Lev N. Tolstòj.
    GUERRA E PACE.


    LIBRO SECONDO.

    PARTE PRIMA.


    CAPITOLO 1.

    Al principio del 1806 Nikolàj Rostòv ebbe una licenza.  Anche Denissov
    andava  a  casa  in  licenza,  a  Voronèz,  e  Rostòv  riuscì  a farsi
    accompagnare da lui sino a Mosca e a trattenerlo per qualche tempo  in
    casa dei suoi.  Alla penultima stazione di posta, Denissov, incontrato
    un collega,  aveva bevuto con lui tre bottiglie di vino e,  nonostante
    gli  scossoni  dovuti  a una strada aspra e difficile,  non si svegliò
    neppure all'avvicinarsi a Mosca:  tranquillamente  sdraiato  in  fondo
    alla slitta, accanto all'amico, la cui impazienza si faceva sempre più
    tesa  a  mano  a  mano  che la slitta si avvicinava alla città,  se la
    dormiva tranquillamente.
    "Non si arriva mai!  Quanto tempo  ci  vuole  ancora?  Oh,  come  sono
    insopportabili queste vie, queste botteghe, queste ciambelline, questi
    fanali e questi vetturini!", pensava Rostòv dopo che aveva già esibito
    alle guardie della barriera il permesso suo e quello del compagno.
    -  Denissov,  siamo  arrivati!  E lui se la dorme!   -  diceva Rostòv,
    tendendo in avanti tutto il corpo,  come se con quel movimento potesse
    accelerare la corsa della slitta.
    Denissov non rispondeva.
    - Ecco il crocicchio dove sosta il vetturino Zachàr, ed ecco là Zachàr
    in persona,  sempre con lo stesso cavalluccio.  E là,  ecco la bottega
    dove si comperava il pan pepato... Siamo quasi arrivati! Ah!
    - A quale casa devo fermare?  -  domandò il postiglione.
    - Laggiù, a quell'edificio grande,  lo vedi?  Quella è la nostra casa,
    -    rispose  Rostòv   -  la nostra casa!  Denissov!  Denissov!  Siamo
    arrivati!
    Denissov alzò il capo, tossì e non rispose.
    - Dmitrij,   -  disse Rostòv,  volgendosi al suo  domestico  seduto  a
    cassetta  -  quel lume è in casa nostra?
    - Sì, signore, c'è la luce accesa nella camera del vostro papà.
    -  Allora  non  sono  ancora  andati  a letto?  Eh?  Che ne dici?  Non
    dimenticarti,  mi raccomando,  di levar subito dalla  valigia  la  mia
    giubba  nuova all'ungherese  -  aggiunse il giovanotto,  lisciandosi i
    baffetti  appena  spuntati.     -    Suvvia,   più  presto!incitò   il
    postiglione.    -  Ehi,  Vaska,  svegliati una buona volta!  - gridò a
    Denissov,  il quale aveva di nuovo reclinato il capo sul petto.   -  E
    tu fa' presto,  corri corri... ti darò tre rubli di mancia, se vai più
    in fretta!  -  promise al postiglione quando la slitta era ormai a tre
    case di distanza  dal  portone.  Gli  pareva  che  i  cavalli  non  si
    movessero. Finalmente la slitta prese a destra e rallentò per fermarsi
    davanti al portone;  sopra la sua testa Rostòv vide il noto cornicione
    sporgente con l'intonaco sgretolato,  vide l'entrata,  il paletto  sul
    marciapiedi.  Balzò dalla slitta ancora in moto e corse nell'atrio. La
    casa,  immobile e muta,  pareva del tutto indifferente al suo  arrivo.
    Nell'atrio non c'era nessuno.  "Mio Dio, andrà tutto bene?", si chiese
    Rostòv,  fermandosi un attimo con il cuore che  gli  veniva  meno;  ma
    subito  riprese  a  correre avanti e a salire i noti gradini consunti.
    Ancora la stessa maniglia alla porta  (quella  maniglia  la  cui  poca
    pulizia  faceva  andare in collera la contessa) che,  come sempre,  si
    apriva facilmente, senza rumore. In anticamera ardeva un'unica candela
    di sego.
    Il vecchio Michaìl dormiva  sopra  una  panca;  Prokofij,  il  robusto
    domestico che era così forte da sollevare una carrozza prendendola per
    l'asse  delle  ruote posteriori,  stava seduto,  intento a intrecciare
    cimose di stoffa per fare dei "lapty" (1).  Guardò  la  porta  che  si
    apriva,  e  l'espressione indifferente e assonnata della sua faccia si
    mutò a un  tratto  in  un'espressione  di  entusiasmo  e  di  sgomento
    insieme.
    -  Santi  benedetti!  Il  giovane conte!   -  gridò nel riconoscere il
    padroncino.  -  Come mai, caro piccioncino mio!
    E Prokofij,  tremando per l'emozione,  si precipitò verso la porta del
    salotto   per  annunziare  l'arrivo  inatteso;   ma  poi  rifletté  e,
    voltatosi, si avvicinò al suo giovane padrone e gli baciò la spalla.
    - Stanno tutti bene?   -  chiese Rostòv,  liberando  la  sua  mano  da
    quella di lui.
    - Grazie a Dio, sì, tutti bene! Hanno finito poco fa di cenare. Lascia
    che ti guardi, eccellenza!
    - Tutti bene, dunque?
    - Grazie a Dio, sì, grazie a Dio...
    Rostòv,  che aveva completamente dimenticato Denissov e che non voleva
    essere annunziato, si tolse in fretta la pelliccia e in punta di piedi
    attraversò di corsa il grande  salone  buio.  Nulla  era  mutato:  gli
    stessi  tavoli da gioco,  lo stesso lampadario avvolto nella fodera...
    Qualcuno,  però,  aveva già visto il padroncino,  e questi  non  aveva
    ancora  raggiunto  il  salotto che da un uscio laterale lo investì una
    specie di bufera di abbracci e di baci.  Da un secondo e da  un  terzo
    uscio sbucarono a precipizio una seconda e una terza persona; e ancora
    baci,  ancora abbracci, ancor grida e lacrime di gioia. Non riusciva a
    distinguere nessuno né suo  padre,  né  Natascia,  né  Pétja...  Tutti
    parlavano,   gridavano  e  lo  baciavano  contemporaneamente.  Mancava
    soltanto la madre ed egli se ne avvide subito...
    - E io che non lo sapevo... Nikòluska... caro!
    - Eccolo qui il nostro caro Kòlja.  Come sei cambiato!  Ma non ci sono
    candele qui! E del tè, del tè...
    - Ma dammi un bacio!
    - Tesoro, uno anche a me!
    Sònja,  Natascia,  Anna Michàjlovna,  Vera, il vecchio conte, tutti lo
    abbracciavano e lo baciavano. I domestici e le cameriere,  che avevano
    riempito la stanza, parlavano e mandavano esclamazioni di gioia.
    Pétja gli si era aggrappato alle gambe.
    - A me, a me!  -  gridava.
    Natascia,  dopo  aver  attirato  a sé il fratello e avergli coperto il
    viso di baci, si scostò da lui e, tenendolo per la falda della giubba,
    si mise a saltellare come un  capretto,  sempre  sullo  stesso  posto,
    mandando acutissimi strilli di gioia.
    Da tutte le parti occhi lucidi di lacrime di felicità,  occhi colmi di
    affetto; da tutte le parti labbra che cercavano baci.
    Sònja, rossa come la porpora,  stringeva anch'essa una mano di Nikolàj
    e,  raggiante,  fissava in quelli di lui i suoi occhi beati, in attesa
    che i loro sguardi si incontrassero.  Sònja aveva già compiuto  sedici
    anni  ed  era  molto  bella,  specialmente  in  quel  momento di gioia
    entusiastica. Lo contemplava senza distogliere gli occhi, sorridendo e
    trattenendo il respiro.  Egli la guardò con riconoscenza,  ma  i  suoi
    occhi  cercavano  e  aspettavano  qualcuno  che non c'era.  La vecchia
    contessa non era ancora apparsa.  Ma ecco che si udirono dei passi  di
    là dall'uscio, passi così rapidi che non potevano essere quelli di sua
    madre...
    E invece era proprio lei,  in un abito nuovo che Nikolàj non aveva mai
    visto. Tutti lo lasciarono,  ed egli corse verso la madre.  E,  quando
    furono  vicini,  ella gli si abbandonò sul petto,  singhiozzando.  Non
    poteva rialzare il viso che premeva  contro  i  freddi  alamari  della
    giubba.  Denissov,  entrato  senza  che  nessuno si accorgesse di lui,
    assisteva immobile a quella scena, stropicciandosi gli occhi.
    - Vassilij Denissov, amico di vostro figlio!  -  disse,  presentandosi
    al conte che lo fissava con sguardo interrogativo.
    - Favorite, prego... Lo so, lo so  -  disse il conte, abbracciandolo e
    baciandolo.   -  Nikòluska ci ha scritto. Natascia, Vera, ecco, questo
    è Denissov.
    Tutti quei visi pieni di felicità e di  entusiasmo  si  volsero  verso
    l'arruffato Denissov e lo circondarono.
    - Caro Denissov!   -  strillò Natascia, fuori di sé per la gioia; fece
    un balzo verso di lui, lo abbracciò e lo baciò. Tutti rimasero confusi
    da quel gesto.  Anche Denissov arrossì ma,  sorridendo,  prese la mano
    della fanciulla e la baciò.
    L'ospite  fu  accompagnato  nella  camera  assegnatagli  e poi tutti i
    Rostòv si  riunirono  nel  salotto,  attorno  a  Nikolàj.  La  vecchia
    contessa,  senza  lasciare  la mano del figlio,  che di tanto in tanto
    baciava,  gli sedeva accanto;  gli altri,  standogli vicino quanto più
    potevano,  cercavano di cogliere ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni
    suo sguardo e non gli toglievano di dosso gli occhi entusiasti e pieni
    di amore.  Il fratello e le sorelle litigavano e  si  contendevano  il
    posto  più  vicino a lui e quasi si azzuffavano per dargli il tè,  per
    porgergli il fazzoletto o la pipa.
    Rostòv era felice per l'affetto che  tutti  gli  dimostravano;  ma  il
    primo  momento  dell'incontro era stato così supremamente beato che la
    felicità attuale gli pareva poca cosa,  ed egli ne  aspettava  ancora,
    ancora...
    La  mattina  dopo i due giovani,  stanchi del viaggio,  dormirono sino
    alle dieci.  La stanza  che  precedeva  la  loro  era  disseminata  di
    sciabole,  borse,  valigie aperte,  stivali inzaccherati di fango. Due
    paia di stivali con gli speroni lucidati di fresco erano  stati  posti
    in  quel  momento contro una delle pareti.  I servi stavano portando i
    catini,  l'acqua calda per la barba e gli abiti ripuliti e spazzolati.
    C'era nell'aria odor di tabacco e di uomini.
    - Ehi, Griska, la pipa!  -  risonò la voce rauca di Denissov.  Rostòv,
    alzati!
    Rostòv,  stropicciandosi  gli  occhi  assonnati,  sollevò  dal tiepido
    guanciale la testa arruffata.
    - Perché, è tardi?
    - Altro che tardi!  Sono le dieci  -  rispose la voce di  Natascia,  e
    nella  stanza attigua si udì un gran frusciare di gonne inamidate,  si
    udirono sussurri e risate di giovani voci femminili mentre  attraverso
    l'uscio appena socchiuso balenarono un abito azzurro,  dei nastri, dei
    capelli neri e dei visi allegri. Natascia,  Sònja e Pétja erano venuti
    a informarsi se Nikolàj fosse alzato.
    - Alzati, Nikòlinka!  -  risuonò di nuovo la voce di Natascia al di là
    dell'uscio.
    - Subito!
    Intanto Pétja,  avendo trovato nella prima stanza una sciabola,  se ne
    impadronì e, preso dall'entusiasmo che provano i ragazzi alla vista di
    un fratello maggiore e,  per di più,  militare,  si dimenticò che  per
    Natascia  e  per Sònja era sconveniente vedere degli uomini svestiti e
    spalancò la porta.
    - E' la tua sciabola, Nikòlinka?  -  gridò.
    Le ragazze, con un balzo, si scostarono.  Denissov con aria spaventata
    nascose  con una coperta le gambe villose,  guardando l'amico come per
    chiedergli aiuto.  L'uscio lasciò passare Pétja e fu di nuovo  chiuso.
    Nella stanza attigua si sentì ridere.
    - Nikòlinka,  vieni pure fuori in veste da camera!   -  risonò la voce
    di Natascia.
    - E' la tua, Nikòlinka,  questa sciabola?   -  domandò di nuovo Pétja.
    -  Oppure è la vostra?  -  soggiunse, rivolgendosi al baffuto Denissov
    con profondo rispetto.
    Rostòv  si  mise  in fretta gli stivali,  indossò la veste da camera e
    uscì,  mentre Natascia aveva calzato uno degli stivali con gli speroni
    e  stava  infilandosi  l'altro  e  Sònja piroettando faceva gonfiare a
    pallone il vestito.  Indossavano  entrambe  un  nuovo  abito  azzurro,
    uguale,  ed erano allegre, fresche, accese in viso. Sònja scappò via e
    Natascia, preso sottobraccio il fratello,  lo condusse nel salotto dei
    divani  e  si  mise  a  discorrere  con  lui.  Non facevano in tempo a
    interrogarsi e a rispondere alle domande su mille cose  insignificanti
    che potevano avere interesse soltanto per loro. Natascia rideva a ogni
    parola che l'uno o l'altra pronunziavano, non già perché fossero buffe
    le  cose  che  dicevano,  ma  perché  lei  era allegra e,  incapace di
    contenere la propria gioia, l'esprimeva con scoppiettanti risate.
    - Ah, che bellezza, che meraviglia!  -  ripeteva continuamente.
    Sotto la carezza dei caldi raggi dell'affetto dei  suoi  cari,  Rostòv
    sentiva  per la prima volta,  dopo un anno e mezzo,  sorgere nella sua
    anima e apparire sul suo volto quell'infantile sorriso che non l'aveva
    più rallegrato da quando era partito da casa.
    - Ascolta  -  diceva Natascia;  -  adesso tu sei un uomo fatto,  non è
    vero?  Sono  terribilmente  felice  che tu sia mio fratello...-  e gli
    sfiorò i baffi.  -  Mi piacerebbe sapere come siete voialtri uomini...
    Come noi? No?
    - Perché Sònja è scappata?  -  chiese Rostòv.
    - Già è tutta una storia... Come parlerai a Sònja? Le darai del "tu" o
    del "voi"?
    - Come capiterà.
    - Dalle del "voi", ti prego. Poi ti dirò perché.
    - Perché ?
    - Be' te lo posso dire anche adesso.  Tu sai  che  Sònja  e  io  siamo
    amiche,  tanto  amiche  che io mi sono persino bruciata un braccio per
    lei. Guarda...   -  Tirò su la manica del leggero vestito di mussola e
    mostrò sul lungo,  magro e morbido braccio, sotto la spalla, molto più
    su del gomito (in un punto che di solito  anche  i  vestiti  da  ballo
    coprono) un segno rosso.   -  Mi sono bruciata io stessa per darle una
    prova del mio affetto.  Ho semplicemente scaldato una  riga  sopra  il
    fuoco e l'ho premuta con forza qui.
    Seduto nella sua antica stanza da studio,  su un divano dai bracciuoli
    imbottiti e guardando gli occhi di Natascia  accesi  da  un'animazione
    febbrile,  Rostòv  era  rientrato  in quel suo mondo familiare che non
    poteva aver alcun senso se non per lui, ma che gli aveva fatto gustare
    le più grandi gioie della sua  vita;  quella  bruciatura  sul  braccio
    fatta con la riga,  come prova di affetto,  non gli pareva inutile; la
    capiva e non se ne meravigliava.
    - E allora? Solo questo?  -  domandò.
    - Sì,  siamo veramente amiche!  Questa storia della  riga  non  è  una
    sciocchezza:  noi  due saremo amiche per tutta la vita.  Lei,  se vuol
    bene,  vuol bene per sempre;  io,  questo,  non lo capisco perché  io,
    invece, dimentico subito.
    - Be', e allora?
    -  Sì,  essa  vuol bene a me e a te.   -  Natascia si fece rossa.   Ti
    ricordi, vero, prima della tua partenza... ora lei afferma che tu devi
    dimenticare tutto...  Mi ha detto: io lo amerò sempre,  ma voglio  che
    lui si consideri libero.  Non è bello questo?  Non è nobile?  E' molto
    nobile,  vero?   -  chiedeva Natascia,  così seria e commossa  da  far
    capire che ciò che stava dicendo se lo era certamente già detto prima,
    piangendo.
    Rostòv rimase pensieroso.
    - Io non ritiro mai la parola data  -  disse.   -  E poi, Sònja è così
    deliziosa che...  Chi può essere così pazzo da rinunziare alla propria
    felicità?
    -  No,  no!   -  esclamò Natascia.   -  Di questo abbiamo già parlato;
    sapevamo che avresti detto così. Ma la cosa non va, perché se tu parli
    così, se ti consideri come vincolato da una promessa, lei ha l'aria di
    averlo fatto  apposta  per  ricordartela;  ne  risulta,  insomma,  che
    nonostante  tutto  tu  la  sposerai  per  forza,  e  questo  non  deve
    assolutamente accadere.
    Rostòv capiva che tutto ciò era stato discusso tra le due ragazze. Sin
    dalla sera prima,  Sònja lo aveva colpito per la sua bellezza;  quella
    mattina, rivedendola di sfuggita, gli era apparsa ancora più graziosa:
    era  davvero  un'affascinante  fanciulla  di  sedici anni,  innamorata
    appassionatamente di lui (di questo non aveva alcun dubbio).
    "Perché dunque non ricambiare il suo amore e non  sposarla?",  pensava
    Rostòv, ma... al momento c'erano ancora tante altre gioie da provare e
    tante altre occasioni!  "Sì, hanno detto bene", pensò, "bisogna che io
    rimanga libero".
    - Benissimo  -  disse;   -  ne riparleremo più tardi.  Ah,  come  sono
    contento di vederti!  -  aggiunse.  -  E tu, dimmi, non hai tradito il
    tuo Borìs?
    - Che sciocchezze!   -  gridò Natascia, ridendo.  -  Io non penso né a
    lui né a nessun altro, e non voglio saper nulla.
    - Davvero? Ma allora, che farai?
    - Io?   -  disse Natascia,  mentre un radioso sorriso le illuminava il
    volto.  -  Hai visto Duport (2)?
    - No...
    - Non hai visto Duport,  il famoso ballerino?  Be'...  allora non puoi
    capire. Ecco che cosa voglio fare...   -.  E la fanciulla piegando con
    leggiadria  le braccia,  sollevò un pochino la gonna come si fa quando
    si balla, fece alcuni passi di corsa, si voltò,  disegnò una piroetta,
    batté un piede contro l'altro e ritta sulla punta dei piedi, avanzò di
    qualche passo.
    -  Vedi  come  so  stare?    -   disse,  ma non riuscì a mantenersi in
    equilibrio.   -  Ecco quello che farò.  Non mi sposerò mai e diventerò
    ballerina. Ma tu non dirlo a nessuno, eh?
    Rostòv proruppe in una risata tanto sonora che Denissov udendola dalla
    sua  camera,  provò  un  senso  di  invidia:  e  Natascia,  incapace a
    trattenersi, si mise a ridere con il fratello.
    - Che ne dici?
    - Bene... Ma, allora, non vuoi sposare Borìs ?
    Natascia arrossì.
    - Non voglio sposare nessuno. Glielo dirò io stessa quando lo vedrò.
    - Ah, è così?  -  esclamò Rostòv.
    - Ma tutto questo non significa nulla  -  proseguiva Natascia.  Dimmi,
    è simpatico il tuo Denissov?
    - Simpaticissimo.
    - Be', ora ti lascio. Vestiti... Ma non è terribile quel tuo Denissov?
    - Perché terribile?   -  chiese Nikolàj.  -  Tutt'altro: Vaska è molto
    buono.
    - Lo chiami Vaska? Curioso! (3). Dunque è davvero simpatico?
    - Sì, molto.
    - Allora spicciati e vieni a  prendere  il  tè.  Lo  prenderemo  tutti
    insieme.
    Natascia  si  sollevò  ancora  una  volta sulla punta dei piedi e uscì
    dalla stanza come le ballerine escono dalla scena,  ma sorridendo come
    sorridono soltanto le fanciulle felici di quindici anni.
    Incontrando  poco dopo Sònja nel salotto,  Rostòv arrossì.  Non sapeva
    come comportarsi con lei.  La  sera  avanti,  nella  gioia  del  primo
    incontro,  si erano baciati, ma ora sentiva di non poter fare nulla di
    simile;  sentiva che sua madre,  le sue sorelle e tutti gli  altri  lo
    osservavano, lo guardavano con aria interrogativa, in attesa di vedere
    come  si  sarebbe  comportato con la fanciulla.  Le baciò la mano e le
    disse: ""Voi", Sònja...". Ma i loro occhi incontrandosi si diedero del
    "tu" e si baciarono teneramente.  Con lo sguardo Sònja  gli  domandava
    perdono  di  aver  osato  ricordargli,  per mezzo di Natascia,  la sua
    promessa,  e lo ringraziava  del  suo  amore.  Lui,  con  il  proprio,
    ringraziava  lei  per  l'offerta della libertà e le diceva che,  in un
    modo o nell'altro, non avrebbe cessato di amarla perché non amarla gli
    era impossibile.
    - Come è buffo,  però,  che Sònja e Nikòlinka si diano del "voi"  come
    due  estranei!    -    osservò  Vera,  approfittando  di un momento di
    silenzio. L'osservazione di Vera, giusta come, del resto, erano sempre
    giuste tutte le sue osservazioni, produsse un imbarazzo generale,  non
    soltanto in Sònja, Nikolàj e Natascia, ma anche nella vecchia contessa
    che, temendo che l'amore di suo figlio per la fanciulla potesse fargli
    perdere  un brillante partito,  arrossì come una ragazzina.  Denissov,
    con gran meraviglia di Rostòv,  comparve in salotto con  una  uniforme
    nuova,  impomatato  e profumato,  elegante come era solito esserlo nei
    giorni di battaglia,  e fu  così  cortese  con  le  signore  e  con  i
    cavalieri, come Rostòv non si sarebbe mai aspettato.


    CAPITOLO 2.

    Al  suo  rientro dall'esercito a Mosca,  Nikolàj Rostòv fu accolto dai
    suoi di casa come il migliore dei figli,  come un eroe e come il tanto
    amato   Nikòluska;   dai   parenti  come  un  simpatico  e  rispettoso
    giovanotto; dai conoscenti come un bel tenente degli ussari,  un abile
    ballerino e uno dei migliori partiti di Mosca.
    I  Rostòv,  a Mosca,  conoscevano tutti.  Quell'anno il vecchio Rostòv
    disponeva di  molto  denaro  perché  sulle  sue  proprietà  era  stata
    rinnovata  l'ipoteca  e perciò Nikòlinka,  che possedeva un cavallo da
    corsa suo personale, un paio di calzoni all'ultima moda, quali a Mosca
    nessuno aveva ancora veduto, e di stivali anch'essi modernissimi dalla
    punta aguzza  e  ornati  di  piccoli  speroni  d'argento,  trascorreva
    allegramente  il  suo  tempo.  Rostòv,  tornato  a  casa dopo un certo
    periodo di assenza,  provava un senso piacevolissimo  nel  riabituarsi
    alle  consuetudini  della sua vita di una volta.  Gli pareva di essere
    cresciuto e di essersi fatto più uomo.  La disperazione per non essere
    stato promosso all'esame di religione,  i denari chiesti in prestito a
    Gavrilo per una corsa in vettura,  i baci furtivi dati  a  Sònja,  gli
    ritornavano  alla  mente  come  ragazzate  dalle  quali ora si sentiva
    infinitamente lontano.  Adesso egli era un tenente  degli  ussari  che
    portava un "dolman" ricamato in argento e con la croce militare di San
    Giorgio, allenava il suo trottatore alle corse insieme con alcuni noti
    e  anziani  appassionati  di cavalli.  Conosceva una signora nella cui
    casa, sul "Boulevard", trascorreva spesso le serate;  aveva diretto la
    "mazurca"  a una festa da ballo degli Archarov,  parlava di guerra con
    il feldmaresciallo Kamenskij,  frequentava il circolo inglese  e  dava
    del  "tu"  a  un  colonnello  quarantenne al quale lo aveva presentato
    Denissov.
    A Mosca,  la sua grande passione  per  l'imperatore  si  era  alquanto
    affievolita  giacché  non  aveva  più  avuto occasione di vederlo,  ma
    parlava spesso di lui e della propria  devozione  nei  suoi  riguardi,
    lasciando  capire  che  non  diceva tutto,  che nel suo affetto per il
    sovrano c'era qualcosa che non tutti  potevano  capire;  e  con  tutta
    l'anima  condivideva  l'adorazione  generale che in quel periodo Mosca
    professava per l'imperatore Aleksàndr Pàvlovic',  al quale  era  stato
    dato il soprannome di "angelo terrestre".
    Durante  quel  suo  breve soggiorno a Mosca,  in attesa del ritorno al
    reggimento,  Rostòv non si riavvicinò a Sònja,  anzi se ne  allontanò.
    Ella era molto bella,  affascinante e, lo si capiva, appassionatamente
    innamorata di lui;  ma egli attraversava quel periodo della giovinezza
    in cui si ha l'impressione di aver molto da fare,  che manchi il tempo
    per occuparsi di queste cose,  e un giovane teme di legarsi e  ama  la
    libertà  che  gli  è  necessaria  per dedicarsi a un'infinità di altre
    cose.
    Quando, durante la sua breve permanenza a Mosca, egli pensava a Sònja,
    diceva a se stesso: "Eh, come lei ce ne saranno moltissime altre,  qui
    o  là,  che  ancora  non  conosco.  Avrò  tempo,  quando lo vorrò,  di
    occuparmi anche dell'amore, ma per ora non posso".  Inoltre gli pareva
    umiliante  per  lui,  ormai  uomo,  stare  in  compagnia  delle donne.
    Frequentava i balli,  andava in visita,  ma sempre fingendo  di  farlo
    controvoglia.  Le corse, il circolo inglese, le baldorie con Denissov,
    le visite laggiù erano un'altra faccenda: quelle,  secondo lui,  erano
    cose che si addicevano a un giovane ussaro.
    Nei  primi  giorni di marzo il vecchio conte Iljà Andréevic' Rostòv si
    diede da fare per organizzare un  banchetto  al  circolo  inglese,  in
    onore del principe Bagratiòn.
    Il conte,  in veste da camera,  andava su e giù per la sala impartendo
    all'economo del circolo e al famoso Feoktisti,  capo cuoco del circolo
    stesso,  ordini riguardanti gli asparagi,  i cetrioli,  le fragole, la
    carne di vitello e il pesce per il banchetto.  Il conte era  membro  e
    direttore  del circolo sin dal giorno della fondazione e l'incarico di
    organizzare il gran banchetto per Bagratiòn era stato affidato a  lui,
    giacché  non  era  facile  trovare  chi  sapesse occuparsene con tanta
    signorilità e, soprattutto, giacché non era facile trovare chi potesse
    e volesse,  in caso di necessità,  metter mano alla propria borsa.  Il
    cuoco  e  l'economo  del  circolo  ascoltavano  con  aria  allegra  le
    disposizioni del conte perché sapevano che con nessuno, meglio che con
    lui,  potevano trar profitto  da  un  banchetto  che  sarebbe  costato
    parecchie migliaia di rubli.
    -  Bada,  eh,  di  mettere  delle crestine nella zuppa di tartaruga...
    delle crestine, hai capito?
    - Allora, tre portate fredde?  -  domandò il cuoco.
    Il conte si fece pensieroso.
    - Meno di tre è impossibile...  La "mayonnaise",  uno   -    cominciò,
    alzando un dito.
    - Sicché, ordinate di prendere sterleti grandi?  -  chiese l'economo.
    - Che ci vuoi fare?  Prendili lo stesso,  anche se il prezzo non cala.
    Santo Iddio,  stavo per dimenticarmene!  Ci vuole un'altra "entrée" in
    tavola.  Oh,  padri miei!   -  E si afferrò il capo con le mani.  -  E
    chi mi porterà i fiori?  Mìtenka!  Eh,  Mìtenka    -    disse  rivolto
    all'amministratore  che  entrava  alla sua chiamata.Fa' una corsa alla
    nostra villa fuori Mosca e  di'  al  giardiniere  Maksìm  di  mandarmi
    qualche pianta della serra e raccomandagli di avvolgerle nel feltro. E
    che per venerdì siano qui duecento vasi.
    Dopo aver dato alcune altre disposizioni,  stava per andare a riposare
    un po' con la sua contessuccia, quando si ricordò di dover dire ancora
    altre cose  necessarie  e  tornò  indietro,  richiamando  il  cuoco  e
    l'economo, ai quali ricominciò a impartire ordini.
    Al di là dell'uscio si udì un leggero passo maschile,  accompagnato da
    un tintinnio di speroni, ed entrò il giovane conte,  bello,  colorito,
    con  i  baffetti  neri  e  l'aspetto riposato della tranquilla vita di
    Mosca.
    - Ah, mio caro, sei tu?  Mi gira la testa  -  disse il vecchio,  quasi
    vergognandosi  e  sorridendo  al figlio.   -  Se tu mi dessi un po' di
    aiuto! Ci vorrebbero anche dei cantori. Quanto all'orchestra, ce l'ho;
    dovrò far venire anche gli zingari?  A voialtri militari  queste  cose
    piacciono.
    - Ah,  papà!  Io credo che il principe Bagratiòn,  quando si preparava
    alla battaglia di Schöngraben,  fosse meno affaccendato di  quanto  lo
    siate voi adesso  -  osservò il giovane, sorridendo.
    Il vecchio conte finse di offendersi.
    - Fai presto tu, a parlare! Vorrei metterti alla prova.
    E  si  rivolse  al  cuoco del circolo che,  con un viso intelligente e
    rispettoso, guardava con affetto padre e figlio.
    - Come sono i giovani di oggi, eh, Feoktisti!   -  disse il conte.   -
    Ci prendono allegramente in giro, noi vecchi...
    - Che volete,  eccellenza! Ai giovani piace mangiar bene, ma occuparsi
    dei preparativi e del servizio non è affar loro...
    - E' proprio così!   -  esclamò il  vecchio.  Poi,  afferrato  per  le
    braccia  il figlio,  disse allegramente:  -  Giacché sei capitato qui,
    prendi subito la slitta a due cavalli,  va' da Bezuchov e digli che il
    conte  Iljà  Andréevic'  ricorre  a  lui  per avere fragole e ananassi
    freschi.  Non è possibile trovarli da altri.  Se il conte non fosse in
    casa,  passa  a  dirlo alle principessine e poi di là va' a Razguliàj.
    Ipatka,  il cocchiere,  sa dov'è.  Laggiù troverai lo zingaro Iljuska,
    quello  che ballava in casa del conte Orlòv,  in cosacchino bianco: te
    lo ricordi? Portalo qui da me.
    - Devo portarlo con le zingare?  -  chiese Nikolàj ridendo.
    - Ma va', va'...
    In  quel  momento  entrò  nella  stanza,  a  passo  silenzioso  e  con
    quell'aria  affaccendata e di cristiana rassegnazione di sempre,  Anna
    Michàjlovna.  Sebbene ogni giorno ella trovasse il conte in  veste  da
    camera,  tuttavia ogni volta il vecchio si confondeva e chiedeva scusa
    per il suo abbigliamento.
    -  Non  importa,  caro,  figuratevi!    -    rispose  ella,  chiudendo
    modestamente gli occhi.   -  Andrò io da Bezuchov. Il giovane Bezuchov
    è appunto tornato e ora troveremo quanto ci occorre nelle  sue  serre.
    Inoltre  ho bisogno di vederlo.  Mi ha mandato una lettera da parte di
    Borìs il quale, grazie a Dio, si trova ora nello stato maggiore.
    Il conte fu  felicissimo  che  Anna  Michàjlovna  cooperasse  ai  suoi
    preparativi e ordinò di fare attaccare per lei la carrozza piccola.
    - Direte a Bezuchov che venga al banchetto. Lo iscriverò. C'è anche la
    moglie?  -  chiese.
    Anna  Michàjlovna  alzò  gli  occhi al cielo e il suo viso espresse un
    profondo dolore.
    - Ah, amico mio, egli è molto infelice!  -  rispose.  -  Se è vero ciò
    che si sente dire, è orribile! Pensare che ci eravamo tanto rallegrati
    per la sua fortuna!  E ha un'anima così  nobile,  così  angelica  quel
    giovane  Bezuchov!  Sì,  lo compiango con tutto il cuore e farò quanto
    sta in me per confortarlo.
    - Ma che cosa gli è successo, insomma?  -  domandarono il vecchio e il
    giovane Rostòv.
    Anna Michàjlovna trasse un profondo sospiro.
    -  Dòlochov,  il  figlio  di  Màrija  Ivànovna,   dicono  che  l'abbia
    gravemente compromessa  -  sussurrò con aria di mistero.  -  Pierre lo
    ha protetto,  lo ha invitato a casa sua a Pietroburgo ed ecco... Lei è
    venuta  qui  e  quello  scavezzacollo  l'ha  seguita-  proseguì   Anna
    Michàjlovna,  desiderando  esprimere  la  sua simpatia per Pierre,  ma
    mostrando involontariamente,  con l'intonazione della voce  e  con  un
    mezzo  sorriso,  la sua indulgenza per lo "scavezzacollo" di Dòlochov.
    -  Si dice che Pierre sia molto abbattuto dal dolore!
    - Ditegli, comunque, che venga al circolo...  Si distrarrà.  Avremo un
    banchetto straordinario!
    Il giorno successivo, 3 marzo, alle due pomeridiane, duecentocinquanta
    membri  del  circolo inglese e cinquanta invitati aspettavano a pranzo
    l'ospite  prezioso,  l'eroe  della  campagna  austriaca:  il  principe
    Bagratiòn. Al primo momento, subito dopo la notizia della battaglia di
    Austerlitz,  tutta  Mosca  era  rimasta perplessa.  I Russi erano così
    abituati alle vittorie che,  apprendendo la notizia  della  sconfitta,
    alcuni semplicemente non ci credettero, altri cercarono la spiegazione
    di un così strano avvenimento in chi sa quali cause straordinarie.  Al
    circolo inglese,  dove si riunivano tutte le persone di gran nome  che
    avevano  informazioni  sicure  e  posizioni  importanti,  nel  mese di
    dicembre,  quando cominciarono a giungere le  prime  notizie,  non  si
    parlava  della  guerra  né  dell'ultima  battaglia,  come  se tutti si
    fossero messi d'accordo per tacere.  I personaggi che davano  il  tono
    alle  conversazioni,  quali  il  conte  Rastopcìn (4),  il conte Jurij
    Vladimìrovic' Dolgorukov (5), Valuev (6), il conte Markòv, il principe
    Vjazemskij (7) non si facevano vedere  al  circolo,  ma  si  riunivano
    nelle  loro  case,  nei loro circoli intimi e i moscoviti che dicevano
    solo quello che avevano sentito da altri (tra cui anche il conte  Iljà
    Andréevic'  Rostòv)  restarono  per  breve  tempo senza guida e quindi
    senza  opinioni  sull'andamento  della  guerra  e  incapaci  di   dare
    apprezzamenti.  I  moscoviti sentivano che c'era nell'aria qualcosa di
    spiacevole,  che era difficile discutere su quelle cattive  notizie  e
    che era preferibile tacere.  Ma,  dopo un certo tempo,  come i giurati
    che escono dalla camera di consiglio,  riapparvero i pezzi  grossi,  i
    quali  vennero  a  dire  al  circolo  le  loro opinioni e allora tutti
    cominciarono a parlare forte e  chiaro.  Si  scoprirono  le  cause  di
    quell'incredibile,  inaudito avvenimento: la sconfitta dei Russi. Ogni
    cosa divenne perfettamente chiara e  in  tutti  gli  angoli  di  Mosca
    furono ripetute le medesime cose.  Ecco quali erano state la cause del
    disastro: il tradimento degli Austriaci, la cattiva organizzazione del
    vettovagliamento   dell'esercito,    il   tradimento    del    polacco
    Przebyscevskij  e  del  francese  Langeron,  l'incapacità di Kutuzòv e
    (questo lo si diceva a bassa  voce)  la  giovinezza  e  l'inesperienza
    dell'imperatore  che  si  era  fidato di uomini infidi e assolutamente
    inetti. Ma le truppe,  le truppe russe  -  lo dicevano tutti  -  erano
    state  meravigliose  e  avevano  compiuto  veri  prodigi di valore.  I
    soldati, gli ufficiali, i generali, erano tutti eroi.  Ma l'eroe degli
    eroi  era stato il principe Bagratiòn,  a gloria del quale si citavano
    il combattimento di Schöngraben e la ritirata di  Austerlitz,  durante
    la  quale  lui  solo  aveva saputo mantenere in ordine perfetto la sua
    colonna,  respingendo  per  l'intera  giornata  un  nemico  due  volte
    superiore.  Al  fatto  che  Mosca considerasse Bagratiòn un eroe aveva
    contribuito anche un altro motivo: egli a Mosca era un estraneo, senza
    relazioni né amici.  Nella sua persona si onorava  il  soldato  russo,
    semplice,  coraggioso,  il  cui  nome  era  ancora  legato a quello di
    Suvorov dai ricordi della campagna d'Italia.  Inoltre,  nel  rendergli
    simili  onori,  si  esprimevano  nel modo migliore il malcontento e il
    biasimo di cui era oggetto Kutuzòv.
    -  Se  Bagratiòn  non  esistesse,   "il   faudrait   l'inventer"   [8.
    Bisognerebbe inventarlo]  -  diceva lo spiritoso Scinscin,  parodiando
    le parole di Voltaire (9).  Tutti evitavano  di  parlare  di  Kutuzòv,
    alcuni  persino  lo  insultavano sottovoce,  chiamandolo banderuola di
    Corte e vecchio satiro.
    Tutta Mosca ripeteva  le  parole  del  principe  Dolgorukov:  "Va'  al
    mulino,  va'  al  mulino  e  ne  esci infarinato",  consolandosi della
    sconfitta con il  ricordo  delle  vittorie  riportate  nel  passato  e
    ripetendo  le parole di Rastopcìn,  secondo cui per spingere i soldati
    francesi a combattere bisogna eccitarli  con  frasi  altisonanti;  con
    quelli  tedeschi occorreva ragionare a rigor di logica,  convincendoli
    che è più pericoloso fuggire che andare avanti; ma che i soldati russi
    andavano soltanto trattenuti,  pregandoli di frenare il loro  slancio!
    Ogni  giorno  si  narravano nuovi episodi di grande valore offerti dai
    nostri soldati e dai nostri  ufficiali  ad  Austerlitz.  Questo  aveva
    salvato una bandiera, quello aveva ucciso cinque francesi, quell'altro
    ancora aveva caricato, da solo, cinque cannoni. Chi non conosceva Berg
    diceva che,  ferito alla mano destra,  aveva impugnato la spada con la
    sinistra e aveva continuato  ad  avanzare.  Non  si  diceva  nulla  di
    Bolkonskij.  Soltanto  i  suoi amici si dolevano che fosse morto tanto
    giovane,  lasciando una  moglie  incinta  e  un  padre  stravagante  e
    bisbetico.


    CAPITOLO 3.

    Il  3 marzo,  da tutte le sale del circolo inglese si levava un brusio
    incessante di voci,  come di api che sciamino in primavera;  i soci  e
    gli invitati andavano avanti e indietro,  si sedevano, si alzavano, si
    riunivano a gruppi e si disperdevano, chi in uniforme,  chi in marsina
    e  chi addirittura in parrucca e giubba lunga.  I servitori in livrea,
    parrucca e scarpini,  stavano ritti accanto agli  usci  e  con  vigile
    attenzione  cercavano  di  cogliere  ogni  movimento  dei soci e degli
    invitati,  pronti a offrire i loro servizi.  Quasi  tutti  i  presenti
    erano  persone  rispettabili,   attempate,   con  le  facce  larghe  e
    soddisfatte, le mani grassocce, decisi nei gesti e nella voce.  Questo
    tipo di soci e di invitati sedeva nei soliti posti, e si riunivano nei
    ben  noti,  consueti  gruppetti.  La  minoranza  era  costituita dagli
    invitati per l'occasione,  persone generalmente giovani,  tra le quali
    si  notavano Denissov,  Rostòv e Dòlochov,  quest'ultimo riammesso tra
    gli ufficiali del  reggimento  Semënovskij.  Sui  volti  dei  giovani,
    specialmente  dei  giovani  militari,  si  leggeva  un'espressione  di
    rispetto un po' disdegnoso verso i vecchi,  ai quali  essi  sembravano
    dire: "Sì, siamo pronti a rispettarvi e a stimarvi, ma non dimenticate
    che noi rappresentiamo l'avvenire!".
    Era  presente  anche  Nesvitzkij,  in  qualità  di  membro anziano del
    circolo.  Pierre che,  per obbedire alla volontà della moglie,  si era
    lasciato crescere i capelli,  non portava più gli occhiali e,  vestito
    all'ultima moda, passeggiava su e giù per le sale con un'aria annoiata
    e triste.  Come ovunque,  anche lì era circondato dalle solite persone
    che lo riverivano e lo adulavano per la sua ricchezza,  verso le quali
    egli usava il contegno sprezzante e distaccato di  chi  è  abituato  a
    dominare.
    Per  l'età avrebbe dovuto far parte del gruppo dei giovani,  ma la sua
    ricchezza e la sua posizione lo portavano tra i membri più  anziani  e
    più  autorevoli del circolo,  e perciò passava da un gruppo all'altro.
    Alcuni anziani, tra i maggiormente rappresentativi,  stavano al centro
    di  parecchi gruppi,  ai quali si avvicinavano con deferenza anche gli
    invitati meno  noti,  per  ascoltare  le  parole  di  quei  personaggi
    illustri.  I  gruppi  più  numerosi  si  stringevano  attorno al conte
    Rastopcìn,  a Valuev e a Naryskin (10).  Rastopcìn raccontava  come  i
    Russi,  travolti  dagli Austriaci in fuga,  avevano dovuto farsi largo
    tra  i  fuggiaschi  servendosi  delle  baionette.   Valuev  diceva  in
    confidenza  che Uvarov era stato mandato da Pietroburgo con l'incarico
    di  raccogliere  informazioni  circa  l'opinione  dei   moscoviti   su
    Austerlitz.
    In  un  terzo  gruppo,  Naryskin parlava della seduta del Consiglio di
    guerra austriaco, nella quale Suvorov aveva strillato come un gallo in
    risposta alle sciocchezze dei generali austriaci.  Scinscin,  che  era
    tra  gli  ascoltatori,   per  fare  lo  spiritoso  disse  che  Kutuzòv
    evidentemente non aveva saputo imparare da Suvorov  la  non  difficile
    arte  di cantare come i galli;  ma i vecchi lo guardavano severamente,
    facendogli  capire  come  in  quel  luogo  e  in  quel  giorno   fosse
    sconveniente parlare così di Kutuzòv.
    Il conte Iljà Andréevic' Rostòv,  tutto affaccendato,  si spostava dal
    salotto alla sala da pranzo,  camminando in fretta con i suoi  morbidi
    stivaletti da sera, salutando rapidamente e nello stesso identico modo
    le persone ragguardevoli e quelle meno note, che egli conosceva tutte,
    e cercando di tanto in tanto con lo sguardo il suo elegante e valoroso
    figliuolo,  lo  fissava a lungo con gioia e gli faceva una strizzatina
    d'occhi. Il giovane Rostòv stava in piedi nel vano di una finestra con
    Dòlochov che aveva conosciuto da poco e la  cui  relazione  gli  stava
    molto  a cuore.  Il vecchio conte si avvicinò ai due giovani e strinse
    la mano a Dòlochov.
    - Ti prego di venirci qualche volta a trovare,  ora  che  conosci  mio
    figlio...  So che laggiù vi siete entrambi comportati eroicamente. Ah,
    Vassilij Ignatyc'... salve, vecchio mio!  -  disse poi volgendosi a un
    vecchietto che passava in  quel  momento;  ma  non  fece  in  tempo  a
    completare  il suo saluto che si notò un'agitazione generale mentre un
    domestico, entrato di corsa. annunziava con aria spaventata:
    - E' arrivato!
    I campanelli trillarono.  Gli anziani  del  circolo  si  precipitarono
    verso la prima sala mentre gli ospiti,  sparsi nelle varie sale,  come
    grani d'avena ammucchiati  dalle  pale,  si  affollarono  in  un  solo
    gruppo, fermandosi presso la porta del grande salone.
    Sulla soglia dell'anticamera apparve Bagratiòn, senza cappello e senza
    sciabola  che  egli,  secondo  l'usanza  del  circolo  aveva  lasciato
    all'ingresso,  dal portiere.  Non portava il berretto di  pelo  né  lo
    scudiscio   a  tracolla,   come  Rostòv  l'aveva  veduto  nella  notte
    precedente la battaglia di Austerlitz,  ma indossava una divisa nuova,
    attillata,  con  decorazioni  russe  e straniere e con la croce di San
    Giorgio al lato sinistro.  Si capiva che prima del pranzo si era fatto
    tagliare  i capelli e le basette,  il che gli mutava la fisionomia non
    certo con vantaggio.  Il suo volto aveva una espressione  ingenuamente
    festosa  che,  dati i suoi lineamenti,  molto virili ed energici,  gli
    conferiva un non so che di leggermente comico.  Beklesov (11) e  Fëdor
    Petrovic'  Uvarov,  che  l'accompagnavano,  si  fermarono  sull'uscio,
    desiderando che egli,  come ospite d'onore,  li precedesse.  Bagratiòn
    rimase  imbarazzato non volendo cedere alla loro cortesia: si fermò un
    momento sulla soglia ma poi finì con il passar loro avanti.  Camminava
    timido  e  impacciato  sul  pavimento di legno,  senza sapere che fare
    delle proprie mani; gli era più facile e più abituale muoversi sotto i
    proiettili nemici,  per un campo arato,  come era stato a  Schöngraben
    quando  marciava alla testa del reggimento di Kursk.  I membri anziani
    del  circolo  lo  accolsero  accanto  al  primo  uscio,  esprimendogli
    brevemente  la  loro  gioia di avere un ospite tanto gradito e,  senza
    attendere  la  sua  risposta  e  quasi  impadronendosi  di   lui,   lo
    circondarono  e  lo  guidarono  nel  salone dove era quasi impossibile
    entrare tanta era la folla di soci e  di  invitati  che  si  accalcava
    sugli usci,  si piegava, si rizzava sulle punte dei piedi, sporgeva la
    testa sulle spalle dei vicini per vedere,  come se si trattasse di una
    bestia  rara,  il  famoso  Bagratiòn.  Il  conte Iljà Andréevic',  più
    energico di tutti, ridendo e ripetendo: "Fa' passare, "mon cher",  fa'
    passare", e facendosi largo tra la folla, riuscì a condurre gli ospiti
    nel  salone  e a farli sedere sul divano centrale.  I pezzi grossi,  i
    membri più ragguardevoli del circolo attorniarono i nuovi  venuti.  Il
    conte Iljà Andréevic', facendosi di nuovo largo tra la folla, uscì dal
    salone  e dopo un minuto riapparve in compagnia di un altro importante
    personaggio il quale portava un gran vassoio d'argento che presentò al
    principe Bagratiòn.  Su quel vassoio era posato un  foglio  con  versi
    composti  e  stampati  in onore dell'eroe.  Bagratiòn,  alla vista del
    vassoio,  si guardò attorno sgomento,  quasi cercando aiuto.  Ma negli
    occhi  di  tutti  egli  lesse  il  desiderio imperioso che egli non si
    sottraesse a quell'onore.  Sentendosi in loro potere,  Bagratiòn,  con
    gesto deciso,  prese il vassoio con ambo le mani volgendo al conte che
    glielo porgeva uno sguardo irritato e carico di rimprovero.  Qualcuno,
    sollecito e premuroso, gli tolse il vassoio dalle mani (giacché pareva
    disposto a restare così sino a sera e a portarselo persino a tavola) e
    attirò sui versi l'attenzione di lui.
    "Pazienza,  li leggerò",  parve dire Bagratiòn e,  fissando sul foglio
    gli  occhi  stanchi,  cominciò  a  leggere  con  espressione  seria  e
    concentrata.  Ma  l'autore,  preso il foglio,  continuò a leggerli lui
    stesso. Il principe Bagratiòn chinò il capo e ascoltò (12):

    Sii tu gloria al secol d'Alessandro
    Mantieni sul trono il nostro Tito.
    Sii duce temuto e uomo buono
    Sii Rifeo in patria e Cesare in battaglia.
    E felice chiamiam Napoleone
    Che, conosciuto all'opra Bagratiòn,
    Gli Alcidi russi non oserà inquietare.

    La lettura non era ancora terminata quando il maggiordomo  dalla  voce
    tonante annunziò:
    - Il pranzo è servito.
    Le  porte della sala del banchetto si aprirono ed echeggiarono le note
    della polacca (13): "Risuoni il grido di  vittoria,  si  rallegrino  i
    Russi   valorosi!",   mentre  il  conte  Iljà  Andréevic',   lanciando
    un'occhiata irritata al poeta che continuava a leggere i propri versi,
    s'inchinò davanti a Bagratiòn.  Tutti si alzarono,  coscienti  che  il
    pranzo aveva più importanza dei versi e Bagratiòn, precedendo di nuovo
    la  folla,  si  diresse  verso  la tavola.  Al posto d'onore,  tra due
    Alessandri  -  Beklesov  e  Naryskin    -    cosa  che  aveva  il  suo
    significato  in  relazione  al  nome dell'imperatore,  fu fatto sedere
    Bagratiòn:  trecento  persone  presero  posto  secondo  il   grado   e
    l'importanza di ciascuna,  più o meno vicino all'ospite, con la stessa
    naturalezza con cui l'acqua si riversa più fonda là dove il terreno  è
    più basso.
    Prima  che il pranzo avesse inizio,  il conte Iljà Andréevic' presentò
    suo figlio al principe.  Bagratiòn,  che  lo  riconobbe,  gli  rivolse
    alcune parole, impacciate e sconnesse come, del resto, lo furono tutte
    le  altre  che  pronunziò  quel  giorno.  Il  conte  Rostòv,  felice e
    orgoglioso,  volgeva lo  sguardo  sui  presenti,  mentre  il  principe
    conversava con suo figlio.
    Nikolàj  Rostòv  con Denissov e il suo nuovo conoscente Dòlochov prese
    posto quasi al centro della tavola.  Di fronte a  loro  sedeva  Pierre
    accanto al principe Nesvitzkij. Il conte Iljà Andréevic' era di fronte
    a  Bagratiòn  insieme  con  gli  altri  membri  anziani del circolo e,
    personificando l'ospitalità moscovita,  si occupava di far servire  il
    principe.
    Il gran da fare che si era dato non era stato inutile. Le vivande, sia
    quelle  di  magro sia quelle di grasso,  erano squisite: tuttavia egli
    non poté sentirsi pienamente tranquillo sino a che il pranzo non  ebbe
    fine.  Ammiccava al credenziere, dava ordini sottovoce ai camerieri e,
    non  senza  una  certa  preoccupazione,  attendeva  l'arrivo  di  ogni
    portata.  Tutto  era  perfetto.  Alla seconda pietanza,  mentre veniva
    servito un enorme storione (alla cui vista Iljà Andréevic' arrossì  di
    gioia e di modestia), i domestici cominciarono a far saltare i tappi e
    a  versare  lo  "champagne".  Dopo  il  pesce,  che aveva prodotto una
    notevole impressione, il conte Iljà Andréevic' scambiò un'occhiata con
    gli altri anziani  del  circolo  e  organizzatori  del  banchetto.  "I
    brindisi saranno molti,  è ora di cominciare!",  sussurrò e,  presa in
    mano una coppa,  si alzò.  Tutti tacquero  in  attesa  di  quello  che
    avrebbe detto.
    - Alla salute dell'imperatore!  -  gridò, mentre i suoi occhi buoni si
    empivano  di  lacrime  di  gioia  e  di  entusiasmo.  In  quel momento
    l'orchestra intonò: "Risuoni il grido di vittoria".  Tutti si alzarono
    in  piedi  e  gridarono:  "Urrà!".  Gridò  urrà anche Bagratiòn con la
    stessa voce con cui  aveva  incitato  i  suoi  soldati  sul  campo  di
    Schöngraben.  Al  di  sopra  di  quelle  trecento  voci si levò quella
    entusiasta del giovane Rostòv; poco mancava che piangesse.
    - Alla salute di sua maestà l'imperatore  -  gridava.  -  Urrà!e, dopo
    aver vuotato d'un fiato la coppa,  la scagliò a terra.  Il suo esempio
    fu  seguito da molti,  mentre continuarono ad echeggiare a lungo grida
    fragorose. Quando le voci tacquero,  i domestici raccolsero i frantumi
    dei  bicchieri  e tutti i commensali,  rimessisi a sedere,  commossi e
    sorridenti ripresero a conversare. Il conte Iljà Andréevic' si alzò di
    nuovo, diede uno sguardo a un foglietto posato accanto al suo piatto e
    brindò all'eroe  dell'ultima  campagna,  al  principe  Pëtr  Ivànovic'
    Bagratiòn,  e  ancora una volta i suoi occhi azzurri si inumidirono di
    lacrime.  "Urrà!",  risposero di nuovo i trecento commensali.  Allora,
    invece  della  musica,  si  alzarono  le  voci  del coro che intonò la
    cantata composta da Pavel Ivànovic' Kutuzòv (14):

    Per i Russi non esistono ostacoli.
    Il valore è garanzia di vittoria;
    Noi che abbiamo i Bagratiòn,
    Avrem tutti i nemici ai nostri piedi...

    Quando il coro tacque,  vennero fatti molti altri brindisi,  durante i
    quali il conte Iljà Andréevic' si commoveva sempre di più,  sempre più
    andavano in pezzi i bicchieri e sempre più forti si alzavano le  grida
    dei  commensali.  Si  bevve alla salute di Beklesov,  di Naryskin,  di
    Uvarov, di Dolgorukov,  di Apraksin,  di Valuev,  alla salute dei soci
    anziani e dei membri del circolo e infine,  in modo particolare,  alla
    salute dell'organizzatore del banchetto,  il conte Iljà Andréevic'.  A
    questo  punto il vecchio signore estrasse dalla tasca il fazzoletto e,
    copertosi il volto, pianse per davvero.


    CAPITOLO 4.

    Pierre sedeva di fronte  a  Dòlochov  e  a  Nikolàj  Rostòv.  Mangiava
    avidamente  e beveva molto,  come al solito.  Ma chi lo conosceva bene
    notava quel giorno che in lui era avvenuto un  grande  mutamento.  Per
    tutta  la  durata  del  pranzo non disse una parola e,  aggrottando le
    sopracciglia e socchiudendo gli occhi,  si  guardava  attorno  oppure,
    fissando  il  vuoto e con un'aria profondamente distratta,  si fregava
    con le dita la radice del naso.  Era triste e  cupo.  Pareva  che  non
    vedesse  e  non  udisse  nulla  di  quanto  gli avveniva attorno e che
    pensasse a qualcosa di penoso e di insoluto.
    La questione insoluta e tormentosa si riferiva alle allusioni sfuggite
    a Mosca alla principessina sull'intimità di Dòlochov con sua moglie  e
    a una lettera anonima ricevuta quella mattina stessa nella quale,  con
    il vile tono scherzoso di cui si serve chiunque scriva  lettere  senza
    firmarle,  gli si diceva che, nonostante gli occhiali, ci vedeva molto
    poco e che la relazione di  sua  moglie  con  Dòlochov  era  ormai  un
    segreto  solamente  per  lui.  Pierre non aveva assolutamente prestato
    fede né alle allusioni della principessina,  né alla lettera ma adesso
    gli  riusciva assai penoso vedere Dòlochov seduto davanti a lui.  Ogni
    volta che, per caso,  il suo sguardo incontrava gli occhi bellissimi e
    sfrontati  di  Dòlochov,  qualcosa  di  orribile  e  mostruoso  pareva
    sollevarglisi nell'anima e si affrettava a voltarsi da un'altra parte.
    Ricordando  involontariamente  tutto  il  passato  della  moglie  e  i
    rapporti  che aveva avuto con Dòlochov,  Pierre si rendeva chiaramente
    conto che ciò che era scritto nella lettera poteva essere la verità o,
    almeno, sembrare la verità,  se non si fosse trattato di "sua moglie".
    Ricordava,  suo malgrado,  come Dòlochov, rientrato nel suo grado dopo
    la  campagna,   fosse  tornato  a  Pietroburgo  e   venuto   da   lui.
    Approfittando  dei passati rapporti e delle comuni scapestrataggini di
    un tempo,  Dòlochov era sceso direttamente a casa  sua,  e  Pierre  lo
    aveva  ospitato  e  gli  aveva  dato  in  prestito del denaro.  Pierre
    ricordava che Elen, sorridendo,  aveva espresso la sua contrarietà per
    il  fatto  che Dòlochov abitasse in casa loro,  che Dòlochov gli aveva
    fatto cinicamente un elogio della bellezza della moglie e che sino  al
    giorno  della  partenza  per  Mosca non si era più allontanato da loro
    nemmeno per un momento.
    "Sì, è un bellissimo giovane", pensava Pierre,  "e io lo conosco bene.
    Sarebbe  per  lui una soddisfazione tutta particolare infangare il mio
    nome e rendermi ridicolo, proprio perché io mi sono dato tanto da fare
    per lui, l'ho protetto e l'ho aiutato.  Lo so,  capisco quale e quanto
    sapore  aggiungerebbe  tutto  questo al suo inganno,  se la cosa fosse
    vera. Sì, se la cosa fosse vera... ma io non ci credo, non posso e non
    ho il diritto di crederlo". Si ricordava dell'espressione che assumeva
    il viso di Dòlochov nei momenti in cui diventava crudele,  come quando
    aveva  legato il poliziotto all'orso e lo aveva gettato nell'acqua,  o
    quando,  senza alcuna ragione,  sfidava a duello  qualcuno,  o  quando
    uccideva   con   una   pistolettata  il  cavallo  di  un  postiglione.
    Quell'espressione ritornava spesso  sul  viso  del  giovane  ufficiale
    mentre guardava Pierre.  "Sì,  è uno spadaccino", pensava Pierre; "per
    lui uccidere un uomo non significa nulla;  deve credere che  tutti  lo
    temano,  e  questo gli procura senza dubbio piacere.  Certamente crede
    che anch'io lo tema. E,  in realtà,  è proprio così: ho paura di lui",
    si  diceva  Pierre e a questi pensieri si sentiva di nuovo quel non so
    che  di  terribile  e  di  mostruoso  salirgli  nell'anima.  Dòlochov,
    Denissov  e  Rostòv,  seduti  a  tavola dirimpetto a Pierre,  parevano
    allegrissimi. Rostòv chiacchierava gaiamente con i suoi due amici, uno
    dei quali era un valoroso ussaro e l'altro uno spadaccino  rinomato  e
    grande  scavezzacollo  che,  di  tanto in tanto,  lanciava uno sguardo
    ironico a Pierre il quale lì, a quella tavola, si faceva notare per la
    sua persona massiccia e per l'espressione assorta e distratta del  suo
    viso.
    Rostòv  considerava  Pierre con scarsa simpatia perché,  per un ussaro
    come lui,  egli non era altro che un ricchissimo borghese,  marito  di
    una donna bella,  sì, ma in complesso una donnetta da poco; in secondo
    luogo perché Pierre,  nello stato d'animo concentrato e  distratto  in
    cui si trovava,  non lo aveva riconosciuto e non aveva risposto al suo
    saluto.
    Quando  si  cominciarono  i  brindisi  alla  salute   dell'imperatore,
    Bezuchov,  assorto  nei  suoi pensieri,  non si era alzato e non aveva
    preso in mano il bicchiere.
    - E voi?   -  gli gridò Rostòv,  lanciandogli  uno  sguardo  pieno  di
    entusiasmo e insieme,  di collera.   -  Non udite? Si beve alla salute
    dell'imperatore!
    Pierre sospirò e si alzò docilmente;  vuotò la sua coppa e,  dopo aver
    atteso che tutti si rimettessero a sedere,  si rivolse a Rostòv con il
    suo buon sorriso:
    - Non vi avevo nemmeno riconosciuto  -  disse. Ma Rostòv pensava a ben
    altro, tutto teso a gridare: "Urrà!".
    - Perché non rinnovi la conoscenza?  -  chiese Dòlochov a Rostòv.
    - Non mi interessa: è un imbecille!  -  rispose Rostòv.
    - Bisogna essere amabili con i mariti delle belle donne...  -  osservò
    Dòlochov.
    Pierre non udiva ciò che i due dicevano,  ma capiva che  parlavano  di
    lui: arrossì e voltò il viso dall'altra parte.
    -  Suvvia,  ora  beviamo  alla  salute delle belle donne!   -  esclamò
    Dòlochov e con aria seria,  ma con un sorriso agli angoli della bocca,
    si volse a Pierre con la coppa in mano.
    -  Alla  salute  delle  belle  donne,  Petruscia,  e  dei loro amanti!
    esclamò.
    Pierre vuotò la sua coppa senza alzare lo sguardo su Dòlochov e  senza
    rispondergli.  Il  servitore  che distribuiva la cantata di Kutuzòv ne
    pose una copia davanti a  Pierre,  considerato  uno  degli  ospiti  di
    maggior  riguardo.  Egli  tese  la  mano  per  prendere il foglio,  ma
    Dòlochov, piegatosi in avanti, lo afferrò e cominciò a leggere. Pierre
    gettò uno sguardo su Dòlochov,  poi abbassò gli occhi: quel non so che
    di  terribile  e di mostruoso che lo aveva tormentato durante tutto il
    pranzo si sollevava di nuovo nel suo animo  e  s'impadroniva  di  lui.
    Curvò il corpo massiccio attraverso la tavola e:
    - Non toccatelo! Ve lo proibisco.
    Nell'udire quel grido e nel vedere a chi era diretto,  Nesvitzkij e il
    vicino di destra di Pierre sussultarono  e  si  volsero  in  fretta  a
    Bezuchov.
    - Basta, basta, che avete?  -  mormoravano con voce spaurita.
    Dòlochov  guardava  Pierre con i suoi occhi allegri chiari e crudeli e
    con un sorriso che pareva voler dire: "Ah, questo sì, che mi piace!".
    - Non ve lo darò  -  disse con voce calma e chiara.
    Pallido, con le labbra tremanti per la collera,  Pierre gli strappò il
    foglio di mano.
    - Voi...  voi siete un mascalzone: io vi sfido!  -  gridò e, scostando
    la sedia, si alzò da tavola.
    Nel momento preciso in cui faceva  quel  gesto  e  pronunziava  quelle
    parole,  Pierre  sentì  che  la  questione  sulla  colpevolezza di sua
    moglie, che tanto lo aveva tormentato quel giorno, era definitivamente
    risolta in senso affermativo, senza ombra di dubbio.  Sentì di odiarla
    e  di  essersi staccato da lei per sempre.  Nonostante la preghiera di
    Denissov di restare estraneo alla faccenda,  Rostòv accettò di  essere
    padrino  di  Dòlochov e,  dopo il banchetto,  discusse con Nesvitzkij,
    padrino di Bezuchov,  sulle modalità del duello.  Pierre se ne andò  a
    casa  e  Rostòv  con  Denissov  e  Dòlochov si trattenne al circolo ad
    ascoltare i cori degli zingari.
    - Sicché  a  domani,  a  Sokòlniki  (15)    -    disse  poi  Dòlochov,
    accomiatandosi da Rostòv sul portone del circolo.
    - Sei tranquillo?  -  domandò Rostòv.
    Dòlochov si fermò.
    - Ecco,  vedi, in due parole ti spiego tutto il segreto del duello. Se
    prima di andare a batterti fai testamento e scrivi lettere  affettuose
    ai genitori,  se pensi,  insomma, alla possibilità di rimanere ucciso,
    sei un imbecille, ed è certo che ci rimetti la pelle; se invece ci vai
    con la  ferma  intenzione  di  uccidere  l'avversario  al  più  presto
    possibile,  tutto allora andrà per il meglio. Senti che cosa mi diceva
    il nostro domatore di orsi di  Kostromà:  "Com'è  possibile  non  aver
    paura  dell'orso?  Ma,  non  appena lo vedi,  la paura scompare e temi
    soltanto che esso ti possa sfuggire!".  Così è  per  me,  capisci?  "A
    demain, mon cher!" [16. A domani, mio caro].
    Il  mattino seguente alle otto,  Pierre e Nesvitzkij giunsero al bosco
    di Sokòlniki ove trovarono Dòlochov,  Denissov e Rostòv.  Pierre aveva
    l'aria  di  un  uomo preoccupato da qualcosa che non aveva nulla a che
    fare con il duello imminente.  Si capiva dal suo  viso  giallognolo  e
    pesto  che  aveva  trascorso  la  notte  insonne,  si guardava attorno
    distrattamente e socchiudeva gli occhi,  come se la luce del sole  gli
    desse  fastidio.  Due pensieri lo preoccupavano: la colpevolezza della
    moglie,  sulla quale,  dopo la notte insonne,  non aveva più il minimo
    dubbio,  e  la non colpevolezza di Dòlochov che non aveva alcun motivo
    per rispettare l'onore di un uomo che per lui era un estraneo. "Forse,
    al suo posto, avrei agito come lui", pensava Pierre. "Sì,  avrei agito
    senza  dubbio  come  lui;  e,  allora,  perché  questo duello,  questo
    omicidio?  O io uccido lui oppure  egli  mi  colpirà  alla  testa,  al
    gomito,  a un ginocchio... Devo andarmene di qui, fuggire, nascondermi
    da qualche  parte...",  pensò.  Ma  proprio  mentre  simili  idee  gli
    passavano  per  la  mente,  egli  con  un'aria  perfettamente  calma e
    indifferente, che ispirava rispetto a chi lo osservava. chiedeva:
    - Si comincia? Siamo pronti?
    Quando tutto fu in ordine,  quando le sciabole furono  piantate  nella
    neve  per  segnare  i  limiti  del  terreno  sino  ai  quali si poteva
    avanzare,  e le pistole furono  caricate,  Nesvitzkij  si  avvicinò  a
    Pierre.
    - Non farei il mio dovere,  conte,  -  disse con voce timida  -  e non
    giustificherei la fiducia e l'onore che mi  avete  fatto  scegliendomi
    per  vostro padrino,  se in questo grave,  gravissimo momento,  non vi
    dicessi tutta la verità.  Io credo che questo duello non abbia  motivi
    abbastanza  seri e che,  per una questione simile,  non sia il caso di
    versare del sangue... Siete stato eccessivo, vi siete lasciato vincere
    dalla collera...
    - Ah sì! Tutto questo è terribilmente stupido  -  rispose Pierre.
    - Permettetemi dunque di riferire il vostro rammarico per  l'accaduto.
    Sono  certo  che  il  vostro  avversario  acconsentirà ad accettare le
    vostre scuse  -  disse  Nesvitzkij,  il  quale,  come  gli  altri  che
    assistevano al duello e come sempre accade in simili circostanze,  non
    credeva ancora che dovesse veramente aver  luogo.    -    Voi  sapete,
    conte,  che è molto più nobile riconoscere il proprio errore piuttosto
    che portare le cose sino all'irreparabile.  Non c'è stata vera  offesa
    né da una parte, né dall'altra. Permettetemi dunque di parlarne...
    - No,  di che c'è da parlare?   -  domandò Pierre.   -  Non importa...
    Allora,  è tutto pronto?   -  soggiunse.   -  Ditemi soltanto  da  che
    parte  devo  andare  e  da che parte devo sparare  disse ancora con un
    sorriso forzato.
    Prese in mano la pistola e cominciò a informarsi da Nesvitzkij come si
    doveva premere il grilletto,  giacché sino ad  allora  non  aveva  mai
    tenuto in mano un'arma di quella specie e non voleva confessarlo.
    - Ah sì! Così... lo so, lo so... l'avevo soltanto dimenticato...
    -  Nessuna scusa,  assolutamente nessuna  -  diceva intanto Dòlochov a
    Denissov che, da parte sua, faceva dei tentativi di riconciliazione. E
    si avvicinò al posto stabilito.
    Il luogo scelto per il duello si trovava a ottanta passi dalla  strada
    sulla  quale aspettavano le slitte,  in una piccola radura di un bosco
    di pini, coperta di neve resa molle dal disgelo che aveva avuto inizio
    due giorni prima.  Gli avversari si  posero  a  quaranta  passi  l'uno
    dall'altro, ai margini della radura. I padrini, misurando le distanze,
    segnarono  orme  profonde  nella neve alta e molle dal punto in cui si
    trovavano gli avversari sino a dove  erano  piantate  le  sciabole  di
    Nesvitzkij  e di Denissov,  che indicavano i limiti della barriera,  a
    dieci passi l'una dall'altra.
    Il disgelo e la nebbia persistevano: a quaranta passi di distanza  non
    si  vedeva  nulla.  Da  tre  minuti ogni cosa era pronta e tuttavia si
    tardava a cominciare. Tutti tacevano.


    CAPITOLO 5.

    - Dunque, cominciamo?  -  disse Dòlochov.
    - Perché no?   -  chiese  Pierre,  sempre  con  lo  stesso  innaturale
    sorriso.
    La  situazione  diventava  terribile.  Era  evidente  che la faccenda,
    iniziatasi con tanta facilità,  non poteva più essere evitata,  che le
    cose  ormai  andavano  da  sole  indipendentemente dalla volontà degli
    uomini e che doveva compiersi.  Denissov  per  primo  avanzò  sino  al
    limite della barriera e gridò risolutamente:
    - Poiché gli avversari non intendono rappacificarsi! bisogna iniziare.
    Favoriscano  prendere  le  pistole  e  alla  parola  tre  comincino ad
    avanzare.
    - Uno! Due! Tre!...  -  gridò Denissov con rabbia, fece da parte.
    I due avversari avanzarono lungo lo  stretto  sentiero,  avvicinandosi
    sempre di più, sino a che si ravvisarono attraverso la nebbia. Avevano
    diritto  di sparare quando l'avessero voluto,  andandosi incontro sino
    alla  barriera.   Dòlochov  camminava  lentamente,   senza  alzare  la
    pistola...  guardando con i suoi occhi chiari,  scintillanti e azzurri
    la faccia dell'avversario. Come sempre aveva sulle labbra una parvenza
    di sorriso.
    Alla parola "tre" Pierre andò avanti  a  passi  rapidi,  deviando  dal
    sentiero  tracciato  e  camminando nella neve.  Stringeva la pistola a
    braccio teso,  come se temesse di ferirsi con la propria arma.  Teneva
    accuratamente  indietro  il  braccio  sinistro,   giacché  provava  il
    desiderio di usarlo per sostenere quello destro,  e sapeva che ciò non
    si  poteva  fare.  Quando  ebbe  percorso  sei  passi  e fu uscito dal
    tracciato nella neve,  guardò a terra,  poi alzò di nuovo  rapidamente
    gli  occhi  su  Dòlochov  e,  piegando  il  dito  come  gli  era stato
    insegnato,  sparò.  Pierre,  che non si aspettava un colpo così forte,
    ebbe  un  sussulto,  poi  sorrise della propria impressionabilità e si
    fermò. Il fumo, particolarmente denso a causa della nebbia, gli impedì
    al primo momento di vedere, ma l'altro colpo, che egli attendeva,  non
    venne.  Si  udirono  soltanto i passi affrettati di Dòlochov;  poi dal
    fumo emerse la sua figura. Con una mano si premeva il fianco sinistro,
    con l'altra stringeva la pistola abbassata.  Era pallidissimo.  Rostòv
    accorse verso di lui e gli disse qualcosa.
    - No...  no!   -  mormorò tra i denti Dòlochov,   -  no, non è finita!
    E,  fatti ancora alcuni passi vacillanti  e  incerti  sino  al  limite
    segnato  dalla  sciabola,  le cadde accanto nella neve.  Aveva la mano
    sinistra coperta di sangue: se l'asciugò con la giubba e l'appoggiò su
    di essa. Il suo viso era pallido, livido, tremante.
    - Per favo...  -  cominciò Dòlochov, ma non poté compiere la frase.  -
    Per favore...  -  riuscì poi a dire con uno sforzo.
    Pierre,  che tratteneva  a  stento  i  singhiozzi,  si  slanciò  verso
    Dòlochov  e stava già per attraversare lo spazio che separava i limiti
    segnati dalla sciabola, quando Dòlochov gli gridò:
    - Alla barriera!   -  Pierre,  comprendendo,  si fermò presso  la  sua
    sciabola.  Dieci passi soltanto li separavano.  Dòlochov chinò il capo
    sulla neve, la morse con avidità, poi rialzò il capo, si sollevò sulle
    gambe e sedette,  cercando un punto stabile  di  appoggio  resistente.
    Intanto  succhiava  e  inghiottiva  la  neve  gelida;  le  labbra  gli
    tremavano,  ma sorrideva ancora,  e gli occhi gli  brillavano  per  lo
    sforzo,  mentre  con  ira  raccoglieva  le  sue ultime forze.  Alzò la
    pistola e prese la mira.
    - Di fianco! Copritevi con la pistola!  -  gridò Nesvitzkij.
    - Copritevi!   -   gridò  persino  Denissov  al  suo  avversario,  non
    riuscendo a trattenersi.
    Pierre  con  un  mite  sorriso  di  rammarico e di pentimento,  con le
    braccia e le gambe allargate,  rimase  immobile  davanti  a  Dòlochov,
    presentandogli  l'ampio  petto  e  guardandolo con dolorosa tristezza.
    Denissov,  Rostòv e Nesvitzkij chiusero gli occhi.  In  quello  stesso
    istante udirono lo sparo e il grido selvaggio di Dòlochov.
    -  Non  l'ho colpito!   -  gridò e,  senza più forze,  ricadde bocconi
    sulla neve.  Pierre si prese il capo tra le mani,  voltò le  spalle  e
    s'inoltrò nel bosco, camminando sulla neve alta e pronunziando ad alta
    voce parole sconnesse e incomprensibili.
    - Che stupida... stupida cosa! La morte... la menzogna...  -  ripeteva
    con  il  viso  contratto.  Nesvitzkij  lo  raggiunse,  lo  fermò  e lo
    accompagnò a casa.
    Rostòv e Denissov portarono via il ferito.
    Dòlochov giaceva nella slitta,  muto,  con  gli  occhi  chiusi,  senza
    rispondere alle domande che gli venivano rivolte;  ma quando la slitta
    entrò in Mosca, tornò improvvisamente in sé e, alzata faticosamente la
    testa,  prese la mano di Rostòv che  gli  sedeva  accanto.  Rostòv  fu
    profondamente  colpito  dall'espressione totalmente mutata e inattesa,
    entusiasticamente commossa, apparsa sul viso di Dòlochov.
    - Come va, dunque? Come ti senti?  -  gli domandò.
    - Male!  Ma non si tratta di questo  -    mormorò  Dòlochov  con  voce
    spezzata.   -  Dove siamo? A Mosca, lo so. Per me, non importa, ma lei
    l'ho uccisa,  l'ho uccisa...  Essa non sopporterà,  non sopporterà  un
    simile dolore...
    - Chi?  -  domandò Rostòv.
    Mia  madre,  mia  madre,  il  mio angelo,  il mio angelo adorato,  mia
    madre...  -  e scoppiò in lacrime, stringendo la mano di Rostòv.
    Quando si fu un po' calmato,  spiegò a Rostòv che egli abitava con sua
    madre,  che  se  essa  lo  avesse veduto ferito gravemente non avrebbe
    resistito. Pregò Rostòv di andare da lei e di prepararla.
    Rostòv precedette la slitta per eseguire l'incarico e con  sua  grande
    sorpresa  venne  a  sapere  che Dòlochov,  quello scapestrato,  quello
    spadaccino di Dòlochov,  viveva a Mosca con la vecchia madre e con una
    sorella gobba e che era il più tenero dei figli e dei fratelli.


    CAPITOLO 6.

    Negli  ultimi  tempi  Pierre si era trovato di rado a tu per tu con la
    moglie. A Pietroburgo, come a Mosca,  la loro casa era sempre piena di
    ospiti.  Nella  notte  che  seguì  il  duello egli,  come gli accadeva
    spesso,  non andò neppure in camera da letto,  ma  rimase  nel  grande
    studio  paterno,  quello  stesso  in cui il vecchio conte Bezuchov era
    spirato.
    Si stese sul divano cercando di dormire per dimenticare tutto ciò  che
    gli era accaduto,  ma non vi riuscì.  Una tale tempesta di sentimenti,
    di  pensieri,  di  ricordi  gli  era  tutto  ad  un  tratto  scoppiata
    nell'anima che,  non solo non poteva dormire,  ma neppure gli riusciva
    di star fermo.  Dovette alzarsi dal divano e mettersi a camminare  per
    la  stanza  a passi concitati;  ora gli si affacciava l'immagine della
    moglie nei primi tempi dopo il matrimonio,  con le spalle nude  e  gli
    occhi languidi e appassionati;  ma subito,  accanto a lei,  sorgeva il
    bel viso ardito e beffardo di  Dòlochov,  quale  lo  aveva  veduto  al
    banchetto,  e  poi  ancora  quello  stesso  viso  pallido,  tremante e
    sofferente come al momento in cui si era voltato ed era caduto bocconi
    sulla neve.
    "Ma che dunque è accaduto?",  si chiedeva  con  angoscia.  "Ho  ucciso
    l'amante,  sì,  l'amante di mia moglie... e perché? Come sono giunto a
    commettere  questo?".  "Ci  sei  giunto  perché  l'hai  sposata",  gli
    rispondeva una voce interiore.
    "Ma  di  che cosa sono colpevole?",  si domandava.  "Di averla sposata
    senza amarla,  di avere ingannato me e lei" e riviveva il momento  nel
    quale,  dopo  la cena in casa del principe Vassilij,  aveva finalmente
    detto quelle parole che pure non volevano uscirgli  dalla  bocca:  "Je
    vous aime!" [17.  Vi amo]. Da quella dichiarazione era derivato tutto!
    "Anche allora",  continuava a pensare,  "anche allora sentivo di agire
    male, sentivo che non avevo il diritto di farlo. Ed era proprio così".
    Poi  ripensò  ai giorni della luna di miele,  e questo ricordo lo fece
    arrossire.  Particolarmente vivo,  penoso e vergognoso era per lui  il
    ricordo  di  come  una  volta,  subito  dopo  le nozze,  uscendo verso
    mezzogiorno in veste da camera di seta dalla  sua  stanza  era  andato
    nello studio,  dove aveva trovato il suo capo-amministratore il quale,
    inchinandosi,  gli aveva guardato la faccia e la vestaglia,  poi aveva
    sorriso  leggermente  per  esprimere  con  quel  sorriso  la parte che
    rispettosamente prendeva alla sua felicità.
    "E quante volte sono stato orgoglioso di  lei,  orgoglioso  della  sua
    maestosa bellezza, del suo modo di comportarsi in società", continuava
    a  pensare,  "orgoglioso  della  mia  casa,  dove  ella riceveva tutta
    Pietroburgo, orgoglioso della sua inaccessibile bellezza!  Ecco dunque
    di che cosa mi inorgoglivo!  Io credevo allora di non capirla.  Quante
    volte,  riflettendo sul suo carattere,  mi dicevo che era mia la colpa
    di  non capire quella sua calma immutabile,  quel suo mostrarsi sempre
    soddisfatta,   di  quell'assenza  in  lei  di  qualsiasi  passione   o
    desiderio... E la soluzione era tutta qui in questa terribile frase: è
    una svergognata! Me la sono detta, questa terribile frase e tutto mi è
    diventato chiaro!".
    "Anatolij  veniva  a  domandarle  del  denaro in prestito e la baciava
    sulle spalle nude. Lei non gli dava il denaro, ma si lasciava baciare.
    Suo padre,  scherzando,  eccitava la sua gelosia;  con  un  tranquillo
    sorriso  lei  rispondeva di non essere tanto sciocca da essere gelosa.
    "Faccia pure quello che vuole",  diceva parlando di me.  Le chiesi una
    volta  se  non  sentiva  qualche  inizio  di gravidanza.  Ebbe un riso
    sprezzante e rispose che non era tanto stupida da desiderare di  avere
    dei figli, e che "da me" figli non ne avrebbe mai avuti".
    Poi   ricordò   la   volgarità  evidente  dei  pensieri  di  lei,   la
    sfacciataggine di  talune  espressioni  che  le  erano  abituali,  pur
    essendo  stata  educata  in  un ambiente aristocratico.  "Non sono una
    stupida qualunque... provaci un po' tu...  "allez vous promener"" [18.
    Andate fuori dei piedi.],  diceva.  Spesso, leggendo negli occhi degli
    uomini e delle donne,  dei vecchi e dei giovani,  l'effetto  che  ella
    produceva,  Pierre  non  riusciva  a  capire  perché  egli  stesso non
    l'amasse. "No,  non l'ho mai amata" si diceva ora;  "lo sapevo che era
    una malafemmina", ripeteva a se stesso, "ma non osavo confessarmelo".
    "E  adesso  Dòlochov giace sulla neve,  si sforza di sorridere e forse
    muore, rispondendo con una spavalda finzione al mio pentimento!".
    Pierre era uno di quegli uomini che, nonostante un'apparente debolezza
    di carattere, non cercava di confidare ad alcuno il proprio dolore. Lo
    rimuginava dentro di sé, in solitudine.
    "Lei sola è colpevole di tutto, lei sola", si diceva.
    "E ora? Perché mi sono legato a lei,  perché le ho detto quel "Je vous
    aime" che era una menzogna,  peggiore, anzi, di una menzogna? La colpa
    è mia,  e adesso devo sopportare...  Cosa?  Il disonore sul mio  nome,
    l'infelicità  di  tutta la vita?  Ma queste non sono che sciocchezze",
    pensò.  "L'offesa al mio nome e l'onore non sono che  convenzioni  che
    non dipendono da me".
    "Luigi  Sedicesimo  fu  decapitato  perché  essi  dichiararono che era
    disonorato e reo" (venne in mente a Pierre) "e dal loro punto di vista
    avevano ragione come avevano ragione quegli altri che per lui morivano
    da martiri e lo considerarono un santo. Poi fu giustiziato Robespierre
    (19) perché era un despota. Chi ha ragione? Chi ha torto? Nessuno.  Ma
    sino  a  che  sei vivo,  vivi;  domani morirai,  come potevo morire io
    un'ora fa. Mette dunque conto di tormentarci tanto quando non dobbiamo
    vivere che un secondo, a paragone dell'eternità?".
    Ma proprio quando si sentiva tranquillizzato da  simili  ragionamenti,
    gli si presentava di colpo l'immagine di "lei" nei momenti in cui egli
    le esprimeva con più intenso ardore il suo amore non sincero,  sentiva
    di colpo il sangue affluirgli al cuore,  ed era di nuovo costretto  ad
    alzarsi,  a muoversi, a rompere e a strappare ciò che gli capitava tra
    le  mani.  "Perché  le  ho  detto:  "Je  vous  aime"?",  continuava  a
    domandarsi.  E  dopo  di  essersi  ripetuto per la decima volta questa
    domanda gli vennero in mente le  parole  di  Molière  (20)  "Mais  que
    diable  allait-il  faire dans cette galère?" ["Ma che diavolo andava a
    fare in quella galera?"] (21), e si mise a ridere di se stesso.
    Durante la notte chiamò il cameriere e  gli  ordinò  di  preparare  le
    valigie per andare a Pietroburgo. Non poteva più restare con lei sotto
    lo  stesso tetto,  non poteva immaginare come avrebbe potuto parlarle.
    Decise che l'indomani sarebbe partito, lasciandole una lettera,  nella
    quale  le  avrebbe  dichiarato  la  sua intenzione di separarsi da lei
    definitivamente.
    La mattina dopo,  quando il cameriere che gli portava il  caffè  entrò
    nello studio,  Pierre era coricato sul divano e dormiva,  con un libro
    aperto tra le mani.  Si svegliò e a lungo si guardò attorno  con  aria
    spaurita, non riuscendo a capire dove si trovasse.
    - La signora contessa mi ha ordinato di informarmi se sua eccellenza è
    in casa  -  disse il cameriere.
    Pierre  non ebbe il tempo di decidere quale dovesse essere la risposta
    che la contessa in persona, in veste da camera di seta bianca a ricami
    d'argento,  con le pesanti trecce avvolte a diadema  sulla  bellissima
    testa,  entrò  tranquilla e maestosa nello studio;  solo la sua fronte
    marmorea,  leggermente convessa,  era solcata da una piccola  ruga  di
    collera. Con la sua imperturbabile calma attese che il cameriere fosse
    uscito.  Era  a  conoscenza  del  duello;  ed era venuta per parlarne.
    Aspettò che il cameriere, posato il caffè, se ne fosse andato.  Pierre
    la  guardava  timidamente  attraverso  le  lenti  e,   come  la  lepre
    circondata dai cani abbassa le  orecchie  e  resta  appiattata,  senza
    muoversi,  in vista dei suoi nemici, così anch'egli provò a continuare
    la  lettura;   ma  sentiva  che  il  suo  atteggiamento  era  assurdo,
    impossibile, e di nuovo diede un'occhiata alla moglie.
    Ella, in piedi, fissava con un sorriso sprezzante il marito, in attesa
    di restare sola con lui.
    - Be',  che novità è questa?  Che cosa avete fatto? Sentiamo  -  disse
    in tono severo.
    - Io? Che cosa ho fatto io?  -  domandò Pierre.
    - Per mostrarvi coraggioso,  eh?  Suvvia,  rispondete;  che  significa
    questo duello? Che cosa avete voluto dimostrare? Parlate!
    Pierre si girò pesantemente sul divano, aprì la bocca, ma non riuscì a
    dire nulla.
    -  Giacché  voi non mi rispondete,  parlerò io  -  proseguì Elen.  Voi
    credete tutto ciò che vi raccontano.  Vi avranno  detto...    ed  Elen
    scoppiò  a  ridere    -    che  Dòlochov  è il mio amante  -  disse in
    francese, dando quell'intonazione volgare alla parola "amante" come la
    dava a qualsiasi altra parola  -  e voi vi avete creduto! Insomma, che
    cosa avete provato con questo?  Che cosa avete dimostrato  con  questo
    duello? Che siete uno stupido! "que vous êtes un sot"; del resto tutti
    lo  sanno..  E  cosa ne risulterà?  Ne risulterà che io sarò derisa da
    tutta Mosca, che di voi si dirà che in stato di ubriachezza,  fuori di
    senno, avete sfidato a duello un uomo di cui siete geloso senza averne
    alcun motivo,  un uomo che,  sotto ogni rapporto,  è molto migliore di
    voi  -  concluse Elen, accalorandosi e alzando sempre di più la voce.
    - Ehm...  Ehm...   -  mugulava  Pierre,  accigliato,  immobile,  senza
    guardare la moglie.
    - Perché avete potuto credere che sia il mio amante? Perché? Perché mi
    piace la sua compagnia? Se voi foste più intelligente e più simpatico,
    avrei preferito la vostra.
    - Non parlate più con me... ve ne supplico  -  mormorò Pierre con voce
    roca.
    -  Perché  non  dovrei  parlare?  Posso dire,  e ve lo dico,  che sono
    pochissime le mogli che avendo un marito come voi non si prenderebbero
    degli amanti ("des amants"), eppure io non l'ho fatto  -  disse.
    Pierre fu lì per rispondere, la fissò con uno sguardo strano del quale
    essa non comprese l'espressione, e tornò a coricarsi.  In quel momento
    egli  soffriva  fisicamente,  provava  un  senso  di oppressione e non
    poteva respirare.  Sapeva di dover fare qualcosa per  troncare  quella
    sua  atroce  sofferenza,  ma  ciò  che  avrebbe voluto fare era troppo
    terribile.
    - E' meglio che ci separiamo  -  disse con voce spezzata.
    - Separiamoci, d'accordo, ma soltanto se voi mi assicurerete una buona
    sostanza  -  dichiarò Elen.   -  Separiamoci...  è così che credete di
    spaventarmi!
    Pierre balzò dal divano e barcollando si scagliò contro di lei.
    -  Io  ti ammazzo  -  gridò e,  afferrato il piano di marmo del tavolo
    con una forza di cui non  sarebbe  creduto  capace,  mosse  un  passo,
    sollevandolo verso di lei.
    Il  viso  di  Elen diventò spaventoso,  diede un grido e fece un balzo
    indietro.  Il sangue paterno si era  risvegliato  in  lui.  Pierre  si
    sentiva  attratto  dalla  voluttà del furore.  Scagliò via il pezzo di
    marmo che andò in frantumi,  con le braccia tese  si  avvicinò  ancora
    alla moglie e urlò: "Fuori di qui!".  Quell'urlo fu così terribile che
    fu udito in tutta la casa.  Dio solo sa che cosa avrebbe fatto in quel
    momento, se Elen non fosse uscita a precipizio dalla stanza.
    Una settimana dopo, Pierre fece consegnare alla moglie una procura per
    l'amministrazione  di tutte le proprietà che aveva nella Grande Russia
    e che costituivano oltre la metà del suo patrimonio.  E  partì,  solo,
    per Pietroburgo.


    CAPITOLO 7.

    Erano  trascorsi  due  mesi dacché era giunta a Lissia-Gori la notizia
    della battaglia di Austerlitz e della scomparsa del  principe  Andréj;
    nonostante tutte le lettere spedite per mezzo dell'ambasciata e le più
    accurate  ricerche  fatte,  il  suo corpo non era stato ritrovato,  né
    risultava che egli fosse nel numero  dei  prigionieri.  Il  fatto  più
    doloroso  per  i  suoi  familiari era il poter sperare che fosse stato
    raccolto sul campo di battaglia dagli abitanti del  paese  e  che  ora
    giacesse  laggiù,  chissà dove,  ferito o moribondo,  in mezzo a gente
    estranea, senza alcuna possibilità di dare notizie di sé.  I giornali,
    dai quali il vecchio principe aveva appreso la notizia della sconfitta
    di Austerlitz,  avevano annunziato,  molto brevemente come sempre e in
    termini vaghi,  che i Russi,  dopo aver  combattuto  "brillantemente",
    erano  stati  costretti  a  ritirarsi  e  che  la  ritirata  era stata
    effettuata in perfetto ordine.  Il  vecchio  principe  aveva  compreso
    facilmente  da  quella  comunicazione  ufficiale,  che le truppe russe
    erano state sconfitte.  Una settimana dopo che i giornali avevano dato
    notizia  della  battaglia  di  Austerlitz,  il  principe ricevette una
    lettera da Kutuzòv che lo informava della sorte toccata al figlio.
    "Vostro figlio", scriveva Kutuzòv, "davanti ai miei occhi,  impugnando
    una bandiera,  alla testa del reggimento, è caduto da vero eroe, degno
    di suo padre e della sua  patria.  Purtroppo  sino  a  oggi  con  vivo
    rammarico  mio  e  di  tutto l'esercito,  non si sa se egli sia vivo o
    morto.  Per voi e per me,  spero che egli sia  vivo  poiché,  in  caso
    contrario,  tra i nomi degli ufficiali trovati sul campo di battaglia,
    il  cui  elenco  mi  è  stato  trasmesso  a  mezzo  di   parlamentari,
    figurerebbe anche il suo".
    Dopo  aver  ricevuto questa notizia a sera inoltrata,  mentre era solo
    nel suo studio,  il vecchio principe la mattina seguente uscì  per  la
    consueta passeggiata, ma fu taciturno con l'intendente, il giardiniere
    e l'architetto e,  pur avendo l'aria irritata,  non rimbrottò nessuno.
    Quando,  all'ora consueta,  la principessina Màrija entrò da  lui,  lo
    trovò  ritto davanti al tornio cui stava lavorando,  ma non si voltò a
    guardarla come faceva ogni giorno.
    - Ah,  principessina Màrija!    -    esclamò  a  un  tratto  con  voce
    innaturale e buttò via lo scalpello. (La ruota continuava a girare per
    forza  d'inerzia  e  la  principessina Màrija ricordò poi a lungo quel
    cigolio che si spegneva a poco a poco e che rimase in lei confuso  con
    ciò che accadde in seguito).
    La  fanciulla  si avvicinò al padre,  vide la sua faccia e,  di colpo,
    sentì il cuore spezzarlesi nel petto. Gli occhi le si offuscarono. Dal
    viso del padre non triste, non abbattuto,  ma rabbioso e insolitamente
    contratto nello sforzo di dominarsi, sentì che su di lei era sospesa e
    stava  per schiacciarla una tremenda sventura,  la più terribile della
    sua  vita,   una  sventura  non  ancora  mai  provata,   una  sventura
    irreparabile e inconcepibile: la morte di una persona cara.
    -  "Mon père!...  André?" [22.  Padre mio!...  Andréj?]  -  esclamò la
    principessina brutta e goffa,  con una espressione tale di tristezza e
    di  oblio  di  se  stessa  che il vecchio padre non poté sostenerne lo
    sguardo e si voltò scoppiando in singhiozzi.
    - Sì,  ho ricevuto notizie.  Tra i prigionieri non c'è,  tra  i  morti
    neppure. Me l'ha scritto Kutuzòv  -  gridò con voce acuta, come se con
    quel grido volesse schiacciare la principessina.  -  E' stato ucciso!
    La principessina non cadde,  non perse i sensi...  Era già pallida, ma
    quando udì le parole del padre il suo viso mutò e qualcosa brillò  nei
    suoi  bellissimi  occhi  pieni di luce,  come se una gioia,  una gioia
    sublime,  che non dipendeva dalla tristezza e dalle  gioie  di  questo
    mondo,  si effondesse al di sopra del dolore che era in lei. Dimenticò
    il timore che il padre le ispirava,  si avvicinò a lui,  gli prese  le
    mani,  lo  attirò  a  sé e poi gli cinse con le braccia il collo magro
    dalle vene grosse e tese.
    - "Mon père",   -  disse  -   non  vi  allontanate  da  me:  piangiamo
    insieme!
    -  Briganti!  Vigliacchi!    -  esclamò il vecchio,  scostando il viso
    dalla fanciulla.  -  Perdere l'esercito, perdere tanti uomini, perché?
    Va', va' a dirlo a Liza!
    La principessina si abbandonò senza forze in una poltrona  accanto  al
    padre,  e  si  mise  a  piangere.  Rivedeva  suo  fratello nel momento
    dell'addio a Liza e a lei,  rivedeva  il  suo  volto  dall'espressione
    insieme tenera e orgogliosa, lo rivedeva nell'atto in cui si era messo
    al  collo,  commosso e quasi canzonandola,  la piccola immagine sacra.
    "Avrà avuto un po' di fede?  Si sarà pentito  della  sua  incredulità?
    Godrà ora la pace e la beatitudine eterna?", pensava.
    - "Mon père", ditemi, com'è avvenuto?  -  domandò tra le lacrime.
    -  Va',  va'...  E'  stato  ucciso  in una battaglia nella quale hanno
    condotto a morire gli uomini migliori, la gloria della Russia! Andate,
    principessina Màrija, a dirlo a Liza. Io verrò dopo.
    Quando la principessina Màrija ritornò  dall'appartamento  del  padre,
    trovò  la piccola principessa seduta,  intenta a un ricamo.  Guardò la
    cognata con quella intima,  particolare espressione di calma  felicità
    che  hanno soltanto le donne incinte,  ma era facile capire che i suoi
    occhi non guardavano la cognata,  ma nel profondo di se  stessa,  dove
    qualcosa di lieto e di misterioso si stava compiendo...
    - "Marie",   -  disse, scostandosi dal telaio e piegandosi indietro  -
    dammi la tua mano.
    Prese la mano della principessina e se la  posò  sul  ventre.  I  suoi
    occhi  sorridevano,  il  suo  labbro  superiore,  coperto da una lieve
    peluria,  si era sollevato,  ed era rimasto alzato in un atteggiamento
    di infantile felicità.
    La  principessina  Màrija cadde in ginocchio davanti a lei nascondendo
    il viso tra le pieghe della sua gonna.
    - Ecco... ecco, senti? Mi fa un effetto tanto strano... E sai, Màrija,
    quanto gli vorrò bene  -  esclamò Liza, guardando la cognata con occhi
    lucenti, colmi di intensa gioia.
    La principessina Màrija non poteva alzare il capo: piangeva.
    - Che hai, Mascia?
    - Nulla...  mi  sento  triste...  triste  per  Andréj    -    rispose,
    asciugandosi le lacrime contro le ginocchia della cognata.
    Parecchie  volte,  nella  mattinata,  la principessina Màrija cercò di
    preparare Liza,  ma ogni volta  si  metteva  a  piangere.  La  piccola
    principessa, che non riusciva a capire la causa di quelle lacrime, per
    quanto  fosse poco osservatrice finì per rimanere turbata.  Non diceva
    nulla, ma si guardava attorno, inquieta, come cercando qualcosa. Prima
    di pranzo il vecchio principe, che le ispirava sempre un vago timore e
    che aveva quel giorno  un  viso  cattivo,  dall'espressione  irritata,
    entrò  nella  sua  stanza e ne uscì senza aver detto una parola.  Liza
    guardò la principessina Màrija,  poi si  fece  pensosa  e  sempre  con
    quell'espressione assorta della donna incinta che pare guardare dentro
    di sé, tutto a un tratto scoppiò a piangere.
    - Si sono avute notizie di Andréj ?  -  domandò.
    - No...  lo sai,  vero...  che non possono ancora esserci notizie,  ma
    "mon père" è preoccupato e io sono in pena...
    - Sicché nulla ancora...
    - Nulla  -  rispose Màrija,  guardando la cognata senza batter ciglio,
    con gli occhi pieni di luce.
    Aveva  deciso  di  non  dirle  nulla e di convincere suo padre a tener
    nascosta la terribile notizia sino a dopo il parto che era  imminente.
    La  principessina  Màrija e il vecchio principe,  ciascuno a modo suo,
    sopportavano e nascondevano la propria pena.  Il vecchio principe  non
    voleva sperare: aveva deciso che il figlio era stato ucciso e, sebbene
    avesse  mandato in Austria un funzionario a cercarne le tracce,  aveva
    già ordinato a Mosca un monumento  funebre  che  aveva  intenzione  di
    collocare  in  giardino  e a tutti diceva che suo figlio era caduto in
    battaglia. Si sforzava, non mutando in alcun modo le sue abitudini, di
    condurre  il  solito  tenore  di  vita,  ma  le  forze  lo  tradivano:
    passeggiava meno, mangiava e dormiva poco e di giorno in giorno andava
    perdendo le forze.  La principessina Màrija,  invece, sperava. Pregava
    per il fratello come se fosse vivo  e  aspettava  che  da  un  momento
    all'altro arrivasse la notizia del suo ritorno.


    CAPITOLO 8.

    -  "Ma  bonne  amie"  [23.  Mia  buona  amica]    -   disse la piccola
    principessa la  mattina  del  19  marzo,  dopo  colazione,  e  il  suo
    labbruzzo  ombreggiato  di  peluria  si  sollevò  secondo  la  vecchia
    abitudine; ma poiché in casa, dopo che era giunta la terribile notizia
    non solo il sorriso,  ma  il  suono  stesso  delle  parole  e  persino
    l'andatura  di  tutti  erano  tristi,  anche  il sorriso della piccola
    principessa,  adattandosi all'umore  generale,  di  cui  tuttavia  non
    conosceva  il  motivo,  era  tale da ricordare ancora più la tristezza
    comune.
    - "Ma bonne amie,  je crains que le fruschtique  (comme  dit  Foka  le
    cuisinier)  de  ce  matin  ne  m'aie  pas  fait  du  mal" [Temo che il
    "Frühstück" (come dice Foka,  il cuoco) di  questa  mattina  mi  abbia
    fatto male] (24).
    -  Che  hai,  anima  mia?  Sei  pallida,  molto  pallida    -  esclamò
    spaventata la principessina Màrija,  accorrendo presso la cognata  con
    il suo pesante passo sgraziato.
    -  Eccellenza,  dobbiamo  mandare  a  chiamare  Màrija Bogdànovna?   -
    domandò una delle cameriere  che  si  trovava  nella  camera.  (Màrija
    Bogdànovna  era  la  levatrice  del  capoluogo  che si era stabilita a
    Lissia-Gori già da un settimana).
    - Sì, forse è opportuno chiamarla  -  approvò la principessina Màrija.
    -  Ci vado io. "Courage, mon ange!" [25.  Coraggio,  angelo mio!].   -
    Baciò Liza e fece per uscire dalla stanza.
    - Oh no,  no!  -  e sul viso pallidissimo della piccola principessa si
    dipinse un infantile terrore per le inevitabili sofferenze fisiche.
    - "Non,  c'est l'estomac...  dites que c'est l'estomac,  dites  Marie,
    dites..." [26.  No,  è solo lo stomaco...  dite che è solo lo stomaco!
    Ditelo,  Màrija,  ditelo...]  -  e la piccola principessa  si  mise  a
    piangere come una bambina che soffre,  di un pianto un po' capriccioso
    ed esagerato, torcendo le piccole mani.
    La cognata uscì dalla stanza in cerca di Màrija Bogdànovna.
    - "Oh, mon Dieu! Mon Dieu!  -  sentì ripetere alle sue spalle.
    Soffregandosi  le  piccole  bianche  mani  grassocce,  le  veniva  già
    incontro di corsa la levatrice con un viso serio ma calmissimo.
    - Màrija Bogdànovna!  Mi pare che cominci!  -  disse la principessina,
    guardandola con gli occhi dilatati dallo spavento.
    - Ebbene... Dio sia lodato,  principessina  -  rispose l'altra,  senza
    affrettare  il  passo.    -   Del resto voi,  signorina,  non dovreste
    neppure sapere queste cose.
    - Ma come mai non è ancora arrivato il dottore da Mosca?   -   domandò
    la principessina. (Secondo il desiderio di Liza e del principe Andréj,
    era  stato  mandato  a  prendere  a  Mosca un medico ostetrico e lo si
    aspettava da un minuto all'altro).
    - Non importa,  principessina,  non preoccupatevi  -  le disse  Màrija
    Bogdànovna.  -  Tutto andrà benissimo anche senza il dottore!
    Cinque  minuti  dopo,  la principessina udì dalla sua camera che stava
    trasportando qualcosa di  pesante.  Uscì  a  vedere  e  scorse  alcuni
    domestici  che  trasportavano nella camera da letto un divano di cuoio
    che stava prima nello studio del principe Andréj.  I loro visi avevano
    un'espressione calma e solenne.
    La principessina Màrija,  sola nella sua camera, tendeva l'orecchio ai
    rumori della casa: quando udiva passare qualcuno,  apriva la  porta  e
    osservava  ciò  che  avveniva  nel corridoio.  Alcune donne andavano e
    venivano con  passo  silenzioso,  guardavano  la  principessina  e  si
    voltavano  in  là.  Essa non osava interrogare,  richiudeva la porta e
    ritornava a sedersi nella sua poltrona;  ora prendeva il  libro  delle
    preghiere,  ora  si  alzava  e  andava  a  inginocchiarsi davanti alle
    immagini sacre.  Con dolore e meraviglia sentiva che le preghiere  non
    riuscivano a calmare la sua inquietudine.  A un tratto, la porta della
    camera si aprì pian piano e  sulla  soglia  comparve  la  sua  vecchia
    bambinaia,  avvolta in uno scialle: Praskòvja Sàvisna che,  in seguito
    alla proibizione del principe,  non entrava  quasi  mai  nella  camera
    della principessina.
    - Sono venuta per stare un po' con te,  Màscenka,  -  disse la vecchia
    -  e ho portato le candele del loro matrimonio per accenderle  davanti
    ai santi, angelo mio,  -  disse e sospirò.
    - Ah, come sono contenta che tu sia qui!  -  rispose la fanciulla.
    - Dio è misericordioso, colombella!
    La  vecchia  bambinaia  accese davanti alle immagini le candele ornate
    d'oro, poi si sedette presso l'uscio,  con il lavoro a maglia in mano.
    La  principessina Màrija prese un libro e si mise a leggere.  Soltanto
    quando si  sentiva  rumore  di  passi  o  di  voci,  la  principessina
    spaventata  guardava  con  occhio  interrogativo la vecchia,  e questa
    rispondeva allo sguardo della padroncina con un'occhiata rassicurante.
    Ma il sentimento che provava la fanciulla,  seduta nella  sua  camera,
    era  lo stesso che dominava la casa e che si era impadronito di tutti.
    Per rispetto alla tradizione,  secondo la quale quanto  meno  numerose
    erano  le  persone  a conoscenza delle doglie di una partoriente tanto
    minori erano le sue sofferenze,  tutti fingevano di ignorare  ciò  che
    accadeva.  Nessuno  ne  parlava  ma  in  tutti oltre alla serietà e al
    rispetto che erano di  regola  nella  casa  del  principe,  apparivano
    evidenti una viva inquietudine generale, una specie di intenerimento e
    la  consapevolezza  che  qualcosa  di  augusto e di incomprensibile si
    stava compiendo.
    Nella grande stanza delle cameriere non si udivano risate;  in  quella
    dei  domestici  c'era il silenzio dell'attesa.  Nelle abitazioni della
    servitù venivano accese "lucine (27) e candele e nessuno  dormiva.  Il
    vecchio  principe  camminava  pesantemente sui talloni su e giù per lo
    studio; infine mandò Tichòn da Màrija Bogdànovna per avere notizie.
    - Dille soltanto: il principe mi ha ordinato di domandarvi come  vanno
    le cose e vieni subito a riferirmi la risposta.
    -  Comunica al principe che il parto è incominciato  -  rispose Màrija
    Bogdànovna, guardando il messo con aria significativa.
    Tichòn tornò dal principe a portare la risposta.
    - Bene  -  disse questi,  chiudendosi la porta alle spalle,  e  Tichòn
    non  udì più alcun rumore provenire dallo studio.  Qualche tempo dopo,
    Tichòn entrò di nuovo con la scusa di accomodare le  candele.  Vedendo
    il  principe  disteso  sul  divano,  Tichòn lo guardò,  guardò il viso
    turbato del vecchio,  scosse il capo,  gli si avvicinò in silenzio  e,
    baciatolo sulla spalla, uscì senza avere accomodato le candele e senza
    dire  perché  fosse venuto.  Il più solenne mistero del mondo si stava
    compiendo.
    Trascorse la sera,  sopraggiunse la notte.  E il senso  di  trepidante
    attesa di fronte all'incomprensibile, anziché diminuire, si faceva via
    via più intenso. Nessuno dormiva.

    Era  una  di  quelle  notti  di marzo in cui pare che l'inverno voglia
    riprendere il sopravvento e scaglia rabbiosamente sulla terra  le  sue
    ultime  nevi  e  le  sue ultime tempeste.  Incontro al dottore tedesco
    atteso da Mosca,  che doveva arrivare da un minuto all'altro e per  il
    quale  erano  già  stati mandati sulla strada maestra cavalli freschi,
    furono ora spediti uomini a cavallo  con  lanterne  per  accompagnarlo
    lungo la strada cosparsa di buche e di cumuli di neve ghiacciata.
    La  principessina  Màrija  da un pezzo aveva smesso di leggere;  stava
    seduta in silenzio,  con i begli occhi radiosi fissi  sul  viso  della
    bambinaia,  viso  che  le  era  ben noto in ogni particolare,  e sulla
    ciocca di capelli bianchi sfuggenti di sotto al fazzoletto e ricadenti
    sulla pelle floscia che le pendeva dal mento.
    La vecchia Sàvisna,  con la calza in mano,  raccontava a  voce  bassa,
    senza udire né capire essa stessa le sue parole,  cose dette centinaia
    di volte: come  la  defunta  principessa  avesse  dato  alla  luce  la
    principessina  Màrija  a Kiscinëv con l'aiuto di una contadina moldava
    come levatrice.
    - Se Dio lo vuole, i medici non sono necessari  -  diceva la vecchia.
    A un tratto,  un colpo di vento su  una  delle  doppie  vetrate  della
    finestra della camera (per ordine del principe,  si toglieva una delle
    invetriate in ogni camera all'arrivo delle allodole), aprì la maniglia
    non ben chiusa, gonfiò le tendine e, con una ventata odorosa di neve e
    di gelo,  spense la candela.  La principessina sussultò;  la  vecchia,
    deposta la calza,  si avvicinò alla finestra e,  sporgendosi, cercò di
    afferrare l'invetriata per chiuderla. Il vento freddo scuoteva i lembi
    del suo fazzoletto da testa e le ciocche dei bianchi capelli.
    - Principessina,  qualcuno sta venendo su lungo il viale   -    disse,
    tenendo  ferma  l'invetriata senza chiuderla.   -  Vedo le lanterne...
    dev'essere il dottore...
    - Ah,  sia lodato Iddio  -    esclamò  la  principessina  Màrija.    -
    Bisogna andargli incontro; non conosce il russo.
    La fanciulla si gettò uno scialle addosso e si avviò di corsa incontro
    alle  persone che arrivavano.  Mentre attraversava l'anticamera,  vide
    dalla finestra una carrozza e alcune  lanterne  davanti  all'ingresso.
    Uscì sulla scala.  Su un pilastrino della ringhiera ardeva una candela
    di sego che il vento faceva sgocciolare.  Il cameriere Filìp,  con  la
    faccia  stravolta  e con un candeliere in mano,  stava ritto sul primo
    pianerottolo. Più in basso,  dove la scala girava,  si udivano i passi
    frettolosi  di piedi calzati da morbidi stivali di feltro.  E una voce
    che alla principessina Màrija sembrò nota stava dicendo qualcosa.
    - Grazie a Dio!  -  diceva quella voce.  -  E mio padre?
    - E' andato a dormire  -  rispose la voce del cameriere Demjàn che era
    in fondo alla scala.
    Poi la voce nota pronunziò ancora  qualche  parola  e  qualche  parola
    rispose  ancora Demjàn,  mentre i passi felpati si avvicinavano sempre
    più rapidamente.
    "Ma è Andréj",  pensò la principessina Màrija.  "No,  non è possibile:
    sarebbe  una cosa troppo straordinaria",  si disse,  e proprio in quel
    momento,  sul pianerottolo su cui stava il maggiordomo con la candela,
    comparvero  il  viso e la persona del principe Andréj in pelliccia con
    il bavero rialzato,  coperto di neve...  Sì,  era  proprio  lui...  ma
    pallido  e scarno,  con il volto mutato,  dall'espressione stranamente
    addolcita ma ansiosa. Salì ancora e abbracciò la sorella.
    - Non avete ricevuto le mie lettere?  -  domandò e, senza aspettare la
    risposta che non poteva avere perché la principessina non  riusciva  a
    parlare,  si  voltò  e  con  l'ostetrico  che  lo  seguiva  (lo  aveva
    incontrato all'ultima tappa) riprese a salire rapidamente la  scala  e
    riabbracciò la sorella.
    - Che caso!   -  esclamò.   -  Mascia, mia cara Mascia!  -  E, toltosi
    la pelliccia e gli stivali, si recò nell'appartamento della moglie.


    CAPITOLO 9.

    La  piccola  principessa,  in  cuffietta  bianca,   era  coricata  sui
    guanciali. Le doglie si erano appena calmate. I neri capelli pendevano
    a ciocche sulle guance arrossate e madide di sudore; la graziosa bocca
    rossa,  con  il  labbruzzo ombreggiato dalla lieve peluria scura,  era
    aperta ed ella sorrideva gioiosamente.  Il principe Andréj entrò nella
    camera  e  si  fermò  dinanzi  ai  piedi del divano sul quale essa era
    distesa.  Gli occhi lucenti  di  lei,  che  guardavano  con  timore  e
    turbamento  come  quelli di un bimbo,  si fissarono sul marito,  senza
    mutare espressione.  "Io voglio bene a tutti voi,  non ho fatto male a
    nessuno: perché devo soffrire tanto?  Aiutatemi!",  pareva dire quello
    sguardo.  Ella vedeva il marito ma non capiva il significato della sua
    presenza in quel momento.  Il principe Andréj girò attorno al divano e
    la baciò sulla fronte.
    - Piccola anima mia  -  le disse,  usando un'espressione  che  non  le
    aveva mai rivolta.  -  Dio è misericordioso...
    Essa lo guardò con aria infantile di rimprovero, interrogativa.
    "Io aspettavo aiuto da te,  e invece nulla,  nulla... neppure da te!",
    pareva dire quello sguardo. Non si stupiva del suo ritorno,  non aveva
    capito che era tornato.
    Quel ritorno non aveva alcuna relazione con le sue sofferenze e non le
    portava  alcun sollievo.  Le doglie ricominciarono e Màrija Bogdànovna
    consigliò il principe Andréj di uscire.
    Nella camera entrò l'ostetrico.  Il  principe  uscì  e  incontrata  la
    sorella,   le   si   avvicinò.   Cominciarono   a   parlare  sottovoce
    interrompendosi ogni momento. Attendevano e ascoltavano.
    -  "Allez,  mon  ami!"  [28.  Andate,   amico  mio!]    -    disse  la
    principessina Màrija.
    Il  principe  Andréj  rientrò  nell'appartamento  della  moglie  e  si
    sedette,  per aspettare,  in una stanza attigua alla camera da  letto.
    Una donna ne uscì con aria sgomenta e si turbò nel vedere il principe.
    Egli  si  coprì  il  viso con le mani e rimase così per alcuni minuti.
    Dalla   camera   vicina   giungevano   gemiti   dolorosi,   impotenti,
    animaleschi. Il principe Andréj si alzò, andò verso l'uscio e fece per
    aprirlo. Ma qualcuno lo teneva chiuso dall'interno.
    - Non si può! Non si può!  -  gridò una voce spaventata.
    Egli si mise a camminare per la stanza.  I gridi cessarono e trascorse
    ancora qualche minuto. Poi, a un tratto un urlo terribile, un urlo che
    non era suo (ella non  poteva  gridare  così)  si  levò  nella  camera
    attigua. Il principe Andréj si precipitò verso l'uscio; l'urlo cessò e
    si udì il vagito di un bambino.
    "Perché  hanno  portato  di  là  un bambino?",  pensò per un attimo il
    principe. "Un bambino? Quale bambino? Che ci fa di là un bambino?".
    Quando,  tutto ad un tratto,  comprese il significato gioioso di  quel
    vagito,  le  lacrime  gli serrarono la gola;  si appoggiò al davanzale
    della finestra e si mise a piangere come un bimbo. L'uscio si aprì. Il
    dottore,  con le  maniche  della  camicia  rimboccate,  senza  giacca,
    pallido,  con la mascella che tremava,  uscì dalla stanza. Il principe
    Andréj si volse verso di lui,  ma il dottore  lo  guardò  smarrito  e,
    senza dire una parola,  gli passò davanti.  Dalla stanza uscì di nuovo
    un donna. Scorgendo il principe, si fermò perplessa sulla soglia. Egli
    entrò nella camera della moglie.
    Ella giaceva morta nella stessa posizione in cui egli  l'aveva  veduta
    cinque  minuti  prima,  e  la stessa espressione,  malgrado la fissità
    degli occhi e il pallore delle  guance,  era  su  quel  viso  grazioso
    infantile, dal labbro superiore ombreggiato dalla lieve peluria scura.
    "Io vi amo tutti,  non ho fatto del male a nessuno,  e voi che cosa mi
    avete fatto?",  sembrava dire quel visetto grazioso,  triste  e  senza
    vita.
    In  un  angolo  della  camera  una cosa piccola e rossa strillò tra le
    bianche mani tremanti di Màrija Bogdànovna.

    Due ore dopo,  il principe Andréj entrò  lentamente  nella  stanza  da
    lavoro del padre.  Il vecchio sapeva già tutto.  Stava in piedi presso
    la porta e non appena questa si aprì,  gettò al collo  del  figlio  le
    magre braccia di vecchio, dure come tenaglie, e si mise a singhiozzare
    come un bambino.

    Tre  giorni dopo si fecero i funerali della piccola principessa,  e il
    principe Andréj,  per  darle  l'ultimo  saluto,  salì  i  gradini  del
    catafalco.  Anche nella bara il viso di lei,  sebbene avesse gli occhi
    chiusi,  pareva ancora dire: "Ah,  che cosa avete fatto di me!"  e  il
    principe  sentì  che  nella  sua anima qualcosa si spezzava,  sentì di
    essere colpevole di una colpa  che  non  avrebbe  potuto  riparare  né
    dimenticare.  E  non  riusciva a piangere.  Venne anche il vecchio che
    baciò una delle  piccole  mani  ceree  e  immote  che  posavano  l'una
    sull'altra,  e  anche  a  lui quel visetto pareva dire: "Ah,  che cosa
    avete fatto di me!". E il vecchio,  alla vista di quel viso,  si voltò
    in là, corrucciato.

    Trascorsi  cinque  giorni,  fu  battezzato il piccolo principe Nikolàj
    Andréevic'.  La nutrice con il mento teneva sollevate le fasce  mentre
    il  prete con una penna d'oca ungeva le piccole palme rosse e grinzose
    e le piante dei minuscoli piedini.
    Il nonno,  che era il padrino,  temendo  di  lasciarlo  cadere,  portò
    tremando  il neonato accanto al fonte battesimale di latta ammaccata e
    lo consegnò subito alla madrina, la principessina Màrija.  Il principe
    Andréj, che si sentiva mancare dalla paura che lasciassero affogare il
    piccino,  stava seduto in un'altra stanza, in attesa che il rito fosse
    finito. Quando la bambinaia gli portò il figliuoletto,  egli lo guardò
    con  gioia  commossa  e  chinò  il  capo quando essa lo informò che il
    pezzetto di cera che avevano gettato nell'acqua con alcuni capelli del
    bimbo non era affondato, ma era rimasto a galleggiare sulla superficie
    del fonte battesimale.


    CAPITOLO 10.

    La partecipazione di Rostòv al duello  di  Dòlochov  con  Bezuchov  fu
    messa  a tacere per cura del vecchio conte e Rostòv,  invece di essere
    degradato come si aspettava,  fu nominato aiutante presso il  generale
    governatore di Mosca. Di conseguenza egli non poté recarsi in campagna
    con  la sua famiglia ma fu costretto,  per attendere ai doveri del suo
    nuovo ufficio, a trascorrere l'estate in città.  Dòlochov si ristabilì
    e  Rostòv  divenne  più  che  mai  suo  amico,  soprattutto durante la
    convalescenza.  Dòlochov era curato in casa della madre che  lo  amava
    con  appassionata tenerezza.  La vecchia Màrija Ivànovna,  la quale si
    era affezionata a Rostòv per l'amicizia che lo legava  al  suo  Fédja,
    gli parlava spesso del figlio.
    -  Sì,  conte,  egli  ha un'anima troppo nobile e pura  -  diceva  per
    questo mondo di oggi così corrotto. Nessuno ama più la virtù,  essa dà
    fastidio  a  tutti...  Ditemi  voi,  conte: vi pare che Bezuchov abbia
    agito in modo giusto e onesto?  Il mio Fédja che ha un carattere  così
    generoso, gli voleva bene e anche adesso non dice nulla contro di lui.
    A  Pietroburgo  quello  scherzo al poliziotto,  quella birichinata con
    l'orso l'avevano fatta insieme no? Ebbene,  Bezuchov non ne ebbe alcun
    danno,  Fédja solo ne subì le conseguenze...  E' vero che poi lo hanno
    reintegrato nel grado,  ma come avrebbero potuto non farlo?  Io  credo
    che laggiù alla guerra non fossero molti i figli della patria valorosi
    come Fédja!  E ora questo duello! Ma dove ha il senso dell'onore certa
    gente? Sfidarlo a duello, pur sapendo che è figlio unico,  e sparargli
    addosso,  così!  Per fortuna, Dio ci ha fatto la grazia. E perché poi?
    Chi, all'epoca presente,  non ha qualche relazione?  Che farci se quel
    Bezuchov è così geloso?  Capisco che prima potesse avere dei sospetti,
    ma la cosa durava già da un anno!...  E lo sfidò a duello pensando che
    Fédja  non si sarebbe battuto perché era suo debitore.  Quale bassezza
    d'animo, quale infamia! So che voi, mio caro conte, avete capito Fédja
    ed è perciò che vi voglio bene  con  tutta  l'anima,  credetemi.  Sono
    pochi  quelli  che  lo  capiscono.   E'  un'anima  così  nobile,  così
    celestiale!
    Spesso lo stesso Dòlochov,  durante la convalescenza,  diceva a Rostòv
    delle cose che questi non si sarebbe mai aspettate da lui.
    - So che molti mi considerano cattivo, lo so benissimo  -  gli diceva.
    -    Ma  a  me  non  interessano  se  non le persone alle quali voglio
    veramente bene: e per le persone alle  quali  voglio  veramente  bene,
    sono pronto a sacrificare la vita.  Quanto alle altre,  le calpesterei
    tutte, se mi attraversassero la strada. Ho una madre straordinaria che
    adoro,  ho due o tre amici,  tra i quali ci sei  tu;  degli  altri  mi
    occupo soltanto quando possono essermi utili o dannosi.  E quasi tutti
    sono dannosi, specialmente le donne. Sì,  mio caro,   -  proseguiva  -
    ho incontrato degli uomini affettuosi,  buoni, di cuore generoso... ma
    quanto alle donne, all'infuori di creature che si vendono,  contesse o
    cuoche  (è  lo stesso caso),  non ne ho ancora incontrata una.  Non ho
    ancora mai incontrato quella purezza  celeste,  quella  devozione  che
    cerco in una donna. Se ne trovassi una dotata di simili qualità, sarei
    pronto a dare per lei la vita.  Ma queste!...  -  E faceva un segno di
    disprezzo.   -  Credimi: se ho ancora cara la vita è  soltanto  perché
    spero  di  incontrare  la  creatura  divina  che  mi possa purificare,
    rigenerare, redimere. Ma tu non puoi capire queste cose...
    - No,  le  capisco  benissimo    -    rispondeva  Rostòv,  che  subiva
    l'influenza del suo nuovo amico.

    Nell'autunno, la famiglia Rostòv rientrò a Mosca. Denissov vi tornò al
    principio  dell'inverno  e  fu  ospite  dei  Rostòv.  Quei  primi mesi
    dell'inverno 1806,  trascorsi da Nikolàj Rostòv a Mosca,  furono tra i
    più  felici  e più lieti per lui e per tutta la sua famiglia.  Nikolàj
    attirò in casa dei genitori molti giovani. Vera, allora sui vent'anni,
    era una bella ragazza;  Sònja,  giovinetta sedicenne,  aveva tutto  lo
    splendore  affascinante  di  un fiore appena sbocciato;  Natascia,  né
    donna né bimba,  era talora infantilmente buffa,  talora verginalmente
    affascinante.
    In  casa  dei  Rostòv  si  era  creata  in  quel tempo una particolare
    atmosfera satura di amore,  come avviene  nelle  case  in  cui  vivono
    ragazze  molto  giovani  e  graziose.  Ogni giovanotto che frequentava
    quella casa,  contemplando quei visetti freschi,  sorridenti chi sa  a
    che cosa (forse alla propria felicità),  quel continuo movimento pieno
    di vita,  ascoltando quel chiacchierio incoerente ma affettuoso  verso
    tutti,  pronto  a  qualsiasi  cosa e pieno di speranza,  udendo quella
    mescolanza di suoni, di canti, di musica, provava lo stesso sentimento
    di inclinazione all'amore e di attesa della felicità  quale  provavano
    tutti i giovani di casa Rostòv.
    Tra  i  giovani  introdotti  in  casa  da  Nikolàj,  uno  dei primi fu
    Dòlochov, che riuscì simpatico a tutta la famiglia fuorché a Natascia.
    Proprio per causa di Dòlochov poco mancò che ella non litigasse con il
    fratello.  La fanciulla sosteneva che Dòlochov era un uomo  cattivo  e
    che nella questione con Bezuchov la ragione era dalla parte di Pierre,
    mentre  l'altro  aveva  torto  e  insisteva nel definirlo antipatico e
    pretenzioso.
    -  Non  ho  proprio  niente  da  capire    -    gridava  Natascia  con
    ostinazione;  -  è un uomo cattivo e senza cuore. Mi piace, invece, il
    tuo Denissov...  Scapestrato,  gaudente, tutto quello che vuoi, eppure
    mi piace.  Dunque,  come vedi,  io capisco.  Non so come spiegarmi: in
    Dòlochov  è  tutto  calcolato,  cosa  che proprio non mi va,  Denissov
    invece...
    - Be',  Denissov è tutt'altra cosa   -    ribatteva  Nikolàj,  facendo
    comprendere  che,  secondo  lui,  Denissov  paragonato  a Dòlochov non
    contava nulla.   -  Bisogna capire che anima  è  quella  di  Dòlochov,
    bisogna vederlo con sua madre per conoscerne il cuore!
    -  Di  questo non posso saper nulla...  so però che con lui mi sento a
    disagio. Ti sei accorto che è innamorato di Sònja?
    - Che sciocchezze!
    - Ne sono certa, vedrai...
    La previsione di Natascia si avverò.  Dòlochov,  che pure non amava la
    compagnia delle signore, cominciò a recarsi spesso in casa Rostòv e il
    motivo  per  cui appariva così spesso (quantunque nessuno ne parlasse)
    fu presto capito: egli veniva per  Sònja.  E  Sònja,  senza  osare  di
    confessarlo a se stessa, lo sapeva e, ogni volta che Dòlochov entrava,
    diventava tutta rossa.
    Il  giovanotto  pranzava spesso in casa Rostòv,  non mancava mai a uno
    spettacolo  dove  sapeva  di  trovarli,   partecipava  ai  balli   per
    adolescenti  organizzati  dal  maestro  di  ballo  Jogel  che i Rostòv
    frequentavano assiduamente. Aveva per Sònja premure particolari,  e la
    guardava  in  modo tale che non solo la fanciulla non poteva sostenere
    il suo sguardo senza arrossire,  ma  che  faceva  arrossire  anche  la
    vecchia contessa e Natascia quando la osservavano.
    Si  capiva  che  quell'uomo,   forte  e  strano,   subiva  l'influenza
    invincibile suscitata su di lui da quella  ragazza  bruna  e  graziosa
    innamorata di un altro uomo.
    Rostòv  si  era  accorto  che  fra  Dòlochov e Sònja c'era qualcosa di
    nuovo,  ma non sapeva spiegare a se stesso di che si trattasse.  "Sono
    sempre  tutti  innamorati  di una di loro,  o di Sònja o di Natascia",
    pensava.  Ma non si sentiva più a suo agio come prima,  sia con  Sònja
    sia con Dòlochov, e cominciò a rimanere meno spesso in casa.
    Sin  dall'autunno  1808  si  era  ricominciato  a parlare di una nuova
    guerra con Napoleone,  con assai più calore dell'anno precedente.  Non
    solo  era  stato  stabilito l'arruolamento di dieci reclute ogni mille
    abitanti,  ma anche quella di nove riservisti.  Dappertutto si gettava
    l'anatema su Bonaparte e a Mosca ormai non si parlava che della guerra
    imminente.   Per   la   famiglia  Rostòv  tutto  l'interesse  di  quei
    preparativi di guerra si riassumeva soltanto nel fatto che Nikolàj non
    intendeva a nessun costo rimanere a Mosca e non aspettava che la  fine
    della  licenza di Denissov per tornare con lui,  passate le feste,  al
    reggimento.  La sua prossima partenza non solo  non  gli  impediva  di
    divertirsi, ma lo incoraggiava a farlo. Trascorreva quasi tutto il suo
    tempo fuori di casa, in pranzi, serate e balli.


    CAPITOLO 11.

    Il  terzo giorno delle feste di Natale,  Nikolàj pranzò in casa,  cosa
    che negli ultimi tempi gli accadeva  assai  di  rado.  Era  il  pranzo
    ufficiale  di  addio,  poiché  dopo  l'Epifania  sarebbe  rientrato al
    reggimento con Denissov.  Gli invitati erano una ventina: tra di essi,
    naturalmente, Denissov e Dòlochov.
    Mai  in  casa  Rostòv  si era avvertita un'atmosfera così intensamente
    satura di amore come in quei giorni di festa.  "Cogli  gli  attimi  di
    felicità,  lasciati amare e ama! Questa è la sola verità del mondo: il
    resto è sciocchezza.  E questo solo ci interessa e ci occupa",  diceva
    quell'atmosfera.
    Nikolàj,  dopo  avere  come  sempre stancato due pariglie senza essere
    riuscito a fare tutte le visite che si era proposto e a  recarsi  dove
    era stato invitato, ritornò a casa giusto per l'ora del pranzo. Appena
    entrato, avvertì quell'atmosfera amorosa che regnava più che mai nella
    casa  e  notò  anche  uno strano turbamento che dominava alcuni membri
    della famiglia. Agitati in modo particolare erano Sònja, Dòlochov,  la
    vecchia  contessa e un poco anche Natascia.  Nikolàj si rese conto che
    doveva essere accaduto  qualcosa  tra  Sònja  e  Dòlochov  e,  con  la
    delicatezza  di  cuore  che  lo distingueva sempre,  si dimostrò molto
    affettuoso e attento nel trattare entrambi,  dal principio  alla  fine
    del pranzo.  In quella stessa terza sera dopo Natale doveva aver luogo
    in casa del maestro di danza Jogel uno di quei balli che egli  offriva
    ai suoi allievi di ambo i sessi durante le feste.
    - Nikòlenka,  verrai da Jogel con noi?  Vieni,  ti prego  -  gli disse
    Natascia.   -  Egli ti ha invitato in modo particolare e ci sarà anche
    Vassilij Dmitric' Denissov.
    - E dove non andrei, per ordine della contessina!  -  esclamò Denissov
    che in casa Rostòv si era scherzosamente assunto la parte di cavaliere
    di Natascia.  -  Sono persino pronto a ballare il "pas de châle" (29).
    - Se farò in tempo. Ho promesso di passare la serata dagli Archarov  -
    disse Nikolàj.  -  E tu?   -  proseguì, rivolgendosi a Dòlochov.
    Ma,  non appena ebbe pronunziato quelle parole,  si rese conto che non
    avrebbe dovuto dirle.
    - Sì,  forse...   -  gli rispose Dòlochov molto freddamente  guardando
    Sònja e, aggrottata la fronte, fissò Nikolàj con lo stesso sguardo con
    cui, al banchetto del circolo, aveva guardato Pierre.
    "Certo, è accaduto qualcosa!", pensò Nikolàj, e questa supposizione fu
    confermata  dal  fatto  che  Dòlochov scomparve immediatamente dopo il
    pranzo. Chiamata Natascia, Rostòv le domandò che cosa fosse accaduto.
    - Anch'io ti cercavo   -    disse  la  fanciulla,  correndo  verso  il
    fratello.   -  Te lo dicevo, ma tu non mi volevi credere!  -  aggiunse
    con aria di trionfo.  -  Ha chiesto la mano di Sònja.
    Per quanto Nikolàj  in  quel  periodo  si  occupasse  poco  di  Sònja,
    all'udir quella notizia,  provò una stretta al cuore.  Dòlochov era un
    partito conveniente e sotto certi aspetti  un  partito  brillante  per
    Sònja,  orfana e senza dote. Dal punto di vista della vecchia contessa
    e del mondo era un partito che non poteva essere rifiutato e perciò il
    primo sentimento di Nikolàj fu di stizza contro  Sònja.  Si  preparava
    già a rispondere: "Benissimo!  Le promesse infantili,  si sa,  bisogna
    dimenticarle e si deve accettare la proposta...". Ma non fece in tempo
    a dirlo.
    - Figurati che Sònja ha rifiutato,  nel modo più deciso!   -  proseguì
    Natascia.   -   Ha detto che è innamorata di un altro  aggiunse,  dopo
    un breve silenzio.
    "Non poteva comportarsi diversamente, la mia Sònja!" pensò Nikolàj.
    - Per quanto la mamma abbia insistito,  essa ha rifiutato e sono certa
    che non cambierà idea. Quando ha detto una cosa...
    - La mamma ha insistito?  -  domandò Nikolàj, contrariato.
    - Sì  -  rispose Natascia.   -  Tu sai benissimo,  Nikòlinka... ma non
    ti arrabbiare... sai benissimo che non la sposerai. Non so perché,  ma
    sono sicura che non la sposerai.
    -  Be',  questo  non  lo  puoi sapere  -  disse Nikolàj.   -  Ma io ho
    bisogno di parlare con lei. Che deliziosa creatura la nostra Sònja!  -
    aggiunse sorridendo.
    - Sì,  veramente deliziosa!  Te la mando!   -  E Natascia abbracciò il
    fratello e corse via.
    Poco dopo,  smarrita, spaventata, con un'aria colpevole, arrivò Sònja.
    Nikolàj le andò incontro e le baciò la mano.  Era la prima  volta,  da
    quando Rostòv era arrivato, che parlavano a tu per tu del loro amore.
    - "Sophie"  -  diss'egli,  cominciando con timidezza e poi prendendo a
    poco a poco ardire.   -  Se voi volete rifiutare non solo  un  partito
    brillante e vantaggioso,  ma anche un uomo buono, dall'animo generoso,
    un amico mio...
    Sònja lo interruppe.
    - L'ho già rifiutato  -  disse in fretta.
    - Se l'avete rifiutato per causa mia, temo che su di me...
    Sònja lo interruppe di nuovo e gli  rivolse  uno  sguardo  implorante,
    come sgomenta.
    - Nicolas, non ditemi questo'
    - No.  devo dirlo.  Forse è presunzione da parte mia, ma è meglio dire
    tutto. Se voi lo rifiutate per me,  devo dirvi tutta la verità.  Io vi
    amo, credo, più di ogni altra persona al mondo...
    - Questo mi basta  -  rispose Sònja, arrossendo.
    -  Già,  ma  io non sono innamorato e mi innamorerò ancora migliaia di
    volte,  anche se il sentimento di amicizia,  di tenerezza,  di fiducia
    che  ho  per voi non lo provi per nessun'altra.  E poi,  sono giovane.
    "Maman" non vuole.  Insomma,  non  vi  prometto  nulla.  Vi  prego  di
    riflettere  sulla proposta di Dòlochov  -  concluse,  pronunziando con
    sforzo il nome dell'amico.
    - Non mi parlate così! Io non voglio nulla... Vi amo come un fratello,
    vi amerò sempre e non chiedo di più.
    - Siete un angelo, Sònja, e io non sono degno di voi! Temo soltanto di
    ingannarvi...
    E ancora una volta le baciò la mano.


    CAPITOLO 12.

    I balli del maestro Jogel erano i più divertenti di Mosca. Lo dicevano
    le mamme guardando le loro figliuole che  eseguivano  i  passi  appena
    imparati;  lo  dicevano  i ragazzi e le fanciulle che ballavano sino a
    non poterne più e lo dicevano anche le signorine e  i  giovanotti  che
    venivano  a quei balli con una certa condiscendenza,  ma che poi ci si
    divertivano un mondo. Quell'anno,  proprio durante i balli di Jogel si
    erano combinati due matrimoni: le due graziose principessine Gorciakòv
    avevano  trovato  il  fidanzato  e  si erano sposate e con ciò avevano
    accresciuto la reputazione di quei balli. C'era poi, in quei balli, un
    fatto particolare: l'assenza tanto di una padrona quanto di un padrone
    di casa; c'era soltanto il buon Jogel, il quale volava come una piuma,
    faceva inchini secondo tutte le regole dell'arte e prendeva dei  buoni
    biglietti  per le lezioni che impartiva ai suoi ospiti.  E c'era anche
    un altro particolare: a quei balli andava soltanto chi aveva veramente
    voglia di divertirsi e di ballare, come accade appunto alle ragazze di
    tredici o quattordici anni che indossano, per la prima volta,  l'abito
    lungo.  Tutte,  salvo  poche  eccezioni,  erano o sembravano graziose,
    tanto vivo era l'entusiasmo dei loro sorrisi e tanto raggianti erano i
    loro occhi.  Qualche volta le migliori allieve ballavano  il  "pas  de
    châle",  e fra queste la più brava era Natascia che si distingueva per
    la sua grazia.  Ma a  quest'ultimo  ballo  si  ballavano  soltanto  la
    "scozzese", l'"inglese" e la "mazurca", appena venuta di moda. La sala
    era stata affittata da Jogel nella casa di Bezuchov,  e la festa, come
    tutti dicevano,  era veramente brillante.  Erano  presenti  moltissime
    graziose fanciulle e le signorine Rostòv, che erano tra le più carine,
    avevano l'aria particolarmente felice.  Quella sera Sònja,  orgogliosa
    per  la  domanda  di  Dòlochov,  per  il  proprio  rifiuto  e  per  la
    spiegazione  avuta  con Nikolàj,  aveva cominciato a piroettare quando
    ancora si trovava a casa,  impedendo alla cameriera di accomodarle  le
    trecce e ora splendeva tutta di una esuberante felicità.
    Natascia,  non meno fiera per il fatto di indossare per la prima volta
    un abito lungo in un vero e proprio  ballo,  era  ancora  più  felice.
    Indossavano  entrambe  abiti  di  mussola  bianca guarnita di nastrini
    rosa.
    Natascia fu  innamorata  dal  primo  momento  che  entrò  nella  sala:
    innamorata non già di qualcuno in particolare, ma innamorata di tutti,
    innamorata  di  chiunque  guardasse  nel  momento  stesso  in  cui  lo
    guardava.
    - Ah, che bellezza!  -  continuava a dire, correndo da Sònja.
    Nikolàj e Denissov passeggiavano per la sala guardando i ballerini con
    un'aria di condiscendente protezione.
    - Com'è graziosa  -    esclamò  Denissov.    -    Diventerà  una  vera
    bellezza.
    - Chi ?
    - La contessina Natascia  -  rispose Denissov.   -  E come balla,  con
    quanta grazia!  -  aggiunse dopo un breve silenzio.
    - Ma di chi stai parlando?
    - Di tua sorella  -  gridò Denissov, irritato.
    Rostòv sorrise.
    - "Mon cher comte,  vous êtes l'un de mes meilleurs écoliers,  il faut
    que  vous dansiez"  -  disse il piccolo Jogel avvicinandosi a Nikolàj.
    -  "Voyez combien de jolies demoiselles!" [30.  Mio  caro  conte,  voi
    siete uno dei miei migliori allievi,  dovete ballare.  Guardate quante
    belle signorine!]  -  E con la stessa preghiera si rivolse a Denissov,
    anch'egli suo ex-alunno.
    - "Non,  mon cher,  je ferai tapisserie" [31.  No,  mio caro,  farò da
    tappezzeria]  -  rispose Denissov.   -  Non ricordate, forse, che poco
    profitto traevo dalle vostre lezioni?
    - Oh no!  -  esclamò subito Jogel, confortandolo.  -  Eravate soltanto
    distratto, ma avevate disposizione.
    L'orchestra attaccò di  nuovo  una  "mazurca".  Nikolàj,  non  potendo
    esimersi  dall'accontentare  Jogel,  andò ad invitare Sònja.  Denissov
    andò a  sedersi  accanto  alle  signore  anziane  e,  appoggiato  alla
    sciabola,  batteva  il  tempo  e  intanto raccontava loro allegramente
    qualcosa che le divertiva,  mentre continuava a guardare  la  gioventù
    che  ballava.  Jogel  formava  la  prima  coppia con Natascia,  la sua
    migliore  allieva,  della  quale  era  veramente  orgoglioso.  Movendo
    dolcemente  i  piedi  calzati di scarpini,  Jogel si slanciò per primo
    attraverso la sala traendo con sé l'intimidita Natascia.  Denissov non
    distoglieva  gli  occhi da lei e batteva il tempo con la sciabola come
    per dire ben chiaro che non ballava non perché non sapesse,  ma perché
    non  ne  aveva  voglia.  A mezzo di una figura,  chiamò Rostòv che gli
    passava davanti.
    - E' tutta un'altra cosa  -  disse.  -  Forse che questa è la "mazurca
    polacca"? Balla davvero molto bene.
    Sapendo che anche in Polonia Denissov era rinomato per  l'abilità  con
    cui ballava la "mazurca polacca", Nikolàj corse da Natascia.
    - Va'  a invitare Denissov. Balla che è una meraviglia  -  le disse.
    Allorché fu di nuovo il turno di Natascia,  essa si alzò e, camminando
    rapida nelle scarpette ornate di fiocchi,  timidamente  attraversò  le
    sale  e corse all'angolo in cui sedeva Denissov.  Sentiva che tutti la
    osservavano e  aspettavano.  Nikolàj  vide  che  Natascia  e  Denissov
    discutevano  sorridendo  e  che  Denissov  rifiutava,  ma sorrideva di
    gioia. Accorse accanto a loro.
    - Vi prego,  Vassilij Dmitric'  -  diceva la fanciulla.   -    Suvvia,
    venite!
    - No, contessina, scusate...  -  rispondeva Denissov.
    - Ma smettila Vàssja  -  intervenne Nikolàj.
    -  Cercano  di  persuadermi  come  se  fossi  il gatto Vaska  -  disse
    scherzosamente Denissov.
    - Canterò tutta la sera per voi  -  promise Natascia.
    - Questa piccola maga fa di me quello che vuole!  -  disse Denissov, e
    si sfibbiò la sciabola.  Passò in mezzo alle sedie,  strinse con forza
    la  mano  della  sua dama,  alzò la testa e mise avanti una gamba,  in
    attesa di attaccare al momento giusto. Soltanto quando era a cavallo e
    quando ballava la "mazurca"  non  si  notava  la  piccola  statura  di
    Denissov,  che  appariva  allora  quel  baldanzoso  cavaliere che egli
    sentiva di essere. Colta la battuta,  lanciò alla sua dama uno sguardo
    scherzoso e trionfante,  batté con forza un piede a terra,  balzò come
    una  palla  sul  pavimento  e  traendosi  dietro  la  dama   volteggiò
    disegnando  un  cerchio.  Su  un  solo  piede,  quasi senza toccare il
    pavimento,  percorse mezza sala;  pareva che non vedesse le sedie  che
    gli  stavano  davanti,  e  andasse  diritto a sbattervi contro;  ma di
    colpo, facendo risuonare gli speroni e allargando i piedi,  si fermava
    sui tacchi,  restava così immobile per un attimo,  batteva i piedi sul
    posto con gran  tintinnio  di  speroni  e  con  una  rapida  piroetta,
    accostando il piede sinistro al destro,  si slanciava di nuovo come se
    volasse.  Natascia indovinava i movimenti che egli intendeva  fare  e,
    senza  sapere  come,  lo  seguiva,  abbandonandosi  a  lui.  La faceva
    volteggiare tenendola ora con la mano destra ora con la sinistra, ora,
    cadendo sulle ginocchia, la faceva girare attorno a sé;  poi di nuovo,
    scattando  in  piedi come spinto da una molla,  si slanciava in avanti
    con tale impeto da far pensare che avesse intenzione  di  attraversare
    tutte le sale senza riprendere fiato;  ora,  di colpo, eccolo di nuovo
    fermo ed eccolo di nuovo, inaspettatamente, in ginocchio. Quando egli,
    fatta volteggiare in fretta la dama davanti al suo  posto,  batté  gli
    speroni,  inchinandosi,  Natascia  non  gli  fece  nemmeno  la  dovuta
    riverenza.  Con stupore fissava su di lui gli occhi e lo guardava come
    se non lo riconoscesse.
    - Che è mai questo?  -  disse.
    Benché Jogel non ammettesse che quella fosse la "vera" mazurca,  tutti
    furono entusiasti dell'abilità di Denissov e  tutte  le  ragazze,  una
    dopo l'altra, vollero ballare con lui. I vecchi, sorridendo, presero a
    parlare della Polonia e del buon tempo antico... Denissov, tutto rosso
    per  la foga della danza,  asciugandosi il viso con il fazzoletto,  si
    sedette accanto a Natascia e per tutta la serata non si allontanò  più
    da lei.


    CAPITOLO 13.

    Nei  due  giorni  che  seguirono il ballo,  Rostòv non riuscì a vedere
    Dòlochov e non lo trovò mai in casa;  al terzo  ricevette  da  lui  un
    biglietto.
    "Poiché per le ragioni che conosci, non intendo ritornare a casa tua e
    sto   per  partire,   ti  prego  di  venire  questa  sera  all'albergo
    d'Inghilterra dove offrirò agli amici una cena d'addio".
    Rostòv,  uscito alle dieci dal teatro dove si era recato con i suoi  e
    con Denissov,  si avviò all'albergo d'Inghilterra.  Fu subito condotto
    nella migliore sala dell'albergo prenotata da Dòlochov  per  tutta  la
    notte. Una ventina di persone si accalcavano attorno a una tavola alla
    quale,  tra  due candelieri d'oro,  sedeva Dòlochov.  Sul tavolo erano
    sparsi biglietti di banca e monete d'oro e Dòlochov teneva banco. Dopo
    la proposta di matrimonio e il rifiuto di Sònja,  Nikolàj non lo aveva
    più veduto e provava ora un certo imbarazzo pensando al loro incontro.
    Dòlochov,  non  appena Rostòv apparve sulla soglia,  lo avvolse con il
    suo sguardo freddo e luminoso, come se lo aspettasse da tempo.
    - E' un pezzo che non ci vediamo  -  disse.  -  Ti ringrazio di essere
    venuto.  Ora finisco questo "banco" e poi verrà  Iljuska  con  il  suo
    coro.
    - Sono passato da casa tua  -  disse Rostòv, arrossendo.
    Dòlochov non gli rispose.
    - Puoi puntare  -  disse.
    Rostòv  in  quel  momento  si  ricordò  di  una conversazione alquanto
    strana, avuta una volta con Dòlochov. "Soltanto gli imbecilli",  aveva
    detto allora, "giocano affidandosi alla fortuna".
    - Hai forse paura di giocare con me?   -  chiese ora Dòlochov, come se
    avesse indovinato il pensiero di Rostòv.  E sorrise.  Attraverso  quel
    sorriso Rostòv vide che la disposizione d'animo di Dòlochov era uguale
    a  quella  del  pranzo al circolo inglese,  quella in cui in genere si
    trovava quando, annoiato della vita di ogni giorno, sentiva il bisogno
    invincibile di evaderne con qualche  gesto  strano  e,  nella  maggior
    parte dei casi, crudele.
    Rostòv  si  sentì  a  disagio;  cercava,  senza  trovarla,  una  frase
    scherzosa per rispondere alle parole di Dòlochov,  ma non ne  ebbe  il
    tempo.   Dòlochov,  fissandolo  negli  occhi,  gli  disse  lentamente,
    scandendo le parole in modo che tutti potessero udirlo:
    - Ti ricordi?  Una volta abbiamo parlato  di  gioco...  "Soltanto  gli
    imbecilli  giocano  affidandosi  alla fortuna",  ti ho detto.  Bisogna
    puntare sul sicuro, e io voglio provare.
    "Vuole provare a caso o puntare sul sicuro?", penso Rostòv.
    - Ma è meglio che tu non giochi    -    continuò  Dòlochov  e  facendo
    schioccare il mazzo di carte, aggiunse:  -  Banco, signori!
    Spingendo  avanti  il  denaro,  Dòlochov  si  accingeva a tener banco.
    Rostòv si sedette accanto a lui e  dapprima  non  giocò.  Dòlochov  lo
    guardava.
    - Perché non giochi?  -  gli domandò.
    E,  cosa strana,  Nikolàj sentì la necessità di prendere una carta, di
    puntarvi sopra una somma insignificante e di cominciare a giocare.
    - Non ho denaro qui con me  -  rispose.
    - Ti farò credito.
    Rostòv puntò cinque rubli su una carta e perdette;  ripuntò e perdette
    ancora.  Dòlochov "ammazzò",  come si dice, ossia vinse a Rostòv dieci
    carte di seguito.
    - Signori,   -  disse,  dopo aver tenuto banco per  un  certo  tempovi
    prego  di  mettere  il denaro sulle carte: potrei sbagliare nel fare i
    conti.
    Uno dei giocatori osservò che sperava che di lui ci si potesse fidare.
    - Sì,  posso fidarmi,  ma temo di sbagliare.  Vi prego di  mettere  il
    denaro  sulle  carte    -    ripeté Dòlochov.   -  Tu gioca pure senza
    denaro, con te faremo i conti dopo  -  aggiunse rivolto a Rostòv.
    Il gioco continuava.  Un cameriere riempiva continuamente le coppe  di
    "champagne".
    Rostòv  perdeva senza tregua.  Era ormai in debito di ottocento rubli.
    Aveva già puntato questa somma su di una carta ma,  mentre gli  veniva
    versato "champagne", cambiò idea e vi scrisse la solita posta di venti
    rubli.
    -  Lascia  -  disse Dòlochov che pareva non lo guardasse neppure;-  ti
    rifarai più presto.  Agli altri pago,  a te ti "ammazzo".  O forse hai
    paura di me?  -  ripeté.
    Rostòv  obbedì,  lasciò  scritto "ottocento" e giocò un sette di cuori
    strappato in un angolo che aveva raccolto da terra.  Lo  ricordò  bene
    dopo.  Depose  il  sette  di  cuori,  sul  quale  scrisse con il gesso
    "ottocento"  in  cifre  tonde  e  diritte;   vuotò  il  bicchiere   di
    "champagne"  che  gli  era  stato  dato  e che non era già più fresco,
    sorrise alle parole di Dòlochov e,  con il cuore  stretto  aspettò  il
    sette,  guardando le mani dell'amico che tenevano il mazzo. La perdita
    o la vincita su quel sette di cuori  aveva  per  Rostòv  un'importanza
    enorme.   La  domenica  della  precedente  settimana,  il  conte  Iljà
    Andréevic' aveva dato al  figlio  duemila  rubli  e,  benché  evitasse
    sempre  di  parlare  di  difficoltà  finanziarie,  gli aveva detto che
    quella somma era l'ultima che poteva dargli fino a maggio e che perciò
    lo pregava di spenderla con un po' più di  parsimonia.  Nikolàj  aveva
    risposto  che quella somma era più che sufficiente e aveva dato la sua
    parola d'onore di non chiedergli altro denaro sino a primavera. Ora di
    quella somma gli restavano soltanto milleduecento rubli, e perciò quel
    sette di cuori significava non solo la perdita di tale somma, ma anche
    la necessità di mancare  alla  parola  data.  Con  il  cuore  stretto,
    fissava  le mani di Dòlochov e pensava: "Su,  spicciati,  dammi quella
    carta,  e io prendo il berretto e me ne  vado  a  casa  a  cenare  con
    Denissov,  Natascia  e  Sònja  e  certo  mai  più prenderò in mano una
    carta!". In quel momento la sua vita familiare, gli scherzi con Pétja,
    i discorsi con Sònja,  i duetti con Natascia,  le partite a  picchetto
    con  il  padre  e  persino  il  suo tranquillo letto nella casa di via
    Povàrskaja gli si presentavano alla mente con tanta  intensità,  tanta
    affascinante chiarezza come se costituissero una felicità passata, non
    abbastanza  apprezzata e perduta per sempre.  Non poteva ammettere che
    uno stupido caso, facendo venir fuori il sette di cuori a destra prima
    che a sinistra, potesse privarlo di quella felicità, che egli soltanto
    allora comprendeva in una luce tutta nuova, e precipitarlo nell'abisso
    di una sventura non  ancora  provata  e  indefinita.  Ciò  non  poteva
    accadere,  eppure  egli  attendeva  con il cuore oppresso il movimento
    delle mani di Dòlochov. Quelle mani larghe, rossastre, coperte di peli
    che si vedevano spuntare di sotto ai polsini, posarono sulla tavola il
    mazzo di carte e presero il bicchiere  e  la  pipa  che  gli  venivano
    offerti.
    - Sicché non hai paura di giocare con me?   -  ripeté Dòlochov e, come
    se si accingesse a raccontare una storia piacevole,  lasciò  le  carte
    sulla  tavola,  si  rovesciò  sulla  spalliera  della  sedia  e con un
    sorriso, cominciò lentamente a parlare:
    - Sì,  signori...  mi hanno detto che a Mosca corre voce che io sia un
    baro; perciò vi consiglio di essere prudenti con me.
    - Suvvia, da' le carte!  -  disse Rostòv.
    - Oh, le comari di Mosca!  -  esclamò Dòlochov, e con un sorriso prese
    in mano il mazzo di carte.
    - Aaah!   -  poco mancò non gridasse Rostòv,  mettendosi tutt'e due le
    mani nei capelli.  Il sette di cuori,  quel sette  che  gli  era  così
    necessario  era  già  lì,  era  la  prima carta del mazzo.  Egli aveva
    perduto una somma superiore a quella che potesse pagare.
    - Non esagerare,  via!   -  gli disse Dòlochov,  guardando di sfuggita
    l'amico e continuò a dare le carte.


    CAPITOLO 14.

    Dopo un'ora e mezzo,  la maggior parte dei giocatori considerava ormai
    il proprio gioco come uno scherzo.
    Tutto l'interesse della partita era concentrato su Rostòv.  Invece dei
    milleseicento  rubli era ora segnata a suo debito una lunga colonna di
    cifre che egli aveva calcolato sino a diecimila ma che, come vagamente
    supponeva,  doveva aver raggiunto i quindicimila rubli.  In realtà  il
    suo  debito  superava  i  ventimila.  Dòlochov  non  ascoltava  e  non
    raccontava più storielle,  seguiva ogni movimento delle mani di Rostòv
    e  di  tanto in tanto lanciava un rapido sguardo alle cifre segnate su
    un foglio. Aveva deciso di continuare il gioco sino a che la somma non
    avesse raggiunto i  quarantamila  rubli.  Aveva  scelto  quella  cifra
    perché  rappresentava  la  somma  dei  suoi anni e di quelli di Sònja.
    Rostòv stava seduto con la testa tra le mani  e  i  gomiti  appoggiati
    sulla  tavola,  coperta di iscrizioni,  di macchie di vino e di carte.
    Era  dominato  da  una  sensazione  tormentosa:  quelle  mani   ossute
    rossastre, con i peli che spuntavano di sotto i polsini della camicia,
    quelle  mani  che egli amava e odiava a un tempo,  lo tenevano in loro
    potere.
    "Seicento rubli,  un asso,  un doppio nove...  impossibile rifarsi!  E
    come mi sarei divertito a casa...  Un fante... no non può essere... Ma
    perché mi fa una cosa simile?",  pensava e ricordava Rostòv.  Di tanto
    in  tanto  faceva  una  grossa puntata,  ma Dòlochov non l'accettava e
    stabiliva lui stesso la posta. Nikolàj obbediva e ora pregava Dio come
    l'aveva pregato sul campo di battaglia  al  ponte  di  Amstetten,  ora
    immaginava  che la prima carta che gli capitasse fra le mani presa fra
    quelle spiegazzate e gettate sotto la tavola,  l'avrebbe salvato;  ora
    contava quanti erano gli alamari della sua giubba e pensava di puntare
    una somma pari a tutta la perdita su di una carta che avesse il valore
    di  quel  numero,  ora volgeva gli occhi sugli altri giocatori come in
    cerca di aiuto,  ora guardava il viso freddo di Dòlochov e cercava  di
    indovinare ciò che avveniva dentro di lui.
    "Eppure egli sa che cosa significa per me questa perdita! E' possibile
    che desideri la mia rovina? Era mio amico, gli volevo bene... Ma non è
    neppure colpa sua: che ci può fare se la fortuna è dalla sua parte?  E
    non ho colpa neppur io",  si diceva.  "Non ho fatto nulla di male.  Ho
    forse ucciso od offeso qualcuno,  ho desiderato il suo male?  E perché
    allora una così terribile disdetta? E quando è cominciata?  E' passato
    poco  tempo da quando mi sono avvicinato a questo tavolo con l'idea di
    vincere venti rubli, comperare alla mamma per il suo onomastico quella
    scatoletta e tornarmene a casa. Ed ero così felice, così libero,  così
    allegro! Non mi rendevo conto, allora, di quanto fossi felice! Quando,
    dunque,  è  finita  quella felicità e quando è cominciata questa nuova
    tremenda situazione? Com'è avvenuto questo mutamento?  Ero seduto qui,
    come ora,  a questo stesso posto,  a questo stesso tavolo, sceglievo e
    spingevo avanti in questo modo le carte e guardavo queste  abili  mani
    ossute.  Quando è accaduto e che cosa,  precisamente,  è accaduto?  Io
    sono sano,  sono sempre lo stesso e sempre seduto al  medesimo  posto.
    No, non è possibile! Certamente tutto finirà in nulla!".
    Era rosso,  sudato, sebbene nella stanza non facesse molto caldo. E la
    sua faccia era terribile e faceva  pena,  soprattutto  per  lo  sforzo
    inaudito cui si sottoponeva per mostrarsi tranquillo.
    Il  conto  raggiunse la cifra fatidica: quarantatremila rubli!  Rostòv
    aveva preparato la carta con l'angolo piegato per raddoppiare ciò  che
    l'altro  aveva  puntato,  quando  Dòlochov  picchiò con il mazzo sulla
    tavola,  lo mise in disparte e,  preso il gesso,  cominciò a  fare  un
    rapido calcolo delle somme perdute da Rostòv.
    - A cena, a cena! E' ora... E sono arrivati gli zingari!
    E  infatti  entravano  portando  una  ventata di freddo certi uomini e
    donne bruni, che discorrevano con il loro accento zingaresco.
    Nikolàj pensò che tutto era finito: tuttavia,  con voce  indifferente,
    disse:
    - Be',  non giochi più?  Stavo per puntare una carta buona...  -  come
    se più di ogni altra cosa lo interessasse il piacere del gioco.
    "Tutto è finito!  Sono perduto!  Adesso non mi resta che piantarmi una
    pallottola in fronte!", e intanto, con voce allegra, diceva:
    - Ancora una carta, via!
    -  Sta  bene   -  rispose Dòlochov che aveva finito il conto.   -  Sta
    bene: vada per ventun rubli!  -  disse,  fissando esattamente la cifra
    che  mancava  per  completare la somma di quarantatremila e,  preso il
    mazzo di carte,  si preparò a distribuirle.  Rostòv  piegò  docilmente
    l'angolo   e   invece  di  scrivere  seimila  come  intendeva,   segnò
    accuratamente ventuno.
    - Mi fa lo stesso  -  disse;   -  mi interessa soltanto sapere  se  mi
    "ammazzi" un'altra volta o se mi darai questo dieci.
    Dòlochov,  con aria seria,  cominciò a distribuire le carte.  Oh, come
    Rostòv odiava in quel momento quelle mani rossastre, dalle dita corte,
    con i peli che spuntavano di sotto il polsino della camicia e  che  lo
    tenevano in loro potere! Il dieci uscì.
    -  Conte,  mi  dovete  quarantatremila  rubli    -   disse Dòlochov e,
    stiracchiandosi, si alzò da dietro il tavolo.   -  Ci si stanca a star
    seduti per tanto tempo!  -  aggiunse.
    - Sì, sono stanco anch'io  -  disse Rostòv.
    Dòlochov,  come  per  ricordare  che  era  sconveniente  da  parte sua
    scherzare, lo interruppe.
    - Quando potrò riscuotere la somma, conte?
    Rostòv si fece rosso come il fuoco e con un cenno  pregò  Dòlochov  di
    passare in un'altra stanza.
    - Non posso pagare subito tutta la somma  -  gli disse.  -  Accetterai
    una cambiale.
    -  Senti,  Rostòv    -    rispose  Dòlochov,  sorridendo apertamente e
    guardandolo negli occhi.  -  Conosci anche tu il proverbio: "Felice in
    amore, sfortunato al gioco". Tua cugina è innamorata di te, lo so...
    "Oh,  è terribile sentirsi così in potere di quest'uomo" pensò Rostòv.
    Egli  sapeva  quale  colpo  avrebbe  inferto  al padre e alla madre la
    notizia della sua perdita al gioco,  capiva quale indicibile  felicità
    sarebbe  stato liberarsi da quell'angoscia e capiva anche che Dòlochov
    sapeva di essere in grado di liberarlo da quella vergogna  e  da  quel
    dolore,  eppure  voleva  ancora  giocare  con lui come il gatto con il
    topo.
    - Tua  cugina...    -    volle  riprendere  Dòlochov,  ma  Nikolàj  lo
    interruppe.
    - Mia cugina in questa faccenda non c'entra e non è il caso di parlare
    di lei!  -  gridò furente.
    - Allora, quando potrò riscuotere?  -  chiese Dòlochov.
    - Domani  -  rispose Rostòv, e uscì dalla stanza.


    CAPITOLO 15.

    Aver  detto  "domani"  con  tono convinto non era stato difficile,  ma
    tornare solo a casa,  rivedere le sorelle,  il fratello,  i  genitori,
    confessare tutto e chiedere del denaro al quale non aveva diritto dopo
    la parola d'onore che aveva dato, era una cosa veramente terribile!
    A  casa  non  erano  ancora  andati a dormire: i giovani,  tornati dal
    teatro, avevano cenato e si erano messi al pianoforte.  Appena entrato
    nel  salotto,  Nikolàj  si  sentì  avvolto da quella poetica e amorosa
    atmosfera che regnava quell'inverno nella sua casa, e che ora, dopo la
    domanda di matrimonio di Dòlochov e il ballo di Jogel,  pareva essersi
    fatta più densa,  come l'aria prima del temporale, attorno a Sònja e a
    Natascia.  Le due fanciulle,  nell'abito azzurro che avevano indossato
    per  andare a teatro,  erano graziosissime e,  consapevoli di esserlo,
    sedevano al pianoforte felici e sorridenti.  La vecchia  contessa,  in
    attesa del figlio e del marito,  faceva un "solitario" insieme con una
    vecchietta,  una nobile che abitava in casa loro.  Denissov,  con  gli
    occhi  scintillanti  e i capelli arruffati,  sedeva al clavicembalo e,
    toccando di tanto in tanto la tastiera con le sue dita grosse e corte,
    ne traeva qualche accordo mentre, strabuzzando gli occhi,  con la voce
    debole,  un  po'  rauca ma intonata,  canticchiava alcuni versi di sua
    composizione,  tratti dalla poesia  "La  maga",  per  i  quali  voleva
    trovare una musica adatta.

    O maga, dimmi tu qual forza
    mi attira a queste corde abbandonate;
    qual fuoco nel mio cuore hai tu acceso,
    qual fremito percorre le mie dita!

    Cantava con voce appassionata,  tenendo fisso su Natascia,  sgomenta e
    felice, lo sguardo dei suoi occhi neri di agata.
    - Bello! Magnifico!  -  esclamò la fanciulla.  -  Ancora una strofa  -
    pregò, senza accorgersi della presenza di Nikolàj.
    "Qui nulla è mutato", pensò Nikolàj,  gettando un'occhiata nel salotto
    attiguo, dove scorse Vera e la madre con la vecchietta.
    - Ah, ecco Nikòlenka!  -  esclamò Natascia, correndo verso di lui.
    - Papà è in casa?  -  domandò il giovane.
    -  Come  sono  contenta  che  tu sia venuto  -  disse Natascia,  senza
    rispondere alla domanda  del  fratello.    -    Ci  divertiamo  tanto!
    Vassilij Dmitric' è restato qui un altro giorno per me, lo sai?
    - No, papà non è ancora rientrato  -  intervenne Sònja.
    - Kokò,  sei tornato?  Vieni qui,  caro  -  chiamò la vecchia contessa
    dal salotto. Nikolàj si avvicinò alla madre, le baciò la mano, sedette
    in silenzio presso di lei,  osservando le sue mani che allineavano  le
    carte.  Dalla  sala  continuavano a giungere risate e voci allegre che
    cercavano di persuadere Natascia a fare qualche cosa.
    -  Suvvia, suvvia!   -  gridava Denissov.   -  Ora non potete più dire
    di no. Dovete cantarci la "barcarola". Ve ne supplico!
    La contessa si volse a guardare il figlio che continuava a tacere.
    - Che hai, Nikolàj?  -  chiese.
    - Io? nulla  -  rispose il giovane, come annoiato dalla stessa domanda
    tante volte ripetuta.  -  Papà ritarderà molto a rientrare?
    - Credo di no.
    "Qui  da  loro  tutto è come sempre.  Essi non sanno nulla!  Cosa devo
    fare?", si chiese Nikolàj, e tornò nella sala dov'era il clavicembalo.
    Sònja,  seduta davanti alla tastiera,  sonava il  preludio  di  quella
    "barcarola"  che  piaceva  tanto  a Denissov.  Natascia si preparava a
    cantare. Denissov guardava con occhi pieni di entusiasmo.
    Nikolàj prese a camminare avanti e indietro per la sala.
    "Che bel gusto farla cantare! Che cosa può cantare? Non c'è proprio di
    che stare allegri, qui!", pensava.
    Sònja prese il primo accordo del preludio.
    "Mio Dio,  sono un uomo finito,  un  uomo  disonorato!  Una  palla  in
    fronte,  ecco l'unica cosa che mi resta da fare.  Altro che cantare!",
    pensò. "Se me ne andassi? E dove? Ma sì, che cantino pure...  Che cosa
    importa".
    Con  aria  cupa Nikolàj,  continuando a camminare per la sala guardava
    Denissov e le ragazze, cercando di evitare i loro occhi.
    "Nikòlinka,  che cosa avete?",  gli chiesero gli occhi di Sònja.  Essa
    aveva subito capito che gli era accaduto qualche cosa.
    Nikolàj si voltò dall'altra parte.  Natascia,  con la sua sensibilità,
    aveva anch'essa avvertito lo stato d'animo del  fratello.  Se  ne  era
    accorta,  ma  in  quel  momento  era tanto allegra,  tanto lontana dal
    dolore, dalla tristezza e dalle recriminazioni che, come spesso accade
    ai giovani,  cercava a bella posta di ingannare  se  stessa.  "No,  mi
    sento  troppo  felice  adesso,  per  rovinare  la  mia  gioia  con  la
    partecipazione al dolore di un altro", si diceva. "No,  sono certa che
    mi sbaglio. Sarà anch'egli allegro come lo sono io".
    -  Incominciamo,  Sònja    -  disse,  e si fermò nel centro della sala
    dove, secondo lei,  la risonanza era migliore.  Con la testa alta,  le
    braccia abbandonate lungo la persona come fanno le ballerine, Natascia
    con  un  energico passo sulla punta dei piedi,  si fermò in mezzo alla
    sala.
    "Eccomi!",  sembrava  dire,  rispondendo  agli  sguardi  estasiati  di
    Denissov che non l'abbandonava un momento.
    "Ma  di che cosa si rallegra tanto?  ",  pensava Nikolàj osservando la
    sorella.  "Come mai non si annoia e non si vergogna?".  Natascia prese
    la prima nota,  la gola le si dilatò,  il petto si sollevò e gli occhi
    assunsero un'espressione seria.  In quel momento non pensava a nulla e
    a  nessuno  e  dalla  sua bocca sorridente uscì un canto,  uno di quei
    canti che ciascuno può eseguire nello stesso periodo di tempo e con le
    stesse pause ma che,  dopo avervi lasciati mille  volte  freddi,  alla
    millesima prima vi commuovono e poi vi fanno piangere.
    In  quell'inverno  per  la  prima  volta  Natascia  aveva cominciato a
    cantare seriamente, soprattutto perché Denissov si mostrava entusiasta
    della sua voce. Ormai non cantava più come una bambina: nel suo canto,
    cioè,  non c'era più quello sforzo comico  e  fanciullesco  di  prima;
    tuttavia  non  cantava ancora bene;  coloro che l'ascoltavano ed erano
    intenditori dicevano infatti: "Ha una bellissima voce,  ma non  ancora
    educata,  una  voce  che va coltivata e formata".  Ma lo dicevano,  di
    solito,  molto tempo dopo che la voce si era taciuta.  Mentre risonava
    quella  voce  non  ancora  educata,  in  cui si avvertivano il modo di
    respirare irregolare e i passaggi sforzati,  persino  gli  intenditori
    tacevano e ascoltavano con profondo godimento quella voce non educata,
    con  il  desiderio di sentirla ancora.  Nella voce della fanciulla una
    verginale purezza, una inconsapevolezza della propria forza, un timbro
    morbido e vellutato si fondevano a  tal  punto  con  le  manchevolezze
    dell'arte  canora  da  far  pensare che fosse impossibile poter mutare
    qualcosa in quella voce senza guastarla.
    "Ma che è mai questo?",  pensò Nikolàj,  udendola  e  spalancando  gli
    occhi dallo stupore.  "Che cosa è avvenuto in lei? Come mai oggi canta
    così?".
    E all'improvviso il mondo intero  si  concentrò  per  lui  nell'attesa
    della  nota  successiva  e  ogni cosa al mondo si divise in tre tempi:
    ""Oh, mio crudele affetto" (32)... Uno, due, tre...  "Oh,  mio crudele
    affetto"...  uno, due, tre... uno, due, tre...". "Oh, com'è stupida la
    vita", pensava Nikolàj. "Tutto questo, la mia sfortuna, e Dòlochov,  e
    i denari,  e la malvagità, e l'onore sono tutte sciocchezze... Ecco la
    realtà, la sola realtà... Su, Natascia, su cara! Su, colombella!  Come
    farà  a  prendere  il "si"?  L'ha preso!  Sia lodato Iddio!",  ed egli
    stesso, senza accorgersene, per dar forza a quel "si" prese la seconda
    nota alta nell'accordo di terza. "Mio Dio, com'è bello! E sono proprio
    stato io a prenderla? E con che precisione!", pensò.
    Oh,  come fremette quella nota di terza e come si commosse quello  che
    c'era  di meglio nell'animo di Rostòv!  E quel meglio era indipendente
    da tutto  e  superiore  a  tutto  quello  che  c'era  nel  mondo.  Che
    importanza  avevano  ormai  le perdite al gioco e Dòlochov e la parola
    d'onore!  Sciocchezze,  tutte sciocchezze!  Si può  uccidere,  si  può
    rubare ed essere ugualmente felici!


    CAPITOLO 16.

    Da  molto  tempo  Rostòv  non  aveva  provato,  ascoltando musica,  un
    godimento simile a quello che aveva provato quella sera. Ma non appena
    Natascia ebbe finito la sua "barcarola",  la realtà gli si affacciò di
    nuovo  alla  mente.  Senza  dire nulla,  uscì dal salotto e discese in
    camera sua.  Un quarto d'ora più tardi,  il vecchio conte,  allegro  e
    soddisfatto,   tornò  dal  circolo.  Nikolàj,  uditolo  rientrare,  lo
    raggiunse nel suo appartamento.
    - E allora,  ti sei divertito?   -  domandò Iljà Andréevic' sorridendo
    al  figlio  con  orgoglio  affettuoso.  Nikolàj  schiuse le labbra per
    rispondere "sì",  ma non poté e  poco  mancò  che  non  scoppiasse  in
    singhiozzi.  Il conte stava accendendosi la pipa, e non si accorse del
    turbamento del figlio.
    "E' inevitabile!", pensò Nikolàj per la prima e l'ultima volta. E a un
    tratto,  con un tono indifferente che lo fece apparire ignobile  a  se
    stesso,  come  se  chiedesse  la carrozza per fare una corsa in città,
    disse a suo padre:
    - Papà, sono venuto da voi per un affare. Stavo per dimenticarmene. Ho
    bisogno di denaro.
    - Lo vedi,  eh,  lo vedi?   -  rispose il padre che si trovava  in  un
    momento  di  particolare  buon umore.   -  Te l'avevo detto che non ti
    sarebbe bastato. Te ne occorre molto?
    - Moltissimo!  -  rispose Nikolàj arrossendo, con un sorriso stupido e
    indifferente che per lungo tempo,  poi,  non poté perdonarsi.   -   Ho
    perduto   un  po'  al  gioco...   molto...   moltissimo,   in  verità:
    quarantatremila rubli.
    - Cosa? E con chi? Tu scherzi!   -  gridò il conte,  a cui diventarono
    subitamente paonazzi il collo e la nuca, come accade ai vecchi.
    - Ho promesso di pagare domani  -  disse Nikolàj.
    -  Ah!    -    esclamò  il  vecchio  conte,  allargando  le  braccia e
    lasciandosi cadere senza forze sul divano.
    - Che farci?  Sono cose che accadono a tutti  -  disse il  figlio  con
    tono  audace  e  disinvolto,  mentre  in  cuor  suo  si considerava un
    vigliacco,  un mascalzone che per tutta la  vita  non  avrebbe  potuto
    espiare  la  sua  colpa.  Avrebbe  voluto baciare le mani a suo padre,
    chiedendo perdono in ginocchio e invece,  con quel tono  noncurante  e
    persino grossolano, raccontava ciò che gli era accaduto.
    Il  conte  Iljà  Andréevic'  abbassò gli occhi all'udire le parole del
    figlio e si mise in fretta a cercare un rimedio.
    - Sì, sì  -  proferì.  -  Ma sarà difficile,  temo,  difficile trovare
    da  chi  procurarseli...    -   E il conte,  guardando furtivamente il
    figlio, uscì dalla stanza...  Nikolàj,  che si era preparato a trovare
    resistenza, non si aspettava assolutamente l'atteggiamento del padre.
    -  Papà!  pa...  pà!   -  gli gridò dietro,  singhiozzando.   -  Papà,
    perdonatemi!  -  E,  afferrata la mano del vecchio conte,  vi premette
    le labbra e si mise a piangere.
    Mentre  si  svolgeva tra padre e figlio questa scena,  una spiegazione
    non meno importante avveniva tra la  contessa  e  Natascia  che  tutta
    agitata, era corsa dalla madre.
    - Mamma! Mamma! Mi ha fatto...
    - Che cosa ti ha fatto?
    - Mi ha fatto... mi ha fatto una proposta di matrimonio. Mamma, mamma!
    -  gridava la fanciulla.
    La  contessa  non credeva alle proprie orecchie.  Denissov aveva fatto
    una dichiarazione... A chi? A quella ragazzina,  alla piccola Natascia
    che da poco aveva smesso di giocare con la bambola e continuava ancora
    a studiare?
    -  Natascia,  smettila  di dire sciocchezze!   -  rispose la contessa,
    sperando che la figlia scherzasse.
    - Sciocchezze?  Ma io vi parlo seriamente  -  disse Natascia irritata.
    -    Sono  venuta  a  chiedervi  cosa devo fare e voi mi dite che sono
    sciocchezze...
    La contessa si strinse nelle spalle.
    - Se è vero che "monsieur"  Denissov  ti  ha  fatto  una  proposta  di
    matrimonio, digli che è uno stupido: ecco tutto.
    - No, non è uno stupido  -  rispose Natascia, seriamente offesa.
    - E allora,  cosa vuoi?  Voi adesso siete tutte innamorate. Ebbene, se
    sei innamorata di lui,  sposatelo,   -  rispose la  contessa,  con  un
    sorriso forzato  -  e Dio ti benedica!
    -  No,  mamma,  non  sono  innamorata  di  lui...  Credo di non essere
    innamorata di lui...
    - E allora, diglielo!
    - Mamma, siete in collera? Non inquietatevi, mamma cara!  Che colpa ne
    ho?
    - Nessuna colpa,  mia cara.  Se vuoi, vado a dirglielo io  -  disse la
    contessa, sorridendo.
    - No.  glielo dico io.  Soltanto insegnatemi come.  A voi riesce tutto
    facile...  Ma se aveste sentito come mi ha parlato!  Io so che lui non
    avrebbe voluto, ma quelle parole gli sono sfuggite...
    - A ogni modo, bisogna dirgli di no.
    - No, no! Ma fa tanta pena! E' così caro...
    - E allora accetta la sua proposta.  Sì,  è proprio ora che tu  prenda
    marito  -  disse la madre, irritata, in tono ironico.
    - No, mamma, mi fa tanta pena: non so come dirglielo.
    -  Ma  tu  non  hai  niente  da  dirgli,  gli  parlerò io  -  disse la
    contessa,  sdegnata per il fatto che Denissov avesse osato considerare
    quella piccola Natascia come una persona grande.
    - No,  no,  a nessun costo!  Gli parlerò io e voi starete ad ascoltare
    dietro la porta  -  e Natascia attraversò di corsa il salotto ed entrò
    nella sala dove,  seduto sulla stessa sedia davanti  al  clavicembalo,
    stava Denissov con la faccia nascosta tra le mani.  Al suono dei passi
    leggeri della fanciulla balzò in piedi.
    - Natalie!  -  esclamò, quasi correndole incontro.   -  Decidete della
    mia sorte: essa è nelle vostre mani.
    - Vassilij Dmitric', mi fate tanta pena! E voi siete tanto caro. Ma...
    non dovete... questo non può essere. E' così, ma io vi amerò sempre.
    Denissov  si  chinò  sulla  mano di lei ed ella udì dei suoni strani e
    incomprensibili, e lo baciò sulla testa nera arruffata e ricciuta.  In
    quel  momento si sentì il rapido frusciare degli abiti della contessa.
    Ella si avvicinò ai due giovani.
    - Vassilij Dmitric',  vi ringrazio dell'onore,   -  disse con una voce
    turbata ma che a Denissov parve severa  -  ma mia figlia è ancora così
    giovane  e  io pensavo che voi,  come amico di mio figlio,  vi sareste
    rivolto prima a me. In tal caso, non mi avreste messo in condizioni di
    opporvi un rifiuto.
    - Contessa...   -  rispose Denissov  con  gli  occhi  bassi  e  l'aria
    colpevole; fu lì lì per dire qualche altra cosa, ma si confuse.
    Natascia,  nel vederlo così abbattuto, non poté rimanere calma e prese
    a singhiozzare forte.
    - Contessa,  sono veramente molto colpevole verso di voi  -   proseguì
    Denissov  con  voce spezzata  -  ma sappiate che adoro vostra figlia e
    tutta la vostra famiglia e che darei due vite per...   -    Guardò  la
    contessa e,  visto il suo volto severo,  si affrettò a soggiungere:  -
    Allora addio,  contessa!   -  Le  baciò  la  mano  e,  senza  guardare
    Natascia, uscì a passi rapidi e decisi dalla stanza.
    Il  giorno  seguente  Rostòv  andò a salutare Denissov,  che non volle
    rimanere a Mosca  nemmeno  un  giorno  di  più.  Tutti  gli  amici  si
    accomiatarono da lui in un ritrovo di zingari, ed egli non ricordò più
    come  lo  avessero  fatto  salire  nella slitta e come fosse andato il
    viaggio fino alla terza stazione di posta.
    Dopo la partenza di Denissov,  in attesa del  denaro  che  il  vecchio
    conte non aveva potuto procurarsi tutto in una volta, Rostòv trascorse
    ancora  due  settimane  a  Mosca,  senza  uscire di casa e passando le
    giornate per lo più in camera delle signorine.
    Sònja era con lui più affettuosa e più devota che mai. Pareva volergli
    dimostrare che la perdita al gioco era stata quasi un'avventura eroica
    che glielo faceva amare ancora  di  più.  Ma  Nikolàj  si  considerava
    adesso indegno di lei.
    Egli  riempì  di versi e di pensieri gli album delle ragazze e,  senza
    salutare  nessuna  delle  molte  conoscenze,   dopo  aver   pagato   i
    quarantatremila rubli a Dòlochov e aver ritirato la ricevuta, verso la
    fine  di  novembre  partì  per  raggiungere  il  suo reggimento che si
    trovava già in Polonia.









    NOTE.

    N. 1. Calzature contadinesche, specie di ciocie, fatte quasi sempre di
    scorza di tiglio.
    N.   2.   Louis  Duport  (1782-1853),   maestro  di  ballo   parigino,
    trasferitosi a Pietroburgo nel 1803. Confronta anche Libro 2, Parte 5,
    capitolo 9.
    N.  3.  La  meraviglia di Natascia è sollecitata dal fatto che Vaska è
    solitamente un nomignolo utilizzato per indicare il gatto (come Miska,
    l'orso).
    N. 4. Fëdor Vassìlevic' Rastopcìn (1763-1826), già aiutante di campo e
    ministro degli esteri dello zar Paolo  Primo,  fu  dal  1812  al  1814
    generale governatore di Mosca.  Molti studiosi francesi e alcuni russi
    ritengono che sia stato lui ad appiccare deliberatamente l'incendio  a
    Mosca,  fatta  per  la  più parte di case di legno,  ma la questione è
    controversa.  Organizzò la difesa di Mosca consigliando la leva  delle
    milizie private ed emanando manifesti rimasti celebri, con cui cercava
    di mantenere alto il morale dei cittadini.
    N.  5.  Jurij  Vladimirovic'  Dolgorukov (1740-1830),  generale russo;
    comandante della piazza moscovita sotto Paolo Primo.
    N. 6. Pëtr Stepanovic' Valuev (1743-1814), celebre archeologo russo.
    N. 7. Andréj Ivànovic' Vjazemskij (1750-1807),  principe,  padre dello
    scrittore Pëtr Andréevic' Vjazemskij.
    N.  9. "Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo". Francois Marie
    Arouet Voltaire  (1694-1778),  scrittore  e  filosofo  francese,  ebbe
    ingegno  versatile  e  arguto  e  scrisse poesie,  tragedie,  romanzi,
    trattati. Assunto il ruolo di corifeo della scuola anticristiana sorta
    in Francia nel diciottesimo secolo,  coniò il motto "écraser l'infâme"
    (il cristianesimo) che fu di guida a tutta la sua attività, animata da
    un odio implacabile contro la Chiesa.
    N.  10.  Aleksàndr  Lvovic' Naryskin (1760-1826),  appartenente ad una
    famiglia nobile russa,  fu direttore dei teatri imperiali dal 1799  al
    1819.
    N.  11.  Aleksàndr  Andréevic' Beklesov (1745-1808): fu governatore di
    Mosca dal 1804 al 1806.
    N. 12. Questi versi sono di N. P. Nikolev (morto nel 1815), un poeta e
    drammaturgo che godette di una certa fama nel diciottesimo secolo come
    autore di opere comiche.
    N.  13.  La "polacca": "Ode per la presa di Izmail",  che è nota anche
    col  titolo  "Risuoni  il grido di vittoria" fu l'inno nazionale russo
    fino al 1833.  Il testo venne scritto da Gavriil  Romanåvic'  Derzavin
    (1743-1816),  devotissimo  a Caterina Seconda,  governatore di Olonec,
    segretario  dell'imperatrice,   e  ministro  della   giustizia   sotto
    Alessandro Primo.  La musica venne composta da Jozef Kozlowskij (1757-
    1831),  un compositore polacco-russo,  che  fu  ispettore  dei  teatri
    imperiali di Pietroburgo.
    N. 14. Pavel Ivànovic' Kutuzòv (1767-1829), rettore dell'università di
    Mosca nel 1810. Avversò Nikolàj Michàilovic' Karamzin (1766-1826).
    N. 15. Sokòlniki: parco di Mosca.
    N. 19. Maximilien Robespierre (1758-1794), avvocato e uomo politico di
    Arras, membro della convenzione, anima del comitato di salute pubblica
    con Marat, Hébert e Danton, dominò la Francia con il terrore, mandando
    a morte nemici e rivali. Perì sulla ghigliottina.
    N.  20.  Jean-Baptiste  Poquelin,  detto Molière (1622-1673),  celebre
    commediografo francese.  Dedicò la  sua  vita  al  teatro,  nel  quale
    eccelse anche come attore comico.
    N.  21.  La battuta è pronunciata da Geronte nell'atto 2,  scena 11 di
    "Le furberie di Scapino".
    N. 24. "Frühstück" significa, in tedesco, colazione.
    N. 27. Sottili e lunghe stecche di legno.
    N. 29. La danza dello scialle.
    N. 32. In italiano, nel testo.