Lev N. Tolstòj.
    GUERRA e PACE.


    LIBRO TERZO.

    PARTE SECONDA.


    CAPITOLO 1.

    Napoleone cominciò la guerra contro la Russia perché non poteva fare a
    meno di recarsi a Dresda,  non poteva non  inebriarsi  di  onori,  non
    poteva  non  indossare  l'uniforme polacca non poteva non abbandonarsi
    all'incanto di una mattina di giugno  e  perché  non  era  riuscito  a
    frenare  uno  scoppio  di  collera in presenza di Kurakin,  prima,  di
    Balascëv poi.
    Aleksàndr rifiutò qualsiasi trattativa perché si sentiva personalmente
    offeso.  Barclay de Tolly cercò di  dirigere  l'esercito  come  meglio
    sapeva,  per  fare  il  suo  dovere  e  conquistarsi la gloria di gran
    capitano.  Rostòv si buttò in un attacco al galoppo contro i  Francesi
    perché non poté frenare il desiderio di lanciarsi all'assalto in campo
    aperto.  E  così agirono gli innumerevoli personaggi che parteciparono
    alla guerra,  seguendo ciascuno le proprie inclinazioni personali,  le
    proprie  abitudini,  a  seconda  delle  condizioni  e  degli scopi che
    intendevano  raggiungere.  Tutti  avevano  paura,  si  vantavano,   si
    rallegravano, si indignavano, persuasi di sapere quello che facevano e
    di  farlo  per  se stessi,  mentre non erano che strumenti involontari
    della storia che si accingevano a compiere,  un'opera  a  loro  stessi
    sconosciuta,  ma  a  noi comprensibile.  Tale è la sorte immutabile di
    tutti coloro che agiscono,  i quali tanto meno sono liberi quanto  più
    sono posti in alto nella gerarchia umana.
    Oggi  gli  uomini  d'azione  del  1812 hanno lasciato da molto tempo i
    posti che occupavano,  i loro interessi personali sono scomparsi senza
    che  ne  sia  rimasta  traccia,  e  davanti  a  noi restano soltanto i
    risultati storici di quel tempo.
    La Provvidenza costrinse tutti quegli uomini che  aspiravano  a  scopi
    personali,  a  contribuire  alla realizzazione di un unico formidabile
    risultato di cui nessuno (né Napoleone né Aleksàndr e tanto  meno  uno
    qualsiasi dei partecipanti alla guerra) aveva la benché minima idea.
    Oggi  a  noi  appare  chiaro  ciò  che  produsse  nel  1812  la rovina
    dell'esercito francese.  Nessuno  vorrà  negare  che  la  causa  della
    disfatta  delle  truppe  di  Napoleone  sia stata,  da un lato la loro
    avanzata  troppo  tardiva  e  senza  preparazione  per  una   campagna
    invernale  nel cuore della Russia,  e dall'altro lato il carattere che
    assunse la guerra  per  effetto  dell'incendio  delle  città  russe  e
    dell'odio  contro il nemico che ribolliva nel popolo russo.  Ma allora
    non soltanto nessuno previde (cosa che oggi appare evidente) che  solo
    in  tal  modo  potesse perire un esercito di ottocentomila uomini,  il
    miglior esercito del mondo, guidato dal miglior condottiero del mondo,
    in contrasto con le truppe  russe,  assai  più  deboli,  incompetenti,
    dirette  da  capitani  privi  di esperienza;  "non soltanto nessuno lo
    previde",  ma tutti gli sforzi da  parte  russa  furono  continuamente
    rivolti  a impedire l'unica cosa che poteva salvare la Russia,  mentre
    dalla parte dei Francesi,  nonostante l'esperienza e ciò che si  suole
    definire il genio di Napoleone, tutti gli sforzi miravano a giungere a
    Mosca  alla  fine  dell'estate,  ossia  a  effettuare  ciò  che doveva
    precisamente causare la loro rovina.
    Nelle opere storiche che riguardano l'anno 1812,  gli autori  francesi
    amano dire che Napoleone sentiva il pericolo dello schieramento troppo
    lungo  del  suo  esercito,  che  cercava  la  battaglia,  che  i  suoi
    marescialli gli consigliavano di fermarsi a Smolènsk e adducono  altre
    deduzioni  del  genere  per  dimostrare che sin da allora si prevedeva
    tutto il pericolo di quella campagna;  dal canto loro gli autori russi
    insistono  anche  di  più  nell'affermare  che  sin  dall'inizio della
    campagna  esisteva  un  piano  di  guerra   scitico   che   consisteva
    nell'attirare Napoleone nel cuore della Russia, e attribuiscono questo
    piano,  alcuni a Pfuhl,  altri a Toll e altri,  infine, all'imperatore
    Aleksàndr stesso,  citando le note,  i progetti e le  lettere  in  cui
    realmente  si trovano allusioni a un tal modo di condurre la campagna.
    Ma tutte queste allusioni che prevedevano  ciò  che  avvenne,  sia  da
    parte  dei  Francesi  sia  da  parte dei Russi,  vengono ora enunziate
    soltanto perché i fatti le hanno giustificate.  Se gli avvenimenti  si
    fossero svolti in altro modo,  queste allusioni sarebbero dimenticate,
    come sono dimenticate,  oggidì,  le migliaia,  i  milioni  di  ipotesi
    contraddittorie  che allora erano in voga ma che risultarono sbagliate
    e  che  pertanto  caddero  nel  dimenticatoio.  Circa  l'esito  di  un
    avvenimento  in  corso  si fanno sempre tante e tali supposizioni che,
    qualunque possa essere la conclusione,  di tali avvenimenti si troverà
    sempre  qualcuno  che  dirà:  "Io  allora  avevo  predetto che le cose
    sarebbero andate così",  dimenticando  completamente  che  nel  numero
    delle   infinite   ipotesi,   ne   erano   state  fatte  anche  alcune
    assolutamente opposte.
    L'ipotesi  che  Napoleone  avesse  notizia  del  pericolo  che  poteva
    comportare  l'allungamento  eccessivo  della  linea,  e  che  i  Russi
    volessero attirare il nemico nel cuore del loro paese,  appartiene,  è
    chiaro, a questa categoria e gli storici, soltanto con grandi riserve,
    possono   attribuire   tali  considerazioni  a  Napoleone  e  ai  suoi
    marescialli e tali piani strategici ai comandanti russi. Tutti i fatti
    contraddicono  categoricamente  ipotesi  di  tal  genere.  Durante  la
    guerra,  non  solo  non  ci  fu  da parte dei Russi alcun tentativo di
    attirare i Francesi nell'interno del paese,  ma essi fecero  di  tutto
    per impedire loro di inoltrarsi;  e Napoleone, non soltanto non temeva
    di allungare troppo la sua  linea,  ma  si  rallegrava,  come  di  una
    vittoria,  di  ogni passo in avanti e,  contrariamente a ciò che aveva
    fatto  nelle  precedenti  campagne,   era   pigro   nel   cercare   il
    combattimento.
    Proprio all'inizio della campagna,  i nostri eserciti sono tagliati in
    due, e il solo risultato a cui i Russi aspirano consiste nel riunirli,
    sebbene per ritirarsi e attirare  il  nemico  all'interno  del  paese,
    questa  congiunzione non offra alcun vantaggio.  L'imperatore si trova
    presso l'esercito per animarlo e per difendere ogni pollice  di  terra
    russa dal nemico e non già per indietreggiare. Si costituisce l'enorme
    campo  di  Drissa,  secondo  i  piani  di  Pfuhl  e  non si prevede di
    arretrare  oltre.  L'imperatore,  per  ogni  passo  indietro,  rivolge
    rimproveri  ai  comandanti in capo.  Non solo l'incendio di Mosca,  ma
    anche il lasciar giungere il nemico sino a Smolènsk appare impensabile
    all'imperatore; e, quando i due eserciti infine si riuniscono, egli si
    irrita perché Smolènsk è stata abbandonata e arsa, e non si è data una
    battaglia campale sotto le sue mura.
    Così pensa il sovrano,  ma i condottieri militari e tutti i  Russi  si
    sdegnano  ancora  di  più al pensiero che i nostri indietreggino verso
    l'interno del paese.
    Napoleone, dopo aver tagliato in due il nostro esercito,  avanza verso
    il  cuore  della  Russia  e  si  lascia  sfuggire  alcune occasioni di
    attaccare battaglia.  Nel mese di agosto egli è  a  Smolènsk  e  pensa
    soltanto ad avanzare benché, come ora vediamo, tale avanzata è per lui
    una evidente rovina.
    I  fatti  dimostrano  con  chiarezza  che  né  Napoleone  prevedeva il
    pericolo dell'avanzata su Mosca,  né Aleksàndr e i capi militari russi
    pensavano  di  attirarlo verso quella città.  Tutt'altro!  Il fatto di
    attirare Napoleone nella profondità del paese non derivò da  un  piano
    qualsiasi (nessuno credeva a una tale possibilità), ma fu il risultato
    di un intricatissimo complesso di intrighi,  di ambizioni, di desideri
    da  parte  di  coloro  che  partecipavano  alla  guerra  e   che   non
    indovinavano quanto doveva accadere e quella che doveva essere l'unica
    salvezza  della Russia.  Tutto avviene per caso: l'esercito è tagliato
    in due all'inizio  della  campagna.  Noi  cerchiamo  di  riunirlo  con
    l'evidente  intenzione  di dar battaglia e di trattenere il nemico che
    avanza, ma in quello sforzo per congiungerci,  evitando lo scontro con
    un  nemico  più forte e ritirandoci involontariamente ad angolo acuto,
    attiriamo i Francesi sino a Smolènsk.  Ma non basta: ci  ritiriamo  ad
    angolo acuto perché,  avanzando i Francesi tra i due eserciti,  questo
    angolo diventa sempre più acuto e noi ci allontaniamo  sempre  di  più
    perché  Barclay  de Tolly è un tedesco impopolare,  odioso a Bagratiòn
    che deve stare sotto il suo comando,  e Bagratiòn,  che è  capo  della
    seconda armata,  cerca di tardare quanto più può il congiungimento con
    Barclay.
    Bagratiòn ritarda per molto tempo  tale  congiungimento  (sebbene  sia
    questo lo scopo più importante di tutti i capi militari russi), perché
    gli  pare  che,  compiendo quella marcia,  possa mettere in pericolo i
    suoi uomini e che sia meglio per lui ritirarsi più a sinistra e più  a
    sud,  molestando  il  nemico  di  fianco e alle spalle e completando i
    propri effettivi in Ucraina.  Eppure pare che egli abbia ideato  tutto
    questo  proprio  perché  non  vuol  sottomettersi  all'odiato  e a lui
    inferiore in grado Barclay.
    L'imperatore si trova  presso  l'esercito  per  animarlo  con  la  sua
    presenza,  ma  la  sua  presenza,  la  sua incertezza nel prendere una
    decisione,  il numero incalcolabile  di  consiglieri  e  di  piani  di
    guerra,  distruggono l'energia d'azione della prima armata, e l'armata
    indietreggia.
    Si suppone  di  fermarsi  nel  campo  di  Drissa,  ma  improvvisamente
    Paolucci,  che  mira  al  comando  supremo,  influenza  con la propria
    energia l'animo del sovrano,  e il piano di Pfuhl viene abbandonato  e
    tutto  è affidato alle mani di Barclay.  Ma siccome Barclay non ispira
    fiducia, la sua autorità è piuttosto limitata.
    Le armate sono divise,  non  c'è  unità  di  comando.  Barclay  non  è
    popolare: ma da questa confusione,  dallo spezzettamento dell'esercito
    e dalla impopolarità del tedesco comandante in  capo  derivano  da  un
    lato  l'indecisione,  il  timore di dare battaglia (che non si sarebbe
    potuta evitare se gli eserciti fossero stati uniti e se il  loro  capo
    non fosse stato Barclay) e,  dall'altro lato, l'indignazione crescente
    contro i Tedeschi e l'esasperazione dello spirito patriottico.
    Finalmente l'imperatore lascia l'esercito e,  come unico e  plausibile
    pretesto per la sua partenza,  viene addotta la necessità di accendere
    l'entusiasmo della  popolazione  della  capitale,  per  suscitare  una
    guerra  nazionale.  Questo viaggio dell'imperatore a Mosca triplica la
    forza delle truppe russe.
    L'imperatore lascia l'esercito per non essere d'impaccio  all'attività
    del potere del comandante in capo, e spera che vengano adottate misure
    più  energiche;  ma  la  situazione  del comandante diventa sempre più
    complicata e più  debole.  Bennigsen,  il  granduca  e  lo  sciame  di
    generali aiutanti di campo rimangono presso l'esercito per controllare
    le  mosse  del  generalissimo  ed  eccitare  la sua energia;  Barclay,
    sentendosi ancor meno libero sotto gli sguardi di tutti "quegli  occhi
    dell'imperatore",  diventa più prudente di prima nelle azioni decisive
    ed evita la battaglia.
    Barclay è per la prudenza: il granduca ereditario parla di  tradimento
    ed  esige  che  sia  data  una  battaglia  campale,  Ljubomirskij (1),
    Brannitzkij (2), Vlotzkij e altri gonfiano a tal punto queste voci che
    Barclay, con il pretesto di mandare certe carte all'imperatore,  invia
    a  Pietroburgo  degli  aiutanti  di  campo  polacchi e dichiara guerra
    aperta a Bennigsen e al granduca. A Smolènsk,  finalmente,  per quanto
    Bagratiòn non lo desideri, gli eserciti si riuniscono.
    Bagratiòn  arriva  in  carrozza  alla  casa dove è alloggiato Barclay.
    Barclay si mette la sciarpa, gli esce incontro e, siccome questi gli è
    superiore in grado, gli fa rapporto. Bagratiòn,  in gara di generosità
    e nonostante il grado superiore,  si sottomette agli ordini di Barclay
    ma, dopo essersi sottomesso, resta meno che mai d'accordo con lui. Per
    ordine del sovrano stesso fa  all'imperatore  un  rapporto  personale.
    Scrive  ad  Arakceev:  "Nonostante la volontà dell'imperatore,  io non
    posso stare insieme con  il  ministro  (Barclay).  Per  amor  di  Dio,
    mandatemi in qualsiasi posto, sia pure a comandare un solo reggimento,
    ma  qui  non  posso  restare;  tutto  il  quartier generale è pieno di
    Tedeschi,  cosicché per un russo è impossibile viverci e non  ne  vien
    fuori  nulla di buono.  Io credevo di servire lealmente l'imperatore e
    la patria,  ma,  in fin dei conti,  risulta che sono  al  servizio  di
    Barclay.  Confesso  che  non voglio".  Lo sciame dei Brannitzkij,  dei
    Wintzingerode e  simili  complica  anche  di  più  i  rapporti  tra  i
    comandanti in capo e l'unità diminuisce ancora.  Si prepara un attacco
    ai Francesi davanti a Smolènsk: si manda un generale a ispezionare  la
    posizione.  Il generale,  che odia Barclay, va dal comandante di corpo
    d'armata, suo amico e, dopo aver trascorso tutta la giornata presso di
    lui,  ritorna da Barclay e critica da tutti i punti di vista il  campo
    della futura battaglia, che non ha neppure veduto.
    E  mentre si discute e si intriga a proposito del terreno del prossimo
    combattimento, mentre noi cerchiamo i Francesi e ci sbagliamo circa la
    loro posizione,  i Francesi si  imbattono  per  caso  nella  divisione
    Neverovskij (3) e si avvicinano alle mura di Smolènsk.
    Per salvare le comunicazioni bisogna accettare a Smolènsk la battaglia
    inattesa.  Essa ha luogo.  Dall'una e dall'altra parte cadono migliaia
    di   uomini.    Smolènsk   è   abbandonata   nonostante   la   volontà
    dell'imperatore  e di tutto il popolo,  ma è data alle fiamme dai suoi
    stessi  abitanti,   ingannati  dal  loro  governatore;   i  cittadini,
    rovinati,  indicando  il  loro  esempio agli altri Russi,  si recano a
    Mosca dove, pensando soltanto a quanto hanno perduto, suscitano l'odio
    contro il nemico.
    Napoleone avanza ancora, noi indietreggiamo e si giunge così a ciò che
    produrrà la rovina di Napoleone.


    CAPITOLO 2.

    Il giorno successivo a quello della partenza del figlio,  il  principe
    Nikolàj Andréevic' chiamò presso di sé la principessina Màrija.
    -  Ebbene,  sei  contenta,  ora?    -   le disse.   -  Mi hai messo in
    discordia con mio figlio: sei contenta? Era proprio quello che volevi.
    Sei contenta? Ma io ne soffro, ne soffro. Sono vecchio e debole, ma tu
    l'hai voluto. E adesso rallegrati, rallegrati!
    Dopo di ciò,  la principessina Màrija per una settimana non  vide  suo
    padre. Egli era indisposto e non usciva dalla sua stanza di lavoro.
    Con stupore,  la principessina Màrija notò che,  durante quel periodo,
    il  vecchio  principe  non  ammetteva  alla   sua   presenza   neppure
    "mademoiselle" Bourienne. Soltanto Tichòn si prendeva cura di lui. Una
    settimana  dopo,  il principe ricomparve e riprese la sua solita vita,
    occupandosi con particolare attività delle costruzioni e dei  giardini
    e  troncando  totalmente  i suoi precedenti rapporti con la Bourienne.
    L'aspetto e il tono freddo  verso  la  principessina  Màrija  parevano
    dirle:  "Ecco,  vedi,  hai  inventato  molte  cose sul mio conto,  hai
    raccontato delle menzogne al principe  Andréj  a  proposito  dei  miei
    rapporti  con quella francese e mi hai messo in discordia con lui;  ma
    ora ti accorgi che non ho bisogno né di te né di lei".
    Una metà della giornata la principessina  la  passava  con  Nikòluska,
    seguendo  le  sue  lezioni,  insegnandogli  lei  stessa  il russo e la
    musica,  e discorrendo con Desalles;  l'altra parte della giornata  la
    trascorreva con i libri,  con la vecchia bambinaia,  con le pellegrine
    che talvolta salivano nelle sue stanze dalla scala di servizio.
    Quanto alla guerra, la principessina Màrija pensava ciò che ne pensano
    le donne.  Temeva per il fratello che  era  laggiù,  aveva  un  orrore
    istintivo per la crudeltà umana che spinge gli uomini a uccidersi l'un
    altro,  ma non capiva il significato di questa guerra che a lei pareva
    simile a tutte le guerre precedenti.  Non  ne  capiva  il  significato
    benché  Desalles,  suo  abituale  interlocutore,  che  si  interessava
    appassionatamente degli eventi bellici,  cercasse di spiegarle le  sue
    proprie considerazioni in proposito e nonostante che le pellegrine che
    venivano a visitarla le parlassero con orrore,  ognuna a modo proprio,
    delle dicerie popolari sull'invasione dell'Anticristo e benché  Julie,
    ora  principessa Drubetzkaja,  che aveva ripreso la corrispondenza con
    lei, le scrivesse da Mosca delle lettere patriottiche.
    "Vi scrivo in russo,  mia cara amica,  perché odio tutti i Francesi  e
    anche la loro lingua,  che non posso sentir parlare...",  le scriveva.
    "Noi qui a Mosca siamo tutti entusiasti del nostro adorato imperatore.
    Il mio povero marito sopporta  fatiche  e  fame  nelle  bettole  degli
    Ebrei, ma le notizie che ricevo mi infiammano sempre di più.
    "Avrete  certamente  sentito parlare dell'atto eroico di Raevskij che,
    abbracciando i  suoi  due  figli,  disse:  "Morirò  con  loro  ma  non
    cederemo!".  E  infatti,  sebbene  il  nemico  avesse  forze due volte
    superiori alle nostre, non abbiamo ceduto!  Qui passiamo il tempo come
    si  può,  ma  la  guerra  è  guerra.  Le  principesse  Alina  e Sophie
    trascorrono intere giornate con me e, povere vedove di mariti viventi,
    facciamo lunghe  conversazioni,  mentre  prepariamo  filacce.  Mancate
    soltanto voi, cara amica...", eccetera eccetera.
    La  principessina  Màrija  non comprendeva il significato della guerra
    soprattutto perché il vecchio  principe  non  ne  accennava  mai,  non
    l'ammetteva e durante il pranzo si burlava di Desalles che ne parlava.
    Il  contegno del vecchio era così calmo e sicuro che la principessina,
    senza ragionare, gli credeva.
    Durante  tutto  il  mese   di   luglio,   il   vecchio   principe   fu
    particolarmente  attivo  e  persino  vivace.  Fece impiantare un nuovo
    giardino e costruire un nuovo edificio per i domestici.  La sola  cosa
    che  rendeva  inquieta la principessina Màrija era che adesso il padre
    dormiva poco e, cambiata l'abitudine di passare la notte nello studio,
    ogni sera faceva mutar posto al suo giaciglio. Ora ordinava che il suo
    letto da campo gli fosse preparato nella  galleria,  ora  restava  sul
    divano o sulla poltrona alla Voltaire nel salotto e sonnecchiava senza
    spogliarsi,  mentre  non  più "mademoiselle" Bourienne,  ma il ragazzo
    Petruscia gli faceva la lettura.  Qualche volta il vecchio passava  la
    notte in sala da pranzo.
    Il  primo agosto arrivò la seconda lettera del principe Andréj.  Nella
    prima, ricevuta poco dopo la sua partenza, il principe Andréj chiedeva
    umilmente perdono a suo padre per ciò che si era permesso di dirgli  e
    lo pregava di ridargli la sua benevolenza. A questa lettera il vecchio
    principe  aveva  risposto  con  una lettera affettuosa,  dopo la quale
    aveva allontanato da sé la giovane francese.  La seconda  lettera  del
    principe  Andréj,  scritta dai pressi di Vitebsk,  dopo che i Francesi
    l'avevano occupata,  consisteva in una breve descrizione di  tutta  la
    campagna,  con  un disegno del piano di guerra tracciato sulla lettera
    stessa e in  alcune  considerazioni  sullo  svolgimento  futuro  delle
    operazioni.  In questa lettera il principe faceva presente a suo padre
    l'inopportunità di  rimanere  così  vicini  al  teatro  della  guerra,
    proprio  sulla  linea del movimento delle truppe,  e lo consigliava di
    trasferirsi a Mosca.
    Quel giorno, a pranzo,  quando Desalles annunziò che,  secondo le voci
    che correvano,  i Francesi erano già a Vitebsk, il vecchio principe si
    ricordò della lettera del figlio.
    - Ho ricevuto oggi una lettera di Andréj  -  disse alla  principessina
    Màrija.  -  Non l'hai letta?
    - No,  "mon père"  -  rispose la figlia, spaventata. Non poteva averla
    letta, giacché non sapeva neppure che fosse arrivata.
    - Scrive di questa guerra  -  proseguì il  principe  con  quel  solito
    sorriso  sprezzante  che  gli  era  divenuto  abituale  ogni qualvolta
    parlava della guerra in corso.
    - Dev'essere una lettera molto interessante  -   disse  Desalles.-  Il
    principe è certo in grado di sapere...
    - Ah sì, molto interessante!  -  esclamò "mademoiselle" Bourienne.
    - Andate a prenderla  -  ordinò il vecchio principe alla Bourienne.  -
    E' sul tavolino, sapete, sotto il fermacarte.
    "Mademoiselle" si alzò in fretta.
    - No,  no...   -  gridò il vecchio principe, aggrottando il viso.- Va'
    tu, Michaìl Ivanyc'!
    Michaìl Ivanyc' si alzò e si avviò allo  studio.  Ma,  non  appena  fu
    uscito,  il vecchio principe,  guardandosi attorno inquieto,  gettò il
    tovagliolo e vi andò di persona.
    - Non sanno far niente, metteranno tutto in disordine!
    Mentre egli usciva, la principessina Màrija, Desalles,  "mademoiselle"
    Bourienne  e  persino Nikòluska si guardarono in silenzio.  Il vecchio
    principe  tornò  con  passo  frettoloso,   accompagnato   da   Michaìl
    Ivànovic',  con la lettera e la pianta che,  senza mostrare a nessuno,
    posò accanto a sé durante il pranzo.
    Passati che furono in salotto,  porse la  lettera  alla  principessina
    Màrija  e,  spiegata  dinanzi  a sé la pianta di una nuova costruzione
    sulla quale tenne fisso lo sguardo,  ordinò alla figlia di leggere  ad
    alta voce.  Letta la lettera, la principessina Màrija rivolse al padre
    uno sguardo interrogativo.  Egli osservava il  disegno  del  progetto,
    evidentemente immerso nei suoi pensieri.
    -  Che  cosa  ne  pensate,  principe?    -    si permise di chiedergli
    Desalles.
    - Io? Io?...  -  esclamò il principe, sgradevolmente riscosso dai suoi
    pensieri, senza distogliere gli occhi dal foglio.
    - E' possibilissimo che il teatro  della  guerra  sia  così  vicino  a
    noi...
    - Ah,  ah, ah! Il teatro della guerra!  -  esclamò il vecchio.  Ho già
    detto e ora lo ripeto che il teatro della guerra è la Polonia,  e  che
    il nemico non avanzerà oltre il Niemen.
    Desalles guardò con stupore il vecchio che parlava del Niemen,  mentre
    il nemico si trovava già al Dnieper;  ma la principessina Màrija,  che
    aveva  dimenticato  la  posizione  geografica del Niemen,  credeva che
    fosse vero ciò che il padre diceva.
    - Allo sciogliersi delle nevi affogheranno nelle paludi della Polonia.
    Essi soli possono non vedere    -    proseguì  il  principe,  pensando
    evidentemente  alla  campagna del 1807 che gli pareva avvenuta da così
    poco tempo.  -  Bennigsen avrebbe dovuto entrar prima in Prussia, e la
    cosa avrebbe preso tutt'altra piega...
    - Ma, principe,   -  ribatté timidamente Desalles  -  nella lettera si
    parla di Vitebsk...
    - Ah,  nella lettera? Già...  -  rispose malvolentieri il principe.  -
    Già, già...  -  e il suo viso si fece improvvisamente cupo. Tacque per
    un momento,  poi riprese:  -  Già,  scrive che i Francesi  sono  stati
    battuti... su quale fiume?
    Desalles abbassò gli occhi.
    -  No,  il  principe  non  scrive nulla a questo proposito  -  mormorò
    timidamente.
    - Non scrive nulla? Be', non me lo sarò mica inventato!
    Tutti rimasero a lungo in silenzio.
    - Sì, sì... Dunque, Michaìl Ivanyc',   -  disse a un tratto sollevando
    il  capo e indicando il progetto della costruzione  -  spiegami un po'
    come intendi trasformare...
    Michaìl Ivànovic' si avvicinò alla pianta e  il  principe,  dopo  aver
    discusso  un  po' sul progetto della nuova costruzione e aver lanciato
    un'occhiata irritata alla principessina  Màrija  e  a  Desalles,  andò
    nelle sue stanze.
    La  principessina  aveva  veduto  lo  sguardo  stupito  e  turbato che
    Desalles aveva rivolto al padre e notato il suo silenzio, ed era stata
    colpita dal fatto che  il  padre  aveva  dimenticato  sul  tavolo  del
    salotto  la  lettera  del figliuolo;  ma aveva paura,  non soltanto di
    parlare e di interrogare Desalles sulle cause del suo turbamento e del
    suo silenzio, ma persino di pensarci.
    Verso sera,  Michaìl Ivànovic',  mandato  dal  principe,  venne  dalla
    principessina Màrija a prendere la lettera dimenticata nel salotto. La
    principessina Màrija gliela diede. Sebbene a malincuore, si permise di
    chiedere a Michaìl Ivànovic' che cosa suo padre stesse facendo.
    -  E'  sempre  in  gran  faccende  -  rispose Michaìl Ivànovic' con un
    sorriso  tra  rispettoso   e   ironico   che   fece   impallidire   la
    principessina.    -    E'  molto  preoccupato  a  proposito  del nuovo
    fabbricato.  Ha letto un po' e ora  -  aggiunse abbassando la  voce  S
    seduto al suo scrittoio e credo si stia occupando del suo testamento.
    Da   qualche  tempo  una  delle  occupazioni  preferite  del  principe
    consisteva nell'esaminare le carte che dovevano rimanere dopo  la  sua
    morte e che egli definiva il suo testamento.
    - E si manda Alpatyc' a Smolènsk?  -  chiese la principessina.
    - Come no? Da un pezzo sta aspettando.


    CAPITOLO 3.

    Quando  Michaìl  Ivànovic'  tornò  nello  studio  con  la lettera,  il
    principe con gli occhiali a visiera e con  un  paralume  davanti  alle
    candele,  stava  seduto allo scrittoio dalla ribalta aperta tenendo in
    mano,  a molta distanza,  certe carte e,  in  atteggiamento  piuttosto
    solenne,  leggeva  le  sue  osservazioni,  come egli le definiva,  che
    dovevano essere consegnate all'imperatore dopo la sua morte.
    Allorché Michaìl Ivànovic' entrò, il principe aveva gli occhi pieni di
    lacrime provocate dal ricordo del tempo in cui aveva scritto  ciò  che
    ora stava leggendo.  Prese dalle mani di Michaìl Ivànovic' la lettera,
    la mise in tasca,  ripose le carte e chiamò Alpatyc' che da  un  pezzo
    aspettava.
    Sopra  un  foglietto di carta il principe aveva annotato tutto ciò che
    bisognava comperare a Smolènsk e,  camminando per la stanza davanti ad
    Alpatyc', in attesa presso l'uscio, cominciò a dargli questi ordini:
    - Per prima cosa,  la carta da lettere,  ascolta bene,  otto quinterni
    con il taglio dorato...  eccoti il modello: deve essere  perfettamente
    uguale;  poi  la  ceralacca e la vernice,  secondo la lista di Michaìl
    Ivanyc'.
    Il vecchio fece qualche passo per la stanza e diede un'occhiata al suo
    taccuino.
    - Poi,  consegnare personalmente al governatore la lettera a proposito
    della registrazione ipotecaria.
    Occorreva  inoltre  comperare  dei  catenacci  per  le porte del nuovo
    edificio,  fatti esattamente secondo un modello inventato dal principe
    e infine ordinare uno scrignetto robusto per riporvi il testamento.
    La consegna degli ordini ad Alpatyc' durò più di due ore.  Il principe
    non si decideva mai a lasciarlo andare. Poi si mise a sedere, rifletté
    un momento, chiuse gli occhi e si assopì. Alpatyc' si mosse.
    - Ebbene, va' pure. Se occorrerà qualcos'altro, ti manderò a chiamare.
    Alpatyc' uscì. Il principe tornò allo scrittoio, vi diede un'occhiata,
    toccò le sue carte,  richiuse di nuovo la ribalta e si mise al  tavolo
    per scrivere la lettera al governatore.
    Quando si alzò,  dopo averla suggellata, era già tardi. Avrebbe voluto
    coricarsi, ma sapeva che non sarebbe riuscito a prender sonno perché i
    pensieri più tristi gli venivano quando era a letto.  Chiamò Tichòn  e
    girò  con lui per le stanze per decidere dove si doveva sistemargli il
    letto per quella notte. Camminava misurando ogni angolo.
    Nessun luogo lo soddisfaceva, ma specialmente il consueto divano dello
    studio gli pareva terribile,  probabilmente per i pensieri penosi  che
    lo avevano fatto soffrire mentre vi stava coricato sopra. Nessun posto
    andava  bene;  il  migliore di tutti gli parve tuttavia l'angolo nella
    sala dei divani,  dietro  al  pianoforte:  lì  non  aveva  ancora  mai
    dormito.
    Tichòn,  aiutato  da  un  cameriere,  portò  il  letto  e  si  mise  a
    prepararlo.
    - Non così, non così  -  gridò il principe,  e lui stesso lo scostò di
    un palmo dall'angolo per avvicinarlo poi di nuovo alla parete.  "Ecco,
    finalmente ho sistemato tutto  e  adesso  potrò  riposare",  pensò  il
    principe e si fece spogliare da Tichòn.
    Aggrottando  stizzosamente  le  sopracciglia  per  lo  sforzo  che gli
    toccava fare per togliersi il caffettano e i pantaloni, il principe si
    svestì,  si abbandonò pesantemente sul letto e parve riflettere mentre
    si  guardava  con  disprezzo  le  gambe  scarne  e giallastre.  Ma non
    rifletteva;  indugiava  al  pensiero  della  fatica  che  gli  costava
    sollevare quelle gambe e stenderle sul letto.  "Oh, che fatica! Oh, se
    almeno tutte queste fatiche finissero presto e  se  voi  mi  lasciaste
    andare  per  sempre!",  pensava.  Stringendo  le  labbra  fece  per la
    ventimillesima volta quello sforzo e  si  sdraiò.  Ma  non  appena  fu
    coricato,  sentì tremare sotto di sé il letto, avanti e indietro, come
    se respirasse e fosse scosso da brividi.  Questo  gli  accadeva  quasi
    ogni notte. Aprì gli occhi che gli si erano già chiusi.
    - Non mi danno pace, maledetti!  -  borbottò, adirato contro qualcuno.
    "Sì",  soggiunse  tra sé,  "c'era ancora qualcosa di importante...  di
    molto importante che avevo in serbo per questa  notte,  a  letto...  I
    catenacci?  No,  no, ne ho parlato. No, si tratta di qualcos'altro, di
    qualcosa che era nel salotto.  La principessina Màrija diceva  non  so
    quali  sciocchezze.  E anche Desalles,  quell'imbecille,  parlava.  Si
    tratta di qualche cosa che avevo in tasca... Non riesco a ricordare!".
    - Tiska! Di che cosa abbiamo parlato a tavola?
    - Del principe Michaìl...
    - Taci,  taci!   -  esclamò il vecchio principe,  battendo la mano sul
    tavolo.    -    Sì,  ora  lo  so,  la lettera del principe Andréj.  La
    principessina  Màrija  l'ha  letta.   Desalles  ha  detto  qualcosa  a
    proposito di Vitebsk. Ora la leggerò...
    Ordinò  a Tichòn di prendere la lettera nella tasca e di avvicinare al
    letto il tavolino su cui erano la limonata e la candela di  cera,  poi
    si mise gli occhiali e cominciò a leggere.  Ora soltanto, nel silenzio
    della notte,  alla debole luce che filtrava di sotto il paralume verde
    dell'unica  candela,  egli,  dopo aver letto la lettera,  per la prima
    volta ne comprese in un attimo il significato.
    "I Francesi sono a Vitebsk;  con  quattro  tappe  possono  raggiungere
    Smolènsk, forse ci sono già...".
    - Tiska!
    Tichòn balzò in piedi.
    - No, non importa, non importa!  -  gridò.
    Nascose la testa sotto il candeliere e chiuse gli occhi. Rivide con il
    pensiero  il Danubio,  una giornata radiosa,  il campo russo e vide se
    stesso, giovane generale dal viso senza neppure una ruga,  coraggioso,
    allegro,  entrare  nella  tenda  variopinta di Potëmkin,  e un ardente
    sentimento di invidia per il favorito lo turbò con la stessa forza  di
    allora.  Ricorda  tutte  le  parole  scambiate  durante  il  suo primo
    colloquio con Potëmkin,  gli torna alla memoria una  donna  piccola  e
    grassa,  dal viso giallastro e carnoso: l'imperatrice (4). Gli pare di
    rivedere il sorriso di lei,  di udire  le  parole  gentili  quando  lo
    ricevette  la  prima  volta;  e  poi ricorda il viso della sovrana sul
    catafalco e la discussione con Zubov (5),  avuta dinanzi alla bara sul
    diritto di avvicinarsi alla mano della sovrana defunta per baciarla.
    "Ah,  poter tornare subito, subito a quel tempo! E che possa finire al
    più presto tutto ciò che esiste ora... ed essi mi lascino in pace!".


    CAPITOLO 4.

    Lissia-Gori,   il  possedimento  del   principe   Nikolàj   Andréevic'
    Bolkonskij,  si trovava a sessanta miglia oltre Smolènsk e a tre dalla
    strada di Mosca.
    La stessa sera in cui il principe impartiva i suoi ordini ad Alpatyc',
    Desalles chiese un colloquio alla principessina Màrija e le disse che,
    siccome il principe,  date le sue non buone condizioni di salute,  non
    prendeva  alcun  provvedimento  per  la sua sicurezza mentre si capiva
    dalla lettera del  principe  Andréj  che  era  pericoloso  rimanere  a
    Lissia-Gori, si permetteva di consigliarle rispettosamente di mandare,
    per  mezzo  di  Alpatyc',  una  lettera  al  governatore  di Smolènsk,
    pregandolo di informarla sul reale stato delle cose  e  sulla  gravità
    del  pericolo  che  minacciava  Lissia-Gori.  Desalles  scrisse per la
    principessina Màrija una lettera, che ella firmò,  al governatore;  la
    lettera  fu  consegnata  ad  Alpatyc'  con  l'ordine  di rimetterla al
    governatore e,  in caso di pericolo,  di far  ritorno  al  più  presto
    possibile.
    Ricevute  tutte le istruzioni,  Alpatyc',  accompagnato dai familiari,
    con un berretto di pelo bianco in testa  -  dono del principe   -    e
    con un bastone in mano,  come usava fare il principe,  uscì per salire
    in una carrozza da viaggio, coperta di cuoio,  trainata da tre robusti
    cavalli.
    La  campanella  fu legata e le sonagliere furono riempite di carta: il
    principe non permetteva a nessuno, a Lissia-Gori,  di viaggiare con le
    sonagliere.  Eppure  ad  Alpatyc'  piacevano  tanto  la campanella e i
    sonagli quando doveva andare lontano!  Tutta la corte di Alpatyc',  il
    segretario,  lo scrivano del villaggio, la cuoca della servitù, quella
    dei signori,  due vecchie,  un servitorello,  il cocchiere  e  diversi
    servi erano usciti ad accompagnarlo.
    La  figlia  gli  sistemò  dietro  la schiena alcuni cuscini di indiana
    imbottiti di piuma,  la vecchia cognata gli  diede,  di  nascosto,  un
    involtino.  Uno  dei  cocchieri  lo aiutò a salire,  reggendolo per un
    braccio.
    - Sì, sì... preparativi da donnette! Donnette,  donnette!   -  esclamò
    Alpatyc',  parlando  in  fretta,  ansimando  come il vecchio principe.
    Sedutosi in carrozza e date le ultime disposizioni al  segretario  del
    villaggio relative ai lavori in corso,  senza più imitare il principe,
    Alpatyc' si scoprì la testa calva e si fece tre volte il  segno  della
    croce.
    -  Se dovesse accadere qualcosa,  tornate subito,  Jakov Alpatyc'.  In
    nome di Cristo,  abbiate pietà di noi!    -    gli  gridò  la  moglie,
    alludendo alle voci che circolavano sulla guerra e sul nemico.
    - Donnette! Donnette! Roba da donnette!  -  brontolò ancora Alpatyc' e
    partì,  guardando  attorno  a sé i campi,  qua biondeggianti di segala
    matura,  là folti di avena ancora verde,  altrove neri e pronti per la
    semina. Mentre viaggiava, Alpatyc' ammirava l'eccezionale raccolto del
    grano  primaverile  di  quell'anno,  osservava  i  campi di segala sui
    quali,  qua e là,  si cominciava a mietere e,  pensando se mai  avesse
    dimenticato qualche ordine del principe, faceva i suoi calcoli da buon
    amministratore.
    Dopo  due  soste lungo la strada per far mangiare i cavalli,  verso la
    sera del 4 agosto Alpatyc' giunse in città.
    Durante il viaggio aveva incontrato e oltrepassato carriaggi e truppe.
    Avvicinandosi a Smolènsk, udì in lontananza delle fucilate,  ma quegli
    spari non lo sorpresero.  Lo colpì, più di tutto, il fatto che, mentre
    si approssimava alla città,  vide dei soldati che stavano falciando un
    magnifico  campo di avena per dar da mangiare ai loro cavalli;  questa
    circostanza lo fece riflettere,  ma  ben  presto,  concentrandosi  nel
    pensiero dei suoi affari, se ne dimenticò.
    Tutti  gli interessi della vita di Alpatyc' erano limitati,  da più di
    trent'anni,  dalla volontà del principe,  una specie di circolo chiuso
    dal  quale  non  era  mai uscito.  Qualsiasi cosa che non si riferisse
    all'esecuzione di ordini del vecchio signore,  non solo  per  Alpatyc'
    non aveva alcun interesse, ma non esisteva neppure.
    Giunto a Smolènsk la sera del 4 agosto, si fermò al di là del Dnieper,
    nel  sobborgo  di  Gacènsk,  alla locanda dell'ex-portiere Ferapontov,
    dove da ben trent'anni aveva  l'abitudine  di  alloggiare.  Ferapontov
    dodici  anni  prima  aveva  comperato,  con  l'aiuto  di Alpatyc',  un
    boschetto del principe, si era messo a commerciare e ora possedeva una
    casa,  una locanda e una bottega di farina nel capoluogo.  Egli era un
    grasso contadino sulla quarantina,  bruno,  dal viso rosso,  le labbra
    grosse,  il naso schiacciato e bitorzoluto,  numerosi bitorzoli  sulle
    sopracciglia  ispide,  nere  e  sempre  corrugate,  e un grosso ventre
    sporgente.
    Ferapontov,  in panciotto e camicia di cotonina,  se  ne  stava  sulla
    porta della bottega che si apriva sulla strada.  Vedendo Alpatyc', gli
    andò subito incontro.
    - Che tu sia il benvenuto, Jakov Alpatyc'.  La gente fugge dalla città
    e tu ci vieni!  -  gli disse.
    - Perché la gente fugge dalla città?  -  chiese Alpatyc'.
    -  Lo dico sempre io,  che il popolo è stupido.  Hanno tutti paura dei
    Francesi.
    - Chiacchiere di donnette,  chiacchiere di  donnette!    -    proseguì
    Alpatyc'.
    - Anch'io la penso come te,  Jakov Alpatyc'. Dico, c'è l'ordine di non
    lasciarli  entrare?  Quindi  non  entreranno.  I  contadini,  intanto,
    chiedono tre rubli per ogni carro... Non sono cristiani!
    Jakov Alpatyc' ascoltava distrattamente.  Chiese un samovàr, del fieno
    per i cavalli e, bevuto il suo tè, andò a dormire.
    Per tutta la notte ci fu un continuo passaggio di truppe sulla strada,
    davanti alla locanda.  La mattina  seguente  Alpatyc',  indossata  una
    giacchetta  che  portava  soltanto in città,  uscì per sbrigare le sue
    commissioni. Era una bella mattina piena di sole e dopo le otto faceva
    già caldo. "Una magnifica giornata per mietere!", pensò.  Fuori città,
    sin dalle prime ore, si sentiva sparare.
    Dopo  le  otto,  alle  fucilate si aggiunsero le cannonate.  Nelle vie
    c'era molta gente che si affrettava chissà dove, si incontravano molti
    soldati,  come sempre circolavano le vetture di piazza,  i  negozianti
    stavano  presso  le  loro  botteghe  e  nelle chiese si celebravano le
    funzioni religiose. Alpatyc' girò per i negozi, andò in diversi uffici
    pubblici,  alla posta e dal governatore.  Sia negli uffici,  sia nelle
    botteghe,  sia  alla posta,  tutti parlavano della guerra e del nemico
    che aveva già investito la città;  tutti si chiedevano che cosa fare e
    cercavano di tranquillizzarsi a vicenda.
    Presso  la  casa del governatore,  Alpatyc' trovò una gran quantità di
    gente,  di  cosacchi,  e  una  carrozza  da  viaggio  appartenente  al
    governatore.  Sulle  scale  incontrò  due  signori  della nobiltà;  ne
    conosceva uno,  un ex-capo della polizia del circondario,  che in quel
    momento parlava con foga:
    -  Non sono mica scherzi  -  diceva.   -  Va bene per chi è solo.  Una
    sola testa, anche se è povera, è sempre una... Ma se in famiglia ce ne
    sono tredici più quel che si possiede...  Ci hanno portato tutti  alla
    rovina:  che  cosa  vale  l'autorità?  Io  li impiccherei tutti,  quei
    briganti!
    - Suvvia, basta!  -  diceva l'altro.
    - E che m'importa? Lascia pure che mi senta!  Non siamo mica cani!   -
    ribatté l'ex-capo della polizia e, voltandosi, vide Alpatyc'.
    - Ehi, Jakov Alpatyc', come mai sei qui?
    -  Sono  venuto per ordine di sua eccellenza dal signor governatore  -
    rispose Alpatyc',  sollevando il capo con orgoglio  e  mettendosi  una
    mano al petto,  come faceva sempre quando parlava del principe.  -  Mi
    è stato ordinato di assumere informazioni sullo stato delle  cose    -
    aggiunse.
    - Ma sì, informati!  -  esclamò il possidente.  -  Ci hanno ridotti al
    punto che non c'è neanche un carro, niente! Ecco, senti?  -  e accennò
    alla  direzione  da  cui  giungeva il crepitio delle fucilate.   -  Ci
    hanno ridotti tutti alla  rovina...  quei  briganti!    -    concluse,
    scendendo le scale.
    Alpatyc'  scosse il capo e salì la scalinata.  Nell'anticamera c'erano
    mercanti,  donne,  impiegati che si guardavano in silenzio.  La  porta
    dello  studio  si  aprì,  tutti  si  alzarono  e si fecero avanti.  Un
    funzionario uscì di gran fretta, disse qualcosa a un negoziante, gridò
    a un grosso impiegato che aveva una decorazione al collo di seguirlo e
    sparì di nuovo dietro l'uscio,  evidentemente per evitare le domande e
    gli  sguardi  che  gli  erano rivolti da ogni parte.  Alpatyc' si fece
    avanti e alla nuova comparsa di quel funzionario, mettendo la mano nel
    soprabito abbottonato,  mosse un passo verso di lui e  gli  porse  due
    lettere.
    -  Al  signor  barone  Asch  da  parte del generale "en chef" principe
    Bolkonskij  -  disse con tanta solennità,  che il funzionario si voltò
    e  prese  le  lettere.  Dopo  qualche  minuto il governatore ricevette
    Alpatyc' e gli disse rapidamente:
    -  Riferirai  al  principe  e  alla  principessina  che   non   sapevo
    assolutamente  nulla  e  che  mi  sono attenuto agli ordini superiori.
    Ecco...   -  e diede un foglio ad Alpatyc'.    -    Però,  siccome  il
    principe  è malaticcio,  gli consiglio di andare a Mosca.  Anch'io sto
    per partire.  E gli dirai anche...   -  Ma il governatore non completò
    la  frase: entrò di corsa un ufficiale,  sudato e coperto di polvere e
    si mise a parlargli in francese.  Sul viso del governatore si  dipinse
    un'espressione di terrore.
    -  Va'   -  disse e,  fatto un cenno di saluto ad Alpatyc',  si mise a
    interrogare l'ufficiale.
    Sguardi  avidi,  spaventati,  colmi  di  disperazione,  conversero  su
    Alpatyc'  quando uscì dall'ufficio del governatore.  Egli,  udendo suo
    malgrado i colpi sempre più vicini e sempre più forti della fucileria,
    si affrettò a recarsi alla locanda.  Ecco quanto conteneva  il  foglio
    che il governatore aveva consegnato ad Alpatyc':
    "Vi  assicuro  che  nessun  pericolo  minaccia,  per ora,  la città di
    Smolènsk e che è improbabile che ciò possa verificarsi.  Io da un lato
    e il principe Bagratiòn dall'altro marciamo per congiungerci davanti a
    Smolènsk,  il che avverrà il giorno 22;  le due armate, unendo le loro
    forze,  difenderanno i compatrioti del governatorato a  voi  affidato,
    sino  a  che i loro sforzi avranno allontanato i nemici della patria o
    sino a che non sia caduto l'ultimo dei loro valorosi soldati.  Da  ciò
    potete  capire  che avete pieno diritto di rassicurare gli abitanti di
    Smolènsk,  giacché chi è difeso da  due  eserciti  così  valorosi  può
    essere  certo  della  loro  vittoria"  (Ordine  di Barclay de Tolly al
    governatore civile di Smolènsk, barone Asch 1812).
    Il popolo,  inquieto,  si  aggirava  per  le  vie.  Carri  colmi  sino
    all'inverosimile di masserizie, sedie, stoviglie, armadi, uscivano dai
    portoni  delle  case e percorrevano le vie.  Dinanzi alla casa attigua
    alla locanda di Ferapontov erano fermi dei carri  e  alcune  donne  si
    salutavano singhiozzando.  Un cane da guardia,  abbaiando,  saltellava
    davanti ai cavalli attaccati.
    Alpatyc',  con passo più rapido del solito,  entrò nel cortile e  andò
    direttamente  sotto  la  tettoia  dov'erano  i  suoi  cavalli e la sua
    carrozza. Il cocchiere dormiva. Lo svegliò, gli ordinò di attaccare ed
    entrò nel vestibolo. Nella camera dei padroni si udivano il pianto dei
    bambini, i singhiozzi disperati delle donne e la voce rauca e irritata
    di Ferapontov.  Quando Alpatyc' entrò,  la  cuoca,  come  una  gallina
    spaventata, correva qua e là nel vestibolo.
    -  L'ha  picchiata  a  morte!  Ha  picchiato  la padrona!  E come l'ha
    malmenata e trascinata per terra!
    - Ma perché?  -  domandò Alpatyc'.
    - Lei voleva partire. Idee di donne, si sa! "Portami via", diceva lei,
    "non farmi morire con i bambini! Tutta la gente se ne è andata,  e noi
    che cosa facciamo?".  E lui,  giù botte!  Quante gliene ha date e come
    l'ha trascinata per terra!
    Alpatyc' scosse il capo,  come approvando;  non volendo  saper  altro,
    andò all'uscio opposto a quello della camera dei padroni, nella stanza
    dove aveva lasciato la roba acquistata.
    - Scellerato! Assassino!  -  gridava in quel momento una donna pallida
    e  magra  con  un bimbo tra le braccia che,  strappatosi il fazzoletto
    dalla  testa,  usciva  di  corsa  precipitandosi  giù  per  la  scala.
    Ferapontov  le  corse  dietro  ma,  vedendo  Alpatyc',  si accomodò il
    panciotto, si ravviò i capelli ed entrò nella stanza di lui.
    - Vuoi già partire?  -  gli domandò.
    Senza  rispondere  alle  domande  dell'albergatore  e   senza   neppur
    guardarlo,  Alpatyc'  mise  in  ordine  i  suoi acquisti e gli domandò
    quanto dovesse pagargli per l'alloggio.
    - Faremo i conti poi... Dimmi, sei stato dal governatore?
    Alpatyc' rispose che il governatore  non  gli  aveva  detto  nulla  di
    preciso.
    - Ti pare che possiamo partire e abbandonare tutti i nostri affari?  -
    domandò  Ferapontov.    -  Per andare sino a Dorogobuze vogliono sette
    rubli per un carro.  E io ripeto: non  sono  cristiani!  Selivanov  ha
    fatto  un buon colpo giovedì scorso: ha venduto la farina all'esercito
    per nove rubli il sacco. Dite, prendete il tè?  -  aggiunse.
    Mentre i cavalli venivano attaccati,  Alpatyc' e Ferapontov  bevettero
    il  tè  e  chiacchierarono  un  po'  a proposito del prezzo del grano,
    dell'andamento dell'annata e del tempo favorevole al raccolto.
    - Però ha cominciato a calmarsi  -  osservò Ferapontov, alzandosi dopo
    aver bevuto tre tazze di tè.   -   Si  vede  che  i  nostri  li  hanno
    sconfitti.  L'hanno detto che non li lasceranno passare. Evidentemente
    la forza c'è... Si racconta che ultimamente Matvéj Ivànovyc' Platov li
    ha ricacciati sino al fiume Marina e ne ha fatti affogare diciottomila
    in un giorno solo.
    Alpatyc' raccolse le sue compere,  consegnò ogni cosa al cocchiere che
    entrava  e  pagò  il conto al padrone della locanda.  Sotto il portone
    rimbombò il rumore delle  ruote,  degli  zoccoli  dei  cavalli  e  dei
    sonagli di una carrozza che partiva.
    Già  da un pezzo era passato il mezzogiorno;  metà della strada era in
    ombra,  l'altra metà illuminata vivamente dal  sole.  Alpatyc'  guardò
    dalla  finestra e andò all'uscio.  Tutto a un tratto si udì uno strano
    rumore,  come di un sibilo lontano e di un colpo,  al quale  seguì  un
    rombo  confuso  di  cannonate che fece tremare i vetri.  Alpatyc' uscì
    nella via: due uomini correvano verso il  ponte.  Da  varie  parti  si
    udivano  sibili,  colpi  di  proiettili,  detonazioni  di  granate che
    cadevano sulla città.  Ma quei  rumori  si  sentivano  appena,  e  gli
    abitanti  non  vi  facevano  caso,  in  confronto  con  il rombo delle
    cannonate che giungevano da oltre la città.  Era il  bombardamento  di
    Smolènsk, che Napoleone aveva ordinato di aprire alle cinque contro la
    città,  con  centotrenta  bocche da fuoco.  Da principio il popolo non
    aveva compreso che cosa significasse.
    Il rumore dei proiettili e delle granate che cadevano non  fece  altro
    che suscitare curiosità. La moglie di Ferapontov, che non aveva ancora
    smesso  di  urlare  sotto  la  tettoia,  si  chetò e,  con un bimbo in
    braccio,  uscì sulla soglia di casa,  guardando in silenzio la gente e
    tendendo l'orecchio a quel rumore.  Anche la cuoca e un commesso della
    bottega uscirono sul portone. Tutti, con allegra curiosità,  cercavano
    di  vedere  i  proiettili  che  passavano volando sopra le loro teste.
    Dall'angolo  della  via  sbucarono  alcune  persone  che  discorrevano
    animatamente.
    - Che forza!   -  diceva uno.  -  Ha mandato in tanti pezzi il tetto e
    il soffitto!
    - Ha scavato una buca in terra proprio come un maiale!   -   disse  un
    altro.   -  Veramente un colpo da maestro, che ci ha dato coraggio!  -
    osservò ridendo.   -  Ringrazia Iddio che sei  riuscito  a  fare  quel
    salto, se no eri servito a dovere!
    La gente si volse verso quei due. Essi si fermarono e raccontarono che
    una  palla  di cannone era caduta su una casa,  proprio vicino a loro.
    Intanto altri proiettili  -  con un sibilo rapido e cupo le  palle  da
    cannone,  con un fischio più gradevole le granate  -  non cessavano di
    passare a volo sopra la testa della gente;  ma nessuno cadeva  vicino,
    tutti  andavano  oltre.  Alpatyc'  prese posto nella sua carrozza.  Il
    padrone era fermo sul portone.
    - Che diavolo guardi?   -   gridò  alla  cuoca  che,  con  le  maniche
    rimboccate,  in  gonna  rossa,  agitando i gomiti nudi,  si avvicinava
    all'angolo della via per ascoltare quello che raccontavano.
    - Veri miracoli!  -  esclamava, ma, udendo la voce del padrone, lasciò
    cadere la gonna e tornò indietro.
    Di nuovo,  ma questa volta molto vicino,  si udì un fischio come di un
    uccello che cali dall'alto,  una fiammata brillò in mezzo alla strada,
    qualcosa scoppiò e tutta la via si riempì di fumo.
    - Briganti! Ma tu che fai lì?  -  gridò il padrone,  correndo verso la
    cuoca.
    In  quel  momento  da  tutte  le  parti  le donne presero a lamentarsi
    penosamente;  un bambino spaventato scoppiò a  piangere  e  la  gente,
    pallida  e  muta,  si  accalcò  attorno alla cuoca.  In mezzo a quella
    folla, si levarono più alti i gemiti e le suppliche della cuoca.
    - Ohi, ohi! miei cari, non mi lasciate morire, miei cari!
    Dopo cinque minuti la via era deserta.  La cuoca,  con un fianco rotto
    da una scheggia di granata,  era stata portata in cucina. Alpatyc', il
    suo cocchiere,  la moglie di Ferapontov con i bambini e il portiere si
    erano  rifugiati  nella  cantina,  tendendo  l'orecchio.  Il rombo dei
    cannoni, il sibilo delle granate, il gemito lamentoso della cuoca, che
    dominava su tutti gli altri  rumori,  non  cessavano  un  momento.  La
    padrona  della  locanda,  ora  cullava  e  cercava  di  calmare il suo
    bambino,  ora con un mormorio lamentevole domandava a tutti coloro che
    entravano  dove  fosse  suo marito,  che era rimasto sulla strada.  Il
    commesso,  sceso anch'egli in cantina,  le disse che  il  padrone  era
    andato con una massa di popolo alla Cattedrale, dove era stata esposta
    la Vergine miracolosa di Smolènsk.
    Con il calar delle tenebre,  il cannoneggiamento cominciò a scemare di
    intensità.  Alpatyc' uscì dalla cantina e si  fermò  sulla  porta.  Il
    cielo,  poco  prima  tanto limpido,  era offuscato da nuvole di fumo e
    attraverso il fumo brillava stranamente,  in alto,  la  giovane  falce
    della  luna.  Dopo  che  il  terribile  rombo dei cannoni era cessato,
    sembrava dominare sulla città il silenzio, rotto soltanto da un brusio
    continuo che pareva esteso in tutta la città, di passi,  di lamenti di
    grida lontane e del crepitio degli incendi. I gemiti della cuoca erano
    cessati.  In  due  punti  del  cielo  si  levavano e si disperdevano i
    nuvoloni neri del fumo degli incendi;  sulla  via  passavano  correndo
    soldati in uniformi differenti, non in file compatte, ma come formiche
    di  un  formicaio distrutto,  diretti in direzioni diverse.  Alcuni di
    essi,  sotto gli occhi di Alpatyc',  si  rifugiarono  nel  cortile  di
    Ferapontov.  Alpatyc' uscì sul portone.  Un reggimento, affollandosi e
    affrettandosi, si ritirava ostruendo tutta la strada.
    - La città si arrende!  Partite,  partite!   -  gli disse un ufficiale
    che  lo  aveva  notato e poi,  rivolgendosi ai soldati,  gridò:  -  Vi
    insegnerò io a scappare nei cortili!
    Alpatyc' rientrò nella locanda,  chiamò il suo cocchiere e gli  ordinò
    di  partire.   Dietro  ad  Alpatyc'  uscirono  tutti  i  familiari  di
    Ferapontov. Vedendo il fumo e i bagliori degli incendi che splendevano
    nonostante l'ombra del  crepuscolo,  alcune  donne  che  sino  a  quel
    momento  erano  rimaste  silenziose,  si  misero  a urlare mentre come
    un'eco, altri gridi si levarono in altri punti della strada.
    Alpatyc' e il cocchiere, con mani tremanti, scioglievano le redini e i
    finimenti aggrovigliati dei cavalli.
    Quando uscì  dal  portone,  Alpatyc'  vide  nella  bottega  aperta  di
    Ferapontov  una  diecina  di  soldati che vociando riempivano sacchi e
    zaini di farina di grano e di semi di girasole.  In quel  momento,  di
    ritorno  dalla  strada,  Ferapontov stava entrando in bottega.  Vide i
    soldati e  volle  gridare  qualcosa,  ma  a  un  tratto  si  fermò  e,
    cacciatesi  le  mani  nei  capelli,  scoppiò  in  una  risata piena di
    singhiozzi.
    - Prendete tutto,  ragazzi!  Non lasciate nulla  a  quei  demoni!    -
    gridò,  afferrando  egli  stesso  i  sacchi e gettandoli sulla strada.
    Alcuni soldati si spaventarono e  uscirono  di  corsa  dalla  bottega,
    altri continuarono a riempire gli zaini. Ferapontov vide Alpatyc' e si
    volse a lui.
    - La Russia è finita!   -  gridò.   -  La Russia,  Alpatyc', è finita!
    Darò fuoco io stesso a tutta la roba mia...  -  E scappò in cortile.
    Per la via, ostruendola tutta,  passavano senza interruzione i soldati
    cosicché  Alpatyc' non riuscì ad aprirsi un varco e dovette aspettare.
    Anche la moglie di Ferapontov con i bambini era seduta su una "telega"
    (6) in attesa che si potesse uscire.
    Era già completamente buio.  Nel cielo erano spuntate le stelle  e  di
    tanto  in  tanto  brillava,  velata dal fumo,  la giovane luna.  Sulla
    discesa verso il Dnieper, la vettura di Alpatyc' e quella della moglie
    di Ferapontov,  che avanzavano lentamente tra le file dei soldati e di
    altri veicoli, dovettero fermarsi. Non lontano dal crocicchio, dove le
    carrozze  erano state costrette a sostare,  una casa e alcune botteghe
    bruciavano in un vicolo.  L'incendio volgeva alla fine.  Le fiamme ora
    diminuivano  e  si  perdevano  nel  fumo,  ora,  tutto  a  un  tratto,
    divampavano più  vivide,  illuminando  fantasticamente  i  visi  degli
    uomini che stazionavano a gruppi nel crocicchio. Figure nere passavano
    davanti all'incendio; attraverso l'incessante crepitio delle fiamme si
    udivano  voci  e grida.  Alpatyc',  sceso dalla carrozza,  vedendo che
    c'era da aspettare,  entrò nel  vicolo  a  vedere  l'incendio.  Alcuni
    soldati  andavano  e  venivano  senza  posa  davanti  alla casa e alle
    botteghe che ardevano e Alpatyc' notò che due di essi insieme  con  un
    uomo in mantello di lana trascinavano in un cortile vicino, attraverso
    la strada, alcune travi in fiamme; altri portavano bracciate di fieno.
    Alpatyc'  si  avvicinò  alla folla che stava davanti a un alto granaio
    che ardeva ancora e dal quale si sprigionavano lunghe lingue di fuoco.
    I muri erano in fiamme: quello posteriore era già crollato,  il  tetto
    di  tavole si era sfasciato,  le travi ardevano.  Evidentemente quella
    folla aspettava il momento in cui il tetto sarebbe sprofondato.  Anche
    Alpatyc' rimase ad aspettare.
    - Alpatyc'!  -  risonò a un tratto una voce nota.
    - "Bàtjuska",  eccellenza!   -  rispose Alpatyc', riconoscendo la voce
    del suo giovane principe.
    Il principe Andréj,  avvolto nel  mantello,  in  sella  a  un  cavallo
    morello, stava dietro la folla e lo guardava.
    - Come mai sei qui?  -  gli domandò.
    -  Vostra...  vostra  eccellenza    -    disse Alpatyc',  e scoppiò in
    singhiozzi.  -  Vostra... vostra eccellenza... siamo davvero perduti?
    - Come mai sei qui?  -  ripeté il principe Andréj.
    In quel momento la fiamma si  levò  più  vivida  e  illuminò  il  viso
    pallido  e  stanco  del  giovane signore.  Alpatyc' gli spiegò come si
    trovasse a Smolènsk e come a stento ne fosse potuto ripartire.
    - Allora, eccellenza, siamo proprio perduti?  -  domandò di nuovo.
    Il principe Andréj,  senza rispondere,  trasse dalla tasca un taccuino
    e, appoggiatolo sopra un ginocchio, scrisse con la matita alcune righe
    alla sorella. Strappò il foglio e lo diede ad Alpatyc'.
    "Smolènsk si arrende.  Tra una settimana Lissia-Gori sarà occupata dai
    nemici.  Partite subito per Mosca.  Fammi sapere immediatamente quando
    partirete, mandandomi un corriere a Usvjaza".
    Dopo aver scritto e consegnato il foglietto ad Alpatyc',  gli spiegò a
    voce come dovessero organizzare  la  partenza  del  vecchio  principe,
    della  principessina  e  del figlio con il precettore e come e dove si
    dovessero fargli pervenire subito le notizie.  Non aveva ancora finito
    di  dare questi ordini che un ufficiale superiore dello stato maggiore
    venne al galoppo verso lui, accompagnato dal suo séguito.
    - Voi siete colonnello?  -  gridò l'alto ufficiale con accento tedesco
    e con una voce che non era ignota  al  principe  Andréj.    In  vostra
    presenza  si  incendiano  le  case  e  voi  state  lì a guardare?  Che
    significa? Ne risponderete!  -  gridava Berg, che era ora sottocapo di
    stato maggiore della fanteria dell'ala sinistra  della  prima  armata.
    Una  carica  molto  in  vista  e  molto vantaggiosa,  come egli stesso
    diceva.
    Il principe Andréj lo guardò e,  senza rispondere,  continuò a parlare
    con Alpatyc'.
    -  Dirai  dunque  che io aspetterò la risposta sino al dieci ma che se
    per quel giorno non avrò ricevuto la conferma della partenza di tutti,
    dovrò lasciare ogni cosa e correre a Lissia-Gori.
    - Ho parlato così, principe,   -  disse Berg che aveva riconosciuto il
    principe  Andréj    -  perché devo eseguire degli ordini,  esattamente
    come  faccio  sempre...   Vogliate  scusarmi...   aggiunse  quasi  per
    giustificarsi.
    Tra  le  fiamme  si  udì  come  uno scoppio: per un attimo il fuoco si
    placò, nere volute di fumo si levarono di sotto il tetto. Poi rimbombò
    uno schianto ancora più terribile,  e  qualcosa  di  enorme  precipitò
    rovinando.
    -  Urrurù    -    urlò  la  folla  facendo eco al rumore del tetto che
    crollava,  mentre  un  acre  odore  di  farina  bruciata  si  spandeva
    all'intorno.  Le fiamme divamparono più violente, illuminando le facce
    allegre e stanche della gente che assisteva all'incendio.
    L'uomo dal mantello di lana levò alto un braccio e gridò:
    - Bene! Incomincia a distruggere! Bene, ragazzi!
    - E' il padrone, quello...  -  dissero alcune voci.
    - Dunque  -  riprese  il  principe  Andréj  rivolto  ad  Alpatyc'    -
    riferisci  bene  tutto quanto ti ho detto.   -  E,  senza rispondere a
    Berg che gli stava accanto in silenzio, spronò il cavallo ed entrò nel
    vicolo.


    CAPITOLO 5.

    Le  truppe  continuavano  a  ritirarsi  da  Smolènsk.   Il  nemico  le
    inseguiva.  Il  10  agosto il reggimento comandato dal principe Andréj
    passava lungo la strada  maestra,  davanti  al  viale  che  portava  a
    Lissia-Gori.  Il  caldo  e  la  siccità  perduravano  da  più  di  tre
    settimane. Ogni giorno il cielo si copriva di nuvole a pecorelle che a
    tratti nascondevano il sole;  ma verso sera scomparivano,  tornava  il
    sereno  e il sole tramontava in una caligine rossa cupa.  Soltanto una
    copiosa rugiada rinfrescava durante la notte la terra.  Le messi,  non
    ancora  mietute,  si  disseccavano  e i chicchi di grano cadevano.  Le
    paludi erano asciutte. Il bestiame muggiva affamato, non trovando cibo
    nei prati arsi dal sole. Faceva fresco soltanto di notte e nei boschi,
    dove la rugiada durava più a lungo.  Ma lungo la strada maestra  sulla
    quale marciavano le truppe,  anche la notte,  anche fra i boschi,  non
    c'era mai un po' di frescura.  La rugiada  si  perdeva  nella  polvere
    sabbiosa  della  strada.   Non  appena  albeggiava,  aveva  inizio  il
    movimento.  I convogli e  i  pezzi  di  artiglieria  avanzavano  senza
    rumore,  affondando sino al mozzo delle ruote, e la fanteria sino alla
    caviglia nella soffice polvere soffocante,  calda,  che la  notte  non
    riusciva  a  raffreddare.  Parte  di  quel  polverone  sabbioso veniva
    pestata dai piedi e dalle ruote, parte si sollevava e rimaneva sospesa
    come una nube sulle truppe, penetrando negli occhi, nei capelli, nelle
    orecchie,  nelle narici e,  peggio,  nei polmoni degli uomini e  degli
    animali che marciavano su quella strada.  Quanto più il sole era alto,
    tanto più si sollevavano quei nuvoloni di polvere sottile,  attraverso
    la  quale si poteva guardare a occhio nudo il sole,  non coperto dalle
    nubi,  che appariva come un grosso globo  rosso.  Non  c'era  un  filo
    d'aria,  gli uomini si sentivano soffocare in quell'atmosfera immobile
    e procedevano con un fazzoletto legato che copriva loro il naso  e  la
    bocca.  Non appena arrivavano in un villaggio,  tutti si precipitavano
    verso i pozzi,  facendo a pugni per un po' d'acqua e bevevano sino  al
    fondo melmoso.
    Il  principe  Andréj  comandava  un reggimento e l'organizzazione,  il
    benessere dei soldati,  la necessità di  ricevere  e  dare  ordini  lo
    tenevano  occupatissimo.  L'incendio e l'abbandono di Smolènsk avevano
    segnato per lui un'epoca. Un nuovo sentimento di odio contro il nemico
    gli faceva dimenticare il  proprio  dolore.  Interamente  dedito  alle
    faccende  che  riguardavano il reggimento,  si preoccupava con affetto
    dei suoi soldati e dei suoi ufficiali che  lo  chiamavano  il  "nostro
    principe",  erano  fieri  di  lui  e  lo amavano.  Ma era buono e mite
    soltanto con la gente del suo reggimento,  con Timochin  e  con  pochi
    altri,  cioè con le persone che non potevano conoscere e capire il suo
    passato;  ma non appena si imbatteva in qualcuno dei suoi  ex-colleghi
    dello  stato  maggiore,  diventava  subito  irritabile e assumeva modi
    sprezzanti, ironici,  irascibili.  Tutto ciò che lo legava al passato,
    egli  lo  respingeva e perciò cercava soltanto,  nei suoi rapporti con
    quel mondo di un tempo,  di non essere  ingiusto  e  di  adempiere  ai
    propri doveri.
    Vero è che tutto si presentava al principe Andréj sotto una luce fosca
    e cupa, specialmente dopo l'abbandono del 6 agosto di Smolènsk (che, a
    parer  suo,  si sarebbe potuta e dovuta salvare) e dopo che suo padre,
    infermo,  era dovuto fuggire a Mosca e abbandonare  al  saccheggio  il
    tanto  amato  Lissia-Gori,   costruito  e  popolato  da  lui.  Ma  ciò
    nonostante,  grazie al  suo  reggimento,  il  principe  Andréj  poteva
    pensare  a  qualche  cosa  che  era  assolutamente  indipendente dalle
    questioni generali. Il 10 agosto la colonna di cui faceva parte il suo
    reggimento giunse all'altezza di Lissia-Gori. Il principe Andréj aveva
    ricevuto due giorni prima la notizia che suo padre,  suo figlio e  sua
    sorella  erano  partiti per Mosca.  Sebbene non avesse quindi nulla da
    fare a Lissia-Gori,  tuttavia per un desiderio sempre vivo in  lui  di
    esacerbare il proprio dolore, decise di farvi una scappata.
    Si  fece  sellare  un  cavallo  e  partì  dal  posto di tappa verso il
    villaggio  paterno,   nel  quale  era  nato  e  aveva   trascorso   la
    fanciullezza.  Nel passare accanto allo stagno dove, un tempo, diecine
    di donne chiacchierando allegramente,  erano sempre occupate a battere
    con  la  pala  e a sciacquare i panni,  il principe Andréj notò che le
    sponde  erano  deserte  e  che  un'assicella,   staccata  dalla   riva
    galleggiava  in  mezzo all'acqua.  Il principe Andréj si avvicinò alla
    casetta del guardiano.  Accanto al cancello non c'era  nessuno,  e  la
    porta era aperta.  I vialetti del giardino erano già invasi dall'erba,
    vitelli e cavalli vagavano nel parco all'inglese.  Il principe  Andréj
    raggiunse  la  serra: i vetri erano rotti,  alcuni vasi caduti,  altre
    piante secche.  Chiamò il giardiniere Taràs: nessuno rispose.  Girando
    attorno  alla  serra,  si accorse che la palizzata di quercia scolpita
    era tutta rotta e che molti frutti erano stati strappati insieme con i
    rami. Un vecchio contadino (che il principe Andréj aveva sempre visto,
    sin dall'infanzia,  presso la porta della  serra),  seduto  sopra  una
    panchina verde, stava intrecciando dei calzari di scorza di betulla.
    Era  sordo  e non lo aveva sentito venire.  Stava sulla panchina sulla
    quale amava sedersi il vecchio principe,  e accanto a lui  strisce  di
    corteccia,  preparate  per il suo lavoro,  pendevano dai rami spezzati
    disseccati di una magnolia.
    Il principe Andréj si avvicinò alla casa.  Nel vecchio giardino alcuni
    tigli erano stati tagliati; una giumenta pezzata pascolava tra i rosai
    con  il  suo  puledro,  proprio  davanti  alla casa.  La casa aveva le
    imposte inchiodate; una sola finestra era aperta, al piano terreno. Un
    ragazzino,  figlio di servi,  alla vista del  principe  Andréj  scappò
    dentro di corsa.
    Alpatyc', mandata via la famiglia, era rimasto solo a Lissia-Gori. Era
    in casa, intento a leggere "Le vite dei Santi". Saputo dell'arrivo del
    principe Andréj uscì con gli occhiali sul naso,  abbottonandosi, corse
    verso di lui e,  senza dir nulla,  scoppiò a piangere  baciandogli  le
    ginocchia.
    Poi si voltò,  vergognoso della propria debolezza e cominciò a rendere
    conto al principe della situazione generale delle cose e degli affari.
    Tutti gli oggetti preziosi erano stati portati a Boguciàrovo. Anche il
    frumento, circa cento ettolitri, era stato portato via;  il fieno e il
    grano  di primavera,  straordinari a quanto diceva Alpatyc',  falciati
    ancora verdi,  li avevano portati via le  truppe.  I  contadini  erano
    rovinati,  alcuni se ne erano andati a Boguciàrovo, altri, pochi però,
    erano rimasti.
    Il principe Andréj,  senza ascoltare sino  alla  fine  tutto  ciò  che
    Alpatyc' gli stava dicendo, gli domandò:
    -  Quando  sono  partiti  mio  padre  e  mia  sorella?   -  intendendo
    chiedere, si capisce, quando erano partiti per Mosca.
    Alpatyc',  supponendo che si trattasse della partenza per Boguciàrovo,
    rispose  che  erano  andati  via  il  giorno  sette,  e riprese a dare
    particolari sugli affari dell'amministrazione, chiedendo ordini.
    - Mi ordinate di consegnare avena alle truppe facendomi rilasciare una
    ricevuta ? Ce ne rimangono ancora seicento ettolitri.
    "Che cosa devo rispondergli?",  pensava il principe Andréj,  guardando
    il  vecchio la cui testa calva luccicava sotto il sole,  e leggendogli
    in  viso  che  capiva  anch'egli  quanto  fossero  inopportune  quelle
    domande,  ma  che  le  faceva  soltanto  così per soffocare il proprio
    dolore.
    - Sì, consegnala pure  -  gli disse.
    - Forse avete notato il disordine del giardino,   -  riprese  Alpatyc'
    -    ma  è  stato impossibile evitarlo: sono passati di qui e ci hanno
    trascorso la notte tre reggimenti, soprattutto dragoni.  Ho preso nota
    del nome del comandante per presentare un reclamo.
    -  Be'!  E  tu  che intendi fare?  Pensi di rimanere qui,  se viene il
    nemico?  -  gli domandò il principe Andréj.
    Alpatyc' volse il viso verso di lui e lo guardò;  poi,  con  un  gesto
    solenne, alzò il braccio ed esclamò:
    - Egli è il mio protettore, sia fatta la Sua volontà!
    I contadini e i domestici avanzavano in folla,  attraversando il prato
    a testa scoperta, verso il principe Andréj.
    - Dunque, addio!  -  disse il principe, chinandosi verso Alpatyc'.   -
    Parti  anche tu,  portando via quello che potrai e ordina ai contadini
    di andare nella nostra tenuta di Rjazàn o in quella presso Mosca.
    Alpatyc' gli si strinse  singhiozzando  alle  ginocchia.  Il  principe
    Andréj  lo  scostò  delicatamente  e,  spronato  il cavallo,  scese al
    galoppo lungo il viale.
    Davanti alla serra,  sempre indifferente a quanto accadeva  attorno  a
    lui,  come  una  mosca  sul  viso  di  un morto a noi caro,  sedeva il
    vecchietto e continuava a battere sulla forma dei  suoi  calzari;  due
    bambine  con  le gonnelle piene di susine strappate dagli alberi della
    serra, che venivano di corsa, si imbatterono nel principe Andréj. Alla
    vista del giovane padrone, la maggiore delle due, con la paura dipinta
    sul viso,  afferrò per un braccio la più piccola e si nascose con  lei
    dietro  il  tronco  di una betulla senza neppure raccogliere le susine
    verdi che si erano sparpagliate per terra.
    Il principe Andréj si affrettò a voltarsi dall'altra parte, nel timore
    che le due bimbe si accorgessero che  egli  le  aveva  vedute.  Quella
    graziosa bambina spaventata gli faceva pena.  Non osava guardarla,  ma
    nello stesso  tempo  provava  un  vivissimo  desiderio  di  farlo.  Un
    sentimento nuovo,  dolce e riposante,  si impadronì di lui quando, nel
    guardare quelle creature,  comprese  che  esistevano  al  mondo  altri
    interessi  a  lui  totalmente  estranei,  ma  umani e legittimi quanto
    quelli che lo occupavano e  lo  preoccupavano.  Evidentemente  le  due
    bimbe desideravano una cosa sola: portare via e mangiare quelle susine
    acerbe senza essere sgridate, e il principe Andréj desiderava con loro
    il  successo  di  quella  impresa.  Non poté trattenersi dal guardarle
    ancora una volta. Supponendo di essere ormai fuori pericolo,  le bimbe
    balzarono dal loro nascondiglio, pigolando qualcosa con le loro vocine
    acute  e,  tenendo  strette  le gonne,  trottarono via allegre e agili
    sull'erba del prato con i piedini nudi abbronzati dal sole.
    Il principe Andréj si era un po' rinfrescato,  uscendo  dal  polverone
    della  strada  maestra lungo la quale si muovevano le truppe.  A breve
    distanza da Lissia-Gori,  imboccò di nuovo lo stradone e raggiunse  il
    suo reggimento alla tappa,  presso la diga di un piccolo stagno. Erano
    quasi le due dopo mezzogiorno.  Il sole,  un disco nella polvere,  gli
    batteva   sulla   schiena   bruciandogliela   in  modo  insopportabile
    attraverso la giubba nera.  La  polvere,  ancora  molto  densa,  stava
    sospesa,  immobile,  sopra  le truppe ferme,  dalle quali si levava un
    ininterrotto brusio. Non c'era alito di vento. Salendo sulla diga,  il
    principe Andréj sentì l'odore di melma e di frescura che emanava dallo
    stagno.  Fu  assalito  dal desiderio di buttarsi nell'acqua per quanto
    sudicia fosse. Guardò lo stagno,  dal quale giungevano grida e risate.
    Il  piccolo  laghetto,  torbido e pieno di erba,  si era evidentemente
    alzato di almeno due palmi,  inondando la diga,  giacché una folla  di
    soldati  nudi  vi  diguazzavano dentro,  bianco il corpo,  color rosso
    mattone il collo e il viso.  Tutta quella carne umana si dibatteva tra
    grida  e  risate  in  quella  sudicia  pozzanghera,  come  carpe in un
    annaffiatoio.  Quel diguazzare era pieno di allegria  e,  appunto  per
    questo, particolarmente triste.
    Un giovane soldato biondo della terza compagnia (il principe Andréj lo
    conosceva  personalmente),  con  una  cinghietta  penzolante  sotto il
    polpaccio, correva all'indietro,  facendosi il segno della croce,  per
    prendere lo slancio e gettarsi nell'acqua;  un altro, un sottufficiale
    bruno, con i capelli sempre arruffati, era immerso sino alla cintola e
    agitando il corpo muscoloso, sbuffava allegramente, gettandosi l'acqua
    sulla testa con le mani nere sino al polso.
    Sulle sponde,  sulla diga,  nello stagno,  dappertutto appariva quella
    carne bianca,  sana, muscolosa. L'ufficiale Timochin, dal piccolo naso
    rosso,  si asciugava con una salvietta strofinandosi con forza  e,  al
    vedere il principe,  si trovò imbarazzato.  Ma si decise a rivolgergli
    la parola:
    - E' un gran piacere  bagnarsi,  eccellenza!  Dovreste  anche  voi...-
    disse.
    - E' troppo sudicia  -  rispose il principe Andréj con una smorfia.
    - Ve la puliremo subito.   -  E Timochin,  non ancora vestito, corse a
    far pulizia.
    - Il principe vuole fare il bagno...
    - Chi?  Il nostro principe?   -  presero a dire alcuni soldati e tutti
    si  precipitarono con uno slancio tale che a stento il principe riuscì
    a frenare.  Decise che si sarebbe bagnato  meglio  sotto  la  tettoia,
    gettandosi acqua addosso.
    "La carne,  il corpo, "chair à canon!" [7. carne da cannone]" pensava,
    guardando il proprio corpo nudo e trasalendo non tanto per  il  freddo
    quanto  per  un  senso  di disgusto e di orrore di se stesso,  che non
    riusciva a spiegarsi e che si era impadronito di  lui  alla  vista  di
    quei numerosi corpi diguazzanti nell'acqua melmosa dello stagno.

    Il  7 agosto,  il principe Bagratiòn dall'accampamento di Michàjlovka,
    sulla via di Smolènsk, scriveva quanto segue:
    "Gentile signor conte Alekséj Andréevic'" (scriveva  ad  Arakceev,  ma
    sapeva  che  la  sua  lettera  sarebbe  stata  letta dall'imperatore e
    perciò, per quanto ne era capace, meditava su ogni parola).
    "Credo che il  ministro  vi  abbia  già  riferito  sulla  cessione  di
    Smolènsk al nemico.  E' un fatto doloroso e triste, e tutta l'armata è
    in preda allo sconforto  per  l'inutile  abbandono  della  nostra  più
    importante posizione.  Io,  dal canto mio, l'ho pregato personalmente,
    nel modo più convincente,  e infine gliene ho anche scritto,  ma nulla
    ha potuto persuaderlo. Vi giuro sul mio onore che Napoleone si trovava
    in  una sacca come non mai: avrebbe potuto perdere metà dell'esercito,
    ma non occupare Smolènsk.  I nostri  soldati  si  sono  battuti  e  si
    battono  come  leoni.  Ho  resistito  con  quindicimila  uomini più di
    trentacinque ore al nemico e l'ho  battuto,  ma  egli  non  ha  voluto
    rimanere  nemmeno  quattordici  ore.  E  una macchia vergognosa per il
    nostro esercito e mi pare che lui  stesso  non  dovrebbe  neanche  più
    vivere.  Se vi ha riferito che le nostre perdite sono state forti, non
    vi ha detto la verità,  si tratta all'incirca di  quattromila  uomini,
    non  di  più;  ma  fossero  anche stati diecimila...  è la guerra!  In
    compenso il nemico ha avuto perdite enormi...
    "Cosa sarebbe costato restare altri due giorni? Almeno se ne sarebbero
    andati da soli,  perché non avrebbero avuto acqua  per  dissetare  gli
    uomini  e  i  cavalli.  Mi aveva dato la sua parola che non si sarebbe
    ritirato,  poi,  all'improvviso,  mi ha fatto avvertire che durante la
    notte  ripiegava.  Non  è  possibile combattere a questo modo e,  così
    facendo, noi possiamo condurre ben presto il nemico sino a Mosca...
    "Corre voce che voi pensiate  alla  pace.  Che  Iddio  ci  liberi  dal
    compiere  un  simile passo!  Dopo tanti sacrifizi e dopo tante assurde
    ritirate, far la pace! Tutta la Russia sarebbe contro di voi, e ognuno
    di  noi  si  vergognerebbe  di  indossare  l'uniforme.  Giacché  siamo
    arrivati a questo punto bisogna battersi sino a che la Russia lo potrà
    e sino a che ci saranno uomini che si reggeranno in piedi...
    "E'  necessario  che  ci sia uno solo a comandare.  Il vostro ministro
    funzionerà benissimo come ministro,  ma come generale non vale  niente
    ...  Eppure  hanno  affidato  alle  sue  mani  il destino della nostra
    patria! Io, ve lo giuro, mi sento impazzire dalla rabbia: scusatemi se
    sono così brusco nello  scrivere.  E'  evidente  che  colui  il  quale
    consiglia  di  concludere la pace e di dare il comando dell'esercito a
    un ministro non ama l'imperatore e desidera la rovina  di  noi  tutti.
    Per  questo  vi  scrivo  la  verità: preparate le milizie territoriali
    giacché il  ministro,  nel  modo  più  magistrale,  si  tirerà  dietro
    l'ospite  sino  alla  capitale.  Il signor aiutante di campo Wohlzogen
    ispira diffidenza a tutto l'esercito.  Dicono che  egli  sia  più  per
    Napoleone che per noi, ed è lui che dà al ministro tutti i consigli...
    Io non soltanto sono gentile verso di lui ma, sebbene più anziano, gli
    obbedisco  come un caporale.  Questo mi addolora,  ma lo faccio perché
    amo il mio benefattore e sovrano. Mi duole per l'imperatore,  il quale
    affida  a  un  simile  uomo  il suo glorioso esercito.  Figuratevi che
    durante la ritirata abbiamo perduto più di quindicimila uomini  perché
    troppo sfiniti o perché abbandonati malati negli ospedali; se avessimo
    attaccato,  ciò non sarebbe accaduto. Ditemi, in nome di Dio, che cosa
    dirà la Russia,  la nostra madre Russia,  di noi  che  dimostriamo  di
    avere tanta paura e che consegniamo una patria così buona e generosa a
    delle canaglie,  suscitando in ogni cittadino odio e disonore?  Perché
    avere paura?  Chi dobbiamo temere?  Non è colpa mia se il  ministro  è
    indeciso,  pusillanime,  assurdo, temporeggiatore e se ha ogni cattiva
    qualità. Tutto l'esercito piange e lo copre di insulti...".


    CAPITOLO 6.

    Tra il numero infinito  di  suddivisioni  che  è  possibile  fare  dei
    fenomeni della vita,  si possono prendere in considerazione quelli nei
    quali prevale la forma; tra questi ultimi, in contrasto con la vita di
    campagna, di villaggio, di provincia e persino di Mosca,  si può porre
    la  vita  di  Pietroburgo  e  in  modo particolare quella che possiamo
    definire salottiera e che è assolutamente immutabile.
    Dal 1805 in poi ci eravamo riconciliati  e  di  nuovo  urtati  con  il
    Bonaparte,  avevamo  fatto  e disfatto costituzioni,  ma il salotto di
    Anna Pàvlovna e quello di Elen erano rimasti esattamente  quali  erano
    l'uno sette,  l'altro cinque anni innanzi. In casa di Anna Pàvlovna si
    parlava ancora con stupore dei successi del Bonaparte e,  come allora,
    si vedeva in essi, come nell'accordo degli imperatori europei con lui,
    una  maligna congiura che aveva l'unico scopo di contrariare e rendere
    inquieto  quel  circolo  di  Corte  di  cui  Anna  Pàvlovna   era   la
    rappresentante. Così pure da Elen, che persino Rumjanzòv onorava delle
    sue   visite,   e   che   egli   considerava  donna  di  straordinaria
    intelligenza,  nel 1812 come già nel 1808 si  parlava  con  entusiasmo
    della  grande nazione e del grand'uomo,  e si deplorava la rottura con
    la Francia che,  secondo l'opinione dei frequentatori del  salotto  di
    Elen, doveva avere come conclusione una pace.
    Negli ultimi tempi,  dopo il ritorno dell'imperatore dall'esercito, si
    era manifestata una certa inquietudine in quei due opposti salotti nei
    quali ebbero luogo anche alcune scambievoli manifestazioni ostili;  ma
    le  tendenze dell'uno e quelle dell'altro erano rimaste immutate.  Nel
    circolo di Anna Pàvlovna  si  accoglievano  soltanto  i  Francesi  più
    accanitamente  legittimisti;  qui si esprimeva la patriottica idea che
    non si dovesse andare al Teatro Francese e che il  mantenimento  della
    compagnia  che  in esso agiva costava quanto quello di un intero corpo
    d'armata.  Le vicende della guerra venivano avidamente seguite,  e  si
    diffondevano le voci più favorevoli al nostro esercito. Nel circolo di
    Elen,  rumianzista e filofrancese, si smentivano le voci relative alla
    crudeltà del nemico e della guerra, e si discutevano tutti i tentativi
    fatti da Napoleone per  giungere  alla  pace.  In  questo  circolo  si
    biasimavano  coloro  che  consigliavano  preparativi troppo affrettati
    circa il trasferimento a Kazàn della Corte e degli istituti  femminili
    che erano sotto la protezione dell'imperatrice madre. In generale, nel
    salotto  di Elen,  la guerra era considerata come una serie di sterili
    dimostrazioni,  destinate a finire in breve  tempo  con  la  pace.  Vi
    regnava l'opinione di Bilibin (ora a Pietroburgo,  assiduo del salotto
    di Elen,  che ogni uomo intelligente doveva frequentare)  che  non  la
    polvere,  ma  coloro  che  l'hanno inventata,  decidono le sorti della
    guerra.  In questo salotto si deridevano ironicamente e  con  spirito,
    per  quanto  con molta prudenza,  gli entusiasmi di Mosca,  di cui era
    giunta notizia a Pietroburgo insieme con l'imperatore.
    Questi stessi entusiasmi,  invece,  venivano esaltati nel  circolo  di
    Anna  Pàvlovna  e se ne parlava come Plutarco parla degli antichi.  Il
    principe Vassilij,  che ricopriva ancora le stesse cariche importanti,
    costituiva   l'anello   di  congiunzione  tra  i  due  circoli.   Egli
    frequentava "ma bonne amie" [8.  la mia buona amica] Anna  Pàvlovna  e
    "le salon diplomatique da ma fille" [9.  il salotto diplomatico di mia
    figlia] e spesso,  nei suoi ripetuti passaggi da un  campo  all'altro,
    perdeva  la  bussola  e  diceva in casa di Elen ciò che avrebbe dovuto
    dire in casa di Anna Pàvlovna e viceversa.
    Poco dopo l'arrivo dell'imperatore, il principe Vassilij discorreva in
    casa  di  Anna  Pàvlovna  delle  vicende  della   guerra,   biasimando
    severamente  Barclay  de Tolly,  ma si mostrava indeciso relativamente
    alla scelta del generale che si sarebbe dovuto nominare comandante  in
    capo. Uno degli invitati, che veniva qualificato "un homme de beaucoup
    de  mérite" [10.  un uomo di grandi meriti],  dopo aver raccontato che
    quel giorno aveva veduto Kutuzòv,  eletto comandante delle milizie  di
    Pietroburgo,  presiedere all'arruolamento delle reclute, si permise di
    esprimere cautamente  l'opinione  che  Kutuzòv  fosse  proprio  l'uomo
    adatto a soddisfare tutte le esigenze.
    Anna  Pàvlovna  sorrise  con tristezza e osservò che Kutuzòv non aveva
    fatto altro che dare dispiaceri all'imperatore.
    - L'ho detto e ripetuto nella riunione dei nobili,   -  intervenne  il
    principe  Vassilij    -    ma  non  mi  hanno ascoltato.  Ho insistito
    nell'affermare che la scelta di lui a capo della milizia  non  sarebbe
    riuscita  gradita  all'imperatore:  non  mi hanno ascoltato.  Hanno la
    mania della fronda.
    - Per vantarsi davanti a chi?  E tutto  perché  vogliamo  imitare  gli
    sciocchi  entusiasmi  di Mosca  -  continuò il principe Vassilij,  che
    per un momento  si  era  confuso  e  aveva  dimenticato  che  da  Elen
    bisognava  deridere gli entusiasmi di Mosca,  che da Anna Pàvlovna era
    necessario ammirare. Si corresse subito,  però.-  Ma è decoroso che il
    conte  Kutuzòv,  il  più vecchio generale della Russia stia di persona
    alla Corte?  "Et il en restera  pour  sa  peine"  [11.  E  ci  resterà
    inutilmente]. E' mai possibile nominare comandante supremo un uomo che
    non  può montare a cavallo,  che si addormenta durante il Consiglio di
    guerra,  un uomo che ha pessimi  costumi?  Bella  figura  ha  fatto  a
    Bucarest!  Non parlo delle sue qualità come generale,  ma come si può,
    in momenti come questi,  scegliere un generale invalido e  cieco?  Bel
    generale, un cieco! Non ci vede. Potrebbe giocare a mosca cieca... non
    vede assolutamente nulla!
    Nessuno fece obiezioni.
    Il 24 luglio ciò era perfettamente giusto, ma il 29 dello stesso mese,
    Kutuzòv  fu  insignito  del  titolo  di principe.  Il titolo nobiliare
    poteva anche significare che ci si volesse liberare di lui,  e  perciò
    il  giudizio del principe Vassilij continuava ad essere valido sebbene
    egli non si affrettasse più tanto a  dichiararlo.  Ma  l'8  agosto  si
    riunirono il feldmaresciallo Saltikòv, Arakceev, Vjazmìtinov, Lopuchin
    e Kociubéj per esaminare la situazione bellica. La commissione giudicò
    che  gli insuccessi erano derivati dalla mancanza di unità nel comando
    e,  sebbene i componenti la  commissione  fossero  al  corrente  dello
    scarso favore dell'imperatore per Kutuzòv, il comitato, dopo una breve
    consultazione,  propose  di nominarlo generalissimo.  In quello stesso
    giorno Kutuzòv fu nominato comandante supremo di tutto l'esercito e di
    tutto il territorio occupato dalle truppe.
    Il 9 agosto,  il principe Vassilij incontrò di nuovo,  in casa di Anna
    Pàvlovna,  "l'homme de beaucoup de mérite".  Questi faceva la corte ad
    Anna Pàvlovna perché desiderava poter  avere  la  nomina  a  ispettore
    generale  di  un  collegio  femminile.  Il principe Vassilij entrò nel
    salotto con l'aria felice del trionfatore dell'uomo che  ha  raggiunto
    la meta delle proprie aspirazioni.
    -  "Eh bien,  vous savez la grande nouvelle?  Le prince Koutouzoff est
    maréchal!" Tutti i  contrasti  sono  finiti.  Sono  così  felice  così
    felice!    -   disse il principe Vassilij.   -  "Enfin voilà un homme"
    [12.  Ebbene,  sapete  la  grande  notizia?   Il  principe  Kutuzòv  è
    maresciallo  (...)  Ecco  finalmente un uomo]  -  concluse volgendo su
    tutti i presenti uno sguardo severo e pieno di  significato.  "L'homme
    de  beaucoup  de  mérite",  nonostante il suo desiderio di ottenere il
    posto,  non poté trattenersi dal ricordare al principe Vassilij i suoi
    giudizi  precedenti.  (Era  cosa indelicata nei confronti del principe
    Vassilij,  nel salotto di Anna Pàvlovna e  davanti  ad  Anna  Pàvlovna
    stessa che aveva appreso con altrettanta gioia quella notizia,  ma non
    riuscì a tacere).
    - "Mais on dit qu'il est aveugle, mon prince?" [13. Ma si dice che sia
    cieco,  principe]  -  disse ricordando al  principe  Vassilij  le  sue
    stesse parole.
    - "Allez donc,  il y voit assez" [14.  Suvvia, ci vede abbastanza!]  -
    rispose il principe  Vassilij,  parlando  a  voce  rapida  e  bassa  e
    tossicchiando,  con  la  stessa  voce  e la stessa tossetta che soleva
    usare per risolvere ogni difficoltà  -  "Allez,  il y voit assez"    -
    ripeté.    -    E  sono  lieto  inoltre  proseguì  -  di sapere che il
    sovrano gli ha dato pieni poteri su tutte le  armate  e  su  tutto  il
    paese,  poteri  così ampi quali non ebbe mai alcun comandante supremo.
    E' un secondo autocrate concluse con un sorriso di trionfo.
    - Dio lo voglia, Dio lo voglia!  -  esclamò Anna Pàvlovna. "L'homme de
    beaucoup de  mérite",  ancora  novizio  negli  ambienti  della  Corte,
    desiderando   lusingare  Anna  Pàvlovna  con  il  difenderne  l'antica
    opinione, disse:
    - Pare che l'imperatore abbia concesso assai di malavoglia tali poteri
    a Kutuzòv.  "On dit qu'il rougit comme une demoiselle  à  laquelle  on
    lirait  'Joconde'  (15) en lui disant: "Le souverain et la patrie vous
    décernent cet honneur"" [16.  Si  dice  che  sia  arrossito  come  una
    signorina alla quale si legga "Joconde",  dicendogli: "Il sovrano e la
    patria vi decretano questo onore"].
    - "Peut-être que le coeur n'était pas de la partie" [17. Può darsi che
    il cuore non c'entrasse]  -  rispose Anna Pàvlovna.
    - Oh no,  no!   -  protestò con foga il principe Vassilij.  Ormai  non
    poteva più cedere a nessuno il suo Kutuzòv.  Secondo lui, non soltanto
    Kutuzòv andava bene,  ma  tutti  lo  adoravano.    -    No,  questo  è
    impossibile, perché già prima l'imperatore lo sapeva apprezzare.
    -  Dio  voglia  soltanto  -  riprese Anna Pàvlovna  -  che il principe
    Kutuzòv prenda effettivamente il potere e non permetta  a  nessuno  di
    mettergli dei bastoni tra le ruote, "des bâtons dans les roues".
    Il  principe  Vassilij capì subito a chi si riferisse quel nessuno,  e
    mormorò:
    - So da fonte sicura che Kutuzòv ha posto come condizione assoluta che
    il principe ereditario non resti presso  l'esercito.  "Vous  savez  ce
    qu'il   a   dit   à  l'empereur?"  [18.   Sapete  che  cosa  ha  detto
    all'imperatore?]  -  Il principe Vassilij ripeté le parole che Kutuzòv
    avrebbe detto all'imperatore:  -  "Io non posso  punirlo  se  commette
    qualche  errore,  né premiarlo se si comporta bene".  Oh,  il principe
    Kutuzòv è un uomo di grande intelligenza: "je  le  connais  de  longue
    date" [19. Lo conosco da un pezzo].
    -  Si  dice anche  -  interloquì "l'homme de beaucoup de mérite",  che
    non aveva ancora acquistato il tatto  dei  cortigiani    -    che  sua
    altezza serenissima abbia posto come condizione assoluta la lontananza
    del sovrano dall'esercito.
    Non  appena  egli  ebbe  detto  questo,  il  principe  Vassilij e Anna
    Pàvlovna  si  voltarono  dall'altra  parte  e,   sospirando  su  tanta
    ingenuità, si guardarono con tristezza.


    CAPITOLO 7.

    Mentre ciò accadeva a Pietroburgo, i Francesi avevano già oltrepassato
    Smolènsk  e  si  avvicinavano  sempre  più  a  Mosca.  Lo  storico  di
    Napoleone,  Thiers  (20),   come  del  resto  ogni  altro  storico  di
    Napoleone,  volendo  giustificare  il  suo  eroe,  afferma che egli si
    sentiva attratto suo malgrado dalle mura di  Mosca.  Egli  ha  ragione
    come  hanno ragione tutti gli storici che cercano la spiegazione delle
    vicende storiche nella volontà di un sol uomo;  ha ragione  così  come
    hanno  ragione  gli  storici  russi  che  affermano  che  Napoleone fu
    attirato verso Mosca dall'abilità dei nostri generali. Qui, oltre alla
    legge di retrospettività, che rappresenta il passato come una serie di
    preparativi per un  fatto  avvenuto,  c'è  anche  la  reciprocità  che
    imbroglia  la  faccenda.  Un  buon  giocatore  che  abbia perduto agli
    scacchi,  è sinceramente convinto che la sua perdita abbia  avuto  per
    causa  un  suo errore e cerca questo errore nell'inizio del suo gioco,
    ma dimentica che in ogni sua mossa, durante tutta la partita,  ci sono
    stati  errori  simili  e  che  nessuna  sua  mossa  è  stata perfetta.
    L'errore,  su cui egli fissa la sua attenzione,  lo colpisce  soltanto
    perché  l'avversario  ne ha approfittato.  Ma quanto più complicato di
    questo  è  il  gioco  della  guerra,  che  si  svolge  in  determinate
    condizioni  di  tempo,   dove  non  un'unica  volontà  guida  macchine
    inanimate,  ma dove tutto deriva dagli urti  innumerevoli  di  volontà
    diverse?
    Dopo  Smolènsk,  Napoleone cercò di dare battaglia presso Vjazma oltre
    Dorogobuze,  poi a Tzàrevo-Zàjmisce;  ma per una serie di innumerevoli
    circostanze accadde che sino a Borodinò, a centodieci miglia da Mosca,
    i  Russi non poterono accettare il combattimento.  Da Vjazma Napoleone
    ordinò di marciare direttamente su Mosca.
    "Moscou, la capitale asiatique de ce grand empire, la ville sacrée des
    peuples d'Alexandre,  Moscou avec ses innombrables églises en forme de
    pagodes chinoises!" [21.  Mosca, la capitale asiatica di questo grande
    impero,  la città santa dei popoli di Alessandro,  Mosca  con  le  sue
    innumerevoli  chiese  dalla forma di pagode cinesi!].  Questa "Moscou"
    non concedeva pace all'immaginazione di Napoleone.  Durante la  marcia
    tra  Vjazma  e  Tzàrevo-Zàjmisce,  Napoleone procedeva sul suo cavallo
    ambiante color isabella (22),  accompagnato  dalla  sua  Guardia,  dai
    paggi e dagli aiutanti di campo.  Il capo di stato maggiore, Berthier,
    era rimasto indietro per interrogare un russo fatto prigioniero  dalla
    cavalleria.   Al   galoppo,   accompagnato   dall'interprete   Lelorme
    Dideville, segretario di Napoleone,  raggiunse l'imperatore e con aria
    lieta fermò il cavallo.
    - "Eh bien?"  -  domandò Napoleone.
    -  "Un  cosaque de Platov" dice che il corpo di Platov si sta riunendo
    al grosso dell'esercito,  che Kutuzòv è stato nominato  generalissimo.
    "Très   intelligent   et   bavard!"   [23.    Molto   intelligente   e
    chiacchierone!].
    Napoleone sorrise e ordinò di dare un cavallo  a  quel  cosacco  e  di
    condurlo alla sua presenza. Desiderava parlargli personalmente. Alcuni
    aiutanti  di  campo partirono velocemente e dopo un'ora il servo della
    gleba Lavruska,  che Denissov aveva ceduto  a  Rostòv,  in  giacca  di
    attendente, su una sella della cavalleria francese, con l'aria furba e
    allegra da ubriaco,  si avvicinò a Napoleone il quale, ordinandogli di
    cavalcargli a fianco, prese a interrogarlo:
    - Siete cosacco?
    - Sono cosacco, eccellenza.
    "Le cosaque,  ignorant la compagnie dans laquelle il se trouvait,  car
    la  simplicité  de  Napoléon  n'avait  rien  qui  pût  révéler  à  une
    imagination orientale la présence d'un souverain,  s'entretint avec la
    plus extrême familiarité des affaires de la guerre actuelle" [24.  "Il
    cosacco,  ignorando  in  quale  compagnia  si  trovasse,   giacché  la
    semplicità  di  Napoleone  non  aveva nulla che potesse rivelare a una
    immaginazione orientale la presenza di un sovrano,  si intrattenne con
    la  massima  familiarità  sulle  faccende  della guerra attuale"] dice
    Thiers,  raccontando  l'episodio.  Realmente  Lavruska,   che  si  era
    ubriacato  e  aveva  lasciato  senza pranzo il suo padrone,  era stato
    frustato e poi mandato al villaggio in cerca di galline e là,  dove si
    era  abbandonato  al  saccheggio,  era  stato  fatto  prigioniero  dai
    Francesi. Era uno di quei servi volgari e sfrontati che ne hanno viste
    di cotte e di crude e che credono sia loro  dovere  agire  sempre  con
    slealtà  e  furberia,  uno  di quei servi pronti in ogni momento a far
    qualsiasi cosa per i  padroni,  dei  quali  indovinano  astutamente  i
    cattivi pensieri, specialmente se vanitosi e meschini.
    Capitato  in  presenza  di  Napoleone,  che aveva riconosciuto subito,
    senza fatica, Lavruska non si turbò affatto e si sforzò soltanto,  con
    tutta l'anima, di non dispiacere ai nuovi signori.
    Non  ignorava che quello era Napoleone,  ma la presenza di lui non gli
    incuteva un turbamento maggiore di quella di Rostòv o del  maresciallo
    d'alloggio  armato  di  verghe,  perché  non  vi  era  nulla di cui il
    maresciallo d'alloggio o Napoleone potessero privarlo.
    Raccontò tutto ciò che si diceva  tra  gli  attendenti  e  molte  cose
    corrispondevano  a  verità.  Ma  quando Napoleone gli domandò che cosa
    pensassero i Russi e se credevano o  meno  di  vincere  il  Bonaparte,
    Lavruska si rabbuiò e rimase pensieroso.
    Sentì nelle parole dell'imperatore francese una finissima astuzia,   -
    giacché gli uomini come Lavruska vedono in  tutto  la  scaltrezza    -
    aggrottò  le  sopracciglia  e  non  disse  nulla.  Poi,  pensosamente,
    riprese:
    - Ecco: se vi sarà una prossima battaglia, sarete voi a vincere, ma se
    essa avrà luogo fra tre giorni od oltre, questa battaglia andrà per le
    lunghe.
    La risposta di Lavruska fu tradotta a Napoleone così: "Si la  bataille
    est donnée avant trois jours, les Francais la gagneraient, mais que si
    elle serait donnée plus tard, Dieu sait ce qui en arriverait" [25. "Se
    la battaglia sarà data prima di tre giorni,  i Francesi la vinceranno,
    ma, se fosse data più tardi, Dio sa quello che succederebbe"]. Così la
    tradusse, sorridendo,  l'interprete Lelorme Dideville.  Ma non sorrise
    Napoleone,   sebbene  fosse  evidentemente  in  ottime  condizioni  di
    spirito, e si fece ripetere le parole del cosacco.
    Lavruska notò questo fatto e, per divertirlo,  finse di non sapere chi
    egli fosse.
    -  Sappiamo  che voi avete il Bonaparte,  che ha vinto tutto il mondo,
    ma, in quanto a noi, il caso è diverso...  -  disse,  non sapendo come
    e perché s'insinuasse nelle sue parole quel vanitoso patriottismo.
    L'interprete tradusse queste parole a Napoleone senza la frase finale,
    e  Bonaparte  sorrise.  "Le  jeune  cosaque  fit  sourire son puissant
    interlocuteur" [26.  "Il giovane cosacco fece sorridere il suo potente
    interlocutore"]  osservò  Thiers.  Fatti  alcuni  passi  in  silenzio,
    Napoleone si volse a Berthier  e  gli  disse  che  desiderava  provare
    l'effetto  che  avrebbe prodotto "sur cet enfant du Don" [27.  su quel
    figlio del Don]  il  sapere  che  l'uomo  con  il  quale  parlava  era
    l'imperatore  in  persona,  quell'imperatore  che  aveva scritto sulle
    Piramidi il suo nome vittorioso e immortale.
    La notizia gli fu trasmessa.
    Lavruska,  comprendendo che  ciò  era  fatto  per  abbagliarlo  e  che
    Napoleone  pensava  che si sarebbe spaventato,  per ingraziarsi i suoi
    nuovi padroni, si finse stupito, sbalordito, stralunò gli occhi e fece
    lo stesso viso  che  soleva  fare  quando  lo  fustigavano.  "A  peine
    l'interprète  de  Napoléon",  dice  Thiers,  "avait-il  parlé,  que le
    cosaque,  saisi d'une sorte d'ébahissement ne proféra plus une  parole
    et marcha les yeux constamment attachés sur ce conquérant, dont le nom
    avait pénétré jusqu'à lui, à travers les steppes de l'Orient. Toute sa
    loquacité s'était subitement arrêtée,  pour faire place à un sentiment
    d'admiration naïve et silencieuse. Napoléon, après l'avoir récompensé,
    lui fit donner la liberté, comme à un oiseau qu'on rend aux champs qui
    l'ont vu naître" [28.  "Non  appena  l'interprete  di  Napoleone  ebbe
    parlato, il cosacco, colpito da una specie di sbalordimento, non disse
    più  una  parola  e  continuò  a camminare con gli occhi fissi su quel
    conquistatore il cui nome era giunto sino a lui attraverso  le  steppe
    dell'oriente.  Tutta  la  sua  loquacità si era arrestata di colpo per
    cedere il posto a un sentimento di ammirazione ingenua  e  silenziosa.
    Napoleone,  dopo averlo ricompensato, lo fece mettere in libertà, come
    un uccello che venia restituito ai campi che l'hanno visto nascere"].
    Napoleone procedette oltre,  sognando quella Mosca che tanto  occupava
    il suo pensiero,  e "l'oiseau qu'on rendit sur les champs qui l'ont vu
    naître", galoppò sino agli avamposti russi,  inventando,  in anticipo,
    tutto  ciò che non era accaduto e che avrebbe raccontato ai suoi.  Non
    voleva dire ciò che gli era realmente capitato perché non gli sembrava
    degno di essere raccontato.  Raggiunse i  cosacchi,  domandò  dove  si
    trovasse  il  suo  reggimento  che faceva parte del corpo di Platov e,
    verso sera,  trovò il suo padrone Nikolàj Rostòv,  che era di stanza a
    Jànkovo,  che  proprio allora era montato a cavallo per fare con Iliìn
    una passeggiata nei villaggi vicini.  Egli fece  dare  a  Lavruska  un
    cavallo e lo condusse con sé.


    CAPITOLO 8.

    La  principessina  Màrija  non era a Mosca lontana dal pericolo,  come
    supponeva il principe Andréj.
    Dopo il ritorno di Alpatyc' da Smolènsk,  il  vecchio  principe  parve
    improvvisamente risvegliarsi da un sogno. Ordinò di riunire le milizie
    dei  villaggi  e di armarle,  scrisse una lettera al generalissimo per
    informarlo della propria intenzione  di  restare  a  Lissia-Gori  sino
    all'ultimo e di difendersi, lasciando al giudizio di lui di prendere o
    meno  le  misure  necessarie  alla  difesa di Lissia-Gori dove sarebbe
    stato fatto prigioniero o ucciso uno dei più  vecchi  generali  russi.
    Poi comunicò ai familiari che non si sarebbe mosso da Lissia-Gori.
    Ma, pur rimanendo a Lissia-Gori, il principe prendeva disposizioni per
    mandare la principessina Màrija con Desalles e il piccolo principino a
    Boguciàrovo  da dove sarebbero proseguiti per Mosca.  La principessina
    Màrija,   spaventata  dall'attività  febbrile  e  insonne  del  padre,
    attività subentrata all'abbattimento precedente,  non sapeva decidersi
    a lasciarlo solo e,  per la prima volta nella vita,  si permise di non
    obbedirgli.  Rifiutò  di  partire,  e  allora  si scatenò su di lei la
    collera terribile del vecchio.  Egli le  ricordò  tutti  i  torti  che
    ingiustamente  le attribuiva;  cercando di accusarla,  le rinfacciò di
    tormentarlo,  di averlo messo in discordia  con  il  figlio,  di  aver
    concepito su di lui indegni sospetti,  di avere come unico scopo nella
    vita quello di avvelenargli l'esistenza,  e la  scacciò  dallo  studio
    dopo  averle  dichiarato  che a lui non importava affatto se non fosse
    partita. Aggiunse che non voleva sapere nulla della sua esistenza,  ma
    che l'avvertiva di non ardire più di comparirgli dinanzi. Il fatto che
    il padre,  contrariamente a quanto temeva la principessina Màrija, non
    le avesse imposto di partire per forza,  ma che si  fosse  limitato  a
    ordinarle  di  non  farsi più vedere da lui,  rallegrava la fanciulla.
    Ella sapeva che ciò significava che,  in fondo all'animo,  il  vecchio
    principe  era  contento  che  la figlia non abbandonasse la casa e non
    partisse.
    Il giorno successivo alla partenza di Nikòluska,  il vecchio  principe
    si  mise sin dal mattino in grande uniforme e si preparò a recarsi dal
    generalissimo. La carrozza era pronta. La principessina Màrija lo vide
    uscire di casa in divisa  con  tutte  le  decorazioni  e  scendere  in
    giardino  per  passare  in  rivista i contadini e i domestici.  Seduta
    accanto alla finestra,  ella tendeva  l'orecchio  alla  voce  di  lui.
    All'improvviso giunsero di corsa alcuni uomini con l'aria spaventata.
    La  principessina  scese per la scalinata nel viale del giardino.  Una
    gran folla di contadini veniva alla sua  volta:  tra  di  essi  alcuni
    uomini trascinavano, sostenendolo sotto le braccia, un piccolo vecchio
    in divisa e decorazioni. La principessina Màrija accorse verso di lui,
    e nel gioco dei minuscoli cerchietti di luce solare che chiazzavano il
    suolo,  attraverso  l'ombra  del  viale  dei tigli,  non poté rendersi
    subito conto del mutamento avvenuto in quel viso.  La  sola  cosa  che
    notò  fu  che  l'espressione severa e decisa del volto di suo padre si
    era trasformata in un'espressione di  timidezza  e  di  docilità.  Nel
    vedere  la figlia,  egli mosse appena le labbra ed emise una specie di
    rantolo.  Non era possibile capire che cosa  dicesse.  Lo  sollevarono
    sulle  braccia,  lo portarono nel suo studio e lo adagiarono su quello
    stesso divano che negli ultimi tempi gli incuteva tanta paura.
    Il medico,  chiamato quella stessa notte,  gli praticò  un  salasso  e
    dichiarò  che  il  principe  era stato colpito da una paralisi al lato
    destro.
    Restare a Lissia-Gori diventava sempre più  pericoloso,  e  il  giorno
    successivo il principe fu trasportato a Boguciàrovo.  Il dottore partì
    con lui.  Quando vi giunsero,  Desalles con il piccolo Nikolàj era già
    partito per Mosca.
    Sempre   nelle   stesse  condizioni,   senza  alcun  miglioramento  né
    peggioramento,  colpito dalla paralisi,  il vecchio principe rimase  a
    letto  tre  settimane a Boguciàrovo,  nella nuova casa fatta costruire
    dal principe Andréj.  Il vecchio era privo di conoscenza;  giaceva sul
    letto  immobile  come un cadavere.  Borbottava incessantemente qualche
    cosa, movendo le sopracciglia e le labbra, ma non si riusciva a sapere
    se comprendesse o no ciò che avveniva attorno a lui. Una sola cosa era
    certa: egli soffriva e desiderava dire qualcosa. Ma che cosa?  Nessuno
    poteva  indovinarlo:  si trattava del capriccio di un ammalato o di un
    seminfermo di  mente?  Ciò  che  voleva  dire  era  in  relazione  con
    l'andamento  generale  delle  cose oppure si riferiva a circostanze di
    famiglia? Il dottore assicurava che quell'irrequietezza che l'ammalato
    manifestava non significava nulla e che dipendeva unicamente da  cause
    fisiche;  ma  la  principessina  Màrija pensava (e il fatto che la sua
    presenza accresceva sempre l'agitazione del vecchio confermava le  sue
    supposizioni)  che egli volesse dire qualcosa a lei.  Era evidente che
    il vecchio soffriva, sia fisicamente, sia moralmente.
    Speranze di guarigione non ve n'erano.  Trasportarlo era  impossibile.
    Che sarebbe stato se fosse morto per via?  "Non sarebbe preferibile la
    fine immediata?",  pensava talvolta la principessina Màrija.  Ella  lo
    assisteva giorno e notte, senza quasi mai concedersi un po' di sonno e
    -   terribile a dirsi  -  spesso con la speranza non di trovare in lui
    qualche sintomo di miglioramento,  ma con il "desiderio" di  costatare
    qualche indizio di una fine vicina.
    Per quanto strano riuscisse alla principessina di riconoscere entro di
    sé tale sentimento,  esso tuttavia esisteva. E, cosa più terribile per
    lei,  era il costatare che da quando suo padre si era ammalato (se non
    forse  da prima,  da quando,  come se prevedesse qualcosa,  essa aveva
    voluto rimanere con lui),  le si erano ridestati  nell'anima  tutti  i
    desideri  e le speranze personali da tanto tempo dimenticati e sopiti.
    Cose che per anni non le erano passate per la mente,  il  pensiero  di
    una vita libera non ossessionata dalla paura del padre, il sogno di un
    possibile  amore  e  di  una  possibile felicità familiare le empivano
    incessantemente l'immaginazione come  una  tentazione  diabolica.  Una
    domanda,  per  quanto  essa cercasse di respingerla,  le tornava senza
    posa alla mente: come avrebbe organizzato la sua  vita  "dopo"?  Erano
    tentazioni  del demonio,  e la principessina Màrija lo sapeva.  Sapeva
    che l'unica arma contro di "lui" era la preghiera,  ed  essa  pregava.
    Inginocchiata davanti alle immagini sacre, le guardava, pronunziava le
    parole,  ma non riusciva a pregare. Si sentiva presa da un altro mondo
    dal mondo della vita, dell'operosità attiva e libera  -  assolutamente
    opposto a quel mondo morale entro il  quale  era  rimasta  chiusa  per
    tanto  tempo  e  nel  quale il miglior conforto era la preghiera.  Non
    poteva  né  pregare  né  piangere  e  le  preoccupazioni  della   vita
    l'assillavano senza posa.
    Restare a Boguciàrovo stava diventando pericoloso.  Si sentiva dire da
    tutte le parti che i  nemici  si  avvicinavano;  in  un  villaggio,  a
    quindici  miglia  da Boguciàrovo,  una villa era stata saccheggiata da
    predatori francesi.
    Il dottore insisteva sulla necessità di condurre  il  principe  in  un
    luogo  più lontano;  il maresciallo della nobiltà mandò un funzionario
    dalla principessina Màrija per supplicarla di partire al  più  presto;
    il capo della polizia,  recatosi a Boguciàrovo, insisteva nello stesso
    senso,  assicurando che i nemici erano ormai a  quaranta  miglia,  che
    proclami   francesi   circolavano   già  nei  villaggi  e  che  se  la
    principessina non fosse partita insieme con il padre prima del  giorno
    15,  egli non poteva più assumersi alcuna responsabilità. Il giorno 15
    la principessina si decise a partire.  Le cure  dei  preparativi,  gli
    ordini da impartire  -  tutti,  naturalmente,  si rivolgevano a lei  -
    l'occuparono per l'intera giornata.  Trascorse la notte dal 14 al  15,
    come  al solito senza svestirsi,  nella camera attigua a quella in cui
    giaceva il principe. Parecchie volte, destandosi, udì il respiro rauco
    e faticoso del vecchio, gli scricchiolii del letto,  i passi di Tichòn
    e del dottore che mutavano la posizione dell'infermo.  Parecchie volte
    origliò alla porta: le sembrava che quella notte suo padre borbottasse
    più forte e si  voltasse  più  spesso  del  solito.  Essa  non  poteva
    dormire; di tanto in tanto si accostava all'uscio e tendeva l'orecchio
    con  il desiderio di entrare,  ma senza decidersi a farlo.  Quantunque
    l'infermo non parlasse, ella sapeva quanto gli riuscisse sgradita ogni
    espressione di timore a  suo  riguardo;  aveva  pure  notato  come  si
    voltasse  stizzosamente dall'altra parte sotto il suo sguardo fisso su
    di lui,  talvolta involontariamente  ostinato.  Sapeva  che  se  fosse
    entrata in camera, di notte, in un'ora insolita, lo avrebbe irritato.
    Eppure  non  le era mai parso così terribilmente penoso il pensiero di
    doverlo perdere! Ricordava la propria vita con il padre, e in ogni sua
    parola,  in ogni suo atto  le  pareva  di  trovare  un'espressione  di
    affetto  paterno.   A  volte,   tra  quei  ricordi,  s'insinuavano  le
    tentazioni del demonio,  il pensiero di ciò che sarebbe stato dopo  la
    morte  di  lui,  di  come  ella  avrebbe organizzato la sua nuova vita
    indipendente.  Ma con disgusto scacciava da sé  quei  pensieri.  Verso
    l'alba, egli si calmò, ed essa prese sonno.
    Si  svegliò  tardi.  La  lucidità  di  mente che si manifesta al primo
    destarsi,  le mostrò chiaramente ciò  che  più  la  preoccupava  nella
    malattia del padre.  Svegliandosi,  tese l'orecchio a ciò che accadeva
    al di là dell'uscio e, sentendo il respiro rauco del malato,  si disse
    sospirando che nulla era mutato nelle condizioni del padre.
    - Ma che cosa dovrebbe essere successo?  Che cosa speravo? Io desidero
    la sua morte!  -  esclamò, piena di disgusto verso se stessa.
    Si vestì, si lavò, recitò le preghiere e uscì sulla scalinata. Davanti
    c'erano già le carrozze pronte,  senza cavalli,  in  cui  i  servitori
    stavano caricando i bagagli.
    Il  mattino era tiepido e grigio.  La principessina Màrija si fermò in
    cima alla scala continuando a pensare con orrore alla sua viltà morale
    e cercando di mettere ordine nei suoi pensieri,  prima di  entrare  in
    camera del padre.
    Il dottore, che scendeva allora le scale, le si fece accanto.
    -  Oggi  sta  meglio  -  le disse.   -  Vi cercavo.  Ora si può capire
    qualcosa di quello che dice,  la mente  è  più  libera.  Venite...  vi
    chiama.
    Il cuore della principessina Màrija, a quella notizia, prese a battere
    con  tale  violenza che impallidì e dovette appoggiarsi alla porta per
    non cadere. Vedere suo padre, parlargli,  restare sotto il suo sguardo
    proprio   ora,   mentre   aveva  l'anima  colma  di  quelle  colpevoli
    tentazioni, era per lei una cosa terribile e insieme le dava una gioia
    tormentosa.
    - Andiamo  -  ripeté il dottore.
    La principessina Màrija entrò nella camera del padre e si avvicinò  al
    letto.  Il vecchio principe giaceva sostenuto alla schiena da parecchi
    guanciali. Le mani, piccole e ossute, coperte di vene violacee, posate
    sulla coperta,  l'occhio sinistro aperto e  fisso  davanti  a  sé,  il
    destro  stravolto di lato,  le sopracciglia e le labbra immobili.  Era
    così magro, piccolo, miserevole! Il viso pareva disseccato e disfatto,
    i lineamenti più minuti.  La principessina Màrija gli baciò  la  mano.
    Con  la  sinistra  egli  strinse forte quella della figlia,  facendole
    capire con quel gesto che già da parecchio tempo l'aspettava.  Le tirò
    la  mano,  mentre  le  labbra  e  le sopracciglia ebbero un fremito di
    collera.
    Spaventata,  essa lo guardava,  cercando di indovinare  ciò  che  egli
    voleva da lei.  Quando,  mutata posizione,  gli si accostò in modo che
    con l'occhio sinistro egli poteva guardarla in  viso,  Il  vecchio  si
    calmò  e  per alcuni secondi non le tolse lo sguardo di dosso.  Poi le
    labbra e la lingua si  mossero,  si  udirono  alcuni  suoni,  ed  egli
    cominciò a parlare,  guardandola con un'espressione timida, implorante
    e timorosa, era chiaro, di non essere capito.
    La principessina Màrija lo fissava con ansiosa attenzione.  Lo  sforzo
    comico con cui egli rigirava la lingua,  la costrinse ad abbassare gli
    occhi e a stento soffocò i singhiozzi che le facevano nodo alla  gola.
    Egli  disse qualcosa,  ripetendo parecchie volte la stessa parola.  La
    principessina Màrija non riusciva a capire,  ma cercava di  indovinare
    ciò  che egli veniva dicendo,  e ripeteva interrogativamente le parole
    dette da lui.
    - L'a...l'a...du...du...   -   ripeté parecchie volte.
    Era assolutamente impossibile capire il significato di quei suoni.  Il
    dottore  credette  di avere indovinato e,  ripetendo,  domandò:  -  La
    principessina ha paura?   -   Egli  scosse  il  capo  negativamente  e
    riprese a pronunziare i medesimi suoni.
    - L'anima duole  -  indovinò e disse la principessina. Il vecchio ebbe
    un mugolio di conferma, le prese la mano e la premette successivamente
    su diversi punti del petto, come cercandole un posto giusto.
    -  Sempre pensieri...  di te...  pensieri...   -  riuscì poi a dire in
    modo assai più comprensibile,  ora che era certo di essere capito.  La
    principessina  Màrija  gli  premette  la  testa sulla mano cercando di
    nascondere le lacrime e di frenare i singhiozzi.
    Il principe le accarezzò i capelli.
    - Ti ho chiamata tutta la notte  -  disse.
    - Se l'avessi saputo!...   -  mormorò lei tra le lacrime.   -  Io  non
    osavo entrare...
    Egli le strinse la mano.
    - Tu non hai dormito?
    - No, non ho dormito  -  rispose la figlia, scuotendo negativamente il
    capo.  Sottomessa  suo malgrado al padre,  cercava ora di parlare come
    lui,  soprattutto a segni,  quasi che anche  per  lei  fosse  faticoso
    muovere la lingua.
    -  Anima  mia...  amica  mia...    -  La principessina Màrija non poté
    capire  bene,   ma  dall'espressione  dello  sguardo  del  vecchio  si
    indovinava  facilmente  che  egli  aveva  detto una parola affettuosa,
    tenera, quale non aveva mai pronunziato.  -  Perché non sei venuta?
    "E io  ho  desiderato,  ho  desiderato  la  sua  morte!",  pensava  la
    principessina Màrija.
    Per un po' egli tacque.
    -  Ti  ringrazio,  figliuola...  mia  cara,  ti  ringrazio  di tutto..
    Perdonami, grazie!  -  E le lacrime presero a colargli dagli occhi . -
    Chiamate Andrjuscia  -  disse a un tratto, e nel fare questa richiesta
    un'espressione infantile di timidezza e di sfiducia  gli  apparve  sul
    viso.  Pareva  che  egli stesso si rendesse conto dell'assurdità della
    sua richiesta, così almeno credette di capire la principessina Màrija.
    - Ho ricevuto una lettera da lui...  -  rispose la fanciulla.
    - Dove si trova?
    - E' con l'esercito, "mon père", a Smolènsk.
    Egli  tacque  a  lungo,  tenendo  gli  occhi  chiusi;  poi,  come  per
    rispondere  ai  propri  dubbi  e  per affermare che ora aveva capito e
    ricordava tutto, chinò affermativamente il capo e riaprì gli occhi.
    - Sì  -  disse distintamente,  in tono sommesso.    -    La  Russia  è
    perduta!  L'hanno  rovinata!   -  E riprese a singhiozzare,  mentre le
    lacrime gli rigavano il viso.  La figlia  non  poté  più  frenarsi  e,
    guardandolo, pianse anche lei.
    L'infermo abbassò le palpebre e si calmò.  Con la mano indicò i propri
    occhi e Tichòn, che comprese, gli asciugò le lacrime.
    Poi riaprì gli occhi e disse qualcosa che,  per un bel pezzo,  nessuno
    riuscì  a  capire;  finalmente  il  solo  Tichòn  capì  e  ripeté.  La
    principessina Màrija aveva cercato il senso di quelle sue parole nello
    stato d'animo con  cui  aveva  parlato  poco  prima.  Pensava  che  si
    riferissero  alla  Russia  oppure al principe Andréj oppure a lei,  al
    nipotino, alla propria morte e perciò non poteva indovinarle.
    - Mettiti il vestito bianco, mi piace...  -  disse.
    Quando ebbe compreso,  la principessina Màrija si mise a  singhiozzare
    più forte,  e il dottore, presala per un braccio, la fece uscire dalla
    stanza e la condusse  sulla  terrazza,  esortandola  a  calmarsi  e  a
    occuparsi dei preparativi della partenza.  Non appena la principessina
    si fu allontanata,  il vecchio ricominciò a parlare del figlio,  della
    guerra,  del sovrano,  aggrottò irritato le sopracciglia, alzò il tono
    della voce rauca e,  a quel  punto,  lo  colse  il  secondo  e  ultimo
    attacco.
    La principessina Màrija si era fermata sulla terrazza.  La giornata si
    era fatta bella, piena di sole,  calda.  Capiva,  non pensava a nulla,
    non  sentiva  altro  all'infuori  del  suo appassionato affetto per il
    padre,  quell'affetto che le sembrava di avere ignorato  sino  a  quel
    giorno.  Corse nel giardino,  e singhiozzando,  fuggì verso lo stagno,
    lungo il viale dei giovani tigli piantati dal principe Andréj.
    - Sì, io... io... io ho desiderato la sua morte! Sì, ho desiderato che
    tutto finisse presto... Volevo stare in pace...  E che sarà ora di me?
    Come  potrò  essere  tranquilla,  quando  egli  non  ci  sarà più?   -
    mormorava la principessina  Màrija,  percorrendo  a  rapidi  passi  il
    giardino  e serrando le mani sul petto,  dal quale erompevano convulsi
    singhiozzi.
    Dopo aver fatto un giro che la  ricondusse  verso  la  casa,  si  vide
    venire   incontro   "mademoiselle"   Bourienne   (che  era  rimasta  a
    Boguciàrovo, rifiutando di partire) con uno sconosciuto. Era costui il
    maresciallo della nobiltà  del  circondario,  venuto  in  persona  per
    persuaderla   della   necessità   di   una   partenza  immediata.   La
    principessina Màrija lo ascoltava senza capire;  lo  fece  entrare  in
    casa,  gli offrì la colazione e sedette accanto a lui. Poi, scusandosi
    con il maresciallo,  si avvicinò all'uscio della  camera  del  vecchio
    principe.  Il  dottore le uscì incontro con il viso turbato e le disse
    che non poteva entrare.
    - Andate, principessina, andate... andate!
    La principessina Màrija uscì di nuovo in giardino  e  andò  a  sedersi
    sull'erba,  presso  lo  stagno,  ai  piedi di un rialzo,  dove nessuno
    poteva vederla.  Non sapeva quanto tempo fosse rimasta là  allorché  i
    passi  di  una donna che correva sulla ghiaia del viale la riscossero.
    Si alzò e vide che Dunjascia,  la  sua  cameriera,  che  evidentemente
    veniva in cerca di lei,  si era di colpo fermata, come atterrita, alla
    vista della sua signorina.
    - Scusate,  principessina...  il principe...   -  disse Dunjascia  con
    voce spezzata.
    - Vengo, vengo subito!  -  esclamò la principessina Màrija, senza dare
    a  Dunjascia  il  tempo  di  dirle  ciò  che  doveva e cercando di non
    guardarla, corse verso casa.
    - Principessina,  la volontà di Dio si  compie...  voi  dovete  essere
    pronta  a  tutto    -   disse il maresciallo della nobiltà,  venendole
    incontro sulla porta dell'entrata.
    - Lasciatemi! Non è vero!  -  gridò lei, con voce aspra.
    Il dottore volle fermarla,  ma ella lo respinse e corse verso l'uscio.
    "Perché  mi  fermano  questi  uomini  dal  viso spaventato?  Io non ho
    bisogno di nessuno!  Che cosa fanno qui?".  Aprì,  e la luce viva  del
    giorno,  in quella camera prima semibuia,  la spaventò. C'erano alcune
    donne e la vecchia bambinaia.  Si scostarono  tutte  facendole  largo.
    Egli giaceva come prima,  sul letto,  ma la calma severa del suo volto
    fermò la principessina sulla soglia.
    "No...  non è morto!  Non è possibile che  sia  morto",  si  disse  la
    principessina Màrija. Si avvicinò al padre e, vincendo l'orrore da cui
    si   sentiva  presa,   gli  appoggiò  le  labbra  sulla  guancia.   Ma
    indietreggiò subito.  Tutta la forza della tenerezza che per lui aveva
    sentito nel suo cuore svanì di colpo, sostituita da un senso di orrore
    per  ciò  che le stava davanti: "No,  non c'è più!  Egli non c'è più e
    qui,  al suo posto,  c'è  una  cosa  estranea  e  nemica,  un  mistero
    terribile,  orrendo e ripugnante!". E, coprendosi il viso con le mani,
    la principessina Màrija cadde  tra  le  braccia  del  dottore  che  la
    sostenne.
    In  presenza di Tichòn e del dottore,  le donne lavarono quel che egli
    era stato, gli legarono con un fazzoletto la testa perché la bocca non
    rimanesse aperta e con un  altro  fazzoletto  legarono  le  gambe  che
    tendevano  ad  allargarsi.  Poi  lo  vestirono  con  la  divisa su cui
    brillavano le decorazioni e  lo  deposero,  piccolo  e  scarno,  sulla
    tavola  in mezzo alla stanza.  Dio sa chi e quando si occupò di queste
    cose, ma tutto sembrò compiersi da sé.  Verso sera,  attorno alla bara
    coperta da un drappo funebre, ardevano i ceri, sui pavimenti fu sparso
    del  ginepro;  sotto  il  capo scarno del morto fu posta una preghiera
    stampata,  e,  in un angolo,  sedeva  un  suddiacono  che  leggeva  il
    Salterio.
    Simili  ai cavalli che s'impennano e si agitano sbuffando davanti a un
    cavallo morto,  così nel salotto,  attorno alla bara,  si accalcava la
    gente,  familiari  ed  estranei:  il  maresciallo  della  nobiltà,  lo
    "stàrosta",  le donne.  E tutti,  con gli occhi  fissi,  spauriti,  si
    facevano  il  segno della croce,  si prosternavano e baciavano la mano
    fredda e inerte del vecchio principe.


    CAPITOLO 9.

    Boguciàrovo, prima che il principe Andréj andasse ad abitarvi,  era un
    possedimento trascurato,  e i contadini del luogo avevano un carattere
    assai diverso da quelli di Lissia-Gori, dai quali si distinguevano per
    il modo di parlare,  per il modo di vestire e per le abitudini.  Erano
    definiti  i  contadini  della  steppa,  e il vecchio principe,  che li
    lodava per la loro assiduità al lavoro quando venivano  a  Lissia-Gori
    per aiutare a fare il raccolto o per scavare stagni o fossati,  non li
    amava perché troppo rozzi e selvatici.
    L'ultimo soggiorno a Boguciàrovo del principe Andréj e le  innovazioni
    da lui attuate (ospedali, scuole, diminuzioni dei tributi) non avevano
    addolcito il loro carattere;  avevano,  anzi,  rafforzato in essi quei
    tratti che il vecchio principe definiva selvaggi. Tra loro circolavano
    di continuo voci vaghe ora sull'iscrizione in massa nei reggimenti dei
    cosacchi,  ora su una nuova religione alla quale si  sarebbero  dovuti
    convertire,  ora su certi proclami dello zar, ora sul giuramento fatto
    a Pavel Petrovic' (29) nell'anno 1797 (di  cui  dicevano  che  sin  da
    allora aveva concesso la libertà, ma che i signori l'avevano ritolta),
    ora del ritorno al regno,  entro sette anni, dello zar Pëtr Fëdorovic'
    (30),  sotto il quale tutto sarebbe stato libero e così  semplice  che
    non ci sarebbe più stato nulla.  Le voci sulla guerra,  su Bonaparte e
    sulle sue invasioni,  si confondevano per  loro  con  concetti  vaghi,
    riferentesi  all'Anticristo,  alla  fine del mondo e alla più assoluta
    libertà.
    Nei  dintorni  di  Boguciàrovo  esistevano  soltanto  grandi  villaggi
    demaniali  o  privati  a  conduzione  tributaria.  Pochissimi  erano i
    proprietari che vivessero in  quei  posti;  pochissimi  erano  pure  i
    domestici,  e  scarsi  coloro che sapessero leggere e scrivere.  Nella
    vita dei contadini di quella località erano più notevoli e  più  forti
    che  altrove quelle misteriose correnti della vita popolare russa,  le
    cui  origini  e  il   cui   significato   restano   inesplicabili   ai
    contemporanei.  Uno di tali fenomeni, verificatosi vent'anni addietro,
    fu un movimento di emigrazione, tra i contadini del luogo, verso certi
    fiumi caldi.  Centinaia di contadini,  tra cui quelli di  Boguciàrovo,
    cominciarono  improvvisamente a vendere il bestiame e ad andarsene con
    le famiglie verso sud-est.  Come gli uccelli volano al di là del mare,
    così  questa  gente si dirigeva con mogli e figli verso sud-est,  dove
    nessuno di loro era mai stato.  Partivano a carovane,  si riscattavano
    uno  alla volta,  fuggivano e,  a piedi o trasportati in qualche modo,
    andavano laggiù verso quegli sconosciuti  fiumi  caldi.  Molti  furono
    puniti e deportati in Siberia, molti morirono lungo il viaggio di fame
    o di freddo,  molti tornarono volontariamente indietro, e il movimento
    si estinse così di per  sé,  com'era  cominciato,  senza  una  ragione
    evidente.  Ma  le  correnti  sotterranee non cessarono di scorrere tra
    quelle genti, e serpeggiarono pronte a manifestarsi con forza maggiore
    sotto nuova forma,  in modo strano e inatteso,  ma nello stesso  tempo
    semplice,  naturale e vigoroso.  Ora,  nel 1812, per chi fosse vissuto
    vicino  al  popolo,   sarebbe  stato  evidente  che  quelle   correnti
    sotterranee  stavano  compiendo un intenso lavorio ed erano prossime a
    manifestarsi.
    Alpatyc',  giunto a Boguciàrovo poco prima  della  morte  del  vecchio
    principe,  notò  che  una certa agitazione serpeggiava tra il popolo e
    che,  contrariamente a ciò che accadeva nella regione di Lissia-Gori a
    una  distanza di sessanta miglia dove tutti i contadini se ne andavano
    abbandonando i loro villaggi al saccheggio dei  cosacchi,  qui,  nella
    regione  stepposa  di  Boguciàrovo,  i contadini,  a quanto si sentiva
    dire,  avevano rapporti con i Francesi,  dai  quali  ricevevano  certi
    foglietti  che  facevano circolare tra loro,  e non fuggivano affatto.
    Aveva saputo dai domestici a lui devoti  che  il  contadino  Karp,  il
    quale  aveva  grande  influenza sulla comunità rurale,  partito con un
    carro militare del governo,  era poi tornato  con  la  notizia  che  i
    cosacchi  devastavano i villaggi abbandonati dagli abitanti,  mentre i
    Francesi li rispettavano.  Venne anche a sapere che un altro contadino
    era  tornato da Visloùchovo  -  dove si trovavano i nemici  -  con una
    carta del generale francese,  in cui si dichiarava che  agli  abitanti
    non  sarebbe  stato  fatto  alcun male e che tutto ciò che fosse stato
    preso loro sarebbe stato pagato,  se fossero rimasti.  A prova di ciò,
    il  contadino  aveva  portato  con  sé  un  biglietto  da  cento rubli
    (ignorava che quel biglietto era falso) che gli era  stato  anticipato
    per il fieno.
    Infine,  e questa era la cosa più grave, Alpatyc' sapeva che il giorno
    stesso in cui aveva ordinato allo "stàrosta" di preparare  i  carretti
    per  il trasporto dei bagagli della principessina Màrija,  aveva avuto
    luogo al villaggio una riunione,  in cui era stato deciso di  non  far
    partire i carri e di aspettare.  Ma il tempo stringeva. Il maresciallo
    della  nobiltà,  il  15  agosto,  giorno  della  morte  del  principe,
    insisteva  affinché  la  principessina  Màrija partisse immediatamente
    giacché la permanenza costituiva un pericolo. Dichiarava che,  dopo il
    giorno 16,  non rispondeva più di nulla.  Partito la sera stessa della
    morte del principe,  aveva promesso di  tornare  per  i  funerali,  il
    giorno dopo, ma il giorno dopo non era potuto tornare giacché, secondo
    quanto   egli   stesso   aveva  saputo,   i  Francesi  erano  avanzati
    inaspettatamente,  ed egli aveva fatto appena in tempo  a  portar  via
    dalla sua proprietà la famiglia e gli oggetti di valore.
    Da  una  trentina d'anni Boguciàrovo era amministrato dallo "stàrosta"
    Dron, che il vecchio principe chiamava amichevolmente Drònuska.
    Dron era uno di quei contadini,  forti moralmente e  fisicamente  che,
    giunti alla maturità,  si lasciano crescere la barba e poi vivono sino
    a sessanta o settant'anni, senza neanche un capello bianco e con tutti
    i denti, diritti e robusti a sessanta come a trent'anni.
    Dron,  poco dopo l'emigrazione verso i fiumi caldi,  alla quale  aveva
    preso parte con gli altri, era stato nominato "stàrosta" a Boguciàrovo
    e  da allora,  per ventidue anni,  aveva ricoperto lodevolmente quella
    carica. I contadini lo temevano più del padrone. I signori, il vecchio
    principe, il giovane, e l'amministratore lo stimavano e scherzosamente
    lo chiamavano il ministro. In tutto il periodo della sua carica,  Dron
    non era mai stato né ubriaco né malato; mai, né dopo notti insonni, né
    dopo  qualsiasi fatica,  aveva mostrato la benché minima stanchezza e,
    pur non sapendo  né  leggere  né  scrivere,  non  c'era  pericolo  che
    dimenticasse  il  conto  dei denari o dei "pud" di farina degli enormi
    carri che vendeva,  o un solo covone di grano prodotto  dai  campi  di
    Boguciàrovo.
    Alpatyc',  giungendo dalla devastata Lissia-Gori,  lo fece chiamare il
    giorno del funerale del principe e  gli  ordinò  di  preparare  dodici
    cavalli  per  le  carrozze della principessina e diciotto carri per il
    trasporto dei bagagli.  Sebbene i contadini di  Boguciàrovo  pagassero
    tutti  il  canone,  l'esecuzione di quegli ordini non poteva sollevare
    alcuna  difficoltà,  secondo  l'opinione  di  Alpatyc',   giacché  nel
    villaggio  vivevano  duecento  famiglie  e  i  contadini  erano  tutti
    abbastanza agiati.  Ma lo "stàrosta" Dron,  dopo  aver  ascoltato  gli
    ordini  in  silenzio,  abbassò  gli occhi.  Alpatyc' gli nominò alcuni
    contadini che conosceva  e  dai  quali  gli  ordinava  di  prendere  i
    cavalli.
    Dron rispose che i cavalli di quei contadini erano al lavoro. Alpatyc'
    citò  altri  nomi.  Anche  questi,  secondo quanto asseriva Dron,  non
    avevano cavalli disponibili: alcuni erano stati ceduti al governo  per
    trainare  i  carri  militari,  altri  erano troppo mal ridotti,  altri
    ancora erano morti per mancanza di foraggio. Secondo il parere di Dron
    era impossibile trovare i cavalli non solo per i carri, ma neppure per
    le carrozze.
    Alpatyc' fissò Dron e aggrottò le sopracciglia.  Come Dron era  sempre
    stato uno "stàrosta"-contadino modello, così Alpatyc' da vent'anni non
    aveva  amministrato  invano  i  possedimenti  del principe,  ed era un
    amministratore esemplare.  Abile al massimo grado nel  comprendere  al
    fiuto le necessità e gli istinti della gente con cui aveva a che fare,
    era  perciò  un ottimo amministratore.  Data un'occhiata a Dron,  egli
    comprese subito che le risposte di lui non erano l'espressione di  ciò
    che  pensava,  ma  piuttosto  l'espressione  dell'umore generale della
    comunità di Boguciàrovo, che ormai aveva contagiato lo "stàrosta".  Ma
    nello  stesso tempo sapeva che quel Dron,  arricchitosi nell'esercizio
    delle sue funzioni e odiato dai contadini,  doveva tentennare  tra  le
    due  parti,  quella  dei  contadini e quella dei padroni.  Notata tale
    esitazione  nello  sguardo  dello  "stàrosta",  Alpatyc'  aggrottò  le
    sopracciglia e gli si avvicinò:
    -  Senti,  Drònuska  -  gli disse.   -  Non raccontarmi fandonie.  Sua
    eccellenza il principe  Andréj  Nikolàevic'  ha  dato  ordine  di  far
    partire tutti quanti e di non lasciar nessuno qui con il nemico.  Così
    vuole lo zar. Chi rimane è un traditore dello zar. Mi senti?
    - Sissignore  -  rispose Dron, senza alzare gli occhi.
    Alpatyc' non si accontentò di quella risposta.
    - Ehi, Dron, andrà male!  -  disse Alpatyc', scotendo la testa.
    - Come volete...  -  rispose Dron in tono triste.
    - Ehi, Dron,  adesso basta!   -  ripeté Alpatyc',  traendo la mano dal
    petto e indicando con gesto solenne il piancito sotto i piedi di Dron.
    -  Non soltanto ti vedo dentro da parte a parte,  ma anche tre braccia
    sotto  -  aggiunse, continuando a fissare il piancito sotto i piedi di
    Dron.
    Dron si confuse,  lanciò un'occhiata fuggevole ad Alpatyc' e di  nuovo
    abbassò gli occhi.
    -  Lascia  da  parte  le  sciocchezze e di' al popolo che si prepari a
    partire per Mosca e che per domani siano pronti i carri per i  bagagli
    della  principessina.  E  tu  non  andare all'assemblea dei contadini.
    Intesi?
    Improvvisamente Dron gli cadde davanti in ginocchio.
    - Jakov Alpatyc', dispensami! Toglimi le chiavi, ma liberami da questo
    incarico, per amor di Cristo!
    - Smettila!  -  proferì severamente Alpatyc'.   -  Vedo dentro di te e
    sotto di te  -  ripeté,  sapendo che la sua abilità di apicultore,  il
    suo talento nel seminare l'avena e l'aver meritato  per  vent'anni  la
    stima  del  vecchio  principe  gli avevano procurato da molto tempo la
    reputazione di stregone e sapendo inoltre che la  capacità  di  vedere
    tre braccia sotto un uomo era attribuita appunto agli stregoni.
    Dron si alzò e si accinse a dire qualcosa, ma Alpatyc' lo interruppe.
    - Cosa diavolo avete inventato, eh? Cosa credete? Sentiamo...
    -  Cosa  posso  fare con quella gente?   -  domandò Dron.   -  Si sono
    addirittura ribellati. Io dico loro che...
    - Già,  già...  Si ubriacano,  non è vero?    -    domandò  brevemente
    Alpatyc'.
    -  Si  sono  tutti  ribellati,  Jakov  Alpatyc',  e dianzi hanno fatto
    portare un'altra botte.
    - Ebbene,  senti: io andrò dal capo della  polizia,  e  tu  ordina  ai
    contadini di smetterla e di preparare i carri.
    - Sissignore  -  rispose Dron.
    Jakov  Alpatyc'  non  insisté  oltre.  Da  molto  tempo  comandava dei
    contadini e sapeva che il miglior mezzo per farli ubbidire  consisteva
    nel  mostrare  di  non  dubitare minimamente che si possa disubbidire.
    Ottenuto da Dron quel docile  "Sissignore",  Alpatyc'  si  accontentò,
    quantunque fosse quasi certo che,  senza l'aiuto dei soldati,  i carri
    non sarebbero stati pronti.
    E  infatti,  venuta  la  sera,  i  carri  non  erano  stati  radunati.
    Nell'osteria  del  villaggio  aveva  avuto di nuovo luogo una riunione
    durante la quale era stato deciso di  cacciare  tutti  i  cavalli  nel
    bosco  e  di  non  fornire  i  carri  richiesti.  Senza dir nulla alla
    principessina della faccenda, Alpatyc' fece scaricare i propri bagagli
    trasportati da Lissia-Gori e ordinò di  impiegare  i  cavalli  per  la
    carrozza della principessina. Poi si recò dalle autorità.


    CAPITOLO 10.

    Dopo i funerali del padre, la principessina Màrija si chiuse nella sua
    camera dove non permise a nessuno di entrare. La cameriera si avvicinò
    all'uscio  per  dirle  che Alpatyc' era venuto a chiedere disposizioni
    per la partenza.  (Questo era accaduto prima della  conversazione  con
    Dron).  La principessina si alzò dal divano sul quale si era distesa e
    attraverso l'uscio disse che non aveva alcuna intenzione di partire  e
    pregò che la lasciassero in pace.
    Le  finestre  della  camera,  nella  quale  la  principessina  si  era
    coricata, guardavano a occidente.  La fanciulla giaceva sul divano con
    il  viso  volto  verso la parete e,  girando e rigirando tra le dita i
    bottoni di un cuscino di cuoio, non vedeva che quel cuscino,  mentre i
    suoi   confusi   pensieri   erano   tutti  concentrati  in  due  soli:
    l'irrevocabilità della morte e la propria bassezza morale di cui  sino
    allora  non  si  era  resa  conto  e che le si era rivelata durante la
    malattia del padre.  Voleva pregare e  non  osava;  non  osava,  nelle
    condizioni  di  spirito in cui si trovava,  rivolgersi a Dio.  A lungo
    rimase sdraiata sul divano.
    Il sole che tramontava dall'altra parte della casa,  con i suoi  raggi
    obliqui illuminò, attraverso le finestre aperte, la stanza e parte del
    cuscino  di  marocchino  sul  quale la principessina Màrija fissava lo
    sguardo.  Il corso dei suoi pensieri a un tratto si arrestò.  Ella  si
    sollevò inconsciamente, si ravviò i capelli, si alzò e si accostò alla
    finestra,  aspirando  suo malgrado la frescura della sera limpida,  ma
    ventosa.
    "Sì, ora ti è comodo stare ad ammirare il crepuscolo!  Lui non c'è più
    e  nessuno te lo impedisce!",  disse a se stessa e,  abbandonandosi su
    una sedia, appoggiò la testa sul davanzale.
    Qualcuno, con voce affettuosa e sommessa,  la chiamò dal giardino e la
    baciò  sui capelli.  Si voltò a guardare: era "mademoiselle" Bourienne
    vestita a lutto in abito nero listato  di  bianco,  che,  avvicinatasi
    pian piano alla principessina Màrija, trasse un profondo sospiro e poi
    scoppiò in lacrime.  La principessina la guardò. Tutti i contrasti che
    aveva avuto con lei,  la gelosia che l'aveva tormentata,  le tornarono
    alla  mente;  ricordò come negli ultimi tempi "lui" fosse mutato verso
    la francese, come non la potesse più soffrire e come,  forse,  fossero
    stati  ingiusti  i  rimproveri  che ella in cuor suo le aveva rivolti.
    "D'altronde tocca  a  me,  a  me  che  ho  desiderato  la  sua  morte,
    giudicare?", si chiedeva.
    La  principessina  Màrija  immaginò  la  situazione  di "mademoiselle"
    Bourienne, che in quegli ultimi tempi aveva tenuto a distanza,  ma che
    dipendeva  pur  sempre da lei e che era costretta a vivere in una casa
    di   estranei.    Ne   ebbe   pietà.    La   guardò   con    dolcezza,
    interrogativamente,  e  le  tese  la  mano.  "Mademoiselle"  Bourienne
    riprese subito a piangere,  si mise a baciarle la mano,  a parlare del
    dolore che aveva colpito lei, la principessina, e della partecipazione
    che  prendeva  a quel dolore.  Disse che sua unica consolazione era la
    speranza che la principessina le consentisse  di  dividerlo  con  lei;
    disse inoltre che tutti i malintesi di un tempo dovevano scomparire di
    fronte al dolore,  dichiarò di sentirsi pura davanti a chiunque, certa
    che dal di là egli vedeva il suo affetto e  la  sua  riconoscenza.  La
    principessina   udiva  quelle  parole  senza  comprenderle  e  intanto
    guardava la Bourienne e ascoltava il suono della sua voce.
    - La vostra situazione, cara principessina, è doppiamente terribile  -
    disse la Bourienne dopo un  breve  silenzio.    -    Capisco  che  non
    possiate e non vogliate pensare a voi stessa ma io,  per l'affetto che
    vi porto,  devo farlo...  Avete visto Alpatyc'?  Vi ha  parlato  della
    partenza?  -  domandò.
    La principessina Màrija non rispose. Non capiva chi dovesse partire, e
    dove dovesse andare.  "Era forse possibile, in un momento come quello,
    pensare a qualche cosa,  prendere qualche  decisione?  Non  era  forse
    tutto indifferente?". Non rispose.
    -  Voi  sapete,  vero,  "ma  chère  Marie"  -  continuò "mademoiselle"
    Bourienne  -   che  siamo  in  pericolo,  che  siamo  accerchiati  dai
    Francesi?  Partire  in  questo momento è pericoloso...  Se partissimo,
    quasi certamente saremmo fatte prigioniere, e Dio sa...
    La principessina Màrija guardava l'amica senza  capire  ciò  che  ella
    diceva.
    -  Ah,  se  qualcuno  sapesse  come  tutto  ora mi è indifferente!   -
    esclamò.   -  Naturalmente,  a nessun  costo  vorrei  allontanarmi  da
    lui...  Alpatyc'  mi  ha  detto qualcosa a proposito della partenza...
    Parlatene pure con lui, io non posso e non voglio...
    - Gli ho già parlato. Spera che saremo ancora in tempo a farlo domani,
    ma io ritengo che ormai sarebbe più prudente rimanere qui   -    disse
    "mademoiselle"  Bourienne.    -  Perché,  convenitene,  "chère Marie",
    cadere durante il viaggio nelle  mani  dei  soldati  o  dei  contadini
    ribelli sarebbe orribile!
    "Mademoiselle"  Bourienne  trasse  dalla  sua  borsetta  e  porse alla
    principessina un proclama (non stampato sulla solita carta russa)  del
    generale francese Rameau,  che esortava gli abitanti a non abbandonare
    le  case  e  assicurava  loro  la  dovuta  protezione  delle  autorità
    francesi.
    -  Penso  che  sarebbe  meglio  rivolgersi a questo generale  -  disse
    "mademoiselle" Bourienne,   -  sono certa che sarete trattata  con  il
    dovuto rispetto.
    La principessina Màrija lesse il proclama,  e singhiozzi senza lacrime
    le squassarono il petto.
    - Da chi lo avete avuto?  -  domandò.
    - Probabilmente avranno saputo dal nome che sono francese  -  rispose,
    arrossendo, "mademoiselle" Bourienne.
    La principessina Màrija,  con il  foglio  in  mano,  si  staccò  dalla
    finestra e pallida in viso uscì dalla stanza e passò in quella che era
    stata lo studio del principe Andréj.
    -  Dunjascia,  chiamatemi Alpatyc',  Drònuska,  qualcuno...  e dite ad
    Amalia Kàrlovna che non venga da me  -  disse,  udendo la  voce  della
    Bourienne.   -  Bisogna partire! Partire subito!  -  diceva, atterrita
    al pensiero che sarebbe potuta rimanere in balia dei Francesi.
    "Se il principe Andréj avesse saputo che sua sorella era in potere dei
    Francesi!   Che  lei,   la  figlia  del  principe  Nikolàj  Andréevic'
    Bolkonskij,  aveva  chiesto  al  generale  Rameau di accordarle la sua
    protezione e avesse approfittato della benevolenza di lui!". Un simile
    pensiero la riempiva di orrore,  la faceva  tremare,  arrossire  e  le
    provocava scatti di sdegno e di orgoglio sino allora mai provati.
    Le  si  presentò  alla  mente  tutto  ciò  che  vi  era  di  penoso  e
    soprattutto, di offensivo nella sua condizione.
    "I Francesi si stabiliranno in questa casa;  il signor generale Rameau
    occuperà  lo  studio  del principe Andréj;  per divertirsi sfoglierà e
    leggerà le sue carte e le sue  lettere.  "Mademoiselle  Bourienne  lui
    fera  les  honneurs a Boguciàrovo!" [31.  "Mademoiselle" Bourienne gli
    farà gli onori di casa a Boguciàrovo]. A me si concederà,  per grazia,
    una  stanzetta;  i  soldati  profaneranno la tomba ancor fresca di mio
    padre per togliergli le decorazioni. Mi descriveranno le loro vittorie
    sui Russi e fingeranno di provar pena del mio dolore...",  pensava  la
    principessina Màrija,  non con pensieri suoi,  ma sentendosi in dovere
    di pensare con  quelli  di  suo  padre  e  di  suo  fratello.  A  lei,
    personalmente,  era  indifferente  dove  sarebbe rimasta e che cosa le
    sarebbe accaduto,  ma si sentiva anche  la  rappresentante  del  padre
    defunto  e  dei principe Andréj.  Senza rendersene conto pensava con i
    loro pensieri e  sentiva  con  i  loro  sentimenti.  Sentiva  che  era
    necessario fare e dire ciò che ora essi avrebbero fatto e detto. Entrò
    nello  studio  del principe Andréj e,  cercando di immedesimarsi nello
    spirito di lui, cominciò a riflettere sulla propria situazione.
    Le esigenze della vita,  che considerava  annullate  dalla  morte  del
    padre,  si  erano a un tratto ridestate in lei e la dominavano con una
    forza nuova e sconosciuta.
    Emozionata,  rossa in volto,  camminava per la stanza,  ora  chiamando
    Alpatyc',  ora Michaìl Ivànovic',  ora Tichòn, ora Dron. Dunjascia, la
    vecchia governante,  e le altre cameriere non erano in grado di  dirle
    sino  a  qual  punto  fossero  esatte le affermazioni della Bourienne.
    Alpatyc' era  uscito:  si  era  recato  dalle  autorità.  L'architetto
    Michaìl  Ivànovic',  che  la  principessina  aveva fatto chiamare,  si
    presentò a lei con gli occhi assonnati e non seppe dirle nulla. Con lo
    stesso sorriso di approvazione con il quale, da ben quindici anni, era
    abituato a rispondere senza mai esprimere  la  propria  opinione  alle
    parole del vecchio principe,  rispose alle domande della principessina
    Màrija,  cosicché nulla di  preciso  fu  possibile  trarre  dalle  sue
    risposte.  Il  vecchio  cameriere  Tichòn,  chiamato  anch'esso  dalla
    principessina,  con una faccia stanca e triste che portava  l'impronta
    di un dolore inguaribile, rispondeva soltanto: "Sissignora" a tutte le
    domande che gli rivolgeva la padrona e, guardandola, riusciva a stento
    a frenare i singhiozzi.
    Entrò  finalmente  nella  stanza  lo "stàrosta" Dron che,  inchinatosi
    profondamente, rimase immobile accanto all'uscio.
    La principessina attraversò la stanza e si fermò di fronte a lui.
    - Drònuska  -  gli disse la fanciulla,  che vedeva  in  lui  un  amico
    fidato, quel Drònuska che ogni anno, di ritorno dalla fiera di Vjazma,
    le portava i suoi panpepati speciali che le offriva con un sorriso.  -
    Drònuska, adesso, dopo la sventura che ci ha colpiti...  -  cominciò a
    dire ma subito tacque, incapace di continuare.
    -  Siamo  tutti  nelle mani di Dio  -  rispose con un sospiro Dron.  E
    rimasero entrambi in silenzio.
    - Drònuska,   -  riprese la principessina  -  Alpatyc' è andato non so
    dove, non ho nessuno a cui rivolgermi. Dicono che non posso partire, è
    vero?
    -  Perché  non  potete partire,  eccellenza?  Lo potete,  certo che lo
    potete  -  rispose Dron.
    - Mi hanno assicurato che è pericoloso per via dei nemici.  Amico mio,
    io  non  posso  far  nulla,  non  capisco nulla,  e sono sola.  Voglio
    assolutamente partire questa notte stessa o domattina presto.
    Dron tacque e guardò di sfuggita la principessina.
    - Non ci sono cavalli  -  rispose.   -  L'ho già detto anche  a  Jakov
    Alpatyc'.
    - Come mai non ce ne sono?  -  domandò la principessina.
    - E' tutto per castigo di Dio  -  rispose Dron.  -  Di tutti i cavalli
    che  c'erano,  alcuni  sono stati requisiti dall'esercito,  altri sono
    crepati.  Quest'anno è andata così.  Non a dar da mangiare ai  cavalli
    dobbiamo pensare,  ma a non morire di fame noi.  C'è gente che è stata
    tre giorni senza toccar cibo. Non c'è più nulla: ci hanno rovinati...
    La principessina Màrija ascoltava attentamente ciò che Dron le diceva.
    - I contadini sono rovinati? Non hanno più grano?  -  domandò.
    - Muoiono di fame  -  confermò Dron;  -  non è che manchino i carri...
    - Ma perché non me  l'hai  detto,  Drònuska?  Non  è  forse  possibile
    aiutarli? Farò tutto ciò che posso...
    Pareva  strano alla principessina Màrija che ora,  proprio nel momento
    in cui un dolore così forte le riempiva l'anima, esistesse gente ricca
    e gente povera e che i ricchi non potessero aiutare i  poveri.  Sapeva
    confusamente, per averlo sentito dire, che il grano padronale talvolta
    veniva distribuito ai contadini.  Sapeva anche che né suo fratello, né
    suo padre avrebbero abbandonato i contadini nel momento  del  bisogno;
    temeva  soltanto  di  commettere  qualche  errore  parlando  di questa
    distribuzione di grano che intendeva ordinare.  Era contenta che le si
    presentasse  un  pretesto per occuparsi di qualche cosa che le facesse
    dimenticare, senza doversene vergognare, il suo dolore.  Chiese a Dron
    particolari  sulle  necessità dei contadini e su ciò che a Boguciàrovo
    apparteneva al padroni.
    - In casa c'e del grano personale di mio fratello, vero?  -  domandò.
    - Il grano padronale è intatto  -   rispose  con  una  certa  fierezza
    Dron.  -  Il nostro principe non ha dato ordine di venderlo.
    - Distribuiscilo ai contadini,  distribuisci tutto quello di cui hanno
    bisogno.  Te lo  ordino  in  nome  di  mio  fratello    -    disse  la
    principessina Màrija.
    Dron non rispose e trasse un profondo sospiro.
    -  Tu distribuisci loro quel grano,  se è sufficiente;  distribuiscilo
    tutto.  Ti ripeto: te lo ordino in nome di  mio  fratello.  E  di'  ai
    contadini  che  ciò  che  è  nostro  è  anche loro.  Non rimpiangeremo
    nulla... Diglielo!
    Dron fissava la principessina mentre ella parlava.
    - Dispensami, in nome di Dio, eccellenza,  e da' disposizioni affinché
    io  non  debba  più  tenere  le  chiavi  -  pregò.   -  Ho servito per
    ventitré anni e non ho mai fatto nulla di male. Dispensami,  per amore
    di Dio!
    La  principessina  Màrija non capiva che cosa egli volesse da lei e da
    che cosa pregava di essere dispensato.  Gli rispose che non aveva  mai
    dubitato  della  sua  devozione e che era pronta a fare qualsiasi cosa
    per lui e per i contadini.


    CAPITOLO 11.

    Un'ora dopo  Dunjascia  si  recò  dalla  principessina  portandole  la
    notizia  che Dron era venuto con tutti i contadini e che,  secondo suo
    ordine, li aveva riuniti presso il granaio.  Essi desideravano parlare
    con la padrona.
    -  Ma  io  non  li ho fatti chiamare  -  obiettò la principessina;  ho
    soltanto detto a Drònuska di distribuire il grano.
    - Per amor di Dio, principessina, date ordine che li mandino via e non
    andate da loro. E' tutto un inganno  -  le diceva Dunjascia.  -  Jakov
    Alpatyc' tornerà, e noi partiremo... Intanto non fate...
    - Che inganno?  -  domandò stupita la principessina.
    - So quello che dico,  e voi datemi ascolto,  per amor di  Dio!  Ecco,
    domandatelo  anche  alla  governante.  Dicono  che  non acconsentono a
    partire, nonostante il vostro ordine.
    - Tu certo ti confondi.  Io non ho  dato  ordine  che  partissero    -
    rispose la principessina Màrija.  -  Chiamami Drònuska.
    Dron  venne  a  confermare  le  parole di Dunjascia: i contadini erano
    venuti per ordine della principessina.
    - Ma io non li ho fatti chiamare  -  obiettò ella.   -  Tu  hai  forse
    riferito  male  le  mie  parole.  Ho  detto soltanto di distribuire il
    grano.
    Dron non rispose e si limitò a sospirare.
    - Se l'ordinate, se ne andranno.
    - No, no, andrò io da loro.
    Nonostante  le  suppliche  di  Dunjascia  e   della   governante,   la
    principessina uscì sulla scalinata. Drònuska, Dunjascia, la governante
    e Michaìl Ivànovic' la seguirono.
    "Essi  certamente  credono che io offra loro il grano perché rimangano
    qui,  al loro posto,  mentre io parto,  abbandonandoli  in  balia  dei
    Francesi.  Prometterò  loro viveri per un mese e l'alloggio nei nostri
    poderi presso Mosca; sono convinta che Andréj,  al posto mio,  farebbe
    anche  di  più",  pensava  la  principessina mentre,  tra le ombre del
    crepuscolo, si avvicinava alla folla che aspettava davanti al granaio.
    La folla si agitò accalcandosi,  mentre tutte le teste  si  scoprivano
    rapidamente.  La  principessina  Màrija,  tenendo  gli  occhi  bassi e
    incespicando nella gonna,  si avvicinò ai contadini.  Erano tanti  gli
    occhi di vecchi e di giovani fissi su di lei,  ed erano tante le facce
    diverse che ella,  sulle prime,  non ne distingueva nessuna e,  poiché
    sentiva  la necessità di parlare a tutta quella gente,  non sapeva che
    fare.  Ma di nuovo la consapevolezza di rappresentare in quel  momento
    il  padre  e il fratello le diede forza,  e coraggiosamente cominciò a
    parlare.
    - Sono lieta  -  prese a dire,  senza alzare gli  occhi  e  sentendosi
    battere  il  cuore  precipitosamente e con forza  -  che siate venuti.
    Drònuska mi ha detto che la guerra vi ha rovinati. E' una sventura che
    ci accomuna,  e io non risparmierò nulla per aiutarvi.  Parto anch'io,
    perché  rimanere  qui  è  pericoloso...  perché  il nemico è vicino...
    perché... Vi darò tutto,  amici miei,  e vi prego di prendere tutto il
    nostro  grano,  affinché  non  dobbiate  trovarvi  nel  bisogno.  E se
    qualcuno vi ha detto che io vi darò il grano a patto che voi  restiate
    qui, sappiate che ciò non corrisponde a verità. Al contrario, vi prego
    di  partire  con  tutto  ciò  che  possedete e di recarvi nella nostra
    proprietà presso Mosca.  Mi prendo l'impegno e vi prometto che là  non
    vi mancherà nulla. Vi saranno dati alloggio e pane...
    La  principessina  si  interruppe.  Tra  la  folla  non si udivano che
    sospiri.
    - Non lo faccio a nome mio,   -  proseguì la principessina  -   ma  lo
    faccio  a nome del mio defunto padre che è stato per voi un buon padre
    e a nome di mio fratello e di suo figlio.
    Ancora una volta si interruppe e ancora una volta nessuno parlò.
    - La nostra sventura è comune,  e tutto sarà equamente  diviso.  Tutto
    ciò  che  è  mio,  è  vostro   -  soggiunse,  guardando i volti che le
    stavano davanti.
    Tutti gli occhi erano fissi su di lei con una identica espressione  di
    cui  non riusciva a capire il significato.  Era curiosità,  devozione,
    gratitudine oppure sgomento e diffidenza?  Comunque,  l'espressione di
    quelle facce era identica.
    - Siamo molto contenti dei vostri favori,  ma non dobbiamo prendere il
    grano padronale  -  disse una voce alle sue spalle.
    - Ma perché?  -  domandò la principessina.
    Nessuno rispose,  e la principessina,  guardando la  folla,  notò  che
    adesso  tutti  gli occhi,  quando incontravano i suoi,  si abbassavano
    immediatamente.
    - Ma perché, perché non volete?  -  insisté.
    Nessuno rispose.
    Questo silenzio cominciò a diventarle penoso.  Cercò di  afferrare  lo
    sguardo di qualcuno.
    -  Perché  non  parlate?   -  domandò,  rivolgendosi a un vecchio che,
    appoggiato al bastone, le stava davanti.  -  Dimmi tu se avete bisogno
    di qualcos'altro.  Io farò tutto  -  disse,  cogliendo lo  sguardo  di
    lui.  Ma il vecchio, come irritato per questo fatto, abbassò il capo e
    rispose:
    - Perché dovremmo accettare? Non abbiamo bisogno di pane...
    - Perché dovremmo abbandonare tutto? Non siamo d'accordo...  non siamo
    d'accordo.  Nessuno  di  noi è d'accordo.  Noi ti compiangiamo,  ma il
    nostro consenso non c'è. Parti tu, parti tu sola...  -  si udì dire da
    varie parti tra la folla.  E di nuovo,  su tutti quei  visi,  comparve
    un'identica espressione: non era più, ora, un'espressione di curiosità
    e di gratitudine, ma di decisione irosa e irrevocabile.
    -  Ma forse non mi avete capita bene  -  insisté con un sorriso triste
    la principessina.   -  Perché  non  volete  partire?  Vi  prometto  di
    alloggiarvi, di nutrirvi. Qui il nemico vi rovinerebbe...
    Ma la sua voce fu coperta da quella della folla.
    -  Non  vogliamo  partire!  Lascia  pure che il nemico ci rovini!  Non
    accettiamo il tuo grano, no, non lo accettiamo!
    La principessina Màrija tentò ancora di cogliere qualche  sguardo  tra
    la folla,  ma nessuno era diretto a lei;  gli occhi di tutti evitavano
    evidentemente di incontrarsi con i suoi.  Provò uno  strano  senso  di
    disagio.
    - Vedi,  eh,  come ci insegna bene!  Ad andar dietro a lei in servitù!
    Butta giù le case e va' a metterti al giogo! E come no? E io, dice, vi
    darò il grano!  -  risonarono alcune voci tra la folla.
    La principessina Màrija,  a testa bassa,  uscì dal gruppo  e  tornò  a
    casa. Dopo aver ripetuto a Dron l'ordine di preparare i cavalli per la
    partenza  del mattino successivo,  andò nella sua stanza e rimase sola
    con i suoi pensieri.


    CAPITOLO 12.

    Quella notte la principessina Màrija rimase a lungo seduta  presso  la
    finestra  della  sua  camera,  ad  ascoltare  il brusio delle voci del
    contadini,  che giungevano sino a lei dal villaggio,  ma non pensava a
    quella  gente.  Sentiva  che,  per quanto ci avesse ragionato su,  non
    sarebbe riuscita a comprenderla. Pensava a una cosa soltanto, alla sua
    sventura che ora, dopo quell'interruzione causata dalle preoccupazioni
    del presente,  era già  diventata  per  lei  il  passato.  Ora  poteva
    ricordare,  piangere  e  pregare.  Con  il  tramonto,  il vento si era
    calmato. La notte era tranquilla e fresca.  A mezzanotte anche le voci
    cominciarono a chetarsi,  poi il gallo cantò,  da dietro i tigli stava
    salendo la luna piena;  una nebbiolina rosea,  fresca,  si alzava  dai
    campi, e sul villaggio e sulle case regnò infine il silenzio.
    Una  dopo  l'altra  le  passavano  nella mente le immagini del passato
    recente,  della malattia e degli ultimi momenti di vita di suo  padre.
    Con  una  gioia  soffusa  di  tristezza,  ella indugiava ora su quelle
    immagini,  scacciando da sé con orrore soltanto  l'ultima  visione  di
    quella morte,  che sapeva di non avere la forza di contemplare neppure
    nella propria fantasia, in quell'ora dolce e misteriosa della notte. E
    queste immagini le si presentavano con una tale chiarezza e  una  tale
    dovizia  di  particolari  da  sembrarle  di  volta  in  volta,  ora il
    presente, ora il passato, ora l'avvenire.
    Rivedeva il momento nel quale il padre aveva subìto il primo colpo  ed
    era  stato trascinato a braccia dal giardino di Lissia-Gori mentre con
    la lingua impotente  borbottava  chissà  che  cosa  e  aggrottando  le
    sopracciglia grigie, la guardava timido e inquieto.
    "Voleva  già  dirmi  allora  ciò che mi disse nel giorno della morte",
    pensava.  "L'aveva avuto sempre in mente...".  Ed  ecco  rievocava  in
    tutti  i particolari quella notte a Lissia-Gori,  precedente il giorno
    in cui  suo  padre  era  stato  colpito,  quella  notte  in  cui  lei,
    presentendo la sventura, gli era rimasta vicina contro la sua volontà.
    Non  riusciva  a  dormire  e  in  punta  di  piedi  era  scesa  giù e,
    avvicinatasi alla porta della serra dove quella notte suo padre  aveva
    voluto gli fosse preparato il letto, tendeva l'orecchio alla sua voce.
    Con tono stanco e sofferente parlava a Tichòn al quale, evidentemente,
    desiderava dire qualcosa.  "E perché non mi ha chiamata? Perché non ha
    permesso a me di stare al posto di Tichòn?",  si era chiesta allora  e
    si chiedeva adesso la principessina Màrija. "Ora egli non rivelerà mai
    più  a nessuno ciò che era dentro la sua anima.  Non ritornerà mai più
    né per lui né per me quel momento in cui egli avrebbe detto tutto  ciò
    che desiderava dire, e io, e non Tichòn, l'avrei ascoltato e compreso.
    Perché  non sono entrata nella stanza?  Forse mi avrebbe detto ciò che
    mi disse poi nel giorno della sua morte.  Anche allora,  parlando  con
    Tichòn,  chiese  due volte di me.  Voleva vedermi e io ero lì,  dietro
    l'uscio.  Gli riusciva penoso,  triste,  parlare con Tichòn che non lo
    capiva. Mi ricordo che si era messo a discorrere con lui di Liza, come
    se  fosse  viva: aveva dimenticato che Liza non c'era più.  Tichòn gli
    ricordò che ella era morta, ed egli gli gridò. "Imbecille!". Soffriva.
    Attraverso la porta sentii come, ansimando,  si coricava e implorava a
    voce  alta:  "Dio mio!".  Perché non sono entrata allora?  Che cosa mi
    avrebbe  fatto?   Che  cosa  avrei  rischiato?   Forse  avrei   potuto
    confortarlo,  ed  egli mi avrebbe detto quella dolce parola...".  E la
    principessina Màrija pronunziò ad alta voce la dolce  parola  che  suo
    padre le aveva detto il giorno della morte: "Anima mia!".  E la ripeté
    piangendo lacrime che le diedero sollievo al cuore.  Vedeva davanti  a
    sé il viso del padre,  ma non il viso che ella ben conosceva da quando
    aveva memoria di se stessa e che aveva sempre veduto da lontano, bensì
    il viso debole e timido che le era apparso l'ultimo giorno,  quando si
    era chinata verso la bocca di lui per udire ciò che egli diceva,  quel
    viso che ella vedeva per la prima volta così da vicino,  con tutte  le
    sue rughe, con tutti i suoi particolari.
    - Anima mia!  -  ripeté.
    "Che cosa pensava mentre mi diceva così?  Cosa pensa ora?", si domandò
    a un tratto e, come risposta,  rivedeva con l'immaginazione il vecchio
    padre,  rivedeva  il  viso  di lui con la stessa espressione che aveva
    nella bara, fasciato dal fazzoletto bianco.  E lo stesso orrore da cui
    era  stata presa quando lo aveva toccato e si era convinta che non era
    più lui,  ma qualcosa di misterioso  e  di  ripugnante,  si  impadronì
    nuovamente di lei. Avrebbe voluto pensare ad altro, pregare, ma non vi
    riusciva.  Con gli occhi spalancati,  guardava la luce della luna,  le
    ombre,  e ad ogni istante si aspettava di vedere la faccia  del  padre
    morto  e sentiva che il silenzio che regnava nella casa e nella camera
    la paralizzava...
    - Dunjascia!   -  mormorò dapprima.   -  Dunjascia!   -  gridò poi con
    voce selvaggia e,  strappandosi a quel silenzio, corse verso la camera
    delle domestiche incontro alla vecchia governante e alle cameriere che
    stavano accorrendo al suo grido.


    CAPITOLO 13.

    Il 17 agosto Rostòv e Iliìn,  accompagnati da Lavruska,  reduce  dalla
    prigionia, e da un ussaro d'ordinanza, andarono a fare una passeggiata
    a  cavallo fuori dal loro accampamento di Jànkovo,  situato a quindici
    miglia da Boguciàrovo,  per provare  un  nuovo  cavallo  comperato  da
    Iliìn,  e  per  informarsi  se  nei  villaggi si potesse requisire del
    fieno.
    Da tre giorni Boguciàrovo  si  trovava  tra  i  due  eserciti  nemici,
    cosicché  potevano  accedervi facilmente sia la retroguardia russa sia
    l'avanguardia francese.  Appunto per questo Rostòv quale  zelantissimo
    comandante  di  uno  squadrone,  desiderava  approfittare,  prima  dei
    Francesi, delle provviste rimaste a Boguciàrovo.
    Rostòv  e  Iliìn  erano  di  ottimo  umore.  Mentre  si  dirigevano  a
    Boguciàrovo,  un  possedimento  principesco  con  casa  padronale dove
    speravano  di  trovare  molta  servitù  e  delle  belle  ragazze,  ora
    interrogavano Lavruska su Napoleone e ridevano dei suoi racconti,  ora
    si mettevano a galoppare  rincorrendosi  per  provare  il  cavallo  di
    Iliìn.
    Rostòv  non  sapeva e non immaginava che il villaggio,  al quale erano
    diretti,  appartenesse  a  quello  stesso  Bolkonskij  che  era  stato
    fidanzato di sua sorella.
    I  due giovani ufficiali lanciarono per l'ultima volta i cavalli sulla
    curva davanti a Boguciàrovo e Rostòv,  distanziando Iliìn,  entrò  per
    primo a galoppo sulla strada del villaggio.
    - Mi hai sorpassato  -  disse Iliìn, che era diventato rosso.
    -  Sì,  sempre,  tanto  sul  prato  quanto  qui    -   rispose Rostòv,
    accarezzando il suo corridore del Don, bianco di schiuma.
    - E io sul mio francese,  eccellenza,    -    disse  alle  sue  spalle
    Lavruska  che  chiamava  francese  il  suo ronzino sfiancato  -  io vi
    avrei sorpassato, ma non ho voluto farvi sfigurare.
    Al passo si avvicinarono al granaio,  presso il quale si accalcava una
    gran  folla  di  contadini.  Alcuni  di  essi si levarono il berretto;
    altri,  senza scoprirsi,  guardarono i due  cavalieri.  Due  contadini
    vecchi, alti, dal viso rugoso e dalla barba rasa, che uscivano in quel
    momento  dalla  bettola,   avanzarono  verso  gli  ufficiali  ridendo,
    barcollando e cantando un ritornello sconclusionato.
    - Bravi!  -  disse loro Rostòv, ridendo.  -  C'è del fieno, qui?
    - Come si somigliano!   -  osservò Iliìn,  mentre uno dei due ubriachi
    continuava a canticchiare con un sorriso felice.
    Un altro contadino uscì dalla folla e si avvicinò a Rostòv.
    - Di quali siete, voi?  -  domandò.
    -  Francesi  -  rispose Iliìn,  ridendo.   -  Ed ecco qui Napoleone in
    persona  -  aggiunse, indicando Lavruska.
    - Siete dunque Russi?  -  domandò di nuovo il contadino.
    - Avete molti soldati da queste parti?  -  domandò un altro,  di bassa
    statura, avvicinandosi a sua volta.
    - Molti,  molti!   -  rispose Rostòv.  -  Ma perché siete riuniti qui?
    -  aggiunse.  -  C'è forse una festa?
    - I vecchi si sono riuniti per discutere sugli affari  della  comunità
    -  rispose il contadino, allontanandosi.
    In  quel  momento,  sulla  strada  che  veniva  dalla  casa padronale,
    comparvero due donne e un uomo  con  cappello  bianco  in  testa,  che
    venivano verso gli ufficiali.
    -  Quella  vestita  di  rosa è per me...  Non me la portar via,  veh!-
    disse Iliìn, notando Dunjascia che correva risolutamente verso di lui.
    - Sarà nostra!  -  esclamò Lavruska, strizzando l'occhio a Iliìn.
    - Che cosa posso  fare  per  voi,  bella  mia?    -    domandò  Iliìn,
    sorridendo.
    -  La  principessina  mi  ha ordinato di domandarvi a quale reggimento
    appartenete e qual è il vostro nome.
    - Questo è il conte Rostòv,  comandante di squadrone,  e  io  sono  il
    vostro umile servitore.
    Il  contadino ubriaco continuava frattanto a canticchiare,  sorridendo
    beatamente  e  guardando  Iliìn  che  parlava  con  la  ragazza.  Dopo
    Dunjascia,  anche  Alpatyc'  si avvicinò a Rostòv,  togliendosi già da
    lontano il berretto.
    - Oso disturbare vostra signoria  -   disse  in  tono  rispettoso,  ma
    nello  stesso  tempo con una certa disinvoltura,  data l'età giovanile
    dell'ufficiale,  e infilò la mano nello sparato della camicia.   -  La
    mia   padrona,   figlia   del  generale  principe  Nikolàj  Andréevic'
    Bolkonskij, defunto il 15 scorso, si trova in serie difficoltà a causa
    dell'ignoranza di questa gente  -  (e indicò i contadini)   -    e  vi
    prega  di  favorire  da  lei...  Vorreste  avere la bontà  -  proseguì
    Alpatyc' con un triste sorriso  -  di  scostarvi  un  po',  se  non  è
    difficile parlare in presenza di...  -  E accennò ai due contadini che
    ronzavano alle sue spalle, come tafani attorno a un cavallo.
    - Oh,  Alpatyc'...  Oh,  Jakov Alpatyc'!  Bene!  Perdonaci, in nome di
    Cristo!   Eh,     -    gli  dicevano  i  due  contadini  sorridendogli
    allegramente.
    Rostòv guardò i due ubriachi e rise.
    - O,  forse, ciò diverte vostra eccellenza?  -  domandò Jakov Alpatyc'
    con aria seria,  indicando i due vecchi con la  mano  che  non  teneva
    nella camicia.
    - No, qui c'è poco da divertisi  -   rispose Rostòv allontanandosi.  -
    Di che si tratta?
    -  Oso  riferire  a  vostra  eccellenza  che questa gentaglia non vuol
    lasciare partire dal villaggio la padrona e  minaccia  di  staccare  i
    cavalli,  cosicché da stamane i bagagli sono pronti, ma sua eccellenza
    non può mettersi in viaggio.
    - Non è possibile!  -  esclamò Rostòv.
    - Ho l'onore di assicurarvi che è la pura verità  -  ripeté Alpatyc'.
    Rostòv scese di sella,  consegnò il cavallo all'ordinanza e andò verso
    la casa con Alpatyc', interrogandolo sui particolari della situazione.
    Effettivamente  l'offerta del grano fatta il giorno prima ai contadini
    dalla principessina e la spiegazione avuta con Dron e con i  contadini
    riuniti  avevano  complicato  la questione a tal segno che Dron si era
    deciso a restituire  le  chiavi,  si  era  unito  ai  contadini  senza
    presentarsi  alle  chiamate  di  Alpatyc' e quella mattina,  quando la
    principessina aveva dato ordine di attaccare l cavalli per partire,  i
    contadini,  di nuovo riuniti in gran folla davanti al granaio, avevano
    mandato a dire che non avrebbero fatto partire  la  principessina  dal
    villaggio,  che  c'era  l'ordine  di  non  uscire  e  che  perciò essi
    avrebbero staccato i cavalli.  Alpatyc' aveva tentato di  convincerli,
    ma  essi  gli  avevano risposto (parlava più di tutti Karp,  e Dron si
    nascondeva tra la folla) che non  era  possibile  lasciar  partire  la
    principessina,   che   esisteva   un   ordine  m  proposito,   che  la
    principessina restasse ed essi l'avrebbero servita come per il passato
    e l'avrebbero obbedita in tutto.
    Mentre Rostòv e  Iliìn  galoppavano  sulla  strada,  la  principessina
    Màrija,  nonostante  le  esortazioni a non farlo,  di Alpatyc',  della
    governante e delle cameriere,  aveva dato ordine di  far  attaccare  i
    cavalli  per  partire;  ma,  vedendo  quei  cavalieri  che venivano al
    galoppo e scambiandoli per ufficiali francesi,  i cocchieri  si  erano
    dati alla fuga e ora la casa risonava del pianto delle donne.
    - "Bàtjuska"!  Padre nostro!  Ti ha mandato il Signore...  -  dicevano
    voci commosse, mentre Rostòv attraversava il vestibolo.
    La principessina Màrija, sperduta e impotente,  si trovava nel salotto
    quando  fu  introdotto  Rostòv.  Non  capiva  chi fosse,  né perché si
    trovasse lì, né che cosa sarebbe accaduto di lei. Quando ebbe visto il
    volto russo  di  Rostòv  e  compreso,  dalle  prime  parole  che  egli
    pronunziò,  che si trattava di una persona del suo ambiente, lo guardò
    con i suoi occhi profondi e radiosi e prese a parlargli  con  la  voce
    spezzata,  tremante  per  l'emozione.  In  quell'incontro  Rostòv vide
    subito un qualche cosa di romanzesco.  "Una  fanciulla  senza  difesa,
    sola,  oppressa  dal  dolore,  lasciata in balia di rozzi contadini in
    rivolta!  Quale strana sorte mi ha spinto sin qui?",  pensava,  mentre
    l'ascoltava  e  la  guardava.  "E quanta dolcezza,  quanta nobiltà nei
    lineamenti e nell'espressione del suo viso!", si diceva, ascoltando la
    timida narrazione che ella gli faceva.
    Quando ella gli ebbe detto  tutto  ciò  che  era  accaduto  il  giorno
    successivo  ai  funerali  del padre,  la voce le tremò.  Voltò il viso
    dall'altra parte e poi,  quasi temesse che Rostòv potesse interpretare
    le  sue  parole  come  un  desiderio di suscitarne la compassione,  lo
    guardò interrogativa e spaurita.  Rostòv aveva le lacrime agli  occhi.
    La principessina Màrija lo notò,  e guardò il giovane con gratitudine,
    con quel suo sguardo pieno di luce che faceva dimenticare la bruttezza
    del viso.
    - Non posso esprimervi, principessina,  quanto io sia felice di essere
    capitato  qui  per  caso e di potermi mettere a vostra disposizione  -
    disse Rostòv, alzandosi.  -  Partite,  se volete.  Rispondo io sul mio
    onore  che  nessuno  oserà  darvi  noia,   purché  mi  consentiate  di
    scortarvi.  -  E, dopo averla salutata con un rispettoso inchino, come
    si salutano le dame di sangue reale, si avviò verso l'uscio.
    Con quel tono rispettoso,  Rostòv pareva  voler  dimostrare  che,  per
    quanto   considerasse  una  fortuna  l'averla  conosciuta,   rifuggiva
    dall'approfittare della sua sventura per  avvicinarsi  maggiormente  a
    lei.
    La principessina Màrija comprese e apprezzò quel modo di comportarsi.
    - Vi sono molto,  molto riconoscente,   -  gli rispose la fanciulla in
    francese  -  ma spero che si tratti soltanto di  un  malinteso  e  che
    nessuno sia veramente colpevole.   -  A un tratto si mise a piangere e
    mormorò:  -  Perdonatemi!
    Rostòv,  aggrottando le  sopracciglia,  le  fece  ancora  un  profondo
    inchino e lasciò la stanza.


    CAPITOLO 14.

    -  Graziosa,  eh?  Mio  caro,  la  mia rosa è un incanto...  si chiama
    Dunjascia.
    Ma quando ebbe guardato in viso Rostòv, Iliìn ammutolì perché comprese
    che il suo eroe e comandante  era  immerso  in  tutt'altro  ordine  di
    pensieri.
    Rostòv lanciò a Iliìn un'occhiata rabbiosa e,  senza rispondergli,  si
    diresse rapidamente verso il villaggio.
    - Gliela farò vedere io, a quei briganti! L'avranno a che fare con me!
    -  borbottava tra i denti.
    Alpatyc', con un passo allungato,  pur di non correre,  lo raggiunse a
    stento.
    - Che decisione vi siete degnato di prendere, eccellenza?  -  domandò,
    non appena gli fu a lato.
    Rostòv si fermò e,  stringendo i pugni, si voltò verso di lui con aria
    minacciosa.
    - Decisione? Quale decisione, vecchio rammollito?   -  gridò.   -  Che
    cosa aspettavi,  eh? I contadini si rivoltano e tu non sai provvedere?
    Sei un traditore anche tu.  Io vi conosco...  vi  caverò  la  pelle  a
    tutti...   -  E, come se temesse di sciupare inutilmente la sua carica
    di  ira,  piantò  Alpatyc'  e  proseguì  a  rapidi  passi.   Alpatyc',
    soffocando  il  suo  risentimento,  con il solito passo allungato,  lo
    seguì e continuò a comunicargli le proprie considerazioni.  Diceva che
    i  contadini  erano ignoranti e ostinati,  che in quel momento sarebbe
    stato  imprudente  contrastarli,   senza  avere  a   disposizione   un
    distaccamento militare e che, forse, sarebbe stato meglio mandar prima
    a chiamare un reparto.
    -  Glielo darò io il distaccamento...  ci penserò io a contrastarli...
    -  ripeteva assurdamente Nikolàj, soffocando una collera irragionevole
    e animalesca e il bisogno  di  sfogarla.  Senza  riflettere  a  quanto
    avrebbe fatto, inconsciamente, a passo rapido e deciso, mosse verso la
    folla. Quanto più le si accostava, tanto più Alpatyc' sentiva che quel
    gesto  temerario  poteva  dare  buoni  risultati.  E  la  stessa  cosa
    sentivano anche i contadini, guardando l'andatura rapida e decisa e il
    volto accigliato e fermo di Rostòv.
    Da quando gli ussari erano entrati  nel  villaggio  e  Rostòv  si  era
    recato dalla principessina, tra la folla si erano manifestati dissensi
    e  confusione.  Alcuni  avevano cominciato a dire che i nuovi arrivati
    erano militari russi  e  che  si  sarebbero  offesi  se  non  avessero
    lasciato  partire la signorina.  Dron era dello stesso avviso ma,  non
    appena lo ebbe espresso,  Karp e altri  contadini  presero  a  inveire
    contro il loro vecchio "stàrosta".
    -  Per quanti anni ti sei rimpinzato alle spalle della comunità?-  gli
    gridò Karp.  -  Già, ma per te è proprio lo stesso... Tu prendi il tuo
    gruzzolo e te ne vai,  infischiandoti se le nostre case saranno  o  no
    rovinate.
    - E' stato deciso che ci fosse l'ordine che nessuno portasse via dalla
    casa neppure un granello di polvere, e basta!  -  gridava un altro.
    - Toccava a tuo figlio andar soldato,  ma tu,  figurati un po', il tuo
    rampollo lo hai risparmiato!   -  gridò  a  un  tratto  un  vecchietto
    piccolino,  scagliandosi contro Dron.   -  Hai mandato il mio Vanka ad
    arruolarsi. Già, tocca sempre a noi crepare!
    - Giusto, giusto... tocca sempre a noi!
    - Io la comunità non la rinnego!  -  rispose Dron.
    - Lo credo bene che non la rinneghi...  ti è  cresciuta  la  pancia  a
    spese sue...
    Anche i due vecchi contadini lunghi lunghi dissero la loro. Non appena
    Rostòv,  accompagnato  di  Iliìn,  da Lavruska e da Alpatyc',  si fece
    presso la folla,  Karp,  infilandosi le dita nella  cintura,  si  fece
    avanti,  sorridendo lievemente.  Dron,  al contrario,  si ritirò nelle
    ultime file, mentre la folla si pigiava sempre di più.
    - Ehi,  chi è qui lo "stàrosta"?   -  grido Rostòv,  avanzando a passi
    rapidi.
    - Lo "stàrosta"? A che vi serve lo "stàrosta"?  -  domandò Karp.
    Ma non fece in tempo a finire, che il berretto gli volò via e la testa
    gli si piegò da un lato sotto un potente scapaccione.
    - Giù i berretti, traditori!  -  si levò la voce adirata di Rostòv.  -
    Dov'è lo "stàrosta"?  -  insisté in tono sempre più furioso.
    -   Lo   "stàrosta"...   chiamate   lo  "stàrosta"...   Chiamate  Dron
    Zacharyc'...   -  dissero qua e là alcune voci  frettolose,  mentre  i
    contadini si toglievano a uno a uno il berretto.
    -  Noi  non  possiamo rivoltarci,  noi osserviamo gli ordini  -  disse
    Karp,  mentre alle sue spalle si levarono  alcune  voci  dalle  ultime
    file.
    - Così come hanno deciso i vecchi... Voi siete in tanti a comandare...
    - Vi permettete anche di discutere?  Una rivolta! Briganti! Traditori!
    -  urlava Rostòv insensatamente,  con una voce che non pareva  più  la
    sua,  afferrando  Karp  per  il  bavero.   -  Legatelo,  legatelo!   -
    gridava,  benché,  all'infuori di Lavruska e di Alpatyc' non ci  fosse
    nessuno per poterlo fare.
    Lavruska,  tuttavia,  balzò  contro Karp e da dietro lo afferrò per le
    braccia.
    - Ordinate di chiamare i nostri che sono là sotto l'altura?  -  gridò.
    Alpatyc' si  volse  ai  contadini,  ne  chiamò  due  per  nome  perché
    legassero  Karp.   I  contadini  uscirono  docilmente  dalla  folla  e
    cominciarono a slacciarsi le cinture.
    - Dov'è lo "stàrosta"?  -  gridava Rostòv.
    Dron, con il viso pallido e accigliato, si fece avanti.
    - Sei tu lo "stàrosta"?  Legalo,  Lavruska!   -  urlò Rostòv,  come se
    anche  quell'ordine  non potesse incontrare ostacoli.  E difatti altri
    due contadini si misero a legare Dron, il quale, come per aiutarli, si
    slacciò la cintura e gliela porse.
    - E voi tutti ascoltatemi!  -  disse Rostòv, rivolto ai contadini.   -
    Filate  immediatamente  nelle  vostre  case  e  che nessuno faccia più
    sentire la sua voce.
    - Non era nostra intenzione offendere.  Abbiamo agito  così  solo  per
    stupidità,  e non abbiamo commesso che sciocchezze... Lo dicevo io che
    era  mal  fatto    -    si  udivano  le  voci  dei  contadini  che  si
    rimproveravano a vicenda.
    -  Ma  io  ve l'avevo detto  -  osservò Alpatyc',  rientrando nei suoi
    diritti.  -  E' mal fatto, ragazzi!
    - Colpa della nostra stupidità,  Jakov Alpatyc'  -   risposero  alcune
    voci,  e  la  folla  cominciò  a  sciogliersi  e  a disperdersi per il
    villaggio.
    I due contadini legati furono condotti nel cortile padronale,  seguiti
    dai due ubriachi.
    - Eh, se ti guardo...  -  diceva uno di questi a Karp.
    - Ma è possibile parlare così con i signori? Che cosa credi?
    - Sei uno stupido  -  confermò l'altro  -  un vero stupido.
    Due  ore  dopo,  i  carri  erano  pronti  nel  cortile  della  casa di
    Boguciàrovo.  I contadini  caricavano  premurosamente  i  bagagli  dei
    signori,  e  Dron,  fatto  uscire  dal  bugigattolo  in  cui era stato
    rinchiuso,  per desiderio  della  principessina  Màrija,  dirigeva  il
    lavoro, ritto in mezzo al cortile.
    - Non sistemarla così male  -  diceva uno di loro,  un uomo alto,  dal
    viso tondo e sorridente,  prendendo una  scatola  dalle  mani  di  una
    cameriera.   -  Anche questa costa denaro... Se la butti a quel modo e
    la leghi tanto stretta,  si rovina.  Non mi piacciono  le  cose  fatte
    male.  Bisogna far tutto perbenino, con le dovute regole. Mettila qui,
    sotto la stuoia, coprila di fieno... Ecco, adesso va bene.
    - Ih!  Quanti libri,  quanti libri!   -  esclamava un altro,  portando
    fuori  gli  scaffali della biblioteca del principe Andréj.   -  Non mi
    urtare, bada! Che peso, ragazzi! Questi sì, sono bei libri!
    - Già, ne hanno scritti dei libri... non sono stati a ciondolare senza
    far niente!   -    esclamò,  ammiccando  con  aria  significativa,  il
    contadino alto,  dal viso tondo, indicando i vocabolari che stavano in
    cima al carro.
    Rostòv,  che non voleva imporre alla principessina la sua  conoscenza,
    si  astenne  dall'andare  da  lei e rimase nel villaggio in attesa che
    ella partisse.  Quando vide le  carrozze  della  principessina  Màrija
    allontanarsi  dalla  casa,  montò  a  cavallo e l'accompagnò sino alla
    strada occupata dalle nostre truppe, a dodici miglia da Boguciàrovo. A
    una locanda di Jànkovo si congedò rispettosamente da  lei  e,  per  la
    prima volta, si permise di baciarle la mano.
    -  Ma  di  che  cosa  mi ringraziate?   -  rispose,  arrossendo,  alle
    espressioni di gratitudine della principessina per averle, come diceva
    lei,  salvato la vita.   -  Qualsiasi commissario di  polizia  avrebbe
    fatto  altrettanto.  Se dovessimo combattere soltanto con i contadini,
    non avremmo permesso al nemico di giungere così lontano  -  soggiunse,
    quasi con un senso di vergogna e cercando  di  cambiar  discorso.    -
    Sono   felice   di  aver  avuto  l'occasione  di  conoscervi.   Addio,
    principessina,  vi auguro ogni bene  e  ogni  consolazione.  Spero  di
    incontrarvi  in circostanze più liete.  Se non volete farmi arrossire,
    non mi ringraziate, ve ne prego!
    Ma se la principessina non lo ringraziò con le  parole,  lo  ringraziò
    con  l'espressione  del  viso  illuminato  dalla  riconoscenza e dalla
    tenerezza.  Non poteva credergli quando egli le diceva che  non  c'era
    motivo  alcuno di gratitudine.  Per lei era fuor di dubbio che,  senza
    l'aiuto di Rostòv, avrebbe certamente incontrato la morte per mano dei
    contadini ribelli o dei Francesi;  che Rostòv,  per salvarla,  si  era
    esposto a evidenti e terribili pericoli e che,  cosa ancora più certa,
    Rostòv era un uomo dall'animo nobilissimo,  il quale aveva compreso la
    sua condizione e il suo dolore.  Ella non poteva dimenticare gli occhi
    buoni di lui  colmarsi  di  lacrime  quando  ella  gli  aveva  narrato
    piangendo la propria sventura.
    Dopo aver detto addio al giovane ufficiale ed essere rimasta sola,  la
    principessina Màrija si sentì gli occhi umidi e non per la prima volta
    rivolse a se stessa una strana domanda: "L'amo, forse?".
    Durante il resto del viaggio verso Mosca, sebbene le condizioni in cui
    la principessina si trovava fossero tutt'altro che  liete,  Dunjascia,
    che  viaggiava nella carrozza con lei,  notò più di una volta che ella
    si affacciava allo sportello con le labbra  atteggiate  a  un  sorriso
    lieto e triste a un tempo.
    "Be',   e   se  anche  mi  fossi  innamorata  di  lui?",   pensava  la
    principessina Màrija.
    Per quanto  si  vergognasse  di  confessarsi  che,  per  prima,  aveva
    cominciato ad amare un uomo che forse non l'avrebbe mai ricambiata, si
    consolava  al  pensiero che nessuno l'avrebbe saputo e che non sarebbe
    stata colpevole se,  sino alla fine  della  vita.  senza  parlarne  ad
    alcuno, avesse amato per la prima e ultima volta.
    Di   tanto   in  tanto  le  tornavano  alla  mente  gli  sguardi,   la
    sollecitudine,  le parole di lui,  e la felicità  non  le  pareva  più
    impossibile. E in quei momenti Dunjascia notava come ella, sorridendo,
    guardasse fuori dal finestrino della carrozza.
    "Bisognava  che  venisse  a Boguciàrovo,  e proprio in quel momento!",
    pensava  la  principessina  Màrija.   "E  bisognava  che  sua  sorella
    rifiutasse  il  principe  Andréj".  In tutto l'accaduto ella vedeva la
    volontà della Provvidenza.
    L'impressione prodotta su Rostòv dalla principessina Màrija era  stata
    molto gradevole. Quando ripensava a lei, diventava allegro, e quando i
    compagni,   venuti   a   conoscenza   dell'avventura   capitatagli   a
    Boguciàrovo, gli dicevano scherzando che,  andando in quel villaggio a
    cercar fieno,  vi aveva trovato una delle più ricche ragazze da marito
    della Russia,  Rostòv andava  in  collera  proprio  perché  l'idea  di
    sposare  la dolce,  simpatica principessina Màrija,  che gli piaceva e
    che possedeva un grande patrimonio,  gli  si  era  più  di  una  volta
    affacciata  al  pensiero.  Per sé,  personalmente,  Nikolàj non poteva
    desiderare una moglie migliore.  Il matrimonio con  lei  avrebbe  reso
    felice la contessa sua madre, avrebbe assestato gli affari del padre e
    inoltre,  lo  sentiva,  avrebbe  fatto la felicità della principessina
    Màrija.
    E Sònja? E la parola data? Anche per questo Rostòv si irritava con gli
    amici quando essi gli  parlavano  scherzosamente  della  principessina
    Màrija.


    CAPITOLO 15.

    Assunto  il  comando  dell'esercito,  Kutuzòv  si ricordò del principe
    Andréj e gli fece  pervenire  l'ordine  di  presentarsi  al  quartiere
    generale.
    Il principe Andréj giunse a Tzàrevo-Zàjmisce proprio nel giorno in cui
    Kutuzòv  passava in rivista le truppe per la prima volta.  Si fermò al
    villaggio presso la casa del "pop" (32),  davanti alla quale era ferma
    la carrozza di Kutuzòv e si sedette sulla panchina accanto al portone,
    in  attesa  di  sua altezza serenissima,  come tutti adesso chiamavano
    Kutuzòv.
    Dai campi, dietro il villaggio,  s'udivano giungere a volta a volta le
    note  della  musica  militare  e  il  clamore di innumerevoli voci che
    gridavano "Urrà!" al nuovo generalissimo.  Presso il  portone,  a  una
    diecina  di passi dal principe Andréj,  approfittando dell'assenza del
    generalissimo e della splendida giornata,  stavano due attendenti,  un
    corriere e il maggiordomo.  Un tenente colonnello degli ussari,  basso
    di statura,  dal volto scuro,  con grossi baffi e lunghe  basette,  si
    avvicinò a cavallo al portone e, visto il principe Andréj, gli domandò
    se sua altezza serenissima alloggiasse lì e se sarebbe tornato presto.
    Il principe Andréj gli rispose che non apparteneva allo stato maggiore
    di  sua altezza serenissima e che era arrivato da fuori anche lui.  Il
    tenente colonnello degli  ussari  si  rivolse  allora  a  un  elegante
    attendente,  e  questi  gli  rispose  con  quel  tono  particolarmente
    sprezzante con il quale gli attendenti di  generali  in  capo  parlano
    agli ufficiali.
    -  Sua  altezza  serenissima?  Dovrebbe  essere qui tra poco.  Cosa vi
    occorre?
    Il tenente colonnello degli ussari sorrise  sotto  i  baffi  all'udire
    quel  tono,  smontò  da  cavallo,  diede  le  briglie al piantone e si
    avvicinò a Bolkonskij facendogli un  leggero  inchino.  Bolkonskij  si
    spostò sulla panchina e l'ussaro gli sedette accanto.
    -  Anche  voi  aspettate  il  generalissimo?    -   domandò il tenente
    colonnello.  -  Dicono che sia accessibile a tutti.  Sia lodato Iddio!
    Con  quel mangiatore di salsicce,  invece,  era un bel guaio!  Non per
    nulla Ermolov chiedeva di essere promosso tedesco! Ora chissà, anche i
    Russi potranno far sentire la loro voce.  Sa il diavolo che cosa hanno
    combinato  quelli!  Non  si  è  fatto altro che indietreggiare!  Avete
    partecipato anche voi alla campagna?
    - Ho avuto il piacere  -  rispose il principe Andréj  -  non  solo  di
    partecipare  alla  ritirata,  ma ho perduto,  per questo ripiegamento,
    tutto ciò che avevo di più caro,  senza parlare dei miei beni e  della
    casa paterna... Mio padre è morto di dolore. Io sono di Smolènsk.
    - Ah!  Siete il principe Bolkonskij? Lietissimo di conoscervi: io sono
    il tenente colonnello Denissov, meglio conosciuto con il nome di Vaska
    -  disse Denissov,  stringendo la mano al principe Andréj e fissandolo
    con una attenzione piena di bontà.   -  Sì,  l'ho saputo  -  disse con
    simpatia e,  dopo un breve silenzio proseguì:  -  Eccoci  dunque  alla
    guerra  scita.  Va  tutto  benissimo  ma  non  certo  per  chi paga di
    persona... E voi siete il principe Andréj Bolkonskij?   -  e scosse il
    capo.    -  Sono felice,  principe,  veramente felice di conoscervi  -
    aggiunse ancora Denissov,  con un  sorriso  triste,  stringendogli  la
    mano.
    Il principe Andréj conosceva Denissov attraverso le parole di Natascia
    sul  conto del suo primo pretendente.  Quel ricordo gli fece piacere e
    lo rattristò nello stesso  tempo,  riportandolo  a  quelle  sensazioni
    morbose  alle quali negli ultimi tempi non si abbandonava più,  ma che
    tuttavia gli erano rimaste nell'anima.  In quell'ultimo  periodo  egli
    aveva provato tante altre e così gravi impressioni,  quali l'abbandono
    di Smolènsk, il suo rapido passaggio a Lissia-Gori, la notizia recente
    della morte del padre; aveva subito tante e così diverse emozioni, che
    da un pezzo quei ricordi non si affacciavano più alla sua mente e,  se
    anche  vi tornavano,  non agivano più su di lui con la forza di prima.
    Anche per Denissov i ricordi suscitati dal nome di Bolkonskij facevano
    parte di quel passato ormai lontano e pieno di  poesia,  quando,  dopo
    una cena e dopo aver sentito cantare Natascia, senza sapere lui stesso
    come,  aveva  fatto  una dichiarazione d'amore a una bimba di quindici
    anni. Sorrise al ricordo di quel tempo e al pensiero del suo amore per
    Natascia e tornò subito a ciò che ora gli occupava la  mente  in  modo
    esclusivo e appassionato: un piano di campagna che aveva ideato mentre
    era in servizio agli avamposti.  Aveva presentato quel piano a Barclay
    de Tolly e intendeva ora presentarlo a Kutuzòv.  Il piano  era  basato
    sul  concetto  secondo  cui  la  linea  di operazione dei Francesi era
    troppo estesa e perciò,  anziché attaccarli di fronte,  sbarrando loro
    la strada, o anche facendo così, occorreva operare sulle loro linee di
    comunicazione. E cominciò a spiegare il suo piano al principe Andréj.
    -  Essi  non  possono  mantenere  tutta  questa  linea.  E'  una  cosa
    impossibile. Garantisco che la sfonderei.  Datemi cinquecento uomini e
    riuscirò a sfondarla,  non c'è dubbio! L'unico sistema è la guerriglia
    partigiana.
    Denissov si alzò e, gesticolando, espose a Bolkonskij il suo progetto.
    Nel bel mezzo di quella esposizione,  dal luogo dove  si  svolgeva  la
    rivista  giunsero  le grida dei soldati,  più scomposte e più diffuse,
    mescolate alla musica e ai canti.  Nel  villaggio  si  udì  gridare  e
    risonò un calpestio di cavalli.
    - Viene!  -  gridò un cosacco ritto presso il portone. Viene!
    Bolkonskij  e Denissov si avvicinarono al portone,  presso il quale si
    trovava un drappello di soldati (la guardia d'onore) e videro avanzare
    lungo la strada Kutuzòv,  in sella  a  un  piccolo  cavallo  baio.  Un
    séguito  imponente di generali lo accompagnava.  Barclay gli cavalcava
    quasi a fianco,  una folla di ufficiali correva  dietro  e  attorno  a
    loro, lanciando poderosi urrà.
    Gli  aiutanti  di  campo entrarono al galoppo nel cortile,  precedendo
    Kutuzòv, il quale,  incitando con impazienza il suo cavallo che andava
    adagio sotto il peso che reggeva, salutava con cenni continui del capo
    e  portando  la  mano  al  berretto bianco di cavaliere della Guardia,
    orlato di rosso e senza visiera.
    Avvicinatosi alla guardia d'onore composta di aiutanti granatieri  per
    la  maggiore  parte  decorati,  che  gli presentavano le armi,  per un
    minuto fissò su di loro il suo fermo sguardo  di  comandante,  poi  si
    volse verso la folla di generali e di ufficiali che lo circondavano. A
    un  tratto  il  suo viso assunse un'espressione scaltra e,  alzando le
    spalle, ebbe un atteggiamento di perplessità.
    - Con dei giovani così valorosi indietreggiare, indietreggiare sempre!
    -  esclamò.  -  Bene, arrivederci, generale  -  aggiunse,  e spinse il
    cavallo  entro  il  portone  passando  davanti  al  principe  Andréj e
    Denissov.
    - Urrà! Urrà! Urrà!  -  si gridava alle sue spalle.
    Da quando il principe Andréj l'aveva veduto  l'ultima  volta,  Kutuzòv
    era ancora ingrassato, e il suo corpo aveva assunto un aspetto floscio
    e  cascante:  ma  l'occhio  bianco,  la  cicatrice  e l'espressione di
    stanchezza del viso e della persona non erano  mutati.  Indossava  una
    giubba  di  uniforme  (il frustino gli pendeva da una spalla tenuto da
    una sottile cinghietta) e abbandonandosi pesantemente,  montava il suo
    vivace cavallino.
    -  Fiù...   fiù...   fiù...     -    fischiettava  in  maniera  appena
    percettibile,  entrando  nel  cortile.   Il  suo  volto  esprimeva  la
    tranquilla  gioia  di chi si ripromette di riposarsi dopo una faticosa
    parata. Liberò dalla staffa il piede sinistro e,  piegandosi con tutto
    il  corpo e facendo una smorfia per lo sforzo,  lo pose a fatica sulla
    sella,  si appoggiò sul ginocchio,  tossicchiò e si abbandonò  tra  le
    braccia dei cosacchi e degli aiutanti che lo sorreggevano.
    Si  lisciò  l'uniforme,  volse  attorno  i  suoi occhietti semichiusi,
    guardò il principe Andréj, evidentemente senza riconoscerlo e,  con la
    sua andatura ondeggiante, camminò verso l'ingresso.
    -  Fiù...  fiù...  fiù...   -  fischiettò di nuovo,  e di nuovo lanciò
    un'occhiata al principe Andréj.  L'impressione suscitata  in  lui  dal
    viso  del  principe  Bolkonskij,  soltanto  dopo alcuni secondi,  come
    avviene ai vecchi, si collegò al ricordo della sua persona.
    - Buongiorno, principe, buongiorno, mio caro, andiamo...  -  disse con
    il  tono  di  un  uomo  molto  stanco,  guardandosi  attorno,  e  salì
    pesantemente  la scala di legno che scricchiolò sotto il suo peso.  Si
    sbottonò la  giubba  e  sedete  sulla  panchina  che  si  trovava  sul
    terrazzino coperto.
    - Be', e tuo padre?
    -  Ho  ricevuto  proprio  ieri  la notizia della sua morte  -  rispose
    brevemente il principe Andréj.
    Kutuzòv, con gli occhi spalancati, lo fissò,  poi si tolse il berretto
    e si fece il segno della croce.   -  Che Iddio l'abbia in gloria!  Sia
    fatta la Sua volontà per tutti noi!   -    Sospirò  profondamente  con
    tutto  il  petto  e  tacque per qualche istante.  Gli volevo bene e lo
    stimavo, e partecipo al tuo dolore con tutto il cuore.
    Abbracciò il principe Andréj e lo tenne  a  lungo  stretto  contro  il
    petto.  Quando  lo lasciò,  il principe vide che le labbra carnose del
    generale tremavano e che i suoi occhi erano pieni di lacrime.  Kutuzòv
    sospirò  ancora  e,  per  alzarsi,  si  puntò  con  ambo le mani sulla
    panchina.
    - Entriamo,  entriamo...  discorreremo  -   disse.  Ma  nel  frattempo
    Denissov,  che  non  era  timido  davanti ai superiori come non lo era
    davanti al nemico,  sebbene alcuni aiutanti  di  campo  cercassero  di
    fermarlo,  salì  arditamente  battendo  gli speroni sugli scalini e si
    presentò sul terrazzino coperto. Kutuzòv,  continuando a tener le mani
    puntate  sulla panchina,  lo guardò con aria contrariata.  Denissov si
    presentò e disse  che  doveva  fare  a  sua  altezza  serenissima  una
    comunicazione  della  massima  importanza  per  il  bene della patria.
    Kutuzòv gli fissò in viso uno sguardo stanco;  poi,  con un  gesto  di
    stizza,  incrociò  le  mani sul ventre e ripeté:  -  Per il bene della
    patria?  Di che cosa si tratta?  Parla!   -  Denissov arrossì come una
    fanciulla  (faceva  uno  strano  effetto veder arrossire quella faccia
    baffuta da vecchio bevitore) e aridamente cominciò a  esporre  il  suo
    piano,  secondo il quale si doveva sfondare le linee di operazione del
    nemico tra Smolènsk e Vjazma. Denissov era vissuto in quella regione a
    lungo  e  la   conosceva   assai   bene.   Il   suo   piano   sembrava
    indiscutibilmente   apprezzabile,   specialmente   per   la  forza  di
    convinzione che spirava dalle sue parole. Kutuzòv si guardava i piedi,
    volgendosi  di  tanto  in  tanto  a  dare  un'occhiata   nel   cortile
    dell'"izbà" vicina come se si aspettasse di là qualcosa di sgradevole.
    Infatti, mentre Denissov continuava a parlare, comparve da quella casa
    un generale con una cartella sotto il braccio.
    -  Come?    -    domandò  Kutuzòv  nel  bel mezzo delle spiegazioni di
    Denissov.  -  Già pronto?
    - Pronto, altezza serenissima  -  rispose il generale.  Kutuzòv scosse
    la  testa come per dire: "Come può un uomo solo badare a tante cose?",
    e continuò ad ascoltare Denissov.
    - Vi do la mia parola d'onore di ufficiale russo   -   disse  Denissov
    -  che io taglierò le vie di comunicazione a Napoleone.
    - Hai legami di parentela con Kirìll Andréevic' Denissov, l'intendente
    generale?  -  gli domandò Kutuzòv, interrompendolo.
    - E' mio zio, altezza serenissima,
    - Oh!  Eravamo amici  -  rispose allegramente Kutuzòv.  -  Bene, bene,
    ragazzo mio,  resta qui allo stato maggiore: domani ne parleremo.    -
    E, fatto un cenno di saluto a Denissov, si voltò e tese una mano verso
    le carte che Konovnicyn (33) gli aveva portato.
    -  Vostra  altezza serenissima non vorrebbe favorire in casa?   -  gli
    domandò  con  aria  scontenta  il  generale  di  servizio.     -    E'
    indispensabile esaminare i piani e firmare alcune carte.
    Uscì  un  aiutante  e riferì che in casa tutto era pronto.  Ma Kutuzòv
    aveva intenzione di entrare in casa dopo aver sbrigato tutto. Aggrottò
    le sopracciglia...
    - No, caro,  fa' portare qui un tavolino ed esaminerò tutto  -  disse.
    -  E tu  -  aggiunse rivolgendosi ad Andréj  -  non andar via.   -  Il
    principe Andréj rimase sul terrazzino coperto ad ascoltare il generale
    di servizio.
    Durante il rapporto del generale,  il principe Andréj udì,  al  di  là
    della  porta,  il  mormorio di una voce femminile e il frusciare di un
    abito di seta. Parecchie volte, guardando in quella direzione,  scorse
    dietro  la  porta  una  donna  bella  e colorita,  piuttosto in carne,
    vestita di rosa, e con il capo coperto da un fazzoletto di seta viola,
    la quale,  con un piatto  in  mano,  aspettava  evidentemente  che  il
    generalissimo  entrasse.  L'aiutante di Kutuzòv spiegò a bassa voce al
    principe Andréj che quella donna era la padrona di casa, la moglie del
    "pop", che voleva offrire a sua altezza serenissima il pane e il sale.
    Il marito aveva accolto il generalissimo con la croce in chiesa e  lei
    lo avrebbe accolto in casa...  -  E' una donna molto graziosa aggiunse
    l'aiutante con un sorriso.  Kutuzòv udì quelle parole e si voltò. Egli
    ascoltava il rapporto del  generale  di  servizio  (il  cui  argomento
    principale  era  una  critica alla posizione di Tzàrevo-Zàjmisce) come
    poco prima aveva ascoltato Denissov e come sette anni  addietro  aveva
    ascoltato le discussioni del Consiglio di guerra, prima di Austerlitz.
    Era  chiaro  che  ascoltava  soltanto  perché aveva le orecchie con le
    quali,  sebbene una fosse tappata con la bambagia,  non poteva fare  a
    meno di udire; ma nulla di quanto diceva quel generale poteva stupirlo
    o interessarlo,  giacché egli sapeva già in anticipo tutto ciò che gli
    si diceva,  e che ascoltava soltanto perché non poteva farne  a  meno,
    così  come  bisogna ascoltare sino in fondo un Te Deum cantato.  Tutto
    quanto aveva detto Denissov era giusto e sensato,  ciò che  diceva  il
    generale di servizio era ancora più giusto e più sensato, ma si capiva
    che  Kutuzòv  disprezzava  il  sapere e l'intelligenza e che conosceva
    qualche altro mezzo per  risolvere  la  questione,  qualcosa  che  non
    dipendeva  affatto  né  dall'intelligenza  né dal sapere.  Il principe
    Andréj  seguiva  con  attenzione  gli  atteggiamenti  del   viso   del
    generalissimo,  e l'unica espressione che poté cogliere fu di noia, di
    una certa curiosità per ciò che poteva significare  quel  mormorio  di
    voce femminile,  e di desiderio di salvare le convenienze.  Era chiaro
    che Kutuzòv disprezzava l'intelligenza e il sapere e persino l'amor di
    patria che aveva dimostrato Denissov,  ma li disprezzava non  già  con
    l'intelligenza o con il sentimento o con il sapere (poiché non cercava
    neppure  di  metterli  in  luce),  ma con qualche cosa di diverso.  Li
    disprezzava con la sua vecchiezza,  con la sua esperienza della  vita.
    Il  solo  ordine  che  in  quel  rapporto  Kutuzòv  aveva  dato di sua
    iniziativa si riferiva alle ruberie commesse dalle  truppe  russe.  Il
    generale  di  servizio,  giunto  alla  fine del rapporto,  porse a sua
    altezza serenissima un foglio da firmare,  riguardante la sanzione  da
    infliggere ad alcuni capi di prima linea su richiesta di un possidente
    nei cui campi avevano falciato l'avena ancora in erba.
    Kutuzòv,  nell'udire queste parole, fece schioccare le labbra e scosse
    il capo.
    - Buttalo nella stufa...  alle fiamme!  E te lo  dico  una  volta  per
    sempre,  mio  caro:  tutti  gli  affari di questo genere devono finire
    così,  nel fuoco.  Lascia che falcino  il  grano  e  brucino  legna  a
    volontà.  Io  non  ordino  di  farlo  e non lo permetto,  ma non posso
    punire.  Sono cose,  queste,  che non si possono  evitare.  Quando  si
    spacca legna, volano schegge  -  concluse.
    Gettò ancora uno sguardo sul foglio e, scuotendo la testa, esclamò:  -
    Oh, la scrupolosità tedesca!


    CAPITOLO 16.

    -  Be',  ora  ho finito  -  disse Kutuzòv,  firmando l'ultima carta e,
    dopo essersi alzato a fatica,  lisciandosi con la mano bianca il collo
    carnoso, si diresse allegramente verso la porta.
    La moglie del "pop",  alla quale tutto il sangue era affluito al viso,
    afferrò il piatto  che,  nonostante  i  lunghi  preparativi,  non  era
    riuscita  a  porgere a Kutuzòv al momento giusto e glielo offrì con un
    profondo inchino.
    Gli occhi del generalissimo si socchiusero; egli sorrise,  le prese il
    mento tra le dita e disse:
    - Che bella donna! Grazie, cara!
    Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni alcune monete d'oro e le pose sul
    piatto.
    - Be',  come va la vita?   -  chiese poi,  dirigendosi verso la stanza
    che gli era destinata. La moglie del "pop", sorridendo con le fossette
    del roseo viso, lo seguì nella camera.  L'aiutante uscì sul terrazzino
    coperto  e  invitò  il principe Andréj a colazione.  Una mezz'ora dopo
    questi fu chiamato da Kutuzòv.  Il generalissimo stava sdraiato in una
    poltrona  con la stessa giubba sbottonata di poco prima e con un libro
    tra le mani.  All'entrata del principe Andréj,  lo  chiuse  mettendovi
    come  segno un coltello.  Come Bolkonskij poté vedere dalla copertina,
    si trattava del libro "Les chevaliers du Cygne" di "madame" de Genlis.
    - Siediti,  siediti,  e discorriamo  -  gli disse  Kutuzòv.    -    E'
    triste,  sì molto triste. Ma ricordati, caro, io sono un padre per te,
    un secondo padre...
    Il principe Andréj raccontò a Kutuzòv  ciò  che  sapeva  degli  ultimi
    momenti di suo padre e ciò che aveva visto passando per Lissia-Gori.
    - A che punto,  a che punto ci hanno ridotto!   -  esclamò a un tratto
    Kutuzòv,  con voce commossa,  immaginandosi certo con  chiarezza,  dal
    racconto  del  principe  Andréj,  la  condizione  in cui si trovava la
    Russia.   -  Dammi tempo,  dammi tempo!   -  soggiunse con espressione
    minacciosa,  e, desiderando troncare quel discorso che lo turbava, gli
    disse:   -  Ti ho fatto chiamare per tenerti presso di me.
    - Ringrazio vostra altezza serenissima,  ma temo  di  non  essere  più
    adatto  per  lo stato maggiore  -  rispose il principe Andréj,  con un
    sorriso   che   non   sfuggì   a   Kutuzòv,   il   quale   lo   guardò
    interrogativamente.    -   E soprattutto  -  continuò il principe sono
    abituato al mio reggimento,  mi sono affezionato agli ufficiali  e  mi
    sembra che i soldati mi vogliano bene... Mi rincrescerebbe lasciare il
    reggimento.   Se   rinunzio  all'onore  di  rimanere  presso  di  voi,
    credetemi...
    Un'espressione  buona,  e  nello  stesso  tempo  leggermente  ironica,
    illuminava il grasso viso di Kutuzòv. Egli interruppe Bolkonskij.
    - Peccato!  Mi saresti stato utile, ma hai ragione, hai ragione. Non è
    qui che abbiamo bisogno di  uomini:  consiglieri  ce  ne  sono  sempre
    molti, ma veri uomini no. E i reggimenti non sarebbero quali sono se i
    consiglieri  vi prestassero servizio,  come fai tu.  Ti ricordo sin da
    Austerlitz...  Ti ricordo,  ti ricordo con la bandiera  in  pugno    -
    disse Kutuzòv,  e a quel ricordo, un lieto rossore si diffuse sul viso
    del principe Andréj.  Kutuzòv lo prese per un braccio,  gli  porse  la
    guancia e di nuovo il principe Andréj vide gli occhi del vecchio pieni
    di  lacrime.  Sebbene Andréj sapesse che Kutuzòv era facile al pianto,
    sebbene sentisse che gli era particolarmente  affezionato  e  che  era
    soprattutto  desideroso di dimostrargli la sua simpatia per la perdita
    subìta, si sentì lusingato e commosso da quel ricordo di Austerlitz.
    - Va' con Dio per la tua strada. La tua strada la conosco: è la strada
    dell'onore.  -  Tacque per un momento.  -  A Bucarest ti ho rimpianto:
    avevo bisogno di te per una missione...    -    E,  mutando  discorso,
    Kutuzòv  cominciò  a  parlare  della  guerra  di  Turchia e della pace
    conclusa.  -  Sì, sono stato molto criticato,  -  disse  -  sia per la
    guerra sia per la pace...  ma tutto viene a suo tempo.  "Tout vient  à
    point à celui qui sait attendre!" [34. Tutto arriva a tempo per chi sa
    aspettare].  Anche  laggiù  i  consiglieri  non erano meno numerosi di
    qui...   -  aggiunse,  ritornando  ai  consiglieri  che  gli  dovevano
    evidentemente stare a cuore.   -  Oh, i consiglieri, i consiglieri!  -
    esclamò.  -  Se avessi dato retta a tutti, là in Turchia,  non avremmo
    mai  concluso la pace né terminato la guerra.  Tutto fatto in fretta e
    furia, ma le cose fatte in fretta non hanno mai fine. Se Kamenskij non
    fosse  morto,  sarebbe  finito  male.   Con  tremila  uomini  prendeva
    d'assalto  una fortezza.  Conquistare una fortezza non è difficile,  è
    difficile vincere una guerra e per riuscirvi non si deve né  assediare
    né  attaccare.  Ci  vogliono,  invece,  "tempo e pazienza".  Kamenskij
    mandava i suoi uomini alla conquista di Rusùk,  e io  con  queste  due
    sole cose,  tempo e pazienza,  ho preso più fortezze di lui e ho fatto
    mangiare ai Turchi la carne di cavallo...   -  Scosse il capo.   -   E
    con i Francesi sarà la stessa cosa! Credi alle mie parole  -  aggiunse
    Kutuzòv, animandosi e battendosi il petto. Mangeranno anche loro carne
    di cavallo!  -  E di nuovo i suoi occhi si velarono di lacrime.
    -  Ma  intanto  si  dovrà  accettare  battaglia   -  disse il principe
    Andréj.
    - Sì,  se tutti lo vorranno non ci sarà altro da fare...  Ma  credimi,
    caro:  non  ci  sono  guerrieri  più forti del tempo e della pazienza.
    Fanno tutto loro,  ma i consiglieri "n'entendent pas de cette oreille,
    voilà le mal!" [35. Da quest'orecchio non ci sentono: ecco il guaio!].
    Gli uni vogliono,  gli altri non vogliono. Che fare?  -  domandò, come
    aspettando una risposta. Già, dimmi tu: che fare?  -  ripeté, e i suoi
    occhi brillavano di una luce profonda e intelligente.   -  Te lo  dirò
    io  che cosa si deve fare  -  proseguì,  poiché il principe Andréj non
    rispondeva.  -  Te lo dirò io che cosa si deve fare e cosa farò. "Dans
    le doute, mon cher, abstiens-toi" [36. Nel dubbio, mio caro, astienti]
    -  dichiarò, staccando bene le parole.   -  E ora,  amico mio,  addio:
    ricordati  che  condivido il tuo dolore con tutta l'anima e che per te
    non sono né altezza serenissima,  né principe,  né generalissimo ma un
    padre. Se avrai bisogno di qualcosa, vieni subito da me. Addio, caro!
    Lo  abbracciò  e  lo  baciò  di nuovo.  E il principe Andréj non aveva
    ancora varcato la soglia che Kutuzòv sospirò con calma  e  riprese  la
    lettura  interrotta del romanzo di "madame" de Genlis: "Les chevaliers
    du Cygne".
    Come e perché, il principe Andréj non avrebbe mai potuto spiegare,  ma
    sta  di  fatto  che  dopo quel colloquio con Kutuzòv egli tornò al suo
    reggimento rassicurato sull'andamento  generale  della  guerra  e  sul
    conto  dell'uomo  al  quale  era stato affidato.  Quanto più costatava
    l'assenza di ogni personalità in quel  vecchio  nell'animo  del  quale
    pareva  fossero  rimaste  soltanto  le abitudini delle passioni e,  in
    luogo dell'intelligenza  (che  raggruppa  i  fatti  e  ne  trae  delle
    conclusioni)  soltanto  la  capacità di contemplare con molta calma il
    succedersi degli avvenimenti,  tanto più  si  sentiva  tranquillo  che
    tutto sarebbe andato come bisognava che andasse.
    "Non ci metterà nulla di suo,  non inventerà nulla,  non intraprenderà
    nulla",  pensava il  principe  Andréj,  "ma  si  ricorderà  di  tutto,
    ascolterà tutto, metterà ogni cosa al suo posto; non impedirà nulla di
    utile  e non permetterà nulla di dannoso.  Capisce che c'è qualcosa di
    più forte e  di  più  importante  della  propria  volontà:  la  marcia
    ineluttabile  degli  avvenimenti,  che  egli  sa  vedere  e  di cui sa
    comprendere il significato e,  tenendolo presente,  rinunziare a farvi
    partecipare  la  sua  volontà.  E  ciò  che soprattutto induce ad aver
    fiducia in lui",  pensava il principe Andréj,  "è il fatto che egli  è
    russo,  nonostante  il romanzo di "madame" de Genlis e i suoi proverbi
    francesi,  che gli tremava la voce quando diceva: "A che punto,  a che
    punto  ci hanno ridotti!" e che aveva le lacrime in gola,  assicurando
    che avrebbe ridotto i nemici a mangiar carne di cavallo!".
    Su un tale sentimento, che tutti provavano più o meno vagamente, erano
    fondati quell'unità di pensiero e quel generale consenso  che  avevano
    accompagnato  la  nomina di Kutuzòv,  gradita al popolo ma sgradita ai
    circoli di Corte, a generale in capo.


    CAPITOLO 17.

    A Mosca,  partito l'imperatore,  la vita riprese il solito ritmo e  il
    suo  fluire  era  così simile a quello di prima che riusciva difficile
    ricordarsi delle ormai trascorse giornate di  entusiasmo  patriottico,
    difficile credere che la Russia fosse effettivamente in pericolo e che
    i  soci  del  circolo  inglese  fossero  anche altrettanti figli della
    patria,  pronti per essa a qualsiasi  sacrifizio.  La  sola  cosa  che
    facesse  ancora  pensare al generale spirito di entusiasmo patriottico
    durante  il  soggiorno  del  sovrano  a  Mosca  era  la  richiesta  di
    contributo in uomini e denaro che, non appena formulata, venne ridotta
    a una forma ufficiale e legale così da sembrare inevitabile.
    Mentre  il  nemico  si  avvicinava,  il modo di considerare la propria
    situazione degli abitanti di Mosca non solo non apparve più serio,  ma
    ancora  più  incosciente,  come  sempre  avviene  alla  gente che vede
    approssimarsi un grave pericolo.  In tale evenienza due  voci  parlano
    contemporaneamente  nel  cuore umano con identica forza: una ammonisce
    molto giudiziosamente di riflettere sulla natura del  pericolo  e  sui
    mezzi per scongiurarlo;  l'altra, ancora più giudiziosamente, dice che
    è cosa troppo penosa e tormentosa pensare al pericolo, dal momento che
    non è concesso all'uomo prevedere tutto,  che  non  è  in  suo  potere
    mutare  il corso degli avvenimenti e che pertanto è meglio distogliere
    lo sguardo da ciò che è penoso sino a che nulla è  ancora  avvenuto  e
    volgere la mente ai piaceri del momento.  Se l'uomo è solo, per lo più
    obbedisce alla prima voce;  se invece  si  trova  in  compagnia,  alla
    seconda.  Così appunto accadeva ora ai Moscoviti. Da parecchio tempo a
    Mosca non ci si divertiva come in quell'anno.
    I manifesti di Rastopcìn, su cui erano raffigurati una bettola, l'oste
    e il piccolo borghese moscovita Kàrpuska (il  quale  trovandosi  nella
    milizia  e  avendo  ecceduto un po' troppo nel bere,  sentito dire che
    Bonaparte voleva marciare su Mosca,  preso da un accesso  di  collera,
    insolentì  tutti  i  Francesi,  uscì  dalla  bettola e sotto l'insegna
    dell'aquila (37) arringò il popolo),  venivano letti e commentati come
    i più recenti epigrammi di Vassilij Lvovic' Puskin (38).
    Al  circolo  i  soci  si riunivano nella stanza d'angolo per leggere i
    manifesti; ad alcuni piaceva il modo con cui Kàrpuska prendeva in giro
    i Francesi, dicendo che i cavoli li avrebbero gonfiati, la "kascia" li
    avrebbe fatti scoppiare, che erano tutti nani,  e che una donna con il
    tridente  ne avrebbe abbattuti tre.  Alcuni non approvavano quel tono,
    che definivano sciocco e volgare.  Si raccontava che Rastopcìn  avesse
    espulso  da  Mosca tutti i Francesi,  anzi tutti gli stranieri,  tra i
    quali si trovavano spie e agenti di Napoleone;  ma raccontavano  tutto
    questo  soprattutto  per poter avere l'occasione di riferire le parole
    spiritose pronunziate da Rastopcìn alla loro partenza. Agli stranieri,
    spediti su un barcone a Niznij,  egli avrebbe detto: "Rentrez en vous-
    mêmes,  entrez dans la barque et n'en faites pas une barque de Charon"
    [39.  "Rientrate in voi stessi,  salite in barca e fate che  essa  non
    diventi  per  voi  la  barca di Caronte"].  Correva voce che già erano
    stati trasferiti tutti gli uffici statali e si aggiungeva subito  dopo
    lo  scherzo  di  Scinscin: che già solo per questo Mosca doveva essere
    grata a Napoleone.  Raccontavano che il suo reggimento sarebbe costato
    a Mamonov (40) ottocentomila rubli,  che il conte Bezuchov aveva speso
    anche di più per i suoi militi, ma che nel gesto di Bezuchov aveva più
    merito il fatto che egli stesso avrebbe indossato l'uniforme,  avrebbe
    inforcato  un  cavallo  alla  testa del reggimento e non avrebbe fatto
    pagare nulla a coloro che avessero voluto assistere allo spettacolo.
    - Non risparmiate proprio nessuno,  voi!   -  disse Julie Drubetzkaja,
    raccogliendo  e  stringendo  tra  le  dita  sottili  un  mucchietto di
    filacce.
    Julie si preparava a lasciare Mosca il giorno seguente  e  offriva  un
    ricevimento d'addio.
    - Bezuchov "est ridicule" ma è tanto buono, tanto gentile... Che gusto
    c'è ad essere così "caustique"?
    -  Multa!    -    gridò  un giovanotto in divisa da milite,  che Julie
    chiamava "mon chevalier" e che si preparava  a  partire  con  lei  per
    Niznij.
    Nel  salotto  di Julie,  come in molti altri salotti di Mosca,  si era
    deciso di  parlare  soltanto  russo,  e  coloro  che  per  distrazione
    pronunziavano qualche parola francese,  pagavano una multa a beneficio
    del Comitato di soccorso.
    - Un'altra multa per il gallicismo!   -  esclamò uno scrittore  russo,
    che  si  trovava  nel  salotto.   -  "Che gusto c'è a essere..." non è
    russo.
    - Voi non risparmiate nessuno    -    proseguì  Julie  al  giovane  in
    uniforme,  senza  badare all'osservazione dello scrittore.   -  Per la
    parola "caustique" mi dichiaro colpevole e sono pronta  a  pagare,  ma
    per  il piacere di dirvi la verità pagherò ancora altre volte;  quanto
    al gallicismo non rispondo  -  aggiunse,  rivolta allo scrittore.    -
    Non  ho né il tempo né il denaro del principe Golitzyn per prendere un
    professore che mi insegni il russo. Oh,  eccolo...   -  esclamò Julie.
    -  "Quand on"...  No,  no,  non mi lascio più cogliere in fallo...   -
    disse al giovane in divisa.  -  Quando si parla del sole, se ne vedono
    i raggi  continuò,  sorridendo gentilmente a Pierre.    -    Parlavano
    proprio  adesso  di  voi,  dicevano  che  il  vostro  reggimento  sarà
    certamente più bello di quello di Mamonov.
    - Ah, non parlatemi del mio reggimento!   -  rispose Pierre,  baciando
    la  mano alla padrona di casa e sedendole accanto.   -  Sapeste quante
    noie mi ha dato!
    - Lo comanderete voi stesso,  vero?    -    domandò  Julie  scambiando
    un'occhiata furba e significativa con il giovane in uniforme.
    In presenza di Pierre il milite non era già più tanto "caustique": sul
    suo  viso  passò  un'espressione  di  perplessità  sul  significato da
    attribuire al sorriso di Julie.  Per quanto fosse distratto e bonario,
    Pierre  aveva  una  personalità  che  paralizzava  immediatamente ogni
    velleità di canzonatura in sua presenza.
    - No  -  rispose, ridendo e guardando il suo gran corpo massiccio.   -
    Sarei  un bersaglio troppo facile per i Francesi...  e poi temo di non
    poter montare a cavallo...
    Tra il gruppo di  persone  passate  in  rivista,  atte  a  fornire  un
    argomento  di  conversazione agli ospiti di Julie,  capitarono anche i
    Rostòv.
    - Si dice che i loro affari vadano molto male  -  informò Julie.-   E'
    così  disordinato lui,  il conte!  I Razumovskij avevano intenzione di
    acquistare la casa e la tenuta presso Mosca,  ma le  trattative  vanno
    per le lunghe. Il conte esige un prezzo troppo alto.
    - No,  a quanto pare la vendita avrà luogo in questi giorni,  -  disse
    qualcuno  -  sebbene sia pazzesco comperare qualcosa a Mosca,  proprio
    ora.
    - Perché?  -  domandò Julie.  -  Credete che Mosca sia in pericolo?
    - Come mai, allora, voi partite?
    - Io? Strane domande! Parto perché... perché partono tutti, perché non
    sono né una Giovanna d'Arco, né un'amazzone.
    - Via, via, datemi ancora qualche straccetto...
    -  Se saprà condurre bene i suoi affari,  il conte Rostòv potrà pagare
    tutti i suoi debiti  -  riprese il milite.
    - E' un buon vecchio, ma un molto "pauvre sire" [41.  povero diavolo].
    Perché  restare  qui  tanto  a  lungo?  Da un pezzo volevano andare in
    campagna... Pare che Nathalie sia guarita,  vero?   -  domandò Julie a
    Pierre, con un sorriso malizioso.
    -  Attendono  il  figlio  minore    -   rispose Pierre.   -  Egli si è
    arruolato con i cosacchi di Obolenskij ed è andato a  Bélaja  Tzèrkov,
    dove si forma il reggimento.  Ma ora l'hanno trasferito nel mio,  e la
    famiglia lo aspetta da un giorno all'altro.  Il conte  voleva  partire
    parecchio tempo fa,  ma la contessa non intende assolutamente lasciare
    Mosca prima che arrivi il figlio.
    - Li ho veduti l'altro giorno in casa Arkarov:  Nathalie  è  di  nuovo
    bella e allegra.  Ha cantato una romanza.  Come tutto passa presto per
    certa gente!
    - Che cosa? Che cosa passa?  -  domandò Pierre un po' contrariato.
    Julie sorrise.
    - Sapete, conte,  che cavalieri come voi esistono soltanto nei romanzi
    di "madame" Souza?
    - Che cavaliere? Perché?  -  domandò Pierre, arrossendo.
    - Suvvia,  conte,  smettetela! "C'est la fable de tout Moscou. Je vous
    admire,  ma parole d'honneur" [42.  E' la favola di  tutta  Mosca.  Vi
    ammiro, parola d'onore].
    - Multa! Multa!  -  gridò il milite.
    - Ma sì, sì, sì, va bene... Non si può più parlare... com'è noioso.
    - "Qu'est-ce qui est la fable de tout Moscou?" [43. Chi è la favola di
    tutta Mosca?]  -  domandò Pierre, in tono seccato, alzandosi.
    - Smettetela, conte, lo sapete!
    - Io non so nulla!  -  rispose Pierre.
    -  Io  so  che  eravate amico di Nathalie e perciò...  No,  io vi sono
    sempre stata più amica di Vera... "cette chère Vera!" [44. quella cara
    Vera!].
    - Non,  "madame"  -  proseguì Pierre in tono seccato.   -  Io  non  mi
    sono  affatto  assunto  la parte di cavaliere della Rostova ed è da un
    mese che non vado in casa loro. Ma non capisco la crudeltà...
    - "Qui s'excuse,  s'accuse" [45.  Chi si scusa,  si accusa]  -   disse
    Julie,  sorridendo e agitando le filacce e, per non essere rimbeccata,
    si affrettò a parlare d'altro.   -  A  proposito,  ho  saputo  che  la
    povera Màrija Bolkònskaja è giunta ieri a Mosca.  Avete sentito che ha
    perduto suo padre?
    - Davvero? Dov'è? Desidererei vederla  -  disse Pierre.
    - Ho passato con lei la serata.  Oggi o domani mattina  parte  con  il
    nipote per la loro villa presso Mosca.
    - E come sta?  -  domandò ancora Pierre.
    - Non c'è male, ma è molto triste. E sapete chi l'ha salvata? E' tutto
    un romanzo: Nikolàj Rostòv! Era accerchiata, volevano ucciderla, hanno
    ferito   alcuni  suoi  famigli...   E'  sopraggiunto  Rostòv  e  si  è
    precipitato a salvarla...
    - Un altro romanzo!   -  esclamò il giovane milite.   -    Decisamente
    questa  fuga  generale  è  fatta  affinché tutte le vecchie zitelle si
    sposino. Catiche è una, la principessina Bolkònskaja un'altra...
    - Sapete che io credo davvero che sia "un petit peu amoureuse du jeune
    homme"? [46. che sia un po' innamorata del giovanotto].
    - Multa! Multa! Multa!
    - Ma come si può dire questo in russo?


    CAPITOLO 18.

    Quando Pierre tornò a casa gli  furono  consegnati  due  manifesti  di
    Rastopcìn, recatigli quel giorno stesso.
    Nel  primo  si  dichiarava  essere  falsa la voce secondo cui il conte
    Rastopcìn avrebbe proibito ai moscoviti di  lasciare  la  città;  che,
    anzi,  il  conte  era  ben  contento  che  le  mogli dei signori e dei
    mercanti partissero.  "Meno paure,  meno  dicerie",  era  scritto  nel
    manifesto,  "ma  io  garantisco  con la mia vita che il malfattore non
    giungerà a Mosca".  Queste parole,  per la prima volta,  fecero capire
    chiaramente  a  Pierre che i Francesi sarebbero senza dubbio entrati a
    Mosca. Nel secondo manifesto era detto che il nostro quartier generale
    si trovava a Vjazma,  che il conte Wittgenstein (47) aveva sconfitto i
    Francesi,  ma  che,  siccome molti abitanti desideravano armarsi,  era
    pronto nell'arsenale della  città  un  notevole  numero  di  armi  che
    potevano  essere acquistate a buon mercato: sciabole,  pistole fucili.
    Il tono del manifesto non era più scherzoso come quello dei precedenti
    sui discorsi di Cigirin.  Pierre rifletté a  lungo.  Quella  terribile
    nube  temporalesca,  che  egli  aveva invocato con tutta l'anima e che
    nello  stesso  tempo  lo  riempiva   di   involontario   orrore,   era
    evidentemente vicina.
    "Devo  entrare  nel  servizio  militare e partire per la guerra oppure
    aspettare qui?".  Era la domanda che Pierre si era posta un  centinaio
    di volte.  Prese un mazzo di carte, le dispose sul tavolo e cominciò a
    fare un solitario.
    "Se il solitario mi riesce",  si disse dopo aver  mescolato  le  carte
    tenendo il mazzo in mano e guardando in alto,  "significa...  che cosa
    significa?".  Non fece in tempo a rispondere a se stesso,  quando  udì
    dietro  l'uscio dello studio la voce della principessa primogenita che
    domandava il permesso di entrare.  "Significherà che devo partire  per
    la  guerra",   concluse  Pierre.  E  ad  alta  voce,  volgendosi  alla
    principessa, aggiunse:
    - Entrate, entrate!
    La più anziana  delle  principessine,  dal  lungo  busto  e  dal  viso
    pietrificato,  era la sola che continuasse a vivere in casa di Pierre.
    Le altre due si erano maritate.
    - Scusatemi,  "mon cousin",  se sono venuta da voi  -  disse ella  con
    voce  agitata  e  colma  di  rimprovero.    -  Bisogna una buona volta
    prendere una qualche decisione!  Che succederà?  Tutti sono partiti da
    Mosca e il popolo si ribella. Perché noi restiamo?
    -  Al  contrario,  "ma cousine",  pare che tutto vada bene  -  rispose
    Pierre con il consueto tono ironico che soleva usare parlando  con  la
    cugina,  per  nascondere  il senso di disagio che gli cagionava la sua
    parte di benefattore verso di lei.
    -  Già,  tutto  va  bene,  benissimo!  Oggi  Varvara  Ivànovna  mi  ha
    raccontato  come  si distinguono le nostre truppe!  C'è proprio di che
    essere orgogliosi!  Il popolo è in rivolta,  la mia cameriera  non  mi
    obbedisce  più  e  ha cominciato anche ad essere insolente.  Di questo
    passo finiremo con  l'essere  malmenati.  Per  le  strade  non  è  più
    possibile circolare e,  quello che è peggio,  oggi o domani i Francesi
    saranno qui: che aspettiamo? Di una cosa sola vi prego,  "mon cousin",
    ordinate  di  farmi condurre a Pietroburgo.  Per quanto poco io valga,
    non posso vivere sotto la dominazione di Buonaparte.
    -  Ma  smettetela,  "ma  cousine"!  Di  dove  vi  giungono  le  vostre
    informazioni? Al contrario...
    - Io,  al vostro Napoleone,  non mi sottometto. Padronissimi gli altri
    di fare come vogliono... Se voi non volete...
    - Ma certo, darò subito gli ordini.
    La principessina, irritata evidentemente di non potersela prendere con
    nessuno, si sedette su una sedia, borbottando qualcosa tra i denti.
    - Ma vi hanno riferito cose false  -  disse Pierre.  -  In città tutto
    è tranquillo e non c'è  il  minimo  pericolo.  Ho  finito  or  ora  di
    leggere...    -    e indicò i due manifesti.   -  Il conte dichiara di
    garantire con la sua vita che il nemico non arriverà a Mosca.
    - Ah, questo vostro conte!  -  esclamò rabbiosamente la principessina.
    -   E'  un  ipocrita,  un  malvagio  che  ha  spinto  il  popolo  alla
    ribellione.  Non  è  stato  forse  lui  a  scrivere  in questi stupidi
    manifesti che bisognava prendere la  gente,  chiunque  fosse,  per  il
    ciuffo  e  metterla  al  fresco?  Com'è  stupido!  E  a  chi acchiappa
    qualcuno, onore e gloria!  Mi diceva Varvara Ivànovna che per poco non
    l'hanno ammazzata perché si era messa a parlare in francese.
    -  Ma  sì,  è  così...  voi però ve la prendete sempre troppo a cuore-
    disse Pierre, e si mise a disporre le carte per il suo solitario.
    Sebbene il gioco fosse riuscito,  egli non partì  per  la  guerra,  ma
    rimase  a  Mosca  ormai  deserta,  sempre  in  preda  a incertezze e a
    turbamenti,  aspettando qualcosa di orribile,  con apprensione e nello
    stesso tempo con gioia.
    Il giorno seguente,  verso sera,  la principessina partì e a Pierre si
    presentò  l'amministratore  con  la  notizia  che  il  denaro  da  lui
    richiesto  per  equipaggiare il reggimento non poteva essere procurato
    se non vendendo una tenuta.  L'amministratore fece presente a  Pierre,
    in  linea  di  massima,  che  tutte  quelle  fantasie  del  reggimento
    l'avrebbero mandato in rovina. Pierre, ascoltandolo, riusciva a stento
    a dissimulare un sorriso.
    - E sta bene, vendetela!   -  rispose.   -  Che ci volete fare?  Ormai
    non posso rifiutarmi!
    Quanto  più  lo stato delle cose,  e in particolare degli affari suoi,
    andava peggiorando,  tanto più Pierre se ne rallegrava,  tanto più gli
    appariva evidente che la catastrofe da lui attesa era vicina. Ormai in
    città,  dei  conoscenti  di  Pierre non era rimasto quasi più nessuno,
    Julie era partita, la principessina Màrija pure.  Tra gli intimi erano
    rimasti soltanto i Rostòv, ma Pierre non li frequentava più.
    Quel  giorno  il  conte  Bezuchov,  per  distrarsi un po',  si recò al
    villaggio di Vorontzovo a vedere un  grosso  pallone  aerostatico  che
    Leppich  stava costruendo,  allo scopo di sorvegliare il nemico,  e un
    altro pallone di prova che doveva essere lanciato il giorno dopo.  Non
    era ancora pronto ma, come Pierre venne a sapere, Leppich lo costruiva
    per  desiderio  dell'imperatore,  il  quale,  a  proposito  di  questo
    pallone, aveva scritto a Rastopcìn quanto segue:
    "Aussitôt que Leppich sera prêt,  composez-lui  un  équipage  pour  sa
    nacelle  d'hommes  sûrs  et  intelligents,  et dépêchez un courrier au
    général Koutouzoff pour l'en prévenir.  Je l'ai instruit de la  chose.
    Recommandez,  je  vous  prie,  à  Leppich  d'être  bien  attentif  sur
    l'endroit où il descendra la première fois pour ne pas se  tromper  et
    ne  pas tomber dans les mains de l'ennemi.  Il est indispensable qu'il
    combine ses mouvements avec le général en chef" ["Non  appena  Leppich
    sarà  pronto,  costituite per la sua navicella un equipaggio di uomini
    sicuri e intelligenti,  e spedite  subito  un  corriere  ad  avvertire
    Kutuzòv.  Io l'ho già informato della cosa.  Raccomandate, vi prego, a
    Leppich, di stare molto attento sul luogo in cui scenderà per la prima
    volta a terra,  per non correre il pericolo di cadere nelle  mani  del
    nemico.  E'  indispensabile  che egli concordi i suoi movimenti con il
    generale in capo"] (48).
    Tornando a casa da Vorontzovo e passando per piazza Bolòtnaja,  Pierre
    vide  una folla di gente radunata nel luogo delle esecuzioni: si fermò
    e scese dalla carrozza.  Si  trattava  della  punizione  di  un  cuoco
    francese,  accusato di spionaggio. L'esecuzione era appena terminata e
    il boia stava slegando dal cavalletto un uomo grande  e  grosso  dalle
    bassette  rosse,  le  calze  turchine  e  la  giacca  verde.  Un altro
    condannato, pallido e magro, stava lì accanto.  Entrambi,  a giudicare
    dal  viso,  erano  francesi.  Con  un  aspetto spaventato e dolorante,
    simile a quello del francese magrolino,  Pierre si fece largo  tra  la
    folla.
    -  Che  è  successo?  Di  che  si tratta?  Perché?   -  domandava.  Ma
    l'attenzione della folla  -  funzionari,  piccoli borghesi,  mercanti,
    contadini,   donne   avvolte  in  mantelline  e  pellicciottiera  così
    avidamente tesa a ciò che avveniva sul palco che nessuno gli  rispose.
    L'uomo grande e grosso si rialzò,  aggrottò il viso,  si strinse nelle
    spalle e, volendo evidentemente far mostra della propria forza,  senza
    guardare  nessuno,  cominciò  a  rivestirsi;  ma a un tratto le labbra
    presero a tremargli,  ed egli si mise a piangere,  irritato contro  se
    stesso,  come piangono gli uomini adulti e sanguigni. La folla parlava
    ad alta voce per soffocare  -  così parve a Pierre  -   il  sentimento
    della pietà.
    - E' il cuoco di un principe...
    - Eh,  "monsieur", si vede che la salsa russa pizzica troppo il palato
    francese... Allega i denti, eh?  -  disse uno scrivano dal viso rugoso
    che si trovava accanto a Pierre, nel momento in cui il francese si era
    messo a piangere.  Lo scrivano si  guardò  attorno,  evidentemente  in
    attesa  che  il  suo  scherzo  venisse apprezzato.  Alcuni si misero a
    ridere;  altri,  con aria spaventata,  continuarono a guardare il boia
    che spogliava il secondo condannato.
    Pierre tirò su con il naso, aggrottò il viso e, voltatosi bruscamente,
    tornò  indietro  senza  smettere  di  borbottare  tra  sé  e sé mentre
    camminava e prendeva posto nella vettura. Strada facendo, sussultò più
    volte e gridò così forte che il cocchiere gli domandò:
    - Che cosa comandate?
    - Dove vai?  -  urlò al cocchiere che si dirigeva verso la Lubianka.
    - Dal generale governatore,  come mi avete ordinato   -    rispose  il
    cocchiere.
    - Imbecille!  Animale!   -  urlò Pierre,  al quale di rado accadeva di
    rivolgere insulti al cocchiere.   -  Ho  detto  di  andare  a  casa...
    spicciati, imbecille!
    "Bisogna partire oggi stesso", bofonchiò tra i denti.
    Pierre, alla vista della punizione di quell'uomo e di quella folla che
    si  accalcava sul luogo dei supplizi,  aveva così risolutamente deciso
    di non poter rimanere più a lungo a  Mosca  e  di  partire  il  giorno
    stesso  per l'esercito che gli pareva di averlo già detto al cocchiere
    e che questi dovesse saperlo.
    Giunto a casa, avvertì il suo cocchiere Evstàfevic', che faceva tutto,
    era al corrente di tutto, noto in tutta Mosca, che quella notte stessa
    sarebbe partito per Mozaisk, dove si trovavano le truppe, e ordinò che
    fossero mandati là i suoi cavalli da sella.
    Tutto ciò non poteva essere organizzato quel giorno stesso  e  perciò,
    seguendo  il  consiglio  di  Evstàfevic',  Pierre dovette rimandare la
    partenza al giorno successivo per dar tempo ai cavalli di ricambio  di
    precederlo.
    Il giorno 21,  dopo un periodo di tempo cattivo, era tornato il sereno
    e dopo pranzo Pierre lasciò Mosca. Nella notte,  durante il cambio dei
    cavalli a Perchùskovo,  fu informato che quella sera si era svolta una
    grande battaglia.  Si diceva che lì,  a Perchùskovo,  la  terra  aveva
    tremato per le cannonate.  Domandò chi avesse vinto,  ma nessuno fu in
    grado di rispondergli.  ( Si trattava della battaglia  di  Scevardinò,
    del 24). Sul far dell'alba giunse nelle vicinanze di Mozaisk.
    Tutte  le  case di Mozaisk erano occupate dalle truppe e alla locanda,
    nella quale il suo  staffiere  e  il  suo  cocchiere  erano  venuti  a
    incontrarlo,  non  c'erano  più  camere  libere:  erano tutte piene di
    ufficiali.
    A Mozaisk e nei dintorni si vedevano truppe accampate o in marcia.  Si
    incontravano  da  ogni parte cosacchi,  fanti,  soldati di cavalleria,
    furgoni, cannoni, cassoni. Pierre si affrettava a spingersi innanzi e,
    quanto più si allontanava da Mosca e si immergeva in  quell'oceano  di
    truppe, tanto più era invaso da un turbamento inquieto e da una strana
    mai  provata  sensazione di gioia,  una sensazione simile a quella che
    aveva avvertito all'arrivo dell'imperatore nel palazzo Slobodskij,  la
    sensazione  della  necessità di intraprendere e di sacrificare qualche
    cosa.  Ora gli era gradito rendersi conto che tutto ciò che  forma  la
    felicità  degli  uomini    -   le comodità della vita,  la ricchezza e
    magari la vita stessa   -    erano  sciocchezze  che  si  gettano  via
    volentieri  a  confronto  di  qualche  altra cosa che...  Ma di che si
    trattasse Pierre non sapeva e neppure cercava di spiegarsi per  chi  e
    per  che  cosa  provasse un piacere particolare nel sacrificare tutto.
    Non lo interessava il sapere perché volesse compiere il sacrificio, ma
    il sacrificio in se stesso  gli  suscitava  un  sentimento  nuovo,  di
    gioia.


    CAPITOLO 19.

    Il  24 ebbe luogo la battaglia presso la ridotta di Scevardinò,  il 25
    non fu sparato neppure un colpo né dall'una né dall'altra parte; il 26
    avvenne la battaglia di Borodinò.
    Perché e come vennero date e accettate le battaglie di Scevardinò e di
    Borodinò?  Per qual motivo fu data la battaglia di Borodinò,  che  non
    poteva avere alcun senso né per i Russi né per i Francesi?  Il suo più
    immediato risultato fu e  doveva  essere  questo:  per  noi  l'esserci
    avvicinati  alla perdita di Mosca (cosa che temevamo più di ogni altra
    al  mondo)  e  per  i  Francesi  l'essersi  avvicinati  alla   perdita
    dell'intera  armata  (cosa che essi temevano più di ogni altra cosa al
    mondo).  Questo risultato era evidente anche  prima  della  battaglia;
    tuttavia Napoleone la diede e Kutuzòv l'accettò.
    Se  i  due  condottieri  avessero  diretto  i loro atti secondo motivi
    razionali sembrerebbe che a Napoleone  dovesse  apparire  chiaro  che,
    spingendosi innanzi per duemila miglia e prendendo l'iniziativa di una
    battaglia  con  il  probabile  rischio  di  perdere  un quarto del suo
    esercito,  sarebbe andato verso la rovina sicura;  e ugualmente doveva
    apparire  chiaro  a  Kutuzòv  che  accettando  battaglia  e rischiando
    anch'egli di perdere un  quarto  del  suo  esercito,  avrebbe  perduto
    certamente  Mosca.  Per  Kutuzòv la cosa era matematicamente evidente,
    com'è evidente che se giocando a dama ho una pedina in meno e continuo
    a fare cambi,  perderò senza dubbio la partita: non  devo  quindi  far
    cambi.  Quando  il  mio  avversario  ha  sedici  pedine,  e  io  ne ho
    quattordici, io sono soltanto di un ottavo più debole di lui; ma se io
    avrò cambiato tredici pedine, egli sarà tre volte più forte di me.
    Sino alla battaglia di Borodinò le  forze  russe  stavano  alle  forze
    francesi come cinque sta a sei,  dopo la battaglia come uno sta a due:
    vale a dire che prima della battaglia  noi  avevamo  centomila  uomini
    contro  centoventimila e dopo la battaglia ne avevamo cinquanta contro
    cento.  E tuttavia Kutuzòv,  intelligente ed  esperto  com'era,  aveva
    accettato  la  battaglia  e Napoleone,  condottiero geniale,   -  come
    viene definito  -  l'aveva impegnata, perdendo un quarto dell'esercito
    e accrescendo ancora la distanza dalle proprie basi di operazioni.  Se
    si  dicesse  che,  occupando  Mosca,  egli  pensava di porre fine alla
    guerra,  come già era avvenuto  con  l'occupazione  di  Vienna,  molte
    testimonianze starebbero a provare il contrario. Gli stessi storici di
    Napoleone  raccontano  che  subito dopo Smolènsk,  egli avrebbe voluto
    fermarsi: comprendeva quanto fosse pericolosa la  profondità  del  suo
    fronte e sapeva che l'occupazione di Mosca non avrebbe posto fine alla
    campagna,  poiché  da  Smolènsk vedeva in quali condizioni gli fossero
    lasciate le città russe e non  riceveva  risposta  alle  sue  ripetute
    dichiarazioni di voler iniziare trattative di pace.
    Dando  e  accettando  la  battaglia  di Borodinò,  Kutuzòv e Napoleone
    agivano malgrado la loro volontà e in modo irrazionale. E gli storici,
    a cose avvenute,  soltanto in seguito hanno addotto prove  astutamente
    complesse  per dimostrare la previdenza e la genialità dei condottieri
    i  quali,  tra  tutti  gli  involontari  strumenti  degli  avvenimenti
    mondiali, furono i fattori più servili e più involontari.
    Gli  antichi  ci  hanno  lasciato  modelli di poemi eroici nei quali i
    protagonisti accentrano su di sé tutto l'interesse della storia, e non
    riusciamo a capacitarci che ai nostri tempi una storia del genere  non
    abbia più senso.
    Sull'altra  questione  di  come furono date la battaglia di Borodinò e
    quella  di  Scevardinò  che  la  precedette,  esistono  pure  risposte
    esplicative  ben definite,  esplicative e note a tutti,  assolutamente
    false. Gli storici descrivono l'azione nel modo che segue:
    "L'esercito russo nella sua ritirata da Smolènsk, cercava la posizione
    più vantaggiosa per una battaglia campale,  e tale  posizione  sarebbe
    stata trovata a Borodinò.  I Russi avevano precedentemente fortificato
    questa posizione,  a sinistra della strada (da Mosca a Smolènsk) quasi
    ad angolo retto con essa,  da Borodinò a Utitza,  proprio là dove ebbe
    luogo la battaglia.
    "Dinanzi a questa posizione  fu  stabilito  un  avamposto  fortificato
    sull'altura di Scevardinò per sorvegliare le mosse del nemico.  Il 24,
    Napoleone avrebbe attaccato questo avamposto e lo avrebbe preso; il 26
    assalì l'intero esercito russo schierato sulla posizione di Borodinò".
    Questo dicono gli storici,  ma tutto ciò è in contrasto con la verità,
    e  chiunque  volesse  studiare  con cura la battaglia,  se ne potrebbe
    facilmente convincere.
    I Russi non cercarono la posizione più  vantaggiosa  per  loro.  Anzi,
    durante  la  ritirata,  ne trascurarono parecchie,  migliori di quella
    scelta.  Non si fermarono su alcuna,  sia perché  Kutuzòv  non  voleva
    accettare una posizione non scelta da lui,  sia perché la necessità di
    una battaglia nazionale non si presentava ancora come inevitabile, sia
    perché Miloràdovic' non era ancora giunto con le truppe della  riserva
    e sia,  infine,  per molti altri innumerevoli motivi. Sta di fatto che
    le precedenti posizioni erano più forti e che quella di  Borodinò  (là
    dove  ebbe  luogo  la  battaglia)  non solo non era forte,  ma non era
    neppure "una posizione" più di quanto non  lo  fosse  qualsiasi  altro
    punto dell'impero russo che venga segnato a caso,  con uno spillo,  su
    una carta geografica.
    Non solo  i  Russi  non  fortificarono  il  campo  di  Borodinò  verso
    sinistra,  ad  angolo  retto  con la strada,  cioè sul terreno dove si
    svolse la battaglia,  ma sino al 25 agosto 1812 non si  affacciò  loro
    neppure  la  possibilità  che  la  battaglia potesse svolgersi in quel
    luogo.
    Servono a dimostrarlo,  anzitutto il fatto che sino al 25  agosto  non
    esistevano in quel luogo fortificazioni e che queste,  iniziate il 25,
    il giorno 26 non erano ancora terminate;  in secondo luogo lo dimostra
    la  posizione del forte di Scevardinò: questo forte,  dato il luogo in
    cui fu accettata la battaglia,  non  ha  alcun  senso.  Perché  quella
    località  fu  più  fortificata  delle altre?  E perché venne difesa il
    giorno 24 sino a tarda sera, esaurendo tutte le forze e perdendo quasi
    seimila uomini?  Per osservare le mosse del nemico sarebbe bastato  un
    distaccamento  di  cosacchi.  In  terzo luogo,  a dimostrazione che la
    località dove avvenne la battaglia non era stata prescelta in anticipo
    e che la ridotta di Scevardinò non era l'avamposto,  sta il fatto  che
    Barclay de Tolly e Bagratiòn sino al 25 furono convinti che la ridotta
    fosse il fianco sinistro della posizione, e che lo stesso Kutuzòv, nel
    suo rapporto scritto d'impeto dopo la battaglia,  indica la ridotta di
    Scevardinò come il fianco "sinistro" della posizione.  Solo molto  più
    tardi, quando si ebbero particolareggiate relazioni sulla battaglia di
    Borodinò,  si  inventò  (probabilmente per giustificare gli errori del
    comandante in capo,  che doveva essere infallibile)  quella  strana  e
    inesatta affermazione secondo cui la ridotta di Scevardinò serviva "da
    avamposto"  (mentre  non  era  che  un  punto  fortificato  del fianco
    sinistro) e secondo cui la battaglia di Borodinò fu da  noi  accettata
    su una posizione precedentemente scelta, fortificata, mentre in realtà
    essa  si  svolse  in  un terreno del tutto imprevisto e quasi privo di
    qualsiasi opera di fortificazione.
    Evidentemente l'azione si svolse così: la posizione era  stata  scelta
    sul  fiume Kolocia,  che taglia la strada maestra di Smolènsk formando
    con essa non un angolo retto,  ma un angolo acuto,  cosicché il fianco
    sinistro era a Scevardinò,  quello destro presso il villaggio di Novoe
    e il centro a Borodinò, alla confluenza dei due fiumi Kolocia e Vòjna.
    Questa posizione,  protetta dal fiume Kolocia,  per  un  esercito  che
    aveva  lo scopo di arrestare il nemico,  che moveva lungo la strada di
    Smolènsk alla volta di Mosca,  appare evidente,  a chiunque osservi il
    campo di Borodinò, dimenticando il modo in cui si svolse la battaglia.
    Napoleone, movendo il giorno 24 verso il villaggio di Valùevo non vide
    (così  dicono gli storici) la posizione dei Russi da Utitza a Borodinò
    (posizione che non poteva vedere giacché  non  esisteva)  e  non  vide
    nemmeno   un   avamposto   dell'esercito   russo,   ma  inseguendo  la
    retroguardia russa,  si scontrò alla  ridotta  di  Scevardinò  con  il
    fianco  sinistro  nemico  e,   inaspettatamente  per  i  Russi,   fece
    attraversare alle sue truppe il fiume Kolocia.  E  i  Russi,  mancando
    loro  il tempo di impegnare una battaglia campale,  arretrarono con la
    loro ala sinistra da una posizione che avevano intenzione di occupare,
    e  ne  occuparono  una  nuova  che  non  era  stata  né  prevista   né
    fortificata.
    Passando  sulla  riva  sinistra del Kolocia,  a sinistra della strada,
    Napoleone spostò il campo di battaglia da destra a sinistra (dal punto
    di vista dei Russi) e lo spostò nella pianura tra Utitza,  Semënovskoe
    e Borodinò,  un tratto di terreno che,  come posizione,  non aveva per
    noi nulla di più vantaggioso di qualsiasi altra della  Russia,  e  nel
    quale si svolse tutta la battaglia del 26.
    Il  piano  della  battaglia  presupposta  e  di  quella  accaduta sarà
    all'incirca il seguente:

    [Qui,  nel testo originale,  è raffigurata la pianta della zona.  Nota
    dei curatori].

    Se  Napoleone  non  fosse  arrivato  la sera del 24 di agosto al fiume
    Kolocia e non avesse ordinato di attaccar subito,  la sera stessa,  la
    ridotta,  ma avesse iniziato l'attacco il mattino successivo,  nessuno
    avrebbe messo in dubbio che la ridotta di  Scevardinò  costituisse  il
    fianco  sinistro  della  nostra  posizione,  e la battaglia si sarebbe
    svolta  così  come  noi  ci  attendevamo.  In  tal  caso,   con  tutta
    probabilità,  avremmo difeso Scevardinò,  nostro fianco sinistro,  con
    maggior accanimento;  avremmo attaccato Napoleone al  centro  o  sulla
    destra,  e il 24 si avrebbe avuto la battaglia campale sulla posizione
    che era stata prevista e fortificata.  Ma poiché l'attacco  al  nostro
    fianco  sinistro  fu  sferrato la sera,  in seguito al ritirarsi della
    nostra retroguardia, cioè subito dopo lo scontro di Gridnëvo, e poiché
    i generali russi non vollero o non furono in grado di iniziare  quella
    sera  stessa  del 24 una battaglia campale,  la prima e più importante
    azione della battaglia di Borodinò fu perduta  sin  dal  giorno  24  e
    portò,  evidentemente,  anche alla sconfitta della battaglia impegnata
    il giorno 26.
    Dopo la perdita della ridotta di Scevardinò,  la mattina del 25 noi ci
    trovammo  senza  una linea ben determinata sul fianco sinistro e fummo
    costretti a far ripiegare la nostra ala sinistra e a  fortificarla  in
    fretta e furia in un punto qualsiasi.
    Ma non soltanto il 26 agosto le truppe russe non avevano a loro difesa
    che deboli fortificazioni,  e per di più incompiute,  ma lo svantaggio
    di questa posizione fu reso più grave dal fatto che i generali  russi,
    non  rendendosi  del  tutto  conto  di quanto era accaduto (la perdita
    della posizione sul fianco sinistro  e  lo  spostamento  di  tutto  il
    futuro  campo  di battaglia da destra a sinistra) restarono sulla loro
    linea eccessivamente allungata da Novoe a Utitza  e,  di  conseguenza,
    furono  costretti  a spostare le truppe nel corso della battaglia,  da
    destra a sinistra.  In tal modo,  durante  l'intera  azione,  i  Russi
    ebbero contro la nostra ala sinistra,  due volte più debole,  le forze
    di tutto l'esercito francese.  (L'azione di Ponjatowskij  (49)  contro
    Utitza e di Uvarov sul fianco destro dei Francesi costituirono episodi
    indipendenti dall'andamento generale della battaglia).
    La  battaglia  di  Borodinò non si svolse dunque come ci viene narrata
    nel tentativo di nascondere gli errori dei nostri generali (sminuendo,
    di conseguenza,  la gloria  dell'esercito  e  del  popolo  russo).  La
    battaglia  di  Borodinò  non  fu  combattuta su una posizione scelta e
    fortificata con forze appena inferiori da parte russa,  ma per effetto
    della  perdita  della  ridotta  di Scevardinò,  fu accettata da noi in
    terreno  aperto,  quasi  privo  di  fortificazioni,  con  forze  molto
    inferiori  a quelle dei Francesi,  cioè in condizioni tali per cui non
    soltanto era assurdo battersi per dieci ore con esito incerto,  ma era
    assurdo  resistere anche per sole tre ore,  senza evitare all'esercito
    la disfatta completa e la fuga.


    CAPITOLO 20.

    La mattina del 25 Pierre partì da Mozaisk.  Percorrendo la strada  che
    da  una  grande  altura  scendeva  ripida e tortuosa e conduceva fuori
    dalla città,  Pierre passò davanti alla cattedrale che  sorgeva  sulla
    destra  e  dove  si  stava  celebrando  una  funzione e si sonavano le
    campane,  smontò dalla carrozza e proseguì a piedi.  Alle  sue  spalle
    scendeva un reggimento di cavalleria con i cantori in testa;  incontro
    a lui saliva un convoglio di carri  che  trasportavano  i  feriti  del
    combattimento   del   giorno  antecedente.   I  contadini  conducenti,
    incitando e frustando i cavalli,  urlavano e correvano  da  una  parte
    all'altra della strada.  I carri, su ognuno dei quali erano coricati o
    seduti tre o quattro soldati feriti,  sobbalzavano sui sassi sparsi da
    poco  a  guisa  di selciato sulla ripida discesa.  I feriti,  bendati,
    pallidi,  con le  labbra  serrate  e  le  sopracciglia  contratte,  si
    aggrappavano  alle  sponde,  sobbalzando e urtandosi a vicenda.  Quasi
    tutti guardavano con infantile  curiosità  il  berretto  bianco  e  la
    marsina verde di Pierre.
    Il  cocchiere  di Pierre urlava imbestialito contro i carri dei feriti
    perché si tenessero da  una  parte  della  strada.  Il  reggimento  di
    cavalleria,  che scendeva cantando dall'altura,  raggiunse la carrozza
    di Pierre e le sbarrò la via. Pierre si fermò, addossandosi al margine
    della strada scavata nella collina. Da dietro la sommità di questa, il
    sole non riusciva a penetrare nella strada incassata,  dove  si  aveva
    una  sensazione  di  freddo  e di umidità;  al di sopra della testa di
    Pierre splendeva un radioso mattino di agosto, allietato da un allegro
    scampanio.  Un carro carico di  feriti  si  fermò  sul  margine  della
    strada,  proprio accanto a Pierre. Il conducente, con i piedi infilati
    in calzature di tiglio intrecciato,  corse  ansimando  al  suo  carro,
    sistemò  una  pietra  dietro  una  delle ruote posteriori e si mise ad
    accomodare i finimenti al suo cavalluccio che si era fermato.
    Un vecchio soldato ferito,  con un  braccio  fasciato,  che  camminava
    dietro  il  carro,  si  afferrò  a esso con il braccio sano e si volse
    verso Pierre.
    - E allora,  compaesano,  ci lasceranno qui o  ci  porteranno  sino  a
    Mosca?  -  domandò.
    Pierre era così soprappensiero che non udì la domanda. Guardava ora il
    reggimento  di cavalleria che si era scontrato allora con il convoglio
    dei carri, ora quel carro accanto al quale si trovava e su cui stavano
    due feriti seduti e uno sdraiato. Uno dei soldati seduti doveva essere
    stato colpito a una guancia.  Aveva la testa fasciata di stracci e una
    gola gonfia,  grossa quanto la testa di un bambino; la bocca e il naso
    erano storti da un lato.  Egli guardava  la  cattedrale  e  si  faceva
    continui  segni  di  croce.  L'altro,  una  giovane recluta,  biondo e
    bianco,  dal viso delicato completamente esangue,  un sorriso  mite  e
    immobile,  guardava Pierre,  il terzo stava steso bocconi e non gli si
    vedeva il viso.  I cantori del  reggimento  passavano  alti  sopra  il
    carro.
    - "Ah,  si è perduta...  la testa di riccio...  Già,  vivendo in terra
    straniera..."  -  cantavano una canzone soldatesca da ballo.  Come  in
    risposta  a  quel  canto,  ma  con  una  gaiezza  diversa,  le campane
    diffondevano sull'altura i loro metallici rintocchi. E con una gaiezza
    ancora  diversa,  i  vividi  raggi  del  sole  accarezzavano  la  cima
    dell'opposto  crinale.  Ma in basso,  accanto al carro dei feriti e al
    cavalluccio ansimante che era fermo vicino a Pierre,  l'aria era umida
    e scura, densa di tristezza.
    Il  soldato  dalla  faccia  gonfia  guardava  irritato i cantori della
    cavalleria.
    - Ah, ecco gli elegantoni!  -  esclamò in tono di rimprovero.
    -  Quest'oggi  non  ho  visto  soltanto  dei  soldati,  ma  anche  dei
    contadini!  Anche i contadini ti spediscono alla guerra!   -  aggiunse
    con  un  sorriso  triste  il  soldato  che  stava  dietro  il   carro,
    rivolgendosi  a  Pierre.    -    Oggi non c'è distinzione...  vogliono
    lanciarsi avanti con tutto il popolo.  In una  parola:  contro  Mosca!
    Vogliono finirla in un colpo solo!
    Nonostante  l'oscurità  delle  parole  del soldato,  Pierre capì tutto
    quanto egli voleva dire e chinò il capo in segno di approvazione.
    La strada fu sgombra;  Pierre discese l'altura,  risalì in carrozza  e
    proseguì,  guardando da una parte e dall'altra,  alla ricerca di facce
    conosciute,  ma ovunque  vedeva  soltanto  visi  ignoti  di  militari,
    appartenenti ad armi diverse, che guardavano con uguale stupore il suo
    cappello bianco e la sua marsina verde.
    Dopo aver percorso quattro miglia,  incontrò finalmente un conoscente,
    a cui rivolse con gioia  la  parola.  Era  uno  dei  medici  superiori
    dell'esercito. Seduto in calesse, veniva in direzione opposta a quella
    di Pierre, e gli stava accanto un giovane medico. Riconoscendo Pierre,
    ordinò  al suo cosacco,  che sedeva a cassetta al posto del cocchiere,
    di fermarsi.
    - Conte! Eccellenza! Come mai siete qui?  -  gli domandò il medico.
    - Già... ecco... volevo un po' vedere...
    - Sì, sì, ci sarà molto da vedere...
    Pierre scese e, facendo una sosta,  si intrattenne a discorrere con il
    dottore, spiegandogli la sua intenzione di partecipare alla battaglia.
    Il  dottore  gli  consigliò  di  rivolgersi direttamente a sua altezza
    serenissima.
    - Perché trovarvi Dio sa dove,  durante una battaglia,  sconosciuto da
    tutti?   -  domandò, scambiando un'occhiata con il giovane collega.  -
    Per quanto sia,  sua altezza serenissima  vi  conosce  e  vi  riceverà
    benevolmente.  Fate così, conte!  -  concluse il dottore, che sembrava
    molto stanco e che aveva evidentemente molta fretta.
    -  Così  voi  credete  che...   Ah,   volevo  anche  domandarvi  dov'è
    esattamente la nostra posizione...  -  disse Pierre.
    - La nostra posizione?   -  ripeté il dottore.   -  Be',  questa non è
    cosa di mia  competenza.  Oltrepassate  il  villaggio  di  Tatàrinovo:
    laggiù  si  sta scavando molto.  Salite sull'altura...  di là qualcosa
    vedrete...
    - Di lassù si vede? Se voi...
    Ma il dottore lo interruppe e si avvicinò al calesse.
    - Vi accompagnerei volentieri,  ma vi giuro che ho un tal  da  fare...
    Ecco   -  (e il dottore si indicò la gola)  -  corro dal comandante di
    corpo d'armata. Vedete in che condizioni siamo? Domani, conte, ci sarà
    battaglia,  e su centomila uomini bisogna calcolarne almeno  ventimila
    feriti;  e  noi  non  abbiamo  né  barelle,  né  letti  da  campo,  né
    infermieri, né medici neppure per seimila. Ci sono diecimila carri, ma
    occorre ben altro! Dobbiamo rimediare alla meglio...
    Uno strano pensiero colpì Pierre,  che tra quelle migliaia  di  uomini
    vivi,  sani,  giovani e vecchi, i quali guardavano con gaio stupore il
    suo cappello bianco, ce ne fossero almeno ventimila votati alle ferite
    e alla morte... e, chi sa, proprio quelli che egli aveva veduto.
    "Forse domani moriranno: com'è possibile che pensino  a  qualcos'altro
    che  non  sia  la  morte?".  E  tutto a un tratto,  per una misteriosa
    associazione di idee,  egli ricordò con precisione  la  discesa  dalla
    collina di Mozaisk,  i carri carichi di feriti,  lo scampanio, i raggi
    obliqui del sole e le canzoni dei soldati di cavalleria. "I soldati di
    cavalleria vanno a battersi,  si incontrano con i feriti e neppure per
    un istante pensano a ciò che li attende, ma passano ammiccando accanto
    a loro. E di tutti questi uomini, ventimila sono destinati alla morte!
    Eppure guardano meravigliati il mio cappello!  Com'è strano!", pensava
    Pierre, dirigendosi verso Tatàrinovo.
    Davanti alla casa di un possidente,  sul lato sinistro  della  strada,
    erano fermi carrozze,  carri,  una folla di ordinanze e di sentinelle.
    Lì era il quartier generale di  sua  altezza  serenissima.  Ma  quando
    Pierre arrivò,  Kutuzòv non c'era e non c'era nessun altro dello stato
    maggiore.  Tutti si trovavano in chiesa ad assistere a  una  funzione.
    Pierre proseguì verso Gorki.
    Fatta  la  salita  e  dopo aver infilato la stretta via del villaggio,
    Pierre  vide  per  la  prima  volta  alcuni  contadini   militi,   che
    indossavano camiciotti bianchi e berretti con le croci; chiacchierando
    e  ridendo  forte,  animati e coperti di sudore,  stavano lavorando su
    un'altura ricoperta di erba, a destra della strada.  Alcuni scavavano,
    altri  portavano  via la terra con certe carriole che spingevano sopra
    delle assi,  altri ancora stavano in piedi  e  guardavano,  senza  far
    niente.
    Due ufficiali, sull'altura, impartivano gli ordini. Alla vista di quei
    contadini   che   evidentemente  si  divertivano  per  la  loro  nuova
    condizione di militari,  Pierre ricordò di nuovo i feriti di Mozaisk e
    comprese con chiarezza che cosa avesse voluto esprimere il soldato che
    aveva detto: "Vogliono lanciarsi avanti con tutto il popolo". La vista
    di  quei  contadini  barbuti,  intenti  a  lavorare  su  un  campo  di
    battaglia,  con addosso quei loro  strani  e  goffi  stivaloni,  tutti
    sudati,  qualcuno  con  il  colletto  del  camiciotto  sbottonato  che
    lasciava scorgere le  ossa  abbronzate  delle  clavicole,  impressionò
    Pierre  più  di  tutto  quanto  aveva veduto e udito sino allora sulla
    solennità e sulla gravità del momento presente.


    CAPITOLO 21.

    Pierre scese di  carrozza  e,  passando  davanti  a  quei  militi  che
    lavoravano,  salì  sull'altura  dalla quale,  secondo quanto gli aveva
    detto il dottore, si poteva vedere il campo di battaglia.
    Erano le undici antimeridiane.  Il sole,  un po'  a  sinistra  e  alle
    spalle   di   Pierre,   illuminava   vivamente,   attraverso   un'aria
    straordinariamente limpida, un ampio panorama aperto ad anfiteatro.
    Verso l'alto e a sinistra,  lungo quell'anfiteatro,  si stendeva la la
    strada  maestra  di  Smolènsk,  che  attraversava un villaggio con una
    chiesa bianca,  situato proprio  lì  davanti,  un  po'  più  sotto,  a
    cinquecento  passi  dall'altura (era Borodinò).  Sotto il villaggio la
    strada passava su un ponte  e,  tra  discese  e  salite,  s'inerpicava
    serpeggiando  verso  il villaggio di Valùevo,  che si scorgeva a circa
    sei miglia di distanza (là si  trovava  Napoleone).  Dopo  Valùevo  la
    strada  scompariva  in  un  bosco che,  con i suoi alberi,  ingialliva
    l'orizzonte.  In quel bosco di betulle e  di  abeti,  a  destra  della
    strada, scintillavano al sole la croce e il campanile del monastero di
    Kotzkij.  In quella lontananza azzurrina,  a destra e a sinistra della
    strada e del bosco,  apparivano qua e là i fuochi dei  bivacchi  e  le
    masse  indistinte  delle  truppe russe e di quelle nemiche.  A destra,
    lungo i fiumi Kolocia e Moskvà,  il paesaggio era vario e accidentato.
    Lontano,  tra  le  gole,  si  scorgevano  i  villaggi di Bezùbovo e di
    Zachàrino.  A sinistra,  il paesaggio era più regolare: si  stendevano
    campi   di   grano   e  si  vedeva  fumare  un  villaggio  incendiato:
    Semënovskoe.
    Tutto ciò che Pierre vedeva a destra e a sinistra  era  talmente  vago
    che né la parte destra né quella sinistra soddisfacevano completamente
    la sua immaginazione. Non c'era il campo di battaglia che si aspettava
    di  vedere,  ma campi praterie,  truppe,  boschi,  fumo che saliva dai
    falò, villaggi, collinette, corsi d'acqua; per quanto cercasse, Pierre
    non riusciva a scorgere in quel  paesaggio  così  pieno  di  vita  una
    posizione  militare e non gli riusciva di distinguere le nostre truppe
    da quelle nemiche.
    "Bisogna domandare a qualcuno che  sa",  pensò,  e  si  rivolse  a  un
    ufficiale che guardava con curiosità la sua enorme persona, tutt'altro
    che marziale.
    - Permettetemi di domandarvi che villaggio è quello laggiù,  davanti a
    noi...
    - Burdinò, o come si chiama?  -  rispose l'ufficiale,  volgendosi a un
    collega.
    - Borodinò  -  rispose l'altro, correggendo.
    L'ufficiale, evidentemente soddisfatto di scambiare quattro parole, si
    avvicinò a Pierre.
    - Sono i nostri là?  -  domandò Pierre.
    - Sì,  ed ecco, più lontano, i Francesi  -  spiegò l'ufficiale. Eccoli
    là, ecco... si vedono.
    - Dove? Dove?  -  chiese Pierre.
    - Si vedono a occhio nudo.  Eccoli!   -  E l'ufficiale indicò  con  la
    mano le nuvole di fumo visibili a sinistra, oltre il fiume, mentre sul
    suo  viso  compariva  a un tratto quell'espressione grave e severa che
    Pierre aveva già osservato sul volto di molte altre persone incontrate
    quel giorno.
    - Ah,  sono quelli i Francesi?  E là?   -  e indicò,  a sinistra,  una
    collinetta accanto, sulla quale si vedevano i soldati.
    - Quelli sono i nostri.
    -  Ah,  i  nostri!  E  là?   -  E Pierre accennò a un altro poggio più
    lontano, con un grande albero,  presso un villaggio che si scorgeva in
    una  gola e presso il quale fumavano altri fuochi e nereggiava qualche
    cosa.
    - E'  ancora  lui    -    rispose  l'ufficiale.  (Era  la  ridotta  di
    Scevardinò).  -  Ieri era nostra, oggi è "sua".
    - E allora, qual è la nostra posizione?
    -  La  nostra  posizione?    -    disse  l'ufficiale con un sorriso di
    soddisfazione.   -  Ve la posso  descrivere  chiaramente,  giacché  ho
    costruito io quasi tutte le fortificazioni.  Ecco,  vedete,  il nostro
    centro è a Borodinò,  ecco qui  -  e indicò il villaggio dalla  chiesa
    bianca  che  sorgeva  proprio  davanti.    -    Qui è il passaggio del
    Kolocia.  Vedete  là,  nell'avvallamento,   quelle  strisce  di  fieno
    tagliato?  Là  si trova il ponte.  Quello è il nostro centro.  Ed ecco
    dov'è il nostro fianco destro  -  (e indicò a destra,  lontano,  verso
    una gola)  -  là è il fiume Moskvà, dove abbiamo costruito tre ridotte
    molto  fortificate.  Il  fianco  sinistro...    -    e  a questo punto
    l'ufficiale si fermò.  Vedete, è un po' difficile spiegarvelo...  Ieri
    il  nostro  fianco  sinistro era laggiù,  a Scevardinò,  là dove sorge
    quella quercia;  ora  abbiamo  fatto  indietreggiare  l'ala  sinistra;
    vedete laggiù un villaggio e del fumo?  Quello è Semënovskoe.  E anche
    là  -  e accennò alla montagnola di Raevskij.  -  Però è difficile che
    la battaglia abbia luogo là.  Che "egli" abbia portato le sue truppe è
    un inganno;  "egli",  senza dubbio,  girerà a destra della Moskvà.  Ma
    ovunque  sarà,  molti  di  noi  domani  mancheranno!     -    concluse
    l'ufficiale.
    Un vecchio sottufficiale, che si era avvicinato mentre quello parlava,
    attendeva  in  silenzio la fine della conversazione del suo superiore;
    ma   a   questo   punto,    evidentemente   scontento   delle   parole
    dell'ufficiale, lo interruppe.
    - Bisogna andare a prendere i barconi  -  disse in tono severo.
    L'ufficiale  parve  imbarazzato,  come  se capisse che si poteva,  sì,
    pensare al fatto che il giorno dopo molti sarebbero  mancati,  ma  che
    non se ne doveva parlare.
    -  Sì,  sì,  manda  di  nuovo  la  terza  compagnia   -  si affrettò a
    rispondere l'ufficiale.
    - E voi chi siete? Un medico?
    - No, sono venuto così, per vedere  -  rispose Pierre.  E ridiscese la
    montagnola, passando di nuovo davanti ai militi.
    - Ah,  maledetti!  -  esclamò l'ufficiale che lo seguiva, turandosi il
    naso e passando di corsa davanti agli uomini che lavoravano.
    - Eccoli...  la stanno portando...  vengono!  Eccoli!   -  si udì a un
    tratto esclamare, e gli ufficiali, i soldati e i militi corsero avanti
    sulla strada.
    Una processione saliva da Borodinò su per la collina. Davanti a tutti,
    lungo la strada polverosa,  marciava ordinata la fanteria con i fucili
    tenuti bassi e senza il chepì.  Dietro la fanteria si udiva  il  canto
    liturgico. Sorpassando Pierre, i soldati e i militi correvano incontro
    alla processione, senza berretto.
    - Portano la Madonna! La nostra Protettrice! La Vergine di Iversk!
    - No, è la Madonna di Smolènsk  -  corresse un altro.
    I  militi,  quelli  che  si  trovavano  nel  villaggio  e  quelli  che
    lavoravano alla batteria,  gettati i  badili,  corsero  incontro  alla
    processione.   Dietro  al  battaglione,   che  avanzava  sulla  strada
    polverosa, procedevano i sacerdoti in pianeta;  uno,  vecchio,  con il
    cappuccio,  era accompagnato dai chierici e dai cantori.  Li seguivano
    soldati e ufficiali che reggevano una grande icona,  dal volto  scuro,
    incorniciata  di  metallo.  Era  la  santa  immagine,  portata  via da
    Smolènsk,  che da allora accompagnava l'esercito.  Dietro,  attorno  e
    davanti all'icona,  veniva da ogni parte, correndo e inchinandosi sino
    a terra,  una folla di soldati a capo scoperto.  Giunta in  cima  alla
    collina,  l'icona si fermò.  Gli uomini che la reggevano si diedero il
    cambio,  i diaconi accesero di nuovo i turiboli e l'ufficio sacro ebbe
    inizio.  I  caldi raggi del sole cadevano a perpendicolo;  un leggero,
    fresco venticello agitava i capelli delle teste scoperte e i nastri di
    cui era ornata l'icona;  il canto si  levava  sommesso  sotto  l'ampia
    volta  del  cielo.  Una  folla  enorme  di ufficiali,  di soldati e di
    militi,  tutti a capo scoperto,  circondava l'icona.  Alle spalle  del
    sacerdote e del suddiacono, in uno spazio libero, stavano i personaggi
    più  importanti.  Un  generale  calvo,  decorato  della  croce  di San
    Giorgio,  stava ritto dietro il prete  officiante  e,  senza  segnarsi
    (evidentemente  un  tedesco),  aspettava  con  pazienza  la fine della
    funzione,  che egli riteneva necessario ascoltare,  probabilmente  per
    suscitare  il  patriottismo  del popolo russo.  Un altro generale,  in
    atteggiamento marziale si guardava attorno e agitava di tanto in tanto
    una mano avanti al petto.  Nel gruppo delle personalità,  Pierre,  che
    era in mezzo a una folla di contadini, riconobbe alcuni conoscenti, ma
    non   li   guardò;   tutta   la   sua   attenzione   era   concentrata
    sull'espressione seria dei visi di quella moltitudine di soldati e  di
    militi  che,  con  uguale  avidità,  fissavano  l'icona.  Non appena i
    suddiaconi sfiniti (avevano cantato venti funzioni) ebbero intonato in
    modo pigro e metodico: "Madre di  Dio,  salva  i  Tuoi  schiavi  dalle
    sventure"  e  il  sacerdote e il diacono risposero: "Giacché tutti per
    mezzo tuo a Dio ricorriamo come a muraglia incrollabile di difesa",  i
    visi  dei presenti si illuminarono di una luce di consapevolezza della
    solennità del momento,  quella luce che  Pierre  aveva  già  osservato
    quella  mattina nel volto degli uomini sotto l'altura di Mozaisk e,  a
    tratti,  di molte altre persone incontrate lungo la via;  e più spesso
    le teste si curvavano,  si scuotevano i capelli e si udivano i sospiri
    e i colpi delle croci battute sui petti.
    La folla che circondava l'icona a un tratto si aprì,  premendo Pierre.
    Qualcuno,  senza  dubbio  un  personaggio molto importante a giudicare
    dalla premura con cui gli si faceva largo, si accostava all'immagine.
    Era Kutuzòv,  venuto a ispezionare la  posizione.  Egli,  tornando  da
    Tatàrinovo,  si  era  avvicinato  alla  funzione.  Pierre lo riconobbe
    subito per la sua figura particolare che lo distingueva da tutti.  Con
    una  lunga giubba sull'enorme corpo obeso,  la schiena curva,  il capo
    canuto scoperto e l'occhio bianco nel viso grasso, Kutuzòv, con la sua
    andatura incerta e ondeggiante,  entrò nel cerchio della  folla  e  si
    fermò  davanti  al  prete.  Si  fece il segno della croce con un gesto
    abituale,  toccò la terra con  la  mano  e,  sospirando  pesantemente,
    abbassò il capo canuto. Dietro di lui venivano Bennigsen e il séguito.
    Nonostante  la  presenza  del  generalissimo,  che accentrava su di sé
    l'attenzione di tutti gli  alti  personaggi,  i  soldati  e  i  militi
    continuavano a pregare senza guardarlo.
    Quando  la  funzione ebbe termine,  Kutuzòv si accostò alla icona,  si
    inginocchiò a fatica,  prosternandosi sino a terra,  poi per un  pezzo
    tentò inutilmente di rialzarsi a causa dell'obesità e della debolezza.
    La  sua  testa  canuta  si  agitava nello sforzo.  Finalmente riuscì a
    mettersi in piedi e con un ingenuo gesto infantile  sporse  le  labbra
    per baciare l'immagine;  poi di nuovo si inchinò toccando il suolo con
    la mano.  Gli altri generali e poi  gli  ufficiali  seguirono  il  suo
    esempio  e,  dopo  di  loro,  spingendosi  e  urtandosi  l'un l'altro,
    accalcandosi, ansimando, si fecero avanti, con espressione commossa, i
    soldati e i militi.


    CAPITOLO 22.

    Barcollando tra la folla che lo  premeva  da  ogni  parte,  Pierre  si
    guardava attorno.
    -  Conte,  Pëtr  Kirillyc'!  Come  mai siete qui?   -  risonò una voce
    accanto a lui. Pierre si voltò.
    Borìs Drubetzkòj,  spazzolandosi con una mano le ginocchia che gli  si
    erano  impolverate  (probabilmente  si era chinato anche lui a baciare
    l'icona),  si avvicinava sorridendo a Pierre.  Borìs era  vestito  con
    eleganza,  di una eleganza dalla leggera sfumatura marziale. Indossava
    una lunga tunica e, come Kutuzòv, portava ad armacollo lo scudiscio.
    Kutuzòv, frattanto,  era andato al villaggio e si era seduto all'ombra
    della casa più vicina,  su una panca,  che un cosacco aveva portato di
    corsa e che un altro si  era  affrettato  a  coprire  con  un  piccolo
    tappeto.  Un  séguito brillante e numeroso attorniava il comandante in
    capo.
    L'icona della Vergine andò oltre, accompagnata dalla folla.  Pierre si
    fermò  a una trentina di passi da Kutuzòv,  conversando con Borìs,  al
    quale spiegava la sua intenzione di partecipare alla  battaglia  e  di
    visitare la posizione.
    -  Ecco  come  dovete  fare    -  disse Borìs.   -  "Je vous ferai les
    honneurs du camp" [50. Vi farò gli onori del campo]. Vedrete tutto nel
    modo migliore dal luogo dove sarà il conte Bennigsen.  Io sono addetto
    alla  sua  persona e gliene parlerò.  Se volete visitare la posizione,
    venite con noi: ora  andiamo  al  fianco  sinistro.  Poi  ritorneremo;
    intanto  vi  prego  di farmi l'onore di passare la notte presso di me.
    Faremo anche una partita. Voi conoscete Dmitrij Sergéevic',  vero?  E'
    anch'egli  alloggiato  qui...    -  e indicò a Pierre la terza casa di
    Gorki.
    - Ma io vorrei vedere l'ala  destra:  si  dice  che  sia  notevolmente
    fortificata    -    osservò  Pierre.    -   Vorrei percorrere tutta la
    posizione, partendo dal fiume Moskvà.
    - Questo lo potrete fare dopo. L'ala sinistra è quella che ha maggiore
    importanza.
    - Va bene, va bene...  Ma dov'è il reggimento del principe Bolkonskij?
    Me lo potete indicare?  -  domandò Pierre.
    - Di Andréj Nikolàevic'? Lo vedremo passando. Vi condurrò da lui.
    - E il fianco sinistro com'è?
    - A dire il vero, "entre nous" [51. detto tra noi], Dio solo sa in che
    condizioni esso si trovi  -  rispose Borìs, abbassando la voce in tono
    confidenziale.    -  Il conte di Bennigsen pensava certamente una cosa
    diversa. Egli aveva intenzione di fortificare l'altra collina,  quella
    laggiù,  in tutt'altro modo, ma...  -  e Borìs si strinse nelle spalle
    -  ma sua altezza serenissima non ha voluto o forse  chissà  che  cosa
    gli  avranno suggerito...   -  E Borìs non completò la frase perché in
    quel  momento  Kajsarov  (52),   l'aiutante  di  Kutuzòv,   si   stava
    avvicinando a Pierre.
    - Oh! Paissi Sergéevic'  -  esclamò Borìs, rivolgendosi a Kajsarov con
    un sorriso familiare.   -  Sto cercando di spiegare al conte la nostra
    posizione.  E' straordinario come sua altezza serenissima abbia potuto
    indovinare con tanta sicurezza le intenzioni dei Francesi!
    - Parlate del fianco sinistro?  -  domandò Kajsarov.
    - Sì, precisamente. Il nostro fianco sinistro è ora molto fortificato.
    Sebbene  Kutuzòv  avesse  allontanato  dallo  stato  maggiore tutte le
    persone  inutili,   Borìs,   nonostante  i   mutamenti   operati   dal
    generalissimo,  era  riuscito a restare al quartiere generale e si era
    collocato presso il conte Bennigsen.  Questi,  come  tutti  gli  altri
    personaggi  presso  cui Borìs aveva prestato servizio,  considerava il
    giovane principe Drubetzkòj un uomo inestimabile.
    Nel comando vi erano due partiti ben distinti: il partito di Kutuzòv e
    il partito di Bennigsen, capo dello stato maggiore.  Borìs apparteneva
    a questo secondo partito, e nessuno meglio di lui, pur dimostrando per
    Kutuzòv un rispetto servile, sapeva far capire che il vecchio generale
    valeva poco e che chi dirigeva tutto era Bennigsen.
    Ormai  era  giunto  il  momento  decisivo della battaglia che o doveva
    annientare Kutuzòv dando il potere a Bennigsen, o, quand'anche Kutuzòv
    avesse vinto,  far sentire che il merito della vittoria era  tutto  di
    Bennigsen. Ad ogni modo, grandi ricompense sarebbero state distribuite
    il  giorno  dopo  e  altri ufficiali avrebbero avuto nuove promozioni;
    proprio per questo Borìs si trovava quel giorno in uno stato di grande
    nervosismo.
    Dopo Kajsarov si avvicinarono a Pierre altri conoscenti,  ed egli  non
    riusciva  a  rispondere  a  tutte  le  domande  su  Mosca  di  cui  lo
    subissavano, né ad ascoltare i racconti che gli facevano.  Sul viso di
    tutti  si notava un'espressione animata e insieme turbata.  Ma parve a
    Pierre che la causa principale dell'ansia che appariva  su  alcuni  di
    quei  visi fosse soprattutto causata dalla preoccupazione del successo
    personale,  mentre l'altra eccitazione,  che aveva veduto  dipinta  su
    altre  facce e che parlava non già di questioni personali ma generali,
    di questioni di vita e di morte,  non gli usciva dalla mente.  Kutuzòv
    notò la figura di Pierre e il gruppo che gli si era formato attorno.
    - Chiamatemelo qui  -  disse. Un aiutante trasmise il desiderio di sua
    altezza  serenissima,  e  Pierre  si  diresse  verso  la  panchina del
    generalissimo.  Ma ancor prima di Pierre,  si avvicinò  a  Kutuzòv  un
    semplice milite. Era Dòlochov.
    - Come mai costui è qui?  -  domandò Pierre.
    - E' una tale canaglia che riesce a cacciarsi dappertutto!   -  gli fu
    risposto.   -  E' stato degradato,  e ora ha bisogno  di  mettersi  in
    evidenza.  Ha  presentato certi progetti ed è penetrato di notte nelle
    linee nemiche. Senza dubbio è un uomo di fegato!
    Pierre si levò il berretto e  si  inchinò  rispettosamente  davanti  a
    Kutuzòv.
    -  Ho  pensato che,  se avessi esposto a vostra altezza serenissima il
    mio progetto,  voi avreste  potuto  farmi  cacciar  via  o  dirmi  che
    sapevate   già   quanto   volevo  riferirvi  e  allora  nulla  sarebbe
    cambiato...  -  stava dicendo Dòlochov.
    - Già, già...
    - E se invece avessi ragione, allora mi renderei utile alla patria per
    la quale sono pronto a dare la vita.
    - Già, già...
    - E se vostra altezza serenissima avrà bisogno  di  un  uomo  che  non
    risparmia la propria pelle, vogliate ricordarvi di me... Forse vi sarò
    utile.
    - Già...  già...   -  ripeté Kutuzòv che guardava Pierre, sorridendo e
    strizzandogli l'occhio.
    Intanto Borìs, con la sua astuzia da cortigiano, si era avvicinato con
    Pierre al generalissimo e con l'aria più  naturale  di  questo  mondo,
    senza  alzare  la  voce  e  come continuando un discorso già iniziato,
    disse a Pierre:
    - I militi,  quelli hanno indossato addirittura una camicia bianca  di
    bucato per andare incontro alla morte. Che eroismo, conte!
    Borìs   parlava   con  Pierre  evidentemente  per  essere  notato  dal
    generalissimo. Sapeva che Kutuzòv avrebbe prestato attenzione a quelle
    parole, e infatti sua altezza serenissima si rivolse a lui:
    - Che cosa stai dicendo della milizia?  -  domandò a Borìs.
    - Dico, altezza, che per prepararsi a morire domani hanno indossato la
    camicia bianca.
    - Ah, che popolo meraviglioso, impareggiabile!   -  esclamò Kutuzòv e,
    chiudendo gli occhi,  scosse il capo.  -  Impareggiabile!-  ripeté con
    un sospiro.
    - Volete sentire l'odore della polvere?   -  domandò poi a Pierre.   -
    Sì,  è un odore davvero piacevole.  Ho l'onore di essere un ammiratore
    di vostra moglie: come sta?  Il mio campo è a vostra disposizione.   -
    E,  come  spesso  accade  alle  persone  anziane,  Kutuzòv  cominciò a
    guardarsi attorno distrattamente, come se avesse dimenticato tutto ciò
    che doveva dire o fare.
    Ricordandosi  poi  quello  che  cercava,   mandò  a  chiamare   Andréj
    Sergéevic' Kajsarov, fratello del suo aiutante.
    - Come sono,  come sono quei versi di Marin (53)? Come sono quei versi
    che ha scritto  su  Gerakov  (54)?  "Alla  scuola  sarai  maestro...".
    Dimmeli,  dimmeli!  -  esclamò Kutuzòv, già preparandosi a divertirsi.
    Kajsarov recitò i versi e Kutuzòv,  dondolando  il  capo  in  cadenza,
    sorrideva.
    Allorché  Pierre  si allontanò da Kutuzòv,  Dòlochov gli si avvicinò e
    gli prese la mano.
    - Sono lieto di incontrarvi qui, conte  -  gli disse a voce alta,  per
    nulla imbarazzato dalla presenza di estranei e in tono particolarmente
    deciso e solenne.   -  Alla vigilia di una giornata,  nella quale solo
    Iddio sa chi di noi è destinato a sopravvivere,  sono lieto che mi  si
    offra  l'occasione  di  dirvi che deploro il malinteso sorto tra noi e
    che desidererei vivamente che non mi serbaste  rancore.  Vi  prego  di
    perdonarmi.
    Pierre  guardava  sorridendo  Dòlochov,  senza sapere che cosa dirgli.
    Dòlochov, con le lacrime agli occhi, lo abbracciò e lo baciò.
    Borìs disse qualcosa al suo generale e il conte Bennigsen, rivoltosi a
    Pierre, lo invitò a visitare con lui la prima linea.
    - Sarà molto interessante per voi...  -  gli disse.
    - Senza dubbio  -  rispose Pierre.
    Mezz'ora dopo,  Kutuzòv ripartì per Tatàrinovo e Bennigsen con il  suo
    séguito, nel quale era anche Pierre, si diresse lungo la linea.


    CAPITOLO 23.

    Da  Gorki,  Bennigsen  discese  lungo  la  strada maestra al ponte che
    l'ufficiale aveva indicato a Pierre come il centro della  posizione  e
    presso il quale, sulla riva del fiume, erano strisce di erba falciata,
    che  già  odoravano di fieno.  Attraversato il ponte,  Bennigsen e gli
    altri entrarono nel villaggio di Borodinò,  di là voltarono a sinistra
    e,  passando  davanti  a  un'enorme  quantità  di truppe e di cannoni,
    giunsero a un monticello di notevole altezza, sul quale i militi della
    territoriale stavano scavando un fossato. Era una ridotta ancora senza
    nome, che poi fu battezzata la ridotta di Raevskij o la batteria della
    montagnola.
    Pierre non l'osservò con attenzione  particolare:  egli  ignorava  che
    quel posto sarebbe divenuto per lui il più memorabile di tutta la zona
    di Borodinò. Poi, attraversato un burroncello, raggiunsero Semënovskoe
    di dove i soldati portavano via le ultime travi delle casupole e degli
    essiccatori.  Di  lì,  salendo e scendendo,  andarono oltre attraverso
    campi di segala calpestati e danneggiati dalla grandine,  e  seguirono
    la   nuova  strada  tracciata  dall'artiglieria  su  un  campo  arato,
    spingendosi sino  alle  frecce  (55),  anch'esse  ancora  in  fase  di
    costruzione.
    Bennigsen  si  fermò  e  si mise a guardare davanti a sé la ridotta di
    Scevardinò (che sino alla vigilia era ancora nostra)  sulla  quale  si
    scorgevano  alcuni  uomini  a  cavallo.  Gli  ufficiali  dicevano  che
    Napoleone e Murat erano laggiù,  e tutti osservavano  avidamente  quel
    gruppo  di  cavalieri.  Anche  Pierre guardava e cercava di indovinare
    quale di quegli uomini, a mala pena visibili, fosse Napoleone.  Infine
    i cavalieri discesero dall'altura e scomparvero.
    Bennigsen si rivolse a un generale che gli si era avvicinato e prese a
    spiegargli  con  ogni  particolare  la  posizione delle nostre truppe.
    Pierre ascoltava le parole di Bennigsen, tendendo tutte le sue facoltà
    intellettuali per comprendere il piano della  prossima  battaglia,  ma
    sentiva con tristezza che esse erano insufficienti.  Non capiva nulla.
    Bennigsen smise di parlare e,  notando che Pierre  lo  ascoltava,  gli
    disse a un tratto:
    - Penso che tutto questo non vi interessi, vero?
    -  Al  contrario,  mi  interessa  moltissimo   -  rispose Pierre,  non
    totalmente sincero.
    Dalle frecce si spinsero ancora più a sinistra, lungo la strada che si
    snodava in un fitto bosco di betulle non molto  alte.  Nel  mezzo  del
    bosco,  balzò  davanti  a loro,  sulla strada,  una lepre bruna con le
    zampette  bianche  la  quale,  spaventata  dallo  scalpitio  di  tanti
    cavalli,  si  smarrì  a  tal  punto  che per un po' continuò a correre
    saltellando davanti a tutti e suscitando la generale ilarità; soltanto
    quando alcune voci insieme gridarono verso di lei, si gettò da un lato
    e scomparve nel folto.  Dopo aver percorso circa due miglia nel bosco,
    uscirono  in  una  spianata  dove  si  trovavano  le  truppe del corpo
    d'armata di Tucikòv (55  a),  il  quale  doveva  difendere  il  fianco
    sinistro.  Qui,  all'estremo  margine  del fianco sinistro,  Bennigsen
    parlò a lungo, con calore, e impartì,  così almeno parve a Pierre,  un
    ordine  importante  di  carattere militare.  Davanti allo schieramento
    delle truppe di Tucikòv sorgeva una piccola altura che non  era  stata
    occupata.  Bennigsen  criticò ad alta voce l'errore e dichiarò assurdo
    lasciare sguernito  un  punto  che  dominava  le  zone  circostanti  e
    disporre  le truppe ai piedi dell'altura.  Alcuni generali erano della
    stessa opinione. Uno, in particolare,  assicurava con foga militaresca
    che le truppe,  in quel luogo, sarebbero state inevitabilmente esposte
    al  massacro.  Bennigsen,  di  propria  iniziativa,  ordinò  che  esse
    venissero disposte sulla sommità.
    Quest'ordine sul fianco sinistro indusse Pierre a dubitare più che mai
    della propria capacità di comprendere i problemi militari.  Ascoltando
    Bennigsen e i generali che criticavano la disposizione delle truppe ai
    piedi dell'altura,  Pierre  li  comprese  pienamente  e  ne  condivise
    l'opinione, e proprio per questo non riusciva a capire come mai chi le
    aveva  collocate  sotto  avesse  potuto  commettere  un  errore  tanto
    grossolano e tanto evidente.
    Pierre ignorava che quelle truppe erano state collocate là non già per
    difendere una  posizione,  come  credeva  Bennigsen,  ma  erano  state
    sistemate  in  quel  punto  nascosto per tendere un agguato,  cioè per
    rimanere inosservate ed essere  lanciate  poi,  di  colpo,  contro  il
    nemico in movimento. Non lo sapeva neppure Bennigsen il quale, secondo
    le  sue  personali  considerazioni sulle truppe utili,  aveva ordinato
    quello spostamento, trascurando di renderne edotto il generalissimo.


    CAPITOLO 24.

    Il principe Andréj in quella limpida sera del 25 agosto  se  ne  stava
    sdraiato,  appoggiandosi  su  un  braccio,  in  una  rimessa  per metà
    demolita del villaggio di Knjàzkovo,  al margine del terreno  occupato
    dal  suo  reggimento.  Da una breccia del muro semidiroccato guardava,
    lungo uno steccato,  un filare di  betulle,  alberi  piantati  da  una
    trentina di anni,  con tutti i rami bassi spezzati, un campo arato con
    i covoni di avena disfatti e una macchia di cespuglio dietro ai  quali
    saliva il fumo dei fuochi, su cui i soldati stavano cucinando.
    Per  quanto misera,  inutile a tutti e penosa gli sembrasse ora la sua
    vita,  il principe Andréj si sentiva turbato e nervoso come sette anni
    prima, alla vigilia della battaglia di Austerlitz.
    Aveva   dato  e  ricevuto  ordini  per  il  combattimento  del  giorno
    successivo.  Non gli restava più nulla da  fare,  ma  i  pensieri  più
    semplici,  più  chiari  e perciò più tormentosi,  non gli davano pace.
    Sapeva che la battaglia sarebbe stata la più terribile di tutte quelle
    cui aveva  partecipato  e  per  la  prima  volta  nella  sua  vita  la
    possibilità  della  morte,  senza  alcun legame con le cose del mondo,
    senza alcun pensiero sull'effetto che avrebbe prodotto sugli altri  ma
    unicamente  in  rapporto  a  se  stesso,  alla  sua  anima,  alla  sua
    esistenza, gli si presentava con una certezza quasi evidente,  in modo
    semplice  e  terribile.  E  dall'alto  di questa visione tutto ciò che
    prima lo aveva tormentato e preoccupato,  si illuminava ora per lui di
    una  luce  fredda,   bianca,   senz'ombra,  senza  prospettiva,  senza
    differenza di piani.  Vedeva tutta la vita come una  lanterna  magica,
    nella  quale  avesse  a  lungo  guardato  attraverso  una  lente,   in
    un'illuminazione artificiale.  Ora,  tutto a un  tratto  vedeva  senza
    lente,  alla  chiara luce del giorno,  tutte quelle immagini malamente
    dipinte.  "Sì,  sì,  eccole,  le immagini false che mi  turbavano,  mi
    entusiasmavano, mi tormentavano", diceva a se stesso, mentre nella sua
    mente  si susseguivano i quadri principali della lanterna magica della
    propria vita,  osservandoli ora a quella  luce  fredda  e  bianca  del
    giorno,   del  chiaro  pensiero  della  morte.   "Ecco  quelle  figure
    rozzamente dipinte che mi  si  presentavano  così  belle  e  piene  di
    mistero! La gloria, il bene pubblico, l'amore per una donna, la patria
    stessa:  come  mi  parevano  grandiosi quei quadri,  di quale profondo
    significato li vedevo colmi!  E tutto ciò,  invece,  è così  semplice,
    pallido  e rozzo alla luce fredda e bianca di questo nuovo giorno che,
    io lo sento, sta sorgendo per me!".  I tre più grandi dolori della sua
    vita  fermavano  in quel momento la sua particolare attenzione: il suo
    amore per una donna,  la morte del padre e l'invasione francese che si
    era  estesa a metà della Russia.  "L'amore!  Quella ragazzina,  che mi
    sembrava piena di forze misteriose,  come l'ho amata!  Facevo progetti
    poetici di gioia,  di felicità con lei!  Oh, caro ragazzo!" esclamò ad
    alta voce, quasi con ira.  "E come no?  Credevo in un amore ideale che
    doveva conservarmi la sua fedeltà durante un anno di assenza!  Come la
    tenera colomba della favola,  ella avrebbe dovuto languire lontano  da
    me...  Invece  è tutto molto più semplice...  Terribilmente semplice e
    disgustoso!
    "Anche mio padre faceva costruzioni  a  Lissia-Gori:  credeva  che  là
    fosse  il  suo  posto,  che  là  fossero  suoi  la  terra,  l'aria,  i
    contadini...  ma è venuto Napoleone e,  senza sapere dell'esistenza di
    lui,  ecco  che lo toglie di mezzo come un fuscello sulla sua strada e
    gli distrugge Lissia-Gori e tutta la sua esistenza. E la principessina
    Màrija afferma che questa è una prova mandataci dal Cielo... ma perché
    questa prova,  se egli non esiste più e  non  esisterà  mai  più?  Non
    esisterà mai più!  A chi, dunque, una simile prova è stata mandata? La
    patria,  la perdita di Mosca!  Ma domani qualcuno mi ucciderà e  forse
    non  sarà  neppure un soldato francese,  ma uno dei nostri,  come ieri
    quel soldato ha scaricato il fucile a poca distanza dal mio  orecchio,
    e i Francesi verranno a prendermi e, afferrandomi per i piedi e per la
    testa,  mi butteranno in una fossa qualsiasi per non sentire il fetore
    che emanerà dal mio corpo;  si costituiranno nuove condizioni di  vita
    che diventeranno abituali per gli altri, e io non le conoscerò, io non
    esisterò più".
    Guardò  il  filare di betulle che brillava al sole con il suo immobile
    fogliame ingiallito e la sua scorza bianco verdognola. "Morire...  Che
    io sia ucciso domani! Che io non esista più... che tutto questo esista
    e  io non ci sia più...".  Si raffigurò con vivezza la propria assenza
    da questa vita.  E quelle betulle con le loro ombre e la loro luce,  e
    quelle nuvole a volute e quel fumo dei bivacchi,  tutto attorno a lui,
    si andò trasformando in qualcosa di  terribile  e  di  minaccioso.  Un
    brivido gli corse per la schiena.  Si alzò in fretta, uscì e si mise a
    camminare.
    Dietro la rimessa risonarono alcune voci.
    - Chi è là?  -  gridò il principe Andréj.
    Il capitano Timochin,  quello dal naso  rosso,  l'ex-comandante  della
    compagnia  di  cui  faceva  parte  Dòlochov e ora,  per la scarsità di
    ufficiali,  diventato comandante  di  battaglione,  entrò  timidamente
    nella   rimessa,   seguito  dall'aiutante  maggiore  e  dall'ufficiale
    pagatore del reggimento.
    Il principe Andréj si alzò in fretta,  ascoltò ciò che  gli  ufficiali
    dovevano comunicargli riguardo al servizio, diede loro alcuni ordini e
    già stava per congedarli quando,  da dietro la rimessa, gli giunse una
    voce nota e sommessa:
    - "Que diable!" [56.  Che diavolo!]  -  diceva la voce di qualcuno che
    aveva urtato in qualche cosa.
    Il  principe  Andréj,  data  un'occhiata  fuori della rimessa,  scorse
    Pierre che si avvicinava e che,  incespicando in un palo  disteso  per
    terra,  era  stato  lì lì per cadere.  Al principe Andréj non riusciva
    gradito,  in generale,  vedere gente del suo mondo e,  in particolare,
    vedere  Pierre  che  gli  ricordava  le  ore  penose che aveva vissuto
    durante il suo ultimo soggiorno a Mosca.
    - Ah!   -  esclamò Andréj.   -   Qual  buon  vento  ti  mena?  Non  ti
    aspettavo davvero...
    Mentre parlava, nei suoi occhi e nell'espressione di tutto il suo viso
    c'era  qualcosa  di  più della freddezza: c'era un'ostilità che Pierre
    notò subito.  Egli si era avvicinato alla rimessa con la più  cordiale
    disposizione  d'animo,  ma  nel  vedere  l'espressione  del  viso  del
    principe Andréj, si sentì impacciato e goffo.
    - Sono venuto... così... sapete...  Sono venuto...  mi interessa disse
    Pierre, che già tante volte in quel giorno aveva ripetuto assurdamente
    le parole "mi interessa".  -  Desideravo vedere la battaglia.
    -  Sì,  sì...  ma  che  dicono  della guerra i fratelli massoni?  Come
    pensano  di  scongiurarla?     -      domandò   il   principe   Andréj
    ironicamente...   -  Che c'è di nuovo a Mosca? E i miei? Sono arrivati
    finalmente a Mosca?  -  domandò poi con aria seria.
    - Sì, sono arrivati.  Me l'ha detto Julie Drubetzkaja.  Sono andato da
    loro,  ma non li ho trovati. Erano già partiti per la casa di campagna
    presso Mosca.


    CAPITOLO 25.

    Gli ufficiali si accinsero ad uscire,  ma il principe Andréj,  come se
    non desiderasse rimanere a tu per tu con l'amico, li invitò a rimanere
    a  prendere il tè.  Furono portati alcuni sgabelli e fu servito il tè.
    Non senza un certo stupore gli ufficiali guardavano  l'enorme  persona
    di  Pierre  e  ascoltavano  ciò  che  egli  diceva  di  Mosca  e dello
    schieramento delle nostre truppe di cui era riuscito a  percorrere  le
    linee.  Il  principe Andréj taceva e il suo volto aveva un'espressione
    così ostile che Pierre preferiva rivolgersi al bonario comandante  del
    battaglione Timochin piuttosto che a Bolkonskij.
    -  Dunque  tu  hai  capito tutta la disposizione delle truppe?   -  lo
    interruppe il principe Andréj.
    - Sì,  cioè in che senso vuoi dire?   -  gli domandò Pierre.   -   Non
    essendo  militare  non  posso  dire  di  aver  capito  tutto,  però la
    disposizione generale sì...
    - "Eh bien, vous êtes plus avancé que qui que cela soit!" [57. Ebbene,
    siete al corrente più di qualsiasi altro!]    -    disse  il  principe
    Andréj.
    - Ah!   -  esclamò Pierre perplesso,  guardando l'amico attraverso gli
    occhiali.   -   Be',  cosa  ne  dite  della  nomina  di  Kutuzòv?    -
    soggiunse.
    -  Ne sono stato felicissimo  -  rispose il principe Andréj.   -  Ecco
    tutto quello che ne so.
    - E, ditemi,  qual è la vostra opinione su Barclay de Tolly?  Sa Iddio
    ciò che dicono di lui a Mosca. Come lo giudicate?
    - Be',  domandalo a loro  -  rispose il principe Andréj, indicando gli
    ufficiali.
    Con quel sorriso indulgente e interrogativo  con  il  quale  tutti  si
    rivolgevano istintivamente a Timochin, Pierre lo guardò.
    - Abbiamo visto la luce, eccellenza, quando sua altezza serenissima ha
    assunto  il  comando   -  rispose Timochin con aria timida e guardando
    continuamente il suo comandante.
    - E perché mai?
    - Ecco, vi dirò, non fosse che per la legna e per il foraggio.  Quando
    ci siamo ritirati da Swentziany, chi osava toccare un ramoscello secco
    o un po' di fieno o qualsiasi altra cosa? Eppure ci ritiravamo e tutto
    rimaneva  a  lui:  non  vi pare,  eccellenza?   -  e a questo punto si
    rivolse al principe.   -  Ma  guai!  Per  fatti  di  tal  genere,  due
    ufficiali del nostro reggimento sono stati processati.  Non appena sua
    altezza serenissima ha assunto il comando, tutto, a questo riguardo, è
    diventato più semplice. Vi ripeto, abbiamo veduto la luce...
    - E come mai prima era proibito?
    Timochin,  confuso,  si guardava attorno,  non sapendo come e che cosa
    rispondere a una domanda simile.  Pierre rivolse al principe Andréj la
    stessa domanda.
    - Ma per non rovinare il paese che lasciavamo al nemico!   -   rispose
    il  principe Andréj,  in tono irritato e beffardo.   -  E' una cosa di
    importanza fondamentale non permettere alle  truppe  di  devastare  il
    paese  e  di abituarsi al saccheggio.  E anche a Smolènsk egli (58) ha
    giustamente calcolato che i Francesi potevano aggirarci e che  avevano
    forze  superiori  alle  nostre.  Ma  non  poteva comprendere  -  gridò
    all'improvviso,  con voce stridula il principe Andréj  -   non  poteva
    comprendere  che  lì,  per la prima volta,  ci battevamo per la nostra
    terra,  che le truppe erano animate da un coraggio quale  non  ho  mai
    veduto,  che  per  due giorni di seguito avevamo respinto i Francesi e
    che questo successo aveva  decuplicato  le  nostre  forze!  Ordinò  la
    ritirata,  e tutte le perdite, tutti gli sforzi non servirono a nulla.
    Egli non pensava certo di  tradire,  cercava  di  fare  tutto  per  il
    meglio,  calcolava  tutto,  ma  è  proprio per questo che non va.  Nel
    momento attuale non va perché riflette troppo,  con troppa precisione,
    come si addice a un vero tedesco. Come potrei dirti... Bene, tuo padre
    ha un servitore tedesco, un ottimo servitore che soddisfa assai meglio
    di te le sue esigenze,  e tu lascia pure che lo serva; ma se tuo padre
    è malato,  in punto di morte,  tu mandi via il servo e con le tue mani
    inesperte e impacciate ti prendi cura di tuo padre e lo accontenti più
    di un uomo abile, ma estraneo. Così è accaduto con Barclay. Sino a che
    la  Russia  era  forte,  uno  straniero  poteva  servirla ed essere un
    eccellente ministro,  ma da quando ha cominciato a essere in pericolo,
    essa ha bisogno di un uomo suo,  della sua razza.  E al vostro circolo
    hanno  pensato  che  sia   un   traditore!   Dall'averlo   calunniato,
    dichiarandolo  traditore,  si otterrà questo risultato: che più tardi,
    vergognandosi della loro falsa accusa,  di  un  traditore  faranno  di
    colpo un eroe o un genio,  il che sarà ancora più ingiusto.  Barclay è
    un tedesco, onesto e molto scrupoloso...
    - Dicono, tuttavia, che sia un abile condottiero  -  osservò Pierre.
    - Non capisco che cosa voglia dire "un abile condottiero"  -   ribatté
    il principe Andréj con un sorriso ironico.
    -  Un  abile  condottiero   -  osservò Pierre  -  è quello che prevede
    tutte  le  eventualità...   è   quello   che   indovina   i   progetti
    dell'avversario.
    -  Ma questo è impossibile  -  osservò il principe Andréj,  come se si
    trattasse di una questione da gran tempo risolta.
    Pierre lo guardò con stupore.
    - Eppure si dice che la guerra sia  simile  al  gioco  degli  scacchi-
    ribatté.
    -  Sì    -    rispose  il  principe  Andréj   -  ma con questa piccola
    differenza che,  giocando a scacchi,  prima  di  ogni  mossa  tu  puoi
    riflettere  quanto vuoi e non sei condizionato dal fattore tempo e con
    quest'altra differenza ancora,  che il cavallo è sempre più  forte  di
    una pedina,  e due pedine sono sempre più forti di una sola, mentre in
    guerra un battaglione è talvolta più forte di una divisione e talaltra
    più debole di una compagnia!  E la forza relativa delle truppe non può
    essere  nota  ad  alcuno.  Credimi  -  continuò  -  che se la vittoria
    dipendesse dagli ordini dei comandanti superiori,  io sarei là a  dare
    disposizioni;  ma  invece  ho l'onore di servire qui in un reggimento,
    con questi signori,  e ritengo che da noi,  e non da  loro,  dipenderà
    l'esito della giornata di domani... Il successo non è mai dipeso e non
    dipenderà  mai né dalla posizione degli armamenti,  né dal numero,  ma
    meno che mai dalla posizione...
    - E da che cosa, allora?
    - Dal sentimento che è in me,  in lui  -  e indicò Timochin  -   e  in
    ogni soldato.
    Il principe Andréj diede un'occhiata a Timochin,  il quale, con timore
    e perplessità,  guardava  il  suo  comandante.  In  contrasto  con  la
    taciturnità  e  il  riserbo di prima,  il principe Andréj appariva ora
    agitato.  Evidentemente non riusciva a trattenersi dall'esprimere quei
    pensieri che all'improvviso gli sorgevano nella mente.
    -  Vince  una  battaglia  colui  che ha fermamente deciso di vincerla.
    Perché abbiamo perduto ad Austerlitz?  Le nostre perdite  erano  quasi
    uguali  a quelle dei Francesi,  ma noi abbiamo detto troppo presto che
    eravamo sconfitti, e lo siamo stati davvero. E lo abbiamo detto perché
    là non avevamo nessun motivo per batterci;  si voleva lasciare al  più
    presto il campo di battaglia.  "Abbiamo perduto,  dunque fuggiamo!", e
    siamo fuggiti.  Se sino a sera non avessimo detto una cosa simile,  sa
    Iddio che cosa sarebbe accaduto.  Domani non lo diremo certamente.  Tu
    parli della nostra posizione,  del nostro fianco sinistro  debole,  di
    quello  destro  troppo  esteso...    -    proseguì    -  ma sono tutte
    chiacchiere: non esiste nulla di tutto ciò.  Che cosa accadrà  domani?
    Centinaia  di  migliaia di circostanze diversissime che saranno decise
    in un attimo,  in quanto saranno i nostri o i Francesi a  fuggire,  in
    quanto  sarà ucciso uno o sarà ucciso un altro...  Tutto quello che si
    fa ora non è che un gioco.  Il fatto si è che coloro con i  quali  hai
    visitato  le  posizioni  non  solo non migliorano l'andamento generale
    delle  cose,  ma  lo  ostacolano.  In  realtà,  essi  sono  unicamente
    preoccupati dei loro meschini interessi.
    - In un momento simile!  -  esclamò Pierre in tono di rimprovero.
    -  Sì,  in  un  momento simile  -  ripeté il principe Andréj.   -  Per
    loro,  questo è soltanto il momento più propizio per avere promozioni,
    croci,  nastri!  Secondo me, ecco che cosa accadrà domani: un esercito
    russo di centomila uomini e un esercito francese di  centomila  uomini
    si  incontrano  per battersi,  e il fatto si è che questi duecentomila
    uomini si batteranno e  chi  si  batterà  con  maggiore  ardore  e  si
    preoccuperà  meno  di risparmiarsi,  vincerà.  Domani,  qualsiasi cosa
    avvenga, qualsiasi cosa si combini nelle alte sfere,  noi vinceremo la
    battaglia. Domani, a qualunque costo, noi vinceremo!
    - Ecco la verità, eccellenza, la verità vera!  -  esclamò Timochin.  -
    A  che  scopo  risparmiarci,  ora?  I soldati del mio battaglione,  lo
    credereste? non hanno bevuto vodka perché,  dicono,  non è giornata da
    farlo...
    Tutti tacquero.
    Gli  ufficiali  si  alzarono.  Il principe Andréj li accompagnò fuori,
    dando ancora un  ultimo  ordine  all'aiutante  di  campo.  Quando  gli
    ufficiali  si  furono  allontanati,  Pierre  si  avvicinò  al principe
    Andréj;  ma proprio quando  stava  per  riprendere  la  conversazione,
    risonò  nella strada,  non lontano dalla rimessa,  il calpestio di tre
    cavalli e, guardando in quella direzione, il principe Andréj riconobbe
    Wohlzogen  e  Clausewitz  (59),  accompagnati  da  un  cosacco.   Essi
    passarono vicini, continuando a discorrere; e Pierre e Andréj udirono,
    senza volerlo, le seguenti frasi:
    -  "Der Krieg muss im Raum verlegt werden.  Der Ansicht kann ich nicht
    genug Preis geben" [60. La guerra deve essere trasferita nello spazio.
    E' una concezione che non posso lodare abbastanza]-  diceva uno.
    - "Oh ja"  -  rispose un'altra voce  -  "der Zweck ist nur  den  Feind
    zu schwächen,  so kann man gewiss nicht den Verlust der Privatpersonen
    in Achtung nehmen" [61.  Oh sì,  lo scopo è infatti soltanto quello di
    indebolire il nemico;  quindi non si può tener conto della perdita dei
    singoli individui].
    - "Oh ja!"  -  confermò la prima voce.
    - Già, "im Raum verlegen" [62. Sì, trasferire nello spazio]  -  ripeté
    il principe Andréj sbuffando  rabbiosamente,  quando  i  due  generali
    furono  passati.    -   "Im Raurn" io avevo un padre,  un figlio e una
    sorella a Lissia-Gori...  A lui  tutto  questo  è  indifferente!  Ecco
    quello che ti dicevo: domani questi signori tedeschi non vinceranno la
    battaglia,  ma complicheranno le cose quanto più potranno,  giacché le
    loro teste tedesche non contengono altro che ragionamenti che  valgono
    un fico secco,  mentre nel cuore non hanno la sola cosa necessaria per
    domani, che è nel cuore di Timochin.  Costoro "gli" hanno dato in mano
    tutta l'Europa e vengono a istruirci,  i grandi maestri!   -  concluse
    con voce sibilante.
    - Dunque pensate che la battaglia di domani sarà per noi una vittoria?
    -  domandò Pierre.
    - Sì, sì,   -  rispose distrattamente il principe Andréj.   -  La sola
    cosa  che  farei,   se  avessi  io  il  potere,    -    soggiunse    -
    consisterebbe nel non far prigionieri.  Cos'è questo far  prigionieri?
    E'  cavalleria.  I  Francesi  mi  hanno  distrutto  la  casa e vanno a
    distruggere Mosca,  mi hanno offeso e continuano a offendermi  a  ogni
    momento. Sono miei nemici e, secondo la mia opinione, tutti criminali.
    E  così  la pensano Timochin e tutto l'esercito.  Bisogna punirli.  Se
    sono miei nemici,  non possono  evidentemente  essere  amici,  checché
    abbiano detto laggiù a Tilsit.
    -  Sì,  sì    -    proseguì  Pierre,  guardando  Andréj  con gli occhi
    scintillanti.  -  Condivido pienamente il vostro parere.
    Il problema che dall'altura di Mozaisk  in  poi  aveva  per  tutto  il
    giorno  tenuto  Pierre  in agitazione,  gli si presentava ora chiaro e
    completamente risolto.  Ora egli comprendeva tutto  il  significato  e
    tutta l'importanza di quella guerra e della battaglia imminente. Tutto
    ciò che aveva visto in quella giornata, tutte le significative, severe
    espressioni  dei volti veduti di sfuggita,  si illuminavano per lui di
    una luce nuova.  Aveva compreso il segreto (latente come  si  dice  in
    fisica)  calore  patriottico  che  ardeva in tutti quegli uomini tra i
    quali si era trovato e ciò gli spiegava perché tutti  si  preparassero
    con calma e quasi con leggerezza alla morte.
    -  Non fare prigionieri  -  continuava il principe Andréj.   -  Questo
    soltanto basterebbe a  mutare  tutta  la  guerra  e  a  renderla  meno
    crudele.  E  invece  noi  sinora abbiamo giocato alla guerra,  ecco il
    male,  facciamo i magnanimi,  e così via.  La nostra magnanimità e  la
    nostra  sensibilità sono simili alla magnanimità e alla sensibilità di
    una signora che si sente svenire se vede  ammazzare  un  vitellino;  è
    tanto  buona che non può guardare il sangue,  ma poi mangia con ottimo
    appetito quello stesso vitellino quando glielo servono con contorno di
    salsa.   Ci  parlano  di  diritti  di  guerra,   di   cavalleria,   di
    parlamentarismo,  di  pietà  verso  gli  infelici  e di altre cose del
    genere.  Tutte sciocchezze.  Nel 1805 ho veduto  cos'è  il  sentimento
    cavalleresco,  cos'è il parlamentarismo.  Ci hanno ingannati e abbiamo
    ingannato.  Saccheggiano  le  case  altrui,  mettono  in  circolazione
    banconote false... e, peggio di tutto, uccidono i miei figli, uccidono
    mio  padre e poi parlano delle regole della guerra e della magnanimità
    verso i nemici.  Non fare prigionieri,  ma uccidere e andare  incontro
    alla  morte!  Chi,  come  me,  è  giunto  a questo punto attraverso le
    sofferenze...
    Il principe Andréj,  che aveva creduto essergli indifferente che Mosca
    fosse  o  non  fosse  presa,  come già era stata presa Smolènsk,  a un
    tratto si interruppe, per uno spasimo improvviso che gli aveva serrato
    la gola. Fece qualche passo avanti e indietro, in silenzio,  ma i suoi
    occhi  brillavano  febbrilmente  e,  quando  riprese  a  parlare,  gli
    tremavano le labbra.
    - Se non esistesse in guerra questa ostentazione di  magnanimità,  noi
    la faremmo soltanto nei casi in cui valesse la pena di andare incontro
    a una morte sicura,  come ora. Non ci sarebbero guerre soltanto perché
    Pavel Ivanyc' ha offeso un Michaìl Ivanyc' qualsiasi.  E se si facesse
    la guerra,  come ora,  sarebbe una guerra vera. E allora il rendimento
    degli eserciti non sarebbe quello che è adesso,  allora  tutti  questi
    Westfaliani  e Assiani che Napoleone si tira dietro,  non lo avrebbero
    seguito in Russia, e noi non saremmo andati a batterci in Austria e in
    Prussia senza neppure sapere perché.  La guerra non è un divertimento,
    ma  è  la  più  brutta  tra le cose della vita;  bisogna capirlo e non
    giocare alla guerra.  Bisogna accettare con serietà e  durezza  questa
    terribile  necessità.   Tutto  consiste  in  questo:  liberarsi  dalla
    menzogna,  e  allora  la  guerra  è  guerra  e  non  un  divertimento.
    Altrimenti  essa diventa il passatempo preferito degli uomini oziosi e
    leggeri... La condizione del militare è la più onorata. E che cos'è la
    guerra?  Che cosa occorre  per  ottenere  il  successo  nelle  imprese
    militari?  Quali sono i costumi nell'ambiente militare? Lo scopo delle
    guerre è l'assassinio, le sue armi sono lo spionaggio, il tradimento e
    la spinta a commetterlo, la rovina degli abitanti,  il saccheggio e il
    furto per approvvigionare l'esercito; l'inganno e la menzogna definite
    astuzie  militari;  i  costumi  della società militare sono assenza di
    libertà,  ossia disciplina,  ozio,  ignoranza,  crudeltà,  corruzione,
    ubriachezza.   E,   nonostante  ciò,  questa  è  una  classe  elevata,
    rispettata da tutti.  Tutti gli imperatori,  eccezion fatta per quello
    della  Cina,  portano l'uniforme militare,  e a colui che ha ucciso il
    maggior numero di uomini si dà la più alta ricompensa... S'incontrano,
    come accadrà domani,  per uccidersi a  vicenda,  massacrano,  mutilano
    diecine  di  migliaia  di uomini e poi faranno officiare un Te Deum di
    ringraziamento perché hanno ucciso  molta  gente  (di  cui  accrescono
    anche  il  numero) e proclameranno la vittoria,  supponendo che quanti
    più uomini saranno stati uccisi tanti più grande sarà il merito.  Come
    di  lassù  Iddio  li  vede  e li ascolta!   -  gridò con voce acuta ll
    principe Andréj.   -  Ah,  amico caro,  in questi ultimi  tempi  mi  è
    diventato penoso vivere! Mi accorgo di aver rinunziato a capire troppe
    cose,  e  non  è bene per l'uomo assaporare il frutto della conoscenza
    del bene e del male. Ma non durerà a lungo!  -  concluse.  -  Tu dormi
    già,  e anche per me è l'ora.  Va' a Gorki  -  disse a  un  tratto  il
    principe Andréj.
    - Oh,  no!   -  rispose Pierre, guardandolo con occhi spauriti e pieni
    di tenerezza.
    - Va',  va'...  Prima della battaglia bisogna dormire  -    ripeté  il
    principe Andréj.  Si avvicinò rapidamente a Pierre,  lo abbracciò e lo
    baciò.  -  Addio, vattene!   -  gridò.   -  Ci rivedremo o no?  Chi lo
    sa!  -  e, voltate in fretta le spalle, rientrò nella rimessa.
    Era  già buio,  e Pierre non aveva potuto distinguere se l'espressione
    del viso del  principe  Andréj  fosse  cattiva  o  affettuosa.  Rimase
    immobile  per  qualche minuto,  in silenzio,  e chiedendosi se dovesse
    seguire l'amico o ritornare al proprio alloggio.  "No,  non ha bisogno
    di  me!",  pensò  Pierre,  "e io so che questa è l'ultima volta che ci
    vediamo!". Trasse un profondo sospiro e ritornò a Gorki.
    Il principe Andréj,  rientrato nella  rimessa,  si  distese  sopra  un
    tappeto,  ma non poté prendere sonno. Chiuse gli occhi. Le immagini si
    succedevano alle immagini. Su una di esse indugiò a lungo,  con gioia.
    Ricordò con chiarezza una serata a Pietroburgo.  Natascia, con il viso
    animato e commosso,  gli raccontava come l'estate precedente,  andando
    alla  ricerca  di  funghi,  si fosse smarrita in un grande bosco.  Gli
    descriveva confusamente la immensità della foresta, le sue sensazioni,
    le conversazioni con un allevatore di api che aveva  incontrato  e,  a
    ogni istante,  interrompeva la narrazione dicendo: "No, non posso, non
    so raccontare bene, no, non è così... Voi non potete capire",  sebbene
    il  principe Andréj la rassicurasse e le dicesse che capiva benissimo.
    E in realtà capiva tutto  ciò  che  ella  voleva  dire.  Natascia  era
    insoddisfatta  delle  proprie  parole:  sentiva che non le riusciva di
    esprimere quelle sensazioni piene di  appassionata  poesia  che  aveva
    provato   quel  giorno  e  che  ora  voleva  manifestare.   "Era  così
    incantevole quel vecchio...  e nel bosco era così buio...  e c'era  in
    lui  tanta  bontà...  ma  no,  no...  non  so raccontare!",  ripeteva,
    arrossendo e turbandosi.  Il principe  Andréj  sorrideva  ora  con  lo
    stesso  sorriso  di  gioia con cui aveva sorriso allora,  guardando la
    fanciulla negli occhi.  "Io la  capivo",  pensava.  "Non  soltanto  la
    capivo,  ma quella forza d'animo, quella franchezza, quella sincerità,
    quella sua anima che il corpo pareva tener legata, proprio quell'anima
    era ciò che io amavo in lei...  che amavo con tanta forza,  con  tanta
    felicità...".  Improvvisamente  ripensò a com'era finito il suo amore.
    "Per lui nulla di tutto questo era necessario;  di tutto ciò egli  non
    vedeva  e  non  capiva  nulla.  In lei egli non vedeva che una ragazza
    graziosa e fresca,  alla quale non si degnava  di  legare  il  proprio
    destino. E io... Eppure quell'uomo è vivo e allegro ancor oggi!".
    Come  se  qualcosa  lo avesse scottato,  il principe Andréj si alzò di
    scatto, uscì e riprese a passeggiare davanti alla rimessa.


    CAPITOLO 26.

    Il 25 agosto,  vigilia della battaglia di  Borodinò,  il  prefetto  di
    palazzo dell'imperatore dei Francesi, "monsieur" de Beausset (63) e il
    colonnello  Fabvier (64) giunsero,  il primo da Parigi e il secondo da
    Madrid, da Napoleone, che era accampato nei pressi di Valùevo.
    Mutato l'abito da viaggio  con  l'uniforme  di  Corte,  "monsieur"  de
    Beausset  si  fece  precedere  da  un  pacco  che  aveva  portato  per
    l'imperatore,  poi entrò nel primo comparto della tenda  di  Napoleone
    dove,  discorrendo  con  gli  aiutanti  di  campo che lo attorniavano,
    cominciò a dissuggellare il pacco.
    Fabvier,   senza  entrare  nella  tenda,   si  fermò  sulla  soglia  a
    chiacchierare con alcuni generali di sua conoscenza.
    L'imperatore Napoleone non era ancora uscito dalla sua camera da letto
    e  stava  terminando  la  toeletta.  Sbuffando  e tossicchiando,  egli
    voltava ora la  grossa  schiena  ora  il  grasso  petto  villoso  alla
    spazzola  con la quale un cameriere gli frizionava il corpo.  Un altro
    cameriere,  trattenendo con un dito la boccetta,  spruzzava  acqua  di
    Colonia  sul  torso  ben  curato  del sovrano,  con un'espressione che
    voleva significare come egli solo fosse  in  grado  di  sapere  quanta
    acqua  di  Colonia  occorresse  e dove fosse necessario spruzzarla.  I
    corti capelli di Napoleone erano bagnati e appiccicati alla fronte. Ma
    il suo viso,  quantunque giallognolo e gonfio,  esprimeva il benessere
    fisico.   -  "Allez ferme,  allez toujours..." [65. Forza, continuate,
    forza!]  -  ripeteva,  contorcendosi e sbuffando,  al cameriere che lo
    frizionava.
    L'aiutante   di  campo,   che  era  entrato  in  camera  per  riferire
    all'imperatore circa il numero dei prigionieri  catturati  durante  il
    combattimento del giorno avanti, dopo aver fatto il suo rapporto stava
    fermo presso la porta in attesa del permesso di andarsene.  Napoleone,
    aggrottando le sopracciglia, lo guardò di sottecchi.
    - "Point de prisonniers"  -  disse, ripetendo le parole dell'aiutante.
    -  "Ils se font démolir. Tant pis pour l'armée russe"  -  aggiunse.  -
    "Allez toujours,  allez ferme"  -  ripeté,  curvandosi e  tendendo  le
    grosse  spalle.   -  "C'est bien!  Faites entrer monsieur de Beausset,
    ainsi  que  Fabvier"  [66.   Nessun  prigioniero.   Ci  obbligano   ad
    annientarli. Tanto peggio per l'esercito russo. Avanti, forza, avanti!
    Va bene,  fate entrare il signor de Beausset e pure Fabvier]  -  disse
    all'aiutante, facendogli cenno con il capo.
    - "Oui, sire"  -  e l'aiutante scomparve dietro la porta della tenda.
    Due camerieri vestirono in fretta sua maestà che,  in  divisa  azzurra
    della  Guardia,   a  passi  rapidi  e  decisi,  entrò  nella  sala  di
    ricevimento.
    De Beausset,  frattanto,  disponeva con mani agili il dono  che  aveva
    portato da parte dell'imperatrice sopra due sedie collocate proprio di
    fronte  all'uscio  da  cui l'imperatore doveva uscire.  Ma egli si era
    vestito con tale inattesa rapidità che de Beausset non fece in tempo a
    preparare del tutto la sorpresa.
    Napoleone vide subito ciò che de Beausset stava facendo e capì che non
    era ancor pronto ma,  non  volendo  privarlo  della  soddisfazione  di
    fargli  un'improvvisata,  finse  di non vederlo e chiamò a sé Fabvier.
    Ascoltò in silenzio, con il volto serio e aggrottato,  ciò che Fabvier
    gli disse sul valore e la devozione delle truppe francesi che si erano
    battute a Salamanca, all'altra estremità dell'Europa, e che avevano un
    solo desiderio: quello di essere degne del loro imperatore,  e un solo
    timore: quello di non accontentarlo. L'esito della battaglia era stato
    infelice.  Napoleone fece alcune osservazioni ironiche mentre  Fabvier
    parlava,  come  se  non  supponesse neppure che in sua assenza le cose
    potessero andare diversamente.
    - Dovrò rimediare a Mosca  -  disse.   -  "A tantôt" [67.  A  presto!]
    aggiunse,  e chiamò de Beausset che, intanto, era riuscito a preparare
    la sorpresa, che aveva disposta sulle sedie e coperta con un panno.
    De Beausset fece uno  di  quei  profondi  inchini  da  cortigiano  che
    sapevano  fare  soltanto  i  vecchi  servi  dei  Borboni e si avvicinò
    all'imperatore, porgendogli un plico.
    Napoleone si volse allegramente a lui e gli tirò un orecchio.
    - Avete fatto presto.  Ne sono molto lieto.  Che si  dice  a  Parigi?-
    domandò,  mutando a un tratto in un'espressione affabile quella severa
    di poco prima.
    - "Sire, tout Paris regrette votre absence" [68. Sire, tutta Parigi si
    rammarica per la vostra assenza]  -    rispose,  come  di  dovere,  de
    Beausset.   Ma  sebbene  Napoleone  sapesse  che  de  Beausset  doveva
    rispondergli qualcosa del genere e sebbene  nei  momenti  di  lucidità
    sapesse anche che non era vero, pure gli fece piacere sentirselo dire.
    E di nuovo lo degnò di una tiratina d'orecchio.
    -  "Je  suis  fâché  de vous avoir fait faire tant de chemin" [69.  Mi
    dispiace di avervi fatto fare tanta strada]  -  disse.
    - "Sire! Je ne m'attendais pas à moins qu'à vous trouver aux portes de
    Moscou" [70. Sire! Non mi aspettavo di meno che trovarvi alle porte di
    Mosca]  -  rispose de Beausset.
    Napoleone sorrise e, alzando distrattamente la testa, guardò a destra.
    L'aiutante di campo gli si avvicinò con passo scivolante e  gli  porse
    una tabacchiera d'oro. Napoleone la prese.
    -  Sì,  è stata per voi una buona occasione  -  disse,  avvicinando al
    naso la tabacchiera aperta.   -  Voi amate  viaggiare:  fra  tre  mesi
    vedrete  Mosca.  Certamente  non  vi aspettavate di poter visitare una
    capitale asiatica. Farete un bel viaggio...
    De Beausset s'inchinò,  riconoscente per questa  attenzione  alla  sua
    (che sino a quel giorno aveva ignorato) inclinazione a viaggiare.
    -  Ah,  cos'è  questo?    -    domandò Napoleone,  notando che tutti i
    cortigiani guardavano un oggetto coperto da un panno. De Beausset, con
    agilità cortigianesca,  senza dare mai le spalle all'imperatore,  fece
    con   un   mezzo   giro  su  se  stesso  due  passi  indietro,   tolse
    contemporaneamente il panno e rispose:
    - E' un regalo per vostra maestà da parte dell'imperatrice.
    Era il ritratto,  dipinto a vividi colori da Gérard (71),  del bambino
    nato da Napoleone e dalla figlia dell'imperatore d'Austria, che tutti,
    non  si  sa  perché,  chiamavano  "il re di Roma" (72),  Il fanciullo,
    ricciuto e molto bello,  con lo sguardo simile  a  quello  del  Cristo
    della   Madonna  Sistina,   era  raffigurato  in  atto  di  giocare  a
    "bilboquet". La palla rappresentava il globo terrestre, il bastoncino,
    nell'altra mano, rappresentava lo scettro.
    Per quanto  non  fosse  chiara  l'intenzione  del  pittore  che  aveva
    raffigurato il cosiddetto "re di Roma" nell'atto di infilzare il mondo
    con una bacchetta,  tuttavia l'allegoria,  come già a tutti coloro che
    avevano  visto  il  quadro  a  Parigi,   sembrò  chiarissima  anche  a
    Napoleone, e gli piacque molto.
    - "Roi de Rome"  -  egli disse,  indicando con un grazioso gesto della
    mano il ritratto.  -  "Admirable!".
    Con  l'abilità   propria   degli   Italiani   di   mutare   facilmente
    l'espressione  del  viso,  egli  assunse,  avvicinandosi  al ritratto,
    un'aria di tenerezza pensosa, sentiva che ciò che stava per dire e per
    fare in quel momento sarebbe rimasto nella storia, e gli pareva che la
    cosa migliore da farsi, in contrasto con la sua grandezza,  in seguito
    alla  quale  suo  figlio  poteva  trastullarsi con il globo terrestre,
    fosse di manifestare semplicemente la sua paterna  tenerezza.  I  suoi
    occhi  si velarono,  fece un passo avanti,  guardò una sedia (la sedia
    gli saltò subito sotto) e si  sedette  davanti  al  ritratto.  Un  suo
    cenno,  e  tutti  uscirono in punta di piedi,  lasciando il grand'uomo
    solo con se stesso e i suoi sentimenti.
    Dopo essere rimasto così per alcuni minuti e dopo aver toccato,  senza
    sapere perché,  la scabrosità degli sprazzi luminosi del ritratto,  si
    alzò e fece chiamare de Beausset e l'ufficiale di servizio. Ordinò che
    il ritratto fosse portato davanti  alla  tenda,  affinché  la  vecchia
    Guardia,  accampata lì vicino, non fosse privata della gioia di vedere
    il re di Roma, figlio ed erede del suo adorato imperatore.
    Come egli si aspettava,  mentre  faceva  colazione  con  de  Beausset,
    considerato  degno  di  tanto onore,  si udirono davanti alla tenda le
    grida entusiastiche  degli  ufficiali  e  dei  soldati  della  vecchia
    Guardia:
    - "Vive l'empereur! Vive le roi de Rome! Vive l'empereur!".
    Dopo  colazione  Napoleone,  in presenza di de Beausset,  dettò il suo
    proclama all'armata.
    - "Courte et énergique" [74.  Breve ed energico]  -   esclamò,  quando
    ebbe   letto   egli  stesso  il  proclama  scritto  di  getto,   senza
    cancellature. Nel proclama era detto:
    "Soldati! Ecco la battaglia che avete tanto desiderato. Da voi dipende
    la vittoria. Essa ci è necessaria; ci fornirà tutto quanto ci occorre:
    comodi alloggiamenti e un prossimo  ritorno  in  patria.  Comportatevi
    come  vi  siete comportati ad Austerlitz,  a Friedland,  a Vitebsk,  a
    Smolènsk.  Possano i posteri più lontani  ricordare  con  orgoglio  le
    vostre gesta di questa giornata. E di ciascuno di voi si dica: egli fu
    presente alla grande battaglia della Moscova!".
    -  "De  la  Moskowa!"    -  ripeté Napoleone e,  dopo aver invitato de
    Beausset,  che amava  tanto  viaggiare,  ad  accompagnarlo  nella  sua
    passeggiata, uscì dalla tenda e andò verso i cavalli sellati.
    -  "Votre majesté a trop de bonté" [75.  Vostra maestà è troppo buona]
    -  rispose de Beausset all'invito di accompagnare l'imperatore;  aveva
    sonno, non sapeva cavalcare e montava a cavallo con paura.
    Ma  Napoleone  fece  un  cenno  con  il  capo al gran viaggiatore e de
    Beausset dovette obbedire. Quando Napoleone uscì dalla tenda, le grida
    della Guardia davanti al  ritratto  di  suo  figlio  raddoppiarono  di
    intensità. Egli aggrottò le sopracciglia.
    -  Levatelo  di  lì    -    disse,  indicando il ritratto con un gesto
    graziosamente maestoso.   -  E' ancora troppo presto per lui vedere un
    campo di battaglia!
    De  Beausset,  chiudendo  gli  occhi  e  chinando  il capo,  trasse un
    profondo sospiro,  mostrando con quel gesto come sapesse apprezzare  e
    comprendere le parole dell'imperatore.


    CAPITOLO 27.

    Per  tutta  la giornata del 25 agosto,  Napoleone,  come dicono i suoi
    storici,  rimase a cavallo,  studiando la regione,  discutendo i piani
    che  i  suoi  marescialli  gli presentavano e impartendo personalmente
    ordini ai suoi generali.
    La linea primitiva dello schieramento  delle  truppe  russe  lungo  il
    Kolocia era stata spezzata,  e una parte di essa, e precisamente l'ala
    sinistra,  aveva  indietreggiato  in  conseguenza  della  presa  della
    ridotta di Scevardinò, avvenuta il giorno 24. Questa parte della linea
    non  era  fortificata,  non era più difesa dal fiume ed era la sola ad
    avere davanti un terreno scoperto e pianeggiante.  Era quindi evidente
    per  chiunque,  militare  o  non  militare,  che  i Francesi avrebbero
    attaccato questa parte della linea russa.  Pareva che per  questo  non
    occorressero   molte   considerazioni   né   fossero  necessari  tanta
    agitazione e tanto andirivieni da parte  dell'imperatore  e  dei  suoi
    marescialli  e  non era neppure necessaria quella particolare capacità
    superiore,  definita genio,  che tanto  volentieri  si  attribuisce  a
    Napoleone; ma gli storici che descrissero più tardi l'avvenimento, gli
    uomini   che   attorniavano   allora   l'imperatore   dei  Francesi  e
    l'imperatore stesso, pensavano diversamente.
    Napoleone cavalcava per il campo, osservava con profonda attenzione il
    terreno, scuoteva il capo ora con aria di approvare, ora di diffidare,
    in risposta alle proprie riflessioni e,  senza comunicare ai  generali
    che  lo  attorniavano il profondo svolgersi dei pensieri che guidavano
    le sue decisioni, trasmetteva loro soltanto le conclusioni definitive,
    in forma di ordini. Sentita la proposta di Davoust,  chiamato principe
    di  Eckmühl,  di aggirare l'ala sinistra dei Russi,  Napoleone rispose
    che non era necessario,  senza spiegarne il motivo.  Acconsentì invece
    alla  proposta  del  generale  conte  Compans  (76)  (il  quale doveva
    attaccare le frecce), di far passar la propria divisione attraverso il
    bosco,  sebbene il cosiddetto duca di Elchingen,  cioè  Ney  (77),  si
    permettesse  di  osservare  che  una  marcia  attraverso  un bosco era
    pericolosa e poteva indebolire la divisione.
    Dopo aver osservato il terreno prospiciente la ridotta di  Scevardinò,
    Napoleone  rimase  immerso nei suoi pensieri per un po' di tempo senza
    aprir bocca;  poi indicò i luoghi in cui dovevano essere pronte per il
    giorno   seguente   due   batterie   destinate   ad  agire  contro  le
    fortificazioni russe e  i  punti  in  cui,  accanto  ad  esse,  doveva
    disporsi l'artiglieria da campagna.
    Dopo  aver  dato  questi e altri ordini,  egli ritornò alla sua tenda;
    l'ordine delle operazioni fu scritto sotto sua dettatura.
    Quest'ordine di operazioni,  di cui gli storici francesi  parlano  con
    entusiasmo e gli altri con profondo rispetto era il seguente:
    "All'alba  due nuove batterie,  sistemate durante la notte nella piana
    occupata dal principe di Eckmühl,  apriranno il fuoco  contro  le  due
    opposte batterie nemiche.
    "Alla stessa ora il comandante l'artiglieria del primo corpo, generale
    Pernety (78), con trenta cannoni della divisione Compans e con tutti i
    mortai  della  divisione Desaix (79) e Friant (80),  moverà in avanti,
    aprirà il fuoco e lancerà granate sulla  batteria  nemica,  contro  la
    quale si metteranno in azione:
    24 cannoni dell'artiglieria della Guardia
    30 cannoni della divisione Compans
    8 mortai delle divisioni Friant e Desaix
    Totale 62 pezzi
    "Il  comandante  dell'artiglieria  del  Terzo corpo,  generale Fouchet
    (81),  porterà tutti i mortai del Terzo e dell'Ottavo corpo (in  tutto
    sedici)   sui   fianchi   della   batteria   che   sarà   adibita   al
    cannoneggiamento delle fortificazioni di sinistra,  il che  comporterà
    contro di esse un totale di quaranta pezzi.
    "Il  generale  Sorbier  (82) dovrà essere pronto,  al primo ordine,  a
    muovere con tutti i mortai dell'artiglieria della Guardia contro l'una
    e l'altra fortificazione.
    "Durante il cannoneggiamento,  il principe Ponjatowski si dirigerà  al
    villaggio attraverso il bosco e aggirerà la posizione nemica.
    "Il generale Compans moverà attraverso il bosco per impadronirsi della
    prima fortificazione.
    "Iniziata  la battaglia,  verranno impartiti ordini conformemente alle
    azioni del nemico.
    "Il cannoneggiamento contro il fianco sinistro dovrà avere inizio  non
    appena  si udrà il cannoneggiamento dell'ala destra.  I tiratori della
    divisione Morand (83) e della divisione del viceré (84)  apriranno  un
    nutritissimo   fuoco  allorché  vedranno  iniziato  l'attacco  all'ala
    destra.
    "Il viceré occuperà il villaggio (85) e attraverserà il fiume sui  tre
    ponti,  procedendo alla stessa altezza con le divisioni di Morand e di
    Gérard (86),  le quali,  sotto il suo  comando,  si  dirigeranno  alla
    ridotta e si metteranno in linea con le altre truppe dell'esercito.
    "Tutto  ciò  verrà eseguito con ordine ("le tout se fera avec ordre et
    méthode"),  risparmiando,  in relazione alle  possibilità,  le  truppe
    della riserva.
    "Dal campo imperiale presso Mozaisk il 6 settembre 1812" (87).
    Questo piano,  confuso e poco chiaro  -  se ci è permesso considerarlo
    tale senza religioso terrore per il genio di Napoleone  -    conteneva
    quattro punti,  quattro ordini,  dei quali nessuno poteva essere né fu
    eseguito.
    Nella prima disposizione era detto che le batterie sistemate nel luogo
    scelto da Napoleone,  con le quali  dovevano  schierarsi  i  pezzi  di
    Pernety e di Fouchet, per complessivi centodue pezzi, avrebbero aperto
    il fuoco e tempestato di proiettili le frecce e la ridotta. Ma ciò non
    poteva  essere  fatto,  poiché  dai  luoghi  scelti  da  Napoleone,  i
    proiettili non potevano raggiungere le opere di fortificazione  russe,
    cosicché  quei  centodue  pezzi  spararono  a  vuoto  sino a quando il
    comandante più vicino, contrariamente agli ordini dell'imperatore, non
    li ebbe fatti sistemare più avanti.
    La seconda disposizione era  che  Ponjatowski,  dirigendosi  verso  il
    villaggio attraverso il bosco, aggirasse l'ala sinistra russa. Ciò non
    poteva realizzarsi,  e non lo fu,  perché Ponjatowski,  dirigendosi al
    villaggio attraverso il bosco,  incontrò,  a sbarrargli la strada,  le
    truppe di Tucikòv; era impossibile, quindi, che aggirasse la posizione
    russa, e infatti non la aggirò.
    La terza disposizione: "il generale Compans moverà attraverso il bosco
    per impadronirsi della prima fortificazione".  La divisione di Compans
    non si impadronì della prima fortificazione,  ma fu  respinta  perché,
    uscendo   dal   bosco,   dovette  riordinarsi  sotto  il  fuoco  delle
    mitragliatrici, il che Napoleone ignorava.
    La quarta disposizione: "Il viceré occuperà il  villaggio"  (Borodinò)
    "e  attraverserà  il fiume sui suoi tre ponti,  procedendo alla stessa
    altezza delle divisioni di Morand e di Friant" (delle quali non  si  è
    detto  quando  e  dove  dovessero  muovere),  "le quali,  sotto il suo
    comando,  si dirigeranno verso la ridotta,  allineandosi con le  altre
    truppe dell'esercito".
    A  quanto  è  possibile  capire,    -  se non da questo sconclusionato
    periodo,  dai tentativi fatti  dal  viceré  per  eseguire  gli  ordini
    ricevuti    -    egli  avrebbe  dovuto  muovere attraverso Borodinò da
    sinistra verso la ridotta,  mentre le divisioni di Morand e di  Friant
    avrebbero dovuto contemporaneamente muoversi dalla linea del fronte.
    Tutto questo,  come gli altri punti dell'ordine delle operazioni,  non
    era e non poteva essere eseguito.  Attraversato che ebbe  Borodinò  il
    viceré  fu  respinto  sul  Kolocia e non riuscì ad avanzare oltre;  le
    divisioni di Morand e di Friant non solo non  si  impadronirono  della
    ridotta,  ma  furono respinte,  e la ridotta fu presa dalla cavalleria
    solo verso la fine della battaglia (cosa probabilmente non prevista da
    Napoleone e inaudita).  E così non una sola delle disposizioni date fu
    né  poteva essere attuata.  Ma nelle disposizioni era anche detto che,
    "impostato in tal modo il combattimento,  saranno impartiti ordini  in
    conformità alle azioni del nemico",  e perciò si potrebbe supporre che
    durante la battaglia  Napoleone  avrebbe  preso  tutte  le  necessarie
    disposizioni;  il che non accadde né poteva accadere perché, per tutta
    la durata della battaglia,  Napoleone si trovava tanto lontano da essa
    (come  risultò  in seguito) che l'andamento della battaglia stessa non
    gli poteva essere noto e neppure uno degli  ordini  da  lui  impartiti
    poté essere eseguito durante il combattimento.


    CAPITOLO 28.

    Molti  storici  dicono  che  la battaglia di Borodinò non fu vinta dai
    Francesi perché Napoleone era raffreddato;  che,  se quel  giorno  non
    avesse  avuto  il raffreddore,  le sue disposizioni prima e durante la
    battaglia sarebbero state ancora più geniali,  la Russia sarebbe stata
    battuta  e  "la  face  du monde eût été changée" [88.  e la faccia del
    mondo sarebbe cambiata].  Per gli storici,  i quali ritengono  che  la
    Russia  sia  stata  formata per la volontà di un solo uomo,  Pietro il
    Grande (89),  che la Francia si sia trasformata da repubblica a impero
    e con i suoi eserciti abbia invaso la Russia per la volontà di un solo
    uomo,  Napoleone,  il  ragionamento  che la Russia sia rimasta potente
    perché  il  26  agosto  Napoleone  era  stato  colpito  da  un   forte
    raffreddore, è senz'altro logico.
    Se  fosse  dipeso  dalla volontà di Napoleone di dare o di non dare la
    battaglia di Borodinò e fosse dipeso dalla sua volontà di impartire un
    ordine piuttosto che  un  altro,  evidentemente  il  raffreddore,  che
    poteva  influire  sulla  sua  volontà,  poteva  essere  la causa della
    salvezza della Russia, ed è perciò quel cameriere, che il giorno 24 si
    era dimenticato di dare a Napoleone gli stivali impermeabili,  che  ne
    fu il salvatore.  Sotto questo punto di vista,  questa conclusione non
    ammette dubbi,  così come quella che fece Voltaire  scherzando,  senza
    saper  lui  stesso  su  che  cosa,  quando  disse  che la notte di San
    Bartolomeo fu causata da un disturbo di stomaco di Carlo Nono (90). Ma
    per coloro che non ammettono che la  Russia  si  sia  formata  per  la
    volontà  di un solo uomo,  Pietro Primo,  né che l'impero francese sia
    stato costituito e la guerra contro la Russia iniziata per volontà  di
    un  solo  uomo,  Napoleone,  un  simile  ragionamento  si presenta non
    soltanto illogico e inesatto,  ma contrario alla stessa natura  umana.
    Alla domanda circa le cause degli avvenimenti storici, si può dare una
    risposta  diversa,   che  consiste  in  questo:  che  il  corso  degli
    avvenimenti umani è stabilito dall'alto,  che dipende dal concorso  di
    tutte le volontà degli uomini che partecipano a questi avvenimenti,  e
    che l'influenza di Napoleone sul corso di essi non fu che superficiale
    e fittizia.
    Per quanto appaia strano,  a un primo sguardo,  la supposizione che la
    notte  di  San Bartolomeo,  ordinata da Carlo Nono,  avvenne senza che
    egli l'avesse voluta (per quanto così gli paresse) e che la strage  di
    ottantamila  uomini  a  Borodinò non si compì per volontà di Napoleone
    (sebbene egli avesse impartito tutti gli  ordini  per  l'inizio  e  lo
    svolgimento della battaglia),  ma egli credette soltanto di ordinarla;
    per quanto strana possa apparire tale supposizione,  pure  la  dignità
    umana,  la  quale mi dice che ognuno di noi è,  se non più,  certo non
    meno uomo del grande  Napoleone,  mi  costringe  ad  accettare  questa
    soluzione  del  problema,  soluzione  abbondantemente confermata dalle
    indagini storiche.
    Alla battaglia di Borodinò,  Napoleone non  sparò  contro  nessuno  né
    uccise  alcuno:  lo  fecero i suoi soldati.  Non fu quindi Napoleone a
    uccidere gli uomini.
    I soldati dell'armata francese andarono a uccidere i soldati  russi  a
    Borodinò,  non  in  seguito  agli  ordini di Napoleone,  ma di propria
    volontà. Tutta l'armata  -  Francesi, Italiani, Tedeschi,  Polacchi  -
    affamata,  lacera, sfinita dalle marce, di fronte a un esercito che le
    sbarrava la via di Mosca,  sentiva che "le vin est tiré et qu'il  faut
    le  boire"  [91.  il  vino  è spillato e bisogna berlo].  Se Napoleone
    avesse  vietato  adesso  di  battersi  contro  i  Russi,   i   soldati
    l'avrebbero  ucciso  e sarebbero andati a battersi ugualmente,  perché
    era per loro una necessità indiscutibile.
    Quando ascoltarono il proclama di Napoleone che  li  confortava  delle
    mutilazioni e della morte con le parole della posterità che li avrebbe
    ricordati  come  coloro  che  avevano partecipato alla battaglia della
    Moscova,  gridarono: "Vive l'empereur!",  come avevano  gridato  "Vive
    l'empereur!" dinanzi al ritratto del fanciullo che trafiggeva il globo
    terrestre  con  il bastoncino del "bilboquet";  come avrebbero gridato
    "Vive l'empereur!" a qualsiasi assurdità fosse stata loro  detta.  Non
    potevano  far altro che gridare "Vive l'empereur!" e andare a battersi
    per trovare a Mosca il cibo e il riposo della vittoria.  Non è  quindi
    in seguito all'ordine di Napoleone che essi uccisero i loro simili.
    E  non  fu  Napoleone  a  dirigere  l'andamento della battaglia poiché
    nessuna delle sue disposizioni fu eseguita e durante la battaglia egli
    ignorava ciò che stava accadendo dinanzi a lui. Anche il modo, dunque,
    con cui i soldati si uccisero a vicenda,  si  svolse  non  secondo  la
    volontà di Napoleone,  ma indipendentemente da essa, per la volontà di
    centinaia di migliaia di uomini che partecipavano all'azione comune. A
    Napoleone  "pareva  soltanto"  che  tutto  accadesse  secondo  la  sua
    volontà.  E  perciò  la questione se Napoleone fosse o no raffreddato,
    non ha per la storia interesse maggiore  di  quanto  possa  averlo  il
    raffreddore dell'ultimo soldato delle salmerie.
    E tanto meno il 26 agosto il raffreddore di Napoleone ebbe importanza,
    in  quanto  le affermazioni degli scrittori sul fatto che in seguito a
    tale  raffreddore  le  disposizioni  dell'imperatore   riguardo   allo
    svolgimento  della battaglia furono meno efficaci,  sono assolutamente
    ingiuste.
    Le disposizioni sopra accennate non erano affatto peggiori  -    direi
    anzi  migliori    -    di  tutte  le  precedenti  riferentisi ad altre
    battaglie.  Gli ordini immaginari che sarebbero  stati  impartiti  nel
    corso  della battaglia non erano peggiori dei precedenti,  ma simili a
    tutti gli altri.  Ma questi ordini e queste disposizioni sono  apparsi
    peggiori  soltanto  perché  la  battaglia  di  Borodinò  fu  la  prima
    battaglia che Napoleone non vinse. Tutti i più meravigliosi piani e le
    disposizioni più meditate appaiono pessimi,  e  qualsiasi  esperto  di
    cose  militari  li  critica,  se  la  battaglia  condotta secondo tali
    direttive è perduta; così come i piani peggiori appaiono eccellenti, e
    uomini seri,  in interi volumi,  ne dimostrano il valore,  allorché la
    battaglia condotta secondo quei piani si conclude con una vittoria.
    Il piano operativo compilato da Weirother ad Austerlitz fu un perfetto
    modello tra le opere del genere;  nonostante questo,  fu criticato per
    la sua stessa perfezione e per l'eccessiva quantità dei particolari.
    Nella battaglia di  Borodinò,  Napoleone  sostenne  la  sua  parte  di
    rappresentante  del  potere  altrettanto  bene,  e anche meglio che in
    altre battaglie.  Non fece nulla che potesse nuocere allo  svolgimento
    dell'azione;  si  mostrò  propenso alle opinioni più ragionevoli;  non
    complicò le cose, non si contraddisse, non si spaventò e non fuggì dal
    campo di  battaglia,  ma  con  il  grande  tatto  e  con  la  profonda
    esperienza  di  guerra di cui era dotato,  rappresentò con calma e con
    dignità la sua parte di comandante supremo.


    CAPITOLO 29.

    Ritornato da una seconda, accurata ispezione, Napoleone disse:
    - Gli scacchi sono sistemati: domani comincia la partita.
    Ordinò che gli si preparasse  un  "punch"  e,  chiamato  de  Beausset,
    iniziò  con  lui  una conversazione su Parigi e su certi mutamenti che
    aveva intenzione di fare alla "maison  de  l'impératrice"  [92.  corte
    dell'imperatrice], destando lo stupore del prefetto per la sua memoria
    di tutti i minimi particolari della Corte.
    Si  interessava di molte piccole cose,  scherzava sulla passione di de
    Beausset per i viaggi e  chiacchierava  con  noncuranza,  come  fa  il
    chirurgo  celebre,  sicuro  di  sé e della propria abilità,  mentre si
    rimbocca le maniche e si mette il  grembiale,  e  mentre  il  paziente
    viene legato al tavolo operatorio. "Tutto è nelle mie mani e nella mia
    testa,  chiaro e preciso. Quando sarà il momento opportuno, agirò come
    nessuno saprebbe meglio; ora posso scherzare, quanto più scherzo e più
    sono tranquillo, tanto più dovete essere tranquilli voi,  sicuri della
    vittoria e stupiti del mio genio".
    Quando ebbe finito di bere il secondo bicchiere di "punch",  Napoleone
    andò a riposarsi prima del lavoro serio che gli sembrava lo attendesse
    il giorno dopo.
    Si  interessava  talmente  della  battaglia  vicina   che   non   poté
    addormentarsi  e  sebbene  il  suo  raffreddore  fosse  aumentato  per
    l'umidità della  sera  precedente,  alle  due  di  notte,  soffiandosi
    rumorosamente il naso, si recò nello scomparto più grande della tenda.
    Chiese  se  i Russi si fossero ritirati.  Gli fu risposto che i fuochi
    nemici erano sempre allo stesso posto.  Fece con il capo un  cenno  di
    approvazione.
    L'aiutante di campo in servizio entrò nella tenda.
    - "Eh bien,  Rapp (93), croyez-vous que nous ferons de bonnes affaires
    aujourd'hui?" [94.  Ebbene,  Rapp,  credete che faremo  buoni  affari,
    oggi?]  -  gli domandò Napoleone.
    - "Sans aucun doute, sire" [95. Senza dubbio, sire]  -   rispose Rapp.
    Napoleone lo guardò.
    - "Vous rappelez-vous, sire, ce que vous m'avez fait l'honneur de dire
    à Smolènsk"  -  proseguì Rapp:  -  "le vin est tiré, il faut le boire"
    [96.  Vi  ricordate,  sire,  ciò  che mi avete fatto l'onore di dire a
    Smolènsk: il vino è spillato, bisogna berlo].
    Napoleone aggrottò le sopracciglia e rimase a lungo silenzioso, con la
    testa appoggiata a una mano.
    - "Cette pauvre armée"  -  riprese a un  tratto    -    "elle  a  bien
    diminué depuis Smolènsk.  La fortune est une franche cortisane,  Rapp;
    je le disais toujours et je commence  à  l'éprouver.  Mais  la  Garde,
    Rapp,  la  Garde  est  intacte?"  [97.  Questa  povera  armata è molto
    diminuita dopo Smolènsk. La fortuna è una vera cortigiana, l'ho sempre
    detto e ora comincio a sperimentarlo. Ma la Guardia, Rapp,  la Guardia
    è intatta?].
    - "Oui, sire"  -  rispose Rapp.
    Napoleone  prese  una  pastiglia,  se  la  mise  in  bocca,  e  guardò
    l'orologio.  Non aveva sonno,  e il giorno  era  ancora  lontano,  non
    c'erano  ordini  da  dare  per  ammazzare il tempo,  giacché tutti gli
    ordini erano già stati impartiti e stavano per essere eseguiti.
    - "A-t-on distribué les biscuits et le riz aux régiments de la Garde?"
    [98.  Sono stati distribuiti le gallette e il riso ai reggimenti della
    Guardia?]  -  domandò Napoleone in tono severo.
    - "Oui, sire".
    - "Mais le riz?"
    Rapp  rispose  che  aveva  trasmesso  gli ordini riguardo al riso,  ma
    Napoleone scosse il capo con aria scontenta,  come se non credesse che
    il  suo  ordine  fosse stato eseguito.  Entrò un servo con il "punch".
    Napoleone ordinò di darne un bicchiere a Rapp e  vuotò  il  proprio  a
    piccoli sorsi, in silenzio.
    - Non ho più né odorato né gusto  -  disse, annusando il bicchiere.  -
    Questo  raffreddore  mi  infastidisce.  Parlano di medicina...  ma che
    razza di medicina che non sa neppure guarire un raffreddore? Corvisart
    (99) mi ha dato queste pastiglie, ma non servono a nulla. Cosa possono
    curare?  Non si può curare.  "Notre corps est une machine à vivre.  Il
    est organisé pour cela,  c'est de nature; laissez-y la vie à son aise,
    qu'elle  s'y  défende  elle-même;  elle  fera  plus  que  si  vous  la
    paralysiez  en  l'encombrant  de  remèdes.  Notre  corps est comme une
    montre parfaite qui doit aller un certain temps, l'horloger n'a pas la
    faculté de l'ouvrir,  il ne peut la manier qu'à  tâtons  et  les  yeux
    bandés.  Notre  corps  est une machine à vivre,  voilà tout" [100.  Il
    nostro corpo è una macchina per vivere.  Esso è organizzato  a  questo
    scopo,  per  sua  natura;  lasciatevi  la vita a proprio agio,  che si
    difenda da sé.  Otterrà di più che se la paralizzate ingombrandola  di
    medicine.  Il  nostro  corpo  è  come  un  orologio  perfetto che deve
    funzionare per un tempo determinato; l'orologiaio non ha la facoltà di
    aprirlo,  non può toccarlo che a tastoni e con gli occhi  bendati.  Il
    nostro corpo è una macchina per vivere, ecco tutto!].
    E, ritornato sulla via delle definizioni, "des définitions", che tanto
    gli piaceva, Napoleone, improvvisamente, ne espose una altra:
    - Sapete voi,  Rapp,  che cos'è l'arte della guerra?   -  domandò.- E'
    l'arte di essere,  in un certo momento,  più forte del nemico.  "Voilà
    tout".
    Rapp non rispose.
    - "Demain nous allons avoir à faire à Koutouzoff!" [101. Domani avremo
    da  vedercela  con  Kutuzòv!]    -   proseguì Napoleone.   -  Vedremo.
    Ricordate?  A Braunau egli comandava l'esercito,  e per tre  settimane
    non  montò  a  cavallo  neppure  una volta per andare a ispezionare le
    fortificazioni. Vedremo!
    Guardò l'orologio.  Erano appena  le  quattro.  Non  aveva  sonno;  il
    "punch"  era  già  bevuto  e  non gli restava nulla da fare.  Si alzò,
    camminò in lungo e in largo,  indossò una  giubba  pesante,  calzò  un
    cappello  e  uscì dalla tenda.  La notte era scura e umida: un'umidità
    appena percettibile calava dall'alto.  I fuochi vicini  della  Guardia
    francese  ardevano  debolmente  e  in lontananza,  attraverso il fumo,
    splendevano quelli della linea russa.  Tutto  era  tranquillo,  ma  si
    udiva  nettamente lo scalpiccio delle truppe francesi già in movimento
    per occupare le loro posizioni.
    Napoleone passeggiò davanti alla  tenda,  osservò  i  fuochi,  ascoltò
    quello  scalpiccio  e,  quando  passò  davanti  all'alto soldato della
    Guardia dal berretto di pelo che,  ritto come un  palo,  stava  lì  di
    sentinella, si fermò.
    -  Da  quale  anno  sotto  le  armi?    -  gli domandò con la consueta
    affettazione di rude benevolenza con cui parlava sempre ai soldati. Il
    soldato rispose.
    - "Ah, un des vieux!" [102.  Ah,  uno degli anziani!].  Avete avuto la
    distribuzione di riso, al reggimento?
    - Sì, maestà.
    Napoleone chinò il capo in segno di assenso e si allontanò.
    Alle  cinque  e  mezzo  l'imperatore si recò a cavallo al villaggio di
    Scevardinò.  Albeggiava,  il cielo si era rasserenato: una nuvola sola
    indugiava  a  oriente.  I  fuochi abbandonati si spegnevano lentamente
    nell'incerta luce del mattino.
    A destra rimbombò,  sorda e isolata,  una cannonata che echeggiò e  si
    disperse nel silenzio generale. Passarono alcuni minuti. Risonarono un
    secondo,  poi  un  terzo  colpo.  L'aria tremò,  la quarta e la quinta
    cannonata rimbombarono vicine e solenni,  in qualche punto da  destra.
    Non  si  era  ancora  spenta l'eco del primo colpo e già altri e altri
    ancora scoppiavano, si confondevano, si incrociavano.
    Napoleone raggiunse con il suo séguito  la  ridotta  di  Scevardinò  e
    scese da cavallo.
    La partita cominciava.


    CAPITOLO 30.

    Tornato a Gorki,  dopo aver lasciato il principe Andréj, Pierre ordinò
    al suo staffiere di preparare i cavalli e di svegliarlo  di  buon'ora.
    Si  addormentò subito dietro il tramezzo,  nel cantuccio che Borìs gli
    aveva ceduto.
    Quando si svegliò la  mattina  seguente,  nell'"izbà"  non  c'era  più
    nessuno.  I vetri delle piccole finestre tremavano. Lo staffiere ritto
    accanto al letto, stava scuotendo il padrone.
    - Eccellenza, eccellenza!  -  ripeteva con ostinazione, senza guardare
    Pierre;  poi,  perduta evidentemente la  speranza  di  svegliarlo,  lo
    scuoteva per una spalla.
    -  Che c'è?  E' cominciato?  E' già ora?   -  prese a chiedere Pierre,
    svegliandosi di soprassalto.
    - Favorite ascoltare le cannonate...    -    disse  lo  staffiere,  un
    soldato  in  congedo.    -   Tutti gli altri signori sono già usciti e
    anche sua altezza serenissima è passata da un pezzo.
    Pierre si vestì in tutta fretta e  corse  sul  terrazzino.  Fuori  era
    chiaro, fresco, rugiadoso e gaio. Il sole, appena uscito da dietro una
    nuvola  che  lo  nascondeva  a  metà,  dardeggiava  i suoi raggi sulla
    polvere della strada umida di rugiada,  sui  muri  delle  case,  sulle
    aperture  del  muro  di  cinta,  sui  cavalli  sellati,  fermi davanti
    all'ingresso. Fuori, il rombo delle cannonate risonava più nitido. Per
    la strada passò un aiutante di campo accompagnato da un cosacco.
    - E' ora, conte, è ora!  -  gridò l'aiutante.
    Dopo aver ordinato di seguirlo con il cavallo, Pierre si diresse verso
    l'altura dalla quale il giorno precedente aveva guardato il  campo  di
    battaglia.   C'era  lassù  una  folla  di  militari,   si  udivano  le
    conversazioni in francese degli ufficiali dello stato  maggiore  e  si
    scorgeva la testa grigia di Kutuzòv,  con il berretto bianco orlato di
    rosso e la sua nuca grigia affondata nelle  spalle.  Kutuzòv  guardava
    con il cannocchiale verso la strada maestra.
    Salendo i gradini che conducevano sulla cima,  Pierre guardò davanti a
    sé,  stupito e pieno di ammirazione per la bellezza dello  spettacolo.
    Il  panorama  era  quello stesso che aveva ammirato il giorno innanzi,
    dall'altura;  ma ora tutta la distesa era coperta dalle truppe  e  dal
    fumo delle cannonate; i raggi obliqui del limpido sole che si levava a
    sinistra, alle spalle di Pierre, proiettavano su di essa, nella chiara
    luce  del  mattino,  la loro luce abbagliante dalle sfumature dorate e
    rosee,  e lunghe ombre nere.  I  boschi  lontani,  che  limitavano  il
    panorama  e  parevano  scolpiti  in  una  pietra preziosa di un giallo
    verdastro, si disegnavano all'orizzonte con le loro linee frastagliate
    e tra quei boschi, al di là di Valùevo,  spiccava la strada maestra di
    Smolènsk, tutta coperta di truppe. Più vicino splendevano campi dorati
    e boschetti.  Ovunque, davanti, a destra e a sinistra, c'era movimento
    di soldati.  Tutto questo insieme  era  pieno  di  vita,  grandioso  e
    inatteso,  ma  quello che,  soprattutto,  colpì Pierre fu la vista del
    campo di battaglia di Borodinò, e delle due erte,  dirupate sponde del
    Kolocia.
    Sul  Kolocia,  su  Borodinò,  alla  sua  destra e alla sua sinistra e,
    specialmente a sinistra,  là dove il fiume Vòjna  si  getta  tra  rive
    paludose  nel Kolocia,  stava sospesa quella nebbiolina leggera che si
    fonde,  si dirada e si illumina al sorgere del sole radioso,  il quale
    tinge e delinea di magici colori tutto ciò che si intravede attraverso
    quella lieve nebbia.  Alla nebbia si mescolava il fumo delle cannonate
    e,  tra la nebbia e il fumo,  splendevano qua e là scintillii di  luce
    mattutina:  ora  sull'acqua,  ora  sulle  baionette dei soldati che si
    accalcavano sulle sponde del fiume e dentro  Borodinò.  Attraverso  la
    nebbia  si scorgevano la chiesa bianca e qua e là,  i tetti delle case
    di Borodinò,  le masse compatte dei  soldati,  i  cassoni  verdi  e  i
    cannoni.  Tutto  questo  si  moveva  o  sembrava  muoversi,  perché si
    movevano la nebbia e il fumo,  spandendosi su  tutta  quella  distesa.
    Così,  presso Borodinò,  sotto i dirupi avvolti dalla nebbia, come più
    lontano, in alto e soprattutto a sinistra,  lungo tutta la linea,  nei
    boschi,  nei  campi,  negli  avvallamenti  e  sulle cime delle alture,
    sorgevano incessantemente,  come dal  nulla,  nuvoloni  di  fumo,  ora
    isolati  e  fitti,   ora  a  gruppi,  ora  radi,  ora  frequenti  che,
    gonfiandosi, allargandosi, turbinando, mescolandosi, empivano tutto lo
    spazio.
    Quelle volute di fumo delle cannonate e, strano a dirsi,  il rombo che
    le seguiva, costituivano la principale bellezza dello spettacolo.
    "Puff!"  ed ecco a un tratto apparire un globo di fumo,  compatto,  di
    colore  lilla  con  sfumature  grigie  e  bianco  latte,  e  "bum!..."
    echeggiare dopo un secondo lo scoppio del globo.
    "Puff...  Puff!" si levavano due fumate,  urtandosi e confondendosi; e
    "bum-bum" i suoni confermavano ciò che l'occhio vedeva.
    Pierre guardava di nuovo quella fumata che  la  prima  volta  gli  era
    apparsa  come  una  piccola  palla  tonda  e  compatta  e al cui posto
    sorgevano ora altri globi di fumo che si allungavano  da  un  lato,  e
    "puff"...  (una  pausa) "puff"...  se ne formavano ancora tre,  ancora
    quattro;  e a ciascuno,  con  gli  stessi  intervalli,  "bum-bum-bum",
    rispondevano  colpi spiccati,  decisi e gradevoli.  Quei globi di fumo
    ora sembravano correre,  ora essere immobili,  mentre davanti ad  essi
    correvano i boschi,  i campi e le lucenti baionette.  A sinistra,  nei
    campi e tra i cespugli, apparivano incessantemente questi fumi seguiti
    dai loro solenni rimbombi; e più vicini ancora,  ai piedi delle alture
    e  nei  boschi,  si  accendevano  piccoli  fumi  di  fucilate  che non
    arrivavano  ad  arrotondarsi   e   che   mandavano   anch'esse   brevi
    detonazioni.  "Trac-ta-ta-tac!"  scoppiettavano con frequenza,  ma con
    rumore irregolare e debole a confronto con quello dei cannoni.
    Pierre provò il desiderio di trovarsi laggiù,  dove c'era  quel  fumo,
    dove  si  vedevano quelle baionette lucenti e quel movimento,  dove si
    udivano quei colpi. Guardò Kutuzòv e il suo séguito per controllare le
    proprie impressioni con quelle degli altri... Tutti,  come lui e,  gli
    pareva,  con i suoi stessi sentimenti, avevano gli occhi fissi laggiù,
    al campo di battaglia.  Su tutti  i  visi  appariva  ora  quell'ardore
    latente  che  Pierre  aveva  osservato  il  giorno  prima  e che aveva
    perfettamente compreso dopo  la  sua  conversazione  con  il  principe
    Andréj.
    - Va',  mio caro, va'... Cristo ti accompagni  -  disse Kutuzòv, senza
    staccar gli occhi dal campo di battaglia,  a un generale che gli stava
    al fianco.
    Ricevuto  l'ordine,  il  generale  si  mosse e passò davanti a Pierre,
    dirigendosi verso il pendio dell'altura.
    - Al guado!   -  disse in tono  freddo  e  severo,  rispondendo  a  un
    ufficiale dello stato maggiore, che si informava dove andasse.
    "Anch'io... anch'io...", pensò Pierre, e lo seguì.
    Il  generale  montò in sella a un cavallo che un cosacco gli condusse.
    Pierre si avvicinò  allo  staffiere  che  tratteneva  i  suoi  per  la
    briglia,  gli  domandò  quale  fosse  il  più docile e lo inforcò.  Si
    aggrappò  alla  criniera,   strinse  i  calcagni   sotto   il   ventre
    dell'animale e,  sentendo che gli occhiali stavano per cadergli ma non
    avendo il coraggio di lasciare la  criniera  e  le  redini,  partì  al
    galoppo dietro il generale, provocando i sorrisi degli ufficiali dello
    stato maggiore che stavano guardandolo dalla sommità dell'altura.


    CAPITOLO 31.

    Il generale,  dietro il quale Pierre galoppava lungo la discesa svoltò
    bruscamente a sinistra e Pierre, perdutolo di vista, si slanciò tra le
    file dei soldati di fanteria che marciavano davanti a  lui.  Cercò  di
    uscirne,  ora movendo a destra, ora a sinistra, ma dappertutto c'erano
    soldati, i cui visi esprimevano la stessa preoccupazione relativamente
    a qualcosa che non  si  vedeva,  ma  che  doveva  certo  essere  molto
    importante. Tutti, con uno sguardo scontento e indagatore, squadravano
    quell'uomo grosso dal cappello bianco, il quale, non si sapeva perché,
    li urtava con il suo cavallo.
    -  Perché  mai  quello  cammina in mezzo al battaglione?   -  gridò un
    soldato.  Un altro colpì con il calcio del fucile il cavallo di Pierre
    e  questi,  stringendosi  al  pomo dell'arcione e trattenendo a fatica
    l'animale che si impennava,  galoppò davanti ai soldati,  slanciandosi
    verso uno spazio libero.
    Davanti  a sé scorse un ponte e,  accanto al ponte,  altri soldati che
    stavano sparando.  Pierre si avvicinò.  Senza saperlo,  era giunto  al
    ponte sul Kolocia, che si trovava tra Gorki e Borodinò e che era stato
    attaccato  dai  Francesi nella prima fase della battaglia,  dopo avere
    occupato Borodinò. Pierre vedeva davanti a sé un ponte,  vedeva ai due
    lati del ponte e sul prato,  in quelle strisce di fieno falciato,  che
    aveva osservato il giorno prima,  e tra il fumo,  soldati che  stavano
    facendo qualcosa, ma, nonostante il fuoco di fucileria che senza sosta
    crepitava in quel luogo, egli non pensava affatto che proprio là fosse
    il  campo  di battaglia.  Non udiva il sibilo delle pallottole che gli
    fischiavano attorno da ogni parte,  né gli scoppi dei  proiettili  che
    passavano  a  volo sulla sua testa;  non vedeva il nemico sulla sponda
    opposta del fiume e per parecchio tempo non vide i morti e  i  feriti,
    sebbene molti cadessero non lontano da lui. Con il sorriso fisso sulle
    labbra, si guardava attorno.
    -  Cosa fa quello là a cavallo davanti alla linea?   -  gridò di nuovo
    una voce irritata.
    - Prendi a sinistra o a destra, deciditi!  -  ammonivano altre voci.
    Pierre piegò a destra e improvvisamente s'imbatté in  un  aiutante  di
    campo del generale Raevskij,  che egli conosceva.  L'aiutante di campo
    lo guardò  con  aria  irritata  ma,  sul  punto  di  gridargli  contro
    qualcosa, lo riconobbe e lo salutò con un cenno del capo.
    - Come mai siete qui?  -  gli domandò, e si allontanò al galoppo.
    Pierre  si  sentiva  fuori  di  posto,  senza  sapere che cosa fare e,
    temendo di dare fastidio a qualcuno, seguì l'aiutante di campo.
    - Che succede qui? Posso venire con voi?  -  gli domandò.
    - Subito,  subito...   -  rispose l'aiutante che,  giunto  al  galoppo
    presso  un  grasso colonnello che stava sul prato,  gli riferì qualche
    cosa; soltanto allora si volse a Pierre.
    - Come mai siete capitato qui, conte?   -  gli domandò con un sorriso.
    -  Sempre per curiosità?
    - Sì, sì  -  rispose Pierre.
    Ma l'aiutante, fatto voltare il cavallo, proseguì oltre, dicendo:
    -  Qui,  grazie  a Dio,  non è ancor nulla,  ma da Bagratiòn,  all'ala
    sinistra, la battaglia infuria spaventosa.
    - Davvero? In che punto?  -  domandò Pierre.
    - Venite con me,  sull'altura:  di  lì  si  vede  tutto.  Alla  nostra
    batteria la situazione è ancora sopportabile  -  disse l'aiutante.   -
    Volete venire, allora?
    - Sì, vengo con voi  -  rispose Pierre, guardandosi attorno e cercando
    con gli occhi il suo staffiere.  Soltanto allora,  per la prima volta,
    scorse i feriti che si trascinavano a piedi o che venivano trasportati
    sulle  barelle.  Su  quello  stesso prato,  dalle strisce profumate di
    fieno,  sul quale era passato il giorno prima,  giaceva  immobile,  di
    traverso,  un  soldato,  con  la testa goffamente ripiegata e il chepì
    buttato per terra.
    - E perché questo qui non lo portano via?   -   stava  per  dire,  ma,
    vedendo il viso serio dell'aiutante di campo che guardava dalla stessa
    parte, tacque.
    Pierre   non  ritrovò  il  suo  staffiere.   Insieme  con  l'aiutante,
    proseguendo lungo un avvallamento, andò verso l'altura di Raevskij. Il
    cavallo di Pierre rimaneva indietro e, a intervalli regolari, gli dava
    continui scossoni.
    - Si vede che non avete l'abitudine di cavalcare,  non e vero,  conte?
    -  gli domandò l'aiutante di campo.
    - No,  non è questo ma,  chissà perché, salta molto  -  rispose Pierre
    con una certa perplessità.
    - Sfido io!  E' ferito alla  zampa  destra,  sotto  il  ginocchio    -
    osservò  l'aiutante  di  campo.    -    Una pallottola,  senza dubbio.
    Congratulazioni,  conte: è "le baptême du feu" [103.  il battesimo del
    fuoco].
    Cavalcando  in  mezzo  al  fumo  lungo  il  sesto  corpo,  alle spalle
    dell'artiglieria che avanzava sparando in modo assordante,  giunsero a
    un boschetto,  dove regnavano una dolce frescura,  una calma profumata
    d'autunno.  Pierre e l'aiutante di campo scesero di sella  e  a  piedi
    salirono su per la collina.
    - E' qui il generale?   -  s'informò l'aiutante,  mentre si avvicinava
    alla cima.
    - C'era poco fa...  è andato da quella parte,  a destra   -    gli  fu
    risposto.
    L'aiutante di campo si voltò verso Pierre, come se ora non sapesse che
    cosa fare di lui.
    - Non preoccupatevi  -  disse Pierre.  -   Salirò sulla montagnola: si
    può?
    - Sì,  andateci pure; di lassù si vede tutto e non è molto pericoloso.
    Verrò poi a prendervi.
    Pierre raggiunse la batteria e l'aiutante di campo  proseguì.  Non  si
    rividero più,  e soltanto molto più tardi Pierre venne a sapere che in
    quella stessa  giornata  quell'ufficiale  era  stato  mutilato  di  un
    braccio.
    La  montagnola,  sulla quale Pierre era salito,  era quel luogo famoso
    (conosciuto poi dai Russi con il nome di montagnola della  batteria  o
    batteria di Raevskij e dai Francesi con il nome di "la grande redoute,
    la fatale redoute,  la redoute du centre" [104.  La grande ridotta, la
    fatale ridotta,  la ridotta  del  centro]),  attorno  al  quale  erano
    schierati  diecine  di  migliaia  di  uomini,  il luogo che i Francesi
    consideravano come la chiave di volta della posizione.
    Quella ridotta consisteva in una montagnola attorno alla quale, da tre
    lati,  erano stati scavati dei fossati.  Nello spazio  circondato  dai
    fossati stessi erano sistemati dieci cannoni in azione,  con le bocche
    sporgenti da feritoie praticate nei parapetti.
    Sulla stessa linea della montagnola,  a destra  e  a  sinistra,  altri
    cannoni sparavano senza tregua. Un po' indietro dai cannoni stavano le
    truppe  di  fanteria.  Giungendo  alla  cima,  Pierre  non avrebbe mai
    pensato che quel punto, difeso da piccoli fossati in cui erano posti e
    sparavano  alcuni  cannoni,   fosse  il  punto  più  importante  della
    battaglia.  Quel  luogo,  anzi,  gli  sembrava  (proprio  perché ci si
    trovava) uno dei più insignificanti del campo di Borodinò.
    Giunto che fu sulla cima,  Pierre si sedette all'estremità del fossato
    che  circondava  la  batteria  e,  con  un  sorriso  inconsapevolmente
    gioioso,  prese a osservare ciò che si faceva attorno a lui.  Di tanto
    in tanto,  sempre con lo stesso sorriso sulle labbra, Pierre si alzava
    e, cercando di non dar fastidio ai soldati che caricavano e spingevano
    i cannoni e che correvano davanti a lui portando continuamente  sacchi
    di  munizioni,  passeggiava  lungo  la  batteria.  I cannoni di quella
    batteria sparavano senza tregua,  uno dopo l'altro,  assordando con  i
    loro colpi e coprendo di fumo e di polvere tutta l'altura.
    In  contrasto  con  lo  sgomento  che si avvertiva tra i soldati della
    fanteria di copertura della ridotta, qui alla batteria,  dove l'esiguo
    numero  degli  operanti  attorno ai cannoni era chiuso entro un limite
    segnato dal fossato e separato dagli altri uomini, si sentiva un'unica
    animazione, comune a tutti, quasi familiare.
    La comparsa di Pierre, dalla figura tutt'altro che marziale con il suo
    cappello  bianco,  colpì  dapprima  sgradevolmente  quegli  uomini.  I
    soldati,  passandogli accanto, lo guardavano fuggevolmente con stupore
    e persino  con  una  certa  apprensione.  Un  ufficiale  superiore  di
    artiglieria,  un uomo alto, butterato, dalle lunghe gambe, si avvicinò
    a Pierre come se volesse osservare il tiro  dell'ultimo  pezzo,  e  lo
    squadrò con curiosità.
    Un giovane ufficiale dal viso tondo,  quasi un ragazzo,  evidentemente
    da poco uscito dalla scuola militare e che si occupava  con  zelo  dei
    due pezzi a lui affidati, si rivolse a Pierre con aria severa.
    - Signore,  -  gli disse  -  permettete che vi preghi di allontanarvi.
    Qui non si può stare.
    I  soldati,   guardando  Pierre,   scuotevano  il  capo  in  segno  di
    disapprovazione. Ma quando tutti si furono convinti che quell'uomo con
    il cappello non solo non  faceva  niente  di  male,  ma  se  ne  stava
    tranquillamente   seduto   sul   declivio   del  terrapieno;   oppure,
    scostandosi cortesemente con un timido  sorriso,  passeggiava  per  la
    batteria  sotto il fuoco dei proiettili,  calmo come se si trovasse su
    un "boulevard",  il sentimento di ostilità contro di lui a poco a poco
    prese  a  trasformarsi  in  una  simpatia gaia e affettuosa,  simile a
    quella che i soldati hanno per i loro animali: cani,  gatti,  caprette
    e,  in genere, per tutte le bestie che vivono negli accampamenti. Quei
    soldati,  da un momento all'altro,  accolsero mentalmente Pierre nella
    loro famiglia,  lo adottarono e gli diedero un soprannome,  "il nostro
    signore", e ridevano tra di loro, burlandosi affettuosamente di lui.
    Una granata  spaccò  il  terreno  a  due  passi  da  Pierre  ed  egli,
    ripulendosi  il vestito dalla terra che gli era schizzata addosso,  si
    guardò attorno, sorridendo.
    - Come! Davvero non avete paura,  signore?   -  gli domandò un soldato
    dalle  spalle  larghe  e  dal viso rosso,  mostrando due file di denti
    forti e bianchissimi.
    - E tu hai paura?
    - E come no?   -  rispose il soldato.   -  Quella non perdona.  Se  ti
    colpisce,  ti  fa uscire le budella dalla pancia.  Non si può non aver
    paura!  -  proseguì, ridendo.
    Alcuni altri soldati,  dalle  facce  allegre  e  buone,  si  fermarono
    davanti  a Pierre.  Pareva che non si aspettassero di sentirlo parlare
    come tutti, e la costatazione del loro errore li rallegrava.
    - Noi dobbiamo fare il nostro mestiere di soldati... ma questo signore
    è sorprendente. Che signore!
    - Ai vostri posti!   -  gridò l'ufficialetto ai soldati che  si  erano
    riuniti attorno a Pierre.
    Era  evidente che quell'ufficialetto compiva per la prima o la seconda
    volta le sue mansioni e che per questo si  mostrava  tanto  preciso  e
    formalista verso i soldati e verso i superiori.
    Il  fuoco  incessante  dei  fucili  e il rombo dei cannoni si venivano
    intensificando in tutto  il  campo  di  battaglia,  e  specialmente  a
    sinistra,  dov'erano  le  opere avanzate di Bagratiòn;  ma per il gran
    fumo,  dal luogo dove si trovava Pierre,  non si vedeva  quasi  nulla.
    Inoltre,  le osservazioni di quel piccolo gruppo di uomini,  quasi una
    famiglia,  separati dagli altri,  che  si  trovavano  nella  batteria,
    assorbivano  tutta  l'attenzione  di  Pierre.  Alla  prima incosciente
    eccitazione di gioia prodotta dall'aspetto e dai rumori del  campo  di
    battaglia,  succedeva  ora in lui,  specialmente dopo che aveva veduto
    quel soldato che giaceva sul prato, un altro diverso sentimento.  Ora,
    seduto   sul   margine   del  fossato,   osservava  le  facce  che  lo
    circondavano.
    Già verso le dieci una ventina di uomini erano stati portati via;  due
    cannoni  messi  fuori  combattimento sulla batteria;  sempre più fitti
    cadevano i proiettili e, ronzando e fischiando,  di lontano giungevano
    le  pallottole.  Ma  pareva  che  i  soldati  della batteria non se ne
    accorgessero; da ogni parte si udivano voci allegre e scherzose.
    - Ohi,  bella mia!   -  gridava  un  soldato  a  una  granata  che  si
    avvicinava sibilando.
    -  Non  venire  qui!  Alla  fanteria!   -  aggiungeva un altro con una
    risata,  notando che il proiettile era passato oltre e cadeva  tra  le
    truppe schierate a difesa della ridotta.
    -  Lo conosci,  forse?   -  domandava un soldato a un contadino che si
    chinava quando un proiettile gli passava a volo al di sopra del capo.
    Alcuni artiglieri,  raggruppati presso un riparo,  guardavano ciò  che
    accadeva di fronte.
    -  Hanno  tolto  la  linea,  vedi?  Sono andati indietro  -  dicevano,
    guardando oltre il fossato.
    - Badate ai fatti vostri!  -  gridò un vecchio sottufficiale.  Se sono
    andati  indietro,   vuol  dire  che  indietro  si  combatte.     E  il
    sottufficiale, preso per le spalle un soldato, gli allungò una pedata.
    Si levò uno scoppio di risa.
    - Al quinto pezzo!  -  comandò una voce.
    - Tutti insieme,  ragazzi,  come gli alatori del Volga!   -  gridarono
    lietamente gli uomini che cambiarono posto al cannone.
    - Ah,  per poco questo colpo non ha portato via il cappello al  nostro
    signore  -  esclamò il burlone dalla faccia rossa,  mettendo in mostra
    i denti e indicando Pierre.   -  Ehi,  buona a nulla!   -  proseguì in
    tono  di rimprovero,  rivolgendosi a una granata che aveva colpito una
    ruota e la gamba di un uomo.
    - Ehi, voi, volponi!  -  esclamava un altro, ridendo,  rivolto a certi
    militi che salivano carponi alla batteria per raccogliere i feriti.
    -  O  non  è  buona  la "kascia"?  Ehi,  corvi,  che fate là impalati?
    gridarono ai militi fermi  dinanzi  al  soldato  che  aveva  la  gamba
    fracassata.
    Pierre notò che,  dopo ogni proiettile che cadeva e dopo ogni perdita,
    l'animazione generale andava via  via  crescendo.  Come  da  una  nube
    minacciosa  che  si  avvicini,  sempre più frequenti e più luminosi si
    accendevano sulle facce di quegli uomini (quasi per  resistere  a  ciò
    che accadeva) lampi di un fuoco nascosto,  pronto a divampare.  Pierre
    non guardava il campo  di  battaglia  né  si  interessava  a  ciò  che
    accadeva;  era  tutto assorto nell'intima contemplazione di quel fuoco
    sempre più divampante che, lo sentiva,  cominciava ad accendersi anche
    nell'anima sua.
    Alle  dieci  i soldati di fanteria,  che stavano davanti alla batteria
    tra i cespugli e lungo il  fiume  Kàmenka,  si  ritirarono.  Dall'alto
    della  batteria  si  vedevano  i  soldati  correre indietro e passarle
    accanto portando i feriti su barelle formate da fucili incrociati.  Un
    generale,  con  il  suo  séguito,  salì sulla montagnola e,  dopo aver
    parlato con il colonnello  e  aver  guardato  Pierre  con  espressione
    irritata,  tornò indietro,  ordinando alla fanteria di copertura,  che
    stava dietro alla batteria,  di stendersi  a  terra  per  essere  meno
    esposti  ai colpi del nemico.  Subito dopo,  tra le file dei fanti,  a
    destra della batteria,  si udì un rullar di tamburi e risonarono grida
    di comando, mentre dall'alto avanzavano le file della fanteria.
    Pierre  guardava  oltre  il  fossato.  La  sua  attenzione fu attirata
    specialmente da un  giovane  ufficiale  dal  volto  pallidissimo,  che
    camminava  a  ritroso,  tenendo  la  sciabola abbassata,  e si volgeva
    inquieto a guardare attorno a sé.
    Le schiere dei fanti scomparvero nel fumo,  si udivano le loro  grida,
    alte  e  prolungate,  e frequenti scariche di fucileria.  Pochi minuti
    dopo giunse di là un  gran  numero  di  barelle  e  di  feriti.  Sulla
    batteria  i  proiettili  presero  a cadere più fitti.  Parecchi uomini
    giacevano a terra, non ancora raccolti. Attorno ai cannoni, i serventi
    si movevano con agitazione sempre crescente.  Nessuno badava a Pierre.
    Due o tre volte fu redarguito irosamente perché non lasciava libero il
    passo.  L'ufficiale  più  anziano  con  il  viso  accigliato,  passava
    rapidamente da un cannone all'altro. L'ufficialetto giovane,  rosso in
    volto  più  che  mai,  comandava  i  soldati con il massimo zelo.  Gli
    artiglieri porgevano le munizioni, si voltavano,  caricavano i pezzi e
    compivano   il   loro   dovere   con  ammirevole  e  rigida  eleganza.
    Camminavano, scattando come su molle.
    La nube minacciosa si avvicinava e su  tutti  i  visi  splendeva  quel
    fuoco  che  Pierre  attendeva  di  sentir divampare.  Egli stava ritto
    presso l'ufficiale superiore.  Il giovane  ufficiale  si  avvicinò  di
    corsa e con la mano alla visiera disse:
    - Ho l'onore di riferirvi,  signor colonnello,  che non ci restano più
    di otto cariche. Ordinate di continuare il fuoco?
    - A mitraglia!  -  gridò, senza rispondergli,  l'ufficiale comandante,
    guardando oltre il fossato.
    Improvvisamente  accadde  qualcosa;  l'ufficialetto emise un gemito e,
    piegandosi su se stesso, cadde a terra come un uccello colpito durante
    il volo.
    Agli occhi di Pierre tutto apparve strano, vago e oscuro.
    Gli obici fischiavano uno dopo l'altro e  cadevano  sui  ripari  della
    batteria, sui soldati, sui cannoni. Pierre, che prima non sentiva quel
    fragore, adesso non udiva altro. Di fianco alla batteria, a destra, un
    gruppo  di  soldati,  gridando  "Urrà!",  correvano non in avanti,  ma
    indietro, come almeno parve a Pierre.
    Una granata colpì l'orlo del fossato presso il quale egli stava ritto,
    facendo franare la terra;  davanti ai suoi occhi passò una palla  nera
    e,  nello  stesso istante,  qualcosa piombò giù.  I territoriali,  che
    entravano nella batteria, tornarono indietro di corsa.
    - Tutti a mitraglia!  -  gridò il comandante.
    Un sottufficiale corse verso di lui e  sottovoce,  con  aria  sgomenta
    (come un maggiordomo che, durante il pranzo, informi il padrone che il
    vino richiesto è finito), gli annunziò che non c'erano più munizioni.
    - Briganti!  Ma cosa fanno?   -  esclamò l'ufficiale, voltandosi verso
    Pierre.  Il suo viso era  rosso  e  madido  di  sudore,  e  gli  occhi
    aggrottati scintillavano.   -  Corri alle riserve, mano ai cassoni!  -
    gridò al sottufficiale,  lanciando a Pierre  un'occhiata  furibonda  e
    rivolgendosi al suo inferiore.
    - Vado io!  -  disse Pierre.
    L'ufficiale,   senza  rispondergli,  corse  verso  la  parte  opposta,
    gridando:
    - Non sparate... Aspetta!
    Il  soldato,  che  aveva  avuto  l'ordine  di  andare  a  prendere  le
    munizioni, urtò Pierre.
    - Ehi,  signore,  questo non è posto per te!  -  gli disse, e scese di
    corsa lungo il pendio.
    Pierre lo seguì,  aggirando il punto in  cui  era  caduto  il  giovane
    ufficiale.
    Una granata,  un'altra,  un'altra ancora passarono volando al di sopra
    della sua testa, cadendogli davanti, vicino, dietro. Pierre continuò a
    scendere correndo. "Dove vado?",  gli venne all'improvviso da pensare,
    quando  già si trovava davanti ai cassoni verdi.  Si fermò,  indeciso,
    domandandosi se dovesse proseguire o  tornare  indietro.  Tutto  a  un
    tratto,  un urto terribile lo buttò a terra.  E, nello stesso momento,
    il bagliore di gran fuoco lo illuminò, un fragore di tuono,  un sibilo
    e uno schianto lo assordarono.
    Quando si riebbe,  Pierre si trovò seduto, appoggiato con le mani alla
    terra;  il cassone,  presso  il  quale  si  trovava,  non  c'era  più;
    sull'erba  erano sparse soltanto qua e là,  assi verdi bruciacchiate e
    pezzi di stracci; un cavallo, squassando i tronconi delle stanghe,  si
    allontanava al galoppo,  e un altro,  come Pierre,  giaceva al suolo e
    mandava lunghi, acuti nitriti.


    CAPITOLO 32.

    Pierre, fuori di sé per lo sgomento, balzò in piedi e ritornò correndo
    verso la batteria,  come verso l'unico rifugio da tutti gli orrori che
    lo circondavano.
    Nel momento in cui egli entrava nella trincea, notò che dalla batteria
    non  si  udiva più sparare,  ma che c'era gente intenta a fare qualche
    cosa.  Pierre non ebbe tempo di capire di che si  trattasse.  Vide  il
    colonnello più anziano che, steso bocconi sul terrapieno, con il dorso
    voltato verso di lui,  pareva fissare in basso;  vide un soldato,  che
    già aveva notato prima, il quale,  dibattendosi per sfuggire ad alcuni
    uomini  che  lo  tenevano  per le braccia,  gridava: "Fratelli" e vide
    ancora qualcosa di strano.
    Ma non capì subito che il colonnello era morto e che colui che gridava
    "Fratelli!" era stato fatto prigioniero,  né capì che davanti ai  suoi
    occhi  era disteso un altro soldato,  ucciso con un colpo di baionetta
    alla schiena. Era appena entrato nella trincea,  quando un uomo magro,
    dal  viso  giallo,  bagnato  di  sudore,  in uniforme azzurra e con la
    sciabola in mano gli corse incontro gridando. Pierre, scansando con un
    moto istintivo  l'urto,  poiché,  senza  vedersi,  essi  si  correvano
    incontro,  protese  le  braccia,  afferrò quell'uomo (era un ufficiale
    francese) con una mano,  mentre  con  l'altra  gli  strinse  la  gola.
    L'ufficiale,  lasciata  cadere  la  sciabola,  agguantò  Pierre per il
    bavero.
    Per alcuni secondi i due fissarono con occhi spaventati i  loro  volti
    estranei l'uno all'altro, perplessi su ciò che dovevano fare. "Sono io
    che  ho  preso  lui prigioniero o è lui che ha preso prigioniero me?",
    pensava ciascuno dei due ma,  evidentemente,  l'ufficiale francese era
    più  propenso  a  credere  di  essere  lui il prigioniero,  giacché la
    poderosa mano di Pierre, mossa da un'involontaria paura,  lo stringeva
    alla  gola  sempre  più  forte.  L'ufficiale  francese  stava per dire
    qualcosa,  quando a un tratto passò sopra le loro teste un proiettile,
    mandando  un  sibilo basso e terribile,  e parve a Pierre che la testa
    dell'ufficiale fosse stata portata via, tanto rapidamente egli l'aveva
    abbassata.
    Anche Pierre chinò la testa e lasciò  cadere  le  braccia.  Senza  più
    chiedersi  chi  dei due avesse preso prigioniero l'altro,  il francese
    ritornò nella batteria e Pierre corse giù per la discesa,  inciampando
    nei morti e nei feriti che, gli pareva, cercavano di afferrarlo per le
    gambe.  Ma  non era ancora giunto in basso che si vide venire incontro
    masse compatte di soldati russi che parevano fuggire, i quali cadendo,
    inciampando e gridando,  correvano  allegri  e  disordinati  verso  la
    batteria. (Era l'assalto di cui Ermolov si attribuì il merito, dicendo
    che  soltanto  il  suo  coraggio  e  la  sua buona stella avevano reso
    possibile quella vittoria,  l'assalto durante il  quale  egli  avrebbe
    gettato sul terreno della montagnola le croci di San Giorgio che aveva
    in tasca).
    I  Francesi,  che avevano occupato la batteria,  fuggirono.  Le nostre
    truppe,  gridando "Urrà!",  li respinsero così lontano di  là  che  fu
    difficile fermarli.
    Dalla  batteria  venivano  condotti via i prigionieri,  tra i quali un
    generale francese ferito, attorniato dagli ufficiali.  Una quantità di
    feriti, noti e ignoti a Pierre, Russi e Francesi, con i visi stravolti
    dalle  sofferenze,  camminavano,  strisciavano  per  terra  e venivano
    portati via in barella.  Pierre salì in  cima  alla  montagnola,  dove
    rimase  più  di  un'ora,  ma  di  quel  gruppo  familiare che lo aveva
    accolto,  non trovò più nessuno.  Vide molti morti che  non  conosceva
    affatto,  ma ne riconobbe anche parecchi.  Il giovane ufficialetto era
    ancora seduto, ripiegato su se stesso,  accanto all'orlo del parapetto
    in una pozza di sangue. Il soldato dalla faccia rossa aveva ancora dei
    moti convulsi, ma nessuno si preoccupava di portarlo via.
    Pierre scese di corsa.
    "Ora  smetteranno,  ora  avranno  orrore  di ciò che hanno fatto",  si
    diceva,  seguendo senza  scopo  le  lunghe  file  di  barelle  che  si
    allontanavano dal campo di battaglia.
    Ma  il sole,  velato di fumo,  era ancora alto nel cielo e là davanti,
    specialmente a sinistra  verso  Semënovskoe,  qualcosa  ribolliva  nel
    fumo,  e  il fragore degli spari,  il fuoco della fucileria e il rombo
    dei cannoni non soltanto non diminuivano  d'intensità,  ma  crescevano
    sino  all'esasperazione,  come  un uomo che,  disperato,  gridi con le
    ultime forze che gli sono rimaste.


    CAPITOLO 33.

    L'azione principale della battaglia  di  Borodinò  si  svolse  in  uno
    spazio di mille "sazen" (105), tra Borodinò stessa e le punte avanzate
    di Bagratiòn.  (Fuori da questo spazio, a metà della giornata, i Russi
    fecero,  da una parte,  un'azione dimostrativa con  la  cavalleria  di
    Uvarov mentre dal lato opposto,  oltre Utitza, avvenne uno scontro tra
    Ponjatowski e Tucikòv;  ma furono due azioni isolate,  assai deboli in
    confronto con ciò che accadde nel centro del campo di battaglia).  Tra
    Borodinò e le truppe avanzate, presso il bosco, su un terreno aperto e
    visibile  dalle  due  parti,   si  svolse  l'azione  principale  della
    battaglia,  nel  modo  più  semplice  e senza alcuna interposizione di
    luogo e di tempo.
    La battaglia ebbe inizio da ambo le parti con un  cannoneggiamento  di
    alcune centinaia di pezzi.
    Poi,  quando  il fumo ebbe coperto l'intero campo,  entro quel fumo si
    mossero (dalla parte dei Francesi) da destra le due divisioni,  quella
    di  Desaix  e  quella  di  Compans  sulle  Frecce  e,  da sinistra,  i
    reggimenti del viceré contro Borodinò.
    Le punte avanzate si trovavano a un miglio dalla ridotta di Scevardinò
    dove stava Napoleone,  ma Borodinò si trovava a più di due  miglia  in
    linea  retta,  e  perciò  Napoleone non poteva vedere ciò che avveniva
    laggiù,  anche perché il fumo,  mescolandosi con  la  nebbia,  copriva
    tutta  la zona.  I soldati della divisione di Desaix diretti contro le
    Frecce furono visibili soltanto sino a che non discesero  nel  burrone
    che li separava dalle frecce stesse.  Non appena essi si trovarono nel
    fondo dell'avvallamento,  il fumo delle cannonate della  fucileria  si
    fece  così  denso  da  nascondere  tutta la china opposta del burrone.
    Attraverso quel fumo balenava laggiù qualcosa di  nero  (probabilmente
    masse di uomini) e,  a tratti,  uno scintillio di baionette.  Ma dalla
    ridotta di Scevardinò  non  era  possibile  capire  se  quegli  uomini
    fossero in movimento o se stessero fermi.
    Il  sole si era levato radioso e con i suoi raggi obliqui investiva il
    viso di Napoleone che,  riparandosi con la  mano,  guardava  verso  le
    frecce. Il fumo si diffondeva e ora pareva che si movesse il fumo, ora
    che si movessero le truppe.  Di tanto in tanto tra i colpi, si udivano
    le grida dei soldati, ma era impossibile sapere che cosa essi stessero
    facendo.
    Napoleone,  in piedi sull'altura,  guardava  nel  cannocchiale  e  nel
    piccolo obiettivo vedeva fumo e uomini,  ora suoi,  ora Russi;  ma non
    appena, posato il cannocchiale, tornava a guardare a occhio nudo,  non
    riusciva più a collocare il punto dove si trovava ciò che aveva veduto
    prima.
    Scese dall'altura e si mise a camminare in lungo e in largo.  A tratti
    si fermava,  tendeva l'orecchio verso le cannonate e fissava il  campo
    di  battaglia.  Non solo dal luogo in basso dove egli stava,  non solo
    dall'alto del poggio su cui si trovavano adesso alcuni suoi  generali,
    ma  neppure  dalle opere avanzate,  dove si alternavano o si trovavano
    insieme i Russi  e  i  Francesi,  soldati  morti  e  feriti,  viventi,
    spaventati  o  quasi  impazziti,  era possibile capire che cosa stesse
    succedendo.  Nel corso di parecchie ore,  tra  un  continuo  fuoco  di
    fucili e di cannoni comparivano ora solo i Russi, ora solo i Francesi,
    ora  i  soldati  di fanteria,  ora quelli di cavalleria;  comparivano,
    cadevano, sparavano, correvano,  si urtavano non sapendo che cosa fare
    gli uni degli altri, gridavano e fuggivano indietro.
    Dal  campo  di  battaglia,  gli  aiutanti  di campo di Napoleone e gli
    ufficiali d'ordinanza dei suoi marescialli,  arrivavano  continuamente
    al  galoppo  con  i rapporti sull'andamento della battaglia;  ma tutti
    quei rapporti erano falsi,  sia perché nella foga del combattimento  è
    impossibile  dire  ciò che accade in un dato minuto,  sia perché molti
    aiutanti di campo non giungevano sino al centro  della  battaglia,  ma
    riferivano  soltanto ciò che avevano sentito dire da altri e,  infine,
    anche perché,  mentre un aiutante di campo percorreva  le  due  o  tre
    miglia  che lo separavano da Napoleone,  la situazione cambiava,  e le
    notizie che egli portava non erano già più esatte.  Così  un  aiutante
    del viceré,  giunto al galoppo con la notizia che Borodinò era presa e
    che il ponte sul Kolocia era in mano ai Francesi,  domandò a Napoleone
    se ordinava alle truppe di passare il ponte.  Napoleone diede l'ordine
    che si schierassero sull'altra sponda e che aspettassero;  ma non solo
    nel  momento  in  cui Napoleone impartiva questa disposizione,  ma nel
    momento stesso in cui l'aiutante aveva lasciato Borodinò, il ponte era
    già stato ripreso e incendiato dai Russi,  proprio in quello scontro a
    cui aveva partecipato Pierre all'inizio della battaglia.
    Un  aiutante  che arrivò dalle opere avanzate,  con il volto pallido e
    spaurito,  riferì a Napoleone che l'attacco era  stato  respinto,  che
    Compans era stato ferito e Davoust ucciso; nel frattempo, però, quelle
    posizioni  avanzate erano state riconquistate da altre truppe,  mentre
    qualcuno diceva all'aiutante che i Francesi erano stati respinti e che
    Davoust era vivo ma soltanto leggermente contuso.  Basandosi  su  tali
    rapporti,  necessariamente  falsi,  Napoleone impartiva ordini,  o che
    erano già stati eseguiti prima che egli li impartisse,  o ai quali non
    si poteva obbedire e non si obbediva.
    I  marescialli  e i generali,  che si trovavano più vicini al campo di
    battaglia ma che,  come Napoleone,  non prendevano parte all'azione  e
    solo  di  tanto  in  tanto  entravano  nelle zone in cui fischiavano i
    proiettili senza consultarsi con  l'imperatore,  davano  disposizioni,
    ordinavano  dove  e donde sparare,  verso quale parte far galoppare la
    cavalleria e dove dovesse muovere la fanteria. Ma anche i loro ordini,
    come quelli di Napoleone,  erano eseguiti assai raramente  o,  per  lo
    meno, in minima parte. Di solito, avveniva proprio il contrario di ciò
    che  era  stato ordinato.  I soldati,  ai quali si comandava di andare
    avanti, investiti dalla mitraglia, correvano indietro; quelli ai quali
    si ordinava di star fermi vedendo,  a un  tratto,  apparire  i  Russi,
    talora  si davano alla fuga,  talora si slanciavano loro contro,  e la
    cavalleria, senza aver ricevuto alcun ordine, si metteva a inseguire i
    Russi  in  fuga.   Così  due  reggimenti  di  cavalleria  traversarono
    galoppando  il  burrone  di  Semënovskoe e,  giunti che furono in cima
    all'erta,  voltarono  i  cavalli  e  ritornarono  indietro  a  briglia
    sciolta.  Nello  stesso modo movevano i fanti correndo là dove nessuno
    li aveva mandati.  Tutti gli ordini circa il luogo  e  il  momento  di
    spostare  i  cannoni,  di  far  avanzare la fanteria,  di sparare,  di
    lanciare contro i fanti russi una carica di cavalleria,  venivano dati
    dai capi più vicini ai reparti senza interpellare,  non dico Napoleone
    ma neppure Ney, Davoust o Murat.  Non temevano punizioni per un ordine
    non  eseguito  o  per  una  disposizione  arbitraria,  perché  in  una
    battaglia è in gioco la cosa più preziosa  per  un  uomo:  la  propria
    vita,  e  perché  talvolta  pare  che la salvezza consista in una fuga
    all'indietro, talvolta in una fuga in avanti e perché,  insomma quegli
    uomini,  che si trovavano nell'ardore della battaglia, agivano secondo
    lo stato  d'animo  del  momento.  In  sostanza,  tuttavia,  quel  gran
    movimento  innanzi  e  indietro  non  modificava  e  non migliorava la
    condizione delle truppe.  Tutti gli attacchi,  tutti gli slanci  degli
    uni  contro gli altri non causavano loro quasi alcun danno;  il danno,
    la morte e le ferite li producevano le granate  e  le  pallottole  che
    volavano sullo spazio nel quale si agitava quella massa di uomini. Non
    appena  essi  uscivano  dallo  spazio dove volavano proiettili di ogni
    specie, subito i comandanti che stavano dietro di loro, li obbligavano
    a ricomporre le file,  li sottomettevano nuovamente alla disciplina e,
    in omaggio a questa, li rimandavano nel cerchio di fuoco dove, ripresi
    dalla  paura  della  morte,  essi  perdevano  di  nuovo il senso della
    disciplina e di nuovo  si  agitavano,  seguendo  l'istinto  momentaneo
    della maggioranza.


    CAPITOLO 34.

    I generali di Napoleone  -  Davoust,  Ney e Murat  -, che si trovavano
    vicini a quel cerchio di fuoco dove talora  entravano,  vi  sospinsero
    più volte masse enormi e ordinate di truppe.  Ma,  al contrario di ciò
    che immancabilmente era accaduto  in  ogni  precedente  battaglia,  in
    luogo  dell'atteso  annunzio  della  fuga  del  nemico,  quelle  masse
    ordinate  di  uomini  ritornavano  di  là  in  folla   disordinata   e
    spaventata.  Essi  le  riorganizzavano,  ma  il  numero  degli  uomini
    diminuiva sempre di più. Verso mezzogiorno, Murat mandò a Napoleone il
    suo aiutante di campo con la richiesta di rinforzi.
    Napoleone stava seduto ai piedi del poggio e beveva un "punch"  quando
    l'aiutante di campo di Murat arrivò a spron battuto e gli assicurò che
    i  nemici  sarebbero stati annientati se sua maestà avesse dato ancora
    una divisione.
    - Rinforzi?   -  domandò Napoleone con severo  stupore,  come  se  non
    capisse quella parola,  guardando l'aiutante di campo,  un bel ragazzo
    dai lunghi capelli neri e inanellati come li portava Murat.
    "Rinforzi?",  pensò Napoleone.  "Quali rinforzi chiedono,  dal momento
    che  dispongo  di metà dell'esercito per attaccare un'ala debole e non
    fortificata dei Russi?".
    - "Dites au roi de Naples"  -    rispose  Napoleone  in  tono  severo-
    "qu'il  n'est  pas  midi  et  que  je ne vois pas encore clair sur mon
    échiquier.  Allez" [106.  Dite al  re  di  Napoli  che  non  è  ancora
    mezzogiorno  e  che  non  vedo  ancora  chiaro  sulla  mia scacchiera.
    Andate!].
    Il bell'aiutante di campo dai lunghi capelli,  che non aveva  staccato
    la  mano dalla visiera,  sospirò profondamente e ritornò galoppando là
    dove gli uomini si massacravano.
    Napoleone si alzò e, fatti chiamare Caulaincourt e Berthier, si mise a
    discorrere con loro di cose che non  avevano  alcun  rapporto  con  la
    battaglia.
    Nel  bel  mezzo  della  conversazione  che  cominciava  a  interessare
    Napoleone,  lo guardo di Berthier si fermò su un generale che in sella
    a  un  cavallo  coperto di sudore,  galoppava con il suo séguito verso
    l'altura.
    Era Belliard.  Smontò da cavallo  e  a  passi  rapidi  si  avvicinò  a
    Napoleone;  ad  alta  voce  e  in  tono  animato prese a dimostrare la
    necessità dei rinforzi.  Egli giurava sul proprio onore che  i  nemici
    sarebbero  stati  sconfitti  se  l'imperatore  avesse  dato ancora una
    divisione.
    Napoleone scrollò le spalle  e,  senza  rispondere,  continuò  la  sua
    passeggiata.  Belliard a voce alta si mise a parlare vivacemente con i
    generali del séguito che gli stavano attorno.
    - Siete molto focoso,  Belliard  -  disse Napoleone riaccostandosi  al
    generale.   -  E' facile sbagliarsi nel calore della battaglia. Andate
    a vedere, e poi tornate da me.
    Belliard non era ancora scomparso dalla vista, quando dall'altra parte
    giunse a spron battuto un nuovo inviato dal campo di battaglia.
    - "Eh bien, qu'est-ce qu'il y a?" [107. Ebbene,  che c'è?]  -  domandò
    Napoleone con il tono di un uomo irritato da continue seccature.
    - "Sire, le prince..."  -  cominciò l'aiutante.
    -  Chiede  rinforzi    -    disse  Napoleone  con un gesto di collera.
    L'aiutante chinò il capo affermativamente e cominciò  a  riferire;  ma
    l'imperatore  si  scostò da lui,  fece due passi,  si fermò,  si voltò
    indietro e chiamò Berthier.   -   Bisogna  dare  le  riserve    disse,
    allargando  un poco le braccia.   -  Chi pensate si debba mandare là a
    quell'"oison que j'ai fait aigle"? [108. a quel papero che io ho fatto
    aquila]  -  come lo definì più tardi.
    - Mandiamo la divisione Claparède (109),  sire?   -  rispose  Berthier
    che  conosceva  a  memoria  tutte  le  divisioni,  i  reggimenti  e  i
    battaglioni.
    Napoleone assentì con un cenno del capo.
    L'aiutante di campo galoppò verso la divisione Claparède.  Dopo alcuni
    minuti  la  giovane  Guardia,  che  era  dietro  l'altura,  si mise in
    movimento. Napoleone, in silenzio, guardava in quella direzione.
    - No!   -  esclamò a un tratto,  volgendosi a Berthier.   -  Non posso
    mandare Claparède. Mandate la divisione Friant.
    Benché  non  ci  fosse alcun vantaggio nel mandare la divisione Friant
    invece di quella di Claparède e,  per di più,  fosse evidente  che  il
    fermare ora Claparède e il mandare Friant costituisse solo una perdita
    di  tempo,  l'ordine  venne  fedelmente  eseguito.  Napoleone  non  si
    accorgeva che, nei riguardi delle sue truppe,  egli faceva la parte di
    un  medico  che  dà  impaccio con le sue medicine,  una parte che egli
    capiva benissimo e che biasimava.
    La divisione Friant scomparve,  come le altre,  nel fumo del campo  di
    battaglia.  Da  diverse  parti  continuavano a giungere al galoppo gli
    aiutanti di campo e,  come se si  fossero  messi  d'accordo,  dicevano
    tutti  la stessa cosa.  Tutti chiedevano rinforzi,  tutti dichiaravano
    che i Russi mantenevano le loro posizioni e facevano un "feu  d'enfer"
    [110. fuoco d'inferno] che distruggeva l'esercito francese.
    Napoleone,  pensieroso, era seduto su una sedia pieghevole. "Monsieur"
    de Beausset,  l'appassionato  di  viaggi,  che  era  digiuno  sin  dal
    mattino,  si  accostò  all'imperatore e osò rispettosamente proporre a
    sua maestà di far colazione.
    - Spero di  potermi  ormai  congratulare  con  vostra  maestà  per  la
    vittoria      -    disse.   Napoleone,   taciturno,   scosse  il  capo
    negativamente. Supponendo che quel diniego si riferisse alla vittoria,
    non  già  alla  colazione,   "monsieur"  de  Beausset  si  permise  di
    osservare,  in  tono  rispettosamente scherzoso,  che nessun motivo al
    mondo può impedire di far colazione, quando ne esista la possibilità.
    - "Allez vous..."  [Andate a...]  -  disse tutto a un tratto Napoleone
    con aria cupa, e voltò la faccia dall'altra parte. Un sorriso beato di
    pietà, di rammarico e d'entusiasmo,  illuminò il volto di de Beausset,
    il  quale,  con  andatura  ondeggiante,  si  diresse  verso  gli altri
    generali.
    Napoleone  provava  un  sentimento  penoso,  simile  a  quello  di  un
    giocatore fortunato che getta pazzamente il suo denaro e vince sempre,
    e  che  improvvisamente,  quando ha calcolato tutte le probabilità del
    gioco,  sente che,  quanto più sarà meditato il suo modo  di  giocare,
    tanto più sicuramente egli perderà.
    Le  truppe  erano  sempre  le stesse,  i generali pure;  i preparativi
    sempre i medesimi,  la solita "proclamation courte et énergique" [111.
    proclama breve ed energico],  e lui stesso era sempre l'uomo di prima,
    e lo sapeva;  sapeva anche di essere molto più esperto e più abile che
    non  nel passato;  persino il nemico era quello stesso di Austerlitz e
    di  Friedland;   ma  il  formidabile  slancio  del  braccio   ricadeva
    impotente, come per opera di magia.
    Tutti i metodi usati nelle altre battaglie con immutabile successo: il
    concentramento delle batterie in un sol punto, l'attacco delle riserve
    per  sfondare la linea nemica e la carica della cavalleria "des hommes
    de fer" [112.  degli uomini di ferro],  tutti questi mezzi  erano  già
    stati impiegati, e non solo la battaglia non era vinta, ma da tutte le
    parti giungevano le medesime notizie di generali morti o feriti, della
    necessità  assoluta  di  rinforzi,  dell'impossibilità di respingere i
    Russi, di disordine tra le truppe.
    Un tempo, dopo due o tre ordini, due o tre frasi,  i marescialli e gli
    aiutanti  di  campo  accorrevano  a congratularsi,  raggianti in viso,
    annunziando i trofei della vittoria: corpi d'armata prigionieri,  "des
    faisceaux  de drapeaux et d'aigles ennemis" [113.  fasci di bandiere e
    di aquile nemiche],  cannoni e carriaggi;  e Murat non chiedeva  altro
    che  il  permesso  di  lanciare  la  cavalleria per impadronirsi delle
    salmerie. Così era accaduto a Lodi, a Marengo, ad Arcole,  a Jena,  ad
    Austerlitz,  a Wagram e così via,  e così via. Ma ora un non so che di
    strano avveniva tra i suoi soldati.
    Nonostante la notizia della conquista delle opere avanzate,  Napoleone
    si  rendeva  conto che le cose procedevano in modo diverso,  del tutto
    diverso dal corso delle altre  battaglie;  si  rendeva  conto  che  lo
    stesso  sentimento  che egli provava,  lo provavano anche tutti coloro
    che gli stavano attorno, uomini espertissimi dell'arte militare. Tutte
    le facce erano tristi,  tutti gli sguardi si  evitavano.  Soltanto  de
    Beausset  poteva  non  capire  il  significato di quanto accadeva.  Ma
    Napoleone, con la sua lunga esperienza di guerra, sapeva perfettamente
    che cosa significasse una battaglia non vinta dopo otto ore di  sforzi
    degli attaccanti. Sapeva che era una battaglia perduta, sapeva che una
    minima  eventualità  poteva  ora,  dato il prolungarsi dell'incertezza
    dell'esito, portare la rovina sua e del suo esercito.
    Quando ripensava a tutta quella strana campagna di Russia, nella quale
    non era stata vinta neppure una battaglia e nella quale,  in due mesi,
    non  erano  state  conquistate  né  bandiere,  né  cannoni,  né  corpi
    d'armata;  quando osservava i visi segretamente tristi che gli stavano
    accanto  e  udiva  annunziare  che  i  Russi  resistevano sempre,  una
    sensazione terribile,  simile a quella che talora si  prova  in  certi
    sogni,  si impadroniva di lui,  e gli apparivano allora le eventualità
    sfortunate che avrebbero potuto perderlo.  I Russi potevano  attaccare
    il  suo  fianco sinistro,  potevano sfondare il centro,  un proiettile
    vagante  poteva  uccidere  lui  stesso.  Tutto  era  possibile.  Nelle
    battaglie  precedenti,  egli non aveva pensato che alle probabilità di
    successo;  ora,  invece,  una  quantità  innumerevole  di  eventualità
    sfortunate  gli  si  affacciava  alla  mente,  ed egli se le aspettava
    tutte.  Sì,  era come avviene in un sogno quando  chi  sogna  vede  un
    assassino  che  sta per assalirlo,  ed egli gli si slancia contro e lo
    colpisce  con  una  forza  così  formidabile  che,  lo  sa,   dovrebbe
    annientarlo,  ma  sente invece che il suo braccio,  impotente e molle,
    ricade come un cencio,  mentre il terrore di una morte ineluttabile si
    impadronisce dell'uomo che non ha difesa.
    La  notizia,  che  i  Russi  attaccavano l'ala sinistra dell'estremità
    francese,  suscitò in Napoleone un  terrore  del  genere.  Egli  stava
    seduto taciturno, ai piedi del poggio, su una sedia pieghevole, a capo
    basso  e  con  i  gomiti  appoggiati  alle ginocchia.  Berthier gli si
    avvicinò e gli propose di fare un giro lungo  la  linea  per  rendersi
    conto della situazione.
    - Come? Che cosa dite?  -  chiese Napoleone.  -  Sì, fatemi portare un
    cavallo.
    Montò in sella e partì per Semënovskoe.
    In  mezzo  al  fumo della polvere che lentamente si dissipava su tutta
    l'estensione della zona percorsa da Napoleone,  si vedevano,  giacenti
    in pozze di sangue, cavalli e uomini, isolati e a mucchi. Né Napoleone
    né  alcuno  dei suoi generali aveva mai veduto in così breve spazio un
    simile orrore e una tale quantità di cadaveri.  Il rombo dei  cannoni,
    che durava da dieci ore consecutive affaticando l'udito,  conferiva un
    particolare significato  a  quello  spettacolo  (come  la  musica  nei
    cosiddetti   quadri  viventi).   L'imperatore,   giunto  alla  sommità
    dell'altura di Semënovskoe,  scorse  attraverso  il  fumo  schiere  di
    uomini  in  uniformi  dal  colore non abituale ai suoi occhi.  Erano i
    Russi.
    I Russi,  in file compatte,  stavano dietro  Semënovskoe  e  alla  sua
    collina;  e  tutti i loro cannoni tuonavano incessantemente e fumavano
    senza posa su tutta la linea. Non si trattava più di una battaglia, ma
    di una carneficina continua che non poteva avere  alcun  risultato  né
    per  i  Russi,  né  per  i Francesi.  Napoleone fermò il suo cavallo e
    ricadde di nuovo in quello  stato  di  meditazione  da  cui  lo  aveva
    riscosso  Berthier.  Egli  non poteva arrestare l'opera che si compiva
    davanti ai suoi occhi,  opera che era considerata  guidata  da  lui  e
    dipendente  da  lui.  E  per la prima volta quell'opera gli parve,  in
    seguito all'insuccesso, inutile e terribile.
    Uno dei generali, che gli si erano avvicinati, si permise di proporgli
    di impegnare nell'azione la vecchia Guardia.  Ney e Berthier,  che  si
    trovavano   accanto  all'imperatore,   si  scambiarono  un'occhiata  e
    sorrisero con disprezzo nell'udire l'assurda proposta del generale.
    Napoleone chinò il capo e tacque a lungo.
    - "A huit cents lieues de France,  je ne ferai pas démolir  ma  Garde"
    [114.  A  ottocento  leghe dalla Francia,  non farò distruggere la mia
    Guardia!]  -  disse infine e,  fatto voltare il  cavallo,  si  diresse
    verso Scevardinò.


    CAPITOLO 35.

    Kutuzòv,  con la bianca testa abbassata e il grosso corpo abbandonato,
    sedeva su una panchina coperta da un tappeto,  nello stesso  posto  in
    cui  Pierre  lo aveva veduto la mattina.  Non dava alcun ordine,  e si
    limitava ad acconsentire e ad opporsi a ciò che gli veniva proposto.
    - Sì, sì,  fatelo!   -  rispondeva ora all'una ora all'altra proposta.
    -  Sì,  sì, va', caro, va' a vedere  -  diceva, volgendosi ora all'uno
    ora all'altro dei generali che gli si avvicinavano;  oppure:  -    No,
    non importa, è meglio aspettare.
    Ascoltava  i rapporti che venivano a riferirgli,  dava ordini quando i
    subordinati gliene chiedevano ma, mentre ascoltava un rapporto, pareva
    non tanto interessarsi al significato delle parole  che  gli  venivano
    dette,  quanto  piuttosto  a  qualche particolare dell'espressione del
    viso o del tono di voce di coloro che parlavano.  Sapeva  per  la  sua
    lunga esperienza militare e capiva con il suo intelligente criterio di
    vecchio  che un uomo solo non ne può guidare centomila in lotta contro
    la morte, e si rendeva conto che non gli ordini del generalissimo, non
    il luogo in cui sono schierate le truppe, né il numero dei cannoni, né
    quello dei morti decidono della sorte della battaglia,  la quale viene
    invece  decisa  da  quella forza inafferrabile che si chiama il morale
    dell'esercito; forza che egli seguiva e dirigeva per quanto era in suo
    potere.
    Per lo più l'espressione del volto di Kutuzòv  rivelava  un'attenzione
    concentrata  e  tranquilla,  una  tensione  morale che dominava appena
    sulla stanchezza del suo corpo indebolito e vecchio.
    Alle undici del  mattino  gli  fu  recata  la  notizia  che  le  opere
    avanzate,  già occupate dai Francesi,  erano state riprese,  ma che il
    principe Bagratiòn era ferito.  Kutuzòv ebbe un'esclamazione e  scosse
    il capo.
    -  Va' dal principe Pëtr Ivànovic' e informati di tutti i particolari,
    del come e del perché  -  disse a uno dei suoi aiutanti  di  campo,  e
    poi  subito  si rivolse al principe di Württemberg (115) che gli stava
    alle spalle.  -  Non vorrebbe vostra altezza assumere il comando della
    prima armata?  -  gli chiese.
    Dopo che il principe era partito, così presto da non aver certo potuto
    raggiungere Semënovskoe,  tornò un suo aiutante e riferì a sua altezza
    serenissima che il principe chiedeva rinforzi.
    Kutuzòv  corrugò la fronte e mandò a Dochturov l'ordine di assumere il
    comando della seconda armata; al principe, del quale, come disse,  non
    poteva  fare a meno in quei momenti importanti,  inviò la preghiera di
    tornare presto da lui.  Quando ebbe la notizia  che  Murat  era  stato
    fatto prigioniero,  e gli ufficiali dello stato maggiore gli porgevano
    le loro congratulazioni, Kutuzòv sorrise.
    - Aspettate, signori!  -  disse.  -  La battaglia è vinta e la cattura
    di  Murat  non  ha  nulla  di  straordinario.  Ma  è  preferibile  non
    rallegrarsi troppo presto.
    Tuttavia  mandò  un  aiutante  di  campo  a portare alle truppe quella
    notizia.
    Quando dall'ala sinistra arrivò al galoppo Scerbinin,  annunziando che
    i  Francesi  avevano  preso  le opere avanzate e occupato Semënovskoe,
    Kutuzòv,  indovinando dal rumore del campo di battaglia e dalla faccia
    di  Scerbinin  che  le  notizie  non  erano  buone,  si  alzò come per
    sgranchirsi le gambe e,  preso sotto braccio Scerbinin,  lo trasse  in
    disparte.
    - Va' tu,  mio caro, e vedi se è possibile fare qualcosa  -  disse poi
    a Ermolov.
    Kutuzòv era a  Gorki,  nel  centro  della  disposizione  dell'esercito
    russo.  L'attacco di Napoleone, diretto contro la nostra ala sinistra,
    era stato respinto più volte.  Al centro,  i Francesi non erano andati
    oltre Borodinò.  Sul fianco sinistro, la cavalleria di Uvarov li aveva
    messi in fuga.
    Verso le tre,  gli attacchi dei Francesi cessarono.  Sul viso di tutti
    coloro che venivano dal campo di battaglia,  e su quello delle persone
    che già gli stavano attorno,  Kutuzòv leggeva una tensione  giunta  al
    massimo  grado.  Egli era soddisfatto del successo insperato di quella
    giornata,  ma le forze fisiche lo abbandonavano.  Più di una volta  la
    sua testa si era abbassata, quasi cadendogli sul petto, ed egli si era
    assopito. Gli fu servito il pranzo.
    L'aiutante  di  campo dell'imperatore,  Wohlzogen,  quello stesso che,
    passando davanti al principe Andréj,  aveva detto  che  bisognava  "im
    Raum  verlegen"  [116.  trasferire nello spazio] la guerra,  e che era
    tanto odiato  da  Bagratiòn,  si  avvicinò  a  Kutuzòv  mentre  questi
    pranzava. Wohlzogen era stato mandato da Barclay de Tolly per riferire
    circa  l'andamento  della  battaglia  all'ala  sinistra.   L'assennato
    Barclay de Tolly,  scorgendo fuggire una quantità di feriti e  vedendo
    che  le ultime file si scomponevano,  considerate tutte le circostanze
    aveva concluso che la battaglia  era  da  ritenersi  perduta  e  aveva
    mandato questa notizia al generalissimo per mezzo del suo favorito.
    Kutuzòv,  che  masticava  a  fatica un pezzo di pollo arrosto,  guardò
    Wohlzogen con il suo occhio piccolo e divertito.
    Wohlzogen,  sgranchendosi con noncuranza le gambe e con uno sprezzante
    sorriso  sulle  labbra,  si  avvicinò  a  Kutuzòv toccandosi appena la
    visiera del berretto. Egli trattava sua altezza serenissima ostentando
    una specie di noncuranza allo scopo di dimostrare come egli,  militare
    profondamente  colto,  lasciava  che i Russi venerassero come un idolo
    quel vecchio inutile, e che, da parte sua, sapeva bene con chi aveva a
    che fare.  "Der alte Herr (come i  Tedeschi  tra  di  loro  chiamavano
    Kutuzòv),  macht sich ganz bequem" [117.  Il vecchio signore non se la
    prende calda],  pensò Wohlzogen e,  dato uno sguardo severo ai  piatti
    posati  davanti  a Kutuzòv,  cominciò a informare il "vecchio signore"
    sulla situazione del fianco sinistro,  secondo  gli  ordini  avuti  da
    Barclay de Tolly e secondo le proprie impressioni.
    -  Tutti  i  punti della nostra posizione sono in mano al nemico e non
    c'è modo di respingerlo perché non  abbiamo  più  truppe:  gli  uomini
    fuggono  e  ci  manca  la  possibilità  di  fermarli    -  riferiva al
    generalissimo.
    Kutuzòv cessò di masticare e con  espressione  stupita,  come  se  non
    afferrasse  il  senso  di  ciò  che  gli si diceva,  guardò fissamente
    Wohlzogen il quale, notando il turbamento "des alten Herrn", disse con
    un sorriso:
    - Non mi sono ritenuto in diritto di nascondere  a  vostra  eccellenza
    ciò che ho veduto... Le truppe sono in rotta.
    -  Voi  l'avete  veduto?  Voi  l'avete  veduto?    -    gridò  Kutuzòv
    accigliato,  alzandosi di scatto  e  avvicinandosi  a  Wohlzogen.    -
    Come... come osate, voi!  -  riprese, gesticolando minacciosamente con
    le mani che gli tremavano.   -  Come osate voi,  egregio signore, dire
    questo a me!  Voi non sapete niente!  Dite da parte  mia  al  generale
    Barclay  che  le sue informazioni sono inesatte e che io,  generale in
    capo, conosco meglio di lui l'andamento della battaglia.
    Wohlzogen stava per ribattere, ma Kutuzòv l'interruppe:
    - Il nemico è respinto sul fianco sinistro e sconfitto sul destro.  Se
    avete  veduto  male,  egregio signore,  non dovete permettervi di dire
    cose che  non  sapete.  Vogliate  ritornare  dal  generale  Barclay  e
    trasmettergli  la mia ferma decisione di attaccare domani il nemico  -
    disse in tono severo Kutuzòv.
    Tutti tacevano e si udiva soltanto il respiro  affannoso  del  vecchio
    generale che ansimava.
    -  Il  nemico  è respinto dappertutto,  e ne ringrazio Dio e le nostre
    valorose truppe.  Il nemico è sconfitto,  e domani lo scacceremo dalla
    nostra  santa  terra  russa   -  continuò Kutuzòv,  facendosi il segno
    della croce;  e a un tratto si mise a singhiozzare per le lacrime  che
    gli serravano la gola.
    Wohlzogen,  stringendosi nelle spalle e serrando le labbra, si fece in
    disparte,  stupito "über diese Eingenommenheit des alten Herrn"  [118.
    dell'ostinazione del vecchio signore].
    -  Ah,  ecco  il  mio eroe!   -  esclamò Kutuzòv,  volgendosi a un bel
    generale aitante, dai capelli neri,  che in quel momento stava salendo
    sulla montagnola.  Era Raevskij, che aveva trascorso l'intera giornata
    nel punto più importante del campo di Borodinò.
    Egli riferì che le truppe si mantenevano salde sulle loro posizioni  e
    che i Francesi non osavano più attaccarle.
    Dopo averlo ascoltato, Kutuzòv disse in francese:
    - "Vous ne pensez donc pas,  comme les autres, que nous sommes obligés
    de nous retirer?" [119. Voi non ritenete, dunque, come gli altri,  che
    siamo costretti a ritirarci?].
    -  "Au  contraire,  votre  altesse,  dans les affaires indécises c'est
    toujours le plus opiniâtre qui reste victorieux"  -  rispose  Raevskij
    -    "et mon opinion..." [120.  Al contrario,  altezza,  negli scontri
    incerti è sempre il più ostinato a raggiungere la vittoria,  e la  mia
    opinione...].
    -  Kajsarov!    -    chiamò  a  voce alta Kutuzòv il suo aiutante.   -
    Siediti,  e scrivi l'ordine del giorno.  E tu,   -  disse a un altro -
    va' sulla linea e annunzia che domani noi attacchiamo.
    Mentre  avveniva  questo  scambio  di  parole con Raevskij,  e Kutuzòv
    dettava l'ordine del giorno,  Wohlzogen  ritornò  e  comunicò  che  il
    generale  Barclay  de  Tolly  desiderava  avere  la  conferma  scritta
    dell'ordine trasmessogli dal generalissimo.
    Senza guardare Wohlzogen, Kutuzòv ordinò che fosse trascritto l'ordine
    che  giustamente  l'ex-generale  in  capo  richiedeva,   a  scanso  di
    responsabilità personali.
    E  per  quel  legame  misterioso e indefinibile che in tutti i soldati
    mantiene vivo un identico stato d'animo,  che si suole definire morale
    delle  truppe  e che costituisce il nerbo principale della guerra,  le
    parole di Kutuzòv  e  il  suo  ordine  del  giorno  per  la  battaglia
    dell'indomani si propagarono istantaneamente su tutto il fronte russo.
    Non  le  parole  precise,  non l'ordine preciso giunsero sino ai punti
    estremi dell'esercito;  nulla,  anzi,  che somigliasse a ciò che aveva
    detto  Kutuzòv  vi  era nei racconti che passavano di bocca in bocca e
    che raggiunsero i capi estremi dell'esercito; ma si propagò ovunque il
    senso delle sue  parole,  perché  ciò  che  aveva  detto  Kutuzòv  non
    derivava da abili considerazioni, ma dal sentimento che era nell'animo
    del generalissimo come nell'animo di ogni soldato russo.
    E,  avendo  saputo  che  il  giorno successivo si sarebbe attaccato il
    nemico,  avuta dalle sfere superiori dell'esercito la conferma di  ciò
    cui  tutti  volevano credere,  i soldati,  spossati e barcollanti,  si
    confortavano e riprendevano coraggio.


    CAPITOLO 36.

    Il reggimento del principe Andréj era tra le riserve che sino alle due
    pomeridiane erano rimaste inattive dietro Semënovskoe,  sotto un forte
    fuoco di artiglieria.  Dopo le due,  il reggimento,  che aveva perduto
    già più di duecento uomini,  si mosse in avanti su un campo  di  avena
    calpestata, nello spazio compreso tra il villaggio di Semënovskoe e la
    batteria sulla montagnola,  dove in quel giorno erano già state uccisi
    migliaia di uomini e dove alle due veniva diretto il fuoco concentrato
    di alcune centinaia di cannoni nemici.
    Senza muoversi da quel luogo e senza aver sparato un  solo  colpo,  il
    reggimento  perdette  ancora  un  terzo  dei suoi uomini.  Davanti,  e
    specialmente a destra,  i cannoni tuonavano in mezzo a un  denso  fumo
    che  non si dissipava e,  nell'oscurità di quel fumo che copriva tutto
    il paese, volavano incessantemente i proiettili con uno stridio rapido
    e sibilante e cadevano con un fischio lento le granate. A volte, quasi
    per dare un po' di riposo,  trascorreva un  quarto  d'ora  durante  il
    quale tutti i proiettili volavano oltre,  ma a volte, in un minuto, il
    reggimento perdeva numerosi uomini e senza tregua venivano portati via
    i morti e raccolti i feriti.
    A ogni nuovo colpo diminuivano sempre più le probabilità  di  rimanere
    in  vita  per coloro che non erano ancora stati uccisi.  Il reggimento
    era schierato a battaglioni in colonna,  a distanza di trecento  passi
    l'uno  dall'altro  ma,  malgrado ciò,  tutti gli uomini del reggimento
    erano dominati da un unico  e  identico  stato  d'animo.  Erano  tutti
    ugualmente taciturni e cupi.  Di rado si udiva parlare tra le file, ma
    anche quelle poche parole cessavano  ogni  qualvolta  un  nuovo  colpo
    faceva  centro e si levava il grido: "Barella!".  Per la maggior parte
    del tempo gli uomini del reggimento,  secondo l'ordine dei  superiori,
    stavano seduti in terra. Chi, togliendosi il berretto, ne spianava con
    cura  e  di nuovo ne raccoglieva le pieghe;  chi,  sbriciolando tra le
    palme dell'argilla asciutta, lustrava la baionetta;  chi si tastava il
    cinturone e ne aggiustava la fibbia; chi rimetteva a posto le pezze da
    piedi e calzava di nuovo gli stivaloni;  alcuni costruivano cassette o
    intrecciavano stuoie di  paglia.  Tutti  parevano  assorti  in  quelle
    occupazioni.  Quando  un uomo era ferito o ucciso,  quando passava una
    barella,  quando i nostri tornavano indietro,  quando,  attraverso  il
    fumo,  si  scorgeva  una  grande massa di nemici,  nessuno vi prestava
    attenzione.   Quando,   invece,   l'artiglieria  e  la  cavalleria  si
    spingevano  innanzi  o  si  vedevano movimenti nelle file della nostra
    fanteria,  allora si udivano da ogni parte parole di approvazione.  Ma
    attiravano  soprattutto  l'attenzione i fatti assolutamente estranei e
    che non avevano alcun rapporto con la battaglia,  come se l'attenzione
    di  quegli uomini,  spiritualmente sfiniti,  non trovasse riposo negli
    abituali  avvenimenti  della  vita.  Una  batteria  passò  davanti  al
    reggimento schierato: in uno dei cassoni di artiglieria,  un cavallo a
    trapelo si impigliò nei tiranti.
    - Ehi,  il bilancino!  Scioglilo,  cadrà!  Eh...  non vedono!   -   si
    gridava dalle file di tutto il reggimento. Un'altra volta l'attenzione
    generale  fu  attratta  da un cagnolino marrone con la coda fieramente
    alzata, capitato Dio sa di dove,  che trotterellava impacciato davanti
    alle  schiere  dei  soldati  e  che  tutt'a  un  tratto,  allo scoppio
    improvviso di una granata,  mandò un guaito e,  abbassata la coda,  si
    gettò  da  una  parte.  Schiamazzi  e  fischi  si levarono da tutto il
    reggimento. Ma le distrazioni di tal genere duravano qualche minuto, e
    gli uomini da più di otto ore stavano lì,  senza mangiare e senza  far
    nulla,  sotto  l'orrore incessante della morte e i loro visi pallidi e
    contratti si facevano sempre più pallidi e si  contraevano  sempre  di
    più.
    Il  principe  Andréj,  anch'egli  pallido e contratto,  come tutti gli
    uomini del suo reggimento, passeggiava avanti e indietro sul prato che
    costeggiava un campo di avena,  a capo basso e con le mani  incrociate
    dietro  la  schiena.  Non  aveva  nulla da fare né da ordinare.  Tutto
    avveniva da sé.  I morti venivano portati dietro le  linee,  i  feriti
    raccolti,  le file ricostituite. Se i soldati scappavano, tornavano in
    tutta fretta indietro.  Sulle prime il principe Andréj,  pensando  che
    fosse  suo  dovere  risvegliare  il  coraggio  dei  soldati e dar loro
    l'esempio,  aveva camminato tra le file ma poi si era persuaso che non
    c'era da insegnar niente a nessuno. Tutte le forze del suo animo, come
    quelle  di  ogni  soldato,  erano  inconsciamente tese a impedire a se
    stesso di contemplare l'orrore della situazione in cui  si  trovavano.
    Egli  camminava  su  e  giù  per  il  prato,   trascinando  le  gambe,
    calpestando l'erba e guardando la polvere che gli copriva gli stivali;
    ora camminava a grandi passi,  cercando di posare i piedi  sulle  orme
    lasciate  sul  prato  dai  mietitori,  ora,  contando  i propri passi,
    calcolava  quante  volte  doveva  andare  da  un  capo  all'altro  per
    percorrere  un  miglio,  ora  strappava  gli  steli  di  assenzio  che
    crescevano sul margine del prato e,  soffregandoli tra  le  palme,  ne
    aspirava  l'aroma  amarognolo  e  intenso.  Di tutto il lavorio svolto
    nella sua mente il giorno innanzi,  non restava più  nulla.  Egli  non
    pensava.  Ascoltava  con  orecchio  stanco  sempre  i  medesimi suoni,
    distinguendo il sibilo dei proiettili dal rombo  cupo  delle  granate,
    guardava  i  visi  già  tante  volte  veduti  dei  soldati  del  primo
    battaglione e aspettava. "Eccone un'altra! Di nuovo per noi!",  pensò,
    udendo  un  fischio  che si avvicinava nella nuvola di fumo da cui era
    circondato. "Una!  un'altra!  Ancora!  E' caduta!".  Si fermò e guardò
    nelle file.  "No,  è passata di sopra...  Ma questa,  ecco,  questa ha
    colpito!".  E di nuovo riprendeva a camminare,  sforzandosi di fare  i
    passi lunghi per riuscire ad arrivare con sedici passi sino al margine
    del prato.
    Un  fischio  e  un  colpo!  A cinque passi da lui la terra asciutta fu
    sollevata e sconvolta,  un proiettile  vi  disparve.  Un  involontario
    brivido gli percorse la schiena. Guardò di nuovo le file degli uomini.
    Senza  dubbio,  molti  dovevano  essere  caduti;  una  gran  folla  si
    assiepava presso il primo battaglione.
    - Signor aiutante!  -  gridò.  -  Date ordine che non facciano ressa!
    L'aiutante  eseguì  l'ordine  e  si  avvicinò  al   principe   Andréj.
    Dall'altra parte giungeva il comandante del battaglione.
    -  Attenzione!   -  si levò il grido atterrito di un soldato e come un
    uccello che fischiando nel suo rapido volo si posa sulla terra,  a due
    passi  dal  principe  Andréj,  accanto  al  cavallo  del comandante di
    battaglione,  cadde,  senza fare  un  gran  rumore,  una  granata.  Il
    cavallo,  per primo,  senza domandare se fosse bene o male mostrare di
    avere paura, mandò un nitrito,  s'impennò e per poco non buttò a terra
    il maggiore. Lo spavento del cavallo si comunicò agli uomini.
    -  A terra!   -  gridò l'aiutante di campo,  stendendosi al suolo.  Il
    principe Andréj rimaneva in piedi, indeciso. La granata fumante girava
    come una trottola tra lui e l'aiutante di campo disteso accanto  a  un
    cespuglio di assenzio, sull'orlo tra il campo e il prato.
    "Che sia la morte?" pensò il principe Andréj, fissando con uno sguardo
    del tutto nuovo e colmo di invidia l'erba, il cespuglio, il lieve fumo
    che si levava dalla palla nera che continuava a girare. "Io non posso,
    io non voglio morire,  io amo la vita,  amo quest'erba,  questa terra,
    quest'aria...". Pensava a tutto ciò, e, a un tratto,  si ricordò che i
    soldati lo guardavano.
    - Vergogna,  signor ufficiale!  -  disse all'aiutante.  -  Quale...  -
    ma non finì la frase.  Nello stesso istante si udì  uno  schianto,  un
    rumore  come  di  vetri  rotti,  un  odore  soffocante di polvere;  il
    principe Andréj fu scaraventato  da  una  parte  e,  levando  alte  le
    braccia, ricadde bocconi.
    Alcuni  ufficiali  accorsero.  Dalla parte destra del ventre usciva il
    sangue, che formava sull'erba una grande chiazza.
    I militi,  chiamati d'urgenza,  si fermarono con la barella dietro gli
    ufficiali.  Il  principe Andréj giaceva in terra bocconi,  con il viso
    nascosto nell'erba e rantolava, respirando affannosamente.
    - Perché state lì fermi? Avanti, muovetevi!
    I contadini si avvicinarono e sollevarono il ferito per  le  spalle  e
    per  le  gambe,  ma  egli  emise  un  gemito  doloroso  e  gli uomini,
    scambiatasi un'occhiata, lo deposero di nuovo a terra.
    - Tiratelo su,  tanto è lo stesso!   -  gridò qualcuno.  Lo presero di
    nuovo per le spalle e lo adagiarono sulla barella.
    - Ah,  mio Dio!  Mio Dio!  Che è mai? Al ventre! E' la fine... Ah, mio
    Dio!  -  si udirono alcune voci tra gli ufficiali.
    - La granata mi ha quasi sfiorato l'orecchio!  -  disse l'aiutante.
    I contadini si caricarono la barella sulle spalle e frettolosamente si
    mossero lungo il sentiero,  tracciato precedentemente dai loro  passi,
    che portava al posto di medicazione.
    -  Tenete  il  passo...  Ehi,  contadini!    -    gridò  un ufficiale,
    trattenendo  per  le  spalle  i  portatori  che,  camminando  a  passo
    ineguale, davano scossoni alla barella.
    -  Al  passo,  Fëdor,  ehi,  Fëdor!    -   disse uno dei contadini che
    camminava davanti.
    - Così va bene,  ecco!   -   osservò  allegramente  quello  che  stava
    dietro, rallentando il passo.
    -  Eccellenza!  Principe...   -  chiamò con voce tremante Timochin che
    era accorso, guardando la barella.
    Il principe Andréj aprì gli occhi e dalla barella, in cui la testa era
    sprofondata,  volse lo sguardo verso  colui  che  parlava,  ma  subito
    riabbassò le palpebre.
    I militi portarono il principe Andréj verso il bosco dove si trovavano
    i  carri  e dove era installato il posto di medicazione,  posto che si
    componeva di tre tende con gli orli rialzati,  piantate sul limite  di
    un  bosco di betulle.  Nel bosco erano fermi i furgoni e i cavalli.  I
    cavalli frangevano  la  biada  e  i  passeri  volavano  lì  accanto  e
    beccavano  i  granelli  sparsi  all'intorno.  I  corvi,  che fiutavano
    l'odore  del  sangue,  gracchiavano  impazienti,  svolazzando  tra  le
    betulle.
    Attorno alle tende,  in uno spazio di poco più di due ettari,  stavano
    sdraiati, seduti o in piedi, uomini insanguinati,  indossanti uniformi
    diverse. Presso i feriti era una folla di soldati barellieri, dai visi
    tristi e attenti,  che gli ufficiali severamente, ma invano, cercavano
    di allontanare.  Senza dar loro  ascolto,  i  soldati  stavano  ritti,
    appoggiati  alle barelle e guardavano fissi ciò che accadeva davanti a
    loro,  come se cercassero di capire il significato difficile di quello
    spettacolo.  Dalle  tende  giungevano ora gridi acuti e rabbiosi,  ora
    gemiti lamentosi.  A  tratti  uscivano  correndo  degli  infermieri  a
    prendere  acqua  e indicavano i feriti che dovevano essere trasportati
    dentro.  Quelli che attendevano il loro turno  rantolavano,  gemevano,
    piangevano,   gridavano,   imprecavano,   chiedevano   vodka.   Alcuni
    deliravano.  Il principe Andréj,  come comandante del  reggimento,  fu
    deposto  dai  portabarelle,  che  scavalcarono  i  feriti  non  ancora
    medicati,  presso una delle tende,  dove si  fermarono  in  attesa  di
    ordini.  Il principe Andréj aprì gli occhi, ma per un pezzo non riuscì
    a rendersi conto di  ciò  che  accadesse  lì  attorno.  Il  prato,  il
    cespuglio di assenzio,  il campo arato,  la trottola nera che girava e
    il suo appassionato amore per la vita,  gli tornarono al  pensiero.  A
    due  passi  da  lui,  parlando  forte e attirando su di sé la generale
    attenzione, un sottufficiale alto, bello, con la testa fasciata, stava
    appoggiato a un tronco d'albero. Era ferito di pallottola alla testa e
    ad una gamba. Attorno a lui,  ascoltando avidamente le sue parole,  si
    era radunata una folla di feriti e di barellieri.
    - Quando l'abbiamo cacciato via di là,  ha abbandonato tutto e abbiamo
    preso persino il re!    -    diceva  a  voce  alta  il  sottufficiale,
    guardandosi  attorno e mandando lampi dai suoi ardenti occhi neri.   -
    Se in quel momento fossero giunte le riserve, fratello mio, di lui non
    sarebbe rimasto nemmeno il segno, perché ti dico io che...
    Il principe Andréj,  come tutti coloro che attorniavano l'oratore,  lo
    guardava con occhi pieni di ardore e provava un senso di conforto. "Ma
    non  mi è forse tutto indifferente,  adesso?",  pensava.  "Che accadrà
    laggiù e che cosa è accaduto qui?  Perché mi dispiaceva tanto lasciare
    questa  vita?  In  questa  vita  c'era  qualcosa  che non capivo e che
    neppure ora capisco...".


    CAPITOLO 37.

    Uno dei medici,  con il camice insanguinato e insanguinate le  piccole
    mani,  in  una  delle  quali  tra  l'indice  e  il  pollice  (per  non
    insudiciarlo) teneva un sigaro,  uscì dalla tenda.  Alzò la testa e si
    mise a guardare da una parte e dall'altra, al di sopra dei feriti. Era
    evidente  che  voleva  riposarsi  un po'.  Dopo aver girato la testa a
    destra e a sinistra, sospirò e abbassò gli occhi.
    - Ecco,  subito!   -  rispose a un  infermiere  che  gli  indicava  il
    principe Andréj, e ordinò di trasportarlo nella tenda.
    Nella folla dei feriti che aspettavano, si levarono dei mormorii.
    -  Si  vede  che  anche  all'altro  mondo  soltanto i signori hanno il
    diritto di vivere!  -  disse uno.
    Il principe Andréj fu trasportato  dentro  e  deposto  su  una  tavola
    appena  sgombrata  e  dalla quale un infermiere faceva scolare qualche
    cosa.  Il principe Andréj non poté rendersi ben conto di ciò che c'era
    nella  tenda.  I  gemiti  strazianti  che venivano da varie parti,  il
    tormentoso dolore al fianco,  al ventre e alla schiena lo distraevano.
    Tutto  ciò  che  vedeva  si  confondeva per lui nell'impressione di un
    unico corpo umano nudo,  insanguinato,  che pareva empire di sé quella
    tenda  bassa,  come  alcune settimane addietro,  in una calda giornata
    d'agosto, quello stesso corpo empiva di sé il sudicio stagno sulla via
    di Smolènsk.  Sì,  era quello stesso corpo,  quella  stessa  "chair  à
    canon" che anche allora, come un presagio di ciò che vedeva adesso, lo
    aveva riempito d'orrore.
    Nella tenda vi erano tre tavole, due delle quali occupate. Sulla terza
    fu deposto il principe Andréj.  Rimase per qualche tempo solo e, senza
    volerlo,  vide ciò che avveniva sulle altre due tavole.  Su quella più
    vicina  a  lui  era  seduto  un tartaro,  probabilmente un cosacco,  a
    giudicare  dalla  divisa  buttata  lì  accanto.   Quattro  soldati  lo
    tenevano,  un medico con gli occhiali gli tagliava qualcosa sul dorso,
    bruno e muscoloso.
    - Uh, uh, uh!  -  mugolava il tartaro e, a un tratto,  alzando il viso
    scuro,  camuso,  dagli zigomi sporgenti,  e digrignando denti bianchi,
    cominciò a divincolarsi, a dimenarsi e a urlare,  con un grido lungo e
    penetrante.
    Sull'altra  tavola,  attorno  alla quale si accalcavano molte persone,
    giaceva un uomo grande e grosso,  con  la  testa  riversa  (i  capelli
    ricciuti, la forma della testa sembrarono stranamente noti al principe
    Andréj).  Alcuni  infermieri  premevano  con  forza  le mani sul petto
    dell'uomo e lo tenevano fermo. Una gamba bianca, grossa e carnosa, era
    scossa da rapidi e continui sussulti febbrili. Quell'uomo singhiozzava
    convulsamente e gli veniva meno il respiro.  Due medici,  in  silenzio
    (uno  di  essi  era  pallido  e  tremava) erano intenti a non so quale
    operazione sull'altra gamba,  gonfia e tutta rossa.  Dopo aver  finito
    con il tartaro,  che venne coperto da un mantello,  il dottore con gli
    occhiali si avvicinò al principe Andréj, asciugandosi le mani.
    Lo guardò in viso e subito volse altrove il capo.
    - Spogliatelo!  -  gridò in tono irritato agli infermieri.
    I primi,  lontani ricordi dell'infanzia,  si affacciarono alla memoria
    del  principe  Andréj allorché l'infermiere,  rimboccatesi le maniche,
    gli sbottonava e gli toglieva l'abito con mani frettolose.  Il dottore
    si  chinò sulla ferita,  la osservò e trasse un profondo sospiro.  Poi
    fece un cenno a qualcuno.  Ma il tormentoso dolore che gli lacerava le
    viscere fece perdere la coscienza al principe Andréj.  Quando tornò in
    sé,  frammenti del femore spezzato  gli  erano  stati  estratti  dalla
    ferita, un lembo di carne gli era stato tagliato e la ferita era stata
    fasciata.  Gli  spruzzarono  acqua sul viso.  Non appena egli aprì gli
    occhi il dottore,  chinatosi su di lui,  lo baciò  in  silenzio  sulle
    labbra e si allontanò.
    Dopo  le  sofferenze sopportate,  il principe Andréj sentì un senso di
    benessere, quale da lungo tempo non aveva provato. Tutti i momenti più
    belli e più felici della sua vita,  e specialmente della  sua  lontana
    infanzia,  quando  lo  svestivano  e  lo mettevano a letto,  quando la
    bambinaia, cullandolo, gli cantava la ninnananna,  quando con la testa
    affondata  nel  guanciale si sentiva felice per la sola consapevolezza
    di vivere,  si presentarono alla sua immaginazione non già  come  cose
    passate, ma come una realtà.
    Attorno  a  quel  ferito  (la  forma della cui testa era parsa nota al
    principe Andréj) si agitavano i medici: lo sollevavano, lo calmavano.
    - Mostratemela! Oh! oh! oh!   -  si levava il suo lamento spezzato dai
    singhiozzi, pieno di terrore e reso sommesso dalla sofferenza.
    Nell'ascoltare quei gemiti, il principe Andréj provava il desiderio di
    piangere.   Forse  perché  moriva  senza  gloria,   forse  perché  gli
    rincresceva separarsi dalla vita, forse per quei ricordi dell'infanzia
    che gli erano tornati alla mente,  forse perché soffriva,  perché  gli
    altri  soffrivano e quell'uomo accanto a lui gemeva così pietosamente,
    certo si è che avrebbe voluto piangere,  piangere  lacrime  infantili,
    buone, quasi gioiose.
    Al ferito fu mostrata,  nello stivale imbrattato di sangue raggrumato,
    la sua gamba amputata.
    - Oh!  oh!  oh!   -  singhiozzò come una donna.  Il medico  che  stava
    davanti al ferito, nascondendone la faccia, si allontanò.
    "Mio Dio! Che è mai? Perché è qui?", disse tra sé il principe Andréj.
    In quella infelice,  sfinita creatura che singhiozzava,  in quell'uomo
    al quale avevano amputato una gamba,  egli riconobbe Anatolij Kuragin.
    Lo tenevano per le braccia e gli porgevano dell'acqua in un bicchiere,
    di  cui  egli  non  riusciva  a  toccar  l'orlo con le labbra gonfie e
    tremanti. Anatolij singhiozzava penosamente.
    "Sì,  è lui,  sì,  è quell'uomo che è stato legato a me in  modo  così
    intimo  e  doloroso",  pensava  il principe Andréj,  senza comprendere
    ancora chiaramente ciò che accadeva.  "In che cosa consiste il  legame
    di quest'uomo con la mia infanzia,  con la mia vita?", si chiedeva, ma
    non trovava la risposta. E,  a un tratto,  un nuovo,  inatteso ricordo
    del  mondo  infantile,  puro  e pieno di amore si presentò al principe
    Andréj.  Si ricordò di Natascia quale l'aveva veduta la prima volta al
    ballo nell'anno 1810 con il suo collo sottile,  le braccia esili,  con
    il suo viso timido felice, pronto all'entusiasmo,  e il suo amore e la
    sua  tenerezza  per la fanciulla furono più vivi e più forti di quando
    gli erano sorti nell'anima.  Si ricordò allora del legame che esisteva
    tra  lui e quell'uomo,  il quale lo guardava attraverso le lacrime che
    gli riempivano gli occhi gonfi e appannati. Il principe Andréj ricordò
    tutto e una pietà,  un caldo amore per  lui  colmarono  il  suo  cuore
    felice.
    Non  riuscì più a trattenersi e pianse lacrime di tenerezza e di amore
    sugli uomini, su se stesso, sui propri e sugli altrui errori.
    "Compassione, amore, amore per i fratelli, amore per chi ci ama, amore
    per chi ci odia,  amore per i nemici;  sì,  quest'amore che  Iddio  ha
    predicato  sulla terra,  che la principessina Màrija mi ha insegnato e
    che io non ho compreso; ecco perché rimpiangevo la vita,  ecco ciò che
    ancora  mi  sarebbe  rimasto se avessi potuto vivere.  Ma ora è troppo
    tardi. Lo so!".


    CAPITOLO 38.

    L'aspetto terrificante del campo di battaglia coperto di cadaveri e di
    feriti,  una sensazione di peso alla testa e la notizia che venti suoi
    generali   erano  morti  e  feriti,   insieme  con  la  consapevolezza
    dell'impotenza del suo braccio,  un giorno così forte,  produssero una
    impressione inattesa su Napoleone al quale,  di solito, non dispiaceva
    vedere i morti e i feriti per mettere alla prova (com'egli credeva) la
    sua forza d'animo.  Ma quel giorno la terribile visione del  campo  di
    battaglia  aveva  vinto in lui quella forza d'animo in cui egli vedeva
    un merito e una grandezza.  Si  ritirò  rapidamente  dal  luogo  della
    strage e ritornò al poggio di Scevardinò. Giallo, gonfio, pesante, con
    gli occhi appannati, il naso rosso e la voce rauca, sedeva sulla sedia
    pieghevole, senza alzare gli occhi, porgendo involontariamente ascolto
    al rumore della sparatoria.  Aspettava con uno struggimento morboso la
    fine di quell'azione di cui  si  considerava  partecipe,  ma  che  non
    poteva arrestare. Per un breve momento il sentimento personale, umano,
    aveva  preso in lui il sopravvento su quell'artificiosa immagine della
    vita alla quale, per così lungo tempo,  aveva obbedito.  Trasferiva in
    se  stesso  le  sofferenze  e  la  morte  che vedeva tutt'attorno.  La
    pesantezza della testa e del petto gli  rammentavano  la  possibilità,
    anche  per  lui,  della morte e delle sofferenze.  In quel momento non
    avrebbe più voluto né Mosca,  né la vittoria,  né la gloria  (e  quale
    altra  gloria  poteva ancora bramare?);  le uniche cose alle quali ora
    aspirava erano il riposo,  la tranquillità,  la libertà.  Ma quando si
    era    trovato    sull'altura   di   Semënovskoe   e   il   comandante
    dell'artiglieria  gli  aveva  proposto  di  far  salire  lassù  alcune
    batterie  per  aumentare  il  fuoco contro le truppe russe concentrate
    davanti al villaggio di  Knjàzkovo,  Napoleone  aveva  acconsentito  e
    aveva dato ordine che gli fossero recate notizie sull'effetto prodotto
    da quelle batterie.
    Un aiutante venne a riferire che, secondo l'ordine impartito, duecento
    pezzi  erano  stati  puntati  contro  i  Russi,   i  quali,  tuttavia,
    continuavano a resistere.
    - Il nostro fuoco li falcia a file intere,  tuttavia non  cedono-disse
    l'aiutante.
    -  "Ils  en  veulent  encore"  [121.  Ne  vogliono ancora]  -  ribatté
    Napoleone con voce rauca.
    - Sire?  -  disse l'aiutante che non aveva udito.
    - "Ils en veulent encore"  -  ripeté Napoleone, rauco e accigliato.
    Anche senza che ne desse l'ordine, ciò che desiderava veniva eseguito;
    egli aveva impartito quella disposizione soltanto perché  pensava  che
    da lui si attendessero ordini.  E di nuovo rientrò in quel suo antico,
    artificioso mondo,  popolato di immagini di chimerica grandezza,  e di
    nuovo (come il cavallo che camminando sulla rotonda del maneggio crede
    di  fare  qualcosa  per  sé)  riprese ad assolvere il compito crudele,
    triste, faticoso e inumano che gli era stato assegnato dal destino.
    Non soltanto in quel giorno e in quell'ora erano ottenebrate la  mente
    e  la  coscienza  dell'uomo  che più di tutti gli altri partecipanti a
    quell'azione portava il peso degli  avvenimenti;  ma  sino  alla  fine
    della  vita  egli non poté mai comprendere che cosa fosse il bene,  la
    bellezza, la verità,  né poté comprendere il significato delle proprie
    azioni  sempre troppo contrarie al bene e alla verità,  troppo lontane
    da ogni sentimento umano perché a  lui  fosse  dato  di  intendere  il
    significato.  Non  poteva  rinnegare  le  sue azioni esaltate da mezzo
    mondo, e perciò dovette rinnegare il vero,  il bene,  e tutto quanto è
    umano.
    Non   soltanto   quel  giorno,   percorrendo  il  campo  di  battaglia
    disseminato di morti e di mutilati (per sua volontà, com'egli credeva)
    calcolò,  guardandoli,  quanti soldati russi fossero caduti  per  ogni
    soldato  francese e,  ingannando se stesso,  trovò modo di rallegrarsi
    nel considerare che la proporzione era di cinque  contro  uno.  E  non
    soltanto  in  quel  giorno scrisse in una lettera diretta a Parigi che
    "le champ de bataille a été superbe" [122.  il campo di battaglia  era
    stupendo],  perché  vi  giacevano  cinquantamila cadaveri;  ma persino
    nell'isola di Sant'Elena, nel silenzio della solitudine, quando diceva
    di voler dedicare i suoi ozi a narrare le  grandi  imprese  che  aveva
    compiuto, scriveva:

    "La  guerre  de Russie a dû être la plus populaire des temps modernes:
    c'était celle du bon sens et des vrais intérêts,  celle du repos et de
    la sécurité de tous; elle était purement pacifique et conservatrice.
    "C'était  pour la grande cause,  la fin des hasards et le commencement
    de la sécurité.  Un nouvel horizon,  de nouveaux travaux  allaient  se
    dérouler,  tout  pleins  du bien-être et de la prospérité de tous.  Le
    système européen se trovait fondé;  il n'était plus  question  que  de
    l'organiser.
    "Satisfait  sur  ces grands points et tranquille partout,  j'aurais eu
    aussi mon "congrès" et ma "sainte-alliance".  Ce sont des idées  qu'on
    m'a  volées.  Dans  cette réunion de grands souverains,  nous eussions
    traité de nos intérêts en famille,  et compté de clerc à  maître  avec
    les peuples.
    "L'Europe  n'eut  bientôt  fait  de  la sorte véritablement qu'un même
    peuple, et chacun en voyageant partout, se fut trouvé toujours dans la
    patrie commune.  J'eusse demandé toutes les rivières  navigables  pour
    tous,  la  communauté des mers,  et que les grandes armées permanentes
    fussent réduites désormais à la seule garde des souverains.
    "De retour en France, au sein de la patrie grande, forte,  magnifique,
    tranquille,  glorieuse,  j'eusse proclamé ses limites immuables; toute
    guerre  future,   purement  défensive;   tout  agrandissement  nouveau
    antinational.  J'eusse  associé mon fils à l'empire;  ma dictature eût
    fini, et son règne constitutionnel eût commencé...
    "Paris eût été la capitale du  monde,  et  les  Francais  l'envie  des
    nations!
    "Mes  loisirs  ensuite  et  mes vieux jours eussent été consacrés,  en
    compagnie de l'impératrice et  durant  l'apprentissage  royal  de  mon
    fils,  à  visiter  lentement  et  en vrai couple campagnard,  avec nos
    propres chevaux, tous les recoins de l'Empire,  recevant les plaintes,
    redressant les torts,  semant de toutes parts et partout les monuments
    et les bienfaits".

    Egli,  destinato dalla Provvidenza a sostenere la triste e non  libera
    parte di carnefice di popoli,  convinceva se stesso che lo scopo delle
    sue azioni era il bene del popolo e che egli poteva guidare  le  sorti
    di milioni di uomini e, per mezzo del potere, compiere opere di bene!

    "Des 400 mille hommes qui passèrent la Vistule",  scriveva più oltre a
    proposito della guerra di  Russia,  "la  moitié  étaient  Autrichiens,
    Prussiens,     Saxons,     Polonais,     Bavarois,    Wurttembergeois,
    Mecklembourgeois, Espagnols, Italiens, Napolitains.  L'armée impériale
    proprement  dite  était pour un tiers composée de Hollandais,  Belges,
    habitants du bord du Rhin,  Piémontais,  Suisses,  Génevois,  Toscans,
    Romains, habitants de la 32me division militaire, Breme, Hambourg etc;
    elle comptait à peine 140 mille hommes parlant francais.  L'expédition
    de Russie coûta moins de 50 mille hommes à la France actuelle; l'armée
    russe dans la  retraite  de  Wilna  à  Moscou,  dans  les  différentes
    batailles,  a perdu quatre fois plus que l'armée francaise; l'incendie
    de Moscou a coûté la vie a 100 mille  Russes,  mort  de  froid  et  de
    misère  dans  les  bois;  enfin,  dans  sa  marche de Moscou à l'Oder,
    l'armée russe fut aussi atteinte par l'intempérie de la  saison;  elle
    ne  comptait  à son arrivée à Wilna que 50 mille hommes,  et à Kalisch
    moins de 18 mille".
    [123.  "La guerra di Russia avrebbe dovuto essere la più popolare  dei
    tempi  moderni:  era la guerra del buon senso e degli interessi reali,
    la guerra del riposo e  della  sicurezza  per  tutti;  era  unicamente
    pacifica e conservatrice. E' stata combattuta per la grande causa, per
    porre  fine ai rischi e per dare inizio a un periodo di sicurezza.  Un
    nuovo orizzonte si sarebbe dischiuso,  nuovi lavori colmi di benessere
    e  di  prosperità  per  tutti.  Poiché  il  sistema  europeo era stato
    fondato, non restava più che organizzarlo. Soddisfatto su questi punti
    essenziali  e  tranquillo  dovunque,   avrei  avuto  anch'io  il   mio
    "congresso"  e  la mia "santa alleanza".  Ma queste idee mi sono state
    rubate.  In questa riunione di grandi sovrani,  noi  avremmo  discusso
    familiarmente  sui  nostri interessi e trattato con i popoli,  come lo
    scrivano con il suo padrone.  L'Europa avrebbe così ben presto formato
    un  popolo  solo  e chiunque,  viaggiando ovunque,  si sarebbe trovato
    sempre nella patria comune.  Avrei chiesto che tutti i  fiumi  fossero
    navigabili  per  tutti,  avrei  chiesto  la  comunità dei mari e che i
    grandi eserciti fossero ormai ridotti alla sola guardia  dei  sovrani.
    Di ritorno in Francia,  in seno alla grande patria,  forte, magnifica,
    tranquilla, gloriosa, avrei proclamato immutabili i suoi confini, ogni
    guerra  futura  soltanto  difensiva,   ogni  ulteriore   ingrandimento
    territoriale antinazionale.  Avrei associato mio figlio all'impero; la
    mia dittatura sarebbe finita e  avrebbe  avuto  inizio  il  suo  regno
    costituzionale...  Parigi  sarebbe  stata  la capitale del mondo,  e i
    Francesi l'invidia di tutte le nazioni! In seguito i miei ozi e i miei
    ultimi   giorni   sarebbero    stati    consacrati,    in    compagnia
    dell'imperatrice  e  durante  il  tirocinio  regale  di mio figlio,  a
    visitare lentamente, come una vera coppia di campagnuoli, con i nostri
    cavalli,  tutti gli  angoli  più  remoti  dell'impero,  ascoltando  le
    lagnanze,  riparando  i  torti,  spargendo  ovunque  i  monumenti  e i
    benefici".
    "Dei 400000 uomini  che  attraversarono  la  Vistola,  la  metà  erano
    Austriaci,  Prussiani,  Sassoni,  Polacchi, Bavaresi, Wurttemberghesi,
    Meklemburghesi Spagnoli, Italiani,  Napoletani.  L'esercito imperiale,
    propriamente  detto,  era  per  un  terzo formato da Olandesi,  Belgi,
    abitanti  delle  sponde  del  Reno  Piemontesi,  Svizzeri,  Ginevrini,
    Toscani,  Romani,  abitanti  della  trentaduesima  divisione militare,
    Brema,  Amburgo  eccetera;  essa  contava  appena  140000  uomini  che
    parlassero  francese.  La  spedizione  in  Russia  costò  alla Francia
    attuale meno di 50000 uomini; l'esercito russo, durante la ritirata da
    Vilna a Mosca, e nelle varie battaglie, ha avuto perdite quattro volte
    maggiori di quello francese;  l'incendio di  Mosca  costò  la  vita  a
    100000 Russi,  morti di freddo e di fame nei boschi; infine, nella sua
    marcia da Mosca all'Oder,  l'esercito russo ebbe a soffrire anche  per
    le  intemperie  della  stagione;  all'arrivo a Vilna,  non contava che
    50000 uomini, e a Kalish meno di 18000"].

    Egli immaginava che la guerra contro la Russia fosse avvenuta per  sua
    volontà,  ma l'orrore di ciò che era costata non colpiva la sua anima.
    Arditamente si assumeva tutta la responsabilità dell'avvenimento, e la
    sua intelligenza ottenebrata gli  suggeriva  una  giustificazione  nel
    fatto  che  tra le centinaia di migliaia di uomini caduti,  i Francesi
    erano meno numerosi dei soldati dell'Assia e della Baviera.


    CAPITOLO 39.

    Alcune diecine di migliaia  di  uomini  in  atteggiamenti  e  uniformi
    diverse  giacevano morti sui campi e sui prati appartenenti ai signori
    Davydov e ai contadini demaniali;  su quei campi e su quei prati dove,
    per centinaia di anni, i contadini dei villaggi di Borodinò, di Gorki,
    di  Scevardinò  e  di  Semënovskoe  avevano  raccolto le messi e fatto
    pascolare le loro pecore.  Attorno ai posti di medicazione l'erba e il
    terreno  erano  imbevuti  di  sangue;  folle  di  soldati feriti e non
    feriti,  appartenenti a corpi diversi,  con lo  spavento  dipinto  sui
    volti si trascinavano indietro, da una parte verso Mozaisk, dall'altra
    verso  Valùevo.  Altri  gruppi,  stremati per la stanchezza e la fame,
    guidati dai loro capi, marciavano avanti. Altri ancora,  fermi ai loro
    posti, continuavano a sparare.
    Su  tutto  il campo,  già così bello e ridente per lo scintillio delle
    baionette che splendevano ai raggi del sole mattutino,  incombeva  ora
    una  nebbia  umida  e fosca e si diffondeva uno strano,  acre odore di
    salnitro e di sangue. Le nubi si erano addensate e cominciava a cadere
    una minuta pioggerella sui morti,  sui feriti,  su tutti quegli uomini
    sgomenti,  stanchi ed esitanti,  come se volesse dire: "Basta, uomini,
    basta! Cessate... Rientrate in voi, pensate a ciò che fate!".
    Esausti,  senza cibo e  senza  riposo,  i  soldati  dei  due  eserciti
    cominciavano  a  pensare  se  dovessero  continuare  a  uccidersi l'un
    l'altro;  sul viso di tutti si leggeva l'incertezza  e  nell'animo  di
    ognuno  sorgeva  la  domanda: "Perché,  per chi devo uccidere o essere
    ucciso?  Uccidete,  se volete,  fate quello che  vi  pare,  io  ne  ho
    abbastanza!".  Questo  pensiero,  verso sera,  era ugualmente radicato
    nell'animo di ognuno di essi. Tutti quegli uomini avrebbero potuto, in
    qualsiasi momento,  pieni di  orrore  per  ciò  che  stavano  facendo,
    abbandonare ogni cosa e fuggire.
    Quantunque  alla  fine  della  battaglia  i soldati,  rendendosi conto
    dell'orrore  delle  loro  azioni,  sarebbero  stati  ben  contenti  di
    smettere, una forza misteriosa, incomprensibile, continuava tuttavia a
    guidarli e, coperti di sudore, di polvere e di sangue, gli artiglieri,
    ridotti a un terzo del loro numero, barcollanti e senza respiro per la
    stanchezza,   portavano  ancora  le  munizioni,  caricavano  i  pezzi,
    puntavano,  accendevano le micce,  e i proiettili,  sempre  ugualmente
    rapidi  e  micidiali,  volavano  dalle  due  parti e dilaniavano corpi
    umani.  E quell'opera terribile,  che si compiva non  per  la  volontà
    degli  uomini  ma  per  la  volontà  di Colui che regge l'umanità e il
    mondo, continuava a compiersi.
    Chi avesse visto le retrovie disordinate dell'esercito russo,  avrebbe
    detto  che  sarebbe  bastato ai Francesi fare ancora un piccolo sforzo
    per annientare  i  nemici,  e  chi  avesse  guardato  le  ultime  file
    dell'esercito  francese  avrebbe detto che sarebbe bastato ai Russi un
    ultimo piccolo sforzo per annientare i Francesi. Ma né i Francesi,  né
    i Russi fecero quell'estremo sforzo, cosicché l'ardore della battaglia
    andò lentamente spegnendosi.
    I  Russi  non  lo  fecero  perché  non  erano stati loro ad assalire i
    Francesi.  All'inizio del combattimento stavano sulla strada di  Mosca
    sbarrandola  al  nemico  e  continuavano  a  sbarrarla alla fine della
    battaglia.  Ma quand'anche i  Russi  avessero  avuto  l'intenzione  di
    rovesciare i Francesi,  non avrebbero potuto fare quell'ultimo sforzo,
    perché tutte le loro truppe erano distrutte,  perché non c'era neppure
    una  parte  dell'esercito che non avesse sofferto e perché,  rimanendo
    sulle loro posizioni, avevano perduto la "metà" dell'esercito.
    I Francesi,  che  ricordavano  le  vittorie  riportate  nel  corso  di
    quindici   anni  e  che  avevano  la  certezza  dell'invincibilità  di
    Napoleone,  con la coscienza di essersi impadroniti di una  parte  del
    campo  di  battaglia  e  di  aver  perduto soltanto un quarto dei loro
    soldati,  certi che la Guardia di ventimila uomini era ancora intatta,
    quello  sforzo  avrebbero  potuto  farlo.   I  Francesi,  che  avevano
    attaccato l'esercito russo allo scopo di  farlo  sloggiare  dalle  sue
    posizioni,  dovevano  compiere quello sforzo,  giacché sino a quando i
    Russi, come già prima della battaglia,  avessero sbarrato la strada di
    Mosca,  lo  scopo dei Francesi non poteva essere raggiunto,  e tutti i
    loro sforzi e tutte  le  loro  perdite  sarebbero  stati  vani.  Ma  i
    Francesi  non compirono quel supremo sforzo.  Alcuni storici affermano
    che bastava che Napoleone facesse entrare in  azione  la  sua  vecchia
    Guardia  perché  la  battaglia  fosse  vinta.  Dire  che  cosa sarebbe
    accaduto se Napoleone avesse impegnato la sua Guardia è come dire  che
    cosa accadrebbe se l'autunno diventasse la primavera.  La cosa non era
    possibile. E Napoleone non impegnò la sua Guardia,  non già perché non
    lo volle fare, ma perché non lo poté. Tutti i generali, gli ufficiali,
    i  soldati dell'armata francese sapevano che la cosa non era possibile
    perché lo spirito abbattuto delle truppe non lo consentiva.
    Napoleone non era il solo a provare la sensazione, simile a quella dei
    sogni,  dello slancio del braccio che si alza e ricade privo di forza,
    ma tutti i generali, tutti i soldati dell'esercito francese, impegnati
    e  non  impegnati  nell'azione,   dopo  l'esperienza  delle  battaglie
    precedenti (nelle quali con sforzi dieci volte minori avevano messo in
    fuga il nemico) provavano un medesimo senso di orrore di fronte a quel
    nemico  che,   dopo  aver   perduto   metà   dell'esercito,   rimaneva
    minacciosamente   fermo   alla   fine  della  battaglia  come  lo  era
    all'inizio.  La forza morale  dell'esercito  francese  attaccante  era
    esaurita.  I  Russi non riportarono sotto Borodinò quella vittoria che
    ha per simbolo brandelli di stoffa legati a bastoni,  che si  chiamano
    bandiere,  e  che  viene definita dallo spazio occupato dagli eserciti
    prima e dopo la battaglia,  ma riportarono una vittoria morale: quella
    che  convince  il  nemico  della  superiorità morale dell'avversario e
    della propria debolezza. L'invasione francese, come una belva rabbiosa
    che nel fuggire abbia ricevuto una ferita mortale,  sentiva la propria
    rovina,  ma non poteva fermarsi, così come l'esercito russo, due volte
    più debole, non poteva non ripiegare. Dopo l'urto inferto,  l'esercito
    francese poteva ancora arrivare sino a Mosca,  ma laggiù,  senza nuovi
    sforzi da parte dell'esercito russo,  doveva perire dissanguato  dalla
    mortale ferita ricevuta a Borodinò.  Risultati diretti della battaglia
    di Borodinò furono la fuga senza motivo  di  Napoleone  da  Mosca,  il
    ritorno  per la vecchia via di Smolènsk,  lo sfacelo di un esercito di
    cinquecentomila uomini,  la caduta  della  Francia  napoleonica  sulla
    quale per la prima volta, a Borodinò, si posò la mano di un avversario
    moralmente più forte.










    NOTE.

    N.  1.  Konstantin Ksaver'evic' Ljubomirskij (1786-1870),  aiutante di
    campo di Alessandro Primo nel 1812.
    N. 2. Wladislaw Brannitzkij (1782-1843),  senatore e generale polacco,
    aiutante di campo di Alessandro Primo nel 1812.
    N. 3. Dmitrij Petrovic' Neverovskij (1771-1813), tenente generale. Nel
    1812  con la sua divisione di cavalleria arrestò i Francesi a Kràsnoe,
    permettendo così a Bagratiòn di ritirarsi su  Smolènsk.  Fu  ferito  a
    Borodinò.  A  Malo-Jaròslavetz  inseguì il nemico lungo la Vilma.  Nel
    1813 fece parte dell'armata di Blücher. A Lipsia venne ferito a morte.
    N. 4. Caterina Seconda.
    N.   5.   Platòn  Aleksàndrovic'  Zubov  (1767-1822)  feldmaresciallo,
    favorito dell'imperatrice Caterina Seconda, ebbe molta influenza sulla
    sovrana specialmente dopo la morte di Potëmkin. Fu a capo della flotta
    del mar Nero.
    N. 6. Carrozza da viaggio.
    N. 15. "Joconde", novella di Jean de la Fontaine (1621-1695), ispirata
    al  canto  28  dell'"Orlando Furioso" di Ludovico Ariosto (1474-1533),
    che ha per protagonista Giocondo, Astolfo e Fiammetta.
    N. 20.  Adolphe Thiers (1797-1877),  statista e storico francese,  già
    ministro  più  volte  sotto  Luigi Filippo d'Orléans,  rimase deputato
    influente nella seconda repubblica.  Napoleone  Terzo  lo  trattò  con
    riguardo,  ma il Thiers ne criticò apertamente gli errori. Eletto capo
    del potere esecutivo della Difesa  Nazionale  (1871),  poi  presidente
    della  repubblica,  si  adoperò  strenuamente per la liberazione della
    Francia dall'invasione  prussiana  e  per  domare  gli  insorti  della
    Comune.  Tra  le  sue  opere si ricordano la "Storia della rivoluzione
    francese" e la "Storia del Consolato e dell'Impero".
    N. 22. Dal colore della camicia della Infanta Isabella di Spagna o "la
    Cattolica" (1451-1504),  che aveva fatto voto di non cambiarla sino  a
    che non avesse preso Granada (1492).  E' un color giallo sporco che si
    usa specialmente per indicare un certo manto del cavallo.
    N. 29. Lo zar Paolo Primo.
    N. 30. Allude allo zar Pietro Terzo (1728-1762),  eletto nel 1761,  ma
    detronizzato  dalla moglie Caterina Seconda e ucciso durante una rissa
    dal favorito di lei, Orlòv.
    N. 32. Dal greco "pappas". Termine ufficiale per prete.
    N. 33. Pëtr Petrovic' Konovnicyn (1764-1822),  conte e generale russo.
    Ministro della guerra dal 1815 al 1819.
    N.  37.  In Russia gli spacci di bevande alcooliche erano monopolio di
    stato e perciò su tali spacci  era  infissa  un'insegna  con  l'aquila
    imperiale.
    N. 38. Vassilij Lvovic' Puskin (1770-1830), zio del poeta e romanziere
    russo Aleksàndr Sergéevic' Puskin (1799-1837).
    N.  40. Matvej Aleksandrovic' Mamonov (1790-1863), conte, figlio di un
    favorito di Caterina Seconda, massone.
    N. 47. Ludwig Wittgenstein,  feldmaresciallo russo di origine tedesca.
    Combatté ad Austerliz. Fu il capo delle armate russe e prussiane nella
    vittoria di Lipsia contro Napoleone.
    N.  48.  Franz Leppich (1775-?), conosciuto anche col nome di Heinrich
    Schmidt, contadino di origini olandesi. Giunto a Mosca nel 1812,  fece
    credere  a  Rastopcìn  di  essere in grado di costruire un pallone col
    quale volare sopra le truppe francesi e uccidere lo stesso  Napoleone.
    Dopo  aver  ottenuto a questo scopo grossi finanziamenti e aver tirato
    in lungo le cose per diverso tempo,  sparì senza che  il  suo  pallone
    riuscisse mai ad innalzarsi.
    N.  49.  Jozef  Ponjatowski (1763-1813),  principe e generale polacco,
    nipote di Stanislao Secondo, re di Polonia,  soprannominato il Baiardo
    polacco.   Combatté   contro   la   Russia   nel   1792   e  partecipò
    all'insurrezione di Kosciuszko nel 1794. Avendo i Francesi,  nel 1806,
    invaso  la Polonia scacciandone Prussiani e Russi,  fu creato ministro
    della  guerra  del  nuovo  granducato  di  Polonia,  poi,   nel  1809,
    comandante supremo nella guerra contro gli Austriaci,  che costrinse a
    ritirarsi da Varsavia. Fedele a Napoleone,  ne coprì la ritirata dalla
    Russia  e,  nella  battaglia  di  Lipsia,  riguadagnò  il  bastone  di
    maresciallo. Durante la ritirata, ferito, annegò nel fiume.
    N.  52.  Paissi  Sergéevic'  Kajsarov  (1783-1844),   generale  russo,
    fratello  dello scrittore Andréj Sergéevic' (1782-1813);  fu a capo di
    una formazione partigiana.
    N.  53.  Sergéj Nikiforovic' Marin (1775-1813),  aiutante di campo  di
    Alessandro Primo e compositore di parodie e versi satirici.
    N. 54. Gavriil Vassìlevic' Gerakov (1775-1838), scrittore e insegnante
    di storia nella scuola dei cadetti di Pietroburgo.
    N. 55. Specie di fortificazioni (Nota dell'autore).
    N.  55 a. Aleksàndr Alekséevic' Tucikòv (1777-1812), valoroso generale
    di corpo d'armata russo.  Si distinse nella battaglia  di  Smolènsk  e
    perse la vita in quella di Borodinò.
    N. 58. Barclay de Tolly.
    N.   59.   Karl  von  Clausewitz  (1780-1831),   prussiano,  abbracciò
    giovanissimo la carriera delle armi.  Per poter meglio lottare  contro
    la Francia,  nel 1809 si arruolò sotto la bandiera austriaca,  poi, in
    seguito all'alleanza di Napoleone con  l'Austria  passò  nel  1811  al
    servizio dello zar,  per continuare la lotta contro Napoleone,  in cui
    vedeva un despota,  pur ammirandolo come  stratega.  Grande  pensatore
    politico  e  militare,  svolse  il  suo  insegnamento fondandolo sullo
    studio delle campagne di Federico Secondo e di Napoleone e affrontando
    i problemi più profondi posti dalla strategia.  Il suo pensiero  ci  è
    noto   attraverso  le  numerose  lettere  e  l'opera  "Della  guerra",
    pubblicata dalla moglie, dopo la sua morte.
    N. 63. Louis Francois Joseph de Beausset (1770-1835),  scrittore;  nel
    1805  divenne prefetto di palazzo di Napoleone,  che seguì in tutte le
    sue campagne fino al 1812.
    N.  64.  Charles Nicolas Fabvier  (1782-1855),  generale  napoleonico,
    sotto la restaurazione prese parte alle agitazioni liberali;  nel 1823
    combatté accanto ai liberali spagnuoli  e  quindi  raggiunse  i  Greci
    insorti  contro  i  Turchi.  Diresse  nel  1827  la  difesa  di Atene,
    divenendo uno degli eroi della indipendenza  ellenica.  Dopo  il  1830
    comandò   la   piazza   di   Parigi  e  fu  creato  pari  di  Francia.
    Successivamente riorganizzò l'esercito danese.  Ritornato in  Francia,
    fu eletto deputato all'Assemblea legislativa.
    N. 71. Francois Gérard (1770-1837), nato a Roma e morto a Parigi, noto
    pittore  di soggetti storici e di ritratti;  discepolo e poi rivale di
    David (1748-1825), fu in seguito pittore ufficiale alla Corte di Luigi
    Diciottesimo.
    N.  72.  Francesco Carlo Giuseppe  Bonaparte  (1811-1832)  ebbe,  alla
    nascita,  il titolo di re di Roma.  Morì tubercolotico nella reggia di
    Schönbrunn. Dopo Waterloo, il padre abdicò in suo favore, ma la camera
    dei deputati dichiarò decaduti i Bonaparte.  Rientrati  in  Francia  i
    Borboni,  il  piccolo  Napoleone  Secondo,  che contava allora quattro
    anni, fu condotto in Austria,  dove nel 1818 ebbe il titolo di duca di
    Reichstadt. Le sue ceneri, restituite da Hitler alla Francia nel 1940,
    riposano agli Invalidi di Parigi.
    N.  73.  Gioco  costituito da un manubrio di legno terminante in coppa
    che ha,  legata nel mezzo,  mediante una cordicella.  una  palla,  che
    bisogna lanciare in alto poi far ricadere nella coppa.
    N.  76.  Jean-Dominique  Compans  (1763-1845) iniziò la carriera delle
    armi nell'armata delle Alpi  e  in  quella  d'Italia.  Partecipò  alle
    guerre  dell'impero come generale di stato maggiore.  Ad Austerlitz fu
    ferito. Luigi Diciottesimo lo creò pari.
    N. 77. Michel Ney (1769-1815), maresciallo francese, duca di Elchingen
    e principe della Moscova, fu uno dei più famosi generali di Napoleone,
    dal quale fu detto  "il  bravo  dei  bravi".  Vinse  gli  Austriaci  a
    Elchingen  e  i  Russi  alla Moscova e salvò l'esercito francese dallo
    sfacelo durante la ritirata dalla Russia.  Creato pari di  Francia  da
    Luigi Diciottesimo,  si dichiarò per Napoleone durante i Cento giorni;
    alla seconda restaurazione fu arrestato e fucilato.
    N. 78. Jean-Marie Pernety (1766-1856), visconte, generale dell'impero,
    nel 1812 ebbe parte nella presa di Smolènsk;  poi combatté a Borodinò.
    Durante la ritirata riuscì a portare in salvo sino alla Beresina quasi
    tutti i suoi pezzi.
    N.  79.  Quella  divisione  portava  il  nome di Louis Charles Antoine
    Desaix  (1768-1800),  generale  francese.  Sottotenente  di  fanteria,
    rivoluzionario convinto,  si segnalò nell'armata del Reno per coraggio
    e spirito d'iniziativa; nel 1796, alle dipendenze del generale Moreau,
    forzò il passaggio del Reno a Kehl,  difendendolo per due mesi  contro
    gli  Austriaci.  Ricevuto  da  Bonaparte  il  comando dell'avanguardia
    dell'armata d'oriente,  sbarcò in Egitto il primo luglio  1798.  Prese
    parte  alla  battaglia delle Piramidi.  Rientrato in Italia,  venne in
    soccorso a Bonaparte durante la battaglia di Marengo,  mettendo fine a
    una  pericolosa  situazione  e decidendo della vittoria (giugno 1800).
    Una pallottola al cuore lo uccise nel mezzo della mischia.
    N. 80. Louis Friant (1758-1828), conte, generale francese. Combatté in
    Germania,  in Italia,  in Egitto;  si  distinse  ad  Austerlitz  e  ad
    Auerstadt,  poi  a  Wagram  e  alla Moscova.  Ferito a Borodinò,  poté
    tornare in Italia dopo aver preso  parte  alla  battaglia  di  Dresda.
    Durante  i  Cento  giorni fu membro dei pari e comandò una divisione a
    Waterloo. Alla Restaurazione fu collocato a riposo.
    N.  81.  Louis Francois  de  Coreille  Fouchet  (1782-1835),  conte  e
    generale francese. Prese parte alla battaglia di Borodinò.
    N.  82.  Jean Barthélemy Sorbier (1762-1827), colonnello della Guardia
    imperiale,  si distinse in molte battaglie,  soprattutto in quella  di
    Borodinò.
    N.  83. Louis-Charles Morand (1771-1835), generale di divisione, prese
    parte alla campagna d'Egitto,  si distinse ad Austerlitz.  Fu ferito a
    Mosca nel 1812 e partecipò con onore alle campagne del 1813 e 1814.
    N.  84. Eugène Beauharnais (1781-1824), figliastro di Napoleone Primo.
    Nel 1805  fu  creato  viceré  d'Italia  e,  in  seguito,  destinato  a
    succedere  al patrigno in mancanza di eredi maschi.  Nella campagna di
    Russia ebbe il comando del corpo italiano e  quello  dei  resti  della
    Grande Armata in ritirata.  Dopo la sconfitta di Napoleone, per la sua
    parentela con Massimiliano Primo di  Baviera  (1756-1825),  cui  aveva
    dato in sposa la figlia, si rifugiò presso di lui.
    N. 85. Borodinò (Nota dell'autore).
    N.   86.   Etienne   Maurice  Gérard  (1773-1852),   conte,   generale
    napoleonico,  partecipò a tutte le  campagne  dell'impero.  Servì  poi
    sotto Luigi Filippo,  che lo nominò ministro della guerra e presidente
    del Consiglio.
    N. 87.  E' opportuno ricordare che fino al 1918 i Russi rifiutarono di
    adottare  la  riforma  gregoriana  del  calendario.  La  battaglia  di
    Borodinò ebbe luogo quindi il 26  agosto  per  il  calendario  vecchio
    stile e il 7 settembre per quello nuovo stile.
    N.  89.  Pietro  Primo il Grande (1672-1725),  zar di Russia dal 1682,
    governò dapprima con il fratellastro  Ivàn  sotto  la  reggenza  della
    sorella Sofia,  e nel 1689 assunse da solo le redini del potere,  dopo
    aver represso una congiura promossa dalla sorella e avere indotto Ivàn
    a rinunziare al trono. Nel 1697-98 visitò l'Europa occidentale, ma una
    nuova congiura lo fece rientrare  in  patria.  Domata  la  ribellione,
    iniziò  l'opera di occidentalizzazione del paese,  sopprimendo la Duma
    (parlamento  russo)  e  riorganizzò  la  flotta,   l'esercito   e   la
    burocrazia.  Nel 1703 fondò Pietroburgo e ne fece nel 1721 la capitale
    in luogo di Mosca. Sconfisse nel 1709, a Poltava,  Carlo Dodicesimo di
    Svezia  (1682-1718).  Nel  1721  prese  il  titolo  di zar di tutte le
    Russie, abolì il patriarcato russo, creò il santo Sinodo e si dichiarò
    capo della Chiesa russa. Ebbe un figlio, Alessio, da lui ucciso perché
    contrario alle sue innovazioni.
    N. 90. Carlo Nono (1550-1574), re di Francia, cattolico, ebbe un regno
    desolato dalle guerre civili contro i protestanti, che culminarono con
    la strage di San Bartolomeo, nella quale perirono migliaia di Ugonotti
    e che fu ordinata dal re istigato,  pare,  dalla  madre  Caterina  de'
    Medici (1519-1589).
    N.  93.  Jean Rapp (1772-1821), conte e generale francese, aiutante di
    campo di Desaix,  che spirò tra le sue  braccia  a  Marengo.  Promosso
    generale  di  divisione  per  la  sua brillante condotta ad Austerlitz
    (1805), governatore di Danzica (1807), si distinse alla Moscova e alla
    Beresina. Prigioniero in Russia, rimpatriato nel luglio 1814,  durante
    i  Cento  giorni  ebbe  da  Napoleone  la dignità di pari e il comando
    dell'armata del Reno,  con la quale difese Strasburgo.  Incaricato  da
    Luigi  Diciottesimo  di  comandare  uno  dei  reggimenti  che dovevano
    arrestare Napoleone al suo ritorno dall'isola d'Elba,  si  unì  invece
    all'imperatore,  al cui fianco rimase sino alla sconfitta di Waterloo.
    Si sottomise poi ai Borboni, ma rimase quasi sempre in Argovia.  Tornò
    poi in Francia nel 1817 e nel 1820 fu creato gran ciambellano.
    N.   99.   Jean-Nicolas  Corvisart  des  Marets  (1755-1821),  celebre
    anatomista e fisiologo, fu medico personale di Napoleone e lo seguì in
    parecchie campagne.
    N. 105. Vecchia misura lineare russa uguale a metri 2,134.
    N. 109. Michel Claparède (1774-1841), generale napoleonico,  partecipò
    alla spedizione di San Domingo,  distinguendosi poi nelle battaglie di
    Ulma,  Austerlitz e Jena;  combatté valorosamente anche nelle campagne
    di  Spagna e di Russia.  Dopo il 1814 passò ai Borboni e fu fatto pari
    di Francia.
    N.  115.  Evgenij Württemberg (1788-1857),  nipote della zarina Màrija
    Fëdorovna,  moglie dello zar Paolo Primo. Si occupò di teoria militare
    e scrisse un opuscolo sul modo  di  combattere  e  vincere  Napoleone.
    Prese parte alle campagne del 1812 e del 1814.