Lev N. Tolstòj.
    GUERRA E PACE.


    LIBRO SECONDO.

    PARTE SECONDA.


    CAPITOLO 1.

    Dopo la spiegazione con la moglie, Pierre partì per Pietroburgo.  Alla
    stazione  di  posta  di  Torgëk,   sia  che  non  vi  fossero  cavalli
    disponibili,  sia che il mastro di  posta  non  gliene  volesse  dare,
    Pierre fu costretto ad attendere. Senza neppure spogliarsi, si distese
    sopra  un  divano  coperto  di  cuoio,  davanti  a una tavola rotonda,
    appoggiò sulla tavola i grossi piedi calzati di caldi stivali e rimase
    assorto nei propri pensieri.
    - Ordinate che vi si portino dentro le valigie?  Che vi si prepari  il
    letto o desiderate prendere il tè?  -  gli domandava il cameriere.
    Pierre  non  rispondeva  perché  non  udiva  e  non vedeva nulla.  Sin
    dall'ultima stazione di posta aveva continuato sempre a  pensare  allo
    stesso  argomento,  così  importante  per  lui  da non permettergli di
    prestar alcuna attenzione a ciò che gli avveniva attorno.  E non  solo
    gli  era  indifferente arrivare più presto o più tardi a Pietroburgo e
    di non aver in quella sosta forzata  un  posto  per  riposare;  ma,  a
    paragone dei pensieri che lo occupavano,  gli era persino indifferente
    trascorrere lì, in quella stazione, qualche ora o tutta la vita.
    Il mastro di posta,  sua  moglie,  il  cameriere,  una  contadina  che
    vendeva i ricami di Torgëk, erano entrati nella stanza per offrirgli i
    loro  servigi.  Pierre,  senza muoversi,  continuando a tenere i piedi
    sulla tavola, li aveva guardati attraverso gli occhiali,  senza capire
    che  cosa volessero né come potessero tutti vivere senza avere risolto
    i problemi che lo preoccupavano.  I problemi che lo assorbivano  erano
    sempre  gli stessi dal giorno in cui,  di ritorno da Sokòlniki dopo il
    duello, aveva trascorso la prima notte tormentosa e insonne;  ora poi,
    nell'isolamento  del  viaggio,  lo  dominavano  con  una  forza  tutta
    particolare.  Per quanto si sforzasse di  pensare  ad  altro,  tornava
    sempre  a  quegli stessi problemi,  che non sapeva risolvere e che non
    cessava di porsi. Era come se nella sua testa si fosse spanata la vite
    principale su cui poggiava tutta la sua esistenza.  La vite non andava
    più né dentro,  né fuori, ma girava a vuoto, senza far presa su nulla,
    sempre nello stesso foro, né egli riusciva a fermarla.
    Entrò il mastro di posta e pregò umilmente  sua  eccellenza  di  voler
    attendere due orette, dopo le quali avrebbe dato a sua eccellenza (gli
    costasse  qualsiasi  cosa!)  i cavalli del corriere.  Evidentemente il
    mastro di posta mentiva,  con l'unico scopo di guadagnare di più.  "E'
    un male o un bene?",  si domandava Pierre.  "Per me è un bene,  per un
    altro viaggiatore potrebbe essere  un  male  e  per  lui  è  una  cosa
    necessaria,  perché  non  ha  da  mangiare;  mi  ha  detto  che per un
    incidente simile una volta un ufficiale l'ha picchiato. Ma l'ufficiale
    l'ha picchiato perché aveva premura di arrivare,  mentre io ho sparato
    su  Dòlochov  perché  mi  ero  ritenuto  offeso.  Luigi  Sedicesimo fu
    decapitato perché giudicato  un  criminale,  e  un  anno  dopo  furono
    giustiziati  coloro  che lo avevano mandato a morte.  Che cosa è male?
    Che cosa è bene?  Che cosa si deve amare e che cosa  odiare?  Per  che
    cosa  bisogna vivere,  e io stesso cosa sono?  Che cos'è la vita,  che
    cos'è la morte?  Quale forza governa tutte le cose?",  chiedeva  a  se
    stesso. E a queste domande non trovava risposta o ne trovava una sola,
    illogica,  che  non  rispondeva  tuttavia  appieno  ad alcune di esse:
    "Morirai e sarà tutto finito.  Morirai e saprai tutto e  smetterai  di
    fare domande". Ma anche morire era una cosa terribile.
    La  venditrice  di ricami offriva con voce stridula la sua mercanzia e
    insisteva in modo particolare per un paio di  pantofole  di  pelle  di
    capra.  "Io  possiedo  centinaia  di  rubli  di cui non so cosa fare e
    costei,   appena  coperta  da  una   lacera   pelliccia,   mi   guarda
    timidamente",  pensò Pierre. "Ma a che servono i denari? Possono forse
    accrescere,  sia pure  di  un  capello,  la  felicità  e  la  serenità
    dell'anima?  C'è  forse  qualcosa  al mondo che possa rendere lei e me
    meno soggetti al male e alla morte?  La  morte,  che  metterà  fine  a
    tutto,  e che dovrà venire,  inevitabilmente,  oggi o domani,  in ogni
    caso tra un attimo a paragone dell'eternità!".  E Pierre riprendeva  a
    premere  su quella vite che non faceva presa su nulla e che continuava
    a girare a vuoto nello stesso punto.
    Il domestico gli portò un libro con le pagine tagliate  sino  a  metà:
    era  un  romanzo  epistolare  di  madame Souza (1),  ed egli si mise a
    leggere il racconto delle sofferenze e della  virtuosa  lotta  di  una
    certa Amélie de Mansfeld.  "E perché mai costei avrà lottato contro il
    suo seduttore,  se lo amava?",  si chiedeva Pierre.  "Dio  non  poteva
    farle concepire una passione che fosse contraria alla sua volontà.  La
    mia ex-moglie non ha lottato e forse ha avuto ragione. No, non è stato
    scoperto nulla.  Noi possiamo soltanto sapere che non sappiamo  nulla.
    Ed è questo il più alto grado della saggezza umana".
    Tutto,  dentro  e  attorno  a  lui,  gli  appariva confuso,  insensato
    disgustoso,  ma  anche  in  quel  disgusto  verso  tutto  ciò  che  lo
    circondava, Pierre trovava una specie di irritante piacere.
    -  Oso  pregare  vostra eccellenza di scomodarsi un tantino per questo
    signore  -    disse  il  mastro  di  posta  entrando  nella  stanza  e
    introducendovi   un  altro  viaggiatore,   costretto  come  Pierre  ad
    aspettare per mancanza di cavalli. Era costui un vecchietto tarchiato,
    ossuto, giallastro,  pieno di rughe,  con folte sopracciglia spioventi
    su due occhi scintillanti di un indefinito colore grigiastro.
    Pierre  tirò  giù  i piedi dal tavolo,  si alzò e andò a coricarsi sul
    letto che gli avevano preparato.  Di tanto in tanto guardava il  nuovo
    venuto che, con aria cupa e stanca, senza badare a Pierre si spogliava
    faticosamente  aiutato dal suo domestico.  Rimasto coperto soltanto da
    un pellicciotto logoro rivestito di nanchino  con  le  gambe  magre  e
    ossute,  calzate da stivali di feltro,  il nuovo venuto si sedette sul
    divano e, appoggiata alla spalliera la grossa testa dai capelli rasi e
    dalle tempie larghe,  si mise  a  guardare  Bezuchov.  Quello  sguardo
    severo,   intelligente  e  penetrante,  colpì  Pierre,  che  provò  il
    desiderio di attaccare discorso con  il  viaggiatore;  ma,  mentre  si
    accingeva  a  rivolgergli  la  parola  e a chiedergli una informazione
    sulla strada, il vecchio,  chiusi gli occhi e congiunte le scarne mani
    rugose,  a  un  dito delle quali portava un grosso anello di ferro con
    raffigurato un teschio, rimase immobile, riposando, oppure, come parve
    a Pierre, riflettendo con calma e profondità su chissà che cosa.
    Il servo del viaggiatore era anch'egli un vecchietto dal viso  rugoso,
    giallognolo,  senza  baffi né barba,  evidentemente non perché fossero
    stati rasati ma perché non gli erano mai cresciuti. Abile e premuroso,
    il vecchio  domestico  aprì  il  cesto  delle  provviste,  preparò  il
    necessario  per il tè e portò il samovàr che bolliva.  Quando tutto fu
    pronto,  il viaggiatore aprì gli occhi,  si  avvicinò  al  tavolo,  si
    riempì di tè un bicchiere, ne riempì un altro per il servitore imberbe
    e  glielo porse.  Pierre cominciò a sentire una certa inquietudine e a
    provare il desiderio,  anzi la necessità di attaccare discorso con  il
    viaggiatore.
    Il  servo  riportò  indietro  il  proprio  bicchiere  vuoto capovolto,
    tenendo ancora in bocca un pezzetto di zucchero,  e chiese al  padrone
    se non gli occorresse altro.
    -  Niente altro.  Dammi il libro  -  rispose il vecchio.  Il domestico
    gli diede un libro che  a  Pierre  parve  essere  di  preghiere  e  il
    viaggiatore si immerse nella lettura.  Pierre lo guardava.  Tutto a un
    tratto,  quello posò il libro e,  dopo aver  posto  un  segno  tra  le
    pagine,  lo chiuse e,  chiudendo di nuovo gli occhi, appoggiò la testa
    alla spalliera del divano e  riprese  l'immobilità  di  prima.  Pierre
    continuava  a guardarlo e,  prima che avesse avuto il tempo di voltare
    la testa dall'altra parte, il vecchio riaprì gli occhi e fissò in viso
    a Pierre uno sguardo risoluto e severo.
    Pierre si sentì turbato;  avrebbe voluto evitare quello sguardo,  ma i
    lucidi occhi senili esercitavano su di lui un fascino invincibile.


    CAPITOLO 2.

    - Ho il piacere,  se non mi inganno,  di parlare con il conte Bezuchov
    -  disse il vecchio viaggiatore, lentamente e a voce alta.
    Pierre,  in  silenzio,  guardava  interrogativamente,  attraverso  gli
    occhiali, il suo interlocutore.
    -  Ho  sentito  parlare  di  voi  e  della  sventura che vi ha colpito
    proseguì il vecchio,  accentuando le ultime  parole  come  se  volesse
    dire:  "Sì,  sventura;  in qualsiasi modo voi la chiamiate,  io so che
    quanto vi è accaduto a Mosca è stata  una  vera  sventura".    -    Vi
    compiango con tutto il cuore, caro signore!
    Pierre arrossì e, buttando giù in fretta le gambe dal divano, si chinò
    verso il vecchio, con un sorriso timido e forzato.
    - Non ho accennato a questo per semplice curiosità, signor mio, ma per
    cause  più  gravi.    -   Tacque per un momento,  senza distogliere lo
    sguardo da Pierre e si spostò sul divano,  invitando con quel gesto il
    giovane  a  sedersi accanto a lui.  Benché adesso la conversazione con
    quel vecchio non lo seducesse affatto, tuttavia Pierre,  suo malgrado,
    obbedì e andò a sederglisi accanto.
    -  Voi  siete infelice,  signor mio  -  proseguì il viaggiatore.   Voi
    siete giovane, io sono vecchio e vorrei aiutarvi, nei limiti delle mie
    forze.
    - Ah, sì!   -  rispose Pierre,  sforzandosi di sorridere.   -  Vi sono
    gratissimo... Voi di dove venite?
    Il viso del viaggiatore non era affettuoso, anzi freddo e severo, però
    nonostante  questo  le  parole  e  la  fisionomia del nuovo conoscente
    esercitavano su Pierre un fascino irresistibile.
    - Ma se  -  rispose il vecchio  -  per qualsiasi motivo non vi facesse
    piacere parlare con me, ditemelo francamente,  signor mio.   -  E a un
    tratto ebbe un sorriso inatteso, affettuosamente paterno.
    -  No!  Anzi,  sono  molto  contento  di  fare la vostra conoscenza  -
    rispose Pierre e,  guardando ancora una  volta  le  mani  del  vecchio
    viaggiatore,  osservò  più  da  vicino  l'anello.  Ci vide il teschio,
    simbolo della massoneria.
    - Permettetemi una domanda  -  disse.  -  Siete massone?
    - Sì, appartengo alla confraternita dei liberi frammassoni (2)-rispose
    il viaggiatore,  fissando sempre più profondamente Pierre negli occhi.
    -  E da parte mia e dei miei compagni vi tendo una mano fraterna.
    - Temo  -  disse Pierre, sorridendo ed esitando tra la fiducia che gli
    ispirava  la persona del vecchio e l'abitudine di deridere le credenze
    massoniche  -   temo  che  le  mie  idee  siano  molto  lontane  dalla
    comprensione delle vostre.  Temo,  come posso dire? che il mio modo di
    concepire l'intera creazione sia così opposto  al  vostro  da  rendere
    impossibile capirci a vicenda.
    -  Conosco  il  vostro  modo di pensare,   -  replicò il massone  -  e
    quelle vostre opinioni di cui parlate e che vi  sembrano  il  prodotto
    del vostro lavoro intellettuale,  sono le opinioni della maggior parte
    degli uomini,  il frutto  uniforme  dell'orgoglio,  della  pigrizia  e
    dell'ignoranza.  Scusatemi,  signor  mio,  ma  se  io  non  le  avessi
    conosciute non vi avrei parlato. Il vostro modo di parlare è un triste
    errore.
    - Allo stesso modo io potrei supporre che siate in errore voi! obiettò
    Pierre, con un debole sorriso.
    - Non oserei mai dire di conoscere la verità  -  replicò  il  massone,
    il quale,  con la sua decisa e ferma precisione di linguaggio, stupiva
    sempre di più Pierre.   -  Nessuno può giungere alla verità  da  solo;
    unicamente mettendo pietra su pietra,  con la partecipazione di tutti,
    per milioni di generazioni, dal padre Adamo sino ai nostri giorni,  si
    erige  il  tempio  che  deve  essere la degna dimora dell'Altissimo  -
    disse il massone, e chiuse gli occhi.
    - Devo confessarvi che non credo...  non credo in Dio  -    mormorò  a
    fatica e con rammarico Pierre,  ma sentendo la necessità di dire tutta
    la verità.
    Il massone lo guardò attentamente e sorrise come potrebbe sorridere un
    riccone che possedesse molti milioni a un poveretto che gli dicesse di
    non possedere,  lui povero,  i cinque rubli che gli  basterebbero  per
    essere felice.
    -  Lo  so,  signor mio,  voi non lo conoscete,  non potete conoscerlo-
    rispose il massone.   -  Non lo conoscete,  ed è per questo che  siete
    infelice.
    - Sì, sì, sono infelice,  -  replicò Pierre  -  ma che ci posso fare?
    -  Voi  non  lo  conoscete,  signor mio,  e perciò siete profondamente
    infelice. Voi non lo conoscete,  ed Egli è qui,  è in me,  è nelle mie
    parole.  Egli  è  in  te,  e  persino  nelle parole sacrileghe che hai
    pronunziato poc'anzi  -    concluse  il  massone  con  voce  severa  e
    tremante.
    Poi tacque e sospirò, sforzandosi visibilmente di calmarsi.
    -  Se  Egli non esistesse,   -  proseguì poi con dolcezza  -  voi e io
    non parleremmo ora di lui,  signor mio.  Di che cosa,  di chi  abbiamo
    parlato?  Chi  hai  tu  negato?    -    chiese a un tratto con solenne
    severità e con tono autorevole.   -   Chi  lo  ha  inventato,  se  non
    esiste? Perché è sorta in te la supposizione che esista un essere così
    incomprensibile? Perché tu e tutto il mondo avete supposto l'esistenza
    di un Essere inaccessibile, onnipotente, eterno e infinito in tutte le
    sue qualità?  -  Si interruppe e tacque a lungo.
    Pierre non poteva né voleva interrompere quel silenzio.
    -  Egli  esiste;  ma  è difficile capirlo  -  riprese il massone senza
    guardare Pierre,  ma fissando davanti a sé e sfogliando le pagine  del
    libro  con  le vecchie mani rugose che,  per l'interna agitazione,  si
    movevano nervosamente.   -  Se tu mettessi in dubbio l'esistenza di un
    uomo,  io prenderei per mano quest'uomo, lo condurrei in casa tua e te
    lo farei vedere. Ma come posso io, semplice creatura mortale, mostrare
    tutta l'eternità,  l'onnipotenza e la grazia di lui a chi è cieco o  a
    chi chiude gli occhi per non vederlo, per non capirlo e per non vedere
    e  non  capire nel tempo stesso tutta la propria viltà e colpevolezza?
    -  Egli tacque ancora.   -  Chi sei?  Che cosa sei?  Ti  credi  saggio
    perché  hai  potuto pronunziare quelle sacrileghe parole,   -  riprese
    con un cupo e sprezzante sorriso    -    ma  sei  più  sciocco  e  più
    insensato di un bimbetto il quale, nel trastullarsi con le parti di un
    orologio abilmente costruito, osasse dire di non credere all'esistenza
    dell'artefice  che l'ha fatto solo perché non capisce il significato e
    lo scopo dell'orologio.  Sì,  è difficile  conoscerlo.  Per  secoli  e
    secoli,  da Adamo sino ai giorni nostri,  ci affanniamo per giungere a
    questa  comprensione  e  siamo  ancora   infinitamente   lontani   dal
    raggiungere  la  meta,  ma nella nostra incapacità di comprenderlo non
    dobbiamo vedere altro che la nostra debolezza e la sua grandezza...
    Pierre ascoltava il massone con il cuore che gli veniva  meno,  e  con
    gli   occhi   luccicanti   lo  fissava  senza  osare  interromperlo  o
    interrogarlo,  e con tutta l'anima credeva a ciò che gli  diceva  quel
    vecchio sconosciuto. Credeva alle sensate argomentazioni contenute nel
    discorso  del  massone  o credeva,  come un bambino,  alle intonazioni
    della convinzione  e  del  fervore  con  cui  quelle  parole  venivano
    pronunziate?   Credeva  al  tremito  della  voce  che  a  volte  quasi
    interrompeva le parole del massone,  o a quei luminosi  occhi  senili,
    invecchiati in quell'unica fede,  o a quella calma, a quella fermezza,
    a quella consapevolezza della  propria  missione  che  splendevano  in
    tutto   l'essere   di  quell'uomo  e  che  colpivano  Pierre  in  modo
    particolare in quanto le paragonava alla propria apatia morale e  alla
    propria  disperazione?  Certo si è che egli desiderava ardentemente di
    credere,  e credeva,  e provava una gioiosa sensazione di  quiete,  di
    rinnovamento, di ritorno alla vita.
    -  Non è con l'intelletto che lo possiamo comprendere,  ma con la vita
    -  concluse il vecchio.
    - Io non capisco  -  rispose Pierre,  sentendo con timore  sorgere  il
    dubbio  dentro  di  sé.  Temeva la fragilità e la poca chiarezza delle
    disposizioni del suo interlocutore, temeva di non potergli credere.  -
    Non capisco  -  disse  -  come mai la mente umana non sia in grado  di
    giungere alla conoscenza di cui voi parlate.
    Il massone ebbe di nuovo quel suo sorriso dolcemente paterno.
    -  La  somma  sapienza  e  verità  è  come un liquido purissimo di cui
    vorremmo essere permeati  -  disse.   -  Posso io forse raccogliere un
    liquido purissimo in un sudicio vaso e giudicarne la purezza? Soltanto
    purificando  il  mio intimo essere mi è concesso di ridurre a un certo
    grado di purezza la linfa che vi ho accolto.
    - Sì, sì, è così  -  esclamò Pierre con gioia.
    - La somma sapienza non è basata soltanto sulla ragione,  non è basata
    sulle scienze del mondo quali la fisica,  la storia,  la chimica e via
    dicendo, nelle quali si dissocia la conoscenza intellettuale. La somma
    sapienza è una.  La somma sapienza non ha  che  un'unica  scienza,  la
    scienza  universale,  la  scienza  che  spiega tutta la creazione e il
    posto che in essa occupa l'uomo.  Per accogliere in noi questa scienza
    è necessario purificare e rinnovare il nostro io interiore e pertanto,
    prima  di sapere,  bisogna credere e perfezionarsi.  E per raggiungere
    tali mete,  è posta nell'anima nostra una luce divina  che  si  chiama
    coscienza.
    - Sì, sì  -  confermò Pierre.
    -  Considera  con  gli  occhi  dello spirito il tuo essere interiore e
    domandati se sei contento di te stesso.  Che cosa hai raggiunto con la
    sola  guida dell'intelletto?  Che cosa sei?  Voi siete giovane,  siete
    ricco, siete intelligente e istruito, signor mio. Che cosa avete fatto
    di tutti questi beni che vi furono donati?  Siete contento  di  voi  e
    della vostra vita?
    - No, odio la mia vita  -  rispose Pierre, aggrottandosi.
    - La odii? Cambiala, allora. Cerca di purificarti e, a mano a mano che
    ti avvicinerai alla purificazione, conoscerai la sapienza. Considerate
    la vostra vita, signor mio! Come l'avete trascorsa? Nelle orge e nella
    depravazione,  ricevendo  tutto  dalla  società e non dandole nulla in
    cambio.  Avete avuto la ricchezza: come l'avete  impiegata?  Che  cosa
    avete  fatto per il vostro prossimo?  Avete qualche volta pensato alle
    decine di migliaia dei vostri servi?  Li avete aiutati materialmente e
    moralmente? No. Avete approfittato del loro faticoso lavoro per vivere
    una vita dissoluta.  Ecco quello che avete fatto! Avete scelto un modo
    di vivere  per  cui  vi  fosse  possibile  rendervi  utile  al  vostro
    prossimo?  No. Avete invece trascorso la vostra vita nell'ozio. Poi vi
    siete sposato,  signor mio: vi siete assunto la responsabilità di  far
    da  guida  a  una giovane donna,  e che cosa avete fatto?  Non l'avete
    aiutata, signor mio, a trovare la via della verità, ma l'avete gettata
    nell'abisso della menzogna e dell'infelicità.  Un uomo vi ha offeso  e
    voi  lo  avete  colpito  e  dite che non conoscete Dio e che odiate la
    vostra vita. Non c'è da meravigliarsene, signor mio.
    Dopo queste parole il massone,  come se fosse stanco per aver fatto un
    così lungo discorso,  si appoggiò di nuovo alla spalliera del divano e
    chiuse gli occhi. Pierre guardava quel volto senile, severo, immobile,
    che pareva morto,  e moveva le labbra.  Avrebbe voluto  dire:  "Sì,  è
    vero,  ho condotto una vita abietta oziosa,  depravata".  Ma non osava
    rompere il silenzio.
    Il massone ebbe un colpo di tosse  rauca,  da  vecchio,  e  chiamò  il
    servo.
    - E i cavalli, dunque?  -  chiese, senza guardare Pierre.
    -  Sono  arrivati  quelli a nolo  -  rispose il servo.   -  Non volete
    riposarvi?
    - No, ordina di attaccare.
    "Possibile che egli parta e mi lasci solo senza avere  detto  tutto  e
    senza  promettermi un aiuto?",  pensò Pierre,  alzandosi da sedere;  a
    capo basso e guardando  di  tanto  in  tanto  il  massone  si  mise  a
    camminare su e giù per la stanza.  "Sì, non ci pensavo, ma ho condotto
    realmente una vita spregevole e depravata;  non l'amavo,  però,  né la
    volevo",  pensava  Pierre  "ma  quest'uomo  conosce  la  verità e,  se
    volesse,  potrebbe rivelarmela".  Avrebbe voluto dire tutto questo  al
    vecchio massone,  ma non osava.  Il viaggiatore,  intanto,  dopo avere
    riposto rapidamente le sue cose,  con  le  vecchie  mani  esperte,  si
    abbottonò il pellicciotto. Quando fu pronto, si volse a Bezuchov e con
    un tono indifferente e cortese, gli domandò:
    - Dove andate, ora, signor mio ?
    - Io? A Pietroburgo  -  rispose Pierre con voce infantile ed esitante.
    -   Vi ringrazio.  Sono d'accordo con voi in tutto.  Non crediate però
    che io sia stato tanto malvagio.  Con tutta l'anima ho  desiderato  di
    essere  quale  voi  vorreste  che fossi;  ma non ho mai trovato chi mi
    aiutasse... Del resto, in primo luogo, la colpa è mia.  Aiutatemi voi,
    istruitemi voi, e forse diventerò...
    Pierre  non poté continuare: tirò su con il naso e si voltò dall'altra
    parte.
    Il massone tacque a lungo, riflettendo.
    - L'aiuto viene soltanto da Dio,   -  disse  -  ma quel tanto di aiuto
    che  è  nella  possibilità  del  nostro Ordine di dare,  vi sarà dato,
    signor mio. Quando sarete a Pietroburgo,  consegnerete questo al conte
    Villarski.    -    (Tirò fuori il portafoglio e su un grosso foglio di
    carta piegato in quattro scrisse alcune parole).   -  Permettetemi  di
    darvi  un  consiglio.  Quando sarete nella capitale,  vivete un po' di
    tempo  nell'isolamento,  studiando  profondamente  voi  stesso  e  non
    rimettetevi  sulla strada di prima...  Vi auguro buon viaggio,  signor
    mio,   -  concluse,  avendo notato che il suo servo era entrato  nella
    stanza  -  e buona fortuna...
    Quel  viaggiatore,  come Pierre venne a sapere dal registro del mastro
    di posta,  era Ossìp  Alekséevic'  Bazdeev  (3),  uno  dei  massoni  e
    martinisti (4) più noti sin dal tempo di Nòvikov (5).
    Per  un  bel  pezzo,  dopo  che  egli era partito,  Pierre,  invece di
    coricarsi e di chiedere i cavalli,  passeggiò  a  lungo  nella  camera
    della  stazione di posta,  riflettendo sul proprio dissoluto passato e
    immaginando, con l'entusiasmo di un rinnovamento,  un avvenire felice,
    irreprensibile e virtuoso che ora gli appariva facilissimo.  Era stato
    vizioso,  così  gli  pareva,  soltanto  perché  aveva  per  puro  caso
    dimenticato quanto fosse bello l'essere virtuoso.  Nella sua anima non
    rimaneva  alcuna  traccia  degli  antichi  dubbi.   Ora  egli  credeva
    fortemente  nella possibilità della fratellanza tra gli uomini,  uniti
    tra loro con lo scopo di sorreggersi a vicenda sulla via della  virtù;
    così appunto si raffigurava la massoneria.


    CAPITOLO 3.

    Giunto a Pietroburgo,  Pierre non informò nessuno del suo ritorno, non
    si fece vedere da nessuna parte  e  trascorse  intere  giornate  nella
    lettura  di  Tommaso da Kempis (6),  libro che gli era stato procurato
    non sapeva  da  chi.  Leggendo  quelle  pagine  Pierre  capiva  sempre
    soltanto  una  cosa:  capiva  la  gioia,  per lui del tutto nuova,  di
    credere nella possibilità di raggiungere la perfezione,  e quell'amore
    tra gli uomini, fraterno e attivo, che gli era stato rivelato da Ossìp
    Alekséevic'.  Una  settimana  dopo  il  suo  arrivo,  il giovane conte
    polacco Villarski che Pierre aveva conosciuto superficialmente, quando
    frequentava la società pietroburghese,  entrò una sera in  camera  sua
    con  quell'aria  ufficiale e solenne con la quale si era presentato il
    padrino di Dòlochov e,  chiusa la porta alle sue spalle e  accertatosi
    che  nella  stanza  non  c'era nessuno all'infuori di Pierre,  prese a
    parlare.
    - Sono venuto da voi,  conte,  con un incarico e una proposta  -   gli
    disse  senza  neppure  sedersi.    -   Un personaggio altolocato della
    nostra società ha insistito perché  voi  siate  accolto  nella  nostra
    fratellanza  prima  dei  termini  usuali  e mi ha proposto di offrirmi
    garante per voi.  Io considero un sacro dovere  la  realizzazione  del
    desiderio di quella persona.  Volete voi entrare, con la mia garanzia,
    nella società dei liberi frammassoni?
    Il tono freddo e severo di quell'uomo,  che Pierre aveva quasi  sempre
    veduto alle feste di ballo,  sorridente e cortese,  in compagnia delle
    signore più brillanti della città, colpì profondamente Pierre.
    - Sì,  -  rispose  -  lo desidero.
    Villarski chinò la testa.
    - Ancora una domanda,  conte,  alla quale vi prego di  rispondere  con
    assoluta  franchezza,  non già come futuro massone ma come uomo onesto
    ("galant homme"): avete ripudiato le vostre convinzioni di  un  tempo,
    credete in Dio?
    Pierre rimase sovrappensiero.
    - Sì... sì..., credo in Dio  -  rispose.
    -  In  tal  caso...    -    riprese  a  dire  Villarski,  ma Pierre lo
    interruppe.
    - Sì, credo in Dio  -  ripeté ancora una volta.
    - In tal caso,  possiamo andare  -   disse  Villarski.    -    La  mia
    carrozza è a vostra disposizione, conte.
    Durante  il  tragitto Villarski non disse una parola.  Alle domande di
    Pierre su cosa dovesse  fare  e  come  dovesse  rispondere,  Villarski
    rispose  soltanto che altri fratelli,  più degni di lui,  lo avrebbero
    sottoposto a certe prove e che egli non avrebbe dovuto far  altro  che
    rispondere la verità.
    Varcato  il  portone  del  grande  palazzo dove aveva sede la Loggia e
    salita una scala buia,  entrarono in una piccola anticamera illuminata
    dove,   senza   l'aiuto   dei   servi,   si   tolsero   la  pelliccia.
    Dall'anticamera passarono in un'altra stanza.  Sulla soglia apparve un
    uomo  in  uno  strano  costume.  Villarski,  movendogli incontro,  gli
    mormorò alcune parole in francese e si avvicinò a un  piccolo  armadio
    nel  quale  Pierre scorse dei vestiti quali non aveva mai veduto prima
    di allora. Tolto dall'armadio un fazzoletto,  Villarski coprì con esso
    gli  occhi  di  Pierre  e,  annodandoglielo  sulla  nuca,  gli strinse
    insieme,  dolorosamente,  i capelli.  Poi lo attirò a sé,  lo baciò e,
    presolo per mano,  lo condusse avanti.  I capelli,  presi nel nodo gli
    dolevano e Pierre, facendo smorfie per il male che provava,  sorrideva
    come  se si vergognasse di qualche cosa.  La sua enorme persona con le
    braccia penzoloni, con il viso contratto e insieme sorridente, seguiva
    Villarski con andatura timida e incerta.
    Dopo aver percorso una diecina di passi, Villarski si fermò.
    - Qualsiasi cosa vi accada,   -  disse   -    dovete  sopportarlo  con
    coraggio, se siete fermamente deciso a far parte della nostra società.
    -    (Pierre  rispose  con  un  cenno  affermativo  del capo).  Quando
    sentirete un colpo all'uscio,  dovrete togliervi la benda dagli  occhi
    -  aggiunse Villarski;   -  vi auguro coraggio e fortuna!- E,  stretta
    la mano a Pierre, uscì dalla stanza.
    Rimasto solo, Pierre continuò a sorridere. Sollevò un paio di volte le
    spalle,  portò la mano al fazzoletto come se volesse  toglierselo,  ma
    poi  l'abbassò.  I  cinque  minuti  che  egli  trascorse con gli occhi
    bendati gli parvero lunghi come un'ora.  Sentiva le mani  intorpidite,
    le gambe vacillanti;  aveva l'impressione di essere stanco. Provava le
    più complesse e svariate sensazioni.  Aveva paura di ciò che gli stava
    accadendo e ancor più paura di dimostrare la sua paura. Era curioso di
    sapere  che  cosa  gli  sarebbe  successo,  che cosa gli sarebbe stato
    rivelato ma,  soprattutto,  provava una gran gioia nel pensare che era
    finalmente  giunto  per  lui  il momento in cui si sarebbe incamminato
    sulla via di quella rigenerazione, di quella vita attivamente virtuosa
    che sognava dal giorno in cui aveva conosciuto Ossìp Alekséevic'.
    Forti colpi furono battuti all'uscio.  Pierre si tolse la benda  e  si
    guardò  attorno.  La  stanza  era immersa nel buio: solo in un angolo,
    entro qualcosa di bianco, ardeva una lampada. Pierre si accostò e vide
    che la lampada era appoggiata su una tavola nera sulla quale posava un
    libro aperto.  Il libro era il Vangelo.  La  cosa  bianca,  entro  cui
    ardeva la lampada,  era un teschio umano con i suoi buchi e con i suoi
    denti.  Dopo aver letto le prime parole del Vangelo: "In principio era
    il  Verbo  e  il  Verbo  era Dio",  Pierre fece il giro della tavola e
    scorse una gran cassa aperta che conteneva qualcosa di indistinto. Era
    una bara,  colma di ossa.  Ciò che vedeva non lo meravigliava affatto.
    Giacché   sperava   di   iniziare   una   vita   completamente  nuova,
    completamente diversa  dall'antica,  egli  si  attendeva  qualcosa  di
    eccezionale,  più eccezionale ancora di quello che vedeva. Il teschio,
    la bara,  il Vangelo erano  tutte  cose  che  gli  pareva  di  essersi
    aspettate,  e  aspettava  qualcosa  di  più.  Sforzandosi di suscitare
    dentro di sé un senso di stupore, si guardava attorno. "Dio, la morte,
    l'amore,  la fratellanza",  diceva a se stesso,  collegando  a  queste
    parole immagini confuse ma gioiose. La porta si aprì: qualcuno entrò.
    A quella debole luce, cui Pierre del resto aveva già avuto il tempo di
    abituarsi,  vide  entrare  un  uomo  di  bassa statura.  Naturalmente,
    passando dalla luce al buio, quell'uomo si fermò; poi,  a passi cauti,
    avanzò verso la tavola e vi appoggiò sopra le piccole mani, coperte da
    guanti di pelle.
    Il  piccolo  uomo  indossava  un  grembiale  di cuoio bianco,  che gli
    copriva il petto e parte delle  gambe;  attorno  al  collo  aveva  una
    specie  di  collana  dalla quale usciva un alto "jabot" bianco che gli
    incorniciava il viso lungo, illuminato dal basso.
    - Perché siete venuto  qui?    -    domandò  colui  che  era  entrato,
    rivolgendosi  dalla  parte da cui giungeva il fruscio fatto da Pierre.
    -  Perché voi, che non credete nella verità della luce e non vedete la
    luce siete venuto qui?  Che  cosa  volete  da  noi?  Sapienza,  virtù,
    istruzione?
    Nel   momento  in  cui  l'uscio  si  era  aperto  ed  era  entrato  lo
    sconosciuto,  Pierre aveva provato un senso di  paura  e  di  profondo
    rispetto,  simile a quello che provava, quando era bambino, durante la
    confessione: si sentiva solo con un uomo, a lui assolutamente estraneo
    secondo le convinzioni del vivere,  a lui fratello secondo i  princìpi
    della fratellanza tra gli uomini. Pierre, con il cuore che gli batteva
    con  tanta violenza da mozzargli il fiato,  si mosse verso il "retore"
    (così veniva chiamato in massoneria il socio che aveva  l'incarico  di
    preparare   il   "cercatore"   per   l'ammissione   alla  società)  e,
    avvicinatosi  di  più,  riconobbe  in  lui  un  conoscente,  un  certo
    Smoljàninov, ma lo offendeva il pensiero che colui che era entrato era
    persona  a  lui  nota.  Quell'uomo  doveva  esser  per lui soltanto un
    fratello e un educatore di virtù.  Per un pezzo Pierre non fu in grado
    di  dire  una  parola,  cosicché  il  retore  dovette  ripetere la sua
    domanda.
    - Sì...  io...  io desidero rinnovare la mia vita  -   rispose  infine
    Pierre, a fatica.
    - Bene  -  disse Smoljàninov,  e subito proseguì:  -  Avete conoscenza
    dei  mezzi  con  i  quali  il  nostro  sacro  Ordine  può  aiutarvi  a
    raggiungere  il  vostro scopo?   -  disse il retore in fretta,  ma con
    calma.
    - Io... spero... in una guida... in un aiuto... per rinnovarmi rispose
    Pierre con la voce tremante e stentando a trovare le parole,  forse  a
    causa  dell'emozione  e  della  mancanza di abitudine di esprimersi in
    russo su argomenti astratti.
    - Che opinione avete della frammassoneria?
    - Io suppongo  che  la  frammassoneria  consista  nella  fraternità  e
    nell'eguaglianza  degli  uomini con scopi virtuosi  -  rispose Pierre,
    vergognandosi,  a mano a mano che parlava,  della insufficienza  delle
    proprie parole rispetto alla solennità dei momento.  -  Io suppongo...
    - Bene  -  dichiarò in fretta il retore,  evidentemente soddisfatto in
    pieno della risposta.   -  Avete cercato nella religione i  mezzi  per
    raggiungere la vostra meta?
    - No, la ritenevo falsa e non la seguivo  -  disse Pierre, ma con voce
    così  sommessa  che  il retore non udì la sue parole e gli domandò che
    cosa avesse detto.  -  Ero ateo  -  rispose Pierre.
    -  Voi  cercate  la  verità  per  vivere  secondo  le  sue  leggi;  di
    conseguenza  cercate  la sapienza e la virtù,  nevvero?   -  chiese il
    retore dopo una breve pausa.
    - Sì, sì  -  confermò Pierre.
    Il retore tossì, incrociò sul petto le mani coperte dai guanti e prese
    a dire:
    - Ora devo rivelarvi lo scopo  principale  del  nostro  Ordine  e,  se
    questo scopo coincide col vostro, allora vi sarà utile entrare a farvi
    parte.  Il  primo  e più importante suo scopo e insieme la base su cui
    esso si fonda,  base che nessuna forza al mondo può rovesciare,  è  la
    conservazione  e  la  trasmissione  ai  posteri  di un importantissimo
    mistero... giunto a noi dai più remoti secoli, anzi dal primo uomo: da
    questo mistero dipende forse la storia del  genere  umano.  Ma  poiché
    questo  mistero  è  di  tale  natura  che  nessuno  lo può conoscere e
    giovarsene se non è preparato da una lunga e diligente preparazione di
    se stesso,  non a tutti è concesso di conoscerlo in breve  tempo.  Noi
    abbiamo  quindi  un  secondo scopo che consiste nel preparare i membri
    dell'Ordine a correggere,  per quanto è possibile,  i  loro  cuori,  a
    purificare e a illuminare il loro intelletto con quei mezzi,  rivelati
    dalla tradizione,  con cui gli uomini si sono affaticati nella ricerca
    di  quel mistero,  e nel renderli capaci di intenderlo.  Purificando e
    indirizzando verso la giusta via i nostri confratelli,  ci  sforziamo,
    in terzo luogo, di emendare il genere umano, offrendogli l'esempio dei
    nostri adepti, esempio di pietà e di virtù, e così con tutte le nostre
    forze cerchiamo di combattere il male che domina nel mondo. Riflettete
    a  quanto  vi  ho  detto:  tra poco tornerò da voi.   -  E dopo queste
    parole, uscì dalla stanza.
    - Combattere il male che domina  nel  mondo...    -    ripeté  Pierre,
    immaginando  già  la  sua futura attività in questo campo.  Immaginava
    anche altri uomini simili a lui quale era due  settimane  addietro  e,
    mentalmente,   rivolgeva  loro  un  discorso  educativo  e  didattico.
    Immaginava uomini viziosi e infelici ai quali egli veniva in aiuto con
    le parole e con le azioni; immaginava gli oppressori ai quali riusciva
    a sottrarre le vittime.  Dei tre scopi cui aveva accennato il  retore,
    l'ultimo,  l'emendamento  del  genere  umano,  pareva  a Pierre il più
    congeniale al suo spirito. L'importante mistero di cui il retore aveva
    parlato,  per quanto eccitasse la  sua  curiosità,  non  gli  appariva
    essenziale;  il secondo scopo,  la purificazione e la correzione di se
    stesso lo interessava poco,  giacché in quel momento si  sentiva,  con
    piacere,  già  completamente emendato dei suoi vizi di un tempo e teso
    unicamente verso il bene.
    Dopo mezz'ora il retore riapparve per comunicare al neofita  le  sette
    virtù  che corrispondevano ai sette gradini del tempio di Salomone che
    ogni massone doveva coltivare in sé.
    Le sette virtù erano:
    1) "La discrezione", ossia la conservazione del segreto dell'Ordine.
    2) "L'obbedienza" ai superiori dell'Ordine.
    3) "La severità" dei costumi.
    4) "L'amore" verso il prossimo.
    5) "Il coraggio".
    6) "La generosità".
    7) "L'amore della morte".
    - Cercate  -  disse il retore  -    con  frequenti  meditazioni  sulla
    morte  di  giungere  al  punto  che  essa  non  vi appaia più come una
    terribile nemica,  ma come  una  amica...  capace  di  liberare  dalle
    miserie  di  questa  vita  l'anima  che ha sofferto per raggiungere la
    virtù, per condurla là dove essa troverà la ricompensa e la pace.
    "Sì, dev'essere così", pensò Pierre, quando il retore, dopo aver detto
    queste parole, uscì di nuovo dalla stanza lasciandolo solo a meditare.
    "Dev'essere così, ma io sono ancora tanto debole da amare la vita,  il
    cui vero significato incomincia appena ora a rivelarmisi". Ma le altre
    cinque  virtù  che  Pierre  rammentò,  enumerandole sulle dita,  se le
    sentiva nell'anima:  il  coraggio,  la  generosità,  la  moralità  dei
    costumi,  l'amore  per il prossimo e in particolare,  l'obbedienza che
    non gli appariva come una virtù, ma come una felicità. (Gli dava tanta
    gioia ora il pensiero  di  sottrarsi  al  suo  libero  arbitrio  e  di
    sottomettere  la  sua  volontà  a  coloro  che  conoscevano l'assoluta
    verità).  La settima virtù,  Pierre l'aveva dimenticata e non riusciva
    assolutamente più a ricordarla.
    Per la terza volta ricomparve il retore, dopo un intervallo più breve,
    e  domandò a Pierre se fosse sempre fermo nella sua decisione e pronto
    a sottomettersi a tutto quello che gli si richiedeva.
    - Sono pronto a tutto  -  rispose Pierre.
    - Devo ancora comunicarvi  -  disse il retore  -  che il nostro Ordine
    insegna la sua dottrina non solo a parole,  ma anche con  altri  mezzi
    che forse agiscono con maggiori forze su chi va in cerca della verità,
    più di quanto lo possano fare le dimostrazioni verbali. Questo tempio,
    arredato come voi vedete,  deve avere già parlato al vostro cuore,  se
    esso  è  sincero,   più  di  qualsiasi  parola;   anche   durante   il
    proseguimento della vostra iniziazione vi capiterà di vedere un simile
    modo  di  presentare  le  spiegazioni.  Il  nostro Ordine imita quelle
    società antichissime che rivelavano le  loro  dottrine  per  mezzo  di
    geroglifici.  Il  geroglifico  -  soggiunse il retore  -  è un modo di
    dare un nome alle cose che non cadono  sotto  i  nostri  sensi  e  che
    contengono proprietà simili a quelle della cosa rappresentata.
    Pierre  non  ignorava  che  cosa  fosse  un geroglifico,  ma non osava
    parlare.  Ascoltava in silenzio il  retore  avvertendo  da  tutto  che
    presto avrebbero avuto inizio le prove.
    -  Se  siete  fermamente  deciso  devo  procedere  alla iniziazione  -
    dichiarò il retore,  accostandosi di più a Pierre.   -   In  segno  di
    generosità,  vi  prego  di  consegnarmi tutti gli oggetti preziosi che
    avete.
      -   Ma qui con me non ho nulla  -  disse Pierre,  immaginando che si
    volesse da lui tutto ciò che possedeva.
    - Quello che avete addosso: l'orologio, il denaro, gli anelli...
    Pierre si affrettò a tirar fuori il borsellino e l'orologio e faticò a
    lungo  per  togliersi  dal  grosso dito l'anello matrimoniale.  Quando
    questa operazione fu compiuta, il massone disse:
    - In segno di obbedienza, vi prego di spogliarvi.
    Pierre si tolse la giacca,  il panciotto e la scarpa sinistra  secondo
    l'indicazione  del  retore.  Il  massone  gli aprì la camicia dal lato
    sinistro del petto e,  chinandosi,  gli  alzò  sino  al  ginocchio  il
    pantalone  sinistro.  Pierre voleva togliersi anche la scarpa destra e
    sollevare  il  pantalone  destro  per  evitare  questa  fatica  a  uno
    sconosciuto,  ma  il  massone  gli  disse che non era necessario e gli
    porse una pantofola per il piede sinistro. Con un fanciullesco sorriso
    di vergogna,  di incertezza e di  canzonatura  verso  se  stesso,  che
    contro  la sua volontà gli sfiorava le labbra,  Pierre stava ritto con
    le braccia penzoloni e le gambe allargate, davanti al fratello retore,
    in attesa di nuovi ordini.
    - E infine,  in segno di purezza di cuore,  vi prego di  rivelarmi  la
    vostra più intensa passione  -  disse quello.
    - La mia più intensa passione? Ne ho avute tante!  -  rispose Pierre.
    -  Quella che più di tutte le altre vi ha costretto a tentennare sulla
    via della virtù.
    Pierre tacque, riflettendo.
    "Il vino? La gola?  L'ozio?  La pigrizia?  L'ira?  L'odio?  Le donne?"
    pensava, scegliendo tra i suoi vizi e non sapendo a quale di essi dare
    la precedenza.
    - Le donne  -  disse a voce sommessa,  appena udibile.  Il massone non
    si mosse e, dopo queste parole, rimase a lungo in silenzio. Finalmente
    si accostò a Pierre,  prese il fazzoletto posato sulla  tavola  e  gli
    bendò di nuovo gli occhi.
    -  Ve lo dico per l'ultima volta: rivolgete tutta la vostra attenzione
    a voi stesso, mettete i ceppi ai vostri sensi e cercate la beatitudine
    non nelle passioni, ma nel vostro cuore.  La fonte della beatitudine è
    dentro di noi, non fuori...
    Pierre già sentiva in sé quella luminosa fonte di beatitudine, che ora
    gli colmava l'anima di commossa gioia.


    CAPITOLO 4.

    Poco  dopo  venne  a  prenderlo  nel  buio tempio non più il retore di
    prima,  ma il conte Villarski che aveva garantito per lui e che Pierre
    riconobbe alla voce. Alle nuove interrogazioni sulla fermezza dei suoi
    propositi, Pierre rispose:
    - Sì,  sì, consento  -  e con un infantile, radioso sorriso, il grasso
    petto scoperto,  procedendo con passo timido ed esitante un piede nudo
    e  l'altro  calzato,  andò  avanti verso la spada che Villarski teneva
    puntata verso il suo petto nudo.  Da quella stanza fu guidato avanti e
    indietro  lungo vari corridoi,  e finalmente lo fecero fermare dinanzi
    all'uscio della Loggia. Villarski tossì: gli risposero alcuni colpi di
    martello, all'uso massone,  e la porta si aprì dinanzi a lui.  La voce
    di basso di uno sconosciuto (gli occhi di Pierre erano sempre bendati)
    gli  chiese  chi fosse,  dove e quando fosse nato,  eccetera eccetera.
    Poi, sempre a occhi bendati, lo guidarono oltre e, cammin facendo, gli
    parlarono in forma allegorica  delle  fatiche  della  via  intrapresa,
    della santità dell'amicizia, dell'Architetto eterno dell'universo, del
    coraggio,  con  cui  avrebbe  dovuto  affrontare  fatiche  e pericoli.
    Durante il cammino Pierre  notò  che  lo  chiamavano  ora  "colui  che
    cerca",  ora "colui che sopporta", ora "colui che chiede" e, a seconda
    di tali denominazioni,  risonavano in modo diverso i colpi battuti con
    il  martello  e  con le spade.  Mentre veniva guidato verso un oggetto
    sconosciuto, Pierre avvertì che tra coloro che lo accompagnavano erano
    sorti un certo imbarazzo e un po' di confusione.  Udì che  le  persone
    che  gli  erano  attorno  discutevano  a  bassa voce e che una di esse
    insisteva affinché  egli  fosse  fatto  passare  sopra  non  so  quale
    tappeto. Dopo di che, presagli la mano destra, gliela fecero posare su
    qualche  cosa  e  gli  ordinarono  di  appoggiare  con  la sinistra un
    compasso sulla mammella sinistra;  poi,  facendogli ripetere le parole
    che  uno  di loro leggeva,  gli chiesero di giurare fedeltà alle leggi
    dell'Ordine.  Poi,  spente le candele,  accesero,  come Pierre avvertì
    dall'odore,  una  lampada a spirito e gli dissero che avrebbe visto la
    piccola luce. Gli tolsero la benda e Pierre, come in sogno,  scorse al
    fioco lume delle fiammelle a spirito,  alcune persone le quali, con un
    grembiale simile a quello del retore,  erano ritte  davanti  a  lui  e
    tenevano  in mano delle spade puntate contro il suo petto.  Tra quelle
    persone vi era un uomo in camicia bianca macchiata di sangue. A quella
    vista Pierre si spinse avanti perché le  spade  gli  trafiggessero  il
    petto, ma le spade si ritrassero e subito dopo gli fu rimessa la benda
    sugli occhi.
    -  Ora  hai veduto la piccola luce  -  gli disse una voce sconosciuta.
    Poi riaccesero le candele,  gli dissero  che  avrebbe  ora  veduto  la
    grande luce. Gli tolsero ancora una volta le bende e più di dieci voci
    scandirono insieme all'improvviso: "Sic transit gloria mundi" (7).
    A  poco a poco Pierre cominciò a tornare in sé e a osservare la stanza
    in cui stava e le persone che si trovavano in essa. Attorno a un lungo
    tavolo, coperto di nero, sedevano una dozzina circa di persone,  tutte
    vestite  come  quelle  che aveva già vedute.  Alcune di esse Pierre le
    aveva  già  conosciute  in  società,  a  Pietroburgo.   Al  posto  del
    presidente stava un giovane sconosciuto che portava al collo una croce
    speciale.  Alla  sua  destra  sedeva l'abate italiano che Pierre aveva
    incontrato due anni addietro in casa di Anna Pàvlovna. Vide inoltre un
    altissimo funzionario e un precettore svizzero che  abitava  prima  in
    casa Kuragin.  Tutti tacevano e con espressione solenne ascoltavano le
    parole del presidente che aveva in mano un martello.  Alla parete  era
    infissa una stella fiammeggiante; da un lato della tavola era steso un
    piccolo  tappeto con disegni vari,  dall'altro si ergeva una specie di
    altare su cui erano posati un Vangelo e un teschio.  Attorno al tavolo
    sette  grossi  candelabri  simili a quelli delle chiese.  Due fratelli
    condussero Pierre all'altare,  gli disposero i piedi ad angolo retto e
    gli  ordinarono  di  stendersi  bocconi,  spiegandogli  che così ci si
    prosternava alle porte del tempio.
    - Deve prima ricevere la cazzuola  -   disse  a  bassa  voce  uno  dei
    fratelli.
    - Ah, smettetela, per favore  -  esclamò un altro.
    Pierre si guardò attorno con gli occhi miopi,  smarrito, e non ubbidì,
    colto improvvisamente da un dubbio: "Dove sono?  Che cosa  faccio?  Si
    stanno forse burlando di me?  Non mi vergognerò, un giorno, al ricordo
    di tutto questo?". Ma il dubbio non durò che un attimo.  Pierre guardò
    i  visi seri delle persone che lo circondavano,  rammentò tutto quello
    che aveva già fatto e capì che non  era  possibile  fermarsi  a  mezza
    strada. Ebbe orrore del proprio dubbio e, sforzandosi di far rinascere
    in  sé  quel  sentimento di gioiosa commozione già poco prima provato,
    obbedì e si prosternò alle porte del tempio.  E infatti il  sentimento
    desiderato si impadronì di lui, più forte che mai. Dopo essere rimasto
    bocconi qualche tempo, gli ordinarono di alzarsi, gli fecero indossare
    il  grembiale di cuoio bianco come avevano gli altri,  gli diedero una
    cazzuola e tre paia di guanti e soltanto allora  il  Gran  Maestro  si
    rivolse  a  lui.  Gli disse di procurare di non macchiare mai in alcun
    modo il candore di quel grembiale,  simbolo  della  fermezza  e  della
    purezza;  poi,  a  proposito  della  cazzuola,  il cui significato gli
    rimase oscuro,  gli dissero che con quella doveva  purificare  il  suo
    cuore  dai  vizi  e  lisciare  con  indulgenza  il cuore del prossimo.
    Infine, a proposito del primo paio di guanti da uomo,  gli dissero che
    non  gli  era  consentito di conoscerne il significato,  ma che doveva
    serbarli;  quanto al secondo  paio,  pure  da  uomo,  doveva  calzarli
    durante  le  riunioni  dell'Ordine  e quanto al terzo,  da donna,  gli
    dissero:
    - Caro  fratello,  questi  guanti  da  donna  sono  destinati  a  voi:
    offriteli  a  colei  che riterrete superiore a tutte le altre.  Questo
    dono darà  a  colei  che  avrete  scelto  come  degna  compagna  nella
    massoneria la certezza della purezza del vostro cuore.   -  Tacque per
    qualche istante e poi aggiunse:  -   Ma  bada,  fratello,  che  questi
    guanti non coprano mani impure  -.  Mentre il Gran Maestro pronunziava
    queste ultime parole,  parve a Pierre che il presidente fosse turbato.
    Egli  stesso si turbò ancora di più,  si fece rosso sino alle lacrime,
    come i bambini, e prese a volgere attorno a sé uno sguardo inquieto.
    Seguì un silenzio imbarazzante.
    Il silenzio fu interrotto da uno dei fratelli che,  dopo aver condotto
    Pierre  verso  il  tappeto,  prese  a  leggergli  da  un  quaderno  le
    spiegazioni di tutte le figure ivi rappresentate: il sole,  la luna il
    martello,  la  cazzuola,  la  pietra  greggia  e quella squadrata,  la
    colonna, le tre finestre e via di seguito. Poi assegnarono a Pierre il
    suo posto,  gli mostrarono i segni della Loggia,  gli comunicarono  la
    parola  d'ordine  e,  finalmente,  gli  permisero di sedersi.  Il Gran
    Maestro iniziò la lettura dello statuto. Esso era molto lungo e Pierre
    per la gioia, l'emozione e la vergogna,  non era proprio in condizioni
    di  capire  ciò  che ascoltava.  Udì e prestò attenzione soltanto alle
    ultime parole che gli rimasero impresse nella memoria.
    "Nei nostri templi non riconosciamo  altri  gradi",  leggeva  il  Gran
    Maestro,  "fuorché quelli che stanno tra il vizio e la virtù. Guardati
    dal fare qualsiasi cosa  che  possa  guastare  l'eguaglianza  tra  gli
    uomini,  accorri in aiuto del fratello, chiunque egli sia, rimetti sul
    retto cammino il traviato, risolleva il caduto e non nutrire mai astio
    o inimicizia verso un fratello.  Sii affettuoso e gentile,  suscita in
    tutti  i  cuori  la fiamma della virtù.  Dividi la felicità con il tuo
    prossimo e non permettere mai che l'invidia  venga  a  turbare  questa
    purissima  gioia.  Perdona  al  nemico  e non vendicarti di lui se non
    facendogli del bene. Obbedendo così alla legge suprema,  tu ritroverai
    le  tracce  dell'antica  grandezza  perduta",  concluse  e,  alzatosi,
    abbracciò Pierre e lo baciò.
    Pierre,  con gli occhi umidi di lacrime di gioia,  si guardava attorno
    non  sapendo  che  cosa  rispondere  ai  rallegramenti e alle frasi di
    rinnovata amicizia di coloro che lo circondavano.  Egli non  conosceva
    nessuno,  ma in tutti quegli uomini vedeva soltanto dei fratelli con i
    quali ardeva dal desiderio di accingersi all'opera.
    Il Gran Maestro batté un colpo con il  martello,  tutti  sedettero  al
    loro  posto  e  uno  di  essi  iniziò  la lettura di una predica sulla
    necessità dell'umiltà.
    Il Gran Maestro propose poi di compiere l'ultimo rito,  e l'importante
    funzionario  che aveva il grado di elemosiniere si mise a fare il giro
    dei fratelli.  Pierre avrebbe voluto sottoscrivere nella  lista  delle
    elemosine  tutto  il  denaro  che  aveva,  ma  temeva che il suo gesto
    potesse apparire un atto di orgoglio e si limitò  a  sottoscrivere  la
    stessa somma che avevano sottoscritto gli altri.
    La seduta era finita.
    Rientrato  a casa,  Pierre ebbe l'impressione di essere tornato da chi
    sa quale lungo viaggio durato diecine di anni, di essere completamente
    mutato e di aver lasciato per sempre il modo di vivere e le  abitudini
    di un tempo.


    CAPITOLO 5.

    Il giorno successivo alla cerimonia alla Loggia, Pierre rimase in casa
    immerso  nella  lettura  di  un  libro,  sforzandosi  di  penetrare il
    significato del quadrato di cui un lato rappresenta Dio,  un altro  il
    mondo  morale,  il  terzo  il  mondo fisico e il quarto l'unione degli
    ultimi due.  Di tanto in tanto lasciava il libro e le meditazioni  sul
    quadrato  e,  con l'immaginazione,  andava progettando il piano di una
    nuova vita. Il giorno prima, alla Loggia,  aveva saputo che la notizia
    del  suo duello era giunta alle orecchie dell'imperatore e che sarebbe
    stato cosa saggia, da parte sua,  allontanarsi da Pietroburgo.  Pierre
    pensò di recarsi nelle sue terre del mezzogiorno e di occuparsi laggiù
    dei  suoi  contadini.  Stava  pensando  con gioia a questa nuova vita,
    quando all'improvviso entrò nella camera il principe Vassilij.
    - Ma che hai fatto a Mosca, amico mio?  Perché hai litigato con Lëlin,
    "mon cher"?  Sei in errore  -  disse il principe Vassilij.-  Ho saputo
    tutto e posso dirti con assoluta certezza  che  Elen  è  innocente  di
    fronte a te come Cristo di fronte ai Giudei.
    Pierre fece per rispondere, ma il principe lo interruppe.
    -  Perché  non ti sei rivolto semplicemente e direttamente a me come a
    un vero amico? Io so tutto, capisco tutto... Tu ti sei comportato come
    un uomo a cui sta a cuore  il  proprio  onore;  hai  agito  forse  con
    eccessiva fretta,  ma non è di questo che voglio parlare.  Pensa a una
    cosa sola: alla posizione in cui hai messo lei agli occhi del mondo  e
    anche...  della Corte  -  aggiunse,  abbassando la voce.  -  Lei sta a
    Mosca, tu stai qui. Rifletti, mio caro  -  e gli tirò il braccio verso
    il basso;   -  si tratta di un malinteso e credo che tu stesso ne  sia
    già persuaso.  Scriviamo subito insieme una lettera a Elen; essa verrà
    qui e tutto si chiarirà; se no, mio caro,  ti avverto,  è molto facile
    che tu debba passare dei guai.
    Il principe Vassilij guardò Pierre con aria grave e proseguì:
    -  So  da buona fonte che l'imperatrice vedova s'interessa vivamente a
    questa faccenda. E tu sai che essa nutre molta benevolenza per Elen.
    Più volte Pierre aveva tentato di parlare,  ma da un lato il  principe
    Vassilij  non  glielo  permetteva,  dall'altro Pierre stesso temeva di
    iniziare il proprio discorso in tono di reciso rifiuto e di disaccordo
    con cui aveva ferma intenzione di rispondere al  suocero.  Inoltre  le
    parole  dello  statuto  massonico:  "Sii  affettuoso  e  cortese"  gli
    tornavano alla mente.  Aggrottava il viso,  arrossiva,  si alzava e si
    sedeva,  cercando di fare uno sforzo su se stesso per compiere la cosa
    per lui più difficile della  vita:  dire  in  faccia  a  una  persona,
    chiunque essa fosse, non ciò che quella si aspettava ma, al contrario,
    qualche cosa di spiacevole.  Era così abituato a sottomettersi al modo
    di fare disinvolto e noncurante del principe  Vassilij  che  anche  in
    quel  momento  sentiva  che  non  avrebbe avuto la forza di resistere;
    d'altra  parte,   sentiva  anche  che  dalle  parole  che  stava   per
    pronunziare dipendeva tutto il suo avvenire.  Avrebbe seguito l'antica
    via o quella nuova che gli era stata indicata in modo così  allettante
    dai  massoni  e  seguendo  la  quale credeva fermamente di rinascere a
    nuova vita?
    - Suvvia, mio caro,  -  riprese scherzosamente il principe Vassilij  -
    rispondimi di sì e io scriverò a Elen a nome tuo e uccideremo  insieme
    il vitello grasso!
    Ma  prima  che il principe Vassilij avesse finito di parlare,  Pierre,
    lasciandosi vincere dal furore,  come accadeva a suo  padre,  e  senza
    guardare in faccia il suo interlocutore, disse a bassa voce:
    - Principe,  io non vi ho chiamato in casa mia: vi prego di andarvene!
    -  Balzò in piedi e aprì la porta.   -  Uscite,  dunque   -    ripeté,
    mentre ancora non credeva a se stesso e si rallegrava dell'espressione
    sbalordita e spaventata apparsa sul viso del principe Vassilij.
    - Ma che hai? Ti senti male?
    - Uscite!  -  sibilò ancora con voce tremante.
    E  il  principe  Vassilij dovette andarsene senza aver ottenuto alcuna
    spiegazione.
    Una settimana dopo,  salutati i suoi nuovi amici  massoni  e  lasciate
    loro  ingenti  somme per alcune imprese benefiche,  Pierre partì per i
    suoi possedimenti.  I suoi  confratelli  gli  dettero  lettere  per  i
    massoni  di  Kiev  e  di  Odessa  e  gli  promisero di scrivergli e di
    guidarlo nella sua nuova attività.


    CAPITOLO 6.

    Il duello fra Pierre e Dòlochov venne messo a tacere e,  nonostante la
    severità  di  cui a quel tempo l'imperatore dava prova riguardo a cose
    del genere, né i loro avversari, né i loro padrini ebbero noie.  Ma la
    storia  del  duello,  confermata  dalla  separazione  di  Pierre dalla
    moglie, si diffuse in tutta la società. Pierre,  per cui tutti avevano
    mostrato  un'indulgenza  protettrice  quando era figlio naturale e che
    era stato vezzeggiato e corteggiato quando era  diventato  il  miglior
    partito  dell'impero  russo,  dopo  il  suo  matrimonio,  allorché  le
    signorine e le madri non ebbero più  nulla  da  sperare,  aveva  perso
    terreno  nell'opinione  pubblica,  tanto più che egli non sapeva e non
    voleva attirarsi la benevolenza del bel mondo.  Ora era considerato il
    solo  colpevole  dell'accaduto:  si  diceva  che  era  di  una gelosia
    assurda, soggetto, come suo padre, ad accessi di furore sanguinario. E
    quando,  dopo la partenza di Pierre,  Elen  tornò  a  Pietroburgo,  fu
    accolta  da  tutti  i  conoscenti  non  solo cordialmente,  ma con una
    sfumatura di  rispetto  suscitato  dalla  sua  sventura.  Allorché  si
    parlava  del  marito,  Elen  assumeva un'aria dignitosa che essa aveva
    adottato,  pur senza comprenderne il senso per una specie  di  intuito
    che le era particolare.  Quella sua espressione voleva significare che
    era decisa a sopportare senza lagnarsi  la  sua  triste  sorte  e  che
    considerava  suo  marito come una croce mandatale da Dio.  Il principe
    Vassilij manifestava la sua opinione molto più francamente.  Quando si
    cominciava  a  parlare  di  Pierre,  egli si stringeva nelle spalle e,
    toccandosi la fronte con un gesto significativo, diceva:
    - "Un cerveau fêlé...  je le disais toujours [8.  Un cervello  bacato,
    l'ho sempre detto].
    -  Io  ho  sostenuto  prima  di tutti,   -  dichiarava Anna Pàvlovna a
    proposito di Pierre,  insistendo sulla priorità della propria opinione
    -   che quello era un giovane pazzo,  esaltato dalle idee corrotte del
    nostro secolo.  E lo sostenevo anche quando tutti erano entusiasti  di
    lui, ed egli era appena ritornato dall'estero; ricordate quella volta,
    a una serata in casa mia, che si dava delle arie da Marat (9)? E com'è
    finita?  Io,  sin  da  allora,  non  ero  affatto  favorevole  a  quel
    matrimonio, e avevo previsto tutto quello che purtroppo è accaduto.
    Anna Pàvlovna nelle serate libere dava,  come un tempo,  in casa  sua,
    dei ricevimenti organizzati con una abilità tutta particolare,  serate
    nelle quali,  come lei stessa soleva dire,  riuniva la  "crême  de  la
    véritable bonne société,  la fine fleur de l'essence intellectuelle de
    la société de Pétersbourg" [10. Il meglio della vera buona società; il
    fior fiore della cultura della società pietroburghese].  Oltre che per
    tale  raffinata  scelta degli invitati,  le serate di Anna Pàvlovna si
    distinguevano anche perché in  ognuna  di  esse  la  padrona  di  casa
    offriva ai suoi ospiti un personaggio nuovo,  interessante,  e perché,
    in nessun'altra casa,  come nella  sua,  si  manifestavano  con  tanta
    precisione  e  sicurezza  i  gradi  ai quali salivano,  sul termometro
    politico,  gli umori  della  società  legittimistica  della  capitale,
    relativamente allo svolgersi degli avvenimenti.
    Verso  la  fine  dell'anno  1806,  quando  erano  già  noti  i  tristi
    particolari delle  sconfitte  dell'esercito  prussiano  a  Jena  e  ad
    Auerstadt  ad  opera  di Napoleone e circa la resa di gran parte delle
    fortezze prussiane,  quando già le  nostre  truppe  erano  entrate  in
    Prussia e cominciava la seconda guerra contro Napoleone, Anna Pàvlovna
    aveva  dato  una  delle  sue  serate.  "La crême de la véritable bonne
    société" era composta dalla bellissima e  infelice  Elen,  abbandonata
    dal marito,  da Mortemart,  dall'affascinante principe Ippolìt, appena
    arrivato da Vienna,  da due diplomatici,  dalla  vecchia  zia,  da  un
    giovane  che  nel salotto godeva semplicemente dell'appellativo di "un
    homme de beaucoup de mérite" [11. Un giovane di molto merito],  da una
    damigella d'onore recentemente eletta, con la madre, e da alcune altre
    persone meno importanti.
    Il  personaggio  che  quella sera Anna Pàvlovna offriva come novità ai
    suoi invitati era Borìs Drubetzkòj,  giunto da pochi giorni in qualità
    di  corriere  dell'esercito  prussiano  e  di  aiutante  di  campo  di
    un'altissima personalità.  Quella sera,  il termometro  politico  dava
    all'eletta  riunione  le  seguenti  indicazioni:  "Per  quanto tutti i
    sovrani e i grandi generali europei procurassero di aiutare  sottomano
    il  Buonaparte  per  dare  a  "me"  e  in generale a noi i crucci e le
    amarezze presenti,  la nostra opinione sul conto di Napoleone non  può
    mutare.  Noi  non  cesseremo di manifestare il nostro franco parere in
    proposito e possiamo soltanto dire al re  di  Prussia  e  agli  altri:
    Peggio  per voi!  "Tu l'as voulu,  Georges Dandin!" [Te lo sei voluto,
    Georges Dandin!]" (12).
    Ecco quello che indicava il termometro politico al ricevimento di Anna
    Pàvlovna.
    Quando Borìs,  che doveva essere presentato agli invitati,  entrò  nel
    salotto,  la  riunione  era  quasi  al  completo  e  l'argomento della
    conversazione,  guidata da Anna Pàvlovna,  si aggirava sulle relazioni
    diplomatiche  con  l'Austria  e  sulla nostra auspicabile alleanza con
    quella nazione.
    Borìs, in uniforme da aiutante da campo, elegante,  fresco,  entrò con
    disinvoltura e,  secondo l'usanza,  fu condotto prima ad ossequiare la
    zia e poi nuovamente riunito al gruppo degli ospiti.
    Anna Pàvlovna gli porse la  sua  mano  rinsecchita  da  baciare  e  lo
    presentò ad alcune persone che egli non conosceva,  qualificandogliele
    sottovoce, una per una:
    - "Le prince Hippolyte  Kouraguine,  charmant  jeune  homme.  Monsieur
    Kroug,  chargé d'affaires de Kopenhague, un esprit profond";  -  e poi
    semplicemente:  -  "Monsieur Schitoff, un homme de beaucoup de mérite"
    [13.  Il principe Ippolìt Kuragin,  giovane  affascinante.  Il  signor
    Kroug,  incaricato di affari di Copenaghen,  una mente profonda...  Il
    signor Scitòv,  uomo di grande merito]  -  a proposito  di  colui  che
    godeva di quell'appellativo.
    Borìs,  durante  il suo servizio,  grazie alle raccomandazioni di Anna
    Pàvlovna, ai suoi gusti particolari e al suo carattere riservato,  era
    riuscito  a  crearsi  una  posizione  assai vantaggiosa.  Addetto come
    aiutante di campo di un alto  personaggio,  era  stato  incaricato  di
    un'importantissima  missione  in  Prussia,  donde  appunto  era appena
    tornato, in qualità di corriere.  Aveva saputo adattarsi perfettamente
    a  quella  regola  disciplinare  non  scritta,  secondo  la  quale  un
    sottotenente poteva trovarsi molto  più  in  alto  di  un  generale  e
    secondo la quale, per fare carriera, non erano necessari né sforzi, né
    fatiche,  né coraggio, né perseveranza, ma bastava possedere l'arte di
    saper trattare con coloro che distribuiscono gradi  e  ricompense;  ed
    egli  stesso talvolta si meravigliava della rapidità dei suoi successi
    e dell'incapacità degli altri ad agire come lui.  In seguito a  quella
    scoperta,  tutta la sua vita, tutte le sue relazioni con le conoscenze
    di un tempo e tutti i suoi progetti per  l'avvenire  erano  totalmente
    mutati.  Non  era  ricco  ma  impiegava tutto il suo denaro per essere
    vestito meglio  degli  altri;  preferiva  privarsi  di  molti  piaceri
    piuttosto  che  usare  una  brutta  carrozza o mostrarsi per le vie di
    Pietroburgo in una vecchia uniforme.
    Stringeva amicizia e cercava di far conoscenza  soltanto  con  persone
    che come posizione gli fossero superiori e che perciò avrebbero potuto
    essergli  utili.  Amava  Pietroburgo  e disprezzava Mosca.  Il ricordo
    della casa dei Rostòv e del suo infantile amore per Natascia  gli  era
    sgradito  e,  da  quando  era  partito per la guerra,  non era mai più
    andato in casa loro. Nel salotto di Anna Pàvlovna,  che egli giudicava
    della  massima utilità per fare un passo avanti nella carriera,  aveva
    subito capito la parte  che  doveva  rappresentare  e  lasciò  che  la
    padrona  di  casa  traesse profitto dall'interesse che egli suscitava;
    osservava  attentamente  tutte  le  persone  presenti  e  calcolava  i
    vantaggi  e  le possibilità che l'amicizia con ciascuna di esse poteva
    procurargli. Si sedette al posto indicatogli, accanto alla bella Elen,
    e prese ad ascoltare la conversazione generale.
    -  "Vienne  trouve  les  bases  du  traité  proposé   tellement   hors
    d'atteinte,  qu'on  ne  saurait  y parvenir même par une continuité de
    succès les plus brillants,  et  elle  met  en  doute  les  moyens  qui
    pourraient  nous les procurer.  C'est la phrase authentique du cabinet
    de Vienne [14.  Vienna ritiene così al di fuori di ogni  accettabilità
    le basi del trattato propostole,  che non le accetterebbe neppure dopo
    una serie di successi brillantissimi e dubita dei mezzi che potrebbero
    procurarceli.  E' la frase testuale  del  gabinetto  di  Vienna.]    -
    diceva l'incaricato di affari danese.
    -  "C'est  le  doute qui est flatteur!" [15.  E' proprio il dubbio che
    lusinga!]  -   osservò  l'uomo  dalla  mente  profonda,  con  un  fine
    sorriso.
    -  "Il  faut  distinguer  entre  le  cabinet  de  Vienne et l'empereur
    d'Autriche"  -  disse Mortemart.  -  "L'empereur d'Autriche n'a jamais
    pu penser à una chose pareille,  ce n'est que le cabinet  qui  le  dit
    [16.  Bisogna  distinguere  tra  il gabinetto di Vienna e l'imperatore
    d'Austria...  L'imperatore d'Austria non ha mai potuto pensare  a  una
    cosa simile: è soltanto il gabinetto che l'afferma].
    -  Eh,  "mon  cher vicomte"  -  interloquì Anna Pàvlovna  -  "L'Urope"
    (chi sa perché pronunziava "l'Urope" come  se  fosse  una  particolare
    finezza  della lingua francese),  "l'Urope ne sera jamais notre alliée
    sincère" [17.  Eh,  caro visconte,  l'Europa non sarà mai  una  nostra
    alleata sincera].
    Poi Anna Pàvlovna, per introdurre Borìs nella conversazione, si mise a
    parlare del coraggio e della fermezza del re di Prussia.
    Borìs aveva ascoltato attentamente tutto ciò che si diceva, aspettando
    il  suo  turno,  ma intanto era anche riuscito a lanciare di quando in
    quando un'occhiata alla sua vicina, la bellissima Elen, che già più di
    una volta gli aveva sorriso,  quando i suoi occhi  s'erano  incontrati
    con quelli magnifici del giovane aiutante.
    Con  molta  naturalezza,  nel  parlare della situazione della Prussia,
    Anna Pàvlovna pregò Borìs di descrivere il suo viaggio a Glogau  e  di
    parlare  delle  condizioni  in cui aveva trovato l'esercito prussiano.
    Borìs, senza affrettarsi, esprimendosi in un francese perfetto, espose
    molti particolari interessanti sulle truppe e  sulla  Corte,  evitando
    con  cura,  nel  corso  del  suo  racconto,  di  manifestare  opinioni
    personali sui fatti che  riferiva.  Per  un  certo  tempo  l'interesse
    generale  si concentrò sul giovane aiutante di campo,  e Anna Pàvlovna
    notò con soddisfazione che  il  nuovo  "piatto"  da  lei  offerto  era
    accettato  con  piacere da tutti gli invitati.  Fu Elen a interessarsi
    più di tutti alle parole di Borìs: lo  interrogò  parecchie  volte  su
    alcuni  particolari del suo viaggio,  mostrando d'interessarsi in modo
    speciale alle condizioni dell'esercito prussiano. Non appena egli ebbe
    finito, Elen gli si rivolse con il suo consueto sorriso:
    - "Il faut absolument que vous veniez me voir"    -    gli  disse  con
    un'intonazione   di  voce  tale  da  far  pensare  che,   per  ragioni
    particolari  che  egli  non  poteva  conoscere,  quella  visita  fosse
    assolutamente  indispensabile.    -  "Mardi entre huit et neuf heures.
    Vous me ferez grand  plaisir"  [18.  Bisogna  proprio  che  veniate  a
    trovarmi.  Martedì,  tra  le  otto  e  le  nove.  Mi  farete veramente
    piacere].
    Borìs le promise di non mancare e stava per mettersi a discorrere  con
    lei,  quando  Anna  Pàvlovna  lo  chiamò  con  il  pretesto che la zia
    desiderava ascoltare il suo racconto.
    - Voi conoscete suo marito, non è vero?   -  gli chiese Anna Pàvlovna,
    socchiudendo gli occhi e indicando Elen con un gesto doloroso.  -  Ah!
    E' una donna deliziosa,  ma tanto infelice!  Non parlate di lui in sua
    presenza, ve ne prego! La fareste troppo soffrire!


    CAPITOLO 7.

    Quando Borìs e Anna Pàvlovna si riunirono  al  gruppo  principale,  il
    principe  Ippolìt  stava  dirigendo la conversazione.  Spintosi avanti
    sulla poltrona, aveva esclamato:
    - "Le roi de Prusse!"  -  e,  detto ciò,  si mise a ridere.  Tutti  si
    erano  voltati  verso  di  lui.    -    "Le roi de Prusse?"  -  ripeté
    Ippolìt, mettendosi di nuovo a ridere e di nuovo tornò a sprofondarsi,
    tranquillo e serio, nella poltrona.
    Anna Pàvlovna aspettò un poco, ma,  poiché Ippolìt pareva deciso a non
    dire  altro,  ella si mise a parlare di quel sacrilego Bonaparte che a
    Potsdam aveva portato via la spada di Federico il Grande.
    - "C'est l'épée de Frédéric le Grand que je..." [19.  E' la  spada  di
    Federico il Grande,  che io...]  -  cominciò, ma Ippolìt la interruppe
    con le stesse parole di prima:
    - "Le roi de Prusse.."  -  e di nuovo, non appena tutti si rivolsero a
    lui,  si scusò e tacque.  Anna Pàvlovna  aggrottò  le  sopracciglia  e
    Mortemart, amico di Ippolìt, gli si rivolse decisamente dicendo:
    - "Voyons,  à qui en avez-vous avec votre roi de Prusse?" [20. Vediamo
    un po', con chi ce l'avete, con il vostro re di Prussia?].
    Ippolìt si mise a ridere, come se si vergognasse del proprio riso.
    - "Non,  ce n'est rien,  je voulais dire seulement..."    -    (voleva
    ripetere  uno scherzo sentito a Vienna e che per tutta la serata aveva
    cercato invano di inserire nella conversazione).   -  "Je voulais dire
    seulement  que  nous  avons  tort  de  faire la guerre "pour le roi de
    Prusse"" [21. No, niente, volevo soltanto dire... Volevo soltanto dire
    che abbiamo torto a combattere "per il re di Prussia"].
    Borìs sorrise prudentemente, in modo che il suo sorriso potesse essere
    considerato  come  una  canzonatura  o  come  un'approvazione  per  lo
    scherzo,  secondo  il  modo con cui esso sarebbe stato accolto.  Tutti
    scoppiarono in una risata.
    - "Il est très  mauvais  votre  jeu  de  mots,  très  spirituel,  mais
    injuste"  -  disse Anna Pàvlovna, minacciandolo con un dito.  -  "Nous
    ne  faisons  pas  la guerre pour le roi de Prusse,  mais pour les bons
    principes. Ah, le méchant, ce prince Hippolyte! [22.  E' molto maligno
    il  vostro  gioco  di  parole,  spiritoso,  sì,  ma ingiusto.  Noi non
    facciamo la guerra per il re di Prussia, ma per i buoni princìpi.  Ah,
    com'è cattivo questo principe Ippolìt!].
    La  conversazione  non  ebbe un minuto di sosta durante tutta la sera,
    trattò specialmente le novità politiche e si animò in modo particolare
    verso  la  fine,   quando   si   parlò   delle   ricompense   concesse
    dall'imperatore.
    -  L'anno  scorso  N.  N.  ha pure avuto una tabacchiera con ritratto-
    disse "l'homme à l'esprit profond"  -  perché S.  S.  non può avere la
    stessa ricompensa?
    -  "Je  vous  demande  pardon,  une  tabatière  avec  le  portrait  de
    l'empereur est une récompense, mais point une distinction"  -  osservò
    uno dei diplomatici;  -  "un cadeau plutôt" [23. Chiedo scusa,  ma una
    tabacchiera con il ritratto dell'imperatore può essere una ricompensa,
    ma non una distinzione... La chiamerei piuttosto un regalo].
    -  "Il  y a eu plutôt des antécédents,  je vous citerai Schwarzenberg"
    [Ci sono stati parecchi precedenti, vi citerò Schwarzenberg] (24).
    - "C'est impossible" [25. E' impossibile]  -  obiettò un altro.
    - Scommettiamo?  "Le grand  cordon,  c'est  différent"  [26.  Il  gran
    cordone è un'altra cosa].
    Quando  tutti  si  alzarono  per  andarsene,  Elen,  che aveva parlato
    pochissimo  durante  la  serata,   si  rivolse  di   nuovo   a   Borìs
    rinnovandogli,  con affettuosa e significativa preghiera,  l'invito di
    recarsi da lei il martedì successivo.
    - E' proprio indispensabile  -  disse con un sorriso,  guardando  Anna
    Pàvlovna,  e  Anna  Pàvlovna  con  quello  stesso  triste  sorriso che
    accompagnava  le  sue  parole  quando  parlava   della   sua   augusta
    protettrice,  approvò il desiderio di Elen.  Sembrava che quella sera,
    da alcune parole dette da Borìs a proposito dell'esercito di  Prussia,
    Elen  avesse scoperto improvvisamente l'assoluta necessità di vederlo,
    e ora sembrava promettergli che quando  si  fosse  recato  da  lei  il
    martedì gli avrebbe spiegato quella necessità.
    Ma  il  martedì sera,  allorché Borìs si trovò nel magnifico salone di
    Elen,  non ebbe una  chiara  spiegazione  sulla  necessità  di  quella
    visita.  Vi erano altri ospiti; la contessa parlò assai poco con lui e
    soltanto al momento di accomiatarsi,  mentre egli le baciava la  mano,
    ella  a  bassa voce e,  stranamente,  senza sorridere,  gli disse a un
    tratto:
    - "Venez demain dîner...  le soir.  Il faut que vous veniez...  Venez"
    [27.  Venite  domani  a  pranzo...  di  sera.  Bisogna  che veniate...
    Venite].
    Durante il suo soggiorno  a  Pietroburgo,  Borìs  divenne  un  assiduo
    frequentatore della casa della contessa Bezuchov.


    CAPITOLO 8.

    La  guerra  si  andava  intensificando e il teatro delle operazioni si
    avvicinava sempre di più alla frontiera  russa.  Ovunque  si  levavano
    maledizioni  a Bonaparte,  il nemico del genere umano;  si reclutavano
    soldati in  villaggi,  e  dalle  zone  di  guerra  giungevano  le  più
    disparate  notizie,  come sempre false,  e perciò interpretate in modi
    diversi.
    La vita del vecchio principe Bolkonskij,  del principe Andréj e  della
    principessina Màrija era molto mutata, dopo il 1805.
    Nel  1806 il vecchio principe era stato nominato tra gli otto generali
    in capo della milizia territoriale,  allora  designati  per  tutta  la
    Russia.  Nonostante  la  debolezza  senile,  accentuatasi  durante  il
    periodo in cui aveva creduto che suo figlio fosse morto,  egli non  si
    era  ritenuto  in diritto di rifiutare una carica alla quale era stato
    chiamato dall'imperatore,  e la nuova attività che gli si  offriva  lo
    aveva  rinvigorito  e  reso più energico.  Adesso era continuamente in
    giro per i tre governatorati a  lui  affidati;  scrupoloso  sino  alla
    pedanteria  nell'adempimento  del  dovere,  severo  sino alla crudeltà
    verso  i  subordinati,   si  occupava  personalmente  sin  nei  minimi
    particolari del suo lavoro.
    La principessina Màrija aveva smesso di prendere lezioni di matematica
    dal  padre  e soltanto qualche volta,  di mattina,  quando egli era in
    casa,  entrava nella sua stanza da lavoro accompagnata  dalla  nutrice
    che  portava  in  braccio il piccolo principe Nikolàj.  Il principino,
    ancora  poppante,  viveva  con  la  nutrice  e  la  bambinaia  Sàvisna
    nell'appartamento  della  defunta  principessa,  dove la principessina
    Màrija passava molta parte della giornata, cercando,  come sapeva,  di
    far  da  madre  al  piccolo nipotino.  Anche "mademoiselle" Bourienne,
    almeno  in  apparenza,   amava  moltissimo  il  bimbo  e   spesso   la
    principessina  Màrija  si privava,  per fare piacere all'amica,  della
    gioia di vezzeggiare l'angioletto (come essa chiamava il  nipotino)  e
    di giocare con lui.
    Di  fianco  all'altare  della  chiesa di Lissia-Gori era stata eretta,
    sulla tomba della piccola principessa,  una cappella,  ove  era  stato
    collocato  un  monumento  di  marmo  fatto  venire  dall'Italia,   che
    rappresentava un angelo con le ali spiegate, pronto a spiccare il volo
    verso il cielo.  L'angelo aveva il labbro superiore un po'  sollevato,
    come se si preparasse a sorridere, e un giorno il principe Andréj e la
    principessina  Màrija,  uscendo  dalla cappella,  si confessarono che,
    cosa strana, il viso dell'angelo rammentava loro quello della defunta.
    Ma,  cosa anche più strana,  di cui però il principe Andréj  non  fece
    parola  alla  sorella,  era  che  nell'espressione data per caso dallo
    scultore all'angelo, questi aveva le stesse parole di dolce rimprovero
    che aveva letto sul viso della moglie morta: "Oh,  che avete fatto  di
    me?".
    Poco  dopo  il ritorno del principe Andréj,  il vecchio principe aveva
    dato in proprietà  al  figlio  la  terra  di  Boguciàrovo,  un  grande
    possedimento  situato  a  quaranta  miglia  da  Lissia-Gori.  Sia  per
    sfuggire ai tristi ricordi legati a Lissia-Gori, sia perché non sempre
    si sentiva la forza di sopportare il carattere del  padre,  sia  anche
    perché  provava  un  gran  bisogno di solitudine,  il principe Andréj,
    approfittando del dono paterno,  si fece costruire a  Boguciàrovo  una
    casa dove finì per trascorrere la maggior parte del suo tempo.
    Dopo  la  campagna di Austerlitz,  il principe Andréj aveva fermamente
    deciso di non prestar più servizio nell'esercito e,  quando la  guerra
    si  riaccese  e  tutti  parevano dover riprendere le armi,  egli,  per
    evitare il servizio attivo, aveva accettato, agli ordini del padre, di
    attendere al reclutamento delle milizie territoriali. Pareva che padre
    e figlio, dopo la campagna del 1805, si fossero scambiate le parti: il
    vecchio  principe,  rianimato  dalla  nuova  attività,   si  attendeva
    dall'attuale campagna tutti i possibili successi;  il principe Andréj,
    invece,  che non partecipava alla guerra e che,  in cuor  suo,  se  ne
    doleva, prevedeva eventi tutt'altro che felici.
    Il  26  febbraio del 1809 il vecchio principe partì per una ispezione.
    Il figlio,  come sempre faceva durante le assenze del padre,  rimase a
    Lissia-Gori.  Il  piccolo Nikòluska era ammalato da quattro giorni.  I
    cocchieri,  che erano andati ad accompagnare il  padrone,  ritornarono
    dalla città portando carte e lettere per il principe Andréj.
    Il  domestico,  arrivato  con la posta,  non avendo trovato il giovane
    principe nel suo studio, si recò nell'appartamento della principessina
    Màrija,  ma non lo trovò neanche là.  Gli dissero che il  signore  era
    nella stanza del piccino.
    - Scusate,  eccellenza,  è arrivato Petruscia con alcune lettere disse
    una delle cameriere che aiutavano la bambinaia, volgendosi al principe
    Andréj il quale,  seduto su una seggiolina da bambini,  stava versando
    goccia  a  goccia  con  mano tremante una medicina in un bicchiere per
    metà pieno di acqua.
    - Che c'è?   -  domandò indispettito e,  mossa incautamente  la  mano,
    versò  nel  bicchiere  più  gocce  del necessario.  Buttò per terra la
    medicina contenuta nel bicchiere e chiese altra acqua.
    Nella camera non c'erano che un lettino, due bauli, due poltrone,  una
    tavola, un tavolinetto da bambini e una seggiolina sulla quale appunto
    era  adesso seduto il principe Andréj.  Le finestre avevano le tendine
    abbassate e sul tavolo ardeva una sola candela,  riparata da un  libro
    di musica, in modo che la luce non battesse direttamente sul lettino.
    -  Mio  caro,    -    disse  la principessina Màrija,  rivolgendosi al
    fratello da presso il lettino accanto al quale stava    -    è  meglio
    aspettare... dopo...
    -  Taci,  ti  prego!  Dici  solo delle sciocchezze.  Hai sempre voluto
    aspettare ed ecco,  a forza di aspettare...   -  mormorò  il  principe
    Andréj  in  tono  irritato  e  con  l'evidente intenzione di ferire la
    sorella.
    - Caro, secondo me, è davvero meglio non svegliarlo: si è addormentato
    appena adesso  -  obiettò la principessina con voce supplichevole.
    Il principe Andréj si alzò e in punta di piedi si avvicinò al  lettino
    con il bicchiere in mano.
    - Sarà proprio meglio non svegliarlo?  -  domandò esitante.
    - Come vuoi... io penso veramente che... ma fa' come credi...  rispose
    la  principessina  Màrija,  evidentemente  intimorita e confusa per il
    fatto che il suo parere fosse stato accettato.
    Indicò al fratello la ragazza che chiamava a bassa voce.
    Era quella la seconda notte che fratello  e  sorella  passavano  senza
    dormire  per  assistere  e curare il bimbo febbricitante.  In quei due
    giorni,  non fidandosi del medico di casa e in attesa  di  quello  che
    avevano mandato a chiamare in città,  avevano tentato ora questo,  ora
    quell'altro  rimedio.   Sfiniti  per  non  aver  dormito  e   dominati
    dall'inquietudine  scaricavano  l'uno  sull'altra  il proprio dolore e
    bisticciavano.
    - E' tornato Petruscia con alcune carte  da  parte  di  vostro  padre-
    sussurrò la ragazza. Il principe Andréj uscì.
    E,  dopo aver udito gli ordini verbali del padre e aver preso il plico
    che questi gli aveva inviato, rientrò nella stanza del bimbo.
    - Come va?  -  domandò alla sorella.
    - Sempre lo stesso.  Aspetta,  per amor di Dio!  Karl  Ivànovic'  dice
    sempre  che  il sonno è la miglior medicina  -  sussurrò sospirando la
    principessina Màrija.
    Il principe Andréj si avvicinò al piccolo e lo toccò. Scottava.
    - Al diavolo voi e il vostro Karl Ivànovic'!
    Prese il bicchiere con la medicina versata a goccia  a  goccia,  e  di
    nuovo si avvicinò.
    - Andréj, non farlo!  -  lo supplicò la sorella.
    Ma  egli,  non  meno  adirato  che  afflitto,  la  guardò  con il viso
    accigliato e si chinò con il bicchiere sul bambino.
    - Voglio che prenda la medicina!   -    esclamò.    -    Ti  prego  di
    dargliela.
    La principessina Màrija si strinse nelle spalle, prese il bicchiere e,
    chiamata  la  bambinaia,  si  accinse  a  somministrare la medicina al
    malatino.  Il bimbo si  mise  a  strillare,  pareva  soffocasse...  Il
    principe Andréj,  con una smorfia di dolore,  si prese la testa tra le
    mani, uscì dalla stanza e andò a sedersi sul divano di quella attigua.
    Aveva sempre in mano le lettere ricevute.  Le  aprì  macchinalmente  e
    cominciò  a  leggerle.   Il  vecchio  principe,   con  la  sua  grossa
    calligrafia slanciata, su un foglio di carta azzurra, gli scriveva:
    "Ho ricevuto in questo momento,  per mezzo del corriere,  una  notizia
    molto  lieta  e  che mi auguro non sia falsa.  Pare che Bennigsen (28)
    abbia sconfitto completamente Buonaparte sotto  Eylau.  A  Pietroburgo
    regna  grande  entusiasmo,   e  la  lista  delle  decorazioni  mandate
    all'esercito non ha fine. Quantunque si tratti di un generale tedesco,
    lo lodo  senza  riserve.  Non  capisco  che  cosa  faccia,  costà,  il
    comandante di Kòrcevo,  un tal Chàndrikov: sinora non sono arrivati né
    uomini,  né viveri.  Va' immediatamente da Chàndrikov e digli che  gli
    farò  tagliare  la  testa  se fra una settimana non sarà tutto qui.  A
    proposito della battaglia di Preussich-Eylau,  ho avuto una lettera di
    Pétenka (29);  egli vi ha preso parte: è tutto vero. Quando nelle cose
    non si immischiano  quelli  che  non  devono  immischiarsi,  anche  un
    tedesco  può  vincere  Buonaparte.  Si  dice  che  sia fuggito in gran
    disordine.  Va' dunque immediatamente a Kòrcevo ed  eseguisci  i  miei
    ordini".
    Il  principe  Andréj  sospirò e aprì un'altra lettera,  scritta su due
    fogli ricoperti di minutissima calligrafia: era di Bilibin. La ripiegò
    senza leggerla e rilesse invece quella del padre  che  finiva  con  le
    parole:  "Va'  dunque  immediatamente  a  Kòrcevo  ed eseguisci i miei
    ordini".
    "Eh no,  scusate tanto,  ma non ci vado sino a che il mio bambino  non
    sia guarito",  si disse,  e avvicinatosi all'uscio,  gettò un'occhiata
    nella camera.  La principessina Màrija era sempre  seduta  accanto  al
    lettino e cullava pian piano il piccolo malato.
    "E che altro mi scrive di sgradevole?", si domandò il principe Andréj,
    cercando di ricordare il contenuto della lettera paterna. "Ah, ecco: i
    nostri hanno riportato una vittoria su Buonaparte,  proprio adesso che
    io non sono in servizio. Sì, sì! si diverte a canzonarmi! Buon pro gli
    faccia..." e cominciò a scorrere la lettera di Bilibin.  Leggeva senza
    capire  nemmeno  la  metà di quello che leggeva,  leggeva soltanto per
    impedirsi di pensare a ciò che da troppo tempo costituiva il suo unico
    tormentoso pensiero.



    CAPITOLO 9.

    Bilibin in qualità di addetto diplomatico, si trovava adesso presso il
    quartier generale e, benché scrivesse in francese, servendosi di motti
    e di giri di parole francesi, descriveva,  con coraggio tutto russo di
    fronte  alle  critiche e alle canzonature,  lo svolgimento dell'intera
    campagna.  Bilibin scriveva che la propria diplomatica "discrétion" lo
    tormentava   e  che  era  felice  di  avere  nel  principe  Andréj  un
    corrispondente di fiducia al  quale  poter  confidare  tutta  la  bile
    accumulata dentro di sé nel costatare ciò che succedeva nell'esercito.
    La  lettera  era  già  vecchia,   scritta  prima  della  battaglia  di
    Preussich-Eylau.
    "Depuis nos grands succès d'Austerlitz vous savez,  mon cher  prince",
    scriveva  Bilibin,  "que  je  ne  quitte  plus les quartiers généraux.
    Décidément j'ai pris le goût de la guerre, et bien m'en a pris. Ce que
    j'ai vu ces trois mois est incroyable.
    "Je commence "ab ovo".  "L'ennemi du genre humain",  comme vous savez,
    s'attaque aux Prussiens. Les Prussiens sont nos fidèles alliés, qui ne
    nous ont trompés que trois fois depuis trois ans. Nous prenons fait et
    cause  pour  eux.  Mais il se trouve que "l'ennemi du genre humain" ne
    fait nulle attention à nos beaux discours,  et avec sa manière impolie
    et  sauvage  se  jette  sur les Prussiens sans leur donner le temps de
    finir la parade commencée,  en deux tours de main les  rosse  à  plate
    couture et va s'installer au palais de Potsdam.
    ""J'ai le plus vif désir", écrit le roi de Prusse à Bonaparte! "que V.
    M.  soit  accueillie  et traitée dans mon palais d'une manière qui lui
    soit agréable,  et c'est avec empressement que j'ai pris à  cet  effet
    toutes  les  mesures que les circonstances me permettaient.  Puissé-je
    avoir réussi!".  Les généraux prussiens se piquent de politesse envers
    les Francais et mettent bas les armes aux premières sommations.
    "Le chef de la garnison de Glogau,  avec dix mille hommes,  demande au
    roi de Prusse ce qu'il doit faire s'il est sommé de se rendre...  tout
    cela est positif.
    "Bref,  espérant en imposer seulement par notre attitude militaire, il
    se trouve que nous voilà en guerre pour tout de bon,  et,  ce qui plus
    est,  en  guerre  sur  nos frontières "avec et pour le roi de Prusse".
    Tout est au grand complet,  il ne nous  manque  qu'une  petite  chose,
    c'est  le  général  en  chef.  Comme  il  s'est  trouvé que les succès
    d'Austerlitz auraient pu être plus décisifs si le genéral en chef  eut
    été moins jeune,  on fait la revue des octogénaires et entre les feld-
    maréchaux Prosorfsky (30)  et  Kamensky  on  donne  la  préférence  au
    dernier.  Le général nous arrive en kibitka à la manière Souvoroff, et
    est accueilli avec des acclamations de joie et de triomphe.
    "Le 4 arrive le premier courrier de Pétersbourg. On apporte les malles
    dans le cabinet du rnaréchal,  qui aime à faire tout par lui-même.  On
    m'appelle  pour  aider à faire le triage des lettres et prendre celles
    qui nous sont destinées.  Le maréchal nous regarde faire et attend les
    paquets qui lui sont adressés.  Nous cherchons: il n'y en a point.  Le
    maréchal devient impatient, se met lui même à la besogne et trouve des
    lettres de l'Empereur pour le comte T.,  pour le prince V.  et autres.
    Alors le voilà qui se met dans une de ses colères bleues. Il jette feu
    et flammes contre tout le monde,  s'empare des lettres,  les décachète
    et lit celles de l'Empereur adressées à d'autres.  "Ah,  si  agisce  a
    questo modo con me! E sta bene, andatevene! fuori tutti!". Et õl écrit
    le fameux ordre du jour au général Bennigsen.
    [31.  "Dopo i nostri grandi successi di Austerlitz,  voi sapete,  caro
    principe che non  mi  sono  più  allontanato  dal  quartier  generale.
    Decisamente  ho  preso  gusto  alla  guerra e ne sono lietissimo.  Non
    potete credere quello che ho visto durante questi tre mesi.
    "Comincio "ab ovo". Come sapete,  "il nemico del genere umano" attacca
    i Prussiani.  I Prussiani sono i nostri fedeli alleati che in tre anni
    ci hanno tradito soltanto tre volte.  Noi  ci  schieriamo  dalla  loro
    parte, ma ecco che "il nemico del genere umano" non bada ai nostri bei
    discorsi  e  con  quel  suo  modo  sgarbato  e  selvaggio,  piomba sui
    Prussiani senza dar loro il tempo di finire la parata incominciata, in
    quattro e quattr'otto li  sbaraglia  senza  alcun  riguardo  e  va  ad
    alloggiare nel palazzo di Potsdam.
    ""Io  ho il più gran desiderio",  scrive il re di Prussia a Bonaparte,
    che V.  M.  sia accolta e trattata nel  mio  palazzo  secondo  i  suoi
    desideri,  e con la più viva sollecitudine ho preso, a tal fine, tutte
    le misure che le circostanze mi hanno consentito. Mi auguro di esservi
    riuscito!".  I generali prussiani  si  piccano  di  cortesia  verso  i
    Francesi e, alla prima intimazione, depongono le armi.
    "Il  comandante  della  guarnigione  di Glogau,  con diecimila uomini,
    domanda al re di Prussia che cosa deve fare se gli viene  intimato  di
    arrendersi... Tutto questo è cosa certa.
    "A  farla  breve,   noi  speravamo  di  imporci  con  il  nostro  solo
    spiegamento militare, ed eccoci trascinati in guerra sul serio e, quel
    che è peggio,  alle nostre frontiere "con e per  il  re  di  Prussia".
    Tutto è pronto; ci manca soltanto una piccolezza: il generale in capo.
    E  poiché  è  stato  dimostrato che i successi di Austerlitz sarebbero
    stati più decisivi se il generalissimo fosse stato meno giovane,  così
    ora  abbiamo  rivolto  la  nostra  attenzione agli ottuagenari e,  tra
    Prozorovskij e Kamenskij,  si dà  la  preferenza  a  quest'ultimo.  Il
    maresciallo  arriva in carrozza coperta alla maniera di Suvorov,  ed è
    accolto con acclamazioni di gioia e di trionfo.
    "Il 4 arriva il primo corriere  da  Pietroburgo.  Le  valigie  vengono
    portate  nello  studio  del  maresciallo,  al  quale  piace fare tutto
    personalmente.  Vengo chiamato per  aiutare  a  far  la  scelta  delle
    lettere  e  ritirare  quelle  che ci sono indirizzate.  Il generale ci
    guarda fare e  aspetta  il  plico  di  quelle  destinate  a  lui.  Noi
    cerchiamo,  ma non ne troviamo. Il maresciallo dà segni di impazienza,
    si mette di persona al lavoro e trova alcune  lettere  dell'imperatore
    per il conte T.,  per il principe V. e per altri. Allora è preso da un
    attacco di  furia  bestiale,  lancia  fuoco  e  fiamme  contro  tutti,
    s'impadronisce  delle  lettere  le  dissuggella  e  legge  quelle  che
    l'imperatore ha diretto ad altri. "Ah, si agisce a questo modo con me!
    E sta bene, andatevene!  fuori tutti!".  E scrive il famoso ordine del
    giorno al generale Bennigsen"].
    ""Io  sono  ferito,  non  posso  montare  a cavallo e quindi non posso
    comandare l'esercito.  Voi avete condotto  il  vostro  corpo  d'armata
    sconfitto  a  Pultusk;  lì  è  in terreno aperto,  senza legna e senza
    foraggio,  perciò bisogna trovare il modo di provvedere e,  come  ieri
    voi  stesso  avete  riferito  al  conte Bukshevden,  occorre pensare a
    ritirarsi sui nostri confini, cosa da eseguire oggi stesso.
    ""A causa del mio continuo andare a cavallo",  scrive  all'imperatore,
    "la  sella  mi ha provocato una escoriazione che,  aggiunta agli altri
    miei inconvenienti di  viaggio,  mi  impedisce  in  modo  assoluto  di
    cavalcare  e  di  comandare  un  esercito  così  numeroso  e perciò ho
    affidato il comando  al  più  anziano  dei  miei  generali,  al  conte
    Bukshevden;  gli  ho  mandato tutti gli ufficiali di servizio e gli ho
    consigliato,  in caso  non  gli  riuscisse  di  avere  del  grano,  di
    ritirarsi  verso  l'interno della Prussia,  giacché ci è rimasto grano
    per una sola giornata e in alcuni reggimenti non ne è rimasto affatto,
    come  hanno  dichiarato  i  comandanti   di   divisione   Osterman   e
    Sedmoreyzkij e i contadini lo hanno consumato tutto; io stesso, sino a
    quando non mi sarò rimesso,  rimarrò nell'ospedale di Ostrolenka. Oggi
    stesso faccio rapporto di quanto sopra, e vi informo che,  se l'armata
    rimarrà in simili bivacchi per altri quindici giorni, in primavera non
    avremo più un uomo sano.
    ""Permettete  che  un  vecchio,  già  screditato  per  non aver potuto
    portare a termine la grande e gloriosa impresa cui era stato chiamato,
    si ritiri in campagna.  Attenderò qui all'ospedale il  vostro  augusto
    consenso  per  non  adempiere il compito di scrivano anziché quello di
    comandante dell'esercito. Il mio allontanamento dall'esercito non avrà
    maggior divulgazione di quanto potrebbe averne  quello  di  un  cieco.
    Uomini come me, la Russia ne ha a migliaia".
    "Le  maréchal se fache contro l'Empereur et nous punit tous;  n'est-ce
    pas que c'est logique!
    "Voilà le premier acte.  Aux suivants l'intérêt et le ridicule montent
    comme  de  raison.  Après  le départ du maréchal il se trouve que nous
    sommes en vue de l'ennemi, et qu'il faut livrer bataille.  Boukshevden
    est général en chef par droit d'ancienneté,  mais le général Bennigsen
    n'est pas de cet avis; d'autant plus qu'il est lui, avec son corps, en
    vue de l'ennemi et qu'il veut profiter de  l'occasion  d'une  bataille
    "aus eigener Hand" comme disent les Allemands.  Il la donne.  C'est la
    bataille de Poultousk qui est censée être une  grande  victoire,  mais
    qui à mon avis ne l'est pas du tout.  Nous autres pékins avons,  comme
    vous savez,  une très vilaine habitude: de décider du gain  ou  de  la
    perte  d'une bataille.  Celui qui s'est retiré après la bataille,  l'a
    perdue,  voilà ce que nous disons,  et à ce titre nous avons perdu  la
    bataille  de  Poultousk.  Bref,  nous nous retirons après la bataille,
    mais nous envoyons un courrier à Pétersbourg,  qui porte les nouvelles
    d'une  victoire,  et  le général ne cède pas le commandement en chef à
    Boukshevden,  espérant recevoir de Pétersbourg en reconnaissance de sa
    victoire  le  titre de général en chef.  Pendant cet interrègne,  nous
    commencons  un  plan  de  manoeuvres  excessivement   intéressant   et
    original. Notre but ne consiste pas, comme il devrait l'être, à éviter
    ou   à  attaquer  l'ennemi,   mais  uniquement  à  éviter  le  général
    Boukshevden,  qui par  droit  d'ancienneté  serait  notre  chef;  nous
    poursuivons  ce  but  avec  tant  d'énergie,  que  même en passant une
    rivière qui n'est pas  guéable,  nous  brûlons  les  ponts  pour  nous
    séparer de notre ennemi qui, pour le moment, n'est pas Bonaparte, mais
    Boukshevden.  Le  général  Boukshevden a manqué d'être attaqué et pris
    par des forces ennemies supérieures,  à  cause  d'une  de  nos  belles
    manoeuvres  qui  nous sauvait de lui.  Boukshevden nous poursuit: nous
    filons.  A peine passe-t-il de notre coté  de  la  rivière,  que  nous
    repassons  de l'autre.  A la fin notre ennemi Boukshevden nous attrape
    et s'attaque à nous.  Les deux généraux se fâchent.  Il y a  même  une
    provocation  en  duel  de  la  part  de  Boukshevden  et  une  attaque
    d'épilepsie de la part de Bennigsen.  Mais,  au  moment  critique,  le
    courrier,  qui porte la nouvelle de notre victoire de Poultousk,  nous
    apporte de Pétersbourg notre nomination de  général  en  chef,  et  le
    premier ennemi Boukshevden est enfoncé: nous pouvons penser au second,
    à Bonaparte. Mais ne voilà-t-il pas qu'à ce moment se lève devant nous
    un troisième ennemi, c'est "il soldato ortodosso" qui demande à grands
    cris du pain,  de la viande, des biscuits du foin  -  que sais-je! Les
    magasins sont vides, les chemins impraticables. "Il soldato ortodosso"
    se met à la maraude,  et d'une manière dont la  dernière  campagne  ne
    peut  vous  donner la moindre idée.  La moitié des régiments forme des
    troupes libres,  qui parcourent la contrée en mettant tout à feu et  à
    sang.  Les  habitants  sont  ruinés  de  fond en comble,  les hopitaux
    regorgent de malades, et la disette est partout. Deux fois le quartier
    général a été attaqué par des troupes de maraudeurs et le  général  en
    chef  a été obligé lui-même de demander un bataillon pour les chasser.
    Dans une de ces attaques on m'a emporté ma malle vide et  ma  robe  de
    chambre. L'Empereur veut donner le droit à tous les chefs de divisions
    de  fusiller les maraudeurs,  mai ie crains fort que cela n'oblige une
    moitié de l'armée de fusiller l'autre!".
    [32. "Il maresciallo è irritato contro l'imperatore e se la prende con
    noi. Logico!
    "Questo  è  il  primo  atto.  Nei  seguenti  aumentano,  naturalmente,
    l'interesse e il ridicolo.  Dopo che il maresciallo se n'è andato,  ci
    si accorge che siamo in  vista  del  nemico  e  che  bisogna  attaccar
    battaglia.  Bukshevden  è comandante in capo per diritto di anzianità,
    ma il generale Bennigsen non è di questa opinione tanto più che è lui,
    con il corpo d'armata,  che si trova di fronte al nemico  e  non  vuol
    perdere l'occasione per dar battaglia "aus eigener Hand",  come dicono
    i Tedeschi,  ossia per proprio conto.  E la dà.  E'  la  battaglia  di
    Pultusk,  considerata una grande vittoria ma che, a mio avviso, non lo
    è  affatto.  Noialtri  borghesi  abbiamo,  come  sapete,  una  pessima
    abitudine:  quella di decidere circa la vittoria o la sconfitta di una
    battaglia.  Chi si ritira dopo lo scontro,  secondo noi lo ha perduto,
    e, con questa idea, gli sconfitti di Pultusk siamo stati noi. Insomma,
    dopo  la  battaglia  noi  ci  ritiriamo,  ma mandiamo a Pietroburgo un
    corriere con la notizia della vittoria,  e il  generale  non  cede  il
    comando   supremo   a  Bukshevden,   nella  speranza  di  ricevere  da
    Pietroburgo, in premio della vittoria, la nomina a comandante in capo.
    Durante  questo  interregno,  diamo  inizio  a  un  piano  di  manovre
    interessantissimo  e  originale.  Il  nostro  scopo  non  è già,  come
    apparirebbe logico,  quello di  fuggire  o  attaccare  il  nemico,  ma
    unicamente  di sottrarci al generale Bukshevden il quale,  per diritto
    di anzianità, dovrebbe essere il nostro capo.  E perseguiamo il nostro
    scopo  con  tanta  energia  che persino nell'attraversare un fiume non
    guadabile bruciamo i ponti per separarci dal nostro nemico che, per il
    momento, non è Bonaparte, ma Bukshevden.  E per poco,  a causa di tali
    manovre  che ci dovrebbero salvare da lui,  il generale Bukshevden non
    fu attaccato e preso da forze nemiche superiori. Bukshevden ci insegue
    e noi fuggiamo. Non appena egli passa sulla riva del fiume dove noi ci
    troviamo, ecco che noi ci trasferiamo sull'altra.  Alla fine il nemico
    Bukshevden  ci  raggiunge e ci provoca.  I due generali si affrontano:
    c'è anche una sfida a duello da parte di Bukshevden e  un  attacco  di
    epilessia da parte di Bennigsen. Ma, nel momento più critico, torna da
    Pietroburgo  il  corriere  che  aveva  portato la notizia della nostra
    vittoria a Pultusk e che ci reca la nomina del  nostro  comandante  in
    capo;  il  nostro primo nemico Bukshevden è annichilito.  Possiamo ora
    pensare al secondo,  a Bonaparte.  Ma ecco sorgere dinanzi  a  noi  un
    terzo  nemico,  "il  soldato ortodosso",  che a gran voce chiede pane,
    carne,  gallette,  fieno e che so altro!  I magazzini sono  vuoti,  le
    strade  impraticabili.  Il "soldato ortodosso" si dà alle ruberie e in
    modo tale che l'ultima campagna non può darvene la minima  idea.  Metà
    dei  reggimenti  si  trasformano  in  bande  di  truppe  libere,   che
    percorrono il paese, mettendo tutto a ferro e fuoco. Gli abitanti sono
    completamente rovinati, gli ospedali rigurgitano di ammalati e ovunque
    regna la  carestia.  Per  due  volte  il  quartier  generale  è  stato
    attaccato  da  bande  di  rapinatori  e  il  generale  in capo è stato
    costretto a chiedere un battaglione per respingerli.  In uno  di  tali
    attacchi  mi  hanno  portato  via  la  valigia vuota e la mia veste da
    camera.  L'imperatore vuol  dare  facoltà  a  tutti  i  comandanti  di
    divisione  di far fucilare i predatori,  ma temo molto che tale ordine
    costringa una metà dell'esercito a fucilare l'altra metà!"]

    Sulle prime il principe Andréj aveva letto solo con gli occhi  ma  poi
    suo  malgrado  (pur  sapendo  sino  a  che  punto  si doveva credere a
    Bilibin),  cominciò a provare un interesse sempre crescente per quanto
    stava leggendo.  Arrivato a questo punto della lettera, appallottolò i
    fogli e li gettò per terra.  Non era irritato  per  quello  che  aveva
    letto,  ma  per  il  fatto  che  quella  vita  di laggiù,  ormai a lui
    estranea,  poteva ancora commuoverlo.  Chiuse gli occhi,  si passò una
    mano  sulla  fronte come per scacciare ogni interesse per quanto aveva
    letto e tese l'orecchio a ciò che accadeva nella stanza del  bimbo.  A
    un tratto gli parve di udire, al di là della porta, uno strano rumore.
    Fu  assalito  dalla  paura: temeva che,  mentre egli era immerso nella
    lettura della lettera, fosse accaduto qualcosa al piccino. Si avvicinò
    in punta di piedi all'uscio e l'aprì.
    Nel momento in cui stava per entrare vide che la bambinaia,  con  aria
    impaurita,  gli  nascondeva qualcosa e che la principessina Màrija non
    era più accanto al lettino.
    - Caro!  -  udì alle sue spalle la voce sommessa della sorella,  nella
    quale  gli  parve  di avvertire un tono disperato.  Come spesso accade
    dopo una lunga notte insonne e dopo una lunga ansia,  egli fu vinto da
    un  terrore  senza motivo.  Pensò che il bimbo fosse morto e gli parve
    che tutto ciò che udiva e che vedeva confermasse il suo terrore.
    "Tutto è finito",  pensò,  e un sudore gelido  gli  bagnò  la  fronte.
    Stordito,  si avvicinò al lettino, convinto di trovarlo vuoto e che la
    governante avesse appunto nascosto il corpicino.  Scostò la cortina: a
    lungo  i  suoi occhi che erravano spaventati non riuscirono a scorgere
    il bimbo.  Finalmente lo vide: il piccolo,  rosso in viso,  giaceva di
    traverso sul lettino, tenendo il capo più basso del guanciale; poppava
    in sogno, aprendo e chiudendo le labbruzze e respirava regolarmente.
    Nel  vederlo,  il  principe  Andréj  si  rallegrò  come  se  lo avesse
    ritrovato dopo averlo perduto.  Si chinò e,  come la sorella gli aveva
    insegnato,  lo  sfiorò  con le labbra per sentire se il piccino avesse
    ancora la febbre.  La tenera fronte era umida,  toccò con la  mano  la
    testa:  anche  i capelli erano bagnati,  tanto il bambino sudava.  Non
    soltanto non era morto,  ma era chiaro che la crisi  era  ormai  stata
    superata, che egli era in via di guarigione.
    Il  principe Andréj provò un irresistibile desiderio di afferrare,  di
    stringersi al petto quella piccola,  indifesa creatura,  ma  non  osò.
    Chino sul bimbo,  gli guardava la testa,  le manine, i minuscoli piedi
    che si delineavano sotto la coperta.  Udì un fruscio alle sue spalle e
    un'ombra apparve sotto la cortina del letto. Non si voltò e continuò a
    contemplare il viso del figlio ed ascoltarne il respiro regolare.
    L'ombra  oscura  era la principessina Màrija che,  silenziosa,  si era
    avvicinata al  lettino  e,  sollevata  la  cortina,  l'aveva  lasciata
    ricadere  dietro di sé.  Il principe Andréj la riconobbe senza neppure
    voltarsi e le tese la mano. Ella gliela strinse con forza.
    - E' tutto sudato  -  disse il principe.
    - Venivo da te per dirtelo.
    Il piccolo si mosse lievemente nel sonno, sorrise e strofinò la fronte
    contro il guanciale.
    Il principe Andréj guardò la sorella.  I luminosi occhi di  lei  nella
    penombra opaca della cortina brillavano più che mai per le lacrime che
    li  colmavano.   Ella  si  protese  verso  il  fratello  e  lo  baciò,
    impigliandosi  leggermente  nella  cortina.  Si  fecero  un  cenno  di
    scherzosa  minaccia e rimasero ancora qualche istante sotto le cortine
    opache,  come se non volessero allontanarsi da quel mondo in cui  loro
    tre erano isolati da tutto il resto...
    Il  principe  Andréj  si  scosse e,  scompigliando i capelli contro la
    mussola della cortina,  si allontanò dal  lettino,  mormorando  in  un
    sospiro:
    - Sì, questa è l'unica cosa che ormai mi è rimasta nella vita!


    CAPITOLO 10.

    Poco dopo la sua ammissione nella confraternita dei massoni, munito di
    tutte  le  istruzioni  che  dovevano  essergli  di guida circa ciò che
    doveva fare nei suoi possedimenti,  Pierre partì per il  governatorato
    di Kiev, dove si trovava la maggior parte dei suoi contadini.
    Giunto  a  Kiev,  Pierre convocò nel suo ufficio centrale tutti i suoi
    amministratori ed  espose  loro  le  proprie  intenzioni  e  i  propri
    desideri.  Dichiarò che presto si sarebbero prese le necessarie misure
    per la completa emancipazione dei contadini dalla servitù della  gleba
    e  che,   frattanto,  si  cercasse  di  non  assoggettarli  a  fatiche
    eccessive,  e che le donne con i figli piccoli fossero  esonerate  dal
    lavoro dei campi;  che i contadini dovevano essere aiutati, che doveva
    cessare l'uso delle  punizioni  corporali  e  che  in  ogni  proprietà
    sarebbero   stati   costruiti   ospedali,   asili  e  scuole.   Alcuni
    amministratori (fra i quali vi  erano  degli  analfabeti)  ascoltavano
    spaventati,  credendo  di capire da quel discorso che il giovane conte
    era scontento della loro amministrazione e delle loro ruberie;  altri,
    dopo  un  primo  momento di timore,  trovarono divertente la pronunzia
    blesa di Pierre e le sue parole nuove e  mai  udite;  altri  provarono
    semplicemente  piacere  nel  sentir  parlare  il loro padrone;  altri,
    infine, i più intelligenti,  tra cui l'amministratore capo,  dedussero
    da  quel  discorso  come  dovessero  comportarsi  con  il  padrone per
    raggiungere i loro scopi.
    L'amministratore capo espresse una viva simpatia per le intenzioni  di
    Pierre;  ma  fece notare che,  oltre ad applicare quelle riforme,  era
    indispensabile occuparsi  anche  degli  affari  in  generale,  le  cui
    condizioni erano tutt'altro che buone.
    Nonostante  le  enormi ricchezze del vecchio conte Bezuchov che Pierre
    aveva ereditato e che,  a quanto si diceva,  gli davano un reddito  di
    cinquecentomila rubli l'anno, egli si sentiva assai meno ricco che non
    al  tempo  in  cui  suo padre gliene passava diecimila.  Egli riteneva
    piuttosto urgente che,  a grandi tratti,  il  suo  bilancio  fosse  il
    seguente:  al  Consiglio  di Tutela (33) si pagavano circa ottantamila
    rubli per tutte le sue proprietà; su per giù trentamila gli costava il
    mantenimento della casa di Mosca,  della villa  fuori  città  e  delle
    principessine;  circa quindicimila andavano per le pensioni e le opere
    di beneficenza;  la contessa,  per il suo  mantenimento,  ne  riceveva
    centocinquantamila;   per   i   vari   debiti  si  pagavano  interessi
    aggirantisi sui settantamila rubli; la costruzione di una chiesa,  già
    iniziata,  era  costata  nei  primi  due anni sui diecimila rubli;  il
    restante denaro  -  circa centomila rubli   veniva  speso  non  sapeva
    neppure  lui stesso come,  e quasi ogni anno era costretto a contrarre
    dei debiti. Ogni anno, inoltre, l'amministratore capo gli dava notizia
    ora di qualche incendio, ora di una carestia,  ora di indispensabili e
    urgenti  riparazioni alle fabbriche e alle varie costruzioni.  Perciò,
    il primo lavoro cui Pierre si  sarebbe  dovuto  dedicare  era  proprio
    quello  al  quale  si sentiva meno portato e meno idoneo: occuparsi di
    affari.
    Ogni giorno  Pierre  lavorava  con  il  suo  amministratore  capo,  ma
    purtroppo  sentiva  che  il  suo lavoro non serviva a far procedere le
    cose neppure di un passo.  Sentiva  che  il  suo  lavoro  si  svolgeva
    indipendentemente  dagli affari,  nei quali non riusciva a inserirsi e
    che non progredivano affatto.  Da un lato,  l'amministratore capo  gli
    esponeva  le  situazioni nella loro luce peggiore dimostrando a Pierre
    la necessità di pagare  i  debiti  e  di  intraprendere  nuovi  lavori
    servendosi  dell'opera  dei  servi  della  gleba,  al  che  Pierre non
    consentiva;   dall'altro  lato,   Pierre  esigeva  che  si  procedesse
    nell'opera  di  emancipazione,  al  che  l'amministratore  opponeva la
    necessità di pagare prima i debiti con il Consiglio di  Tutela,  e  da
    ciò derivava l'impossibilità di una rapida realizzazione del progetto.
    Non  diceva  l'amministratore  capo  che  si  trattasse  di  una  cosa
    assolutamente impossibile; egli proponeva, per realizzarla, la vendita
    delle foreste della provincia di Kostromà,  la vendita delle  terre  a
    valle  del  fiume e di quelle della tenuta di Crimea.  Ma tutte queste
    operazioni  erano  ostacolate,   secondo   quanto   faceva   osservare
    l'amministratore,  da una tale quantità di processi, di deliberazioni,
    di estinzioni di ipoteche,  di citazioni,  eccetera,  che Pierre ci si
    smarriva e si limitava a dire:
    - Sì, sì, fate pure così...
    Pierre  non  aveva  quel  senso  pratico che gli avrebbe consentito di
    accingersi subito all'opera; per questo gli affari non gli piacevano e
    si sforzava di interessarsene soltanto in presenza dell'amministratore
    mentre costui,  dal canto suo,  fingeva,  davanti al conte,  di essere
    convinto  che quel lavoro riuscisse molto vantaggioso per il padrone e
    molto scomodo per lui.
    Nella grande città Pierre  trovò  parecchie  conoscenze:  chi  non  lo
    conosceva  cercava di entrare in relazione con lui,  e tutti accolsero
    cordialmente il nuovo, ricchissimo signore appena arrivato, che era il
    più gran proprietario di  tutta  la  provincia.  Anche  le  tentazioni
    relative alla maggior debolezza di Pierre, quella che aveva confessato
    al  momento della sua ammissione alla Loggia,  erano così forti che il
    giovane non riusciva a vincerle.  Di nuovo,  giorni,  settimane e mesi
    della  vita  di  Pierre trascorsero tra serate,  pranzi,  ricevimenti,
    feste da ballo, senza dargli modo di riflettere e di riprendersi, come
    un tempo a Pietroburgo.  Invece di iniziare una nuova esistenza,  come
    aveva  sperato,  Pierre  continuava a condurre quella stessa di prima,
    semplicemente in una città diversa.
    Dei tre precetti della massoneria Pierre riconosceva di non obbedire a
    quello secondo il quale ogni massone era tenuto a essere un modello di
    vita morale;  e  delle  sette  virtù  massoniche,  due  gli  mancavano
    totalmente:  l'irreprensibilità dei costumi e l'amore della morte.  Si
    consolava al pensiero che in compenso adempiva un altro  precetto,  la
    rigenerazione del genere umano e aveva altre virtù,  quali l'amore per
    il prossimo e, soprattutto, la generosità.
    Nella  primavera  dell'anno  1807,   Pierre  decise  di  ritornare   a
    Pietroburgo.  Aveva intenzione di passare, durante questo viaggio, per
    tutti i suoi  possedimenti  per  rendersi  personalmente  conto  circa
    quanto era stato fatto in obbedienza agli ordini dati, e per costatare
    in  quale  condizione  si  trovasse  ora  la  gente  che Dio gli aveva
    affidato e che egli voleva ardentemente beneficare.
    L'amministratore principale,  che considerava pazzie dannose per  lui,
    per  sé  e  per  i  contadini le riforme progettate dal giovane conte,
    aveva fatto tuttavia qualche concessione.  Pur continuando a sostenere
    l'impossibilità dell'emancipazione, aveva ordinato di far costruire in
    ogni  proprietà  dei grandi edifici per le scuole,  gli ospedali e gli
    asili;  in  vista  dell'arrivo  del  padrone  fece  preparare  ovunque
    accoglienze  dalle  quali fossero escluse la solennità e la pompa che,
    egli  sapeva,  non  erano  gradite  a  Pierre,  ma  manifestazioni  di
    carattere religioso a dimostrazione della gratitudine generale, con le
    immagini  sacre,  l'offerta del pane e del sale,  tutte cose,  insomma
    che, secondo l'idea che si era fatta del giovane conte, dovevano agire
    favorevolmente su di lui e trarlo in inganno.
    La primavera meridionale,  il viaggio rapido e comodo in una  carrozza
    alla   viennese  e  la  solitudine  delle  strade  ebbero  un  effetto
    rasserenante  sull'animo  di  Pierre.  I  possedimenti  che  egli  non
    conosceva ancora erano uno più pittoresco dell'altro; ovunque la gente
    si  mostrava felice,  riconoscente e commossa per i benefici ricevuti;
    ovunque gli venivano fatte accoglienze che,  se pure lo  imbarazzavano
    un  po',  gli  destavano tuttavia in fondo all'anima una sensazione di
    gioia.  In un villaggio i contadini gli si fecero incontro recando  il
    pane  e  il  sale  e  le  immagini  dei  santi  Pietro e Paolo,  e gli
    domandarono il permesso di erigere a proprie spese una nuova  cappella
    nella  chiesa,  in  onore  dei due santi suoi protettori e in segno di
    riconoscenza e di affetto per i benefici ricevuti;  in un  altro,  gli
    vennero  incontro  le  donne  con  i  figli  poppanti  tra le braccia,
    ringraziandolo per averle liberate dai lavori faticosi;  in una  terza
    proprietà  fu  salutato  dal  prete  con  la  croce  e  circondato dai
    fanciulli ai quali egli,  per volere del conte,  insegnava la lettura,
    la scrittura e la religione.  In tutte le sue terre, Pierre vedeva con
    i  propri  occhi  edifici  di  pietra  già  costruiti  o  in  via   di
    costruzione,   secondo  un  unico  progetto,   destinati  a  diventare
    ospedali,  scuole e ospizi che ben presto sarebbero stati  inaugurati.
    Dappertutto  Pierre  vide  sui  registri  degli  amministratori che le
    prestazioni gratuite e obbligatorie erano diminuite  in  confronto  al
    passato  e di ciò fu ringraziato da delegazioni di contadini venutegli
    incontro in caffettano di panno azzurro.
    Pierre ignorava però che il villaggio dove gli erano stati offerti  il
    pane  e  il sale e si voleva costruire una cappella in onore dei santi
    Pietro e Paolo, era un centro commerciale, dove aveva luogo nel giorno
    di San Pietro una fiera importante,  e ignorava anche che la  cappella
    era  da tempo in costruzione a spese dei contadini più ricchi,  quelli
    precisamente che si erano presentati a  lui,  mentre  gli  altri  nove
    decimi  della  popolazione  del  villaggio  viveva  nella  più  penosa
    miseria. Ignorava che, se pure era vero che in seguito a suo ordine le
    madri di bimbi in fasce erano dispensate  dal  lavoro  dei  campi  per
    conto  del  padrone,  quelle stesse madri dovevano compiere nelle loro
    case lavori assai più faticosi.  Ignorava che il  prete  che  gli  era
    venuto  incontro con la croce angariava i contadini esigendo le decime
    e che gli scolari raccolti attorno a lui gli erano stati lasciati  tra
    le  lacrime  dei  genitori che li dovevano poi riscattare con notevoli
    somme di denaro. Ignorava che gli edifici di pietra, eretti secondo un
    unico progetto,  erano costruiti con il lavoro forzato  dei  contadini
    stessi,  le  cui  prestazioni d'obbligo erano aumentate nella realtà e
    diminuite  soltanto  sulla  carta.   Ignorava  infine  che  là,   dove
    l'amministratore gli mostrava sul registro il canone ridotto,  per suo
    ordine,  di un  terzo,  il  lavoro  gratuito  dovuto  al  padrone  era
    raddoppiato.   Perciò  Pierre,  entusiasta  di  quel  giro  nelle  sue
    proprietà, era ritornato in pieno alle intenzioni filantropiche con le
    quali era partito da  Pietroburgo,  e  scriveva  lettere  vibranti  di
    entusiasmo  al  suo  fratello  istruttore,  come egli definiva il Gran
    Maestro.
    "Com'è facile",  diceva tra sé,  "quale lieve sforzo occorre per  fare
    tanto bene! Come si pensa poco a tutto questo!".
    Era  felice  per  la  riconoscenza  che  gli  veniva tributata,  ma si
    vergognava nell'accettarla. Quella riconoscenza, infatti,  lo induceva
    a ricordare quanto bene sarebbe stato in condizione di fare per quella
    gente così semplice e buona.
    L'amministratore capo, uomo molto stupido ma astuto e che aveva capito
    bene l'intelligente e ingenuo conte, se lo rigirava come un giocattolo
    e,  visto  l'effetto  prodotto  su  di  lui  dai  mezzi  impiegati per
    ingannarlo,   si  mise  a  dimostrargli  con  argomenti   più   decisi
    l'impossibilità  e,  soprattutto,  l'inutilità della emancipazione dei
    contadini che,  anche senza  essere  emancipati,  erano  perfettamente
    felici.
    Pierre,  in  fondo  al  cuore,  era d'accordo con l'amministratore sul
    fatto che sarebbe stato difficile  immaginarsi  gente  più  felice  di
    quella,  mentre  Dio  solo sapeva che cosa li attendeva quando fossero
    liberi; ma Pierre, sia pure contro voglia,  insisteva nell'esigere ciò
    che  riteneva  giusto.  L'amministratore promise di usare tutte le sue
    forze per realizzare i desideri del conte,  ben  sapendo  che  mai  il
    conte  sarebbe  stato  in grado di verificare se egli avesse realmente
    preso tutte le misure necessarie per affrettare la vendita dei  boschi
    e delle terre,  per riscattare il debito verso il Consiglio di Tutela,
    e che probabilmente non  avrebbe  mai  domandato  né  saputo  che  gli
    edifici  costruiti  rimanevano  vuoti e che i contadini continuavano a
    dare,  in lavoro e in denaro,  tutto quanto avevano dato sino  allora,
    cioè tutto quello che potevano dare.


    CAPITOLO 11.

    Tornato  dal  viaggio  nel  sud  nelle  migliori condizioni di spirito
    desiderabili,  Pierre realizzò il suo vecchio  progetto  di  fare  una
    visita all'amico Bolkonskij, che non vedeva da più di due anni.
    Boguciàrovo  era situata in una località pianeggiante,  tutt'altro che
    bella,  una distesa di campi coltivati e  di  boschi  di  abeti  e  di
    betulle,  in parte abbattuti e in parte no. La residenza padronale era
    all'estremità della diritta e larga strada maestra che attraversava il
    villaggio,  al di là di uno stagno scavato da poco e riempito d'acqua,
    le  cui  sponde  non  erano ancora ricoperte di erba,  e in mezzo a un
    giovane bosco nel quale sorgevano alcuni pini di grandi proporzioni.
    La residenza padronale comprendeva l'aia, i fabbricati di servizio, le
    scuderie,  un capanno da bagno,  un padiglione e una  grande  casa  di
    pietra  con  un  frontone  ogivale,  la cui costruzione non era ancora
    terminata.  La casa era circondata da un giardino impiantato  da  poco
    tempo.  I recinti e il portone erano solidi e nuovi. Sotto una tettoia
    erano sistemate due pompe da incendio e una botte verniciata di verde;
    le strade erano diritte,  i ponti solidi e  muniti  di  parapetto.  Su
    tutto era evidente l'impronta di un'amministrazione precisa e oculata.
    I  servi  che  Pierre  incontrò  lungo  la via,  alla sua domanda dove
    abitasse il principe,  gli indicarono una piccola  costruzione  nuova,
    situata  proprio  sulla  riva  dello stagno.  Il vecchio cameriere del
    principe Andréj,  Antòn,  aiutò Pierre a scendere dalla carrozza,  gli
    disse  che  il  padrone  era  in casa e lo accompagnò in una piccola e
    linda anticamera.
    Pierre,   ricordando  il  brillante  tenore  di  vita   e   il   lusso
    dell'ambiente   in   cui   aveva   veduto  l'amico  l'ultima  volta  a
    Pietroburgo,  fu  colpito  dalla  modestia  della  piccola  ma  pulita
    casetta.  Attraversò in fretta una saletta odorosa di pino, non ancora
    del tutto intonacata,  e già stava per procedere oltre,  quando  Antòn
    gli passò avanti di corsa in punta di piedi e bussò all'uscio.
    - Che c'è?  -  rispose una voce brusca e sgarbata.
    - Una visita  -  rispose Antòn.
    - Prega che aspetti  -  e si udì il rumore di una sedia smossa.
    Pierre si avvicinò all'uscio a passi rapidi e si trovò viso a viso con
    il principe Andréj che, invecchiato e accigliato, gli veniva incontro.
    Pierre lo abbracciò e,  toltosi gli occhiali,  lo baciò sulle guance e
    lo guardò da vicino.
    - Proprio non ti aspettavo.  Sono felicissimo vederti!   -   disse  il
    principe  Andréj.  Pierre  non diceva nulla e con stupore continuava a
    fissare l'amico.  Il mutamento avvenuto nel principe Andréj  lo  aveva
    profondamente colpito.  Le parole erano state affettuose,  le labbra e
    il volto atteggiati al sorriso, ma lo sguardo al quale il principe non
    riusciva, nonostante il suo desiderio, a dare lo splendore della gioia
    e dell'allegria, era spento, morto. Non che l'amico fosse invecchiato,
    smagrito,  impallidito,  ma quello  sguardo  e  certe  rughe  che  gli
    solcavano  la  fronte,  che  rivelavano una lunga concentrazione su un
    unico pensiero,  avevano sorpreso Pierre e sino a che  non  ci  si  fu
    abituato, glielo fecero sentire estraneo.
    Al  primo  incontrarsi dopo una lunga separazione accade sempre che la
    conversazione stenti ad avviarsi;  si interrogavano e si  rispondevano
    brevemente su cose che avrebbero richiesto  -  ed essi lo sentivano  -
    un lungo colloquio.  Finalmente,  a poco a poco il discorso cominciò a
    indugiare su argomenti già  prima  trattati  con  estrema  concisione,
    sulla  vita  trascorsa,  sui  progetti per l'avvenire,  sul viaggio di
    Pierre,  sulle  sue  occupazioni,  sulla  guerra  e  così  via...   La
    concentrazione  e l'abbattimento che Pierre aveva notato nello sguardo
    del principe Andréj si mostravano ora ancora più evidenti nel  sorriso
    con  cui  egli  lo  ascoltava  e  in modo speciale quando Pierre,  con
    l'animazione della gioia, parlava del passato e dell'avvenire.  Pareva
    che  il  principe Andréj desiderasse,  ma non potesse prendere parte a
    ciò che egli diceva.  Pierre cominciava a sentire che l'entusiasmo,  i
    sogni,  la  sua  speranza  nella  felicità  e nel bene in presenza del
    principe Andréj erano sconvenienti.  Si vergognò di manifestare le sue
    nuove  idee  massoniche,  eccitate  e  ravvivate  in  lui  dal recente
    viaggio.  Si tratteneva,  per il timore  di  apparire  ingenuo,  nello
    stesso   tempo   provava  un  desiderio  irresistibile  di  dimostrare
    all'amico di essere ora un altro uomo,  un uomo ben diverso dal Pierre
    che Andréj aveva conosciuto a Pietroburgo.
    -  Non  posso  dirvi quante esperienze io abbia fatto in questi ultimi
    tempi! Non mi riconosco più.
    - Sì,  siamo entrambi molto mutati da allora  -   rispose il  principe
    Andréj.
    -  E  voi,  che fate  -  domandò Pierre.   -  Quali progetti avete per
    l'avvenire?
    - Progetti   -  ripeté in tono ironico il principe Andréj.   -  I miei
    progetti?   -  ripeté ancora,  quasi stupito dal significato di quella
    parola.   -  Lo vedi?  Sto costruendo una casa: l'anno venturo  voglio
    trasferirmi definitivamente qui...
    Pierre taceva e osservava attentamente il viso rabbuiato dell'amico.
    - No, io domando...  -  disse, ma il principe Andréj lo interruppe.
    - Ma perché parlare di me?  Racconta,  raccontami del tuo viaggio,  di
    tutto quello che hai fatto laggiù nei tuoi possedimenti.
    Pierre allora si mise a raccontare quello che aveva  fatto  nelle  sue
    proprietà,   cercando   di   nascondere   il   più  possibile  la  sua
    partecipazione  ai  miglioramenti  effettuati.   Parecchie  volte   il
    principe  Andréj  disse  prima  di  lui  certe cose relative ad alcune
    riforme, come se tutto ciò che Pierre aveva fatto fosse una storia che
    gli era nota da un pezzo;  non solo lo ascoltava senza  interesse,  ma
    pareva  si vergognasse di quanto Pierre gli veniva dicendo,  tanto che
    questi finì col sentirsi  imbarazzato,  anzi  oppresso,  in  compagnia
    dell'amico. E tacque.
    -  Senti  un  po',  mio  caro  -  disse il principe Andréj il quale si
    trovava anch'egli visibilmente a disagio con il  suo  ospite:  io  qui
    sono  accampato  alla  meglio...  Ci  sono  venuto  soltanto  per dare
    un'occhiata.  Oggi ritorno da mia sorella.  Ti farò conoscere i  miei.
    Ma,  se  non  sbaglio,  tu  li  conosci  già    -    disse,  tanto per
    intrattenere l'ospite con il quale sentiva ora di non avere  nulla  in
    comune.    -  Partiremo dopo pranzo...  E intanto vuoi visitare il mio
    podere?
    Uscirono e passeggiarono sino all'ora  di  pranzo,  discorrendo  delle
    notizie  politiche e delle conoscenze comuni,  come due persone tra le
    quali non esiste alcuna  intimità.  Il  principe  Andréj  parlava  con
    animazione  soltanto  della  nuova  casa  in costruzione e della nuova
    residenza che  stava  preparando,  ma  anche  mentre  trattava  questo
    argomento,  nel bel mezzo del discorso,  mentre descriveva a Pierre la
    futura disposizione interna della casa, si interruppe di colpo.
    - Del resto,    -    riprese    -    qui  non  c'è  proprio  nulla  di
    interessante, andiamo a pranzare e poi partiremo.
    Durante il pranzo il discorso cadde sul matrimonio di Pierre.
    -  Sono  stato  molto  meravigliato  quando  l'ho  saputo  -  disse il
    principe Andréj.
    Pierre arrossì come ogni qualvolta qualcuno vi accennava si affrettò a
    dire:
    - Un giorno vi racconterò come sono andate le cose.  Ma voi sapete che
    tutto questo è finito, e per sempre.
    - Per sempre?  -  ripeté il principe Andréj.  -  Non c'è nulla che sia
    per sempre...
    - Ma voi sapete come tutto è finito? Avete sentito parlare del duello?
    - Sì, so che hai dovuto passare anche per questa prova.
    -  L'unica cosa di cui ringrazio Iddio è di avermi evitato di uccidere
    quell'uomo  -  disse Pierre.
    - E perché?   -  domandò il principe Andréj.   -    Uccidere  un  cane
    rabbioso è sempre un bene.
    - No, uccidere un uomo è male, è ingiusto.
    - Perché ingiusto?   -  ripeté il principe Andréj.   -  Non tocca agli
    uomini giudicare ciò che è giusto e ciò che  è  ingiusto.  Gli  uomini
    hanno  sbagliato  sempre,  sempre  sbaglieranno  e,  soprattutto,  nel
    giudicare ciò che è giusto e ciò che non lo è.
    - E' ingiusto tutto ciò che è male per un altro uomo  -  disse Pierre,
    sentendo con piacere che,  per la prima volta dopo il suo  arrivo,  il
    principe Andréj si animava, cominciava a parlare e desiderava rivelare
    tutto ciò che l'aveva fatto diventare quale era attualmente.
    - Ma chi ti dice cosa è il male per un altro uomo?  -  domandò.
    - Il male? Il male?  -  ripeté Pierre.  -  Noi tutti sappiamo che cosa
    è male per noi.
    - Sì,  noi lo sappiamo, ma quel male che riconosco tale per me, io non
    lo posso fare a un altro  -    disse  il  principe  Andréj  animandosi
    sempre  più,  evidentemente  per il desiderio di esprimere a Pierre le
    sue nuove idee.  E continuò,  parlando in francese:  -  "Je ne connais
    dans la vie que deux maux bien réels c'est le remord et la maladie. Il
    n'est  de  bien  que l'absence de ces maux" [34.  Io non conosco nella
    vita che due veri mali: il rimorso e la malattia.  Il bene non  è  che
    l'assenza di questi mali].  La mia saggezza, attualmente, consiste nel
    vivere per me solo, evitando questi due mali.
    - E l'amore del prossimo?  E il sacrificio di sé?   -  domandò Pierre.
    -  No, non posso essere del vostro parere. Vivere soltanto per non far
    male ad alcuno e non aver rimorsi,  è troppo poco.  Sono vissuto così,
    sono vissuto per me solo e ho sprecato la mia  vita.  Soltanto  adesso
    che vivo, o che almeno mi sforzo  (Pierre si corresse per modestia)  -
    di  vivere  per  gli altri,  soltanto adesso ho capito che cosa sia la
    felicità della vita.  No,  non sono d'accordo con  voi,  e  penso  che
    neppure voi crediate a quello che dite.
    Il   principe   Andréj   guardava   Pierre  in  silenzio  e  sorrideva
    ironicamente.
    - Ecco,  vedrai mia sorella,  la  principessina  Màrija.  Con  lei  ti
    troverai pienamente d'accordo  -  disse.   -  Forse, per quello che ti
    riguarda, hai ragione,   -  proseguì dopo una pausa  -  ma ognuno vive
    a modo suo: tu sei vissuto per te solo e dici di avere sprecato la tua
    vita  e di avere conosciuto la felicità soltanto quando hai cominciato
    a vivere per gli altri. E io ho provato il contrario. Sono vissuto per
    la gloria...  E che è poi la gloria?  Sempre lo stesso  amore  per  il
    prossimo, il desiderio di fare qualcosa per gli altri, il desiderio di
    ricevere il loro elogio...  Così, dunque, sono vissuto per gli altri e
    non soltanto in parte,  ma in tutto e per tutto  ho  sprecato  la  mia
    vita.  Da quando,  invece,  vivo per me solo,  mi sento più calmo, più
    sereno...
    - Ma come può,  un uomo,  vivere per sé solo?    -    domandò  Pierre,
    infervorandosi.  -  E vostro figlio? Vostra sorella? Vostro padre?
    -  Ma questi fanno parte di me stesso,  non sono gli altri  -  obiettò
    il principe Andréj;  -  gli altri, il prossimo, "le prochain", come li
    chiamate tu e la principessina Màrija,  sono essi la fonte  principale
    dell'errore e del male! "Le prochain" sono i tuoi contadini di Kiev ai
    quali tu vuoi fare del bene...
    E guardò Pierre con aria ironica e provocante.  Era chiaro che cercava
    di provocarlo.
    - Voi scherzate!  -  gli ripose Pierre,  animandosi sempre di più.   -
    Quale  male  e quale errore possono esistere nel mio desiderio di fare
    del bene (anche se ho attuato male tale desiderio),  che male  ci  può
    essere  se  dei  poveri  contadini,  uomini  come noi,  che crescono e
    muoiono senza altra concezione di Dio e della verità  oltre  a  quelle
    che  consistono  nel  rito  e  in  una preghiera senza senso,  vengono
    educati nella confortante fede in una vita futura,  in un  premio,  in
    una consolazione,  in una ricompensa? Quale male e quale errore ci può
    essere nell'impedire che tanti uomini muoiano di malattia senza  avere
    un  aiuto,  mentre  è così facile soccorrerli materialmente,  mandando
    loro un medico,  offrendo loro  un  ospedale  e  un  ricovero  per  la
    vecchiaia?  E  non  è  forse  un  bene  indiscutibile e reale che a un
    contadino, a una donna con un bimbo lattante, che ora non hanno riposo
    né giorno ne notte,  io dia un po' di requie e un po' di tempo libero?
    -  soggiunse Pierre, parlando rapidamente.  -  E io questo l'ho fatto,
    sia pure male, sia pure in modo non sufficiente, ma qualcosa ho fatto,
    e  voi  non  solo non riuscirete a convincermi di avere agito male nel
    fare quello che ho fatto,  ma non riuscirete neppure a  farmi  credere
    che  voi  stesso  non siate della mia stessa opinione.  Quello che più
    importa  -  proseguì Pierre  -  è che lo  so,  e  lo  so  con  la  più
    assoluta  certezza,  che  la gioia di fare del bene è l'unica felicità
    della vita.
    - Sì, se consideriamo la questione da questo punto di vista, allora la
    cosa cambia aspetto  -  rispose il principe Andréj.  Io costruisco una
    casa, pianto un giardino, e tu fai degli ospedali. Quello che fai tu e
    quello che faccio io sono cose che possono servire  ugualmente  a  far
    passare  il tempo.  Ma in che cosa consistano esattamente il bene e il
    giusto, lascialo giudicare a Colui che sa tutto, non a noi.  Ma tu,  a
    quanto pare,  hai voglia di discutere,  vero?   -  disse.  -  E allora
    discutiamo!
    Si alzarono da tavola e andarono a sedersi sul terrazzino coperto  che
    teneva luogo di balcone.
    -  Coraggio,  discutiamo!    -   cominciò allora il principe Andréj.Tu
    dici: le scuole  -  e continuò, contando sulle dita: -  l'istruzione e
    così via,  ossia tu lo vuoi togliere  -  e indicò  il  contadino  che,
    passando davanti a loro,  si levava il berretto-  lo vuoi togliere dal
    suo stato animalesco per dargli delle necessità morali,  mentre  a  me
    pare  che  l'unica felicità possibile sia proprio quella dell'animale,
    quella che tu gli vuoi togliere.  Io lo invidio,  e tu  vuoi  renderlo
    simile a me,  pur senza dargli i miei mezzi. In secondo luogo tu dici:
    alleggerirgli il lavoro.  Ma,  questa è la  mia  opinione,  il  lavoro
    fisico  è  per lui una necessità,  come lo è per te e per me il lavoro
    intellettuale. Tu non puoi non pensare. Io mi corico verso le tre,  mi
    vengono in mente tanti pensieri e non posso addormentarmi;  mi volto e
    mi rivolto nel letto e non  riesco  a  prender  sonno  prima  che  sia
    giorno,  perché  penso  e non posso fare a meno di pensare,  così come
    lui, il contadino, non può fare a meno di arare e di falciare;  se non
    lo facesse,  andrebbe all'osteria e si ammalerebbe. Come io non potrei
    sopportare il suo duro lavoro fisico e ne morirei dopo una  settimana,
    così  egli  non  potrebbe  sopportare la mia inerzia.  Ingrasserebbe e
    finirebbe con il morire.  E poi...  che altro hai detto?    -    E  il
    principe  Andréj  piegò  il terzo dito.   -  Ah sì,  gli ospedali,  le
    medicine. Gli viene un colpo apoplettico, sta per morire e tu gli cavi
    il sangue e lo salvi.  Vivrà ancora una diecina d'anni ma  infermo,  e
    sarà  di  peso  a  tutti.  Per  lui  sarebbe più semplice e più facile
    morire.  Ne nasceranno altri,  e anche così  sono  già  tanti!  Se  ti
    dispiacesse  di  aver  perduto un lavoratore,  secondo il mio punto di
    vista, be'... potrei essere d'accordo;  ma no,  tu lo vuoi guarire per
    amor suo.  E questo,  a lui,  non è affatto necessario.  E, del resto,
    come puoi pensare che la medicina abbia mai guarito qualcuno?  Che  ne
    abbia  uccisi,  sì,  e  tanti!    disse,  aggrottando il viso con aria
    cattiva, ed evitando di guardare Pierre.
    Il principe Andréj esprimeva i suoi pensieri con una chiarezza  e  una
    precisione tali da far capire che ci aveva riflettuto più di una volta
    e parlava volentieri e in fretta, come chi sia stato molto tempo senza
    conversare  con  nessuno.  Il  suo sguardo si faceva tanto più animato
    quanto più i suoi giudizi erano pessimistici.
    - Oh,  ma è terribile,  terribile!   -  esclamò Pierre.   -    Io  non
    capisco  come  si  possa  vivere con delle idee come queste.  Ho avuto
    anch'io momenti simili;  mi è accaduto non molto tempo fa a  Mosca,  e
    poi  durante  il viaggio,  ma allora io mi abbatto a tal punto che non
    vivo più,  tutto mi disgusta e,  soprattutto,  ho nausea di me stesso.
    Allora non mangio più, non mi lavo più... E voi?
    -  Perché  non  lavarsi?  Non  è  pulizia non lavarsi...   -  disse il
    principe Andréj.   -  Al contrario,  bisogna cercare in ogni  modo  di
    rendersi la vita gradevole quanto più sia possibile. Io vivo, e di ciò
    non  sono colpevole,  dunque devo vivere come meglio posso,  senza dar
    fastidio a nessuno, sino alla morte.
    - Ma che  cosa  vi  induce  a  vivere  con  simili  pensieri?  Restare
    inattivo, senza muoversi, senza intraprendere nulla?
    - La vita non ci lascia mai tranquilli.  Sarei ben contento di non far
    nulla,  ma ecco,  da un lato la nobiltà di qui mi ha fatto l'onore  di
    eleggermi  suo maresciallo,  e me ne sono liberato a fatica.  Essi non
    potevano ammettere che mi mancassero  le  qualità  necessarie,  quella
    volgarità bonaria e indaffarata, indispensabile in queste cose. Poi ho
    dovuto  mettermi  a  costruire questa casa per avere un cantuccio mio,
    dove poter vivere in pace. Ora c'è la milizia territoriale.
    - Perché non prestate più servizio nell'esercito?
    - Dopo Austerlitz!   -  esclamò in tono cupo  il  principe  Andréj.No,
    grazie  tante;  ho dato a me stesso la parola d'onore che non presterò
    mai più servizio nell'esercito attivo  russo;  neanche  se  Buonaparte
    fosse  a  Smolènsk e minacciasse Lissia-Gori rientrerei nell'esercito.
    Ti dicevo, dunque,  -  riprese, calmandosi  -  che ora mi occupo della
    milizia territoriale. Mio padre è generale in capo del terzo distretto
    e per me l'unico mezzo per evitare di far parte dell'esercito attivo è
    l'essere addetto alla sua persona.
    - Ma anche così, servite la patria.
    - Sì.
    Tacque per un momento.
    - Ma allora perché lo fate?
    - Ecco perché: mio padre è uno  degli  uomini  più  notevoli  del  suo
    secolo,  ma,  invecchiando e pur non essendo cattivo,  ha un carattere
    troppo violento.  E' terribile,  abituato com'è al potere  illimitato,
    specialmente  adesso con questa carica,  conferitagli dal sovrano,  di
    capo della milizia. Se quindici giorni fa io non fossi sopraggiunto in
    tempo,  e sarebbe  bastato  un  ritardo  di  due  ore,  avrebbe  fatto
    impiccare uno scrivano a Jùnkovo!  -  soggiunse il principe Andréj con
    un  sorriso.    -  Così io presto servizio perché,  all'infuori di me,
    nessuno ha influenza su mio padre;  e in tal modo,  di tanto in tanto,
    gli impedisco di compiere degli atti per cui poi si tormenterebbe.
    - Ah, vedete dunque!
    -  Sì,  "mais  ce n'est pas comme vous l'entendez" [35.  Ma non è come
    l'interpretate voi]  -  continuò il principe Andréj.   -   Io  non  ho
    desiderato  e  non  desidero  il  minimo  bene  a  quella  canaglia di
    scrivano,  che aveva rubato non so  quali  stivali  ai  militi;  sarei
    stato,  anzi,  soddisfatto di vederlo impiccare, ma mi rincresceva per
    mio padre, ossia per me stesso.
    Il principe Andréj si animava sempre di più.  I suoi occhi avevano una
    lucentezza febbrile, mentre cercava di dimostrare a Pierre che nessuna
    sua azione aveva come scopo il desiderio di far del bene al prossimo.
    - Dunque, tu vuoi emancipare i contadini?  - proseguì.  -  E' una cosa
    bellissima,  questa, ma non per te, giacché non credo che tu abbia mai
    fatto fustigare né fatto deportare qualcuno in Siberia,  e ancor  meno
    per i contadini stessi.  Se vengono frustati,  percossi o deportati in
    Siberia,  non credo che  per  questo  stiano  peggio.  In  Siberia  il
    contadino  continuerà a condurre la medesima vita bestiale,  le piaghe
    del suo corpo si rimargineranno ed egli sarà felice  esattamente  come
    prima.  Ma  questo  è  necessario  per  quegli  uomini che si rovinano
    moralmente,   che  si  creano  dei  pentimenti,   li   soffocano,   si
    abbrutiscono  perché  hanno  la  possibilità  di tormentare e anche di
    uccidere a torto o a ragione.  Ecco chi mi fa pena e  per  chi  vorrei
    l'emancipazione dei contadini.  Tu forse non hai mai visto,  ma io sì.
    Ho visto delle brave persone,  cresciute nella tradizione  del  potere
    illimitato,  che  con  gli  anni,  quando  più  si  fanno  irritabili,
    diventano crudeli e brutali; sono consce della loro malvagità,  ma non
    possono trattenersi, e ogni giorno sono più infelici.
    Il principe Andréj disse queste cose con tanta convinzione che Pierre,
    suo malgrado, pensò che quei pensieri gli fossero ispirati dal modo di
    comportarsi del padre. E non rispose.
    -  Ti ho detto,  dunque,  di che ho pietà: della dignità umana,  della
    tranquillità della coscienza,  della purezza spirituale,  e non  delle
    loro  schiene  e delle loro fronti che,  per quanto vengano frustate e
    rase a zero, restano sempre le stesse schiene e le stesse fronti.
    - No, no, mille volte no! Non sarò mai d'accordo con voi!   -  esclamò
    Pierre.


    CAPITOLO 12.

    Verso  sera  il  principe  Andréj  e  Pierre  salirono  in  carrozza e
    partirono alla volta di Lissia-Gori.  Di tanto in  tanto  il  principe
    guardava  l'amico e rompeva il silenzio con parole che dimostravano la
    sua ottima disposizione di spirito.
    Indicandogli i campi,  gli descriveva le  migliorie  introdotte  nella
    coltivazione.
    Pierre,  taciturno,  gli  rispondeva  solo  a  monosillabi  e sembrava
    profondamente assorto.  Egli pensava che il principe Andréj era  molto
    infelice, che viveva nell'errore, che non conosceva la vera luce e che
    toccava a lui, Pierre, venirgli in aiuto, illuminarlo e sollevarlo. Ma
    non appena aveva trovato che cosa dirgli,  presentiva che il principe,
    con una sola parola, con un solo argomento, avrebbe distrutto tutta la
    sua dottrina e perciò non osava  cominciare.  Temeva  che  le  proprie
    convinzioni  che  egli  aveva tanto care potessero divenire oggetto di
    derisione.
    - No,  perché pensate...   -  cominciò a dire tutt'a un tratto Pierre,
    abbassando  la  testa come un toro che si prepara a colpire  -  perché
    pensate così? Non dovete pensare così.
    - A proposito di che cosa?  -  domandò il principe Andréj sorpreso.
    - A proposito della vita,  della missione dell'uomo!  Non  può  essere
    come  voi  dite.  Anch'io,  nel  passato,  ragionavo come voi,  ma fui
    salvato, e sapete da che cosa? dalla massoneria. No non sorridete.  La
    massoneria  non  è  una  setta  religiosa come pensate;  essa è la più
    elevata,  l'unica espressione dei lati migliori ed eterni  del  genere
    umano.
    E  Pierre  cominciò a spiegare all'amico che cosa fosse la massoneria,
    così come egli la intendeva.  Diceva che la dottrina massonica era  la
    stessa del cristianesimo, liberata dalle strettoie dello stato e della
    religione, una dottrina di uguaglianza, di fraternità e di amore.
    -  Soltanto  la nostra sacra fratellanza ha un senso reale nella vita;
    tutto il resto è sogno  -  diceva Pierre.  -  Convincetevi, amico mio,
    che al di fuori di questa unione tutto è un cumulo di  menzogne  e  di
    ingiustizie,  sicché io sono d'accordo con voi nell'ammettere che a un
    uomo buono  e  intelligente  non  resta  altro,  come  fate  voi,  che
    attendere  la  fine  della  vita cercando soltanto di non dar fastidio
    agli altri.  Ma adottate le nostre convinzioni fondamentali,  venite a
    far parte della nostra società, affidatevi a noi lasciandovi guidare e
    vi sentirete subito, come è accaduto a me, una parte di quell'immensa,
    invisibile catena, il cui inizio si nasconde nel cielo.
    Il principe Andréj,  con gli occhi fissi davanti a sé,  ascoltava muto
    le parole di Pierre.  Alcune volte,  non avendo udito bene a causa del
    rumore  della  carrozza,  pregò Pierre di ripetere alcune cose.  Dalla
    luce inconsueta che gli si era accesa negli occhi e  dal  silenzio  di
    lui,  Pierre capiva che le sue parole non erano cadute nel vuoto,  che
    il principe Andréj non lo avrebbe interrotto e che non avrebbe  deriso
    quanto egli diceva.
    Giunsero  a  un  fiume  che  era  straripato  per la piena e dovettero
    traghettare.  Mentre la carrozza e i cavalli  vi  venivano  sistemati,
    essi salirono sulla chiatta.
    Il principe Andréj,  appoggiato al parapetto,  guardava in silenzio la
    distesa delle acque scintillanti sotto i riflessi rossi de tramonto.
    - Be' cosa ne pensate?  -  chiese Pierre.  -  Perché tacete?
    - Cosa ne penso?  Ti ho ascoltato.  E' tutto giusto   -    rispose  il
    principe.   -  Ma tu dici: "Entra nella nostra confraternita.,  noi ti
    additeremo lo scopo della vita,  la missione dell'uomo e le leggi  che
    regolano  l'universo".  Ma  voi chi siete?  Uomini.  Perché dunque voi
    sapete tutto?  Perché io soltanto non vedo ciò che voi vedete?  Perché
    voi vedete in terra il regno della verità e del bene e io non lo vedo?
    Pierre lo interruppe.
    - Ma credete a un'altra vita?  -  gli domandò.
    -  A un'altra vita?   -  ripeté il principe Andréj,  ma Pierre non gli
    lasciò il tempo di rispondere e interpretò quella ripetizione come  un
    diniego,   tanto   più  che  egli  conosceva  le  antiche  convinzioni
    ateistiche di lui.
    - Voi dite che non riuscite a vedere in terra  il  regno  del  bene  e
    della verità.  Neppure io lo vedevo,  e non è possibile vederlo quando
    si considera la nostra vita come la  fine  di  tutto.  Sulla  "terra",
    proprio  su  questa  terra    -    (e  Pierre  indicò  i  campi che li
    circondavano)  -  non esiste la verità: tutto  è  malvagità,  tutto  è
    menzogna;  ma  nell'universo,  inteso  nel  senso più vasto,  regna la
    verità; noi ora siamo figli della terra,  ma nell'eternità siamo figli
    dell'universo.  Forse  che  io non sento,  dentro l'animo mio,  di far
    parte di questo immenso e armonioso tutto?  Forse che non sento che in
    questa  moltitudine  infinita  di  esseri  in  cui  la divinità o,  se
    preferite, la suprema potenza, si manifesta, io rappresento un anello,
    un gradino tra le creature inferiori e quelle superiori? Se io vedo, e
    vedo con chiarezza questa scala che sale dalle piante all'uomo, perché
    dovrei pensare che la scala finisce con me e non porti  più  in  alto,
    sempre più in alto?  Io sento che,  non soltanto non posso scomparire,
    come nulla nel mondo scompare,  ma che esisterò sempre  e  che  sempre
    sono  esistito.  Sento  che,  oltre a me e sopra di me,  vivono esseri
    spirituali e che nel loro mondo la verità esiste.
    - Sì, questa è la dottrina di Herder (36)  -  disse il principe Andréj
    -  ma non è questo,  mio caro,  che possa convincermi;  la vita  e  la
    morte soltanto lo possono fare. Quello che ti convince è il vedere una
    creatura  a  te  cara  e  legata  a te,  di fronte alla quale tu fosti
    colpevole e verso la quale speravi di giustificarti  -   (il  principe
    Andréj  ebbe  un tremito nella voce e si voltò dall'altra parte)  -  e
    tutt'a un tratto questa creatura soffre,  si  tormenta  e  finisce  di
    esistere...  Perché?  E'  impossibile  che  non  ci  sia una risposta!
    Anch'io credo che ci sia.  Ecco quello che convince,  quello che mi ha
    convinto...  -  concluse il principe Andréj.
    -  Ma sì,  ma sì  -  disse Pierre.   -  Non è forse la stessa cosa che
    dico io?
    - No.  Io dico soltanto che non sono i  ragionamenti  che  ti  possono
    convincere  della  necessità di una vita futura,  ma è il fatto che tu
    cammini nella vita, mano nella mano, con un altro essere umano e tutto
    a un tratto questo essere scompare nel di là,  nel nulla,  e tu stesso
    ti  fermi  davanti  a  quell'abisso  e  vi  guardi dentro.  E io ci ho
    guardato...
    - E allora?   -  esclamò Pierre.   -  Voi sapete che c'è un "di là"  e
    che c'è "qualcuno". Di là è la vita futura e quel Qualcuno è Dio!
    Il  principe  Andréj  non rispose.  La vettura e i cavalli ormai da un
    pezzo erano passati sull'altra riva ed erano già attaccati; il sole si
    era nascosto a metà,  e la brina  della  sera  copriva  di  stelle  le
    pozzanghere presso il traghetto,  ma Pierre e Andréj,  con stupore dei
    domestici, dei cocchieri e dei traghettatori, erano ancora ritti sulle
    zattere e continuavano a discorrere.
    - Se Dio esiste, se esiste una vita futura,  esistono anche la virtù e
    la  verità;  e  la suprema felicità dell'uomo consiste nell'aspirare a
    raggiungerla.  Si deve vivere,  si deve amare,  si  deve  credere    -
    diceva  Pierre    -   che non viviamo soltanto su un piccolo spazio di
    terra,  ma che vivremo e vivremo in eterno là nel tutto!   -  E indicò
    il cielo.
    Il  principe  Andréj  stava  in  piedi,  con  i  gomiti  appoggiati al
    parapetto e,  ascoltando Pierre senza  alzare  gli  occhi,  fissava  i
    riflessi purpurei del tramonto sulla superficie azzurrina dell'acqua.
    Pierre  tacque.  Regnava  attorno un profondo silenzio.  La chiatta da
    tempo aveva  toccato  la  riva  e  soltanto  le  onde  della  corrente
    continuavano a mormorare, battendo sul fondo con un fievole sciacquio.
    Sembrò  allora  al principe Andréj che quello sciacquio commentasse le
    parole di Pierre e dicesse: "E' vero! E' vero! Credigli!".
    Il principe sospirò e con  uno  sguardo  raggiante,  mite,  infantile,
    fissò il viso di Pierre,  acceso di entusiasmo ma pur sempre timido di
    fronte alla superiorità dell'amico.
    - Ah, se fosse davvero così!  -  esclamò.  -  Ma ora andiamo a prender
    posto in carrozza  -  aggiunse e, sceso dalla zattera,  alzò gli occhi
    al  cielo  che  Pierre  gli aveva indicato e per la prima volta,  dopo
    Austerlitz, rivide quell'immenso, eterno cielo che aveva veduto mentre
    giaceva immobile sul campo di battaglia.. Allora qualcosa che da molto
    tempo dormiva in lui, qualcosa che costituiva la sua parte migliore si
    destò a un tratto nella sua  anima  infondendogli  una  sensazione  di
    letizia  e  di  gioventù.  Quella  sensazione però svanì non appena il
    principe Andréj ritornò alle consuete condizioni della  sua  vita;  ma
    egli sapeva ormai che un sentimento nuovo,  che non sapeva sviluppare,
    viveva profondamente in  lui.  L'incontro  con  Pierre  segnò  per  il
    principe   Andréj  la  data  dalla  quale,   pur  non  essendo  mutata
    l'esteriorità della sua vita,  ebbe inizio per lui una vita  interiore
    completamente diversa.


    CAPITOLO 13.


    Era  già  quasi  buio quando il principe Andréj e Pierre scesero dalla
    carrozza davanti all'ingresso principale della  casa  di  Lissia-Gori.
    Mentre si stavano avvicinando,  il principe fece notare a Pierre,  con
    un sorriso,  l'agitazione che si manifestava davanti  all'ingresso  di
    servizio.  Una vecchietta curva,  con un sacco sulle spalle, e un uomo
    di piccola statura, vestito di nero e con i capelli lunghi,  al vedere
    la  carrozza  che  si  era  fermata,  erano  fuggiti indietro verso il
    portone.  Due donne corsero a raggiungerli e  tutti  e  quattro,  dopo
    essersi voltati per guardare,  scomparvero spaventati nell'ingresso di
    servizio.
    - Sono la "gente di Dio" di Mascia  -    disse  il  principe  Andréj.-
    Hanno  creduto che fosse mio padre.  Questa è l'unica cosa nella quale
    non gli obbedisce!
    - Ma cos'è questa "gente di Dio"?  -  domandò Pierre.
    Il  principe  Andréj  non  ebbe  tempo  di  rispondere.   I  domestici
    accorrevano  loro  incontro,  ed  egli si informò subito dove fosse il
    vecchio principe e se lo aspettavano presto.
    Il vecchio principe era ancora in città,  ma lo  si  attendeva  da  un
    momento all'altro.
    Il principe Andréj accompagnò Pierre nel proprio appartamento che,  in
    perfetto ordine,  lo attendeva sempre nella casa del padre,  e si recò
    solo nella camera del bimbo.
    - Andiamo da mia sorella  -  disse poi,  ritornandone;   -  ancora non
    l'ho vista.  Adesso si nasconde e sta  con  la  sua  "gente  di  Dio".
    Resterà  imbarazzata,  sono certo,  e tu vedrai la sua "gente di Dio".
    "C'est curieux,  ma parole" [37.  E'  una  cosa  interessante,  te  lo
    assicuro].
    - "Qu'est-ce que c'est que" [33.  Che cos'è]  la "gente di Dio"?chiese
    ancora Pierre.
    - Ora vedrai.
    La principessina Màrija si confuse davvero e il suo viso si  coprì  di
    chiazze  rosse  quando  i  due  amici  entrarono nella sua camera,  un
    ambiente accogliente, dove le lampade ardevano davanti alle icone. Era
    seduta sul divano,  davanti al samovàr,  e  accanto  a  lei  stava  un
    ragazzo con un lungo naso e lunghi capelli, vestito da monaco.
    In  una  poltrona  presso  il divano,  era seduta una vecchia scarna e
    grinzosa dall'espressione dolce e infantile.
    - "André, pourquoi ne pas m'avoir prévenue?" [39.  Andréj,  perché non
    mi  hai avvertita?]  -  disse in tono di dolce rimprovero,  mettendosi
    davanti ai suoi pellegrini come una chioccia davanti al suoi  pulcini.
    -    "Charmée  de vous voir.  Je suis très contente de vous voir" [40.
    Lieta di vedervi.  Sono molto contenta di vedervi]  -  disse a Pierre,
    mentre questi le baciava la mano.  L'aveva conosciuto sin da bambino e
    ora l'amicizia di  lui  con  Andréj,  le  sue  disgrazie  coniugali  e
    soprattutto  il  suo  viso  dall'espressione  semplice  e  buona,   la
    disponevano favorevolmente verso di lui.  Lo guardava con i suoi begli
    occhi  radiosi e pareva dirgli: "Vi voglio molto bene,  ma vi prego di
    non ridere di questa mia gente...". Dopo aver scambiato i primi saluti
    si sedettero.
    - Ah, c'è anche Ivànuska, qui!  -  disse il principe Andréj, indicando
    con un sorriso il giovane pellegrino.
    - Andréj!  -  esclamò la fanciulla in tono supplichevole.
    - "Il faut que vous sachiez que c'est une femme" [41.  Devi sapere che
    è una donna]  -  disse Andréj all'amico.
    - "André,  au nom de Dieu" [42. Andréj, in nome di Dio!]  -  ripeté la
    principessina Màrija.
    Si capiva che le parole scherzose del fratello verso i pellegrini e la
    vana difesa  di  costoro  da  parte  della  principessina  erano  cose
    consuete, ormai abituali tra fratello e sorella.
    -  "Mais,  ma  bonne  amie",    -   disse il principe Andréj  -  "vous
    devriez au contraire m'être reconnaissante  de  ce  que  j'explique  à
    Pierre  votre  intimité  avec  ce  jeune  homme" [43.  Ma,  amica mia,
    dovreste invece essermi riconoscente che io spieghi a Pierre la vostra
    intimità con questo giovanotto].
    - "Vraiment?"  [44.  Davvero?]    -    chiese  Pierre  con  curiosità,
    seriamente,  del  che  gli  fu  particolarmente  grata  la  fanciulla,
    osservando attraverso le lenti il viso di Ivànuska che,  resosi  conto
    che si parlava di lui, guardava tutti con un'aria furbesca.
    La  principessina Màrija aveva avuto torto di sentirsi imbarazzata per
    i suoi pellegrini. Essi non erano per nulla intimiditi. La vecchietta,
    a occhi bassi, guardava di tanto in tanto in tralice i nuovi venuti e,
    dopo aver deposto la tazza vuota capovolta sul piattino e avervi messo
    accanto una zolletta di zucchero rosicchiata,  tranquilla e  immobile,
    stava   seduta   nella  sua  poltrona  aspettando  che  le  offrissero
    dell'altro tè. Ivànuska, bevendo direttamente dal piattino, guardava i
    due giovani con i suoi maliziosi occhi di donna.
    - Sei stata a Kiev?  -  domandò Andréj alla vecchietta.
    - Sì, padre, ci sono stata  -  rispose la vecchia di natura ciarliera.
    -  Proprio a Natale ho avuto  la  fortuna  di  ricevere  la  Comunione
    presso le sante reliquie.  E adesso vengo da Koljazin,  padre,  dove è
    avvenuto un grande miracolo...
    - E Ivànuska era con te?
    - Io vado per conto mio  -  rispose Ivànuska,  cercando di parlare con
    voce di basso.  -  Ho incontrato Pelagéjuska soltanto a Jùchovo.
    Pelagéjuska   interruppe  il  suo  compagno:  era  chiaro  che  voleva
    raccontare ciò che aveva visto.
    - A Koljazin, padre, si è avuto un grande miracolo.
    - Quale?  Si sono trovate nuove reliquie?   -    domandò  il  principe
    Andréj.
    -  Smettila,  Andréj   -  intervenne la principessina Màrija.   -  Non
    raccontare niente, Pelagéjuska.
    - Che dici mai,  "màtuska"?  Perché non dovrei raccontare?  Gli voglio
    bene,  è  buono.  E' un mio benefattore,  mandatomi da Dio: mi ha dato
    dieci rubli... me ne ricordo. Quando fui a Kiev, Kirjusa lo "jurodivi"
    (45),  vero uomo di Dio che va scalzo d'inverno e d'estate,  mi  dice:
    "Che fai qui?  Perché non vai dove devi andare? Va' a Koljazin, là c'è
    una icona miracolosa: la Vergine  Madre  si  è  rivelata  ai  fedeli".
    All'udire quelle parole ho salutato i miei Santi e sono andata.
    Tutti  tacevano.  Parlava  soltanto  la  pellegrina con voce monotona,
    aspirando l'aria.
    - Sono arrivata,  padre mio,  e la gente mi dice: c'è stato un  grande
    miracolo:  dalla  guancia  della  Santissima  Madre di Dio cola l'olio
    santo.
    - Sì, sì... sta bene, racconterai più tardi  -  disse la principessina
    Màrija, arrossendo.
    - Permettetemi di chiedervi una cosa  -  intervenne Pierre.  -  Senti,
    l'hai visto con i tuoi occhi questo miracolo?
    - Certo,  padre mio,  ho avuto questa gioia.  Una  luce,  come  quella
    celeste,  splendeva  sul  viso  della  Vergine  Madre  e dalla guancia
    scendevano gocce e gocce...
    - Ma si trattava certamente di un inganno!   -   esclamò  ingenuamente
    Pierre che ascoltava con attenzione la pellegrina.
    -  Oh,  padre  mio,  che  dici?    -   esclamò spaventata Pelagéjuska,
    volgendosi verso la principessina Màrija, come per chiederle aiuto.
    - Così si inganna il popolo  -  ripeté Pierre.
    - O Signore Gesù Cristo!   -  disse la pellegrina facendosi  il  segno
    della croce.   -  Non dir questo,  padre mio! C'era là un generale che
    non voleva credere e disse: "Sono i monaci che combinano imbrogli", ma
    non appena ebbe pronunziato queste parole, divenne cieco.  Poi vide in
    sogno che la Santa Vergine era venuta da lui e gli aveva detto: "Credi
    in  me,  e  io  ti  guarirò".  E  allora  egli  cominciò a supplicare:
    "Portatemi,  portatemi da Lei!".  Ti dico la verità,  l'ho visto con i
    miei  occhi.  Condussero il cieco dalla Vergine,  proprio davanti alla
    Sua immagine egli cadde in ginocchio e supplicò: "Guariscimi e ti darò
    tutto ciò che lo zar mi ha donato".  L'ho visto io stessa,  padre: c'è
    una stella messa proprio dentro...  Ebbene, riacquistò la vista! E' un
    peccato parlare come fai tu. Dio ti castigherà  -  concluse, rivolta a
    Pierre.
    - E come mai la stella  è  capitata  nell'immagine?    -    chiese  il
    giovane.
    - E hanno promosso generale anche la Santa Vergine?   -  intervenne il
    principe Andréj, sorridendo.
    Pelagéjuska a un tratto impallidì e giunse le mani.
    - Padre mio,  padre  mio,  tu  commetti  peccato,  e  hai  un  figlio!
    cominciò a dire,  mentre il suo pallido viso si copriva di rossore.  -
    Padre, che Iddio ti perdoni per quello che hai detto...   -  E si fece
    il segno della croce.
    -  Signore  Iddio,  perdonalo!  "Màtuska",  che  è questo?   -  chiese
    rivolta alla principessina Màrija. Si alzò e, quasi piangendo, si mise
    a preparare il sacco.  Era visibilmente scandalizzata e si  vergognava
    di  avere  ricevuto  benefici  da  una  casa dove si dicevano cose del
    genere  e,   nello  stesso  tempo,   le  rincresceva  di  dovervi  ora
    rinunziare.
    -  Vi  divertite,  eh?   -  disse la principessina Màrija.   -  Perché
    siete venuti da me?
    - Ma no, Pelagéjuska, io ho scherzato. "Princesse, ma parole,  je n'ai
    pas  voulu l'offenser" [46.  Vi assicuro,  principessa,  non ho voluto
    offenderla!],   ho  detto  così  per  dire...   Non  ci  pensate  più,
    Pelagéjuska,  ho  scherzato    -    ripeté,  sorridendo  timidamente e
    desiderando cancellare la sua colpa.
    Pelagéjuska si fermò con diffidenza,  ma sulla faccia di Pierre vi era
    una  espressione  di  così  sincero  pentimento,  e il principe Andréj
    guardava con occhi così miti,  ora l'amico,  ora  la  vecchietta,  che
    questa a poco a poco si calmò.


    CAPITOLO 14.

    La  pellegrina  si calmò e,  ripreso l'argomento,  si mise a parlare a
    lungo del padre Amfilochi,  un uomo di così santa vita che le sue mani
    diffondevano  l'aroma  dell'incenso;  e raccontò che alcuni monaci che
    lei conosceva, durante il suo ultimo pellegrinaggio a Kiev, le avevano
    dato le chiavi dei sotterranei dove, avendo con sé come cibo due pezzi
    di pane,  aveva trascorso insieme con i santi due giorni e due  notti.
    "Prego davanti a uno,  lo adoro e poi passo a un altro.  Mi addormento
    per un po', poi riprendo le mie preghiere e i miei atti di adorazione.
    Regnavano là sotto, "màtuska", un tale silenzio e una tale beatitudine
    che non avevo neppur più voglia di tornare alla luce del sole".
    Pierre ascoltava seriamente e con attenzione.  Il principe Andréj uscì
    dalla camera e, dietro di lui, lasciando che la "gente di Dio" finisse
    di  prendere il suo tè,  la principessina Màrija accompagnò Pierre nel
    salotto.
    - Siete molto buono  -  gli disse.
    - Ah,  davvero non volevo offenderla.  Comprendo e apprezzo tanto quei
    sentimenti.
    La  principessina  Màrija  lo  guardò  senza  dir  nulla e gli sorrise
    affettuosamente.
    - Vi conosco da molto tempo e vi voglio bene come a  un  fratellodisse
    la  fanciulla.    -   Come avete trovato Andréj?   -  aggiunse subito,
    senza lasciargli il tempo di rispondere alle sue affettuose parole.  -
    Mi dà molta preoccupazione.  D'inverno sta  meglio,  ma  nella  scorsa
    primavera  la  sua  ferita  si  è  riaperta  e il dottore ha detto che
    dovrebbe andare a curarsi.  E anche il suo stato d'animo mi è causa di
    timore.  Non  ha  il  carattere  che  abbiamo noi donne,  che possiamo
    sfogare il nostro dolore con le  lacrime.  Egli  se  lo  tiene  chiuso
    dentro.  Oggi  è allegro e vivace,  ma è il vostro arrivo che ha agito
    così su di lui; molto di rado lo vedo in tale disposizione di spirito.
    Se voi riusciste a persuaderlo a recarsi  all'estero!  Ha  bisogno  di
    attività, e questa vita monotona e tranquilla lo uccide. Gli altri non
    se ne accorgono, ma io sì!
    Verso le dieci i domestici corsero verso l'ingresso,  udendo i sonagli
    della carrozza del vecchio principe che stava arrivando.  Anche Andréj
    e Pierre gli uscirono incontro.
    -  Chi è?   -  chiese il vecchio principe,  scendendo dalla carrozza e
    scorgendo Pierre.  -  Ah, bene,  bene!  Baciami!   -  esclamò,  quando
    seppe chi era il giovane sconosciuto.
    Il vecchio era di buon umore e fu assai cordiale con Pierre.
    Prima  della cena,  il principe Andréj,  ritornato nello studio di suo
    padre,  trovò il vecchio in animata  discussione  con  Pierre.  Questi
    voleva  dimostrare che sarebbe venuto un tempo in cui non ci sarebbero
    più state guerre.  Il vecchio principe lo contraddiceva,  ma discuteva
    senza andare in collera.
    -  Lascia  scorrere  il  sangue dalle vene,  sostituiscilo con acqua e
    allora non ci saranno più guerre. Ciarle di donnette, niente altro che
    ciarle di donnette!  -  esclamò, ma batté affettuosamente sulle spalle
    di Pierre e si accostò alla tavola presso la quale il principe Andréj,
    che evidentemente non aveva voglia di  partecipare  alla  discussione,
    sfogliava le carte che suo padre aveva portato dalla città. Il vecchio
    principe gli si avvicinò e cominciò a parlare di affari.
    -  Il  maresciallo  della  nobiltà,  il  conte Rostòv,  non ha fornito
    nemmeno metà dei suoi uomini.  E' venuto in città,  gli è  saltato  in
    testa  di  invitarmi  a  pranzo:  gliel'ho dato io il pranzo!  Prendi,
    guarda questa carta... Be',  mio caro  -  disse il principe Nikolàj al
    figlio  e  battendo ancora con la mano sulla spalla di Pierre  -  è un
    bravo ragazzo il tuo amico,  e gli voglio già bene.  Mi  eccita...  Ci
    sono uomini che dicono cose sagge,  ma non si ha voglia di ascoltarli;
    lui,  invece,  dice delle sciocchezze,  ma accende anche me  che  sono
    vecchio.  Be',  andate,  andate...  Forse  verrò  a  cenare  con  voi.
    Riprenderemo a discutere.  Devi voler bene  alla  mia  sciocchina,  la
    principessina Màrija  -  gridò poi a Pierre dalla soglia.
    Soltanto ora,  durante il suo soggiorno a Lissia-Gori, Pierre apprezzò
    la forza e l'incanto della sua amicizia con il principe Andréj. Questo
    incanto si manifestava non soltanto nei rapporti con il  principe,  ma
    anche con i parenti e i familiari di lui. Pierre si era subito sentito
    un  vecchio amico del severo principe Nikolàj Andréevic' e della buona
    e timida principessina Màrija,  nonostante conoscesse appena sia l'uno
    sia l'altra.  E tutti gli volevano già bene. Non solo la principessina
    Màrija, conquistata dal comportamento dolce di lui verso i pellegrini,
    lo guardava con occhi lucenti e affettuosi,  ma anche il piccolo di un
    anno, il principino Nikolàj, come il nonno soleva chiamarlo, sorrideva
    a  Pierre  e  gli  si  buttava  tra  le  braccia.  Michaìl  Ivanyc'  e
    "mademoiselle" Bourienne lo guardavano sorridendo gioiosamente  quando
    egli discorreva con il vecchio principe.
    Il  vecchio  principe  venne  con  gli  altri a cena: evidentemente lo
    faceva per  Pierre.  Nei  due  giorni  che  passò  a  Lissia-Gori,  fu
    straordinariamente affettuoso con lui e gli ordinò di ritornare.
    Dopo la partenza di Pierre, tutti i membri della famiglia si trovarono
    riuniti  e  si  misero  a parlare di lui,  come sempre avviene dopo la
    partenza di un nuovo ospite e tutti,  cosa  che  accade  di  rado,  ne
    parlarono soltanto bene.


    CAPITOLO 15.

    Tornato al reggimento dopo la licenza, Rostòv sentì per la prima volta
    quanto  fossero  forti  i legami che lo univano a Denissov e a tutti i
    colleghi.
    Già mentre vi si avvicinava,  provava le stesse sensazioni  di  quando
    stava tornando alla sua casa di via Povàrskaja. Allorché vide il primo
    ussaro  del  suo  reggimento,   con  la  giubba  sbottonata,  allorché
    riconobbe il rosso Dementev e scorse i pali cui venivano  attaccati  i
    cavalli  sauri,  allorché  udì  Lavruska  gridare  allegramente al suo
    padrone: "Il conte è arrivato!" e l'arruffato  Denissov,  che  dormiva
    disteso  sul  letto,  si  precipitò fuori dalla baracca e lo abbracciò
    mentre gli altri ufficiali gli si stringevano attorno, Rostòv provò la
    stessa commozione di quando aveva abbracciato i genitori e le sorelle,
    e le lacrime di gioia che gli serrarono  la  gola  gli  impedirono  di
    parlare.  Anche  il  reggimento era per lui una casa,  una casa cara e
    accogliente come la casa paterna.
    Dopo che si fu presentato al comandante e fu assegnato al  suo  solito
    squadrone,  dopo  aver provveduto al foraggio e ripreso a occuparsi di
    tutti i minuti interessi del  reggimento  e  si  sentì  privato  della
    libertà e limitato in una stretta, immutabile cornice, Rostòv provò il
    medesimo  senso  di  calma  e la medesima consapevolezza di trovarsi a
    casa,  al proprio posto,  che aveva avvertito sotto il tetto  paterno.
    Non vi era al reggimento il disordine che regna nel libero mondo, dove
    egli non sapeva trovare il proprio posto o sbagliava nello sceglierlo;
    non  vi era Sònja,  con la quale era necessario o non necessario avere
    una spiegazione;  non vi era la possibilità di andare o non andare  in
    qualche posto;  non vi erano le ventiquattro ore della giornata che si
    potevano impiegare in modi diversi;  non vi era quella grande quantità
    di  persone tra cui nessuna era più intima o meno di un'altra;  non vi
    erano gli incerti e imprevisti rapporti di denaro con il padre;  nulla
    vi era che ricordasse la terribile perdita al gioco con Dòlochov!  Lì,
    al reggimento,  tutto era semplice  e  chiaro.  Il  mondo  intero  era
    suddiviso  in  due  parti  disuguali: una costituita dal reggimento di
    Pàvlograd,  l'altra che comprendeva tutto il resto.  E  con  tutto  il
    resto  non  si  aveva  nulla a che fare.  Al reggimento si sapeva ogni
    cosa: chi era tenente,  chi era capitano,  chi era buono e chi cattivo
    e,  soprattutto,  chi era buon camerata. Il vivandiere faceva credito,
    lo stipendio si  riscoteva  ogni  quadrimestre;  non  c'era  nulla  da
    inventare  né  da  scegliere,  bastava  non  fare nulla di ciò che nel
    reggimento di Pàvlograd era giudicato riprovevole;  se si riceveva  un
    incarico,  bisognava  eseguire  tutto  ciò  che  era  esplicitamente e
    chiaramente ordinato, e tutto andava per il meglio.
    Ritrovatosi di nuovo nelle ben  definite  condizioni  della  vita  del
    reggimento,  Rostòv provò la piacevole soddisfazione che prova un uomo
    stanco quando può coricarsi e riposare.  La vita militare gli riusciva
    tanto più piacevole in quella campagna,  in quanto, dopo la perdita al
    gioco  con  Dòlochov  (perdita  di  cui  non  riusciva  a  consolarsi,
    nonostante  che la famiglia lo avesse perdonato),  Rostòv aveva deciso
    di prestar servizio non più come prima, ma,  per cancellare la propria
    colpa,  in  modo  ineccepibile,  di  essere  un camerata e un compagno
    esemplare,  vale a dire un uomo  perfetto:  cosa  che  appariva  molto
    difficile nel mondo, ma possibilissima al reggimento.
    Rostòv, dopo la perdita al gioco, aveva deciso di pagare il suo debito
    ai  genitori  in cinque anni.  Gli mandavano diecimila rubli all'anno:
    ora ne avrebbe presi soltanto duemila e avrebbe lasciato gli altri  ai
    genitori in restituzione del suo debito.

    Il  nostro esercito,  dopo molte ritirate,  parecchi attacchi e alcune
    battaglie  nelle  vicinanze  di  Pultusk  e  di  Preussisch-Eylau,  si
    concentrava    attorno   a   Bartenstein.    Si   aspettava   l'arrivo
    dell'imperatore presso le truppe e l'inizio di una nuova campagna.
    Il  reggimento  di  Pàvlograd,   che  faceva  parte  di  quel  settore
    dell'esercito  che  aveva  fatto  la campagna del 1805,  essendo stato
    obbligato a completare i  suoi  quadri  in  Russia,  era  arrivato  in
    ritardo  per  i primi scontri.  Non si era trovato né a Pultusk,  né a
    Preussisch-Eylau e,  nella seconda fase della campagna,  dopo  essersi
    riunito all'esercito operante,  era stato aggregato al corpo di Platov
    (47).
    Il corpo di Platov agiva indipendentemente dal  grosso  dell'esercito.
    Varie  volte  aveva avuto delle scaramucce con il nemico,  aveva fatto
    alcuni prigionieri e  una  volta  si  era  impadronito  persino  della
    vettura  del  maresciallo  Oudinot  (48).   Nel  mese  di  aprile,  il
    reggimento di Pàvlograd passò alcune  settimane  senza  muoversi,  nei
    pressi di un villaggio tedesco, interamente distrutto e abbandonato.
    Era  il  tempo  del  disgelo: ovunque fango e freddo,  il ghiaccio del
    fiume si  spezzava,  le  strade  si  erano  fatte  impraticabili.  Per
    parecchi  giorni  tanto  agli  uomini  quanto  agli animali non furono
    distribuiti  i  viveri  e  il  foraggio.  Poiché  il  trasporto  degli
    approvvigionamenti   era   divenuto   impossibile,   gli   uomini   si
    sparpagliavano nei villaggi abbandonati e  deserti,  alla  ricerca  di
    patate, che pure si trovavano in piccolissima quantità.
    Tutto  era  stato  mangiato,  quasi  tutti gli abitanti erano fuggiti.
    Quelli che erano rimasti, erano peggio che mendicanti: nelle loro case
    non c'era più nulla, tanto che spesso i soldati, sebbene poco disposti
    alla pietà, invece di prendere davano il poco che era loro rimasto.
    Nelle scaramucce il reggimento di Pàvlograd aveva perso  soltanto  due
    uomini, feriti; ma la fame e le malattie l'avevano quasi dimezzato. La
    mortalità  negli  ospedali era tale che i soldati ammalati di febbre o
    gonfi per il pessimo  nutrimento,  preferivano  continuare  a  prestar
    servizio,  trascinandosi  faticosamente  ai loro posti,  piuttosto che
    farsi ricoverare negli ospedali. All'inizio della primavera, i soldati
    cominciarono a trovare nei campi una pianta che spuntava dalla  terra,
    molto  simile  all'asparago,  e alla quale diedero il nome,  non si sa
    perché, di "radice dolce di Maska". Si aggiravano per campi e prati in
    cerca di questa "radice dolce" che era invece amarissima,  la levavano
    dalla  terra  servendosi  della  punta della sciabola e la mangiavano,
    nonostante il divieto di cibarsi di  quell'erba  ritenuta  nociva.  In
    primavera  si  manifestò tra le truppe una nuova malattia: un gonfiore
    alle mani,  ai piedi e al viso,  la cui causa  i  medici  attribuirono
    appunto  all'uso di quella pianta.  Ma ad onta del divieto,  i soldati
    del reggimento di Pàvlograd,  gli ussari dello squadrone  di  Denissov
    continuarono  a  nutrirsi  soprattutto  della "radice dolce di Maska",
    giacché ormai da oltre  una  settimana  le  ultime  gallette  venivano
    razionate, se ne distribuiva non più di una mezza libbra a testa, e le
    patate, giunte con l'ultimo convoglio, erano gelate e germogliate.
    Anche  i cavalli,  che da due settimane si nutrivano con la paglia dei
    tetti delle case,  erano orribilmente magri e ancora coperti del  pelo
    invernale, infeltrito, a ciuffi.
    Malgrado  tanta  miseria,  i  soldati  e  gli  ufficiali vivevano come
    sempre;  anche adesso,  per quanto con le facce pallide e gonfie e  le
    divise lacere, gli ussari si mettevano in fila per l'appello, uscivano
    per le requisizioni,  strigliavano i cavalli,  lustravano i finimenti,
    strappavano la paglia dai tetti per far foraggio e si riunivano per il
    rancio attorno ai paiuoli,  allontanandosene  affamati  come  prima  e
    scherzando sul pessimo cibo e sulla propria fame.  Come sempre,  nelle
    ore libere dal servizio,  i  soldati  accendevano  dei  grandi  fuochi
    attorno  ai  quali  si  riscaldavano  nudi,  fumavano,  sceglievano  e
    arrostivano le patate gelate e germogliate, raccontavano e ascoltavano
    storie sulle campagne di Potëmkin o di Suvorov, o le fiabe di Alëscia,
    il furbo lestofante, o di Mikolka, il garzone del "pop".
    Gli ufficiali, come il solito, vivevano in due o in tre nelle case dal
    tetto semidistrutto. I più anziani si curavano dell'approvvigionamento
    della paglia e delle patate e,  in generale,  dei mezzi di sussistenza
    per gli uomini;  i giovani, come al solito, trascorrevano il tempo chi
    giocando a carte (giacché,  se mancavano le vettovaglie,  non  mancava
    però  il  denaro),  e  chi  dedicandosi  a  giochi innocenti,  come la
    "svàjka" (49) o i birilli.  Dell'andamento generale  della  guerra  si
    parlava  poco,  in  parte  perché non si sapeva nulla di positivo,  in
    parte perché si intuiva vagamente che le cose andavano male.
    Rostòv, come per l'innanzi, abitava con Denissov,  e il loro legame di
    amicizia,  dopo  la  licenza,  si  era  fatto  più  stretto  che  mai.
    Difficilmente Denissov parlava dei parenti di Rostòv,  ma dalla tenera
    amicizia  che  il  comandante  gli dimostrava,  Nikolàj sentiva che lo
    sfortunato amore del vecchio ussaro per Natascia  aveva  una  notevole
    parte  nel rafforzarsi della loro amicizia.  Era evidente che Denissov
    cercava di esporre il meno possibile Rostòv ai pericoli della  guerra,
    lo   risparmiava   quanto   poteva  e,   dopo  ciascun  combattimento,
    manifestava una gioia sincera nel rivederlo sano e salvo.
    Durante una  delle  sue  spedizioni,  Rostòv  trovò  in  un  villaggio
    saccheggiato e abbandonato,  dove si era recato in cerca di viveri, la
    famiglia di un vecchio polacco e della figlia di costui,  con un bimbo
    in  fasce.  Erano  laceri,  affamati,  non in grado di camminare e non
    avevano alcun mezzo per partire.  Rostòv  li  portò  con  sé  nel  suo
    accantonamento,  li ospitò e li mantenne per alcune settimane,  sino a
    che  il  vecchio  non  si  fu  ristabilito.   Un  collega  di  Rostòv,
    discorrendo un giorno di donne, cominciò a canzonarlo, dichiarando che
    era  il  più  furbo  di  tutti loro e dicendo che non avrebbe commesso
    peccato se avesse fatto conoscere ai compagni la graziosa polacca  che
    aveva  salvato.   Rostòv  interpretò  lo  scherzo  come  un'offesa  e,
    avvampando di collera,  disse a quell'ufficiale cose tanto  spiacevoli
    che  Denissov  riuscì  a stento a evitare un duello tra i due.  Quando
    l'ufficiale si fu allontanato,  Denissov,  che non sapeva  neppur  lui
    quali   fossero   i  rapporti  tra  Rostòv  e  la  polacca,   prese  a
    rimproverarlo per lo scatto avuto. Rostòv gli rispose:
    - Cosa vuoi...  per me è come una sorella,  e non ti posso dire quanto
    la cosa mi abbia offeso... perché... be'... perché...
    Denissov  gli  batté  una  mano  sulla  spalla e si mise a camminare a
    grandi passi per la stanza senza guardarlo,  come  faceva  sempre  nei
    momenti di grande commozione.
    - Che razza originale quella dei Rostòv!   -  esclamò,  e Nikolàj notò
    che Denissov aveva gli occhi pieni di lacrime.


    CAPITOLO 16.

    Nel mese di aprile le truppe si rianimarono alla  notizia  dell'arrivo
    dell'imperatore.  Rostòv  non  poté assistere alla rivista passata dal
    sovrano a Bartenstein giacché il reggimento di Pàvlograd era accampato
    agli avamposti, assai più avanti di Bartenstein.
    Adesso quel reggimento bivaccava.  Denissov e Rostòv abitavano in  una
    specie di buca scavata per loro dai soldati,  coperta di rami d'albero
    e di zolle erbose e costruita nel seguente modo, venuto in uso allora:
    si scavava un fosso largo poco più di un metro, profondo uno e mezzo e
    lungo più di due.  A una estremità  del  fossato  si  facevano  alcuni
    gradini,  e  quello  era l'ingresso,  la scala: il fosso stesso era la
    stanza nella quale,  per i  più  fortunati  come  il  capo  squadrone,
    all'estremità opposta di fronte ai gradini c'era un'asse appoggiata su
    piuoli  che fungeva da tavola.  Dai due lati,  lungo il fosso,  veniva
    tolto circa un metro di terra e si formavano così due letti o  divani.
    Il tetto era costruito in modo che al centro si poteva stare in piedi,
    e sui letti,  se ci si avvicinava alla tavola, si poteva persino stare
    seduti.  Denissov che viveva "lussuosamente" perché i soldati del  suo
    squadrone  gli volevano molto bene,  aveva ancora un'asse sul frontone
    del tetto,  e in questa asse un vetro rotto ma rabberciato  con  carta
    incollata.  Quando faceva molto freddo,  sui gradini (nell'anticamera,
    come  Denissov  chiamava  quella  parte  della  baracca)   i   soldati
    portavano,  su  una lastra di ferro concava,  un po' di brace dei loro
    fuochi e l'ambiente diventava così caldo che gli ufficiali,  molti dei
    quali erano sempre in visita da Denissov e da Rostòv,  erano costretti
    a togliersi la giubba e a rimanere in maniche di camicia.
    Un giorno di aprile, Rostòv era di servizio.  Tornato a casa alle otto
    del mattino dopo una notte insonne,  ordinò che gli si portasse un po'
    di brace,  si cambiò la biancheria inzuppata di  pioggia,  pregò  Dio,
    bevve  il  tè,  si scaldò,  mise in ordine la roba nel suo cantuccio e
    sulla tavola e,  con il viso arso  dal  vento,  si  sdraiò  supino  in
    maniche  di camicia,  con le mani intrecciate sotto la testa.  Pensava
    con piacere che a giorni sarebbe stato promosso di grado, per l'ultima
    ricognizione effettuata,  e aspettava Denissov che era uscito.  Rostòv
    aveva voglia di discorrere un po' con lui.
    Dietro  il  ricovero  si  udì  a un tratto risonare la voce tonante di
    Denissov, il quale gridava in uno dei suoi accessi di collera.  Rostòv
    si affacciò alla finestrella per vedere contro chi Denissov fosse così
    furioso e scorse il maresciallo d'alloggio Topcéenko.
    -  Ti  ho  ordinato  di  badare  che  i soldati non mangiassero quella
    maledetta radice di Maska!  -  gridava Denissov.  -  Ho veduto poco fa
    con i miei occhi Lazarciùk che ne portava un fascio dai campi!
    - Io l'ordine l'ho dato, eccellenza, ma non mi obbediscono  -  rispose
    il maresciallo.
    Rostòv tornò a sdraiarsi e pensò con piacere: "Ma sì,  che si  dia  da
    fare lui,  adesso,  io il mio dovere l'ho compiuto e voglio riposarmi,
    credo che sia giusto!". Udì anche, al di là della parete, oltre quella
    del maresciallo, la voce di quel furbone di Lavruska,  l'attendente di
    Denissov.  Lavruska  stava  dicendo  qualcosa  di certi carriaggi,  di
    gallette,  di buoi che aveva  visto  mentre  si  recava  in  cerca  di
    provviste.
    Dietro  il ricovero si udì di nuovo,  più lontano,  la voce adirata di
    Denissov e poi il suo ordine:
    - Secondo plotone, in sella!
    "Dove diavolo andranno?" si chiese Rostòv.
    Cinque minuti dopo,  Denissov entrò nel  ricovero,  salì  sul  proprio
    letto  con  gli  stivali infangati,  tirò rabbiosamente alcune boccate
    dalla pipa, mise in disordine ogni cosa, si affibbiò la "nagàjka" (50)
    e la sciabola e si accinse a uscire.  A Rostòv,  che gli chiedeva dove
    andasse,  rispose in tono irritato e in modo vago ed evasivo che aveva
    da fare.
    - Mi giudichino Iddio e il grande imperatore   -    disse  uscendo,  e
    Rostòv  udì,  dietro  il  ricovero,  il calpestio di molti cavalli nel
    fango; ma non si curò neppure di sapere dove Denissov andasse.  Quando
    si  fu  riscaldato  nel suo cantuccio,  si addormentò e soltanto verso
    sera uscì dalla baracca.  Denissov non era ancora tornato.  La sera si
    era  fatta  serena;  presso  il ricovero vicino,  due ufficiali con un
    alfiere giocavano alla "svàjka" e ridevano piantando alcuni  ravanelli
    nella  molle terra fangosa.  Rostòv si unì a loro.  A metà gioco,  gli
    ufficiali videro alcuni carri che  si  avvicinavano,  seguiti  da  una
    quindicina di ussari montati su cavalli magrissimi.  I carri,  guidati
    da  altri  ussari,  si  avvicinarono  ai  picchetti  e  subito  furono
    circondati da una folla di soldati.
    -  Be',  Denissov  era sempre preoccupato  -  disse Rostòv  -  ed ecco
    che l'approvvigionamento ora è arrivato.
    - Già...   -  risposero gli ufficiali.    -    Come  sono  contenti  i
    soldati!
    Un  poco  dietro  gli  ussari cavalcava Denissov,  accompagnato da due
    ufficiali di fanteria con i quali stava discutendo.  Rostòv  gli  andò
    incontro.
    - Vi avverto, capitano  -  diceva uno di essi, un tipo magro, piccolo,
    visibilmente furioso.
    - Ve l'ho già detto, no, che non vi rendo niente!
    -  Ne  risponderete,  capitano.  Questo  è brigantaggio bello e buono.
    Portar via un convoglio ai compatrioti!  I nostri uomini non  mangiano
    da due giorni...
    - E i miei da due settimane!  -  rispose Denissov.
    -  Questo è vero brigantaggio,  e la responsabilità è vostra,  egregio
    signore!  -  ripeté l'ufficiale di fanteria con voce sibilante.
    -  Ma  perché  continuate  a  seccarmi,  eh?     -    gridò  Denissov,
    riscaldandosi  di  colpo.    -    Ne  risponderò io,  non voi,  quindi
    smettetela di  ronzare  qui  attorno  e  andatevene  finché  siete  in
    tempo... March!  -  gridò all'ufficiale.
    - Benissimo  -  ribatté costui, senza intimorirsi e senza muoversi.  -
    Questo però è brigantaggio, bello e buono, e io...
    - Andate al diavolo voi, e a passo di corsa, mentre siete ancora tutto
    intero!  -  E, voltato il cavallo, lo spinse addosso all'ufficiale.
    -  Sta  bene,  sta  bene!    -    ribatté  costui  in tono minaccioso,
    allontanandosi al trotto.
    - Sei un cane su uno steccato,  un cane vivo su uno steccato!   -  gli
    gridò  Denissov  alle  spalle  (era  questo  l'insulto peggiore che un
    ufficiale di cavalleria potesse lanciare a un fante a  cavallo);  poi,
    avvicinatosi a Rostòv, scoppiò in una risata.
    - Ho portato via un convoglio alla fanteria, gliel'ho strappato con la
    forza!   -  esclamò.   -  Ma che diavolo! Potevo forse lasciar crepare
    di fame i miei soldati?
    I carri,  giunti agli ussari,  erano  destinati  a  un  reggimento  di
    fanteria  ma  Denissov,  saputo  da  Lavruska che il convoglio non era
    scortato,  se ne era impadronito  con  la  forza.  Ai  soldati  furono
    distribuite  gallette  a  volontà  e ne rimasero persino per gli altri
    squadroni.   Il giorno successivo il comandante  del  reggimento  fece
    chiamare  Denissov  e,  coprendosi  gli occhi con le dita aperte,  gli
    disse:
    - Ecco come io guardo alla faccenda: non so niente di niente e non  me
    ne occupo;  ma vi consiglio di andare allo stato maggiore, all'ufficio
    sussistenza, e di sistemare là le cose, firmando, se è possibile,  una
    ricevuta che dimostri che avete avuto una certa quantità di viveri. In
    caso  contrario,  questi  viveri verrebbero iscritti come pervenuti al
    reggimento di fanteria e la faccenda potrebbe finir male!
    Denissov si recò immediatamente allo stato  maggiore  con  il  sincero
    proposito di seguire quel consiglio.  A sera ritornò nel suo ricovero,
    in uno stato  di  agitazione  quale  Rostòv  non  l'aveva  mai  visto.
    Denissov non riusciva a parlare e pareva soffocare.  Quando Rostòv gli
    chiedeva  che  cosa  avesse,   non  faceva   che   proferire   minacce
    incomprensibili  con  voce  strozzata e rauca.   Spaventato nel vedere
    l'amico in quello stato, Rostòv lo esortò a spogliarsi,  a bere un po'
    di acqua e mandò a chiamare il medico.
    - Processarmi per rapina!  Oh!  Dammi ancora un po' d'acqua... Ma, sì,
    mi processino pure...  ma io le canaglie le picchierò  sempre  e  dirò
    tutto all'imperatore... Datemi del ghiaccio!  -  aggiunse.
    Venne  il medico del reggimento e disse che era necessario un salasso.
    Una profonda scodella di sangue nero sgorgò  dal  braccio  villoso  di
    Denissov che soltanto allora fu in grado di raccontare ciò che gli era
    accaduto.
    -  Arrivo...    -    prese  a  dire  Denissov.    -  "Be' dov'è qui il
    comandante?".  Me lo indicarono.  "Non volete  aspettare?".  "Sono  di
    servizio,  ho percorso trenta miglia per venire e non posso aspettare.
    Annunziami!".  Bene,  esce il capo di quella banda di ladri e anche  a
    lui viene in mente di farmi una ramanzina.  "Il vostro è stato un atto
    di brigantaggio!". "Non è un brigante", dico io, "colui che prende dei
    viveri per sfamare i suoi soldati,  ma chi li prende e se li mette  in
    tasca".  "Bene",  dice. "Andate a firmare dal commissario. La faccenda
    seguirà la via gerarchica". Vado dal commissario,  mi fermo davanti al
    tavolo e chi vedo?  Indovina... non te lo puoi immaginare! Vuoi sapere
    chi è che ci affama tutti quanti?   -   gridò  Denissov,  battendo  un
    pugno  tanto  forte sul tavolo che per poco questo non si rovesciò e i
    bicchieri sobbalzarono.  -  Teljanin, già! "Ma come, sei tu che ci fai
    morire di fame?". Un ceffone mi arrivò diritto diritto sul muso.  "Ah,
    razza  di...",  e giù sberle!  Devo dire,  però che mi sono sfogato  -
    gridò  Denissov,   sorridendo  allegramente  e   mostrando   i   denti
    bianchissimi,  minacciosi sotto i baffi neri.  -  Se non me l'avessero
    strappato dalle mani l'avrei accoppato!
    - Ma perché gridi così?  Calmati  -  diceva Rostòv.   -    Vedi,  esce
    ancora sangue... Aspetta, bisogna fasciarti.
    Rifecero la fasciatura a Denissov e lo misero a letto.  Il giorno dopo
    si svegliò allegro e tranquillo.
    Ma a mezzogiorno l'aiutante maggiore del  reggimento  entrò  con  aria
    seria e triste nella baracca dei due amici,  e,  esprimendo il proprio
    rammarico,  mostrò un foglio ufficiale del comandante  del  reggimento
    diretto  al  maggiore Denissov,  in cui erano contenute alcune domande
    circa il fatto accaduto il giorno prima. L'aiutante di campo disse che
    la faccenda poteva prendere  una  bruttissima  piega,  che  era  stata
    nominata una commissione militare d'inchiesta e che,  data la severità
    allora vigente contro il saccheggio e l'indisciplina delle truppe, nel
    migliore dei casi la cosa  poteva  concludersi  con  la  degradazione.
    Secondo  la  parte  lesa,  i  fatti si erano svolti così: dopo essersi
    impadronito del convoglio,  il maggiore Denissov,  senza essere  stato
    provocato,  si  era  presentato in stato di ubriachezza al commissario
    capo della sussistenza,  gli aveva dato del ladro,  l'aveva minacciato
    di percosse e,  quando era stato trascinato fuori,  si era precipitato
    negli uffici della cancelleria, aveva picchiato due funzionari,  a uno
    dei quali aveva slogato un braccio.
    Alle  nuove  domande  fattegli da Rostòv,  Denissov rispose ridendo di
    ricordarsi,  infatti,  che a un certo momento si era trovato sottomano
    un  altro  individuo,  ma che si trattava di inezie,  di cose talmente
    assurde,  che non gli passava nemmeno per l'anticamera del cervello il
    timore  di  un  tribunale militare e aggiunse che,  se quei vigliacchi
    avessero osato  colpirlo,  avrebbe  risposto  loro  in  modo  tale  da
    obbligarli a ricordarsi di lui per tutta la vita.
    Denissov parlava con leggerezza di tutta quella faccenda; ma Rostòv lo
    conosceva  troppo  bene  per  non  accorgersi  che  in  cuor  suo (pur
    nascondendolo agli altri),  egli temeva il tribunale e  si  tormentava
    per  quella  faccenda  che,  era  chiaro,  non  poteva non avere gravi
    conseguenze. Ogni giorno, infatti, cominciarono a giungergli documenti
    relativi all'inchiesta,  e il primo maggio fu ordinato a  Denissov  di
    passare  all'ufficiale  più  anziano  il  comando dello squadrone e di
    presentarsi allo stato maggiore per dare spiegazioni circa le violenze
    commesse negli uffici della  sussistenza.  Il  giorno  innanzi  Platov
    aveva  compiuto  una ricognizione con due reggimenti di cosacchi e due
    squadroni di ussari.  Denissov,  come sempre,  si era spinto in  prima
    linea,  dando  prova  del  suo coraggio.  Una pallottola,  sparata dai
    fucilieri francesi,  lo colpì a  una  coscia.  In  altre  circostanze,
    forse,   per  una  ferita  così  leggera,   Denissov  non  si  sarebbe
    allontanato dal reggimento, ma questa volta approfittò dell'occasione,
    rifiutò di presentarsi alla divisione e andò all'ospedale.


    CAPITOLO 17.

    Nel mese di giugno ebbe luogo la battaglia di Friedland, alla quale il
    reggimento di Pàvlograd non partecipò. Subito dopo questa battaglia fu
    concluso l'armistizio.  Rostòv,  che sentiva dolorosamente la mancanza
    dell'amico,  di  cui  non  aveva più avuto notizie dacché era partito,
    preoccupato per l'andamento del processo e per la  ferita,  approfittò
    dell'armistizio  e chiese il permesso di andare all'ospedale a trovare
    Denissov.
    L'ospedale si trovava in un piccolo  villaggio  prussiano,  due  volte
    saccheggiato  dalle truppe russe e da quelle francesi.  Proprio perché
    si era in estate,  quando tutto in mezzo ai campi è così  bello,  quel
    villaggio  con  le  sue case distrutte,  i suoi recinti abbattuti e le
    strade piene di immondizie,  lungo le quali si aggiravano gli abitanti
    laceri  e  i  soldati  malati,  presentava  un aspetto particolarmente
    desolante.
    L'ospedale era sistemato in una casa di pietra dalle  finestre  con  i
    vetri quasi tutti rotti,  in mezzo a un cortile ingombro dei resti del
    recinto  distrutto.  Alcuni  soldati  bendati,  pallidi  e  gonfi,  si
    aggiravano nel cortile o stavano seduti a godersi un po' di sole.
    Non appena Rostòv varcò la soglia della casa, si sentì serrare la gola
    da  un  tanfo  di ospedale e di putrefazione.  Sulle scale incontrò un
    medico militare russo con il sigaro  tra  le  labbra,  seguito  da  un
    infermiere pure russo.
    - Non posso fare l'impossibile  -  diceva il dottore;  -  vieni questa
    sera da Makàr Alekséevic', ci sarò.
    L'infermiere gli domandò ancora qualche cosa.
    - Be', fa' come credi! Non è forse lo stesso?
    In quel momento il dottore vide Rostòv che saliva la scala.
    - Perché siete qui,  signore?  -  gli domandò.  -  Che ci siete venuto
    a fare?  Giacché  nessuna  pallottola  vi  ha  colpito  perché  volete
    buscarvi il tifo? Questa, mio caro, è la casa degli appestati...
    - Perché?  -  chiese Rostòv.
    - Per il tifo.  Chi entra qui, è morto. Soltanto noi due, io e Makéev,
    -  (e indicò l'infermiere)  -  ci logoriamo  qui  dentro.  Già  cinque
    miei colleghi ci hanno lasciato la pelle.  Appena ne arriva uno nuovo,
    in una settimana è spacciato  -  proseguì con  evidente  piacere.    -
    Sono  stati  chiamati  dei  medici  prussiani,  ma  il posto ai nostri
    alleati non è gradito...
    Rostòv spiegò al dottore  che  desiderava  vedere  il  maggiore  degli
    ussari Denissov che si trovava ricoverato lì.
    - Non lo so...  non lo conosco.  Pensate che da solo devo occuparmi di
    tre ospedali  con  più  di  quattrocento  ammalati!  Per  fortuna,  le
    caritatevoli signore prussiane ci mandano un paio di libbre di caffè e
    di filacce al mese,  se no saremmo perduti.  -  Egli si mise a ridere.
    -  Quattrocento malati,  mio caro,  e ne continuano ad arrivare.  Sono
    quattrocento, vero?  -  e si rivolse all'infermiere.
    L'infermiere  pareva  sfinito  dalla  stanchezza,   e  si  capiva  che
    aspettava con impazienza che  il  medico  ciarliero  si  decidesse  ad
    andarsene.
    -  Il  maggiore  Denissov   -  ripeté Rostòv  -  è stato ferito presso
    Mauliten.
    - Mi pare che sia morto... Che ne dici, Makéev?  -  domandò il dottore
    con indifferenza. Ma l'infermiere non confermò le sue parole.
    - E' per caso un tipo alto,  con i  capelli  rossi?    -    chiese  il
    dottore.
    Rostòv descrisse l'aspetto di Denissov.
    - Sì,  uno così c'era,  c'era proprio  -  confermò il dottore con aria
    soddisfatta;  -  ma dev'essere morto. Del resto, cercherò: avevo degli
    elenchi. Li hai tu, ora, Makéev?
    - Li ha Makàr Alekséevic'  -  rispose l'infermiere.   -  Entrate nella
    stanza   degli  ufficiali,   e  vedrete  voi  stesso    -    aggiunse,
    rivolgendosi a Rostòv.
    - Be', sarebbe meglio che non ci andaste,  -  ammonì il dottore.-  Non
    vorrei foste poi costretto a fermarvi qui.   -  Ma  Rostòv  salutò  il
    dottore e pregò l'infermiere di accompagnarlo.
    - Badate,  eh,  che la colpa non è mia!  -  gli gridò il dottore dalle
    scale.
    Rostòv e l'infermiere entrarono in un  corridoio.  In  quel  corridoio
    buio  l'odore di ospedale era così forte che Rostòv dovette turarsi il
    naso e fermarsi un momento: raccolse le forze e  procedette  oltre.  A
    destra si aprì un uscio e sulla soglia comparve un uomo magro, giallo,
    con  i  piedi  nudi,  con  addosso  la sola camicia e le mutande,  che
    camminava appoggiandosi sulle grucce.  L'uomo si fermò e,  addossatosi
    allo stipite, guardò con occhi luccicanti e pieni di invidia i due che
    passavano.  Lanciando  un'occhiata  attraverso  l'uscio,  Rostòv  vide
    soldati malati e feriti che giacevano sul pavimento,  alcuni sopra  un
    po' di paglia, altri sui loro cappotti.
    - Si può entrare a vedere?  -  chiese Rostòv.
    - Vedere che cosa?  -  ribatté l'infermiere.
    Ma  proprio perché era evidente che l'infermiere desiderava che non vi
    mettesse piede, Rostòv entrò risolutamente nel reparto dei soldati. Il
    fetore,  al quale aveva già avuto il tempo di abituarsi percorrendo il
    corridoio,  là  dentro  era più forte e alquanto diverso: era un odore
    più acre e si capiva che proveniva proprio di lì.
    In una  lunga  stanza,  vivamente  illuminata  dal  sole  che  entrava
    attraverso i grandi finestroni,  gli ammalati e i feriti giacevano con
    le teste  contro  la  parete,  su  due  file  divise  da  uno  stretto
    passaggio.   Per  la  maggior  parte  erano  fuori  conoscenza  e  non
    prestarono attenzione ai due che entravano.  Quelli che erano in sé si
    sollevarono  tutti  o  almeno  alzarono  i  volti gialli e macilenti e
    guardarono Rostòv,  senza togliergli  gli  occhi  di  dosso,  con  una
    identica espressione di speranza in un soccorso,  di tacito rimprovero
    e di invidia per chi era sano.  Rostòv  s'inoltrò  sino  in  mezzo  al
    grande stanzone,  attraverso gli usci aperti,  gettò un'occhiata nelle
    stanze attigue e da tutte le parti vide lo stesso spettacolo. Si fermò
    per un momento e volse gli occhi attorno.  Non si aspettava una  scena
    simile.  Proprio davanti a lui, quasi attraverso il passaggio, giaceva
    sul nudo pavimento un malato,  senza dubbio  un  cosacco,  il  che  si
    poteva arguire dai suoi capelli tagliati in tondo. Giaceva supino, con
    le  braccia  e  le gambe enormi divaricate.  Aveva il viso di un rosso
    paonazzo,  gli occhi stravolti in modo tale che se ne vedeva  solo  il
    bianco,  e le vene dei piedi e delle braccia,  anch'esse rosse,  erano
    tese come corde.  Sbatteva la testa contro il  pavimento  e  con  voce
    rauca  ripeteva  sempre  la  stessa  parola.  Rostòv  tese  l'orecchio
    tentando di capire;  la parola era: "bere,  bere,  bere!".  Rostòv  si
    guardò  attorno,   cercando  qualcuno  che  potesse  sistemare  meglio
    l'ammalato e dargli un po' d'acqua.
    - Chi assiste i malati qui?  -  chiese all'infermiere.
    In quel momento,  dalla stanza vicina uscì un soldato di  fureria,  in
    servizio all'ospedale,  il quale,  marcando il passo, venne a fermarsi
    sull'attenti davanti a Rostòv.
    - Agli ordini, eccellenza  -  gridò il soldato, sbarrando gli occhi in
    faccia a Rostòv,  scambiandolo evidentemente  per  uno  dei  superiori
    dell'ospedale.
    -  Rimettilo  al  suo  posto  e  dagli  da  bere    -    disse Rostòv,
    indicandogli il cosacco.
    - Signorsì,  eccellenza  -  rispose  il  soldato  con  un  certo  qual
    piacere e continuando a sgranare gli occhi e a restare sull'attenti.
    "No,  qui  non  è possibile far nulla",  pensò Rostòv,  abbassando gli
    occhi, e già stava per uscire, quando si sentì fissare, da destra,  da
    uno sguardo insistente.  Si voltò da quella parte. Un vecchio soldato,
    giallo e scheletrito,  dall'espressione severa,  la barba  bianca  non
    rasata,  seduto su un vecchio mantello,  lo fissava ostinatamente.  Un
    vicino gli parlava all'orecchio,  accennando a Rostòv.  Egli capì  che
    quel  vecchio  voleva chiedergli qualche cosa.  Si avvicinò e vide che
    una sola gamba del vecchio era piegata sotto di lui;  l'altra gli  era
    stata  amputata  sopra il ginocchio.  L'altro vicino del vecchio,  che
    giaceva immobile, abbastanza discosto, era un giovane soldato dal viso
    camuso color della cera,  ancora coperto di  lentiggini  e  gli  occhi
    rovesciati  sotto  le  palpebre.  Rostòv  guardò  il  soldato dal viso
    camuso, e un brivido gli corse lungo la schiena.
    - Ma mi pare... che quell'uomo...  -  osservò, rivolto all'infermiere.
    - Abbiamo già tanto supplicato,  eccellenza...   -  disse  il  vecchio
    soldato  la  cui  mascella inferiore era scossa da un tremito.   -  E'
    morto sin da stamattina. Anche noi siamo uomini, non cani...
    -  Mando  subito,  lo  porteranno  via...    -    assicurò  in  fretta
    l'infermiere.  -  Prego, eccellenza...
    -  Andiamo,  andiamo   -  si affrettò a dire Rostòv e,  abbassando gli
    occhi e stringendosi tutto in sé come tentando di passare  inosservato
    tra  quelle  file di occhi che lo fissavano,  colmi di rimprovero e di
    invidia, uscì dalla stanza.


    CAPITOLO 18.

    Dopo aver attraversato il corridoio,  l'infermiere  accompagnò  Rostòv
    nel  reparto  ufficiali,  costituito  da  tre  camere i cui usci erano
    aperti.  In queste stanze c'erano i letti sui quali alcuni  ufficiali,
    malati  o feriti,  stavano coricati o seduti.  Alcuni,  con addosso il
    camice dell'ospedale,  giravano per le stanze.  La prima  persona  che
    Rostòv incontrò nel reparto fu un ometto magro,  senza un braccio,  in
    berretto e camice da ospedale,  che,  fumando una  pipa  dal  bocchino
    rosicchiato,  passeggiava  nella  prima  stanza.  Rostòv,  fissandolo,
    cercava di ricordare dove lo avesse già visto.
    - Ecco dove Iddio ha voluto che ci ritroviamo!   -  esclamò  l'ometto.
    -    Tuscin,  io  sono  Tuscin!  Vi  ricordate  che  vi  ho preso su a
    Schöngraben?  Vedete?  Mi hanno tagliato via un pezzetto!   -    disse
    sorridendo  e  mostrando  la  manica  vuota  del  camice.   -  Cercate
    Vassilij Dmìtrevic' Denissov? E' mio coinquilino!   -  aggiunse,  dopo
    aver saputo chi era l'ufficiale che Rostòv stava cercando.   -  E qui,
    è qui...  -  e Tuscin lo condusse nella stanza attigua, dalla quale si
    udiva giungere l'eco di qualche risata.
    "Come possono non  soltanto  ridere,  ma  vivere  qui  dentro?"  pensò
    Rostòv,  che  sentiva  ancora  quel  fetore  di cadavere di cui si era
    impregnato nelle stanze dei soldati,  e che vedeva ancora attorno a sé
    quegli  sguardi  colmi  di  invidia che lo accompagnavano dai due lati
    della  corsia  e  il  viso  del  giovane  soldato  morto  dagli  occhi
    rovesciati sotto le palpebre.
    Denissov,  sdraiato sul letto,  con la testa sotto la coperta, dormiva
    benché fosse quasi passato mezzogiorno.
    - Ah, Rostòv! Salve, salve!  -  gridò con la stessa voce di quando era
    al reggimento,  ma Rostòv notò subito con tristezza che  sotto  quella
    vivacità  e  quella disinvoltura abituale,  nell'espressione del viso,
    nell'intonazione e nelle  parole  di  lui,  traspariva  un  sentimento
    nuovo, nascosto e cattivo.
    La ferita,  per quanto leggera,  non si era ancora rimarginata sebbene
    Denissov fosse all'ospedale già da due settimane.  Il suo  viso  aveva
    quel gonfiore pallido,  comune a tutti coloro che erano là dentro.  Ma
    non fu questo a stupire Rostòv: lo stupì il  fatto  che  Denissov  non
    pareva  molto  contento  di  rivederlo  e  gli sorrideva di un sorriso
    forzato.  Denissov non gli  domandava  nulla  né  del  reggimento,  né
    dell'andamento   generale  della  guerra.   E  quando  Rostòv  toccava
    l'argomento, Denissov non l'ascoltava.
    Rostòv notò anche che all'amico spiaceva udir ricordare il  reggimento
    e   in   genere   la  vita  libera  e  diversa  che  si  viveva  fuori
    dell'ospedale.  Sembrava che egli cercasse di dimenticare quella  vita
    di  prima  e  che  ogni  suo interesse fosse rivolto soltanto alla sua
    questione con  i  funzionari  della  sussistenza.  Quando  Rostòv  gli
    domandò  a che punto fosse la faccenda,  egli estrasse subito di sotto
    il guanciale una carta inviatagli dalla commissione e la brutta  copia
    della  sua  risposta.  Si  animò  quando ne incominciò la lettura e in
    special modo quando faceva notare a  Rostòv  le  frecciate  che  egli,
    nella risposta, lanciava ai suoi nemici.
    I compagni di ospedale di Denissov,  che sulle prime si erano radunati
    attorno a Rostòv,  come persona appena giunta  dal  mondo  libero,  si
    allontanarono  a  poco a poco non appena Denissov si mise a leggere il
    suo foglio.  Dalla loro espressione Rostòv comprese che  quei  signori
    già  più  di una volta avevano sentito raccontare quella storia che li
    aveva ormai annoiati.  Soltanto il vicino di  letto  di  Denissov,  un
    grosso  ulano  che  con  il  viso  aggrottato e la pipa in bocca,  era
    rimasto seduto sulla sua branda e  il  piccolo  Tuscin,  privo  di  un
    braccio,  ascoltavano scuotendo il capo in segno di disapprovazione. A
    metà della lettura, l'ulano interruppe Denissov.
    - Secondo me  -    disse  rivolgendosi  a  Rostòv    -    bisognerebbe
    semplicemente  domandare  la  grazia  all'imperatore.  Dicono  che ora
    saranno concesse  molte  ricompense  agli  ufficiali  e  senza  dubbio
    faranno la grazia...
    - Io?  Io domandar la grazia all'imperatore!   -  esclamò Denissov con
    una voce alla quale voleva dare l'energia e il calore di un tempo,  ma
    in cui vibrava soltanto un'inutile irritazione.  -  E perché? Se fossi
    un  brigante,  potrei chiedere la grazia,  ma mi si processa perché ho
    messo in luce i veri briganti.  Mi mettano pure sotto processo: non ho
    paura di nessuno!  Io ho sempre servito onestamente lo zar e la patria
    e non ho rubato!  E proprio me  vogliono  degradare...  Senti,  glielo
    scrivo loro chiaro chiaro: "Se io avessi derubato il governo...".
    - Hai scritto benissimo,  non c'è che dire,  -  osservò Tuscin  ma non
    si tratta di questo,  Vassilij Dmitric'  -    e  si  rivolse  anche  a
    Rostòv.    -    Il  fatto  è  che bisogna chinar la testa,  e Vassilij
    Dmitric' non ne vuol sapere! Eppure,  ve l'ha ben detto l'auditore che
    la vostra faccenda sta prendendo una brutta piega.
    - Prenda la piega che vuole  -  rispose Denissov.
    - L'auditore vi ha scritto la supplica  -  proseguì Tuscin,  -  dovete
    firmarla  e  poi,  per mezzo suo,  mandarla a destinazione.  Il vostro
    amico avrà certo qualche conoscenza allo stato maggiore;  un'occasione
    migliore non vi potrebbe capitare.
    -  Ma  l'ho  già  detto  e  ripetuto  che non voglio abbassarmi  -  lo
    interruppe Denissov; e riprese la lettura del suo foglio.
    Rostòv non osava insistere per convincere  l'amico;  sebbene  sentisse
    istintivamente  che  la via proposta da Tuscin e dagli altri ufficiali
    era la più sicura e sebbene si  considerasse  felicissimo  di  potersi
    rendere utile a Denissov,  conosceva però quanto questi fosse ostinato
    e sincero nelle sue decisioni.
    Allorché Denissov ebbe finito la lettura della sua velenosa  risposta,
    -    lettura  che  durò  quasi  un'ora    -   Rostòv non disse nulla e
    trascorse il resto della giornata di pessimo umore,  in compagnia  dei
    compagni   d'ospedale   di  Denissov,   raccontando  quanto  sapeva  e
    ascoltando i discorsi altrui. Denissov,  con espressione cupa,  tacque
    per tutto il tempo.
    A  sera avanzata Rostòv si accinse ad andarsene e chiese a Denissov se
    avesse qualche incarico da dargli.
    - Sì, aspetta...   -  rispose Denissov,  guardando gli altri ufficiali
    e,  tirate  di  nuovo fuori le carte da sotto il cuscino,  si avvicinò
    alla finestra sulla quale teneva un calamaio e si mise a scrivere.
    - Evidentemente con  la  forza  non  si  ottiene  niente    -    disse
    allontanandosi  dalla finestra e consegnando a Rostòv un grosso plico.
    Era la supplica diretta al sovrano, redatta dall'auditore, nella quale
    Denissov,  senza accennare in alcun modo alle colpe dell'ufficiale  di
    sussistenza, domandava di essere graziato.
    - Trasmettila: si vede che...   -  Non completò la frase, e sorrise di
    un sorriso forzato e doloroso.


    CAPITOLO 19.

    Ritornato al reggimento e riferito al comandante a che punto fosse  la
    faccenda  di  Denissov,  Rostòv partì per Tilsit,  con la supplica per
    l'imperatore.
    Il 13 di  giugno  l'imperatore  di  Francia  e  quello  di  Russia  si
    incontrarono  a  Tilsit.   Borìs  Drubetzkòj  aveva  chiesto  all'alto
    personaggio, al quale era addetto,  di far parte del séguito destinato
    a recarsi a Tilsit.
    - "Je voudrais voir le grand homme" [51.  Vorrei vedere il grand'uomo]
    -  disse,  parlando di Napoleone che sino allora aveva sempre chiamato
    Buonaparte, come tutti.
    -  "Vous  parlez  de Bonaparte?" [52.  Parlate del Bonaparte?]  -  gli
    domandò sorridendo il generale.
    Borìs  volse  uno  sguardo  interrogativo  al  suo  generale  e   capì
    immediatamente che si trattava di una prova scherzosa.
    - "Mon prince,  je parle de l'empereur Napoléon" [53.  Principe, parlo
    dell'imperatore  Napoleone]    -    rispose.   Il   generale,   sempre
    sorridendo, gli batté una mano sulla spalla.
    - Ti farai strada, tu!  -  gli disse, e lo prese con sé.
    Borìs  fu  una  delle  poche persone che si trovarono sulle sponde del
    Niemen il giorno dell'incontro dei due  imperatori;  vide  le  zattere
    stemmate,  vide Napoleone passare sull'altra riva dinanzi alla guardia
    francese, vide il volto serio dell'imperatore Aleksàndr mentre, muto e
    pensoso,  aspettava in una locanda sulle rive del Niemen che arrivasse
    Napoleone;  vide i due imperatori salire in barca e Napoleone, montato
    per primo sulla zattera,  avanzare a passo rapido,  verso Aleksàndr  e
    porgergli  la mano,  e poi tutti e due scomparire nel padiglione.  Sin
    dal tempo del suo primo ingresso nelle "alte sfere", Borìs aveva preso
    l'abitudine di osservare attentamente quello che gli accadeva  attorno
    e  di  prenderne  nota.  Durante  l'incontro di Tilsit,  egli cercò di
    conoscere il nome dei personaggi che erano giunti con Napoleone, delle
    uniformi che  essi  indossavano,  e  ascoltò  attentamente  le  parole
    pronunziate  dagli  uomini  più  in  vista.  Nel  momento in cui i due
    imperatori entrarono nel padiglione,  egli  guardò  l'orologio  e  non
    dimenticò  di  fare altrettanto quando lo zar ne uscì.  L'incontro era
    durato un'ora e cinquantatré minuti.  Quella sera stessa Borìs  annotò
    questo dato nel suo taccuino, insieme con gli altri avvenimenti che, a
    quanto egli supponeva,  potevano avere un'importanza storica.  Siccome
    il séguito degli imperatori era costituito da pochissime persone,  per
    un uomo che aspirava a far carriera,  il fatto di trovarsi a Tilsit in
    quella occasione era cosa di grande importanza,  e Borìs  capì  subito
    che  da  quel  momento  la sua posizione poteva considerarsi veramente
    consolidata. Non solo cominciò a essere conosciuto,  ma anche a essere
    tenuto in considerazione, e la gente si abituò a vederlo.
    Due volte gli furono affidati incarichi particolari per il sovrano, il
    quale   ebbe  così  modo  di  conoscerlo  personalmente,   e  tutti  i
    cortigiani, anziché evitare, come prima, il giovane ufficiale,  perché
    nuovo  nell'ambiente,  si  sarebbero  meravigliati  se non lo avessero
    veduto.
    Borìs abitava con  un  altro  aiutante  di  campo,  il  conte  polacco
    Gilinski.  Questo  polacco,  cresciuto  ad educato a Parigi era ricco,
    amava moltissimo i Francesi e  quasi  ogni  giorno,  durante  la  loro
    permanenza  a Tilsit,  si riunivano in casa di Borìs e di Gilinski,  a
    pranzo e a cena, ufficiali francesi della Guardia dello stato maggiore
    generale.
    La sera del 24 giugno il  conte  Gilinski,  offrì  una  cena  ai  suoi
    conoscenti  francesi.  A  quella  cena,  il  cui ospite d'onore era un
    aiutante di campo di Napoleone,  parteciparono alcuni ufficiali  della
    Guardia  francese  e un giovinetto,  discendente da un'antica famiglia
    aristocratica,  paggio dell'imperatore.  Proprio quella  sera  Rostòv,
    approfittando  dell'oscurità  per  non  essere riconosciuto,  arrivò a
    Tilsit in abito borghese e si  recò  nell'abitazione  di  Borìs  e  di
    Gilinski.
    Nell'animo  di  Rostòv,  come  del resto in tutto l'esercito dal quale
    egli proveniva,  non si era  ancora  manifestato  quel  capovolgimento
    rispetto  a  Napoleone  e  ai  Francesi,  da  nemici  diventati amici,
    capovolgimento già verificatosi nel quartier generale e nell'animo  di
    Borìs.  Tutti nell'esercito continuavano a provare per Bonaparte e per
    i Francesi gli stessi sentimenti di prima,  un miscuglio di  odio,  di
    disprezzo e di timore.  Anche recentemente Rostòv,  discorrendo con un
    ufficiale dei cosacchi di Platov,  sosteneva  che,  qualora  Napoleone
    fosse  caduto  prigioniero,  non lo si sarebbe dovuto trattare come un
    sovrano,  ma come un criminale.  Un'altra  volta,  pure  recentemente,
    imbattutosi  sulla  strada  con  un  colonnello ferito,  Rostòv si era
    accalorato per dimostrargli che la pace non poteva essere conclusa tra
    un imperatore legittimo e un malfattore come Bonaparte.  Perciò Rostòv
    fu  stranamente  colpito quando vide in casa di Borìs alcuni ufficiali
    francesi in quelle stesse uniformi che egli era abituato a guardare in
    ben altro modo dalla linea  degli  avamposti.  Non  appena  scorse  un
    ufficiale francese affacciarsi all'uscio,  fu assalito improvvisamente
    da quel sentimento bellicoso e ostile che provava sempre di fronte  al
    nemico.  Si fermò sulla soglia e domandò,  in russo,  se fosse proprio
    quella l'abitazione di Drubetzkòj.  Borìs,  all'udire la  voce  di  un
    estraneo nell'ingresso,  uscì a incontrarlo.  Quando riconobbe Rostòv,
    il suo viso espresse, nel primo momento, una viva contrarietà.
    - Ah,  sei tu!  Sono  felice,  felicissimo  di  vederti!    -    disse
    ugualmente,  sorridendo  e muovendo verso di lui.  Ma a Rostòv non era
    sfuggita la prima impressione.
    - Mi pare di essere giunto in un momento poco opportuno  -  disse.   -
    Non  sarei  venuto,  ma si tratta di un affare importante  -  aggiunse
    freddamente.
    - No, mi stupisce soltanto che tu abbia potuto lasciare il reggimento.
    "Dans un moment je suis à vous" [54. Un attimo,  e sono sùbito da voi]
    -  disse, rispondendo a una voce che lo chiamava dall'altra stanza.
    - Capisco di essere giunto inopportuno...  -  ripeté Rostòv.
    L'espressione  di  stizza era già scomparsa dal viso di Borìs;  avendo
    evidentemente riflettuto e deciso che cosa dovesse fare, gli prese con
    molta calma tutt'e due le mani e lo introdusse nella  stanza  attigua.
    Gli occhi di Borìs, che guardavano Rostòv fermi e tranquilli, parevano
    velati  da  qualche  cosa come se uno schermo  -  gli occhiali azzurri
    delle convenienze sociali  -  li appannasse.
    - Ma via, smettila,  ti prego!  Ti pare possibile che proprio tu possa
    giungere inopportuno?  -  disse Borìs.
    E,  condottolo  nella  stanza  dov'era  apparecchiata la tavola per la
    cena,  lo presentò agli invitati dicendo il suo nome e  spiegando  che
    non era un civile, ma un ufficiale degli ussari, suo vecchio amico.
    -  Il  conte  Gilinski,  "le comte" N.  N.,  "le capitaine" S.  S.   -
    diceva, presentando gli ospiti. Rostòv guardava gli ufficiali francesi
    aggrottando le sopracciglia, salutava freddamente e taceva.
    Fu chiaro che Gilinski non era molto lieto di  accogliere  quel  nuovo
    personaggio  nel  suo  gruppo e non gli disse nulla.  Borìs pareva non
    accorgersi dell'imbarazzo prodotto dall'arrivo  dell'amico  e  con  la
    stessa  calma  e  lo  stesso  sguardo  appannato con cui aveva accolto
    Rostòv, cercava ora di rianimare la conversazione. Uno degli ufficiali
    stranieri,  con la proverbiale cortesia francese si rivolse  a  Rostòv
    che  taceva  ostinatamente  e gli domandò se fosse venuto a Tilsit per
    vedere l'imperatore.
    - No, sono qui per un affare  -  rispose Rostòv, seccamente.
    Rostòv era diventato di pessimo umore,  dal momento in cui aveva visto
    sul  viso di Borìs l'espressione di malcontento e,  come sempre accade
    alle persone di umor nero,  gli pareva che tutti  lo  guardassero  con
    aria ostile e aveva l'impressione di essere di imbarazzo a tutti. E in
    realtà   lo   era,   giacché   era  l'unico  a  non  partecipare  alla
    conversazione generale che aveva ripreso un andamento vivace.  "Perché
    costui  sta  qui?"  parevano  dire  le  occhiate  che  gli  ospiti gli
    lanciavano. Infine egli si alzò e si avvicinò a Borìs.
    - Sento di essere veramente inopportuno   -    gli  disse  sottovoce;-
    andiamo a parlare un momento del mio affare e poi ti lascio.
    - Ma no,  ma niente affatto!   -  esclamò Borìs.   -  Ma se sei stanco
    andiamo in camera mia dove ti potrai sdraiare e riposare.
    - Sì, infatti...
    Entrarono nella cameretta dove dormiva Borìs.  Rostòv,  senza sedersi,
    con  fare  irritato  come  se  l'amico fosse in qualche modo colpevole
    verso di lui,  cominciò subito a raccontargli la storia di Denissov  e
    gli chiese se volesse e potesse intercedere per lui, per mezzo del suo
    generale,  presso  l'imperatore,  facendogli  pervenire  una  lettera.
    Allorché si trovarono soli, Rostòv, per la prima volta, si convinse di
    trovarsi a disagio di fronte a Borìs.  Questi,  seduto  con  le  gambe
    accavallate, ascoltava l'amico accarezzandosi macchinalmente il mento,
    come  un generale ascolta il rapporto di un subalterno,  ora guardando
    da una parte ora dall'altra e di tanto in tanto fissandolo con  quello
    sguardo velato senza espressione.  E ogni volta, sotto quello sguardo,
    Rostòv si fermava imbarazzato e abbassava gli occhi.
    - Ho sentito parlare di storie di questo genere  e  so  che,  in  casi
    simili,  l'imperatore  è  molto  severo.  Credo che sarebbe meglio non
    arrivare sino a  sua  maestà.  Secondo  me  è  preferibile  rivolgersi
    direttamente  al comandante del corpo d'armata...  Ma in generale,  io
    penso che...
    - Insomma,  non vuoi far nulla,  dimmelo francamente!   -   gli  gridò
    quasi Rostòv, senza guardarlo negli occhi.
    Borìs sorrise.
    - Al contrario, farò quello che posso. Pensavo soltanto che...
    In  quel  momento  si  udì al di là dell'uscio la voce di Gilinski che
    chiamava Borìs.
    - Va',  va' pure,  va'...   -  disse Rostòv e,  rifiutando di  prender
    parte  alla  cena,  rimase  solo nella piccola camera dove passeggiò a
    lungo avanti e indietro,  ascoltando l'allegro  chiacchierio  che  gli
    giungeva dalla stanza attigua.


    CAPITOLO 20.

    Rostòv era arrivato a Tilsit proprio nel giorno meno adatto per i suoi
    tentativi in favore di Denissov.  Non poteva presentarsi di persona al
    generale di servizio,  poiché vestiva in  borghese  ed  era  venuto  a
    Tilsit  senza il permesso dei suoi superiori;  Borìs poi,  se anche lo
    avesse voluto,  non avrebbe potuto far nulla.  Il giorno successivo  a
    quello  dell'arrivo  di  Rostòv,  il 27 giugno,  erano stati firmati i
    preliminari della pace.  I due imperatori si erano  scambiate  le  più
    alte  decorazioni  del  loro paese: Aleksàndr aveva ricevuto la Legion
    d'onore e Napoleone la croce di  Sant'Andrea  di  prima  classe;  quel
    giorno, inoltre, doveva aver luogo un banchetto, offerto dalla Guardia
    francese a un battaglione del reggimento Preobrazenskij,  banchetto al
    quale dovevano partecipare i due sovrani.
    Rostòv si era sentito tanto imbarazzato e a  disagio  con  Borìs  che,
    quando,  terminata la cena, questi entrò in camera, finse di dormire e
    il giorno dopo,  di buon  mattino,  uscì  di  casa,  cercando  di  non
    incontrarlo. In marsina e cappello rotondo, Nikolàj vagò per la città,
    osservando  i  Francesi e le loro divise,  le vie e le case dove erano
    alloggiati il sovrano russo  e  quello  francese.  Sulla  piazza  vide
    disporre  le  tavole  e  fare  i preparativi per il banchetto;  per le
    strade scorse bandiere  russe  e  francesi,  e  stendardi  con  enormi
    iniziali "A" e "N", che ornavano anche le finestre delle case.
    "Borìs  non vuole aiutarmi,  e io non voglio più rivolgermi a lui.  E'
    deciso!",  pensava Nikolàj;  "tra noi tutto è finito.  Ma io non me ne
    andrò  di  qui  senza aver fatto per Denissov tutto quanto è nelle mie
    possibilità e, soprattutto,  senza aver fatto giungere la sua supplica
    all'imperatore.  All'imperatore.  Ma  egli è qui!",  si diceva Rostòv,
    avvicinandosi senza volerlo alla casa in cui alloggiava il sovrano.
    Davanti all'ingresso erano fermi molti cavalli da sella; evidentemente
    gli ufficiali del séguito  dovevano  riunirsi  lì,  preparandosi  alla
    prossima uscita del sovrano.  "Da un momento all'altro posso vederlo",
    si diceva Rostòv.  "Se riuscissi soltanto a consegnargli personalmente
    la lettera e a dirgli tutto! Mi arresterebbero perché sono in marsina?
    Impossibile!  L'imperatore comprenderebbe da che parte è la giustizia.
    Egli comprende tutto,  sa  tutto!  Chi  può  essere  più  equo  e  più
    magnanimo  di lui?  In fondo,  se anche mi arrestassero perché sono in
    marsina,  che male ci sarebbe?",  rifletteva il  giovane,  vedendo  un
    ufficiale  che  entrava  nella casa occupata dall'imperatore.  "Si può
    entrare, a quanto pare! Eh, sono tutte sciocchezze! Ci entrerò anch'io
    e consegnerò la lettera al sovrano: tanto peggio per Drubetzkòj che mi
    ha costretto a questo". E a un tratto, con una risolutezza della quale
    non si sarebbe creduto capace,  Rostòv,  tastando la lettera che aveva
    in tasca, mosse verso la casa abitata dal sovrano.
    "No,  questa  volta  non mi lascerò sfuggire l'occasione come ho fatto
    dopo Austerlitz",  pensava,  aspettandosi a ogni secondo di incontrare
    l'imperatore e sentendosi affluire il sangue al cuore a quel pensiero.
    "Mi getterò ai suoi piedi e lo supplicherò di ascoltarmi. Egli mi farà
    rialzare,  mi ascolterà e mi ringrazierà". "Quando posso fare del bene
    sono felice,  rimediare a un'ingiustizia è  per  me  la  felicità  più
    grande...". Erano queste le parole che Rostòv immaginava avrebbe detto
    lo  zar.  E,  passando  davanti ai curiosi che lo guardavano,  salì le
    scale della casa dove alloggiava sua maestà.
    Dall'ingresso,  un'ampia scalinata  conduceva  direttamente  al  piano
    superiore: a destra si vedeva una porta chiusa. A piano terreno, sotto
    lo scalone, un'altra porta conduceva ai piani inferiori.
    - Che cercate?  -  gli chiese qualcuno.
    -  Devo  consegnare  un  plico,  una supplica a sua maestà  -  rispose
    Nikolàj con voce tremante.
    - Una supplica?  Dovete lasciarla all'ufficiale di servizio;  favorite
    passare  di qui  -  e gli indicò la porta in basso.   -  Ma adesso non
    riceve.
    All'udire quella voce indifferente,  Rostòv si sgomentò per quello che
    aveva fatto: il pensiero di poter incontrare da un minuto all'altro il
    sovrano  era per lui così seducente e perciò così terribile,  che egli
    era pronto a fuggire, ma un ufficiale di camera,  venendogli incontro,
    gli aprì la porta che conduceva nella stanza del generale di servizio,
    e Rostòv entrò.
    Scorse  un  uomo  non  alto,  piuttosto  grasso,  sulla  trentina,  in
    pantaloni bianchi,  stivaloni alti e una camicia di  batista  che,  si
    vedeva,  aveva appena infilata;  un domestico gli fissava di dietro un
    elegante paio  di  bretelle  di  seta  ricamate  che,  chissà  perché,
    attirarono  l'attenzione  di Rostòv.  Quell'uomo stava discorrendo con
    qualcuno che si trovava nella strada accanto.
    - "Bien faite et la beauté du diable" [55.  Ben fatta,  e la  bellezza
    del  diavolo]    -   diceva,  ma,  vedendo Rostòv,  smise di parlare e
    aggrottò le sopracciglia.
    - Che cosa desiderate? E' per una supplica?
    - "Qu'est-ce que c'est?" [56.  Che c'è?]  -   domandò  qualcuno  dalla
    stanza vicina.
    -  "Encore  un  pétitionnaire" [57.  Ancora un postulante]  -  rispose
    l'uomo in bretelle.
    - Ditegli che venga  dopo.  L'imperatore  uscirà  tra  poco:  dobbiamo
    andare.
    - Dopo, dopo, venite domani. Oggi è troppo tardi...
    Rostòv si voltò per uscire, ma l'uomo dalle bretelle lo fermò.
    - Da parte di chi? E voi chi siete?
    - Da parte del maggiore Denissov  -  rispose Rostòv.
    - E voi chi siete? Un ufficiale?
    - Il tenente conte Rostòv.
    -  Che  audacia!  Presentate  la  supplica  per via gerarchica!  E ora
    andate...  andate...   -  E si infilò la giubba dell'uniforme  che  il
    cameriere gli porgeva.
    Rostòv  uscì  di  nuovo nel vestibolo e notò che all'ingresso si erano
    già riuniti molti ufficiali e generali in alta  uniforme,  davanti  ai
    quali bisognava per forza passare.
    Maledicendo  la  propria  audacia,  tremando  al  pensiero  di potersi
    imbattere  da  un  minuto   all'altro   nell'imperatore,   di   essere
    svergognato  davanti  a  lui  e mandato agli arresti,  comprendendo in
    pieno tutta la sconvenienza del proprio gesto e pentendosi amaramente,
    Rostòv, con gli occhi bassi, cercava di uscire inosservato dalla casa,
    circondato dalla brillante folla del séguito,  quando una voce nota lo
    chiamò e una mano lo fermò.
    - Che fate qui in borghese,  mio caro?   -  gli domandò quella voce da
    basso.
    Colui che parlava era il generale di cavalleria,  già comandante della
    divisione  nella  quale  prestava servizio Rostòv e che durante quella
    campagna si era meritato il favore dell'imperatore.
    Rostòv,  spaventato,  cercò di giustificarsi,  ma vedendo sul viso del
    generale un'espressione bonaria e quasi giovanile,  si fece un poco in
    disparte  e  con  voce  emozionata  gli  espose  tutta  la   faccenda,
    pregandolo  di  intercedere  per Denissov,  che il generale conosceva.
    Dopo averlo  ascoltato,  il  generale  scosse  il  capo  gravemente  e
    mormorò:
    - Mi dispiace,  caro,  mi dispiace davvero per quel valoroso! Dammi la
    supplica.
    Rostòv aveva appena fatto in tempo a consegnare la supplica raccontare
    il caso di Denissov che dallo scalone giunse un rumore di passi rapidi
    e un tintinnio di speroni e il generale,  allontanandosi in fretta  da
    lui,  mosse  verso  l'entrata.  I  signori del séguito dell'imperatore
    scendevano rapidamente le scale e si avviavano verso i  loro  cavalli.
    Lo  scudiero Enée,  lo stesso di Austerlitz,  fece avanzare il cavallo
    dell'imperatore e sulla scala si udì uno scalpiccio di passi rapidi  e
    leggeri che Rostòv riconobbe immediatamente.  Dimenticando il pericolo
    di essere riconosciuto egli, insieme con alcuni cittadini curiosi,  si
    avvicinò  agli ufficiali del séguito e un'altra volta,  dopo due anni,
    scorse quei lineamenti che  adorava,  quello  stesso  sguardo,  quella
    stessa  maestosa  dolcezza...  E il sentimento d'entusiasmo e di amore
    per il sovrano risorse nell'animo di Rostòv con la forza di un  tempo.
    L'imperatore,  che  indossava la divisa del reggimento Preobrazenskij,
    in stivaloni alti e calzoni bianchi di camoscio che  aveva  sul  petto
    una stella che Rostòv non conosceva (era la Legion d'onore),  comparve
    sulle scalinate con  il  cappello  sotto  il  braccio,  infilandosi  i
    guanti.  Si fermò, si guardò in giro, e Rostòv provò l'impressione che
    quello sguardo illuminasse ogni cosa  attorno  a  lui.  Disse  qualche
    parola  ad  alcuni  generali.  Ravvisò anche l'antico comandante della
    divisione di Rostòv, gli sorrise e lo chiamò a sé.
    Tutto il séguito si scostò e Rostòv vide che il generale si  trattenne
    lungamente  a  conversare con l'imperatore.  Questi gli rispose alcune
    parole e fece un passo per avvicinarsi al suo  cavallo.  Di  nuovo  la
    folla del séguito e la folla della strada, di cui faceva parte Rostòv,
    si  avvicinarono al sovrano.  Fermatosi presso il cavallo con una mano
    posata sul pomo della sella,  l'imperatore si  volse  al  generale  di
    cavalleria  e  gli  disse  a voce alta,  evidentemente perché tutti lo
    udissero:
    - Non posso,  generale,  e non posso perché la legge è più forte di me
    -  disse, e infilò il piede nella staffa.
    Il  generale  chinò  rispettosamente  il  capo,  l'imperatore  montò a
    cavallo e partì al galoppo. Rostòv,  fuori di sé per l'entusiasmo,  lo
    seguì correndo insieme con la folla.


    CAPITOLO 21.

    Sulla  piazza,  verso  la  quale si era diretto l'imperatore,  stavano
    allineati,  uno di fronte  all'altro,  il  battaglione  della  Guardia
    francese,   in   berrettone   di  pelo,   a  sinistra,   e  quello  di
    Preobrazenskij, a destra.
    Mentre il sovrano  si  accostava  a  un  fianco  dei  battaglioni  che
    presentavano le armi,  dal fianco opposto accorreva un numeroso gruppo
    di cavalieri, in testa ai quali Rostòv riconobbe Napoleone. Non poteva
    essere che lui: veniva al galoppo,  portava un  piccolo  cappello,  la
    fascia  di  Sant'Andrea  di  sbieco  sulla spalla e la giubba turchina
    aperta su un panciotto bianco. Cavalcava un cavallo arabo, grigio,  di
    razza  purissima,  coperto  da  una gualdrappa cremisi ricamata d'oro.
    Avvicinatosi al sovrano russo, sollevò il cappello, e a quel movimento
    l'occhio esperto di Rostòv non poté non  accorgersi  che  l'imperatore
    francese  non  stava  ben  saldo  in  arcioni.  Mentre  i  battaglioni
    gridavano "Urrà!" e "Vive l'empereur!",  Napoleone disse  qualcosa  ad
    Aleksàndr. I due sovrani smontarono da cavallo e si strinsero la mano.
    Sul  viso  di  Napoleone  era  apparso  un sorriso falso e sgradevole.
    Aleksàndr gli parlava con espressione affabile.
    Rostòv,  senza distogliere gli occhi,  sebbene i  granatieri  francesi
    tenessero  indietro  la folla con i loro cavalli scalpitanti,  seguiva
    attentamente ogni gesto  dell'imperatore  russo  e  di  Bonaparte.  Fu
    colpito,  come da un avvenimento assolutamente inatteso, dal fatto che
    lo zar trattasse Bonaparte come un suo pari,  mentre questi parlava da
    uguale  al  sovrano di Russia,  con perfetta disinvoltura,  come se il
    trovarsi  a  contatto  con  l'imperatore  fosse  per  lui   una   cosa
    naturalissima.
    Aleksàndr  e  Napoleone,  con  la  lunga  fila  dei  loro séguiti,  si
    avviarono verso  il  fianco  destro  del  battaglione  Preobrazenskij,
    proprio incontro alla folla che era ammassata in quel punto. Questa si
    trovò inaspettatamente così vicina ai due imperatori che Ròstov, ritto
    in   una   delle   primissime  file,   cominciò  a  temere  di  essere
    riconosciuto.
    - "Sire je vous demande la permission de donner la Légion d'honneur au
    plus brave de vos  soldats"  [58.  Sire,  vi  chiedo  il  permesso  di
    decorare  della  Legion d'onore il più valoroso dei vostri soldati]  -
    disse una voce secca e precisa che accentuava ogni sillaba.
    Era il piccolo Napoleone che parlava, guardando fissamente negli occhi
    il nostro imperatore. Questi, che aveva ascoltato attentamente,  chinò
    il capo in segno di assenso e sorrise.
    -  "A  celui qui s'est le plus vaillamment conduit dans cette dernière
    guerre" [59.  A quello  che  si  è  comportato  più  valorosamente  in
    quest'ultima guerra]  -  aggiunse Napoleone,  scandendo le sillabe,  e
    guardando con una tranquillità e una sicurezza che indignavano Rostòv,
    le file dei soldati russi, irrigiditi davanti a lui sull'attenti,  con
    gli occhi fissi al volto del loro imperatore.
    -  "Votre  Majesté me permettra-t-elle de demander l'avis du colonel?"
    [60.   Vostra  maestà  mi  permetterà  di  chiedere   l'opinione   del
    colonnello?]    -    disse  Aleksàndr  e  fece  qualche passo verso il
    principe Kozlovskij, comandante del battaglione.
    Intanto Bonaparte cominciò a sfilarsi il guanto dalla mano  piccola  e
    bianca e poiché si era lacerato lo buttò a terra.  L'aiutante di campo
    che stava alle sue spalle si precipitò a raccoglierlo.
    - A chi darla?  -  disse in russo e sottovoce l'imperatore al principe
    Kozlovskij.
    - A chi vostra maestà comanda.
    L'imperatore,  scontento,  corrugò  le  sopracciglia  e,   guardandosi
    attorno, disse:
    - Bisogna pure rispondergli...
    Kozlovskij con aria decisa fissò le schiere,  e il suo sguardo si posò
    anche su Rostòv.
    "E se facesse il mio nome?", pensò il giovane.
    - Làzarev!  -  chiamò il colonnello,  assumendo un'espressione severa,
    e il primo soldato della fila, Làzarev, si fece avanti.
    -  Dove  vai?  Fermati!    -   sussurrarono alcune voci alle spalle di
    Làzarev, il quale non sapeva dove andare. Làzarev si fermò, rivolgendo
    uno sguardo rapido e spaventato al colonnello,  e il suo viso ebbe  un
    tremito, come sempre accade ai soldati chiamati a uscire dalle file.
    Napoleone volse appena il capo e fece un movimento con la piccola mano
    grassoccia,  come  se  volesse  prendere qualche cosa.  Le persone del
    séguito,   indovinando  subito  il  significato  di  quel  gesto,   si
    agitarono,  parlottarono  tra di loro,  passandosi un oggetto dall'uno
    all'altro,  e un paggio,  quello stesso che Rostòv aveva visto in casa
    di   Borìs,   si   avvicinò   all'imperatore  francese  e,   chinatosi
    rispettosamente sulla mano protesa,  senza farla aspettare nemmeno  un
    momento,  vi depose la decorazione dal nastro rosso.  Napoleone, senza
    volgersi a guardare,  la strinse con due dita e si avvicinò a  Làzarev
    che,  sbarrando  gli occhi,  continuava ostinatamente a fissare il suo
    sovrano,  poi si voltò verso l'imperatore Aleksàndr  per  dimostrargli
    che  l'atto  che stava ora per compiere era un omaggio al suo alleato.
    La piccola mano bianca che teneva  la  decorazione  si  stese  sino  a
    toccare un bottone della giubba di Làzarev;  Napoleone sembrava sapere
    che per rendere felice per sempre quel soldato premiato e distinto  da
    tutti  gli  altri  nel  mondo,  bastava  soltanto  che la mano di lui,
    Napoleone, gli toccasse il petto.  E Napoleone si limitò ad appoggiare
    la  decorazione  sul  petto  e,  ritirata  subito  la mano si volse ad
    Aleksàndr come  se  fosse  certo  che  quella  croce  sarebbe  rimasta
    attaccata alla divisa di Làzarev. E difatti vi rimase attaccata.
    Servizievoli  mani,  russe  e francesi,  afferrarono subito la croce e
    l'appuntarono sulla giubba di Làzarev.  Questi  guardò  accigliato  il
    piccolo uomo dalle mani bianche che aveva fatto qualcosa sul suo petto
    e  continuando  a  restare  sull'attenti,  riprese  a  guardare il suo
    imperatore come per domandargli se dovesse  rimanere  ancora  a  lungo
    così  o  se  dovesse allontanarsi o forse fare qualche altra cosa.  Ma
    nessuno gli diede ordini, ed egli rimase piuttosto a lungo immobile in
    quella posizione.
    I due imperatori montarono a cavallo e se ne andarono.  I  soldati  di
    Preobrazenskij,  rompendo  le  file,  si  mescolarono con quelli della
    Guardia francese e presero posto alle tavole preparate per loro.
    Làzarev fu fatto sedere al posto d'onore;  ufficiali russi e  francesi
    si  congratularono con lui,  lo abbracciarono e gli strinsero la mano.
    Una folla di ufficiali e di gente si avvicinava soltanto per  vederlo.
    Il  ronzio  delle  voci  russe  e francesi e il rumore delle risate si
    diffondevano per la piazza e per le tavole.  Due ufficiali con il viso
    arrossato, allegri e loquaci, passarono accanto a Rostòv.
    -  Che  po' po' di banchetto,  eh,  fratello?  Tutto servito su piatti
    d'argento  -  disse uno.  -  Hai visto Làzarev?
    - Sì l'ho visto.
    - Sì dice  che  domani  i  soldati  di  Preobrazenskij  offriranno  un
    banchetto agli altri.
    - Che fortunato, però quel Làzarev! Milleduecento franchi di pensione,
    finché vive!
    - Questo sì che è un copricapo, ragazzi!  -  gridava un soldato russo,
    cacciandosi in testa il berrettone di pelliccia di un francese.
    - Una meraviglia!
    -  Hai  sentito  la  parola d'ordine?   -  chiedeva un ufficiale della
    Guardia a un  altro.    -    L'altro  giorno  era  "Napoléon,  France,
    bravoure" [61. "Napoleone, Francia, ardire"]; ieri "Aleksàndr, Russie,
    grandeur" [62.  "Aleksàndr,  Russia,  grandezza"]; un giorno la parola
    d'ordine  è  data  dal  nostro  imperatore,   il  giorno  seguente  da
    Napoleone.  Domani  l'imperatore  manderà  la  croce di San Giorgio al
    soldato  più  valoroso  della   Guardia   francese.   Non   può   fare
    diversamente! Deve ricambiare nello stesso modo.
    Anche  Borìs e il suo camerata Gilinski vennero a vedere il banchetto.
    Tornando indietro,  Borìs scorse Rostòv,  fermo presso l'angolo di una
    casa.
    -  Rostòv,  salve!  Non  ci siamo neanche visti  -  disse,  e non poté
    trattenersi dal domandargli che cosa gli fosse  accaduto,  notando  il
    viso di lui stranamente triste e sconvolto.
    - Niente... niente  -  rispose Rostòv.
    - Verrai ancora da me?
    - Sì, verrò.
    Rostòv  rimase  a  lungo  fermo  a quell'angolo guardando di lontano i
    soldati riuniti a banchetto.  Nella sua mente si andava  svolgendo  un
    lavorio  tormentoso  che  egli  non riusciva in alcun modo a definire.
    Dubbi  terribili  gli  tumultuavano  nel  cervello.  Ora  ripensava  a
    Denissov  con  la  sua espressione mutata e la sua rassegnazione,  ora
    rivedeva l'ospedale con quei moncherini di braccia  e  di  gambe,  con
    tutto  il  suo  sudiciume  e  le  sue  malattie.  Quelle  immagini gli
    apparivano così vive che gli sembrava di sentire il tanfo di  ospedale
    e di cadaveri, e si voltava per vedere donde provenisse; ora ripensava
    a Bonaparte,  con quell'aria soddisfatta di sé,  e con la piccola mano
    bianca, divenuto adesso imperatore, e che l'imperatore Aleksàndr amava
    e rispettava.  A che scopo,  allora,  gambe e braccia amputate,  a che
    scopo,  allora,  tanti uomini uccisi?  Ora ripensava a Làzarev che era
    stato decorato e a Denissov punito e non perdonato.  E sorprendeva  se
    stesso, assalito da pensieri tanto strani che lo spaventavano.
    L'odore  dei  cibi  serviti  ai soldati e l'appetito lo distrassero da
    quelle riflessioni: prima  di  ripartire  bisognava  mangiare  qualche
    cosa.  Si recò a un albergo che aveva intravisto la mattina. Là dentro
    trovò tanta gente e tanti ufficiali venuti come lui in abiti borghesi,
    e a fatica riuscì a farsi servire un pranzo.  Due ufficiali della  sua
    divisione si unirono a lui.  La conversazione, naturalmente, ebbe come
    argomento la pace. Gli ufficiali, colleghi di Rostòv,  come la maggior
    parte  dell'esercito,  erano  malcontenti  della  pace  conclusa  dopo
    Friedland. Erano d'accordo nel dire che,  se avessero resistito ancora
    un po', Napoleone sarebbe stato sconfitto perché ormai il suo esercito
    non aveva più né gallette né munizioni.  Nikolàj mangiava in silenzio,
    e più che altro beveva; consumò,  da solo,  due bottiglie di vino.  Il
    tumulto  di  pensieri  che  si  agitava  nel suo animo non accennava a
    diminuire e continuava a tormentarlo.  Aveva timore di abbandonarsi ai
    propri pensieri,  ma non riusciva a liberarsene.  A un tratto,  udendo
    dire da uno di  quegli  ufficiali  che  faceva  rabbia  guardare  quei
    Francesi,  Rostòv  si  mise  a  gridare  con  una  violenza  del tutto
    ingiustificata e che stupì molto i suoi compagni:
    - Ma come potete giudicare che cosa sarebbe stato  preferibile?  gridò
    con  il  viso  in  fiamme.    -    Come  potete  giudicare  le  azioni
    dell'imperatore?  Che diritto abbiamo di discuterle?  Noi non possiamo
    comprendere né gli atti dell'imperatore, né gli scopi cui egli mira!
    -  Ma io non ho parlato dell'imperatore  -  si giustificò l'ufficiale,
    che non poteva spiegarsi la violenza di Rostòv se non con lo stato  di
    ubriachezza in cui si trovava.
    Ma Rostòv non l'ascoltava.
    -  Noi non siamo funzionari diplomatici;  siamo soldati e niente altro
    -  proseguì.   -  Se ci ordinano di morire,  dobbiamo morire.  E se ci
    puniscono, vuol dire che siamo in colpa; non tocca a noi giudicare. Se
    il   nostro   sovrano  ritiene  opportuno  riconoscere  imperatore  il
    Buonaparte e stringere un'alleanza con lui,  significa  che  è  giusto
    fare così.  Altrimenti, se ci si mettesse a ragionare e a discutere su
    tutto,  non rimarrebbe più nulla di sacro.  Finiremmo con il dire  che
    Dio  non esiste,  che nulla esiste!   -  gridava Nikolàj,  battendo il
    pugno sulla tavola,  molto a sproposito secondo i suoi  interlocutori,
    ma molto logicamente secondo il corso dei suoi pensieri.
    - Noi dobbiamo preoccuparci soltanto di compiere il nostro dovere,  di
    farci fare a pezzi,  se occorre,  e di non pensare;  ecco  tutto!    -
    concluse.
    -  E bere  -  disse uno degli ufficiali che non aveva alcuna voglia di
    discutere.
    - Sì, e bere!  -  approvò Nikolàj.  -  Ehi, tu! Un'altra bottiglia!  -
    gridò al cameriere.











    NOTE.

    N.  1.  Adelaide  Filleul,   marchesa  di  Souza-Botelho  (1761-1836),
    scrittrice  francese  di romanzi che ben rispecchiano la "moralità" da
    salotto dell'epoca.  Durante la rivoluzione  francese  visse  esule  a
    Londra.  In realtà,  però, il romanzo "Amélie de Mansfeld", pubblicato
    nel 1803,  non era opera di madame de Souza,  ma di madame  Cottin,  e
    cioè Marie Sophie Risteau (1770-1807): sposatasi giovanissima,  rimase
    vedova nel 1793; divenne famosa con il cognome del marito, Cottin.
    N.  2.  La massoneria,  abbreviatura di frammassoneria  (dal  francese
    "franc-macon",  libero muratore) è un'associazione,  in parte segreta,
    di persone che professano principi di fratellanza,  si riconoscono tra
    di  loro con segni ed emblemi e si dividono in gruppi,  detti Logge od
    Officine.  La massoneria sembra essere apparsa nella seconda metà  del
    diciassettesimo  secolo in Gran Bretagna dove corporazioni di muratori
    e tagliapietre,  per difficoltà di reclutamento dovute  all'evoluzione
    dei  metodi  di costruzione,  presero l'abitudine di accettare (da cui
    l'espressione di muratori liberi) membri estranei alla professione. Si
    diffuse  già  nella  prima  metà  del  diciottesimo  secolo  in  tutta
    l'Europa,  negli Stati Uniti d'America, in Asia e in Africa, in questi
    tre ultimi continenti seguita dalla colonizzazione inglese e olandese.
    Mentre negli Stati Uniti conservò un carattere religioso apolitico, ma
    non alieno da simpatie democratiche e rispettose delle leggi esistenti
    dello stato, in altri paesi d'Europa trovò, nei fermenti rivoluzionari
    e patriottici,  un terreno che la rese profondamente politica e talora
    sovversiva.  In Francia, dove la prima Loggia regolare risale al 1721,
    l'associazione  diede   un   notevole   contributo   alla   propaganda
    prerivoluzionaria,  se pure secondaria appaia la sua efficacia durante
    la rivoluzione. In Italia, la prima Loggia fu costituita a Firenze nel
    1733;
    seguirono quelle di Napoli,  di  Palermo,  di  Roma,  di  Venezia,  di
    Verona,  della  Savoia  e  della  Sardegna.  Mentre in alcuni stati la
    massoneria fu avversata, in altri fu tollerata malgrado le proibizioni
    papali; in altri,  come nel regno delle Due Sicilie,  sotto Gioacchino
    Murat,  fu persino protetta. Nel periodo risorgimentale, la massoneria
    italiana assunse un carattere spiccatamente politico e di  antagonismo
    verso la Chiesa. Il suo influsso nel risorgimento è indiscutibile: gli
    appartenenti  alla  carboneria e alla Giovane Italia erano quasi tutti
    massoni.  Fu favorevole all'associazione Mazzini,  e massone  fervente
    Garibaldi.   Conclusa   l'unità   d'Italia,   nel  1874  si  addivenne
    all'unificazione delle varie Logge,  mettendo fine alla  rivalità  del
    Grande  Oriente  di Torino,  del Grande Oriente di Napoli e del Grande
    Oriente di Palermo;  tutti confluirono nel  Grande  Oriente  d'Italia,
    detto di Palazzo Giustiniani dalla sua sede di Roma. In quell'epoca la
    massoneria mantenne sempre un atteggiamento anticlericale, combattendo
    l'influenza  della  Chiesa in vari campi.  Ma da questa lotta sorse in
    seno alla massoneria stessa un grave conflitto,  e un gruppo si staccò
    dal Grande Oriente di Palazzo Giustiniani e abbandonò la pregiudiziale
    anticlericale;  lo scisma non fu mai composto. Quando il fascismo salì
    al potere,  fece proibire l'adesione dei fascisti  alla  massoneria  e
    promosse  una  campagna  di  devastazione delle sedi e di persecuzione
    contro i  massoni  più  in  vista.  Vari  gruppi  si  sciolsero  e  si
    ricostituirono dopo lo sbarco delle truppe alleate. Tuttavia avvennero
    in quel momento e perdurano ancora varie scissioni, per cui si contano
    sino a dieci Logge autonome.  Ma da allora, anche perché i due partiti
    principali, la democrazia cristiana e il comunismo, sono per principio
    avversi alla  massoneria,  l'associazione  non  è  più  penetrata  nel
    tessuto politico e sociale del paese.
    N.  3. Il personaggio di O. A. Bazdeev sembra identificabile con O. A.
    Pozdeev (morto nel 1811),  il cui  nome  ricorreva  senza  alterazioni
    nelle prime stesure del romanzo tolstojano.
    N.  4.  Seguaci di una setta massonica francese,  dal nome di Martinez
    Pasqualis (1727-1779).  Il martinismo professa una sorta di  panteismo
    mistico,  ammette  un  processo di emanazione tra Dio e la realtà e la
    preesistenza di spiriti alla materia;  quanto all'antropologia,  anche
    l'uomo  primitivo  era un puro spirito che,  per un atto di superbia e
    per suggestione diabolica,  peccò e assunse una  condizione  corporea.
    Per ritornare a Dio, gli uomini devono comunicare, attraverso pratiche
    teurgiche,  con  gli  spiriti  superiori.  Il  martinismo  ebbe grande
    diffusione  in  Russia,  Francia  e  Germania  alla  fine  del  secolo
    diciottesimo  e  al principio del diciannovesimo secolo soprattutto ad
    opera di Louis-Claude de Saint-Martin (1743-1803);  sopravvive tuttora
    in  Francia.  I seguaci sono detti martinisti o martinezisti o ancora,
    grandi professori,  illuminati;  il martinismo in Germania assunse  il
    nome di Scuola del nord.
    N.  5.  Nikolàj Ivànovic' Nòvikov (1744-1818), pubblicista e scrittore
    russo, fu tra le figure più rappresentative della vita culturale russa
    durante il regno di Caterina Seconda.  Esordì  a  Pietroburgo  con  la
    pubblicazione  di alcune riviste satiriche,  in cui trovarono posto le
    più spinose questioni sociali. Divenuto massone,  si trasferì a Mosca,
    dove creò la prima biblioteca russa e iniziò la pubblicazione di opere
    filosofiche,  pedagogiche  ed  economiche.  Accusato di complotto,  fu
    condannato a morte,  ma la condanna fu commutata in quindici  anni  di
    prigione.   Graziato   da  Paolo  Primo,   rinunziò  a  ogni  attività
    letteraria.  Notevole è il contributo dato  da  Nòvikov  al  risveglio
    culturale e allo sviluppo del pensiero progressista russo.
    N.  6. "L'imitazione di Cristo", attribuita a Tommaso da Kempis (1379-
    1471), cronista e vicepriore dei canonici regolari della congregazione
    di Windesheim.  In  gioventù  si  specializzò  come  amanuense,  e  ci
    rimangono alcuni codici scritti di sua mano.
    N. 7. "Così passa la gloria del mondo".
    N.  9.  Jean-Paul  Marat  (1743-1793),  demagogo  francese,  medico  e
    pubblicista.  Fu pugnalato nel bagno da Charlotte Corday.  Si dimostrò
    uno  dei più violenti rivoluzionari e fu l'istigatore dei massacri del
    settembre 1792 e delle risoluzioni più sanguinarie durante il  governo
    del Terrore.
    N.  12.  Per  l'esattezza,  la battuta di Molière nella farsa "Georges
    Dandin", atto 1, scena 9, è: "l'avete voluto voi, Georges Dandin".
    N. 24. Confronta Libro 1, parte 3, nota 45.
    N.  28.  Levin  Leontevic'  Bennigsen  (1745-1826),   generale  russo,
    originario dell'Hannover.  Al servizio della Russia dal 1773, combatté
    contro la Turchia, la Polonia e la Francia. Avversario dello zar Paolo
    Primo come uno dei più fedeli seguaci di Caterina  Seconda,  partecipò
    alla  congiura  ordita  dal  conte  Pahlen  contro  il sovrano (1801).
    Allontanato dalla Corte e poi richiamato  da  Alessandro  Primo,  ebbe
    vari  importanti  comandi  militari,  e sostenne tenacemente l'attacco
    napoleonico nella battaglia di Eylau (1807).  Vinto  Murat  a  Voronov
    (1812), si distinse a Lipsia (1813).
    N. 29. Bagratiòn.
    N.  30.  Aleksàndr Prozorovskij (1732-1809), principe, generale russo,
    comandante in capo dell'esercito russo nella guerra  contro  i  Turchi
    nel 1808.
    N. 33. Corrispondeva all'incirca al Credito fondiario.
    N.  36. Johann Gottfried Herder (1744-1803), poeta, critico e filologo
    tedesco, uno degli iniziatori del movimento dello Sturm und Drang.  Fu
    autore, tra l'altro, di una "Filosofia della storia dell'umanità".
    N. 45. Così sono chiamati in Russia i poveri di spirito, che il popolo
    riteneva  particolarmente  cari a Dio e per i quali nutriva rispetto e
    venerazione.
    N. 47. Matvéj Ivànovic' Platov (1751-1818), atamanno dei cosacchi, con
    il  suo  corpo  di   uomini   agiva   indipendentemente   dal   grosso
    dell'esercito; inseguì senza requie l'esercito francese durante la sua
    marcia verso Mosca e soprattutto,  nel corso della ritirata.  Le gesta
    dei suoi cosacchi sono  rimaste  leggendarie:  dopo  la  battaglia  di
    Lipsia penetrò coi suoi cosacchi in Parigi.
    N.   48.   Nicholas  Charles  Oudinot  (1767-1847),  duca  di  Reggio,
    maresciallo di Francia.  Arruolatosi come soldato semplice  nel  1784,
    già tenente colonnello dei volontari della Mosa nel 1792,  si distinse
    durante le campagne della rivoluzione.  Alla testa di una divisione di
    granatieri,  si  segnalò ad Austerlitz (1805),  a Friedland (1807) e a
    Wagram ( 1809), dove si guadagnò il bastone di maresciallo e il titolo
    ducale.  Comandante del secondo corpo  in  Russia,  si  distinse  alla
    Beresinà (1812) e nelle campagne di Francia.  Durante la Restaurazione
    ebbe il comando della  Guardia  nazionale  e  divenne  governatore  di
    Madrid.
    N.  49. Gioco che consisteva nel lanciare chiodi o bastoncini di legno
    dentro grossi anelli disposti in terra.
    N. 50. Staffile dei cosacchi.