico.  Gli farete sapere che il generale che ha
    firmato questa capitolazione non aveva alcun diritto di  farlo  e  che
    tale  diritto  spetta  unicamente  all'imperatore  di Russia.  Qualora
    l'imperatore di Russia ratificasse detta convenzione,  la  ratificherò
    anch'io;  ma  questa  non  è  che  un'astuzia.  Marciate,  distruggete
    l'esercito russo... Siete in condizioni di prendere i suoi carriaggi e
    le sue artiglierie.  L'aiutante di campo dell'imperatore di  Russia  è
    un...  Gli  ufficiali  non contano nulla,  quando non hanno poteri,  e
    costui non ne aveva.  Gli Austriaci si  sono  lasciati  ingannare  dal
    passaggio del ponte di Vienna, voi vi lasciate ingannare dall'aiutante
    di campo dell'imperatore.
    Napoleone"].

    Un  aiutante  di  campo  dell'imperatore  partì  al galoppo con questa
    terribile lettera per Murat.  Lo stesso Bonaparte,  non fidandosi  dei
    suoi  generali,  mosse  di  persona  con tutta la sua guardia verso il
    campo di battaglia, temendo che la vittima gli potesse sfuggire,  ma i
    quattromila  uomini  di  Bagratiòn,  accesi allegramente i fuochi,  si
    scaldavano,  si asciugavano e si cucinavano  per  la  prima  volta  la
    "kascia"  (72)  dopo  tre  giorni,  e  nessuno  dei  soldati  sapeva o
    prevedeva quale sorte gli si stava preparando.
    Alle quattro del pomeriggio il principe Andréj, che aveva ripetuto con
    insistenza la sua preghiera a Kutuzòv,  arrivò a Grunt e si presentò a
    Bagratiòn. L'aiutante di Bonaparte non aveva ancora raggiunto il corpo
    di  Murat,   e  il  combattimento  non  era  ancora  cominciato.   Nel
    distaccamento di Bagratiòn non si sapeva nulla dell'andamento generale
    delle cose e si parlava di pace, pur non credendo in tale possibilità.
    Si parlava della battaglia, ma non si riteneva che fosse imminente.
    Bagratiòn,  che conosceva  Bolkonskij  come  l'aiutante  preferito  di
    Kutuzòv  e  nel  quale  il generalissimo riponeva maggior fiducia,  lo
    ricevette con particolare e cortese benevolenza;  gli  spiegò  che  in
    giornata  o  il  giorno  seguente avrebbe avuto probabilmente luogo la
    battaglia e gli lasciò piena libertà  di  stare  con  lui  durante  il
    combattimento  o di recarsi alla retroguardia per sorvegliare l'ordine
    della ritirata, la quale cosa "era pure importantissima".
    - E' probabile,  d'altra parte,  che oggi non si combatta  -  concluse
    Bagratiòn, come per rassicurare il principe Andréj.
    "Se  costui è uno dei soliti zerbinotti dello stato maggiore",  pensò,
    "mandato qui per avere una decorazione,  l'avrà  anche  restando  alla
    retroguardia;  se  poi  vuole  restare  con  me,  ed  è  un  ufficiale
    coraggioso, resti pure... potrà essere utile", pensò Bagratiòn.
    Il principe Andréj,  senza  rispondere,  gli  chiese  il  permesso  di
    visitare  la  posizione e di studiare il dislocamento delle truppe per
    rendersi conto  dove  gli  convenisse  andare  in  caso  gli  toccasse
    eseguire qualche ordine. L'ufficiale di servizio del distaccamento, un
    bell'uomo   dalla   divisa  elegante,   con  un  anello  di  brillanti
    all'indice, e che parlava male, ma volentieri,  il francese,  si offrì
    di accompagnarlo.
    Da  ogni parte si vedevano ufficiali inzuppati d'acqua,  dallo sguardo
    triste,   che  sembravano  cercare  qualche  cosa,   e   soldati   che
    trascinavano dal villaggio porte, panche, palizzate.
    -  Vedete,  principe,  non  possiamo  liberarci  da  costoro  -  disse
    l'ufficiale di  stato  maggiore,  indicando  quegli  uomini.    -    I
    comandanti sono troppo deboli. E qui  -  e indicò la tenda montata dal
    vivandiere    -    qui  si  riuniscono  e non si muovono più.  Proprio
    stamattina li ho cacciati via tutti quanti  e  ora,  come  vedete,  la
    tenda  è  di nuovo piena.  Avviciniamoci,  principe,  e cacciamoli via
    un'altra volta. E' questione di un minuto.
    - Entriamo, così prenderò anch'io un po' di pane e formaggio  -  disse
    il principe che non aveva ancora fatto in tempo a mangiare un boccone.
    - Perché non me l'avete detto,  principe?  Vi  avrei  offerto  la  mia
    ospitalità.
    Smontarono da cavallo ed entrarono nella tenda del vivandiere.  Alcuni
    ufficiali dalle facce stanche e arrossate stavano seduti davanti  alle
    rozze tavole e mangiavano e bevevano.
    - Ma come,  signori!  -  esclamò l'ufficiale di stato maggiore, con il
    tono di rimprovero di chi abbia già ripetuto parecchie volte la stessa
    cosa...   -  Non sapete che  non  è  permesso  assentarsi  dai  propri
    reparti? Il principe ha dato ordine che nessuno si muova. E anche voi,
    signor  capitano  in  seconda,  siete  qui  -  disse,  volgendosi a un
    ufficiale di artiglieria piccolo,  magro  e  sporco  il  quale,  senza
    stivali (li aveva dati al vivandiere perché li facesse asciugare), con
    i  soli calzini,  si era alzato in piedi davanti ai due che entravano,
    sorridendo in modo non del tutto naturale.
    - Non vi vergognate,  capitano Tuscin?   -   proseguì  l'ufficiale  di
    stato maggiore.   -  Mi pare che,  nella vostra qualità di artigliere,
    dovreste dare il buon esempio,  ed ecco che siete  senza  stivali.  Se
    venisse dato l'allarme,  stareste davvero bene in tali condizioni!   -
    (L'ufficiale di stato maggiore sorrise).-  Vogliate tornare  tutti  al
    vostro posto, tutti!  -  aggiunse in tono autoritario.
    Il principe Andréj sorrise suo malgrado, guardando il capitano Tuscin.
    In silenzio e sempre sorridendo,  appoggiandosi ora sopra un piede ora
    sopra l'altro,  egli volgeva interrogativamente i grandi occhi buoni e
    intelligenti  ora  sul  principe  Andréj,  ora sull'ufficiale di stato
    maggiore.
    - I soldati dicono che scalzi si va più comodi  -  mormorò il capitano
    Tuscin sorridendo e  facendosi  rosso,  con  l'evidente  desiderio  di
    uscire dall'imbarazzante situazione in cui si trovava,  usando il tono
    scherzoso.
    Ma  ancor  prima  di  aver  finito  di  parlare,   sentì  che  la  sua
    spiritosaggine  non  era  accolta e che non serviva a nulla.  E rimase
    imbarazzato.
    - Vogliate ritirarvi  -  gli  disse  l'ufficiale  di  stato  maggiore,
    cercando di mantenersi serio.
    Il   principe   Andréj  guardò  ancora  una  volta  la  figura  minuta
    dell'artigliere.  Essa  aveva  un  non  so  che  di  particolare,   di
    assolutamente  non  militaresco,  un  po' comico ma straordinariamente
    simpatico.
    L'ufficiale di stato maggiore e il principe Andréj salirono a  cavallo
    e proseguirono.
    Usciti  dal  villaggio,  tra  un  continuo andirivieni di soldati e di
    ufficiali di varie  armi,  videro  alla  loro  sinistra  trinceramenti
    appena scavati,  rosseggianti di argilla fresca. Alcuni battaglioni di
    soldati,  in maniche di camicia nonostante soffiasse un vento  freddo,
    vi  lavoravano  attorno come bianche formiche;  da dietro le scarpate,
    mani invisibili lanciavano incessantemente  fuori  palate  di  argilla
    rossastra.   I  due  ufficiali,  avvicinandosi  al  trinceramento,  lo
    osservarono e passarono oltre. Proprio dietro la trincea videro alcune
    diecine di soldati che si avvicendavano senza posa,  venendo di  corsa
    dal  trinceramento.  Dovettero  tapparsi il naso e mettere al trotto i
    cavalli per allontanarsi da quella mefitica atmosfera.
    - "Voilà l'agrément des  camps,  monsieur  le  prince"  [73.  Ecco  le
    delizie  del  campo,  signor  principe!]    -    disse  l'ufficiale di
    servizio.
    Salirono sulla collina di fronte.  Da quell'altura già si  vedevano  i
    Francesi. Il principe Andréj si fermò e si mise ad osservare.
    -  Una  nostra  batteria  è piazzata là  -  disse l'ufficiale di stato
    maggiore,  indicando il punto culminante della  collina.    -    Ed  è
    appunto la batteria di quell'originale che abbiamo visto senza scarpe.
    Di lassù si domina tutto: andiamoci, principe.
    -  Vi  ringrazio  moltissimo,  ma  andrò avanti da solo  -  rispose il
    principe  Andréj,   desiderando  liberarsi  dall'ufficiale  di   stato
    maggiore.  -  Vi prego, non disturbatevi!
    L'ufficiale si fermò, e il principe Andréj proseguì solo.
    Quanto  più  procedeva e si avvicinava al nemico,  tanto più le truppe
    apparivano  gaie  e  ordinate.   Il  disordine  e  l'abbattimento  più
    impressionante,  il  principe li aveva notati alcune ore prima in quel
    convoglio sulla strada di Znaõm che egli aveva percorso quella mattina
    stessa, a dieci miglia dai Francesi.  Anche a Grunt aveva avvertito un
    turbamento diffuso e un senso indefinito di paura.  Ma ora, quanto più
    si avvicinava alle posizioni nemiche, tanto più l'aspetto delle nostre
    truppe appariva sicuro e  pieno  di  fiducia.  I  soldati  erano  bene
    allineati,  vestiti  di  cappotti  grigi,  e il sergente maggiore e il
    comandante della compagnia  contavano  gli  uomini  puntando  il  dito
    contro  il petto del soldato capofila e ordinandogli di alzar la mano;
    soldati sparpagliati all'intorno  trascinavano  tronchi  e  fascine  e
    costruivano  baracche,  ridendo  e  chiacchierando allegramente tra di
    loro;  attorno ai fuochi  del  bivacco  si  affollavano  davanti  alle
    caldaie, nudi o vestiti, e facevano asciugare le camicie e le pezze da
    piedi  o  rattoppavano stivali e cappotti.  In una compagnia il rancio
    era pronto e i soldati,  con le facce avide,  guardavano  i  pentoloni
    fumanti  e aspettavano che l'ufficiale,  seduto su una trave di fronte
    alla baracca del cantiniere,  assaggiasse la zuppa che  il  cantiniere
    gli porgeva in una ciotola di legno.
    In  un'altra  compagnia  più fortunata  -  poiché non tutti avevano la
    vodka  -  gli uomini si erano stretti attorno al sergente maggiore, un
    tipo dalle spalle larghe e dal  viso  butterato  che,  inclinando  una
    botticella,  versava da bere nei coperchi delle gavette che,  a turno,
    gli uomini gli porgevano.  I soldati,  con espressione beata portavano
    il  coperchio  alle  labbra,  lo  vuotavano e,  sciacquatasi la bocca,
    l'asciugavano con la manica del cappotto e  si  allontanavano  con  il
    viso  atteggiato  a  una più allegra espressione.  Tutte le fisionomie
    erano calme, come se quegli uomini non si trovassero davanti al nemico
    prima di una battaglia nella quale almeno una metà di  essi  sarebbero
    rimasti  sul  terreno,  ma  come  se  si  fossero  riuniti in un luogo
    qualunque del loro paese, in attesa di una tranquilla sosta.
    Dopo aver attraversato il reggimento dei  cacciatori  e  le  file  dei
    granatieri di Kiev,  bei giovani robusti intenti anch'essi a pacifiche
    operazioni,  il principe Andréj,  a breve distanza dalla  baracca  del
    comandante  del  reggimento,  che  spiccava  tra le altre,  giunse sul
    fronte di un plotone di granatieri davanti al quale  era  disteso  per
    terra  un  uomo nudo.  Due soldati lo tenevano saldamente e altri due,
    sollevando certe bacchette flessibili,  gli sferzavano ritmicamente il
    dorso. La vittima emetteva grida strazianti. Un grasso maggiore andava
    avanti e indietro lungo lo schieramento e, senza badare a quegli urli,
    diceva:
    - Per un soldato, rubare è una vergogna: un soldato dev'essere onesto,
    nobile  e  coraggioso;  se un soldato deruba un compagno vuol dire che
    non ha onore, che è una canaglia. Picchiate ancora, ancora!
    Si sentivano soltanto i  colpi  sibilanti  della  sferza  e  gli  urli
    disperati, ma simulati.
    - Ancora, ancora!  -  ripeteva il maggiore.
    Un  giovane ufficiale,  con il viso atteggiato a doloroso stupore,  si
    allontanò dal  soldato  punito,  volgendo  uno  sguardo  interrogativo
    all'aiutante che gli passava vicino.
    Giunto  alla linea degli avamposti,  il principe Andrej passò lungo il
    fronte. Le nostre linee e quelle nemiche,  schierate rispettivamente a
    destra e a sinistra, erano lontane l'una dall'altra, ma al centro, nel
    punto  in cui quella mattina erano passati i parlamentari,  si erano a
    tal punto ravvicinate che  gli  uomini  potevano  vedersi  in  viso  e
    parlarsi.  Oltre  ai  soldati  che  in quel punto occupavano la linea,
    c'erano dall'una e dall'altra parte molti curiosi i  quali  stavano  a
    guardare,  sorridendo,  quei  nemici  strani  e  per loro sconosciuti.
    Nonostante il divieto di avvicinarsi alle linee  sino  dal  mattino  i
    comandanti  non erano riusciti a liberarsi dai curiosi.  I soldati non
    guardavano ormai più i Francesi,  ma facevano le proprie  osservazioni
    su coloro che si avvicinavano e si annoiavano in attesa del cambio. Il
    principe Andréj si fermò ad osservare i Francesi.
    - Guarda!  Guarda!  -  diceva un soldato a un commilitone indicandogli
    un moschettiere russo che con un  ufficiale  si  era  avvicinato  alle
    linee  e  parlava fitto e animato a un granatiere francese.   -  Senti
    come discorre bene!  Neppure  il  francese  può  stargli  dietro!  Eh,
    Sidorov?
    - Aspetta,  ascolta...  Uh,  come parla bene!  -  rispose Sidorov, che
    aveva fama di conoscere bene il francese.
    Il soldato che i due si indicavano ridendo era Dòlochov.  Il  principe
    Andréj  lo  riconobbe  e  tese  l'orecchio alle sue parole.  Dòlochov,
    insieme con il  suo  capitano,  era  venuto  sulla  linea  dal  fianco
    sinistro dove si trovava il suo reggimento.
    - Suvvia, ancora, ancora!  -  insisteva il comandante della compagnia,
    chinandosi  in  avanti e cercando di non perdere nemmeno una di quelle
    parole che pur non comprendeva.   -  Più in fretta,  per favore!  Cosa
    dice?
    Dòlochov   non  rispose  al  capitano;   era  tutto  accalorato  nella
    discussione con il granatiere francese.  Com'era  naturale,  parlavano
    della  campagna.  Il francese,  confondendo i Russi con gli Austriaci,
    voleva sostenere che i Russi si erano arresi e si erano dati alla fuga
    dal giorno della battaglia di Ulma,  Dòlochov dimostrava che  i  Russi
    non si erano arresi ma che, anzi, avevano battuto i Francesi.
    -  Qui  abbiamo  l'ordine  di  cacciarvi    -  disse Dòlochov  -  e vi
    cacceremo.
    - Badate piuttosto di non essere presi con tutti i vostri cosacchi   -
    ribatté il granatiere francese
    Gli spettatori francesi che ascoltavano ridevano.
    -  Vi faremo ballare come ballavate al tempo di Suvorov ("on vous fera
    danser")  -  disse Dòlochov.
    - "Qu'est-ce qu'il  chante?"  [74.  Che  diavolo  dice,  costui?]    -
    domandò un francese.
    - "De l'histoire ancienne"  -  gli rispose un altro,  che aveva capito
    che si trattava delle guerre passate.   -  "L'Empereur  va  lui  faire
    voir  à  votre  Souvara,  comme aux autres..." [75.  Vecchia storia...
    L'imperatore gliela farà vedere  al  vostro  Suvarà,  e  a  tutti  gli
    altri...].
    -  Buonaparte...    -    ricominciava  Dòlochov,  ma  il  francese  lo
    interruppe.
    - Macché Buonaparte! L'imperatore...  -  gridò incollerito.
    - Il diavolo se lo porti, il vostro imperatore!
    E Dòlochov imprecò in russo in modo volgare e soldatesco  e  gettatosi
    il fucile in spalla, si allontanò.
    - Andiamo, Ivàn Lukic'  -  disse al capitano.
    - Ecco il modo di parlare dei Francesi!   -  esclamarono i soldati che
    erano in linea.  -  Ora tocca a te, Sidorov!
    Sidorov strizzò gli occhi,  e,  rivolgendosi ai Francesi,  cominciò  a
    balbettare fitto fitto parole incomprensibili.
    - Carì,  malà,  tafà,  safì, mutèr, kaskà  -  farfugliava, cercando di
    dare alla propria voce intonazioni espressive.
    - Oh!  oh!  Ah,  ah,  ah!   -  scoppiò tra i soldati una  risata  così
    clamorosa e allegra che, propagatasi al di là della linea, giunse sino
    al  Francesi,  cosicché  pareva  che  non  restasse  altro da fare che
    scaricare i fucili,  far saltare le cartucce e separarsi  per  tornare
    ciascuno alla propria casa.
    Ma  i  fucili rimasero carichi,  le feritoie delle case continuarono a
    guardare minacciose e, come prima, i cannoni,  staccati dagli affusti,
    rimasero puntati gli uni contro gli altri.


    CAPITOLO 16.

    Dopo  aver percorso tutta la linea delle truppe dal fianco destro sino
    al sinistro,  il principe Andréj salì verso la batteria  dalla  quale,
    secondo  le  parole dell'ufficiale di stato maggiore,  la vista poteva
    spaziare sui due campi. Giuntovi,  scese da cavallo e si fermò accanto
    a  uno  dei  quattro cannoni staccati dagli affusti.  Davanti ai pezzi
    passeggiava un artigliere di sentinella che fu sul punto  di  mettersi
    sull'attenti davanti all'ufficiale ma che,  a un segno di lui, riprese
    il suo andare e venire a passi regolari e monotoni.  Dietro  ai  pezzi
    stavano  gli  avantreni  e,  dietro  ancora,  i  pali  per attaccare i
    cavalli,  e i fuochi di bivacco  degli  artiglieri.  A  sinistra,  non
    lontano   dall'ultimo   cannone,   sorgeva  una  capannuccia  di  rami
    intrecciati,  costruita da poco,  dalla quale uscivano le voci animate
    degli ufficiali.
    Dalla  batteria la vista spaziava realmente sull'allineamento di quasi
    tutte le truppe russe e della maggior parte di quelle nemiche. Proprio
    di fronte alla batteria,  sull'orizzonte  dell'altura  dirimpetto,  si
    vedeva  il villaggio di Schöngraben;  più a sinistra e più a destra si
    potevano distinguere in tre punti,  tra il  fumo  dei  loro  bivacchi,
    ammassamenti  di  truppe  francesi,  la  maggior  parte delle quali si
    dovevano evidentemente  trovare  nel  villaggio  stesso  e  dietro  la
    collina.  A  sinistra  del  villaggio,  si  scorgeva  in  mezzo a fumo
    qualcosa che sembrava una batteria ma  che,  a  occhio  nudo,  non  si
    poteva  distinguere  bene.  L'ala  destra  russa era scaglionata su di
    un'altura piuttosto ripida che dominava le posizioni francesi.  Vi era
    stata  scaglionata la nostra fanteria e all'orlo estremo si vedevano i
    dragoni.  Al centro,  là dove si trovava la batteria di Tuscin e donde
    il principe Andréj osservava le posizioni, il declivio era più dolce e
    conduceva  direttamente al ruscello che ci separava da Schöngraben.  A
    sinistra le truppe  russe  si  stendevano  sino  a  una  foresta  dove
    fumavano  i fuochi dei nostri fanti,  occupati a raccoglier legna.  La
    linea dei Francesi era più lunga della nostra ed era chiaro  che  essi
    avrebbero  potuto  facilmente  accerchiarci  dai  due lati.  Dietro le
    nostre posizioni si apriva un burrone scosceso e profondo, che avrebbe
    reso assai  difficile  l'indietreggiamento  dell'artiglieria  e  della
    cavalleria.  Il  principe  Andréj,  poggiato un gomito su un cannone e
    tirato fuori un taccuino,  tracciava  per  proprio  uso  un  piano  di
    disposizione delle truppe.  In due punti fece delle annotazioni con la
    matita con l'intenzione di comunicarle a Bagratiòn. Riteneva, in primo
    luogo,  che fosse necessario ammassare tutta l'artiglieria nel  centro
    e,  in  secondo,  che  si  dovesse  arretrare  la cavalleria di là del
    burrone.  Il principe Andréj,  che si trovava tuttora al  séguito  del
    comandante  supremo,  seguiva  i  movimenti  delle  masse e gli ordini
    generali,  e studiava sempre  le  descrizioni  delle  battaglie  della
    storia  e  immaginava  suo malgrado anche quell'azione imminente nelle
    linee generali.  Alla  mente  gli  si  presentavano  soltanto  le  due
    seguenti  grandi  ipotesi:  "Se  il nemico inizia l'attacco sul fianco
    destro" diceva a se stesso "i granatieri di Kiev  e  i  cacciatori  di
    Podòlja  dovranno  difendere  le loro posizioni sino a che non saranno
    raggiunti dalle riserve del centro.  In tal caso,  i  dragoni  possono
    assalire  l'ala nemica e sfondarla.  Se invece l'attacco avrà luogo al
    centro, noi collocheremo su questa altura la batteria centrale e, così
    protetti,   faremo  ripiegare  l'ala  sinistra  e  indietreggeremo   a
    scaglioni sino al burrone...".
    -  No,  mio  caro    -    diceva intanto quella simpatica voce che gli
    sembrava di conoscere;   -  io dico  che  se  fosse  possibile  sapere
    quello che ci sarà dopo la morte,  nessuno la temerebbe più.  E' così,
    mio caro!
    Un'altra voce più giovane lo interruppe:
    - Paura o no, non la si può evitare...
    - Eppure si ha paura!  Eh,  voialtri dotti  -  s'intromise  una  terza
    voce robusta,  interrompendo le altre due;   -  voi, artiglieri, siete
    sempre molto dotti perché potete sempre portarvi dietro la vodka e uno
    spuntino.   -  E l'uomo dalla  voce  robusta,  che  doveva  essere  un
    ufficiale di fanteria, proruppe in una risata.
    -  Eppure  si  ha  paura    -   proseguì la prima voce,  quella che al
    principe Andréj pareva di conoscere.   -  La paura  dell'ignoto,  ecco
    tutto. Si ha un bel dire che l'anima sale al cielo... Noi sappiamo che
    il cielo non esiste, che sopra di noi c'è soltanto l'atmosfera...
    Di nuovo la voce robusta interruppe l'artigliere.
    - Suvvia, Tuscin, offriteci un po' del vostro liquore di erbe! disse.
    "Ah,  ecco,  è  quel  capitano  che  ho  visto  scalzo nella tenda del
    vivandiere",  pensò il principe Andréj,  riconoscendo con  piacere  la
    simpatica voce filosofeggiante.
    -  Ora ve l'offrirò  -  rispose Tuscin;   -  tuttavia,  comprendere la
    vita futura...  -  E non completò la frase.
    In  quell'istante  si  udì  nell'aria   un   sibilo:   si   avvicinava
    rapidissimo,  crescendo  di forza di attimo in attimo,  e una granata,
    come se non avesse finito di dire tutto ciò che  doveva,  si  conficcò
    violentemente in terra non lontano dalla capanna, sollevando con forza
    non  umana  frammenti  e  sassi.   Il  suolo  tremò  gemendo  all'urto
    spaventoso.
    In quello stesso istante balzò  fuori  dalla  capannuccia,  primo  fra
    tutti,  il piccolo Tuscin, con la pipa all'angolo della bocca; il viso
    buono e intelligente era un po' pallido. Dietro di lui uscì il giovane
    dalla bella voce, un ardito ufficiale di fanteria che,  abbottonandosi
    la giubba, andò di corsa verso la sua compagnia.


    CAPITOLO 17.

    Il principe Andréj,  a cavallo,  fermo davanti alla batteria, guardava
    il fumo del cannone  che  aveva  lanciato  il  proiettile.  Gli  occhi
    percorsero  il  vasto  spazio  che  si  stendeva sotto il suo sguardo:
    vedeva soltanto le masse dei Francesi che,  poco  prima  immobili,  si
    agitavano  e vedeva che a sinistra vi era effettivamente una batteria,
    al di sopra della quale indugiava ancora il fumo della cannonata.  Due
    cavalieri francesi,  probabilmente due aiutanti di campo, galoppavano,
    lungo  il  pendio  della  collina,  ai  piedi  della  quale  avanzava,
    nettamente  visibile,  una  breve colonna nemica per un rinforzo della
    linea.  Il fumo della cannonata non si era ancora dissipato quando  ne
    apparve  un  secondo  e si udì un'altra detonazione.  La battaglia era
    incominciata.  Il principe Andréj voltò il cavallo e partì al  galoppo
    verso Grunt, in cerca del principe Bagratiòn. Alle sue spalle udiva il
    cannoneggiamento   farsi   via  via  più  frequente  e  più  rumoroso.
    Evidentemente i nostri cominciavano a rispondere. In basso,  nel punto
    in cui erano passati i parlamentari, echeggiarono colpi di fucile.
    Lemairrois (76),  latore della dura lettera di Bonaparte, aveva appena
    raggiunto Murat il quale,  mortificato e desideroso  di  rimediare  al
    proprio  errore,  aveva  subito dato ordine alle sue truppe di muovere
    verso il centro e aveva iniziato l'aggiramento  dei  due  fianchi  dei
    Russi  sperando  di  annientare,  prima  che  annottasse e ancor prima
    dell'arrivo  dell'imperatore,   il  piccolo  distaccamento  che  aveva
    davanti a sé.
    "Ci  siamo!  La battaglia è incominciata!",  pensò il principe Andréj,
    sentendo il sangue affluirgli più rapido al cuore.  "Ma  dove  e  come
    potrò trovare la mia Tolone (77)?".
    Nel  ripassare  davanti  a  quelle compagnie che un quarto d'ora prima
    mangiavano la "kascia" e bevevano vodka,  vedeva  ovunque  gli  stessi
    rapidi movimenti degli uomini che si allineavano e mettevano in ordine
    i  fucili  e  sul  viso  di  tutti  ritrovava  quello  stesso senso di
    animazione che riempiva il suo cuore.  "Ci siamo!  E' cominciata!  Una
    cosa terribile e allegra insieme!",  diceva il volto di ogni ufficiale
    e di ogni soldato.
    Ancor prima di giungere ai lavori di fortificazione,  vide nella  luce
    crepuscolare  della  nuvolosa  giornata autunnale alcuni cavalieri che
    gli venivano incontro.  Quello in testa,  in "burka" (78)  e  berretto
    caucasico,  che montava un cavallo bianco,  era il principe Bagratiòn.
    Il principe Andréj si fermò per aspettarlo.  Bagratiòn trattenne a sua
    volta  il cavallo e,  riconosciuto Bolkonskij,  lo salutò con un cenno
    del capo,  continuando a guardare davanti a  sé,  lontano,  mentre  il
    principe Andréj gli comunicava ciò che aveva veduto.
    L'espressione  "E'  cominciata!  Ci siamo!" appariva persino sul volto
    bruno e deciso  del  principe  Bagratiòn,  dagli  occhi  semichiusi  e
    torbidi, come se non avesse dormito a sufficienza. Il principe Andréj,
    con  curiosità  inquieta,  guardava  fissamente quel viso immobile,  e
    avrebbe voluto sapere se quell'uomo in quel momento pensava e sentiva,
    e che cosa precisamente pensasse  e  sentisse.  "C'è  qualcosa  dietro
    quella faccia immobile?", si chiedeva il principe Andréj, guardandolo.
    Bagratiòn fece con il capo un cenno di approvazione alle parole di lui
    e  disse:  "Sta  bene"  con  un tono che pareva significasse che tutto
    quanto  era  avvenuto  e  gli  veniva  ora  comunicato   corrispondeva
    precisamente alle sue previsioni. Il principe Andréj, ansimante per la
    veloce galoppata,  parlava in fretta.  Bagratiòn pronunziava le parole
    con il suo accento orientale, particolarmente lento, come se ritenesse
    inutile affrettarsi. Tuttavia spinse al trotto il suo cavallo verso la
    batteria di Tuscin.  Il principe Andréj  si  unì  agli  ufficiali  del
    séguito.  Dietro  al  principe  Bagratiòn cavalcavano un ufficiale del
    séguito,   l'aiutante  personale  del  principe  Zerkòv,   l'ufficiale
    d'ordinanza, un ufficiale di stato maggiore di servizio che montava un
    bel  cavallo inglese,  e un funzionario civile,  un auditore che,  per
    curiosità,  aveva chiesto il permesso  di  assistere  alla  battaglia.
    L'auditore,  un  uomo  atticciato,  dalla  faccia grossa,  dal sorriso
    ingenuo  e  gioioso,   guardava  attorno  a  sé  da  tutte  le  parti,
    sballottato  dal  suo  cavallo,  e  tra  gli ussari,  i cosacchi,  gli
    aiutanti di campo risaltava bizzarramente con il suo soprabito di pelo
    di cammello, su una sella da furiere.
    - Costui ha voglia di vedere  una  battaglia,    -    disse  Zerkòv  a
    Bolkonskij, indicandogli l'auditore  -  ma ha già mal di stomaco dalla
    paura...
    - Suvvia, smettetela!  -  rispose l'auditore con un sorriso raggiante,
    ingenuo  e  astuto insieme,  come se fosse lusingato di essere oggetto
    delle celie di Zerkòv e come se si sforzasse di parere più stupido  di
    quanto in realtà non fosse.
    - "Très drôle,  mon monsieur prince" [79. Molto divertente, mio signor
    principe!]  -   disse  l'ufficiale  di  stato  maggiore  di  servizio.
    (Ricordava  che  in francese al titolo di "principe" viene aggiunto un
    particolare attributo, ma non riusciva più a ricordare quale) (80).
    Intanto,  mentre si erano avvicinati alla batteria  di  Tuscin,  cadde
    davanti a loro una granata.
    - Cos'è accaduto?  -  domandò l'auditore con un ingenuo sorriso.
    - Una focaccia francese  -  rispose Zerkòv.
    -  Ah,  e  con  queste,  dunque,  uccidono?  Che  orrore!   -  esclamò
    l'auditore.
    E pareva che fosse fuori di sé dal piacere.  Aveva  appena  finito  di
    parlare  quando si udì di nuovo,  improvvisamente,  un orribile sibilo
    che finì con un tonfo su qualcosa di liquido e sc...  sc...  scliòp...
    il cosacco che cavalcava dietro l'auditore, un po' a destra, ruzzolò a
    terra  con  il cavallo.  Zerkòv e l'ufficiale di servizio si chinarono
    sulla sella e fecero girare i cavalli.  L'auditore si fermò davanti al
    cosacco e lo guardò con curiosità,  attentamente. L'uomo era morto, il
    cavallo si dibatteva ancora.
    Il principe Bagratiòn si volse con aria accigliata e, resosi conto del
    motivo che aveva causato quella confusione,  guardò subito altrove con
    indifferenza come se volesse dire: "Ma mette conto occuparsi di simili
    sciocchezze?". Fermò il cavallo da provetto cavaliere, si chinò un po'
    in  avanti  e  raddrizzò  la  sciabola  che  gli si era impigliata nel
    mantello. Era una sciabola antica,  diversa da quelle che si portavano
    allora. Il principe Andréj si ricordò di aver sentito dire che Suvorov
    aveva  regalato  la propria sciabola a Bagratiòn,  e quel ricordo,  in
    quel momento, gli fu particolarmente gradito.  Raggiunsero la batteria
    presso la quale aveva sostato Bolkonskij, quando osservava il campo di
    battaglia.
    -  Chi  comanda questa compagnia?   -  chiese il principe Bagratiòn al
    sottufficiale di guardia che stava presso i cannoni.
    Aveva fatto quella domanda,  ma in realtà voleva chiedere: "Voi,  qui,
    non avete un po' di paura?". Il sottufficiale capì.
    - Il capitano Tuscin, eccellenza  -  gridò con voce allegra mettendosi
    sull'attenti,  un  artigliere dai capelli rossi e dalla faccia coperta
    di lentiggini.
    - Bene,  bene  -  disse Bagratiòn e,  facendo mentalmente dei calcoli,
    si spinse sino all'ultimo cannone della batteria.
    Mentre  egli si avvicinava partì da quel cannone,  assordando lui e il
    séguito,  un colpo e nella nube di fumo che avvolse tutto a un  tratto
    il  pezzo,  si  scorsero  gli artiglieri che,  afferrandolo,  facevano
    grandi sforzi per rimetterlo a posto.  Il soldato numero  uno  alto  e
    dalle ampie spalle,  balzò indietro a gambe larghe verso la ruota;  il
    numero due,  con mani tremanti,  introdusse la carica nella bocca.  Un
    ometto un po' curvo,  l'ufficiale Tuscin,  corse avanti,  incespicando
    nell'affusto e, senza vedere il generale,  si mise a guardare lontano,
    riparandosi gli occhi con la piccola mano.
    -  Aggiungi  ancora  due  linee  e la mira andrà bene  -  gridò con la
    esile vocetta alla quale si sforzava di  dare  una  baldanza  che  non
    concordava con la sua persona.   -  Il secondo!   -  strillò.-  Fuori,
    Medvedev!
    Bagratiòn chiamò l'ufficiale e Tuscin si avvicinò al generale  con  un
    movimento timido e goffo e,  portando tre dita alla visiera salutò non
    al modo con cui salutano i  militari,  ma  come  benedicono  i  preti.
    Benché   i   cannoni   di   Tuscin   fossero   destinati   a   sparare
    sull'avvallamento  sottostante,  egli  sparava  proiettili  contro  il
    villaggio  di  Schöngraben  che  si scorgeva lì di fronte e davanti al
    quale si movevano grandi masse di Francesi.
    Nessuno aveva ordinato a  Tuscin  contro  che  cosa  e  con  che  cosa
    sparare,   ma  egli,  consigliatosi  con  il  suo  sergente  maggiore,
    Zacharcenko,  che teneva in grande considerazione,  aveva  deciso  che
    sarebbe stato utile incendiare il villaggio.
    -  Sta bene!   -  approvò Bagratiòn,  dopo avere ascoltato il rapporto
    dell'ufficiale e prese a osservare il campo di battaglia  che  gli  si
    stendeva dinanzi, come intento a pensare qualcosa.
    I  Francesi  erano avanzati soprattutto dal lato destro.  Un po' sotto
    l'altura,  sulla quale stava il reggimento di Kiev,  nell'avvallamento
    del  fiume,  si  udiva  un  incessante rumore di fucilate che dava uno
    stringimento al cuore e,  molto più  a  destra,  oltre  la  linea  dei
    dragoni,  l'ufficiale  del  séguito  indicò al principe una colonna di
    Francesi che aggirava il fianco  russo.  A  sinistra  l'orizzonte  era
    limitato  dalla  foresta  vicina.  Il principe Bagratiòn ordinò ai due
    battaglioni del centro di andare a rinforzare la  destra.  L'ufficiale
    del  séguito  osò  far  osservare  al  principe che,  partiti quei due
    battaglioni,  le  batterie  sarebbero  rimaste  senza  copertura.   Il
    principe  Bagratiòn si voltò verso l'ufficiale del séguito e lo guardò
    in silenzio, con gli occhi torbidi.  Al principe Andréj l'osservazione
    dell'ufficiale  pareva  che fosse giusta e che su di essa non ci fosse
    da discutere.  Ma in quel momento stesso giunse al galoppo  l'aiutante
    di campo del comandante del reggimento che occupava l'avvallamento,  e
    annunziò che ingenti forze francesi avanzavano nella pianura,  che  il
    reggimento  era  disperso  e ripiegava verso i granatieri di Kiev.  Il
    principe  Bagratiòn  chinò  il  capo  in  segno  di  consenso   e   di
    approvazione.  Tenendo il cavallo al passo, mosse verso destra e mandò
    il suo aiutante di campo dai  dragoni  con  l'ordine  di  attaccare  i
    Francesi.  L'inviato  tornò  dopo  mezz'ora  con  la  notizia  che  il
    comandante del reggimento  dei  dragoni  aveva  già  ritirati  i  suoi
    battaglioni  di  là  dal  burrone,   giacché  un  terribile  fuoco  di
    artiglieria diretto contro di essi gli cagionava  inutili  perdite  di
    uomini  e perciò aveva appiedato i tiratori,  facendoli nascondere nel
    bosco.
    - Sta bene!  -  disse Bagratiòn.
    Mentre egli si allontanava dalla batteria si sentì  sparare  anche  da
    sinistra,  nel  bosco,  e  poiché la distanza era troppo grande perché
    egli potesse giungere a tempo,  di persona,  il principe Bagratiòn  vi
    mandò  Zerkòv a dire al generale in capo,  quello stesso che a Braunau
    aveva presentato il proprio reggimento a  Kutuzòv,  di  indietreggiare
    oltre  il  burrone  il  più  presto  possibile,  giacché  l'ala destra
    probabilmente non sarebbe stata in grado  di  trattenere  a  lungo  il
    nemico.  E si dimenticò di Tuscin e del battaglione che avrebbe dovuto
    proteggerlo.  Il principe Andréj  ascoltava  con  molta  attenzione  i
    discorsi  di Bagratiòn con i comandanti e gli ordini che egli dava,  e
    con vivo stupore si rendeva conto che in realtà non si davano  ordini,
    ma  che  il  principe  Bagratiòn cercava soltanto di fare apparire che
    tutto ciò che si faceva per necessità,  per caso,  per iniziativa  dei
    singoli  comandanti,  fosse  fatto,  se non per ordine suo,  almeno in
    concordanza con le sue intenzioni.  E il principe  Andréj  notò  anche
    che,  grazie  al tatto dimostrato da Bagratiòn nonostante la casualità
    degli  avvenimenti  e  l'indipendenza  di  essi  dalla   volontà   del
    comandante,  la  presenza  di lui aveva una grandissima importanza.  I
    comandanti che si avvicinavano a Bagratiòn con  il  volto  sfatto,  si
    rasserenavano;  i  soldati e gli ufficiali lo salutavano allegramente,
    si  rianimavano  in  sua  presenza  ed  era  evidente  che  davanti  a
    quell'uomo cercavano di mettere in mostra il loro valore.


    CAPITOLO 18.

    Giunto  al  punto  culminante  della  nostra  ala destra,  il principe
    Bagratiòn cominciò a scendere verso  quella  parte  da  cui  si  udiva
    giungere un tambureggiare di fucileria e dove, a causa del denso fumo,
    non  si  vedeva  nulla.  Quanto  più  il  principe  e  il  séguito  si
    avvicinavano all'avvallamento,  tanto meno si vedeva,  ma  si  sentiva
    sempre  più  prossimo  il  vero  campo  di  battaglia.  Cominciarono a
    incontrare dei feriti. Uno, con la testa sanguinante,  senza berretto,
    era  trascinato  e sorretto da due soldati.  Rantolava e vomitava.  Un
    proiettile doveva averlo colpito alla bocca  e  alla  gola.  Un  altro
    ferito  che  veniva  loro  incontro camminava coraggiosamente da solo,
    senza fucile, gridando forte e agitando il braccio per il dolore della
    ferita recente dalla quale il sangue sgorgava come da  una  bottiglia,
    scorrendogli  sul  cappotto.  L'espressione del viso era più atterrita
    che sofferente: era stato colpito un  minuto  prima.  Attraversata  la
    strada, gli ufficiali cominciarono a scendere lungo un pendio scosceso
    e  sul  declivio  videro  alcuni uomini stesi a terra;  poi venne loro
    incontro una frotta di soldati,  alcuni dei quali  non  erano  feriti.
    Quegli  uomini,  respirando  a  stento,  salivano  su  per la china e,
    nonostante la presenza del generale,  gesticolavano parlando  ad  alta
    voce.  Più innanzi,  in mezzo al fumo si intravedevano già le file dei
    cappotti grigi, e un ufficiale, scorto il principe Bagratiòn,  si mise
    a  correre  dietro  ai  soldati  che se ne andavano,  gridando loro di
    tornare indietro. Bagratiòn si avvicinò alle file lungo le quali,  ora
    qua  ora là,  crepitavano numerose fucilate che impedivano di udire le
    parole e le grida di comando.  L'aria era impregnata  del  fumo  della
    polvere, le facce dei soldati annerite apparivano animatissime. Alcuni
    pulivano i fucili con le bacchette, altri versavano polvere nel focone
    o estraevano cartucce dalle giberne, altri ancora sparavano. Ma contro
    chi sparavano?  Non era possibile vederlo, a causa del fumo stagnante,
    che il vento non disperdeva.  Si udivano abbastanza  spesso  i  rumori
    piacevoli di un ronzio e di un fischio.
    "Che è mai questo?",  pensò il principe Andréj, avvicinandosi a quella
    folla di soldati.  "Non può essere una linea giacché sono in  mucchio,
    non  può  trattarsi di un attacco giacché non si muovono e non mi pare
    sia un quadrato giacché non sono disposti come dovrebbero...".
    Il  colonnello  comandante  del  reggimento,   un  vecchietto   magro,
    dall'aspetto  debole,  con  un sorriso simpatico e con le palpebre che
    gli coprivano più che a metà gli occhi senili conferendogli una  dolce
    espressione,  si  accostò  al  principe Bagratiòn e lo accolse come un
    padrone di casa accoglie un ospite che gli è caro.  Riferì al principe
    che i Francesi avevano sferrato un attacco di cavalleria contro il suo
    reggimento  e  che,  nonostante  l'attacco  fosse  stato respinto,  il
    reggimento aveva perduto più della metà dei suoi uomini. Il comandante
    parlò di  attacco  respinto,  inventando  quel  termine  militare  per
    significare ciò che era accaduto al suo reggimento ma, in realtà, egli
    stesso  ignorava  ciò  che era successo alle sue truppe durante quella
    mezz'ora e non poteva dire  con  certezza  se  l'attacco  fosse  stato
    respinto realmente o se il reggimento fosse stato sbaragliato.  Sapeva
    soltanto che all'inizio dell'azione molte pallottole e granate avevano
    investito le sue truppe e ucciso molti uomini;  che poi qualcuno aveva
    gridato:  "La  cavalleria!"  e  i nostri si erano messi a sparare.  Ma
    avevano sparato sino a quel momento non sulla cavalleria  che  si  era
    allontanata, ma sui fanti francesi che erano apparsi nell'avvallamento
    e  tiravano  sui nostri.  Il principe Bagratiòn chinò il capo come per
    indicare che tutto era avvenuto proprio secondo i suoi desideri  e  le
    sue previsioni.  Poi,  rivoltosi all'aiutante di campo,  gli ordinò di
    far discendere  dall'altura  due  battaglioni  del  sesto  cacciatori,
    davanti  ai  quali  erano  passati  poco  prima.  In  quell'istante il
    principe Andréj fu colpito dal  cambiamento  avvenuto  sul  volto  che
    esprimeva  ora  la decisione concentrata e felice dell'uomo che in una
    giornata di grande calura  si  accinge  a  prendere  la  rincorsa  per
    buttarsi nell'acqua fresca. Gli occhi non erano più vaghi e assonnati,
    né  l'aspetto era quello di chi si finge profondamente assorto: quegli
    occhi rotondi erano adesso animati e duri,  occhi  di  sparviero,  che
    guardavano diritto innanzi a sé, con entusiasmo e insieme con un certo
    disprezzo,  senza  evidentemente  posarsi  su  nulla  in  particolare,
    sebbene nei suoi gesti sussistesse  tuttora  la  lentezza  metodica  e
    misurata di prima.
    Il  colonnello  comandante  scongiurò il principe Bagratiòn di tornare
    indietro, allontanandosi da quella località troppo pericolosa.
    - Ve ne supplico, eccellenza, per amor di Dio!  -  diceva e,  come per
    cercare aiuto, guardava l'ufficiale del séguito che voltava le spalle.
    -  Ecco, guardate!
    E  accennava  ai  proiettili  che  senza posa sibilavano,  ronzavano e
    fischiavano attorno a loro.  Parlava con il tono  di  preghiera  e  di
    rimprovero  con  cui  parlerebbe un falegname al signore che avesse in
    mano la scure: "Noi ci siamo abituati,  ma a voi verranno i calli alle
    mani!".  Parlava come se quei proiettili non potessero colpire lui, ma
    solo il principe;  e quegli  occhi  semichiusi  conferivano  alle  sue
    parole  un'espressione  ancora  più  persuasiva.  L'ufficiale di stato
    maggiore unì finalmente a quelle del colonnello le sue esortazioni, ma
    il principe Bagratiòn non rispose;  ordinò soltanto di far cessare  il
    fuoco  e  di schierarsi in modo da far posto ai due battaglioni che si
    avvicinavano.  Mentre egli parlava,  la cortina di fumo che nascondeva
    l'avvallamento, come mossa da una mano invisibile, fu spinta da destra
    a  sinistra dal vento che aveva preso a soffiare e,  tutto a un tratto
    si aprì dinanzi a loro la visuale dell'altura opposta sulla  quale  si
    movevano i Francesi. Gli occhi di tutti si fissarono involontariamente
    su  questa  colonna  nemica  che,  snodandosi  giù per i declivi della
    montagna,  avanzava verso di loro.  Già si distinguevano i berretti di
    pelliccia dei soldati;  già si potevano discernere gli ufficiali dagli
    uomini di truppa e  già  appariva  la  bandiera  che  sbatteva  contro
    l'asta.
    - Marciano bene!  -  osservò qualcuno del séguito di Bagratiòn.
    La testa della colonna aveva già raggiunto l'avvallamento.  Lo scontro
    doveva aver luogo da quella parte del pendio...
    I resti del nostro  reggimento,  già  impegnato  nella  battaglia,  si
    scostavano verso destra,  riordinandosi; dietro di loro, disperdendo i
    ritardatari,   avanzavano  in  ordine  i  due  battaglioni  del  sesto
    cacciatori.  Non erano ancora giunti dove si trovava Bagratiòn, ma già
    si udiva il passo cadenzato e pesante di quella massa di  uomini.  Sul
    fianco  sinistro,  vicino  più  degli altri a Bagratiòn,  camminava un
    comandante  di  compagnia,   un  uomo  robusto,   con   viso   rotondo
    dall'espressione  sciocca e lieta,  quello stesso che era uscito dalla
    capannuccia.  E si vedeva che in quel momento non pensava ad altro che
    a passare con aria baldanzosa e marziale davanti ai suoi superiori.
    Con  espressione  soddisfatta  di  sé,  camminava  leggero sulle gambe
    muscolose come se galleggiasse,  drizzandosi senza il minimo sforzo  e
    distinguendosi,  per  questa  sua  leggerezza,  dal  passo pesante dei
    soldati,  che misuravano il proprio a quello di lui.  Portava lungo la
    gamba  la sciabola sguainata,  lunga e sottile (una sciabolina ricurva
    che non pareva neppure un'arma) e,  ora  guardando  i  superiori,  ora
    dietro  di  sé,  si voltava con la persona vigorosa e flessibile senza
    mai perdere il passo.  Pareva che tutte le forze del suo animo fossero
    tese all'unico scopo di passare nel modo migliore possibile davanti ai
    superiori  e,  rendendosi  conto di riuscire nell'intento,  si sentiva
    felice. "Sinistr... sinistr... sinistr...",  pareva dire tra sé a ogni
    passo e,  regolandosi su quella cadenza, avanzava il muro dei soldati,
    ognuno con un'espressione di severità diversa,  sotto  il  peso  dello
    zaino  e  del  fucile,  come se ciascuno di quella centinaia di uomini
    ripetesse   mentalmente   a   ogni   passo:   "Sinistr...   sinistr...
    sinistr...".
    Un maggiore grasso, ansimando e perdendo il passo, girava attorno a un
    cespuglio della strada: un soldato ritardatario, con il fiato grosso e
    il  viso  spaventato per la sua colpevolezza,  raggiungeva di corsa la
    compagnia;  un proiettile squarciando l'aria,  passò al di sopra della
    testa   del  principe  Bagratiòn  e  del  séguito  e,   sulla  cadenza
    "sinistr... sinistr...", colpì la colonna.
    - Serrate le file!   -    risonò  forte  la  voce  del  comandante  di
    compagnia.
    I soldati,  facendo arco, girarono attorno a qualche cosa nel punto in
    cui era caduto il proiettile,  e un  vecchio  sottufficiale  decorato,
    dopo essersi fermato un momento presso i caduti,  raggiunse la propria
    fila,   con  un  saltello  cambiò  piede  e  si  rimise   a   marciare
    regolarmente,   guardando  attorno  con  aria  irritata.   "Sinistr...
    sinistr...  sinistr..." pareva risonare in quel silenzio minaccioso  e
    nel rumore monotono dei piedi che battevano il terreno.
    - Bravi ragazzi!  -  disse il principe Bagratiòn.
    - Contenti...  ooh...  ooh!  -  tuonò nelle file la risposta d'uso. Un
    soldato dal viso arcigno,  che camminava a  sinistra,  si  voltò,  nel
    gridare,  verso  Bagratiòn  con un'espressione che voleva significare:
    "Lo sappiamo da noi...";  un altro,  senza voltarsi,  quasi temesse di
    distrarsi, spalancò la bocca, lanciò il suo grido e proseguì.
    Fu dato l'ordine di fermarsi e di deporre gli zaini.
    Bagratiòn  percorse  a cavallo le file che gli erano passate davanti e
    poi scese di sella.  Diede le briglie al suo cosacco,  si levò  e  gli
    consegnò la "burka", si sgranchì le gambe e si aggiustò il berretto.
    La colonna francese, ufficiali in testa, apparve sotto l'altura.
    -  Con l'aiuto di Dio!   -  esclamò Bagratiòn con voce forte e chiara;
    poi si voltò verso il fronte dello schieramento e,  facendo  dondolare
    leggermente   le  braccia,   con  il  passo  goffo  e  impacciato  del
    cavallerizzo,  avanzò sul terreno  ineguale,  su  cui  pareva  facesse
    fatica  a  camminare.  Il principe Andréj sentiva che una invincibile,
    ignota forza lo spingeva avanti e ne provò una gioia profonda (81).
    Ormai i Francesi erano vicinissimi;  ormai  il  principe  Andréj,  che
    camminava  accanto  a  Bagratiòn,  distingueva chiaramente le spalline
    rosse, le sciarpe e persino i visi dei Francesi. (Vedeva benissimo tra
    gli altri,  un vecchio ufficiale francese che con  i  piedi  volti  in
    fuori,   coperti   dalle   ghette,   saliva  faticosamente  la  china,
    afferrandosi ai cespugli).  Il  principe  Bagratiòn  non  diede  altri
    ordini e,  muto,  continuò a camminare davanti alle file. A un tratto,
    in mezzo ai Francesi,  scoppiò una granata,  poi  una  seconda  e  una
    terza... diffondendo fumo tra le scomposte file nemiche, e crepitarono
    gli spari. Alcuni dei nostri caddero, tra cui l'ufficiale dalla faccia
    rotonda  che  poco  prima  marciava  con  tanto  zelo  baldanzoso.  Ma
    nell'istante in cui si udì il primo sparo, Bagratiòn si guardò attorno
    e gridò:
    - Urrà!
    - Urrà-à-à-à!   -  gli rispose un lungo urlo  che  percorse  tutta  la
    linea  russa  e,  oltrepassando  il principe Bagratiòn e sorpassandosi
    l'un l'altro, i nostri soldati,  in folla confusa ma allegri e vivaci,
    corsero verso la montagna, inseguendo le sbaragliate truppe francesi.


    CAPITOLO 19.

    L'attacco del sesto cacciatori assicurò la ritirata dell'ala sinistra.
    Al  centro,  l'azione  della  dimenticata  batteria  di Tuscin che era
    riuscita a incendiare Schöngraben,  aveva arrestato il  movimento  dei
    Francesi  i  quali,  occupati  a  spegnere  l'incendio,  che  il vento
    propagava,  diede ai Russi il tempo  di  ritirarsi.  La  ritirata  del
    centro,  attraverso il burrone,  avveniva frettolosamente e con grande
    rumore, tuttavia le truppe, ritirandosi,  non confondevano i reciproci
    comandi. Ma l'ala sinistra, che era stata contemporaneamente attaccata
    e  accerchiata  da preponderanti forze francesi al comando di Lannes e
    che era composta dai reggimenti dei fanti di Azòv e di Podòlja e dagli
    ussari  di  Pàvlograd,  era  in  rotta.  Bagratiòn  mandò  Zerkòv  dal
    comandante dell'ala sinistra con l'ordine di effettuare immediatamente
    la ritirata anche da quella parte.
    Zerkòv,  senza  togliere  la  mano dalla visiera,  spronò il cavallo e
    partì al galoppo,  ma poco dopo essersi allontanato da  Bagratiòn,  le
    forze lo tradirono.  Fu preso da una invincibile paura, che gli impedì
    di recarsi dove esisteva il pericolo.
    Arrivato in vicinanza delle truppe dell'ala sinistra,  egli corse  non
    dove si combatteva, ma si mise a cercare il generale e i comandanti là
    dove  non  potevano  essere,  e  così  non  fu in grado di trasmettere
    l'ordine.
    Il comando dell'ala sinistra apparteneva per diritto di  anzianità  al
    comandante  di  quel  reggimento  che  nei pressi di Braunau era stato
    passato in rivista da Kutuzòv e  nel  quale  prestava  servizio,  come
    semplice  soldato,   Dòlochov.  Invece  il  comando  dell'estrema  ala
    sinistra  era  stato  assegnato  al  comandante  del   reggimento   di
    Pàvlograd,  al  quale  apparteneva  Rostòv;  e  in  conseguenza di ciò
    avvenne un equivoco.  I due capi erano molto ostili l'uno all'altro e,
    mentre  sul  fianco  destro l'azione già da un pezzo era impegnata e i
    Francesi incominciavano  a  ritirarsi,  quei  due  erano  occupati  in
    discussioni  che non avevano altro scopo se non quello di offendersi a
    vicenda.  Quanto ai reggimenti,  poi,  sia quello  di  cavalleria  sia
    quello  di  fanteria,  non  erano  affatto  preparati al combattimento
    imminente.   Gli  uomini,   dall'ultimo  soldato  al   generale,   non
    aspettavano  la  battaglia  e  in  tutta tranquillità attendevano alle
    occupazioni di ogni giorno:  i  soldati  di  cavalleria  a  nutrire  i
    cavalli, quelli di fanteria a raccogliere legna.
    -  Se  lui ha un'anzianità di grado superiore alla mia,   -  diceva il
    colonnello tedesco degli ussari,  facendosi rosso e  volgendosi  a  un
    aiutante  di  campo    -   faccia pure quello che vuole.  Io non posso
    sacrificare i miei uomini. Trombettiere! Suona la ritirata!
    Ma l'urgenza di agire si imponeva. Il cannoneggiamento e la fucileria,
    confondendosi, tuonavano a destra e nel centro,  e i cappotti francesi
    dei  tiratori  di  Lannes  già  attraversavano la diga del mulino e si
    allineavano  dall'altra  parte,  distante  due  tiri  di  fucile.   Il
    colonnello del reggimento di fanteria con la sua andatura scattante si
    avvicinò  al  cavallo,  montò  in  sella  e,  ergendo  il corpo il più
    possibile,  andò dal comandante del reggimento  di  Pàvlograd.  I  due
    comandanti si scambiarono un cordiale saluto, ma con il cuore colmo di
    ira trattenuta.
    -  Vi ripeto,  colonnello,   -  diceva il generale  -  che proprio non
    posso lasciare metà dei miei uomini nel bosco.  Vi prego  pertanto  di
    occupare la posizione e di prepararvi all'attacco  ripeté.
    - E io vi prego di non immischiarvi nei fatti che non vi riguardano  -
    rispose il colonnello, esasperato.  -  Se foste di cavalleria...
    - Non sono di cavalleria,  colonnello,  ma un generale russo e, se non
    lo sapete...
    - So benissimo,  eccellenza!   -  gridò a  un  tratto  il  colonnello,
    cacciando  avanti  il  cavallo  e  facendosi  molto rosso in viso.   -
    Vogliate compiacervi di ispezionare la linea: e  vi  convincerete  che
    questa posizione non vale nulla.  Io non voglio far distruggere il mio
    reggimento per farvi piacere.
    - Voi passate i limiti,  colonnello.  Qui non si tratta affatto di far
    piacere a me, e non vi permetto di dire cose simili.
    Il generale, accettando l'invito del colonnello a una gara di bravura,
    aggrottando  il viso e raddrizzandosi sulla persona,  si avviò con lui
    in direzione della linea come se tutti i  loro  dissidi  stessero  per
    essere risolti laggiù,  agli avamposti,  sotto il tiro dei proiettili.
    Non appena vi furono giunti,  alcune  pallottole  passarono  sibilando
    sulle  loro  teste,  ed essi si fermarono in silenzio.  Alla linea non
    c'era nulla da vedere,  giacché anche dal luogo dove si trovavano poco
    prima era evidente che la cavalleria non avrebbe potuto agire in mezzo
    ai  cespugli  e  alle  forre  e che i Francesi stavano aggirando l'ala
    sinistra. Il generale e il colonnello si guardavano a vicenda con aria
    severa e significativa, simili a due galletti pronti al combattimento,
    aspettando inutilmente l'uno dall'altro  un  segno  di  vigliaccheria.
    Entrambi  ressero alla prova.  Poiché non c'era nulla da dire e poiché
    nessuno dei due voleva fornire all'avversario un  pretesto  all'accusa
    di  essersi  per  primo sottratto al fuoco,  sarebbero rimasti a lungo
    così,  a dimostrarsi reciprocamente  il  loro  coraggio,  se  in  quel
    momento  nel  bosco,  quasi alle loro spalle,  non si fossero uditi un
    crepitio di fucileria e sorde grida confuse...  I  Francesi  si  erano
    scagliati  contro  i  soldati  che raccoglievano la legna.  Gli ussari
    ormai non potevano più indietreggiare con i fanti: la linea  francese,
    a sinistra,  tagliava loro la ritirata. Adesso benché il terreno fosse
    tutt'altro che propizio,  era indispensabile attaccare per aprirsi  un
    passaggio.
    Lo squadrone,  cui apparteneva Rostòv,  il quale aveva avuto appena il
    tempo di montare a cavallo,  era fermo di fronte al nemico.  Di nuovo,
    come  già  al ponte dell'Enns,  tra lo squadrone e il nemico non c'era
    nessuno;  li divideva soltanto la terribile linea  dell'ignoto  e  del
    terrore,  simile a quella che separa i vivi dai morti. Tutti i soldati
    ne  sentivano  la  presenza  e  ognuno  si  chiedeva   emozionato   se
    l'avrebbero superata o no.
    Il colonnello avanzò sul fronte della linea,  irritato,  rispose in un
    modo  purchessia  alle  domande  degli  ufficiali  e,   come  un  uomo
    disperatamente  deciso  a  far  valere  la  propria volontà,  diede un
    ordine.  Nessuno aveva detto nulla di preciso,  ma già nello squadrone
    circolava  la  voce  dell'attacco  imminente.  Echeggiò  il comando di
    allinearsi e sibilarono le  sciabole  tratte  dal  fodero.  Ma  ancora
    nessuno  si  moveva.  Le  truppe  dell'ala  sinistra,  fanti e ussari,
    sentivano  che  neppure  i  loro  capi  sapevano  che  cosa   fare   e
    l'indecisione dei capi si comunicava alla truppa.
    "Fosse presto,  presto", pensava Rostòv, sentendo che stava finalmente
    per giungere il momento di provare l'entusiasmo dell'attacco del quale
    gli avevano tanto parlato i suoi compagni ussari.
    - Con l'aiuto di Dio,  ragazzi!   -  risonò la voce di Denissov.  - Al
    trotto, "marche"!
    Nella  prima  fila le groppe dei cavalli ondeggiarono.  Gracik tese le
    redini e si avviò con slancio.
    A destra,  Rostòv vedeva le prime file dei suoi ussari e più  lontano,
    in avanti,  una striscia scura che non riusciva a definire bene ma che
    ritenne fosse il nemico. Si udivano in lontananza colpi di fucile.
    - Accelerate il trotto!   -  risonò il comando,  e Rostòv sentì il suo
    Gracik  abbassare la groppa e mettersi al galoppo.  Egli ne indovinava
    in anticipo i movimenti e diventava via via più allegro.  Notò davanti
    a sé un albero isolato. Dapprima quell'albero gli stava davanti a metà
    di  quella striscia scura,  che gli pareva così terrificante,  ma ecco
    che quella linea era ormai sorpassata e,  non solo non vi era lì nulla
    di terrificante, ma tutto si faceva più vivace e più gaio. "Oh, quanti
    fendenti", pensava Rostòv, stringendo l'elsa della sciabola.
    - Urrà-à-à!  -  gridavano voci da ogni parte.
    "Se mi capita ora qualcuno a tiro...",  si diceva Rostòv, ed eccitando
    con gli speroni Gracik superò gli altri,  lanciando l'animale a  tutta
    corsa.  Già  si  distingueva  il  nemico.  A un tratto lo squadrone fu
    spazzato  come  da  un'immensa  scopa.   Rostòv   alzò   la   sciabola
    preparandosi  a  menar  fendenti,   ma  in  quel  momento  il  soldato
    Nikìtenko,  che gli galoppava davanti,  scomparve dal suo campo visivo
    ed  egli  ebbe,  come  in  un  sogno,  la  sensazione  di continuare a
    galoppare in avanti con una velocità incredibile,  eppure stava  fermo
    sempre  nello  stesso  posto.  Alle sue spalle sopraggiunse al galoppo
    Bondarcùk,  un ussaro che conosceva,  gli piombò quasi  addosso  e  lo
    guardò con ira. Il cavallo di Bondarcùk s'impennò, poi passò oltre.
    "Che succede?  Perché non vado avanti?  Sono caduto!  Sono morto?", si
    domandò e si rispose in un attimo Rostòv.  Era ormai solo in mezzo  al
    campo.  Invece  dei  cavalli  galoppanti e delle schiere degli ussari,
    vedeva attorno la terra immobile e le stoppie della pianura.  Sotto di
    sé  sentiva  il  tepore del sangue.  "No,  sono soltanto ferito...  Il
    cavallo è morto". Gracik tentò di sollevarsi sulle zampe anteriori, ma
    ricadde subito pesando sulle gambe del suo cavaliere.  Dalla testa  di
    Gracik fluiva copioso il sangue. L'animale si dibatteva e non riusciva
    a drizzarsi.  Rostòv volle alzarsi in piedi,  ma anch'egli ricadde: la
    sciabola si era impigliata nella sella.  Non sapeva più dove fossero i
    nostri e dove i Francesi. Attorno non si vedeva nessuno.
    Riuscì  infine a liberare le gambe e si alzò.  "Dove,  da che parte si
    trova ora quella linea che separava così nettamente i due  eserciti?",
    si chiedeva,  senza poter rispondere. "Che mi sia accaduto qualcosa di
    brutto? Accadono davvero simili casi e allora che cosa bisogna fare?",
    si chiese, rizzandosi in piedi;  in quel momento sentì che qualcosa di
    inutile gli pendeva dal braccio sinistro intorpidito.  Era la mano che
    non  gli  pareva  più  sua.  La  guardò  con  attenzione,   cercandovi
    accuratamente il sangue. "Ecco, viene gente", pensò con gioia, vedendo
    alcuni soldati che correvano verso di lui.  "Essi mi aiuteranno!".  Li
    precedeva un uomo con la testa coperta da  uno  strano  berretto,  che
    indossava  un cappotto azzurro,  con la faccia nera,  abbronzata,  dal
    naso adunco. Due altri, molti altri,  lo seguivano.  Uno di loro disse
    qualcosa di strano non in russo.  Fra quelli che seguivano,  simili al
    primo,  con lo stesso berretto in testa,  vi era un ussaro  russo.  Lo
    tenevano per le braccia! Dietro di lui veniva il suo cavallo, condotto
    per la briglia.
    "Certo è un nostro prigioniero...  Sì...  Possibile che prendano anche
    me? E chi sono costoro?",  si chiedeva Rostòv,  non credendo ai propri
    occhi.  "Possibile che siano Francesi?".  Egli guardava i Francesi che
    si avvicinavano e, sebbene un secondo prima galoppasse per assalirli e
    sbaragliarli,  la loro vicinanza gli pareva ora talmente  orribile  da
    non poter credere ai propri occhi.  "Chi sono? Perché corrono? Vengono
    contro di me?  E perché?  Per uccidermi?  Per uccidere  me  cui  tutti
    vogliono  tanto bene?".  E si ricordò dell'affetto che per lui avevano
    la madre, la famiglia, gli amici, e gli parve impossibile che i nemici
    avessero l'intenzione di ucciderlo. "Eppure potrebbero farlo!". Rimase
    in piedi per più di dieci secondi,  senza muoversi e senza comprendere
    la  situazione in cui si trovava.  Il primo francese,  quello dal naso
    aquilino,  gli era già così vicino che  ormai  ne  poteva  distinguere
    l'espressione;  e  la  fisionomia accesa ed estranea di quell'uomo che
    avanzava correndo agilmente verso di lui,  trattenendo il fiato e  con
    la baionetta inastata,  spaventò Rostòv.  Egli estrasse la pistola ma,
    anziché sparare, la scagliò contro il francese e poi,  imponendosi uno
    sforzo sovrumano,  fuggì verso i cespugli.  Non correva più,  ora, con
    quella sensazione di dubbio e di lotta che  aveva  provato  camminando
    sul ponte dell'Enns, ma piuttosto con quella della lepre che sfugge ai
    cani.  Un solo,  unico senso di indicibile paura per la sua giovinezza
    felice lo dominava tutto! Saltando velocemente tra i solchi del campo,
    con quella stessa precipitazione con cui soleva giocare a rincorrersi,
    volgeva di tanto in tanto indietro il pallido,  giovane viso buono,  e
    un  brivido  di  orrore  gli  gelava  la  schiena.  "No,  è meglio non
    guardare", pensò, ma,  dopo aver raggiunto i cespugli,  si girò ancora
    una volta.  I Francesi erano rimasti indietro; il primo di essi, anzi,
    proprio nel momento in cui egli guardava,  aveva mutato  la  corsa  in
    passo e, girandosi indietro, gridava forte qualcosa al compagno che lo
    seguiva.  Rostòv si fermò. "No, non è così... non è possibile che essi
    volessero uccidermi".  E frattanto sentiva che il braccio sinistro gli
    pesava  come  se reggesse un carico di due "pud" (82).  Non poteva più
    correre. Il francese si fermò e prese la mira. Rostòv chiuse gli occhi
    e si  chinò.  Uno,  due  proiettili  gli  volarono  accanto  ronzando.
    Raccolte  le  ultime  forze,  si prese il braccio sinistro con la mano
    destra e corse sino ai cespugli.  Fra i cespugli  stavano  i  tiratori
    russi.


    CAPITOLO 20.

    I reggimenti di fanteria,  assaliti di sorpresa, uscivano di corsa dal
    bosco e le compagnie, mescolandosi le une con le altre,  scappavano in
    turbe  disordinate.  Un soldato atterrito aveva detto due parole senza
    senso,  terribili in guerra: "Siamo  accerchiati!".  E  questa  frase,
    insieme con la paura, si era propagata tra le masse degli uomini.
    -  Accerchiati!  Tagliati  fuori!  Siamo  perduti!    -    gridavano i
    fuggiaschi.
    Il comandante del  reggimento,  nel  momento  stesso  in  cui  udì  le
    fucilate e le grida alle sue spalle,  capì che qualcosa di molto grave
    era accaduto al suo reggimento e il pensiero  che  lui,  un  ufficiale
    esemplare  che aveva prestato servizio per tanti anni,  che non si era
    mai macchiato della più  lieve  colpa,  potesse  essere  accusato  dai
    superiori  di  negligenza  o  di mancanza di capacità,  lo colpì a tal
    punto  che,  dimenticando  il  colonnello  di  cavalleria  che  faceva
    opposizione  e la propria dignità di generale,  ma dimenticando,  e in
    modo assoluto, il pericolo e l'istinto di conservazione,  tenendosi al
    pomo  della sella e spronando il cavallo,  si slanciò al galoppo verso
    il reggimento,  sotto una pioggia di proiettili  che,  fortunatamente,
    passavano  tutti  al  di  sopra di lui.  Egli anelava a una cosa sola:
    sapere di che si trattava,  provvedere in qualsiasi  modo  a  riparare
    l'errore,  se  mai errore ci fosse stato da parte sua,  per non essere
    incolpato,  lui,  un ufficiale modello che da ventidue  anni  prestava
    servizio.
    Passato  felicemente  al galoppo in mezzo ai Francesi,  si avvicinò al
    campo di battaglia, al di là del bosco attraverso il quale correvano i
    Russi che,  sordi a ogni comando,  scendevano precipitosi giù  per  la
    collina.  Era giunto quel momento di esitazione che decide della sorte
    di una battaglia: quella folla disordinata di soldati in fuga  avrebbe
    ascoltato  la  voce  del  loro  comandante  o,  dopo  avergli  rivolto
    un'occhiata,  sarebbe corsa oltre?  Nonostante il grido disperato  del
    comandante, prima così terribile per i suoi soldati, nonostante la sua
    faccia congestionata e stravolta e il roteare della sua sciabola,  gli
    uomini continuavano a fuggire,  a gridare,  a sparare in  aria  e  non
    obbedivano più ad alcun ordine.  L'esitazione spirituale che decide la
    sorte delle battaglie,  evidentemente si stava risolvendo dalla  parte
    della paura.
    Il  generale,  tossendo  per  il  continuo gridare e per il fumo della
    polvere, si fermò disperato. Tutto pareva perduto;  ma proprio in quel
    momento i Francesi,  che attaccavano i nostri,  improvvisamente, senza
    alcuna causa apparente,  fuggirono indietro e scomparvero dal  margine
    del  bosco,  mentre  dal folto sbucavano qua e là dei fucilieri russi.
    Era la compagnia di Timochin,  la sola che fosse rimasta in  ordine  e
    che,  nascostasi in un fosso, attaccava ora inaspettatamente i nemici.
    Timochin si slanciò verso i Francesi con un urlo così  selvaggio,  con
    un'audacia così folle e una decisione così ebbra,  tenendo in pugno la
    sciabola, che i Francesi, prima di aver avuto il tempo di riprendersi,
    gettarono le armi e si diedero alla  fuga.  Dòlochov,  che  correva  a
    fianco  di Timochin,  uccise a bruciapelo un francese e fu il primo ad
    afferrare per il bavero un ufficiale costringendolo ad  arrendersi.  I
    fuggiaschi  allora  ritornarono,  le  compagnie  si  ricomposero  e  i
    Francesi,  che erano riusciti  a  dividere  in  due  parti  le  truppe
    dell'ala  sinistra,   furono  momentaneamente  respinti,  cosicché  le
    riserve poterono riunirsi e gli sbandati si fermarono.  Il  comandante
    del  reggimento  stava presso il ponte con il maggiore Ekonomov,  e le
    compagnie che avevano indietreggiato sfilavano davanti a  loro  quando
    ad un tratto un soldato gli si avvicinò, si aggrappò alla sua staffa e
    gli  si appoggiò quasi addosso.  Quel soldato indossava un cappotto di
    ordinario panno turchino,  non portava né zaino né  berretto;  la  sua
    testa  era  bendata  e  una giberna francese gli penzolava a tracolla.
    Teneva in pugno una sciabola, pure francese. Era pallidissimo,  i suoi
    occhi   azzurri   fissavano  arditamente  il  comandante  e  la  bocca
    sorrideva. Benché questi fosse occupato a impartire ordini al maggiore
    Ekonomov, non poté fare a meno di dar retta a quel soldato.
    - Eccellenza,  ecco due trofei !   -  esclamò Dòlochov,  mostrando  la
    sciabola  e  la  cartucciera  francese.    -   Ho fatto prigioniero un
    ufficiale... ho fermato una compagnia...   -  Dòlochov ansimava per la
    stanchezza  e  parlava,  arrestandosi  di  tanto in tanto per pigliare
    fiato.   -    Tutta  la  compagnia  lo  può  testimoniare.  Vi  prego,
    eccellenza, ricordatevene!
    -  Va  bene,  va  bene  -  rispose il comandante,  voltandosi di nuovo
    verso il maggiore Ekonomov.
    Ma Dòlochov non si allontanò;  sciolse il fazzoletto che gli  fasciava
    il capo e mostrò la ferita sanguinante tra i capelli.
    -  Un  colpo di baionetta,  sono rimasto in prima fila.  Ricordatevene
    eccellenza!

    La batteria di Tuscin era stata dimenticata e soltanto alla fine della
    battaglia,  continuando a udire  un  cannoneggiamento  al  centro,  il
    principe Bagratiòn vi mandò prima un ufficiale di stato maggiore e poi
    il principe Andréj con l'ordine di farla indietreggiare senza indugio.
    Le  truppe  di copertura che proteggevano i cannoni di Tuscin si erano
    già allontanate per ordine di non si sa chi; ma la batteria continuava
    a sparare,  e non era stata presa dai Francesi solo perché  il  nemico
    non  poteva  supporre  l'audacia  di sparare con quattro cannoni senza
    alcuna difesa.  Anzi il tiro energico e insistente di quella  batteria
    faceva  supporre  al  nemico  che in quel punto fossero concentrate le
    principali forze russe;  per ben due volte aveva tentato di  attaccare
    quella posizione e per ben due volte era stato respinto dai proiettili
    di quei quattro cannoni isolati, posti su quell'altura.
    Ben presto,  dopo la partenza del principe Bagratiòn,  Tuscin riuscì a
    incendiare Schöngraben.
    - Uh, che confusione! Brucia! Guarda che fumo!  Bene!  bene' Che fumo!
    -  dicevano i serventi, pieni di ammirazione.
    Tutti i cannoni senza un ordine sparavano verso l'incendio.  Quasi per
    dargli più forza i soldati a ogni sparo gridavano:  -    Bene!  Bravo!
    Ecco,  così!    -    L'incendio,  propagato  dal  vento,  si estendeva
    rapidamente.  Le colonne francesi,  dopo essere arrivate al villaggio,
    si ritiravano;  ma come per vendicarsi di quell'insuccesso,  il nemico
    portò, più a destra del villaggio,  dieci cannoni e cominciò a sparare
    contro Tuscin.
    Per  la  gioia infantile suscitata dall'incendio e dall'entusiasmo per
    il successo riportato contro i Francesi,  i nostri artiglieri  non  si
    accorsero  di  quella  batteria  se non quando prima due,  poi quattro
    proiettili vennero a cadere in  mezzo  ai  loro  pezzi:  uno  di  essi
    abbatté due cavalli, mentre un altro stroncava di netto una gamba a un
    soldato addetto ai cassoni.  Ma l'entusiasmo, una volta suscitato, non
    diminuì; mutò solamente direzione.  I cavalli uccisi furono sostituiti
    con quelli di un affusto di riserva,  i feriti trasportati altrove e i
    quattro pezzi rivolti contro la batteria francese  di  dieci  cannoni.
    L'ufficiale,   compagno   di  Tuscin,   era  stato  ucciso  all'inizio
    dell'azione;  nel  volgere  di  un'ora,  diciassette  serventi  furono
    colpiti,  ma  gli  artiglieri  erano  pur  sempre  allegri  e pieni di
    animazione.  Due volte i soldati di Tuscin avevano notato che a  breve
    distanza  sotto  di  loro  erano  comparsi  i  Francesi,  e  due volte
    spararono a mitraglia contro gli assalitori.
    Il piccolo uomo dai movimenti indecisi e goffi chiedeva di continuo al
    suo attendente "un po' di pipa per questo",  come  diceva  e,  facendo
    sprizzare  le  scintille,  correva avanti mentre riparandosi gli occhi
    con la piccola mano, osservava i Francesi.
    - Sbaragliateli,  ragazzi!   -  gridava,  ed egli stesso afferrava  le
    ruote del cannone e svitava le viti.
    Agitandosi in mezzo al fuoco, stordito dai colpi incessanti ognuno dei
    quali lo faceva sussultare, Tuscin, senza lasciare la pipa, correva da
    un  cannone  all'altro,  ora  contando le cariche,  ora aggiustando il
    tiro, ora facendo sostituire i cavalli uccisi o feriti,  e gridava con
    la sua voce sottile,  acuta e indecisa.  Il suo viso si animava sempre
    di più.  Soltanto quando uno  dei  soldati  cadeva  ucciso  o  ferito,
    aggrottava le sopracciglia e, allontanandosi dalla vittima, strepitava
    contro  i  soldati  che,  come  al solito,  indugiavano a sollevare il
    ferito e a portar via il morto.  Quegli uomini,  per la maggior  parte
    dei  bei  giovani  come sempre in artiglieria (più alti di due teste e
    due volte più larghi di spalle del loro ufficiale),  simili a  bambini
    in   una  situazione  difficile,   guardavano  il  comandante,   e  la
    espressione del viso di lui si rifletteva fedelmente sui loro.
    A causa  di  quel  terribile  frastuono,  della  necessità  di  essere
    continuamente attento e attivo,  Tuscin non provava il minimo senso di
    paura,  e il pensiero di poter essere ucciso o ferito non gli  passava
    neppure  per  la  mente.  Anzi,  diventava  sempre  più  animato e più
    allegro.  Gli pareva che fosse passato già molto tempo dal  minuto  in
    cui  aveva  visto  il  nemico  e aveva sparato il primo colpo e che il
    breve spazio del campo sul quale si trovava fosse un luogo a lui  noto
    e  familiare da chissà quanto.  Benché ricordasse tutto,  calcolasse e
    facesse quello che in una  condizione  come  la  sua  poteva  fare  il
    migliore  ufficiale,  egli  si  trovava  in  uno stato molto simile al
    delirio febbrile o all'ubriachezza.
    Dal rumore assordante prodotto dai suoi cannoni,  dal sibilo  e  dallo
    scoppio  delle  granate  nemiche,  dalla vista dei serventi ansimanti,
    trafelati e rossi in viso che si affaccendavano attorno ai  pezzi,  da
    quella  del  sangue  degli uomini e dei cavalli,  e delle nuvolette di
    fumo del nemico (dopo le  quali,  ogni  volta,  piombava  una  granata
    sbattendo in terra un uomo,  un cannone o un cavallo),  dalla vista di
    tutte queste cose insieme,  si muoveva nella sua testa una  specie  di
    mondo  fantastico che gli dava in quel momento piacere e gioia.  Nella
    sua immaginazione i cannoni nemici non erano cannoni,  ma  pipe  dalle
    quali un invisibile fumatore faceva uscire spirali di fumo.
    - Toh,  un'altra fumata  -  diceva Tuscin a mezza voce,  parlando a se
    stesso, mentre dalla collina dirimpetto si levava un pennacchio grigio
    che  il  vento,  spingendolo  verso  sinistra,  faceva  simile  a  una
    striscia.  -  Adesso bisogna aspettare la palla e mandarla indietro.
    - Che cosa comandate,  signor capitano?   -  chiedeva un sottufficiale
    che gli stava vicino, udendo mormorare qualche cosa.
    - Niente... una granata...  -  rispondeva.
    - Su, avanti la nostra "Matvevna"  -  borbottava tra sé. La "Matvevna"
    nella sua immaginazione era il  più  grosso  cannone  della  fila,  un
    cannone  di  vecchio modello.  I Francesi,  vicini ai loro pezzi,  gli
    parevano formiche. Il numero uno del secondo pezzo, bel giovane e gran
    bevitore,  era per lui "lo zio".  Tuscin lo guardava più spesso  degli
    altri  e si rallegrava a ogni suo gesto.  Il crepitio dei fucili,  che
    giù alle falde della collina ora s'indeboliva ora  cresceva,  era  per
    lui  il  respiro di qualcuno.  Con attenzione seguiva il crescere e il
    calare alterno di quei suoni.
    - Senti, ha respirato, ha respirato di nuovo  -  diceva.
    Immaginava se stesso come un uomo di statura gigantesca,  dalla  forza
    prodigiosa che, con ambo le mani, scagliava bombe contro i Francesi.
    -  Su,  Matvevna,  su,  cara,  non  ci  tradire!    -    stava dicendo
    allontanandosi dal pezzo quando, al di sopra della sua testa,  tuonò a
    un tratto una strana voce sconosciuta.
    - Capitano Tuscin! Capitano!
    Si  voltò,  spaventato.  Colui  che  lo  chiamava  era  quello  stesso
    ufficiale di stato maggiore che lo aveva scacciato da Grunt e che  ora
    gli gridava con voce ansimante:
    - Che fate?  Siete impazzito,  capitano?  Già due volte avete ricevuto
    l'ordine di ritirarvi, e voi...
    "Che cosa vogliono da me?",  pensava Tuscin,  guardando spaventato  il
    suo superiore.
    - Io... niente...  -  disse, portando due dita alla visiera.  -  Io...
    Ma il colonnello non finì di dire ciò che voleva.  Una palla,  che gli
    passò vicinissima,  lo costrinse a chinarsi sul cavallo.  Tacque e non
    appena riaprì bocca per dire ancora qualche cosa,  un altro proiettile
    lo interruppe. Allora voltò il cavallo e galoppò via.
    - Ritirarsi! Ritirarsi tutti!  -  gridò di lontano.
    I soldati si misero a ridere.  Un momento dopo arrivò un  aiutante  di
    campo con lo stesso ordine.
    Era il principe Andréj.  Arrivando presso i cannoni, la prima cosa che
    vide fu un cavallo staccato dall'affusto,  con una zampa spezzata  che
    nitriva  dal  dolore  accanto agli altri cavalli attaccati.  Il sangue
    colava dalla ferita come una  fontana.  Tra  gli  avantreni  giacevano
    parecchi  morti.  Un proiettile dietro l'altro gli passavano sibilando
    sopra la testa mentre si avvicinava,  ed egli sentì un tremito nervoso
    percorrergli  la  schiena.  Ma  il solo pensiero di aver paura bastò a
    ridargli coraggio.  "Io non posso aver  paura",  pensò,  e  lentamente
    scese  di sella in mezzo ai cannoni.  Trasmise l'ordine e rimase nella
    batteria.  Aveva deciso di assistere alla  ritirata  dei  pezzi  dalla
    posizione.  Insieme con Tuscin,  scavalcando i cadaveri e dando ordini
    sotto l'imperversare del fuoco dei Francesi,  provvide  a  ritirare  i
    cannoni.
    -  E' venuto poco fa un superiore,  ma si è affrettato ad andarsene al
    galoppo  -  disse un sottufficiale al principe Andréj.    -    Non  ha
    fatto come voi, eccellenza...
    Il principe Andréj non diceva nulla a Tuscin.  Erano talmente occupati
    entrambi che sembrava non si  vedessero  nemmeno.  Quando,  dopo  aver
    posto  sugli  avantreni  i  due soli cannoni rimasti intatti,  essi si
    misero per  il  declivio  (un  cannone  spezzato  e  un  obice  furono
    abbandonati), il principe Andréj si avvicinò a Tuscin.
    - Arrivederci!  -  gli disse, tendendogli la mano.
    - Arrivederci,  caro  -  rispose Tuscin.  -  Arrivederci, anima buona,
    amico mio!   -  aggiunse,  mentre gli occhi,  chissà  perché,  gli  si
    riempivano di lacrime.


    CAPITOLO 21.

    Il  vento  si  era  calmato:  le  basse  nuvole nere sopra il campo di
    battaglia si confondevano all'orizzonte con il fumo della polvere.  Si
    era  fatto  buio  e  nell'oscurità tanto più vivo spiccava il bagliore
    degli incendi. Il cannoneggiamento andava cessando,  ma continuava più
    frequente  e  più vicino il crepitio delle fucilate.  Appena Tuscin si
    allontanò con i suoi cannoni,  passando attorno  o  sopra  ai  feriti,
    dalla zona battuta dal nemico e discese nell'avvallamento, gli vennero
    incontro  i  superiori  e  gli  aiutanti  di  campo  tra i quali anche
    l'ufficiale di stato maggiore e Zerkòv,  che,  mandato due volte,  non
    era   mai   arrivato   alla   batteria   di  Tuscin.   Tutti  costoro,
    interrompendosi l'un l'altro, davano e trasmettevano ordini sul come e
    dove andare, e gli facevano osservazioni e rimproveri. Tuscin non dava
    ordini e taceva,  timoroso di parlare perché sentiva che a ogni parola
    sarebbe  scoppiato  a  piangere,  senza  sapere egli stesso perché,  e
    rimaneva indietro a cavallo del suo ronzino di artiglieria. Quantunque
    ci fosse stato l'ordine di abbandonare i  feriti,  molti  di  essi  si
    trascinavano  dietro  ai  resti della batteria e supplicavano di venir
    messi sui cannoni.  Quello stesso coraggioso ufficiale di fanteria che
    prima  della  battaglia  era  corso fuori dalla capannuccia di Tuscin,
    giaceva,  con una pallottola nel ventre,  sull'affusto della Matvevna.
    Ai piedi dell'altura un alfiere degli ussari, sorreggendosi un braccio
    con  l'altro,  si  avvicinò  a Tuscin e chiese che lo facesse salire e
    sedere.
    - Capitano,  per amor di  Dio,  ho  un  braccio  contuso    -    disse
    timidamente.    -  Per amor di Dio,  non posso camminare,  per amor di
    Dio!
    Si vedeva che il giovane alfiere aveva già chiesto più volte di  farsi
    caricare  e  aveva  sempre  ricevuto  un  rifiuto.  Pregava  con  voce
    esitante, che suscitava pietà.
    - Fatemi mettere su, per amor di Dio!
    - Fatelo salire,  fatelo salire!   -  esclamò Tuscin.   -    Tu,  zio,
    distendigli sotto il tuo cappotto  -  disse al suo soldato prediletto.
    -  E l'ufficiale ferito dov'è?
    - L'abbiamo scaricato: era morto  -  rispose qualcuno.
    - Salite e sedetevi,  caro, sedetevi. Stendigli sotto il tuo cappotto,
    Antonov.
    Quell'alfiere era Rostòv.  Con  un  braccio  si  teneva  l'altro,  era
    pallido  e  un tremito febbrile gli agitava la mascella inferiore.  Lo
    posero sulla Matvevna,  su  quello  stesso  pezzo  dal  quale  avevano
    scaricato  l'ufficiale  morto.  Il  cappotto  ripiegato era intriso di
    sangue che imbrattò i calzoni e le mani di Rostòv.
    - Siete ferito, caro?  -  domandò Tuscin,  avvicinandosi al cannone su
    cui era seduto Rostòv.
    - No, sono contuso.
    - Ma perché c'è del sangue sull'affusto?
    - E' dell'altro ufficiale,  eccellenza,  che ne ha perduto tanto...  -
    rispose  un  artigliere,  asciugando  il  sangue  con  la  manica  del
    cappotto, quasi scusandosi della poca pulizia del cannone.
    Trascinati  i  cannoni  a  fatica  e con l'aiuto della fanteria su per
    l'erta e raggiunto il villaggio  di  Gunthersdorf,  le  truppe  ebbero
    l'ordine di fermarsi.  L'oscurità era ormai tale che, a dieci passi di
    distanza,  non era possibile distinguere le uniformi dei  soldati;  il
    fuoco  di fucileria cominciava a cessare.  Tutto a un tratto,  vicino,
    dalla parte destra,  si udirono di nuovo grida e spari;  i  lampi  dei
    colpi  squarciavano  qua  e  là  le tenebre.  Era l'ultimo attacco dei
    Francesi al quale rispondevano i  soldati  russi  asserragliati  nelle
    case  del  villaggio.  Di  nuovo  tutti  si  precipitarono  fuori  dal
    villaggio,  ma i cannoni di Tuscin non potevano più  muoversi,  e  gli
    artiglieri,  Tuscin e Rostòv si guardarono in silenzio,  in attesa del
    loro destino.  La sparatoria andò scemando e da  una  viuzza  laterale
    sbucarono alcuni soldati che parlavano animatamente tra di loro.
    - Petròv, sei sano e salvo?  -  domandava uno.
    - Li abbiamo sistemati a dovere,  fratello.  Adesso non torneranno più
    -  diceva un altro.
    - Non ci si vede affatto! Come hanno fatto a non sparare sui loro?  E'
    buio pesto, compagni! Non ci sarà qualcosa da bagnarsi la gola?
    I  Francesi erano stati respinti un'altra volta.  E di nuovo i cannoni
    di Tuscin,  immersi nel buio più  completo,  circondati  come  da  una
    cornice dalla fanteria rumoreggiante, si misero in moto.
    Nell'oscurità,  pareva  scorresse  un  fiume  invisibile e cupo sempre
    nella stessa direzione, con un rumore incessante di voci, di sussurri,
    di scalpitio di cavalli.  Nel clamore generale attraverso  tutti  quei
    suoni, si distinguevano più netti, nelle tenebre della notte, i gemiti
    dei  feriti.  Pareva  che  i  loro lamenti empissero di sé il buio nel
    quale si muovevano  le  truppe:  quei  lamenti  e  quelle  tenebre  si
    fondevano  in  un'unica  cosa.  Dopo un po',  un'agitazione intensa si
    propagò tra quella folla che camminava: qualcuno era passato,  con  il
    suo séguito, su un cavallo bianco e nel passare aveva detto qualcosa.
    -  Che ha detto?  Dove si va,  ora?  Ci si deve fermare oppure no?  Ha
    ringraziato?  -  si levavano da ogni parte le domande avide e curiose,
    e tutta quella massa di uomini in movimento comincio ad accalcarsi  su
    se  stessa  (evidentemente  i  soldati che erano più avanti,  si erano
    fermati),  e corse voce che era giunto l'ordine di sostare.  E  tutti,
    così come stavano marciando, si fermarono nella strada fangosa.
    Si accesero i fuochi e più alte si fecero le voci. Il capitano Tuscin,
    impartiti  gli  ordini  alla compagnia,  mandò un soldato a cercare un
    posto di medicazione o un medico per Rostòv e si  sedette  accanto  al
    falò  che  i  soldati  avevano  acceso  sulla strada.  Anche Rostòv si
    trascinò sino al fuoco.  Un tremito febbrile causato dal  dolore,  dal
    freddo,  dall'umidità gli squassava il corpo. Un sonno invincibile gli
    faceva chiudere gli occhi,  ma la sofferenza  che  gli  tormentava  il
    braccio  e per cui non riusciva a trovare una posizione,  gli impediva
    di dormire.  Ora chiudeva gli occhi ora  guardava  il  fuoco  che  gli
    appariva di un rosso ardente,  ora la figura curva e debole di Tuscin,
    seduto alla turca accanto a lui.  I grandi occhi buoni e  intelligenti
    di Tuscin lo fissavano con simpatia e compassione.  Rostòv sentiva che
    Tuscin avrebbe voluto aiutarlo, con tutto il cuore,  ma non poteva far
    nulla.
    Da  tutte le parti si udivano i rumori,  i passi e le parole di coloro
    che passavano a piedi o a cavallo e della fanteria che  tutto  attorno
    si dava da fare per accamparsi.  I suoni delle voci,  dei passi, dello
    scalpiccio degli zoccoli dei cavalli nel fango,  il crepitio vicino  e
    lontano della legna che bruciava,  si fondevano in una specie di unico
    ondeggiante rumore.
    Ora non scorreva già più  nelle  tenebre  l'invisibile  fiume;  adesso
    pareva un mare cupo e tenebroso che si calma dopo la tempesta.  Rostòv
    guardava e  ascoltava  senza  nulla  comprendere  di  quanto  avveniva
    davanti e attorno a lui.  Un soldato di fanteria si avvicinò al fuoco,
    si accoccolò sui calcagni,  avvicinò le mani alla fiamma  e  volse  il
    viso dall'altra parte.
    - Permettete, vossignoria?  -  chiese, rivolgendosi interrogativamente
    a Tuscin.  -  Mi sono allontanato dalla mia compagnia, signoria, e non
    so più dove si trovi. Un bel guaio!
    Insieme  con  il  soldato  si era avvicinato al fuoco un altro con una
    guancia fasciata,  il quale,  rivolgendosi a Tuscin,  lo pregò di  far
    spostare  un  poco  i  cannoni  per  permettere a un carro di passare.
    Dietro al comandante della compagnia giunsero correndo due soldati che
    si ingiuriavano e si picchiavano furiosamente strappandosi di mano,  a
    vicenda, uno stivale.
    - Come?  L'hai raccattato tu?  Sei svelto,  sai...  -  gridava uno dei
    due con voce rauca.
    Poi si avvicinò un soldato magro e pallido con il collo avvolto in una
    benda insanguinata,  che con voce irritata chiese agli  artiglieri  un
    po' d'acqua da bere.
    - E che, devo morire come un cane?  -  disse.
    Tuscin ordinò che gli fosse portata dell'acqua.  Venne poi di corsa un
    soldato tutto allegro a chiedere un po' di fuoco per la fanteria.
    - Un po' di fuoco ben caldo  anche  per  la  fanteria!  Statevi  bene,
    paesani e grazie per il fuoco! Ve lo restituiremo con gli interessi  -
    disse, portandosi via nell'oscurità un tizzone fiammeggiante.
    Poi  passarono  davanti  al  falò  altri quattro soldati che portavano
    qualcosa di  molto  pesante  entro  un  cappotto  teso.  Uno  di  essi
    incespicò.
    - Al diavolo! Hanno messo la legna in mezzo alla strada!  -  brontolò.
    - E' morto, a che scopo continuiamo a portarlo?  -  disse un altro.
    - Andate voi!
    E anch'essi scomparvero nel buio con il loro triste fardello.
    - Dunque,  vi fa molto male il braccio?   -  chiese Tuscin a Rostòv, a
    bassa voce.
    - Sì, molto male...
    - Vossignoria,  dal generale!  Vi aspetta nell'"izbà" (83) qui accanto
    -  disse un cannoniere che si era avvicinato a Tuscin.
    - Subito, mio caro!
    Tuscin  si alzò e,  rassettandosi un poco la divisa,  si allontanò dal
    fuoco...
    A breve distanza dal falò  acceso  dagli  artiglieri,  in  una  "izbà"
    preparata  per lui,  il principe Bagratiòn sedeva a cena,  discorrendo
    con alcuni ufficiali superiori riuniti attorno al tavolo.  C'erano tra
    gli altri il vecchietto dagli occhi semichiusi,  intento a rosicchiare
    avidamente un osso di montone,  il generale che aveva ventidue anni di
    servizio esemplare, rosso in viso per aver bevuto acquavite e mangiato
    copiosamente,  l'ufficiale  di stato maggiore con l'anello all'indice,
    Zerkòv che guardava tutto con occhi inquieti  e  il  principe  Andréj,
    pallido, con le labbra serrate e gli occhi lucidi di febbre.
    Appoggiata  in  un  angolo  dell'"izbà"  c'era  la  bandiera  presa ai
    Francesi,  e l'auditore dalla faccia ingenua ne palpava la  stoffa  e,
    perplesso,  scuoteva  il  capo,  forse perché si interessava veramente
    all'aspetto di quel  trofeo  o  forse  perché,  affamato  com'era,  si
    sentiva  triste  nel  veder  mangiare  gli altri che non gli offrivano
    nulla,  per mancanza di  posate.  Nell'"izbà"  vicina  si  trovava  un
    colonnello  francese  fatto prigioniero dai dragoni.  Accanto a lui si
    affollavano  i  nostri  ufficiali  e  lo  guardavano  incuriositi.  Il
    principe  Bagratiòn  ringraziava  personalmente  i  singoli  capi e li
    interrogava sui particolari della battaglia e sulle perdite subite. Il
    comandante del reggimento passato in  rivista  da  Kutuzòv  a  Braunau
    riferiva al principe che,  appena cominciata la battaglia, egli si era
    ritirato dal bosco,  aveva riunito i soldati occupati a far  legna  e,
    fattili  passare  avanti,  con  due  battaglioni  aveva  assalito alla
    baionetta i Francesi e li aveva sbaragliati.
    - Appena mi accorsi, eccellenza, che il primo battaglione si stancava,
    mi appostai sulla strada e mi dissi: "Lascerò passare questi qui e  li
    accoglierò con una mitragliata", e così feci.
    Quel  comandante del reggimento aveva tanto desiderato agire così e si
    rammaricava talmente di non esserci riuscito che gli pareva che  tutto
    ciò  che  raccontava fosse realmente accaduto.  E,  chi sa,  forse era
    realmente accaduto!  Com'era possibile,  in  una  confusione  di  quel
    genere, distinguere ciò che era accaduto da ciò che non lo era?
    -  Devo inoltre far notare,  eccellenza,   -  proseguì,  ricordando la
    conversazione tra Dòlochov e Kutuzòv e il suo ultimo incontro  con  il
    degradato   -  che il soldato degradato Dòlochov ha fatto prigioniero,
    in mia presenza,  un ufficiale  francese  e  si  è  distinto  in  modo
    particolare.
    - E qui ho veduto,  eccellenza, l'attacco effettuato dal reggimento di
    Pàvlograd  -  s'intromise Zerkòv,  guardando attorno con  inquietudine
    giacché  in quel giorno non aveva visto affatto gli ussari,  dei quali
    aveva soltanto sentito parlare da un ufficiale di fanteria.   -  Hanno
    sfondato due quadrati, eccellenza.
    Alle parole di Zerkòv,  alcuni ufficiali sorrisero,  credendo che come
    sempre,  egli scherzasse.  Ma,  resisi conto che  quanto  egli  diceva
    tendeva  a  glorificare  le  armi russe e la battaglia di quel giorno,
    ridiventarono seri,  benché molti di loro sapessero benissimo che  ciò
    che aveva detto Zerkòv era una menzogna priva di qualsiasi fondamento.
    -  Vi  ringrazio  tutti,  signori!  Tutte  le  armi si sono comportate
    eroicamente: fanteria,  artiglieria,  cavalleria.  Ma perché  mai,  al
    centro  sono stati abbandonati due cannoni?   -  chiese poi,  cercando
    qualcuno con lo sguardo.  (Il principe Bagratiòn non si informava  dei
    cannoni  dell'ala  sinistra: sapeva benissimo che là,  sin dall'inizio
    della battaglia,  tutti i pezzi erano stati abbandonati).   -  Mi pare
    di averlo domandato a voi  -  soggiunse poi rivolgendosi all'ufficiale
    di stato maggiore di servizio.
    -  Uno  dei  due  era  ridotto  in  condizioni inservibili  -  rispose
    l'ufficiale interpellato;  -  quanto all'altro non so capire;  mi sono
    trattenuto  io  stesso  nella  batteria  tutto  il  tempo e me ne sono
    allontanato adesso...  Faceva caldo sul serio lassù...   -    aggiunse
    modestamente.
    Qualcuno  disse  che  il  capitano  Tuscin  era nel villaggio e che un
    soldato era stato mandato a chiamarlo.
    - Ma voi,  ecco,  ci siete stato  -    disse  il  principe  Bagratiòn,
    rivolgendosi a Bolkonskij.
    -  E  come!  E  solo  per  poco non ci siamo incontrati  -  intervenne
    l'ufficiale di stato maggiore, sorridendo gentilmente a Bolkonskij.
    - Non ho avuto il piacere di vedervi  -  rispose il  principe  Andréj,
    in tono freddo e reciso. Tutti ammutolirono.
    Sulla  soglia  comparve  Tuscin  che  si  insinuò  timidamente  tra  i
    generali.  Confuso come sempre,  alla  vista  dei  superiori,  girando
    nell'"izbà"  angusta  attorno  ai  generali,  non  vide  l'asta  della
    bandiera e incespicò.
    - Per quale motivo  un  cannone  è  stato  abbandonato?    -    chiese
    Bagratiòn,  aggrottando  le sopracciglia,  non tanto all'indirizzo del
    capitano quanto a quello di coloro che ridevano,  fra i quali  Zerkòv,
    la cui voce si udiva più forte di tutte.
    Ora  soltanto,  di  fronte al minaccioso superiore,  Tuscin si rendeva
    conto dell'orrore della propria colpa  e  della  propria  vergogna  di
    essere  ancora vivo,  dopo aver perduto due cannoni.  Era così agitato
    che,  sino a quel momento,  non ci  aveva  pensato.  Le  risate  degli
    ufficiali  accrescevano il suo turbamento;  ritto davanti a Bagratiòn,
    con la mascella inferiore che tremava, riuscì appena a balbettare:
    - Non so,  eccellenza...  Non c'erano uomini  in  numero  sufficiente,
    eccellenza...
    - Avreste potuto prenderli dalle truppe di copertura!
    Che  non  ci  fossero truppe di copertura,  pur essendo questa la pura
    verità,  Tuscin non lo disse.  Temeva di "compromettere",  dicendo una
    cosa  simile,  qualche  alto ufficiale e,  muto,  con gli occhi fissi,
    guardava in viso Bagratiòn,  come lo scolaro impappinato guarda il suo
    esaminatore.
    Seguì  un  silenzio  abbastanza  lungo.  Il  principe  Bagratiòn,  che
    evidentemente non voleva mostrarsi severo,  non sapeva che cosa  dire;
    gli  altri  non  osavano  intervenire.  Il  principe  Andréj  guardava
    furtivamente Tuscin mentre le dita delle sue mani erano agitate da  un
    tremito nervoso.
    - Eccellenza,  -  disse rompendo all'improvviso il silenzio con la sua
    voce  tagliente    -    vi siete degnato di mandarmi alla batteria del
    capitano Tuscin.  Io ci sono stato e ho  trovato  i  due  terzi  degli
    uomini  e  dei cavalli uccisi,  due cannoni ridotti in pezzi e nessuna
    truppa di copertura.
    Il principe Bagratiòn  e  Tuscin  guardavano  con  eguale  fissità  il
    principe   Andréj   che  parlava,   cercando  di  frenare  la  propria
    agitazione.
    - E se mi permettete,  eccellenza,  di  esprimere  la  mia  opinione,-
    proseguì questi  -  vi dirò che il successo della giornata è dovuto in
    gran  parte  all'azione di questa batteria e all'eroica resistenza del
    capitano Tuscin e dei suoi soldati  -  disse  il  principe  Andréj  e,
    senza attendere risposta, si alzò e si allontanò dalla tavola.
    Il  principe  Bagratiòn  guardò  Tuscin e poiché,  evidentemente,  non
    voleva mettere in dubbio il reciso giudizio di Bolkonskij,  e  non  si
    sentiva nello stesso tempo in grado di accettarlo per intero, chinò la
    testa  e disse a Tuscin che poteva ritirarsi.  Il principe Andréj uscì
    dietro di lui.
    - Vi ringrazio, caro, mi avete salvato!  -  gli disse Tuscin.
    Il principe Andréj lo guardò e senza parlare si allontanò.  Si sentiva
    triste  e  aveva  il  cuore oppresso.  Tutto ciò che avveniva era così
    strano e così diverso da quanto egli aveva sperato...

    "Chi sono? Perché fanno così?  Che cosa vogliono?  Quando finirà tutto
    questo?",  pensava  Rostòv,  seguendo  con  lo sguardo le ombre che si
    muovevano attorno a lui.  Il dolore al braccio si  faceva  sempre  più
    tormentoso.  Il  sonno  lo  vinceva,  davanti agli occhi gli danzavano
    tanti cerchietti rossi e l'impressione prodotta in lui dalle voci, dai
    visi dei presenti,  insieme con il  senso  della  sua  solitudine,  si
    confondevano con il dolore fisico che lo faceva soffrire.  Erano essi,
    quei soldati,  feriti e non feriti,  erano essi che lo schiacciavano e
    lo opprimevano, gli serravano e legavano le vene e i nervi, bruciavano
    la  carne  del  braccio  e della spalla rotta.  Per liberarsi di loro,
    chiuse gli occhi.
    Per un attimo dimenticò ogni cosa,  ma in quel breve momento di  oblio
    vide  in  sogno un infinito numero di cose: vide sua madre e la grande
    mano bianca di lei,  vide le spalle  magroline  di  Sònja,  gli  occhi
    ridenti  di  Natascia,  Denissov  con  la  sua voce e i suoi baffi,  e
    Teljanin,  e rivisse tutta la storia con Teljanin e  Bogdanyc'.  Tutta
    quella  storia era una cosa sola con un soldato dalla voce tagliente e
    quella storia e quel soldato tenevano stretto il suo braccio senza mai
    lasciarlo,  glielo schiacciavano e glielo tiravano sempre nella stessa
    direzione,   infliggendogli   terribili  tormenti.   Egli  cercava  di
    allontanarsi da loro,  ma essi non lasciavano nemmeno per un minuto la
    sua spalla.  Questa non gli avrebbe fatto male,  sarebbe stata sana se
    non gliel'avessero tirata: ma era impossibile liberarsi.
    Aprì gli occhi e guardò in alto.  Il nero velo della notte era sospeso
    a  breve distanza dalla luce delle braci.  In quella luce turbinava un
    nevischio leggero.  Tuscin non  era  ancora  tornato,  il  medico  non
    veniva.  Egli  era solo;  soltanto un piccolo soldato tutto nudo stava
    seduto dall'altra parte  del  fuoco  e  si  scaldava  il  magro  corpo
    giallognolo.
    "Non  sono  più  necessario a nessuno!",  pensava Rostòv.  "Nessuno mi
    aiuta, nessuno ha pietà di me.  Eppure anch'io,  tempo fa,  ero a casa
    mia,  forte,  allegro,  amato".  Sospirò,  e il suo sospiro finì in un
    gemito.
    - Soffrite, eh?  -  chiese il soldatino,  agitando la camicia sopra il
    fuoco e senza aspettare risposta,  dopo aver tossito forte,  aggiunse:
    -  Quanti e quanti sono stati storpiati, oggi! Che orrore!
    Rostòv non ascoltava ciò che  diceva  il  soldato.  Guardava  i  lievi
    fiocchi  di  neve che turbinavano al di sopra delle fiamme e ricordava
    l'inverno russo, la casa tiepida e luminosa, la soffice pelliccia,  le
    slitte  veloci,  il  suo  corpo  sano  e  vigoroso  e  tutto l'affetto
    tenerissimo  della  famiglia.  "E  perché,  poi,  sono  venuto  qui?",
    pensava.
    Il  giorno seguente i Francesi non rinnovarono l'attacco e i resti del
    corpo di Bagratiòn si riunirono all'armata di Kutuzòv.



    NOTE.

    N. 1. Braunau: città austriaca, sul fiume Inn,  nella quale nacque nel
    1889 Adolf Hitler.
    N.  2. Ferdinando Carlo Giuseppe di Asburgo-Este (1781-1850), arciduca
    d'Austria. Sottrattosi alla capitolazione di Ulma,  combatté in Boemia
    contro  i  Bavaresi  alleati  di  Napoleone.  Fu  governatore generale
    dell'Ungheria (1816) e della Galizia ( 1830).  Dal 1846 si  ritirò  in
    Italia.
    N.  3.  Karl  Mack (1752-1828),  feldmaresciallo austriaco,  si lasciò
    accerchiare a Ulma da Napoleone  nell'ottobre  1805,  capitolando  con
    ventimila  uomini  senza  combattere.   Condannato  a  venti  anni  di
    prigionia, venne poi liberato e riabilitato.
    N. 4. Costume nazionale delle donne russe.
    N. 5. Città dell'Ucraina, nel delta del Danubio (ramo Kilia).  Fondata
    probabilmente  dai  Genovesi,  passò  più  volte dai Turchi ai Russi e
    viceversa. Per i Russi venne conquistata nel 1788 da Suvorov.  Annessa
    alla Romania nel 1919, l'attuale Izmail è ritornata possesso russo nel
    1944.
    N. 6. Michaìl Fëdorovic' Kamenskij (1738-1809), conte, feldmaresciallo
    russo.  Nel  1806 venne nominato generale in capo dell'esercito russo,
    ma tenne la carica solo sei giorni.  Ritiratosi a  vita  privata,  non
    molto tempo dopo fu ucciso dai suoi servi.
    N. 7. Francesco Secondo (1768-1835): imperatore tedesco (1792-1806) e,
    col  nome  di Francesco Primo,  imperatore d'Austria (1804-1835).  Era
    figlio  di  Leopoldo  Secondo,   granduca  di  Toscana  e  imperatore.
    Coinvolto  nelle  guerre  provocate dalla rivoluzione francese,  perse
    progressivamente  molti  territori,   fino  a  dover  riconoscere   la
    Confederazione del Reno e abdicare alla corona del Sacro Romano Impero
    (1806).  Sua  figlia  Maria  Luisa  divenne  sposa  di  Napoleone.  Il
    congresso di Vienna (1815) gli restituì la maggior parte dei territori
    sottrattigli,   ma  nel  dicembre  1814  rinunciò  alla  restaurazione
    dell'impero;   nel  1815  Francesco  Primo  divenne  presidente  della
    Confederazione germanica.
    N. 9. Michaìl Timoféevic Kozlovskij, principe,  colonnello russo;  nel
    1807 comandava un battaglione del reggimento Preobrazenskij.
    N.  10. Nostitz (1768-1840), generale austriaco. Avendo abbandonato le
    sue  posizioni  ad  Hollabrünn,   nel  1805  venne  accusato  di  alto
    tradimento. Nel 1807 faceva parte dell'esercito russo.
    N.  18. Cappa da signora o da ufficiale, con maniche larghe e rotonde.
    Deriva  da  una  voce  turca,   "doliman",   giuntaci  attraverso  gli
    Ungheresi.
    N.  19.  Podnòvinskoe:  località  moscovita  che,  particolarmente nei
    giorni di festa,  veniva  percorsa  a  piedi  o  in  carrozza  per  il
    passeggio.
    N. 20. Misura lineare antica, corrispondente a poco più di due metri.
    N.   21.   Pëtr  Ivànovic'  Bagratiòn  (1765-1812),   generale  russo,
    luogotenente preferito del maresciallo Suvorov.  Nel 1812,  durante la
    campagna  napoleonica  in  Russia,  fu alla testa della seconda armata
    dell'ovest e venne ferito mortalmente nella battaglia  della  Moscova.
    Il  suo  carattere  ardito  fu  sempre  in  contrasto  con la tendenza
    temporeggiatrice di Kutuzòv,  come risulta anche dalla presente  opera
    di  Tolstòj  che  attribuì  al  generale Bagratiòn la qualità di saper
    infondere fiducia ai suoi uomini con il metodo singolare di  approvare
    sempre i movimenti tattici anche sfavorevoli, come se fossero stati da
    lui ordinati e calcolati.  Morì in seguito alle ferite riportate nella
    battaglia di Borodinò.
    N. 22.  Edouard Adolphe Casimir Mortier (1768-1835),  duca di Treviso,
    maresciallo  di  Francia.  Comandante della Giovane Guardia durante la
    campagna di Russia, fu l'ultimo generale a lasciare Mosca. Creato Pari
    da Luigi Diciottesimo,  fu poi destituito per essersi rifiutato di far
    parte  della  Corte marziale che doveva giudicare Ney.  Nel 1819 tornò
    alla camera dei  Pari,  fu  ambasciatore  in  Russia,  presidente  del
    Consiglio e ministro della guerra.  Fu ucciso nel corso dell'attentato
    della "macchina infernale" (venticinque canne di fucile su un sostegno
    di legno) di G.  Fieschi  -   cospiratore  e  avventuriero  còrso    -
    contro Luigi Filippo.
    N.  23.  Schmidt,  generale austriaco,  intimo di Francesco Primo, nel
    1805 al seguito di Kutuzòv.
    N. 24. Dmitrij Sergéevic' Dochturov (1756-1816), generale russo. Prese
    parte alla guerra contro  la  Svezia  (  1789-1790)  e  alle  campagne
    antinapoleoniche del 1805-1807 e 1812-1813.
    N.  29.  Carlo  d'Austria  (1771-1847),  arciduca,  figlio di Leopoldo
    Secondo e fratello di Francesco Secondo  (confronta  sopra,  nota  7).
    Alla  testa delle truppe imperiali del Reno nel 1796 respinse Jourdain
    e Moreau e nel 1801 sconfisse  Massena  a  Zurigo.  Nel  1806  divenne
    ministro  della guerra e riorganizzò l'esercito austriaco;  perse però
    la battaglia decisiva di Wagram (1809), in cui fu pure ferito.  Caduto
    in  disgrazia  anche  per  le  sue  idee liberali,  non partecipò alle
    campagne del 1813-1815.
    N. 35. Schönbrunn è il ben noto castello imperiale ad ovest di Vienna,
    trasformato e ultimato da Maria Teresa d'Austria, verso il 1750.  Dopo
    la  vittoria  di  Wagram Napoleone vi dettò la pace di Schönbrunn o di
    Vienna (1809);  ma in quello  stesso  castello  morì,  nel  1832,  suo
    figlio, il Re di Roma o Duca di Reichstadt.
    N. 36. Rudolph Wrbna (1761-1823), conte e uomo di stato austriaco. Nel
    1805 fece da intermediario tra Francesi e Austriaci.
    N.  37.  Gioacchino  Murat (1771-1815) fu uno dei più valenti generali
    napoleonici.  Ebbe gran parte nella vittoria di Austerlitz e costrinse
    Carlo  Quarto di Spagna a rendersi a discrezione a Baiona.  Napoleone,
    che nel 1800 gli aveva dato in moglie la sorella Carolina e  nel  1806
    lo  aveva fatto granduca di Berg,  nel 1808 lo creò re di Napoli.  Nel
    1812 partecipò alla  battaglia  della  Moscova  ma,  dopo  Lipsia,  si
    avvicinò all'Austria.  Poi siccome già nella prima parte del Congresso
    di Vienna si tentò la restaurazione borbonica, al ritorno di Napoleone
    dall'Elba,  marciò contro gli Austriaci e lanciò da Rimini  il  famoso
    proclama. Sconfitto a Tolentino (1815) e respinto in Francia, passò in
    Corsica  e  di qui,  con pochi soldati,  s'imbarcò verso il suo regno;
    sbarcato a Pizzo  di  Calabria,  fu  arrestato  e,  dopo  un  sommario
    processo, condannato a morte. Venne fucilato il 13 ottobre 1815.
    N.  39.  Auersperg von Mattern (1740-1822),  principe, feldmaresciallo
    austriaco: come viene narrato anche  dal  Tolstòj  poco  più  innanzi,
    cadde nel tranello tesogli dal Murat. Per questo venne processato.
    N.  40.  Scaramuccia  di  Dürenstein.  Ricordiamo  che Dürenstein è un
    villaggio dell'Austria meridionale in cui ebbe luogo uno  scontro  tra
    Mortier e Kutuzòv.
    N.  41.  Alessandro  Primo  si  recò  nell'ottobre 1805 a Berlino onde
    persuadere il re di Prussia Federico Guglielmo  Terzo  (1770-1840)  ad
    entrare in guerra contro Napoleone.  In realtà, nonostante gli accordi
    segreti di Potsdam,  Federico Guglielmo Terzo entrò in guerra solo nel
    settembre  1806,  dopo  che  era  nata  la  Confederazione  del Reno e
    Napoleone si era rifiutato di cedergli l'Hannover.
    N. 43.  Campoformio (ora Campoformido),  comune in provincia di Udine,
    noto  per  il trattato di pace tra l'Austria e la Francia (1797),  con
    cui l'Austria cedeva alla Francia i Paesi  Bassi,  Milano  e  Mantova,
    ricevendone in compenso Venezia, l'Istria e la Dalmazia.
    N.  48.  L'armistizio di Cherasco e la pace di Parigi del 1796 avevano
    sottratto al regno di Sardegna,  governato allora da  Vittorio  Amedeo
    Terzo (1726-1796), Nizza e la Savoia. A Potsdam la Prussia aveva posto
    come   condizione   del  suo  intervento  la  restituzione  di  questi
    territori, proposta sotto forma di ultimatum a Napoleone.
    N. 49.  Di fronte alla travolgente avanzata napoleonica,  l'imperatore
    d'Austria  mandò  a più riprese proposte di pace a Napoleone.  Lo fece
    perfino il 13 novembre 1805,  subito  dopo  la  presa  di  Vienna;  ma
    naturalmente senza alcun esito.
    N.  55.  Jean Lannes (1769-1809),  duca di Montebello e maresciallo di
    Francia.  Fece la campagna d'Egitto e partecipò al colpo di stato  del
    18 brumaio. Si distinse a Montebello e a Marengo, e nel 1809 conquistò
    Saragozza.  Fu ferito mortalmente alla battaglia di Essling, villaggio
    presso Vienna,  celebre per una sanguinosa battaglia tra  Austriaci  e
    Francesi.
    N. 56. Augustin Belliard (1769-1828), generale francese, capo di stato
    maggiore di Dumouriez e destituito dopo la morte di lui, ricominciò la
    carriera come volontario. Partecipò alla campagna d'Italia, d'Egitto e
    dell'Impero. Servì il suo paese come uomo politico e diplomatico anche
    sotto Luigi Diciottesimo e Luigi Filippo.
    N.  68.  E' il più antico condensatore elettrostatico. Il prototipo fu
    costruito nel 1746 da tre studiosi di Leida.
    N.  69.  Franz von Weirother (1754-1807),  teorico militare e Capo  di
    Stato maggiore dell'esercito austriaco.
    N.  70.  Fëdor  Fëdorovic',  conte di Bukshevden (1750-1811) esonerato
    dallo zar  Paolo  Primo,  fu  richiamato  da  Alessandro  Primo  dalla
    Germania   dove   si  era  rifugiato.   Partecipò  alla  battaglia  di
    Austerlitz.
    N. 72. Specie di polentina di grano bollito in acqua o latte.
    N. 76.  Jean Léonard Francois Lemarrois (1776-1836) generale francese,
    aiutante di campo di Napoleone.
    N. 77. Tolone: com'è noto, fu proprio nell'assedio di questa città che
    Napoleone,  in  qualità  di  capitano  di  artiglieria,  ebbe  modo di
    distinguersi. Tolone,  consegnata dai monarchici francesi a una flotta
    anglo-spagnola nell'aprile 1973,  venne riconquistata dai repubblicani
    rivoluzionari il 19 dicembre 1793.
    N. 78. Lungo mantello di panno simile al feltro.
    N. 80. La corretta espressione francese è "mon prince",  mio principe,
    senza "monsieur".
    N.  81.  Fu  questo  l'attacco  di  cui  Thiers scrive: "Les Russes se
    conduisirent vaillamment et,  chose rare à  la  guerre,  on  vit  deux
    masses  d'infanterie  marcher  résolument  l'une contre l'autre,  sans
    qu'aucune des deux cède avant d'etre abordée" (I Russi si comportarono
    valorosamente e, cosa rara in guerra,  si videro due masse di fanteria
    affrontarsi  risolutamente,  senza che nessuna delle due cedesse prima
    di venire attaccata),  e Napoleone,  all'isola di  Sant'Elena,  disse:
    "Quelques  bataillons  russes  montrèrent  de  l'intrépidité"  (Alcuni
    battaglioni  russi  si   mostrarano   veramente   coraggiosi).   (Nota
    dell'autore).
    N. 82. Vecchia misura corrispondente a chilogrammi 16,38.
    N. 83. Casa di contadini costruita per lo più in legno.