Lev N. Tolstòj.
    GUERRA e PACE.


    LIBRO QUARTO

    PARTE SECONDA


    CAPITOLO 1.

    Non è accessibile alla ragione umana la  conoscenza  delle  cause  dei
    fenomeni,  ma  è  insita  nello  spirito  dell'uomo  l'esigenza  della
    ricerca.  E la mente dell'uomo,  che non  è  capace  di  penetrare  la
    complessità  e le infinite condizioni dei fenomeni,  ognuno dei quali,
    preso isolatamente, potrebbe apparire come una causa, afferra il primo
    e più comprensibile accostamento e dice:  la  causa  è  questa.  Negli
    eventi storici (nei quali le azioni degli uomini costituiscono oggetto
    di osservazione) si presenta, quale primitivo accostamento, la volontà
    degli dèi, poi la volontà di quegli uomini che occupano i posti più in
    vista nella storia,  cioè degli eroi. Ma è sufficiente penetrare nella
    sostanza di ogni avvenimento storico,  ossia nell'attività di tutta la
    massa  degli uomini che hanno preso parte all'avvenimento stesso,  per
    convincersi che la volontà dell'eroe storico non  solo  non  guida  le
    azioni  delle  masse,  ma  ne  è  essa medesima continuamente guidata.
    Sembrerebbe indifferente  capire  il  significato  di  un  avvenimento
    storico in un modo o in un altro.  Eppure tra l'uomo che afferma che i
    popoli dell'occidente  mossero  verso  l'oriente  perché  tale  fu  la
    volontà  di  Napoleone  e quello che afferma che ciò è avvenuto perché
    doveva avvenire, esiste la stessa differenza che esiste tra coloro che
    sostenevano che la terra è immobile e i pianeti si muovono  attorno  a
    essa  e coloro che dicevano di ignorare su che cosa la terra si regga,
    ma di sapere che esistono leggi che regolano sia  il  movimento  della
    terra  sia  quello  degli altri pianeti.  Non ci sono e non ci possono
    essere cause di un evento  storico  all'infuori  dell'Unica  Causa  di
    tutte le cause. Ci sono tuttavia leggi che regolano tali eventi, leggi
    che  in  parte  conosciamo  e  in parte cerchiamo di scandagliare.  La
    scoperta  di  tali  leggi  sarà  possibile  soltanto   quando   avremo
    rinunziato a cercare le cause nella volontà di un solo uomo, così come
    la  scoperta  delle  leggi del movimento dei pianeti è stata possibile
    soltanto quando gli uomini desistettero dall'idea  di  considerare  la
    terra immobile.
    Dopo  la  battaglia  di Borodinò,  l'occupazione di Mosca da parte del
    nemico e dopo l'incendio di quella città, gli storici considerano come
    l'episodio  più  importante  della  guerra  del  1812   il   movimento
    dell'esercito  russo dalla strada di Rjazàn a quella di Kaluga e verso
    il campo di Tarùtino,  la cosiddetta marcia di  fianco  al  di  là  di
    Kràsnaja Pachrà.  Gli storici attribuiscono il vanto di questa geniale
    impresa a vari personaggi e discutono per decidere a chi  esso  spetti
    di  diritto.  Anche  gli  storici  stranieri,  anche  quelli francesi,
    riconoscono il genio dei condottieri russi,  parlando di quella marcia
    di  fianco.  Ma perché gli scrittori militari,  e dietro di loro tutti
    gli altri,  ammettano che quella marcia sia stata un'invenzione  assai
    geniale  di  un singolo personaggio (la quale salvò la Russia e rovinò
    Napoleone) è difficile capirlo.  Anzitutto è difficile capire  in  che
    cosa  realmente  consista  la  genialità profonda di una simile mossa,
    giacché non occorre un  grande  sforzo  mentale  per  intuire  che  la
    migliore  posizione di un esercito (quando non sia attaccato) è quella
    dove si trova la maggior quantità di viveri.  E  chiunque,  anche  uno
    stupido  ragazzino  tredicenne,  avrebbe potuto comprendere facilmente
    che nel 1812 la posizione più  vantaggiosa  per  l'esercito,  dopo  la
    ritirata  da Mosca,  era appunto sulla strada di Kaluga.  Non è quindi
    possibile capire: 1� per quali deduzioni gli storici arrivino a vedere
    qualcosa di profondamente meditato nella manovra in  questione;  2�  è
    ancora  più  difficile  intendere perché gli storici vedano proprio in
    quella marcia la salvezza della  Russia  e  la  rovina  dei  Francesi.
    Infatti  quella  marcia  di fianco,  in altre circostanze antecedenti,
    concomitanti e conseguenti,  avrebbe potuto  essere  un  disastro  per
    l'esercito russo e la salvezza per l'esercito francese. Se dal momento
    in  cui quel movimento fu compiuto,  la situazione dell'esercito russo
    cominciò a migliorare,  non si può in  alcun  modo  dedurre  che  quel
    movimento ne sia stato la causa.
    La  marcia  di  fianco  non  solo  avrebbe  potuto  non arrecare alcun
    vantaggio all'esercito russo, ma avrebbe potuto causare la sua rovina,
    se non ci  fossero  state  altre  svariate  circostanze.  Che  sarebbe
    accaduto  se  Mosca  non  fosse stata incendiata?  Se Murat non avesse
    perduto di vista i Russi? Se Napoleone non fosse rimasto inattivo?  Se
    sotto  Kràsnaja  Pachrà  l'esercito  russo,  seguendo  il consiglio di
    Bennigsen e di  Barclay,  avesse  dato  battaglia?  Che  cosa  sarebbe
    accaduto  se  i  Francesi  avessero attaccato il nemico quando era nei
    dintorni di Kràsnaja Pachrà?  Che cosa sarebbe accaduto se  più  tardi
    Napoleone,  avvicinandosi  a Tarùtino,  avesse attaccato i Russi,  sia
    pure con la decima parte di quella  energia  con  la  quale  li  aveva
    attaccati a Smolènsk? Che cosa sarebbe accaduto se l'esercito francese
    avesse  marciato  su  Pietroburgo?  L'avverarsi  di  una sola di tutte
    queste possibilità avrebbe fatto sì che la marcia  di  fianco  sarebbe
    stata non la salvezza, bensì una rovina.
    In  terzo  luogo,  la  cosa  più incomprensibile sta nel fatto che gli
    uomini  i  quali  studiano  la  storia  non  vogliono   di   proposito
    riconoscere  che  quella  marcia di fianco non può essere attribuita a
    nessuno in particolare,  che nessuno  mai  la  previde  e  che  quella
    manovra,  proprio  come la ritirata a Fili,  non fu mai considerata da
    nessuno nel suo complesso,  ma che era sorta - un passo dopo  l'altro,
    un avvenimento dopo l'altro,  un momento dopo l'altro  -  da un numero
    infinito di circostanze diverse e  che  apparve  nella  sua  interezza
    soltanto quando fu un fatto compiuto, appartenente ormai al passato.
    Nel  Consiglio  di  guerra  tenuto  a Fili,  l'idea che prevalse tra i
    generali russi fu quella della ritirata in linea retta,  ossia per  la
    strada di Niznij-Nòvgorod.  A dimostrazione di ciò sta il fatto che la
    maggioranza dei voti risultò favorevole in questo senso, e soprattutto
    la  famosa  conversazione,   avvenuta  dopo  il  Consiglio,   tra   il
    generalissimo   e   Lanskòj   (1),   che   era   a  capo  del  reparto
    approvvigionamenti.  Lanskòj riferì al generalissimo che i viveri  per
    l'esercito   russo  erano  raccolti  specialmente  lungo  l'Okà,   nei
    governatorati di Tula e di Kaluga  e  che,  in  caso  di  ritirata  su
    Niznij,   i   depositi   dei  rifornimenti  sarebbero  stati  separati
    dall'esercito dal grande fiume Okà che,  all'inizio dell'inverno,  era
    impossibile  passare.  Era  questo  il primo motivo della necessità di
    deviare dalla linea retta verso Niznij,  apparsa sin da  principio  la
    più  naturale.  L'esercito  si  tenne  più  a sud,  lungo la strada di
    Rjazàn, poi vicino ai depositi. In seguito,  l'inattività delle truppe
    francesi,  che  avevano persino perduto di vista l'esercito russo,  le
    preoccupazioni per la difesa dell'arsenale di Tula e, soprattutto,  il
    vantaggio   della   vicinanza   dei  depositi  di  approvvigionamenti,
    costrinsero l'esercito a piegare ancora più a  sud,  sulla  strada  di
    Tula.  Spostandosi,  con  una  mossa disperata,  oltre la Pachrà sulla
    strada di Tula,  i  comandanti  russi  credevano  di  fermarsi  presso
    Podolsk,  e non pensavano alla posizione di Tarùtino; ma numerosissime
    circostanze: la ricomparsa dell'esercito francese che,  prima di  ciò,
    aveva  perduto  di  vista  quello  russo,  i  piani  di  battaglia  e,
    principalmente, l'abbondanza di viveri a Kaluga, costrinsero il nostro
    esercito a piegare ancora di più verso sud e a raggiungere  il  centro
    delle  sue  vie di approvvigionamento dalla strada di Tula a quella di
    Kaluga,  verso Tarùtino.  Proprio come non è possibile rispondere alla
    domanda  circa  il  momento  in cui fu stabilito di abbandonare Mosca,
    così non è possibile dire quando,  esattamente,  e da chi fu deciso di
    muovere  verso Tarùtino.  Soltanto quando le truppe erano già giunte a
    Tarùtino,   in  conseguenza  di  innumerevoli  forze   infinitesimali,
    soltanto  allora  la  gente  cominciò a convincersi di averlo voluto e
    preveduto da un pezzo.


    CAPITOLO 2.

    La  famosa  marcia  di  fianco  consisteva  soltanto  in  questo:  che
    l'esercito  russo,  indietreggiando  in  direzione  contraria a quella
    dell'invasione, deviò, dopo che l'invasione francese ebbe fine,  dalla
    linea  retta  seguita da principio e,  non vedendosi inseguito,  piegò
    naturalmente da quella parte che  l'attirava  per  l'abbondanza  degli
    approvvigionamenti.
    Se  si  immaginasse  un  esercito  russo  con  a  capo non dei geniali
    condottieri, ma semplicemente un esercito senza capi, anche questo non
    avrebbe potuto fare niente altro se non un movimento di ritorno  verso
    Mosca, descrivendo un arco dalla parte in cui vi era maggiore quantità
    di vettovaglie e il paese era più ricco.
    Questo  movimento  dalla strada di Niznij-Nòvgorod a quella di Rjazàn,
    di Tula e di Kaluga era a tal punto  naturale  che  in  quella  stessa
    direzione  fuggivano  i saccheggiatori dell'esercito russo e in quella
    stessa direzione si esigeva a Pietroburgo che  Kutuzòv  conducesse  il
    suo  esercito.  A  Tarùtino,  Kutuzòv  ricevette  quasi  un rimprovero
    dall'imperatore per aver condotto l'esercito sulla strada di Rjazàn, e
    gli fu indicata quella stessa posizione  di  fronte  a  Kaluga,  nella
    quale egli già si trovava quando ricevette la lettera del sovrano.
    La  palla  dell'esercito  russo,   che  era  rotolata  indietro  sotto
    l'impulso degli urti ricevuti durante tutta la campagna e specialmente
    nella battaglia di Borodinò, quando si fu estinta la forza dell'urto e
    non ne ricevette altri, prese la posizione che le era naturale.
    Il merito di Kutuzòv non consisté in manovre strategiche  geniali,  ma
    nel   fatto  di  essere  stato  il  solo  a  comprendere  l'importanza
    dell'avvenimento che si stava compiendo.  Egli solo si rese conto  del
    significato  dell'inazione  francese,  egli solo continuò ad affermare
    che la battaglia di Borodinò era stata una vittoria;  egli  solo,  che
    per  la  sua  posizione  di  generalissimo  doveva  essere  propenso a
    sferrare l'attacco,  usò tutte le sue forze per  evitare  all'esercito
    russo inutili battaglie.
    La  belva  ferita  a  Borodinò  giaceva  laggiù  dove  il  cacciatore,
    fuggendo,  l'aveva lasciata,  senza sapere però se fosse viva e  forte
    oppure si fosse soltanto nascosta. A un tratto se ne udì il gemito.
    Il  lamento  della  belva  ferita    -  l'esercito francese  -  che ne
    annunziava la rovina,  fu la venuta di Lauriston  all'accampamento  di
    Kutuzòv con una richiesta di pace.
    Napoleone, con la sua convinzione che non il bene fosse bene, ma fosse
    bene ciò che a lui saltava in mente, scrisse a Kutuzòv le prime parole
    che gli vennero in mente e che non avevano alcun senso:

    "Monsieur le prince Koutouzoff", egli scriveva, "j'envoie près de vous
    un  de  mes  aides  de camp généraux pour vous entretenir de plusieurs
    objets intéressants. Je désire que Votre Altesse ajoute foi à ce qu'il
    lui dira surtout lorsqu'il exprimera les  sentiments  d'estime  et  de
    particulière considération que j'ai depuis longtemps pour sa personne.
    Cette  lettre  n'étant à autre fin,  je prie Dieu,  monsieur le prince
    Koutouzoff, qu'il vous ait en sa sainte et digne garde.
    "Moscou, le 30 septembre 1812
    Signé: Napoléon".

    "Je serais maudit par la postérité  si  l'on  me  regardait  comme  le
    premier moteur d'un accommodement quelconque.  Tel est l'esprit actuel
    de ma nation"
    [2. "Signor principe Kutuzòv,  vi mando uno dei miei aiutanti di campo
    Per  discutere  con voi su parecchie questioni interessanti.  Desidero
    che vostra altezza presti  fede  a  ciò  che  egli  dirà,  soprattutto
    allorché vi esprimerà i sentimenti di stima e di considerazione che da
    gran  tempo nutro per la vostra persona.  Poiché questa lettera non ha
    altro scopo,  prego Dio,  signor principe Kutuzòv,  che Egli vi  tenga
    sotto la Sua santa e degna protezione.
    "Mosca, 30 settembre 1812
    Firmato: Napoleone".

    "Io  sarei  maledetto  dalla  posterità  se  venissi  considerato come
    l'iniziatore di un qualsiasi accomodamento.  Tale è,  al  momento,  la
    volontà della mia nazione"],  rispose Kutuzòv e continuò a usare tutte
    le sue forze per trattenere le truppe dall'offensiva.
    Nel mese durante il  quale  l'esercito  francese  saccheggiò  Mosca  e
    l'esercito  russo  se ne stava tranquillamente a Tarùtino,  avvenne un
    mutamento nelle forze reciproche (di spirito  e  di  numero)  dei  due
    eserciti,  e la preponderanza della forza passò dalla parte dei Russi.
    Benché la  posizione  e  l'effettivo  dell'esercito  francese  fossero
    ignoti   ai  Russi,   non  appena  si  verificò  quel  mutamento,   da
    innumerevoli  indizi  si  rivelò  immediatamente   la   necessità   di
    un'offensiva. Gli indizi erano: l'invio di Lauriston, l'abbondanza dei
    viveri  a  Tarùtino,  le  notizie  che  giungevano da ogni parte sulla
    disorganizzazione   e   l'inattività   delle   truppe   francesi,   il
    rafforzamento  del nostro esercito con nuove reclute,  il tempo buono,
    il prolungato riposo dei soldati russi,  l'impazienza di agire che  si
    verifica,  di  solito,  nelle  truppe  dopo  un periodo di riposo,  la
    curiosità  di  conoscere  che  cosa  accadeva  nell'esercito  francese
    perduto  di vista da parecchio tempo,  l'audacia con cui gli avamposti
    russi passavano ora davanti ai soldati francesi che erano nei dintorni
    di Tarùtino,  le notizie delle facili vittorie  dei  contadini  e  dei
    partigiani sui Francesi e l'invidia che ciò suscitava, il desiderio di
    vendetta che covava nell'animo di ogni soldato dacché i Francesi erano
    a Mosca e,  soprattutto,  una vaga consapevolezza, sorta nell'animo di
    ogni soldato,  che il  rapporto  delle  forze  era  mutato  e  che  la
    preminenza  di esse si trovava adesso dalla nostra parte.  Il rapporto
    delle forze era mutato e l'offensiva diventava  necessaria.  E  subito
    dopo, con la stessa precisione con cui in un orologio a "carillon" (3)
    cominciano  a  battere e a rintoccare le ore non appena la lancetta ha
    compiuto un intero giro,  nelle alte sfere,  conformemente al radicale
    mutamento  delle forze,  si ripercossero più intensi il movimento,  il
    ronzio e il suono stesso dell'orologio.


    CAPITOLO 3.

    L'esercito russo era diretto da Kutuzòv con il suo stato  maggiore,  e
    dallo  zar,   da  Pietroburgo.   A  Pietroburgo,  ancora  prima  della
    diffusione della notizia dell'abbandono di Mosca, era stato redatto un
    piano particolareggiato di tutta la guerra e  mandato  a  Kutuzòv  per
    l'esecuzione.  Sebbene  il piano fosse stato compilato nel presupposto
    che Mosca fosse ancora nelle nostre  mani,  esso  fu  approvato  dallo
    stato  maggiore  e  accolto  per  l'attuazione.  Kutuzòv  si  limitò a
    scrivere che  le  diversioni  a  distanza  sono  sempre  difficilmente
    realizzate. E, per risolvere le difficoltà che si affacciavano, furono
    mandati nuovi ordini e nuovi personaggi che dovevano seguire le azioni
    di Kutuzòv e riferire in proposito.
    Oltre  a  ciò,  in  tutto  lo  stato maggiore dell'esercito avvenivano
    mutamenti.  Si occupavano i posti lasciati vuoti da Bagratiòn ucciso e
    da Barclay che,  offeso,  aveva dato le dimissioni.  Si rifletteva con
    molta serietà se sarebbe stato meglio mettere A.  al posto di B.  e B.
    al posto di A.,  oppure,  al contrario,  D.  al posto di A. e così via
    come se,  all'infuori  della  soddisfazione  di  A.  e  di  B.  questi
    mutamenti potessero avere altri risultati.
    Nello  stato  maggiore  dell'esercito,  a  causa  dell'inimicizia  tra
    Kutuzòv e il suo capo di stato maggiore Bennigsen,  della presenza dei
    personaggi  di  fiducia dell'imperatore e dei vari mutamenti avvenuti,
    si svolgeva, più che mai complesso,  il gioco dei partiti: A.  cercava
    di scavare il terreno sotto i piedi di B.;  B.  faceva altrettanto con
    C.  e così via,  con tutte le possibili  combinazioni  e  i  possibili
    spostamenti.  L'oggetto  di  tutti  questi  intrighi  era  per  lo più
    l'andamento della  guerra,  che  tutte  quelle  persone  credevano  di
    guidare;  ma  l'andamento  della guerra procedeva indipendentemente da
    loro,  precisamente come doveva procedere,  ossia senza mai coincidere
    con  quello che gli uomini escogitavano,  ma scaturendo dalla sostanza
    dei rapporti  delle  masse.  Tutte  quelle  trovate,  incrociandosi  e
    imbrogliandosi,  rappresentavano  nelle  alte  sfere  soltanto la vera
    immagine di ciò che doveva accadere.
    "Principe Michaìl Ilarjònovic!", scriveva l'imperatore il 2 ottobre in
    una lettera arrivata dopo la battaglia di Tarùtino.  "Dal 2  settembre
    Mosca è nelle mani del nemico.  I vostri ultimi rapporti sono del 20 e
    durante tutto questo tempo non  solo  nulla  è  stato  intrapreso  per
    un'azione  contro  il  nemico  e per la liberazione della nostra prima
    capitale  ma,   secondo  il  vostro  ultimo  rapporto,   avete  ancora
    indietreggiato.  Sèrpuchov è già occupata da un distaccamento nemico e
    Tula,  con il suo famoso arsenale indispensabile  all'esercito,  è  in
    pericolo.  Dai  rapporti del generale Wintzingerode sono informato che
    un corpo nemico, forte di diecimila uomini,  avanza verso la strada di
    Pietroburgo.  Un  altro,  che conta migliaia di uomini,  si avvicina a
    Dmìtrovo. Un terzo si è avvicinato alla strada di Viadimir. Un quarto,
    piuttosto nutrito, sta tra Ruza e Mozaisk. Napoleone stesso, il giorno
    25, si trovava a Mosca. Ora, visto che  -  secondo queste informazioni
    -  il nemico ha diviso le proprie forze  in  grossi  distaccamenti,  e
    Napoleone  è  ancora  a  Mosca con la sua Guardia,  è possibile che le
    forze nemiche,  che si trovano davanti a voi,  siano tanto notevoli da
    non permettervi di sferrare un attacco? Si può anzi pensare, con quasi
    assoluta  certezza,  che  egli  vi insegua con alcuni distaccamenti o,
    almeno,  con un corpo molto più debole dell'esercito a  voi  affidato.
    Parrebbe  che,  approfittando  di  simili  circostanze,  voi  potreste
    attaccare con vantaggio il nemico più debole di voi e distruggerlo  o,
    almeno,  costringerlo  a  ritirarsi,  conservare nelle vostre mani una
    importante parte dei governatorati ora occupati dal nemico e,  in  tal
    modo,  stornare  da Tula il pericolo che la minaccia e che minaccia le
    altre nostre città dell'interno.  Ricadrà su di voi la  responsabilità
    se  il  nemico  si  troverà  in grado di dirigere verso Pietroburgo un
    forte corpo di truppe per minacciare questa capitale,  nella quale non
    sono  potute  rimanere molte forze militari giacché,  con l'esercito a
    voi affidato, agendo con decisione ed energia, avete tutti i mezzi per
    scongiurare questa nuova sventura. Ricordate che dovete ancora rendere
    conto della perdita di Mosca alla patria offesa.  Avete avuto le prove
    della  mia  premura nel ricompensarvi.  Tale premura non verrà meno in
    me,  ma io e la Russia abbiamo il diritto di attendere da voi lo zelo,
    la  fermezza  e  i  successi  che  la  vostra intelligenza,  le vostre
    capacità militari e il valore dell'esercito di cui voi siete  a  capo,
    ci fanno presagire".
    Ma  mentre  questa  lettera,  che dimostra come il rapporto essenziale
    delle forze si fosse già riflesso anche a Pietroburgo,  era ancora per
    via,  Kutuzòv  non  aveva  più  potuto  trattenere  l'esercito  da lui
    comandato dallo sferrare un'offensiva, e la battaglia era stata data.
    Il 2 ottobre il  cosacco  Sciapovalov,  mentre  era  in  ricognizione,
    uccise  con  il  suo  fucile una lepre e ne ferì un'altra.  Inseguendo
    quest'ultima,  Sciapovalov si internò molto nella foresta e si imbatté
    nell'ala  sinistra dell'esercito di Murat,  che si era accampato senza
    prendere alcuna precauzione. Il cosacco, ridendo, raccontò ai compagni
    che, per poco, non era caduto nelle mani dei nemici. Un cornetta,  che
    udì quel racconto, lo riferì al comandante.
    Il cosacco fu chiamato e interrogato.  I comandanti cosacchi avrebbero
    voluto approfittare dell'occasione per catturare dei cavalli,  ma  uno
    di essi, che conosceva i più alti capi dell'esercito comunicò il fatto
    a  un generale dello stato maggiore.  Da qualche tempo,  la situazione
    nello stato maggiore era molto tesa.  Alcuni  giorni  prima,  Ermolov,
    recatosi  da Bennigsen,  lo aveva supplicato di usare la sua influenza
    per indurre Kutuzòv a decidersi all 'attacco .
    - Se io non vi conoscessi,   -  rispose Bennigsen  -  penserei che non
    volete  affatto  ciò  che mi chiedete.  Basta che io consigli una cosa
    perché sua altezza serenissima faccia esattamente il contrario.
    L'informazione data dai cosacchi, confermata dagli esploratori mandati
    in ricognizione, dimostrò che era veramente opportuno agire.  La corda
    tesa  scattò,  l'orologio  diede  inizio  al  suo ronzio e il rintocco
    suonò. Nonostante il suo supposto potere, la sua intelligenza,  la sua
    esperienza  e  la sua conoscenza degli uomini,  Kutuzòv,  prendendo in
    considerazione il  rapporto  di  Bennigsen,  il  quale  aveva  mandato
    personalmente una relazione all'imperatore, e il desiderio espresso da
    tutti i generali, che egli supponeva concordasse pienamente con quello
    dell'imperatore  e le informazioni dei cosacchi,  non poté più frenare
    la mossa inevitabile e diede l'ordine per ciò che riteneva  inutile  e
    dannoso:  diede  la  sua  benedizione  a  un  fatto  già  virtualmente
    compiuto.


    CAPITOLO 4.

    Il  rapporto  di  Bennigsen  sulla   necessità   di   un   attacco   e
    l'informazione   dei   cosacchi  circa  l'ala  sinistra  dell'esercito
    francese,  che era indifesa,  non erano che gli  ultimi  indizi  della
    necessità  di  ordinare  l'avanzata e l'attacco venne fissato per il 5
    ottobre.
    La mattina del 4 Kutuzòv firmò il piano di battaglia.  Toll lo lesse a
    Ermolov, proponendogli di occuparsi delle ulteriori disposizioni.
    -  Bene,  bene,  adesso  non  ho  tempo    -   disse Ermolov,  uscendo
    dall'"izbà".
    Il piano,  stabilito da Toll,  era ottimo.  Così  come  in  quello  di
    Austerlitz vi era scritto, sebbene non in tedesco:
    ""Die  erste  Kolonne  marschiert"  nella tale direzione,  "die zweite
    Kolonne marschiert" [4. La prima colonna marcerà... la seconda colonna
    marcerà...] nella tal altra" e così via.  Sulla carta tutte le colonne
    giungevano  al  loro  posto  all'ora  prestabilita  e sbaragliavano il
    nemico.  Come  in  tutti  i  piani,  ogni  cosa  era  stata  calcolata
    magnificamente e,  come in tutti i piani,  non una sola colonna arrivò
    nel tempo previsto al posto che le era stato fissato.
    Quando il piano fu pronto nel dovuto numero di esemplari,  fu chiamato
    un  ufficiale e fu mandato da Ermolov a consegnargli le carte relative
    all'esecuzione.  Il giovane ufficiale  di  cavalleria  della  Guardia,
    ufficiale   di  ordinanza  di  Kutuzòv,   soddisfatto  dell'importante
    incarico affidatogli, si diresse all'alloggio di Ermolov.
    - E' uscito  -  gli rispose l'attendente.
    L'ufficiale si recò da un generale,  presso il quale Ermolov si recava
    spesso.
    - No, il generale non è venuto.
    L'ufficiale di cavalleria rimontò in sella e andò da un altro.
    - No, è uscito.
    "Purché  non  addossino  a  me  la  responsabilità  del  ritardo!  Che
    stizza!",  pensava l'ufficiale.  Girò tutto  l'accampamento.  Uno  gli
    diceva  di  aver  visto Ermolov andare in una data direzione con altri
    generali, un altro gli diceva che,  senza dubbio,  era ormai tornato a
    casa.
    L'ufficiale,  senza  pranzare,  lo  cercò  sino  alle  sei della sera.
    Ermolov era introvabile e nessuno sapeva dire dove fosse.  L'ufficiale
    mangiò  un  boccone  in  tutta fretta in casa di un compagno e andò di
    nuovo in cerca di Miloràdovic'.  Neppure Miloràdovic' era in casa,  ma
    qui gli dissero che Miloràdovic' si era recato a un ballo dal generale
    Kikin e che là si trovava, probabilmente, anche Ermolov.
    - E dov'è?
    -  Laggiù,  a  Eckino    -  spiegò un ufficiale cosacco,  indicando in
    lontananza una casa padronale.
    - Ma come? Laggiù, oltre la linea?
    - Due nostri reggimenti sono stati mandati in prima linea.  E là  oggi
    c'è una baldoria con i fiocchi! Due orchestre e tre cori di cantori.
    L'ufficiale si recò a Eckino, oltre le linee. Già da lontano mentre si
    avvicinava  alla casa,  udì le note allegre di una canzone militare da
    ballo.
    "Nei prati!  Nei pra-a-ti!",  sentì  cantare  con  accompagnamento  di
    fischietti;  il canto, di tanto in tanto, era soffocato da un rumoroso
    vociare.  L'ufficiale sentì l'anima rallegrarsi all'udire quei  canti,
    ma  contemporaneamente fu preso dalla paura di essere in colpa per non
    aver potuto,  in tante ore,  trasmettere  un  ordine  di  così  grande
    importanza.  Erano  ormai  quasi  le nove.  Scese da cavallo e salì la
    scalinata della grande casa padronale rimasta intatta,  che si trovava
    tra le linee russe e le francesi.  Nella dispensa e nell'anticamera si
    affaccendavano i camerieri, portando vini e vivande. Sotto le finestre
    stavano i cantori.  L'ufficiale fu fatto entrare: di colpo  egli  vide
    riuniti i più importanti generali dell'esercito,  tra i quali spiccava
    l'alta  figura  di  Ermolov.   Tutti  i  generali  avevano  la  giubba
    sbottonata,  i  visi  rossi  e  accaldati  e,  disposti e semicerchio,
    ridevano forte. Nel mezzo della sala un generale, non alto di statura,
    ma dal viso bello  e  acceso,  danzava  con  abilità  e  sveltezza  il
    "trepàk".
    - Ah, ah, ah! Bene, Nikolàj Ivànovic'! Ah, ah, ah!
    L'ufficiale sentì che,  entrando in quel momento,  latore di un ordine
    importante,   diventava  doppiamente  colpevole   e   avrebbe   voluto
    aspettare;  ma uno dei generali lo vide e,  saputo il motivo della sua
    venuta,  lo  disse  a  Ermolov.  Questi,  accigliato,   andò  incontro
    all'ufficiale  e,  dopo  averlo  ascoltato,  prese il foglio senza dir
    nulla.
    - Credi che se ne sia andato per caso?   -    diceva  quella  sera  un
    collega dello stato maggiore all'ufficiale di cavalleria,  a proposito
    di Ermolov.   -  No,  l'ha fatto apposta.  Un bel tiro  a  Konovnicyn.
    Vedrai domani che pasticcio!


    CAPITOLO 5.

    Il giorno seguente, di buon mattino, il vecchio Kutuzòv si alzò, disse
    le  preghiere,  si vestì e,  con la spiacevole consapevolezza di dover
    dirigere una battaglia che egli non approvava, salì in carrozza e uscì
    da Letasëvka,  cinque miglia oltre Tarùtino,  per raggiungere il posto
    di  concentramento  delle  colonne  di  attacco.  Kutuzòv,  mentre  la
    carrozza procedeva,  ora si assopiva  ora  si  risvegliava  e  tendeva
    l'orecchio  se  mai  si  udisse da destra il crepitio della fucileria,
    segno che la battaglia era cominciata. Ma tutto era ancora silenzioso.
    Sorgeva  appena  l'alba  di  un'umida,   grigia  giornata   autunnale.
    Avvicinandosi  a  Tarùtino,  Kutuzòv notò alcuni soldati di cavalleria
    che conducevano i cavalli all'abbeveratoio,  attraversando  la  strada
    lungo la quale andava la carrozza. Kutuzòv li osservò, fece fermare la
    carrozza  e  domandò  loro a che reggimento appartenessero.  I soldati
    appartenevano alla colonna che già  da  un  pezzo  si  sarebbe  dovuta
    trovare molto più avanti,  all'agguato.  "Forse è un errore", pensò il
    vecchio generalissimo. Ma,  proseguendo oltre,  vide alcuni reggimenti
    di  fanteria con i fucili in fascio,  e scorse soldati occupati con le
    marmitte e con la legna  da  ardere,  in  mutande.  Fece  chiamare  un
    ufficiale. Questi riferì che non aveva avuto alcun ordine di avanzata.
    -  Ma  come?  Non  è...   -  prese a dire Kutuzòv,  ma subito tacque e
    ordinò di chiamare l'ufficiale più anziano. Sceso di carrozza,  con il
    capo  basso  e il respiro pesante,  attendeva in silenzio,  camminando
    avanti e  indietro.  Quando  comparve  Eichen,  l'ufficiale  di  stato
    maggiore che era stato chiamato,  Kutuzòv si fece paonazzo, non perché
    l'ufficiale fosse colpevole dell'errore,  ma perché era un oggetto  su
    cui poteva scatenarsi la sua collera.  Tremando e ansando, il vecchio,
    in preda a uno di quegli impeti di furore che lo portavano al punto di
    rotolarsi  per  terra,  assalì  Eichen,  minacciandolo  con  i  pugni,
    gridando e imprecando con parolacce volgari.  A un altro ufficiale, il
    capitano Brozin,  capitato lì per caso e anch'egli privo di  qualsiasi
    colpa, toccò la stessa sorte.
    - Chi è quest'altra canaglia? Metterlo al muro, si deve! Farabutti!  -
    urlava  Kutuzòv con la voce rauca,  agitando le braccia e barcollando.
    Provava una vera sofferenza fisica. Lui,  il generalissimo,  l'altezza
    serenissima,  a cui tutti assicuravano che nessuno mai in Russia aveva
    avuto tanta potenza, lui, trovarsi in una situazione simile...  in una
    situazione  da  suscitare  le  risate  di tutto l'esercito!  "E' stato
    inutile che mi preoccupassi tanto di pregare per la giornata di  oggi,
    inutile che non dormissi la notte per meditare, riflettere su tutto!",
    diceva  a  se  stesso.  "Quando  ero un giovane ufficiale sconosciuto,
    nessuno avrebbe avuto il coraggio di prendersi beffe di  me  a  questo
    modo...  Ma  adesso!!!".  Provava una sofferenza fisica,  come per una
    punizione corporale e non poteva fare a meno di manifestarla con grida
    di collera e di dolore;  ma ben presto gli vennero meno  le  forze  e,
    guardatosi  attorno  e  resosi conto di aver detto molte cose cattive,
    salì in carrozza e tornò indietro in silenzio.
    L'ira sbollita non lo assalì più e  Kutuzòv,  battendo  debolmente  le
    palpebre,  ascoltò le giustificazioni,  le difese (Ermolov non si fece
    vedere sino al giorno dopo), le insistenze di Bennigsen, di Konovnicyn
    e di Toll perché quello stesso movimento non riuscito  fosse  iniziato
    il giorno dopo. E Kutuzòv dovette di nuovo acconsentire.


    CAPITOLO 6.

    Il giorno dopo,  le truppe, riunitesi verso sera nei luoghi stabiliti,
    si misero in marcia durante la notte.  Era una notte  d'autunno  senza
    pioggia,  ma  con  il  cielo  coperto  da  densi  nuvoloni  di un nero
    violaceo.  La terra umida ma non fangosa  permetteva  alle  truppe  di
    marciare  senza  far rumore;  solo a tratti saliva il debole tintinnio
    delle artiglierie.  Era stato vietato di parlare forte,  di fumare  la
    pipa,  di  accendere  fuochi;  si  faceva il possibile per impedire ai
    cavalli di  nitrire.  L'impresa,  avvolta  di  mistero,  appariva  più
    attraente.  I  soldati  marciavano  allegramente.  Alcune  colonne  si
    fermarono,  misero i fucili in  fasci  e  si  sdraiarono  sulla  terra
    fredda,  supponendo  di  essere  giunti  alla meta;  altre (la maggior
    parte) marciarono per tutta la notte ed evidentemente  non  arrivarono
    là dove dovevano arrivare.
    Il  conte  Orlòv-Denissov  (5)  con  i  suoi  cosacchi  (il  corpo più
    importante di tutti) fu il solo a trovarsi al  posto  giusto  nell'ora
    giusta.  Si fermò al limite estremo di un bosco, lungo il sentiero che
    conduce da Stromìlova a Dmitròvskoe.
    Prima  dell'alba,  il  conte  Orlòv,   che  stava  sonnecchiando,   fu
    svegliato.  Gli condussero un disertore dal campo francese. Era costui
    un sottufficiale polacco del corpo di Ponjatowski. Spiegò, in polacco,
    di aver disertato perché erano state  commesse  ingiustizie  nei  suoi
    riguardi,  disse che da un pezzo avrebbe dovuto essere ufficiale,  che
    era più coraggioso di tutti gli altri e che perciò li aveva piantati e
    voleva castigarli.  Affermava che Murat stava passando la notte  a  un
    miglio da loro e che, se gli avessero dato una scorta di cento uomini,
    lo avrebbe catturato vivo.  Il conte Orlòv-Denissov si consigliò con i
    suoi compagni.  La proposta era troppo allettante per non essere presa
    in considerazione.  Tutti si offrivano di andare,  tutti consigliavano
    di tentare. Dopo molte discussioni e molte considerazioni,  il maggior
    generale  Grekòv  (6)  decise  di  seguire  il  sottufficiale  con due
    reggimenti di cosacchi.
    - Ma ricordati,   -  disse  il  conte  Orlòv-Denissov,  congedando  il
    sottufficiale   -  ricordati che se hai mentito ti farò impiccare come
    un cane; se ci hai detto la verità, avrai cento ducati.
    Il sottufficiale, con aria decisa e senza rispondere, salì a cavallo e
    partì  con  Grekòv  che  si  era  preparato  in  tutta  fretta.   Essi
    scomparvero nel bosco.  Il conte Orlòv,  stringendosi nelle spalle per
    l'aria  fresca  del  mattino  che  spuntava  e  preoccupato   per   la
    responsabilità  che si era assunta,  dopo aver accompagnato Grekòv per
    un  tratto  di  strada,   uscì  dal  bosco  e  si  mise  a   osservare
    l'accampamento  nemico  che si intravedeva ora nella luce nebbiosa del
    mattino che spuntava e dei fuochi che si andavano spegnendo.  A destra
    del conte Orlòv-Denissov, su un pendio scoperto, dovevano comparire le
    nostre  colonne.  Il  conte  Orlòv  teneva  lo sguardo fisso in quella
    direzione ma,  sebbene dovessero esser visibili anche da  lontano,  di
    quelle  colonne  non si scorgeva traccia.  Nell'accampamento francese,
    secondo quanto sembrò  al  conte  Orlòv-Denissov  e,  in  particolare,
    secondo  quanto  disse il suo aiutante,  che aveva una vista da lince,
    cominciava un certo movimento di truppe.
    - Ah, è davvero tardi!  -  esclamò il conte Orlòv, dopo aver osservato
    l'accampamento.  Tutto a un tratto,  come spesso accade dopo  che  una
    persona,  alla  quale abbiamo prestato fede,  non è più sotto i nostri
    occhi,   al  conte  Orlòv  apparve  chiaro  ed   evidente   che   quel
    sottufficiale  era  un  imbroglione,   venuto  soltanto  per  rovinare
    l'operazione  dell'attacco,   sottraendo  con   l'inganno   quei   due
    reggimenti  che  egli avrebbe condotto Dio sa dove.  Era mai possibile
    riuscire a catturare il comandante  in  capo  in  una  tale  massa  di
    truppe?
    - Senza dubbio quel furfante ha mentito!  -  disse il conte.
    -  Si  possono  far  tornare  indietro   -  osservò uno del séguito il
    quale,  come il conte Orlòv,  aveva diffidato di  quell'impresa,  dopo
    aver visto l'accampamento nemico.
    - Davvero? Che dite? Lasciarlo andare oppure no?
    - Ordinate di farlo tornare?
    -  Tornare,  tornare!    -    dichiarò  in tono deciso il conte Orlòv,
    guardando l'orologio.  -  Sarà troppo tardi, è già giorno fatto.
    Un aiutante partì al galoppo verso il bosco  per  raggiungere  Grekòv.
    Quando  Grekòv  fu  di ritorno,  il conte Orlòv-Denissov,  agitato per
    avere  revocato  l'ordine,  per  l'inutile  attesa  delle  colonne  di
    fanteria  che  non  comparivano  ancora  e per la vicinanza del nemico
    (tutti gli uomini del suo  distaccamento  provavano  ciò  che  provava
    lui), decise di attaccare.
    - In sella!  -  comandò a bassa voce. I soldati si disposero in ordine
    e si fecero il segno della croce.
    - Con Dio!
    -  Urrààà!    -    si  udì  echeggiare nel bosco e,  una centuria dopo
    l'altra, come chicchi di grano versati da un sacco,  i cosacchi con la
    lancia  a bilanciarm,  galoppando allegramente attraverso un ruscello,
    si lanciarono verso l'accampamento nemico.
    Un grido disperato e atterrito del primo soldato francese che  vide  i
    cosacchi e tutti gli uomini che erano nell'accampamento, semivestiti e
    sonnacchiosi,  abbandonarono  cannoni,  fucili  e cavalli e si diedero
    alla fuga.
    Se i cosacchi avessero inseguito i nemici, senza badare a quel che era
    dietro e attorno a loro,  avrebbero catturato Murat e tutto ciò che si
    trovava  nell'accampamento.  Questo  volevano i comandanti.  Ma non fu
    possibile smuovere i cosacchi quando ebbero a portata di mano  bottino
    e prigionieri.  Nessuno più dava ascolto agli ordini. Furono catturati
    sul posto  millecinquecento  prigionieri,  trentotto  cannoni,  alcune
    bandiere  e,  ciò che stava più a cuore ai cosacchi,  cavalli,  selle,
    coperte  e  oggetti  di  vario  genere.   Bisognava  sistemare  tutto:
    impadronirsi  dei  prigionieri  e  dei  cannoni,  dividere il bottino,
    gridare e persino venire alle mani.  Di tutto questo si  occuparono  i
    cosacchi.
    I Francesi, non più inseguiti, si riunirono per reparti e si diedero a
    sparare.  Orlòv-Denissov  attendeva  sempre  le  colonne  e non andava
    oltre.
    Nel frattempo, secondo le disposizioni: "die erste Kolonne marschiert"
    eccetera, le colonne di fanteria in ritardo,  comandate da Bennigsen e
    dirette da Toll, avevano iniziato la marcia in ordine perfetto e, come
    sempre  succede,  erano  giunte in un luogo,  ma non in quello che era
    stato loro assegnato. E come anche sempre accade, gli uomini,  partiti
    pieni  di  allegria,   cominciarono  a  fermarsi,  a  levare  voci  di
    malcontento,  a rendersi conto  della  gran  confusione  e  a  tornare
    indietro.  Gli  aiutanti  di campo e i generali arrivavano al galoppo,
    gridavano, si irritavano, litigavano,  dicevano che la direzione presa
    non era assolutamente quella giusta, che erano in ritardo, imprecavano
    contro questo e contro quello e così via,  sino a che, con un gesto di
    rassegnazione, procedettero oltre,  non importava dove...  "In qualche
    posto  arriveremo!".  E  infatti  arrivarono: alcuni dove non dovevano
    andare,  altri sì,  dov'erano aspettati,  ma con tale ritardo che  non
    solo  non  recarono  alcun  vantaggio,  ma giunsero proprio per essere
    presi a fucilate.  Toll,  che in questa battaglia faceva la  parte  di
    Weirother  in quella di Austerlitz,  galoppava coscienziosamente da un
    posto all'altro e ovunque  trovava  tutto  alla  rovescia.  Così,  nel
    bosco,  si  imbatté  nel  corpo di Bagovùt (7) quando era già giorno e
    quando quel corpo già da un pezzo si  sarebbe  dovuto  trovare  con  i
    cosacchi di Orlòv-Denissov.  Amareggiato, sconvolto per l'insuccesso e
    pensando che qualcuno doveva  pur  avere  la  colpa  di  tutta  questa
    faccenda,  Toll  galoppò  sino  al  comandante  del  corpo  e  prese a
    rimproverarlo  severamente,  dichiarandogli  che  meritava  di  essere
    fucilato.  Bagovùt,  un vecchio e calmo generale,  pieno di ardimento,
    anch'egli esasperato da tutte quelle soste,  da quella confusione,  da
    quei  continui  ordini contraddittori,  fu colto,  con gran stupore di
    tutti,  da una crisi di furore,  cosa assolutamente contraria  al  suo
    carattere, e disse a Toll molte cose sgradevoli.
    -  Non  intendo  ricevere lezioni da nessuno,  ma so morire con i miei
    soldati non meno di un altro  -  dichiarò e,  con una sola  divisione,
    andò avanti.
    Uscendo  in  campo  scoperto,  sotto le fucilate nemiche,  l'agitato e
    ardito Bagovùt,  senza riflettere se la sua entrata in azione fosse in
    quel  momento e con una sola divisione più o meno utile,  andò avanti,
    conducendo le sue truppe sotto il fuoco.  Il pericolo,  le granate,  i
    proiettili  erano appunto ciò di cui aveva bisogno nelle condizioni di
    furore violento in cui si  trovava.  Una  delle  prime  pallottole  lo
    uccise,  e quelle che seguirono uccisero molti dei suoi soldati.  E la
    sua divisione rimase per molto tempo  sotto  il  fuoco  nemico,  senza
    utilità alcuna.


    CAPITOLO 7.

    Intanto  un'altra colonna doveva attaccare di fronte i Francesi ma con
    quella  colonna  c'era  Kutuzòv.  Egli  sapeva  benissimo  che  quella
    battaglia,  iniziata  contro  la  sua volontà,  non avrebbe dato altro
    risultato che confusione e,  per quanto era in suo potere,  tratteneva
    le truppe. Non si muoveva.
    Kutuzòv,  in  sella  al  suo  cavallino grigio,  procedeva in silenzio
    rispondendo con indolenza alle proposte di attaccare.
    - Voi avete sempre in bocca la parola "attaccare" ma  non  vi  rendete
    conto  che  noi  non  sappiamo  fare  manovre  complicate   -  disse a
    Miloràdovic', che gli chiedeva di andare avanti.
    - Stamattina non siete stati capaci  di  catturare  vivo  Murat  e  di
    arrivare  sul  posto  in  tempo:  ormai non c'è più niente da fare!  -
    rispondeva ad un altro.
    Quando gli fu riferito  che  alle  spalle  dei  Francesi,  dove  prima
    secondo  le informazioni dei cosacchi non c'era nessuno,  si trovavano
    ora due battaglioni di polacchi,  egli diede un'occhiata di  sbieco  a
    Ermolov che gli stava alle spalle e al quale,  sin dalla sera innanzi,
    non rivolgeva la parola.
    - Ecco, chiedono l'offensiva, propongono piani su piani ma, non appena
    si deve attaccare,  non c'è nulla di pronto e il nemico prende le  sue
    misure.
    Nell'ascoltare  queste parole,  Ermolov strizzò gli occhi e un leggero
    sorriso gli sfiorò le labbra. Aveva capito che per lui la burrasca era
    passata e che Kutuzòv si sarebbe limitato a quell'allusione.
    - E' alle mie spalle che si diverte  -  disse piano  Ermolov,  urtando
    con il gomito Raevskij che gli stava vicino.
    Poco   dopo  Ermolov  si  presentò  davanti  a  Kutuzòv  e  gli  disse
    rispettosamente:
    - Siamo ancora in tempo, altezza serenissima, ad attaccare.  Il nemico
    non si è ancora ritirato. Volete dare l'ordine?
    Kutuzòv non rispose,  ma quando gli fu riferito che le truppe di Murat
    si ritiravano,  ordinò l'avanzata;  ma ogni cento passi si fermava tre
    quarti d'ora.
    Tutta  la  battaglia  si ridusse a ciò che avevano fatto i cosacchi di
    Orlòv-Denissov;   le  altre  truppe  perdettero   inutilmente   alcune
    centinaia di uomini.
    In  seguito  a questa battaglia,  Kutuzòv ricevette una decorazione di
    brillanti;  anche Bennigsen ebbe i  brillanti  e,  in  più,  centomila
    rubli;  gli  altri,  a  seconda  del  grado,  ebbero  anch'essi  molte
    ricompense gradite,  e dopo quella  battaglia  si  verificarono  nuovi
    mutamenti nello stato maggiore.
    -  Ecco  come  da  noi  si  fanno  le  cose: sempre alla rovescia!   -
    dicevano gli ufficiali  e  i  generali  russi  dopo  la  battaglia  di
    Tarùtino,  proprio  come dicono anche oggigiorno,  lasciando intendere
    che "in alto" qualche stupido fa le cose così,  alla rovescia,  mentre
    "noi avremmo agito altrimenti".  Ma gli uomini che parlano in tal modo
    o non conoscono i fatti di cui parlano o ingannano deliberatamente  se
    stessi.  Ogni battaglia  -  di Tarùtino,  di Borodinò di Austerlitz  -
    non si  svolge  mai  com'è  stata  preveduta  da  coloro  che  l'hanno
    predisposta. Questa è una condizione essenziale.
    Una  quantità innumerevole di forze libere (giacché mai un uomo è così
    libero come durante una battaglia, dove per lui si tratta di vita o di
    morte) influisce sullo sviluppo del combattimento,  combattimento  che
    non  può  mai  essere  conosciuto  prima  e  che  mai  coincide con la
    direzione di una forza unica.
    Se molte forze dirette contemporaneamente e in modo  diverso  agiscono
    su  un  corpo  qualsiasi,  la direzione del moto di quel corpo non può
    coincidere con nessuna di tali forze,  ma sarà  sempre  una  direzione
    intermedia, la direzione più breve, quella che in meccanica si esprime
    con la diagonale del parallelogramma delle forze.
    Se  nelle descrizioni degli storici e,  in particolare,  degli storici
    francesi,  noi leggiamo che la  guerra  e  le  battaglie  si  svolgono
    secondo  un  piano prestabilito,  l'unica conclusione che noi possiamo
    trarre da questa affermazione è  che  le  loro  descrizioni  non  sono
    esatte.
    La  battaglia  di  Tarùtino  non  raggiunse evidentemente lo scopo cui
    aveva mirato Toll  -   condurre  ordinatamente  le  truppe  all'azione
    secondo  i piani prestabiliti  -  e neanche quello che poteva avere il
    conte Orlòv  -  catturare vivo Murat    -    e  neppure  lo  scopo  di
    distruggere  immediatamente  un intero corpo d'armata,  quale potevano
    avere Bennigsen e altri; oppure, ancora,  lo scopo degli ufficiali che
    desideravano prender parte all'azione per distinguersi, o quello di un
    cosacco  che avrebbe voluto impadronirsi di un bottino più cospicuo di
    quello che era riuscito ad avere e così di seguito. Ma se lo scopo era
    quello effettivamente raggiunto, comune allora a tutti i Russi,  ossia
    la  cacciata  dei  Francesi  dalla  Russia  e  la distruzione del loro
    esercito, allora apparirà chiaro che la battaglia di Tarùtino, proprio
    per la sua incongruenza,  fu ciò che occorreva in quel  periodo  della
    campagna.  E'  difficile  e  impossibile  immaginare un altro esito di
    quella battaglia più conforme allo scopo di quello che  ebbe.  Con  un
    minimo   sforzo,   in   una   confusione  incredibile  e  con  perdite
    insignificanti,  furono raggiunti i  risultati  più  considerevoli  di
    tutta la campagna, si compì il passaggio dalla ritirata all'offensiva,
    fu  resa  evidente  la  debolezza dei Francesi e fu data la spinta che
    l'esercito di Napoleone attendeva per iniziare la fuga.


    CAPITOLO 8.

    Napoleone entra in Mosca dopo la brillante vittoria "de  la  Moskowa";
    sulla  vittoria  non  possono  esistere  dubbi,  giacché  il  campo di
    battaglia rimane all'esercito francese.  I soldati russi si ritirano e
    abbandonano  la  capitale.  Mosca,  piena  di provviste,  di armi,  di
    munizioni, di ricchezze incalcolabili, rimane nelle mani di Napoleone.
    L'armata russa, due volte più debole di quella francese, durante tutto
    un mese non fa alcun tentativo di attacco.  La situazione di Napoleone
    è  delle  più  brillanti.  Per  piombare con forze duplicate sui resti
    dell'esercito russo e annientarlo,  per trattare una pace  vantaggiosa
    o, in caso di rifiuto, per fare un movimento minaccioso su Pietroburgo
    e  persino,  in  caso  di insuccesso,  ritornare a Smolènsk o a Vilna,
    oppure per rimanere a Mosca,  per  mantenere,  insomma,  la  brillante
    situazione in cui si trovava in quel momento l'esercito francese,  non
    occorreva,  si  direbbe,  un  particolare  tratto  di  genio.  Bastava
    compiere  la cosa più semplice e più facile: non permettere ai soldati
    di abbandonarsi al saccheggio,  preparare gli indumenti  invernali  di
    cui  a  Mosca non si sarebbe trovata la quantità sufficiente per tutto
    l'esercito e accumulare con buon senso le provviste di viveri  che  si
    trovavano nella capitale e che (secondo le testimonianze degli storici
    francesi) potevano bastare per sei mesi a tutto l'esercito. Napoleone,
    il genio dei geni,  l'uomo che, a detta degli storici, aveva il potere
    di comandare l'esercito, non fece nulla di tutto questo.
    Non soltanto non fece nulla di tutto questo,  ma si servì,  anzi,  del
    suo potere, per scegliere tra tutte le strade che si aprivano alle sue
    forme  di attività,  la più stupida e la più dannosa di tutte.  Tra le
    cose che Napoleone avrebbe potuto fare: svernare  a  Mosca,  andare  a
    Pietroburgo, marciare su Niznij-Nòvgorod, indietreggiare, più a nord o
    più a sud,  per quella via che poi percorse Kutuzòv; nessuna decisione
    tra quelle che Napoleone avrebbe potuto prendere, fu più sciocca e più
    dannosa di quella che egli scelse,  ossia di  rimanere  a  Mosca  sino
    all'ottobre,  permettendo  ai soldati il saccheggio della città;  poi,
    incerto se lasciarvi o no  una  guarnigione,  uscire  dalla  capitale,
    avvicinarsi  a Kutuzòv senza attaccare battaglia,  proseguire a destra
    sino a raggiungere Malo-Jaròslavetz,  e,  senza tentare di aprirsi  un
    varco,  non  seguire  la  strada  presa da Kutuzòv,  ma retrocedere su
    Mozaisk per la via devastata di Smolènsk: nulla si  poteva  immaginare
    di più stupido e di più rovinoso per l'esercito,  come dimostrarono le
    conseguenze.   Provino  i  più  abili  strateghi  a  escogitare      -
    immaginando  che  lo scopo di Napoleone fosse quello di portare il suo
    esercito alla rovina  -    provino  a  escogitare  un'altra  serie  di
    azioni,  con  la  medesima  certezza  e  indipendentemente  da ciò che
    avrebbe  potuto  intraprendere  l'esercito  russo,  che  potesse  così
    completamente  condurre  alla  rovina  l'esercito  francese  meglio di
    quanto fece Napoleone.
    Questo fece il geniale Napoleone.  Ma il dire che Napoleone portò alla
    rovina  il  suo  esercito  perché lo volle o perché era molto sciocco,
    sarebbe ingiusto quanto l'affermare  che  Napoleone  condusse  il  suo
    esercito  a  Mosca  perché  lo volle o perché era molto intelligente e
    geniale.
    Nell'uno e nell'altro caso la sua azione personale,  che non aveva più
    efficacia  di quanto non ne avesse quella di ogni soldato,  coincideva
    soltanto con quelle leggi secondo le quali il fenomeno si compiva.
    In modo  completamente  falso  (soltanto  perché  le  conseguenze  non
    giustificarono  l'opera  di  Napoleone)  gli  storici ci rappresentano
    indebolite le forze di Napoleone a Mosca. Egli, così come prima e così
    come in seguito nel 1813,  usò tutte le proprie  forze  e  il  proprio
    ingegno  per  agire  per  il  meglio  a vantaggio suo e dell'esercito.
    L'attività di Napoleone in questo periodo non è meno  stupefacente  di
    quanto lo sia stata in Egitto, in Italia, in Austria e in Prussia. Noi
    non sappiamo con certezza sino a che punto sia giunta la geniale opera
    di  Napoleone  in  Egitto,  dove  quaranta secoli contemplavano la sua
    grandezza,  giacché quelle gloriose imprese ci  sono  state  descritte
    soltanto  da  scrittori  francesi.  E  non siamo in grado di giudicare
    esattamente  del  suo  genio  in  Austria  e  in  Prussia  giacché  le
    informazioni  sulla  sua  attività in quei paesi le possiamo attingere
    soltanto da fonti francesi  e  tedesche;  e  l'inconcepibile  resa  di
    interi corpi d'armata senza combattere, di fortezze senza assedi, deve
    far  propendere i Tedeschi a riconoscere la sua genialità come l'unica
    spiegazione alla guerra che fu condotta in Germania. Ma noi,  grazie a
    Dio,  non  abbiamo  alcun  motivo  di riconoscere la sua genialità per
    nascondere la nostra vergogna.  Abbiamo pagato per avere il diritto di
    guardare  le  cose in faccia e con semplicità,  e a questo diritto non
    rinunziamo.
    L'attività di Napoleone  a  Mosca  fu  sorprendente  e  geniale,  come
    dovunque.  Dal  giorno  del  suo ingresso nella capitale sino a quello
    della sua uscita dalla città è un susseguirsi senza posa di  ordini  e
    di piani.  L'assenza degli abitanti,  la mancanza di una deputazione e
    lo stesso incendio della vecchia capitale non  lo  turbano.  Egli  non
    perde di vista né il bene del suo esercito, né le mosse del nemico, né
    il  bene  delle  popolazioni  russe,  né  la direzione degli affari di
    Parigi,  né le diplomatiche considerazioni sulle future condizioni  di
    pace.


    CAPITOLO 9.

    In  relazione alle operazioni militari subito dopo l'ingresso a Mosca,
    Napoleone impartisce ordini severi al generale Sébastiani  (8)  perché
    osservi i movimenti dell'esercito nemico,  invia corpi di truppa lungo
    diverse strade e ordina a Murat di trovare Kutuzòv.  Poi organizza con
    cura  la  fortificazione del Cremlino,  prepara il piano geniale della
    futura campagna, che comprende tutta la carta della Russia.  Dal punto
    di  vista  diplomatico,  fa  chiamare il capitano medico Jàkovlev (9),
    lacero e privo di tutto,  che non sa  come  andarsene  da  Mosca,  gli
    espone  con  ogni  particolare  la propria politica e i propri intenti
    generosi e,  scritta una lettera  all'imperatore  russo,  nella  quale
    dichiara di ritenere suo dovere comunicare al proprio amico e fratello
    che  Rastopcìn  non  ha saputo dare a Mosca le opportune disposizioni,
    spedisce Jàkovlev a Pietroburgo.  Dopo aver  esposte  con  altrettanta
    minuzia  le proprie vedute e la sua magnanimità al consigliere segreto
    Tutolmin (10) spedisce  anche  questo  vecchietto  a  Pietroburgo  per
    iniziare trattative.
    Nel campo giuridico,  subito dopo gli incendi,  ordina di trovare e di
    giustiziare i colpevoli.  E il malvagio  Rastopcìn  viene  punito  con
    l'ordine che la sua casa sia incendiata.
    Quanto  a  ciò  che si riferisce al lato amministrativo,  viene data a
    Mosca una costituzione;  vi si istituisce una municipalità e si  emana
    il seguente proclama:

    "Abitanti di Mosca!
    "Le  vostre  sventure  sono  crudeli,  ma sua maestà l'imperatore e re
    vuole  che  esse  non  abbiano  seguito.  Terribili  esempi  vi  hanno
    insegnato  in  che modo egli punisca i colpevoli di disobbedienza e di
    delitti.  Sono state prese severe misure per  frenare  i  disordini  e
    ristabilire la sicurezza di tutti. Una paterna amministrazione, scelta
    da  voi tutti,  costituirà la vostra municipalità o governo cittadino.
    Essa  si  prenderà  cura  di  voi,  dei  vostri  bisogni,  dei  vostri
    interessi. I suoi membri avranno come distintivo di riconoscimento una
    sciarpa  rossa  portata  a  tracolla,  e  il  sindaco della città avrà
    inoltre una cintura bianca.  Ma,  tranne le occasioni in cui  dovranno
    espletare  le loro funzioni,  essi porteranno soltanto un nastro rosso
    attorno al braccio sinistro.
    "La  polizia  cittadina  viene   ricostituita   secondo   il   passato
    ordinamento  e,  per  merito della sua attività,  esiste già un ordine
    migliore.  Il governo ha nominato due commissari generali o capi della
    polizia e venti sottocommissari,  distribuiti nei vari quartieri della
    città.  Li riconoscerete dalla fascia bianca che porteranno attorno al
    braccio sinistro.  Alcune chiese di diverse confessioni sono aperte, e
    in esse  vengono  celebrate,  senza  alcun  impedimento,  le  funzioni
    divine.   I  vostri  concittadini  ritornano  ogni  giorno  alle  loro
    abitazioni e sono stati impartiti ordini affinché trovino l'aiuto e la
    protezione dovuti alla sventura.  Questi sono i mezzi che  il  governo
    intende   usare   per  ristabilire  l'ordine  e  alleviare  la  vostra
    situazione, ma per raggiungere lo scopo,  bisogna che collaboriate con
    noi,  che  dimentichiate,  se  è  possibile,  le  sofferenze che avete
    sopportato,  che vi abbandoniate alla speranza di una sorte  non  così
    crudele,  che  siate  sicuri  che una morte inevitabile e disonorevole
    attende coloro che attentassero alle vostre  persone  e  ai  beni  che
    ancora vi rimangono e, infine, che non dubitiate che questi vi saranno
    conservati,  perché  tale è la volontà del più grande e più giusto tra
    tutti i monarchi. Soldati e abitanti di qualsiasi nazione! Ristabilite
    la fiducia pubblica, sorgente della felicità dello stato,  vivete come
    fratelli, aiutatevi e proteggetevi a vicenda, unitevi per rendere vane
    le intenzioni dei malvagi,  obbedite alle autorità militari e civili e
    presto le vostre lacrime cesseranno di scorrere!".

    Per  quanto  riguardava  gli  approvvigionamenti  militari,  Napoleone
    ordinò  che  tutte le truppe venissero a Mosca "à la maraude" [11.  al
    saccheggio]  per  procurarsi  viveri  affinché  l'esercito  avesse   i
    rifornimenti assicurati per il futuro.
    Riguardo  al  problema  religioso,  Napoleone  ordinò  di "ramener les
    popes" [12.  far ritornare i sacerdoti] e di  riprendere  le  funzioni
    nelle chiese.
    Quanto al commercio e agli approvvigionamenti dell'esercito fu affisso
    dovunque il seguente

    PROCLAMA

    "Voi,  pacifici  cittadini di Mosca,  artigiani e operai,  che vicende
    sventurate hanno allontanato dalla città e voi,  agricoltori dispersi,
    che  una  infondata  paura trattiene ancora nei campi,  ascoltate!  La
    tranquillità  ritorna  in  questa  città  e   l'ordine   vi   si   sta
    ristabilendo. I vostri concittadini stanno uscendo coraggiosamente dai
    loro nascondigli,  giacché si rendono conto di essere rispettati. Ogni
    violenza  perpetrata  contro  di  loro  e   le   loro   proprietà,   è
    immediatamente  punita.  Sua  maestà l'imperatore e re li protegge,  e
    nessuno tra voi egli considera nemico,  ad  eccezione  di  coloro  che
    disubbidiscono ai suoi ordini. Egli vuole porre un termine alle vostre
    sventure  e  farvi  ritornare alle vostre case e alle vostre famiglie.
    Rispondete dunque alle sue benevole intenzioni e venite  a  noi  senza
    alcun timore. Abitanti! Ritornate con fiducia alle vostre case: presto
    troverete   la   possibilità  di  soddisfare  ogni  vostra  necessità!
    Artigiani e operai laboriosi!  Tornate ai vostri mestieri;  le  vostre
    case e le vostre botteghe,  custodite da sentinelle,  vi attendono,  e
    per il vostro lavoro riceverete il  dovuto  compenso!  E  infine  voi,
    contadini, uscite dai boschi dove la paura vi ha spinto a nascondervi,
    ritornate  senza  timore  alle vostre "izbè",  con la piena fiducia di
    trovare una difesa.  Sono stati organizzati nella città magazzini,  in
    cui  i contadini possono portare l'eccedenza dei prodotti della terra.
    L'autorità ha preso le seguenti misure per assicurare la libertà della
    vendita: 1) a partire da oggi,  contadini,  agricoltori e  coloro  che
    abitano nei dintorni di Mosca possono,  senza alcun pericolo,  portare
    in città i loro prodotti,  di qualunque genere  essi  siano,  nei  due
    magazzini destinati all'uopo: in via Mochòvaja e all'Ochotnij Rjàd; 2)
    detti  prodotti  saranno  venduti al prezzo concordato tra venditori e
    compratori;  ma se il venditore  non  riceverà  la  somma  giustamente
    pattuita,  sarà  libero  di  riportare  la  merce  al  suo villaggio e
    nessuno, sotto alcun pretesto, glielo potrà impedire; 3) la domenica e
    il mercoledì di ogni settimana sono le giornate fissate per il mercato
    e perciò un notevole contingente di truppe sarà scaglionato il  sabato
    e  il  martedì  lungo  le  strade maestre,  a una certa distanza dalla
    città,  per proteggere i carri che trasportano la merce;  4) identiche
    misure  saranno  adottate affinché i contadini,  i loro carri e i loro
    cavalli non debbano incontrare alcun ostacolo sulla via  del  ritorno;
    5)  saranno  immediatamente  posti  in  opera  tutti  i  mezzi  per il
    ristabilimento dei mercati ordinari.  Abitanti  della  città  e  delle
    campagne  e  voi,  operai  e  artigiani,  di qualunque nazione,  siete
    chiamati a realizzare le paterne intenzioni di sua maestà l'imperatore
    e re e a collaborare con lui per il  bene  comune.  Deponete  ai  suoi
    piedi rispetto e fiducia e non indugiate a unirvi a noi!".

    Allo  scopo  di  rialzare  il  morale  delle  truppe e del popolo,  si
    facevano continue riviste e si distribuivano decorazioni. L'imperatore
    girava a cavallo per le strade e confortava gli abitanti, e nonostante
    le sue preoccupazioni per gli affari di stato,  visitava personalmente
    i teatri istituiti per suo ordine.
    Per  quanto  si riferisce alla beneficenza,  la migliore qualità delle
    teste coronate,  Napoleone fece tutto quanto dipendeva da  lui.  Sugli
    istituti di beneficenza fece scrivere "Maison de ma mère" [13. Casa di
    mia  madre],  riunendo  in  tal  gesto  il suo sentimento di tenerezza
    filiale con l'alta virtù del monarca.  Visitò l'ospizio dei trovatelli
    e offrendo le sue bianche mani al bacio degli orfani,  da lui salvati,
    conversò  amabilmente   con   Tutolmin.   Poi,   secondo   l'eloquente
    esposizione  di Thiers,  fece distribuire alle sue truppe il soldo con
    denaro russo da lui falsificato.  "Relevant l'empoi de ces moyens  par
    un  acte  digne de lui et de l'armée francaise,  il fit distribuer des
    secours aux incendiés. Mais les vivres étaient trop précieux pour être
    donnés à des étrangers la plupart ennemis,  Napoléon aima  mieux  leur
    fournir de l'argent à fin qu'ils se fournissent au dehors,  et il leur
    fit distribuer des roubles papiers" [14.  "Elevando  l'uso  di  questi
    mezzi  con  un  atto  degno  di  lui  e  dell'esercito francese,  fece
    distribuire soccorsi ai colpiti dagli incendi.  Ma,  poiché  i  viveri
    erano  troppo  preziosi  per  essere  distribuiti a stranieri,  per la
    maggior parte nemici, Napoleone preferì dar loro denaro affinché se li
    procurassero essi stessi e fece distribuire rubli di carta"].
    In  quanto  alla  disciplina  dell'esercito,   venivano  continuamente
    emanati ordini,  sia perché fossero severamente punite le inadempienze
    al servizio militare, sia per porre un freno al saccheggio.


    CAPITOLO 10.

    Però, cosa strana, tutti questi ordini, queste preoccupazioni e questi
    piani,  che non erano certo peggiori di altri emanati  in  circostanze
    simili,  non  raggiungevano  la  vera essenza delle cose;  simili alle
    lancette  sul  quadrante  di  un  orologio  separate  dal  meccanismo,
    giravano    arbitrariamente    e    inutilmente,    senza    inserirsi
    nell'ingranaggio delle ruote.
    Dal punto di vista militare, il piano geniale di guerra (di cui Thiers
    dice che: "son génie n'avait jamais rien imaginé de plus  profond,  de
    plus  habile  et  de plus admirable" [15.  "Il suo genio non aveva mai
    ideato nulla di più profondo,  di più abile e di più ammirevole"] e  a
    proposito  del quale,  entrando in polemica con Fain (16) dimostra che
    la stesura di questo piano geniale deve essere spostata non al 4 ma al
    15 ottobre) non fu e non avrebbe mai potuto essere attuato perché  non
    aveva nulla di attinente alla realtà.  Le fortificazioni del Cremlino,
    per le quali occorreva demolire "la Mosquée"  [17.  la  Moschea]  come
    Napoleone   chiamava   la  chiesa  del  beato  Vassilij,   risultarono
    assolutamente inutili.  Le mine collocate sotto il Cremlino  servirono
    soltanto a realizzare il desiderio dell'imperatore di farlo saltare in
    aria alla sua uscita da Mosca,  ossia che fosse picchiato il pavimento
    contro  il  quale  il  bambino  si  è   fatto   male.   L'inseguimento
    dell'esercito  russo,  che  tanto  preoccupava Napoleone,  presentò un
    fenomeno senza precedenti: i comandanti francesi perdettero di vista i
    sessantamila uomini dell'armata russa e soltanto, secondo le parole di
    Thiers,  per l'abilità e pare anche per  la  genialità  di  Murat,  si
    riuscì a trovare,  come uno spillo in un pagliaio,  questo contingente
    russo di sessantamila uomini.
    Per quanto si riferisce ai rapporti diplomatici,  tutti gli  argomenti
    messi  in  campo  da  Napoleone  a dimostrazione della sua giustizia e
    magnanimità,  sia nei confronti  di  Tutolmin  sia  nei  confronti  di
    Jàkovlev  preoccupati sopra ogni cosa della necessità di procurarsi un
    cappotto e una vettura, risultarono inutili: Aleksàndr non ricevette i
    due ambasciatori e non rispose alla loro ambasciata.
    Sotto il punto di vista  giuridico,  dopo  l'esecuzione  dei  presunti
    incendiari, andò a fuoco l'altra metà di Mosca.
    Riguardo al problema amministrativo, l'istituzione di una municipalità
    non  arrestò  il  saccheggio  e non fece che recare vantaggi ad alcune
    persone che facevano parte della municipalità stessa e che,  sotto  il
    pretesto  di  mantenere  l'ordine,  depredarono  Mosca e salvarono dal
    saccheggio i loro beni.
    Per ciò che si riferisce alla religione, la faccenda,  così facilmente
    risolta  in  Egitto  mediante  una visita alla moschea,  non diede qui
    alcun risultato.  Due o  tre  preti,  trovati  a  Mosca,  provarono  a
    realizzare  la  volontà  di  Napoleone,  ma  uno di essi ricevette uno
    schiaffo da un soldato francese, durante una funzione, e dell'altro un
    funzionario francese riferì ciò che segue:  "Le  prêtre,  que  j'avais
    découvert et invité à recommencer à dire la Messe,  a nettoyé et fermé
    l'église.  Cette nuit on est venu  de  nouveau  enfoncer  les  portes,
    casser  les  cadenas,   déchirer  les  livres  et  commettre  d'autres
    désordres" [18.  "Il prete che ero riuscito  a  trovare  e  che  avevo
    invitato  a  riprendere a dire Messa,  ha fatto ripulire e chiudere la
    chiesa.  Questa notte sono venuti di nuovo  a  sfondare  le  porte,  a
    rompere  i  catenacci,  a  strappare  i  libri  e  a  commettere altri
    disordini"].
    Dal punto di vista del commercio, il proclama ai laboriosi artigiani e
    a tutti i contadini non ottenne  risposta.  Non  esistevano  artigiani
    laboriosi, e i contadini pescavano quei commissari che andavano un po'
    troppo lontano con quel proclama e li uccidevano.
    Dal  punto  di  vista dei divertimenti offerti al popolo e alle truppe
    per mezzo dei teatri, la faccenda fu un insuccesso. I teatri istituiti
    al Cremlino e nella casa dei Poznjakòv furono subito chiusi perché gli
    attori e le attrici erano stati derubati.
    Neppure la beneficenza diede i risultati desiderati.  Assegni falsi  e
    non falsi riempivano Mosca e non avevano alcun valore. I Francesi, che
    facevano  bottino,  volevano  soltanto  oro.  Non solo la carta moneta
    falsa, che Napoleone con tanta generosità aveva distribuito ai poveri,
    non aveva valore,  ma l'argento veniva scambiato con  l'oro  a  prezzo
    inferiore al suo reale valore.
    Ma  la  manifestazione più evidente dell'inefficienza degli ordini che
    venivano dall'alto in quel periodo fu il tentativo  di  Napoleone  per
    metter fine ai saccheggi e per ristabilire la disciplina.
    Ecco  che  cosa riferivano i capi dell'esercito: "I saccheggi in città
    continuano, nonostante gli ordini destinati a farli cessare.
    L'ordine non è  ancora  stato  ristabilito  e  non  c'è  mercante  che
    eserciti  il suo commercio secondo legalità.  Soltanto i vivandieri si
    permettono di vendere, ma in questo caso si tratta di roba rubata".
    "La partie de mon arrondissement continue à être en proie  au  pillage
    des  soldats  du  troisième  corps  qui,  non  contents d'arracher aux
    malheureux réfugiés dans ces souterrains le peu qui  leur  reste,  ont
    même  la  férocité  de les blesser à coups de sabre,  comme j'en ai vu
    plusieurs exemples".
    "Rien de nouveau outre que les soldats se permettent de  voler  et  de
    piller. Le 9 octobre".
    "Le  vol  et  le pillage continuent.  Il y a une bande de voleurs dans
    notre district qu'il faudra faire arrêter par de fortes gardes.  Le 11
    octobre"  [19.  "La parte che è nel mio circondario continua ad essere
    in preda al saccheggio dei soldati del terzo corpo che,  non  contenti
    di portar via agli sventurati,  rifugiatisi nei sotterranei, quel poco
    che loro rimane, hanno anche la ferocia di ferirli a sciabolate, fatto
    di cui ho veduto parecchi esempi".
    "Nulla di nuovo,  salvo che i soldati si permettono  di  rubare  e  di
    saccheggiare. Il 9 ottobre".
    "Il  furto  e  il  saccheggio  continuano.  Si è costituita nel nostro
    distretto una banda di ladri che  bisogna  far  arrestare  da  guardie
    robuste. L'11 ottobre"].
    "L'imperatore  è  quanto  mai scontento perché,  nonostante gli ordini
    severi per far cessare il saccheggio,  si  vedono  gruppi  di  predoni
    appartenenti alla Guardia che ritornano al Cremlino. Il saccheggio e i
    disordini nella vecchia Guardia si sono ripetuti, più violenti che mai
    ieri  sera,  durante  la notte e nella giornata odierna.  L'imperatore
    vede con rammarico che i  soldati  scelti  a  salvaguardia  della  sua
    persona,   e   che  sarebbero  obbligati  ad  offrire  un  esempio  di
    obbedienza,  spingono la loro indisciplina al punto di saccheggiare le
    cantine e i depositi preparati per l'esercito. Altri si sono abbassati
    al punto di non obbedire alle sentinelle e agli ufficiali di ronda, di
    insultarli e di percuoterli".
    "Le   grand  maréchal  du  palais  se  plaint  vivement",   scrive  il
    governatore,   "que  malgré  les  défenses  réitérées,   les   soldats
    continuent  à faire leurs besoins dans toutes les cours et même jusque
    sous les fenêtres de l'empereur" [20.  "Il gran cerimoniere di palazzo
    si  lamenta  vivamente che,  nonostante i ripetuti divieti,  i soldati
    continuino a fare i loro bisogni in tutti i cortili e persino sotto le
    finestre dell'imperatore"].
    Quell'esercito,  come un gregge senza  sorveglianza  che  calpesta  il
    campo che avrebbe potuto salvarlo dalla morte per fame, si sfasciava e
    andava in rovina ogni giorno in più che rimaneva Mosca.
    Ma non si moveva.
    Si  mosse  soltanto quando lo colse improvvisamente il panico prodotto
    dalla cattura dei suoi convogli  sulla  strada  di  Smolènsk  e  dalla
    battaglia  di  Tarùtino.  Questa  medesima  notizia  della  battaglia,
    ricevuta inaspettatamente da Napoleone durante una rivista, provocò in
    lui il desiderio di punire i Russi,  come dice Thiers,  ed egli  diede
    l'ordine di avanzare, che tutto l'esercito chiedeva.
    Fuggendo  da Mosca,  gli uomini di questo esercito si portarono via il
    frutto delle loro predazioni.  Anche Napoleone uscì dalla città con il
    suo  personale  "trésor"  [21.  tesoro].  Alla vista dei carriaggi che
    appesantivano l'esercito, Napoleone fu colto dal terrore (così dice il
    Thiers).  Ma con la sua esperienza di guerra,  non ordinò che  fossero
    bruciati  tutti i carri superflui come aveva fatto con i carriaggi del
    maresciallo nell'avvicinarsi a Mosca;  guardò le carrozze e i  calessi
    in  cui  viaggiavano  i suoi soldati e dichiarò che andava bene così e
    che quei veicoli sarebbero serviti per trasportare i feriti.
    La situazione di tutto l'esercito era simile a  quella  di  una  belva
    ferita che si sente perduta e non sa che cosa fare.  Studiare le abili
    manovre e gli scopi di Napoleone e del suo esercito da quando entrò in
    Mosca sino alla distruzione di quell'esercito equivale a  studiare  il
    significato  dei  balzi  e  delle  convulsioni  di un animale ferito a
    morte.  Spesso l'animale ferito,  udendo un fruscio attorno a  sé,  si
    butta verso la schioppettata del cacciatore, corre avanti e indietro e
    affretta  la  propria  fine.  La stessa cosa faceva Napoleone sotto la
    pressione di tutto il suo esercito.  Il  fruscio  della  battaglia  di
    Tarùtino  spaventò  la belva;  egli si slanciò verso la schioppettata,
    corse sino al cacciatore, tornò indietro e infine,  come ogni animale,
    fuggì  per la strada meno agevole e più pericolosa,  seguendo la pista
    che gli era nota.
    Napoleone,  che ci viene rappresentato  come  colui  che  guidò  tutto
    questo  movimento (così come la figura scolpita sulla prua di una nave
    appariva ai selvaggi la forza che la moveva), Napoleone, durante tutto
    quel periodo della sua attività, fu simile al fanciullo che, tenendosi
    alle  cinghie  fissate  nell'interno  di  una  carrozza,  immagina  di
    guidarla.


    CAPITOLO 11.

    La  mattina  del  6  ottobre Pierre uscì dalla baracca,  poi,  tornato
    indietro,  si fermò presso la porta a trastullarsi  con  un  cagnolino
    color  grigio lilla,  dal corpo lungo,  dalle zampe corte e storte che
    gli girava attorno. La bestiola viveva nella baracca, passava la notte
    con Karataev,  ma talvolta se ne andava in città per poi comparire  di
    nuovo.  Forse  non  aveva mai avuto un padrone e anche attualmente non
    apparteneva a nessuno e non aveva nome. I Francesi lo chiamavano Azor,
    un soldato, che amava le fiabe,  lo chiamava Fingalka,  Karataev e gli
    altri lo chiamavano qualche volta Grigio e qualche volta Gingillo.  Il
    fatto di non appartenere a nessuno e di non avere né un nome,  né  una
    razza e neppure un colore ben definito,  pareva non mettere affatto in
    imbarazzo il cagnolino grigio lilla. La morbida coda lanosa si rizzava
    fieramente arcuata,  le zampette storte  funzionavano  così  bene  che
    molto  spesso,  come  se  disdegnasse  la  necessità di usarle tutte e
    quattro, il cagnolino, con un gesto grazioso sollevava una delle zampe
    posteriori e con rapidità e destrezza correva sulle altre tre.  Tutto,
    per la bestiola, era oggetto di divertimento. Ora, abbaiando di gioia,
    si  rotolava per terra,  ora si scaldava al sole con aria pensierosa e
    grave,  ora saltellava giocando con un truciolo o con un  fuscello  di
    paglia.
    L'abbigliamento  di  Pierre  era ormai ridotto a una camicia sudicia e
    lacera, unico resto dei suoi vestiti di qualche tempo innanzi, un paio
    di calzoni da soldato legati alle caviglie con  delle  cordicelle  per
    stare più caldo,  secondo il consiglio di Karataev, un caffettano e un
    berretto da  contadino.  In  quel  periodo  Pierre  era  molto  mutato
    fisicamente.  Non  sembrava  più  grande  e  grosso  pur avendo ancora
    quell'aspetto robusto e forte, ereditario della sua stirpe; la barba e
    i baffi gli coprivano la parte inferiore del volto; i capelli lunghi e
    arruffati, pieni di pidocchi,  gli si arricciavano sulla testa come un
    berretto.  L'espressione  degli  occhi  era  calma,  decisa  e vivace,
    espressione che lo  sguardo  di  Pierre  non  aveva  mai  avuto.  Alla
    stanchezza  di una volta,  che appariva anche dal suo sguardo,  si era
    sostituita una  concentrazione  energica,  pronta  all'azione  e  alla
    resistenza. Aveva i piedi nudi.
    Quella  mattina  Pierre  stava  guardando  ora in basso verso il campo
    popolato a quell'ora di carri e di  uomini  a  cavallo,  ora  lontano,
    oltre  il  fiume,  ora il cagnolino che fingeva di volerlo mordere sul
    serio, ora i piedi nudi che posava con piacere sul terreno, movendo le
    grosse dita sporche di fango.  E ogni volta  che  guardava  quei  suoi
    piedi  scalzi,  un  sorriso  soddisfatto  gli  illuminava il viso.  Il
    vedersi scalzo così gli  ricordava  tutto  ciò  che  aveva  provato  e
    compreso in quel periodo, e quei ricordi gli erano graditi.
    Già  da  alcuni giorni il tempo era mite,  sereno,  con leggere gelate
    notturne: era la cosiddetta estate di san Martino.
    Fuori,  al sole,  l'aria era tiepida,  e quel tepore,  mescolandosi al
    fresco  pungente  del  gelo mattutino che si avvertiva nell'aria,  era
    particolarmente gradevole.
    Su tutto, sulle cose lontane come su quelle vicine, era diffusa quella
    magica,  cristallina lucentezza che si nota soltanto in  quel  periodo
    dell'autunno.  In lontananza si vedevano le colline dei Passeri con il
    villaggio, la chiesa e una grande casa bianca.  E gli alberi nudi,  la
    sabbia,  le pietre,  i tetti delle case, la guglia verde della chiesa,
    gli spigoli del lontano edificio bianco,  si disegnavano con una quasi
    innaturale  e straordinaria limpidezza di linee nell'aria trasparente.
    Più vicino si scorgevano le note rovine di una  casa  padronale  mezzo
    incendiata e occupata dai soldati francesi,  con i suoi cespugli verde
    cupo di lilla,  che crescevano lungo il muro di  cinta.  Anche  quella
    casa  bruciacchiata e rovinata,  che sotto il cielo grigio appariva di
    una  bruttezza  ripugnante,  nel  luminoso,   immobile  splendore  del
    mattino, appariva di una imponente bellezza.
    Un caporale francese, con la giacca sbottonata, in berretto, e con una
    corta  pipa  tra  i  denti,  uscì  da dietro l'angolo della baracca e,
    ammiccando amichevolmente, si avvicinò a Pierre.
    - "Quel soleil,  hein,  Monsieur Kirìl?"  -  (così  tutti  i  francesi
    chiamavano Pierre).   -  "On dirait le printemps" [22.  Che sole,  eh,
    signor Kirìll?  Sembra primavera!]  -  Il caporale  si  appoggiò  alla
    porta  e  offrì  la pipa a Pierre,  sebbene ad ogni sua offerta Pierre
    rispondesse con un rifiuto.
    - "Si l'on marchait  par  un  temps  comme  celui-là..."  [23.  Se  si
    marciasse con un tempo simile...]  -  prese a dire.
    Pierre  lo interrogò sulle voci che correvano a proposito della marcia
    imminente e il caporale gli disse che quasi tutto  l'esercito  si  era
    già  mosso  e  che  quel giorno stesso sarebbe giunto l'ordine circa i
    prigionieri.  Nella  baracca  dove  stava  Pierre,  uno  dei  soldati,
    Sokolòv,  era  in  punto  di  morte,  e  Pierre  disse al caporale che
    bisognava provvedere a quel poveretto.  Il caporale assicurò Pierre di
    stare  tranquillo,  che  c'erano  un  ospedale  da campo e un ospedale
    mobile,  che si sarebbe provveduto ai malati e  che,  in  generale,  i
    superiori prevedevano tutto ciò che poteva accadere.
    - "Et puis, Monsieur Kirìl, vous n'avez qu'à dire un mot au capitaine,
    vous savez.  Oh, c'est un qui n'oublie jamais rien. Dites au capitaine
    quand il fera sa tournée,  il fera tout  pour  vous..."  [24.  E  poi,
    signor  Kirìll,  non  avete  che  da  dire una parola al capitano,  lo
    sapete. E' un uomo, quello,  che non dimentica mai niente.  Diteglielo
    quando farà la ronda; per voi farà qualsiasi cosa...].
    Il  capitano,  di  cui  parlava il caporale,  spesso si intratteneva a
    lungo a discorrere con Pierre e gli dimostrava molta benevolenza.
    - "Vois-tu, Saint-Thomas, qu'il me disait l'autre jour: Kirìl c'est un
    homme qui a de l'instruction,  qui parle francais,  c'est un  seigneur
    russe,  qui a eu des malheurs,  mais c'est un homme.  Et il s'y entend
    le...  S'il demande quelque chose,  qu'il me dise,  il n'y  a  pas  de
    refus.  Quand on a fait ses études,  voyez-vous, on aime l'instruction
    et les gens comme il faut. C'est pour vous, que je dis cela,  Monsieur
    Kirìl.  Dans l'affaire de l'autre jour si ce n'était grâce à vous,  ca
    aurait fini mal" [25.  Vedi,  Saint Thomas,  mi diceva l'altro giorno,
    Kirìll è un uomo istruito,  che parla francese; è un signore russo che
    ha avuto delle disgrazie, ma è un vero uomo.  E sa il fatto suo...  Se
    desidera qualcosa, me lo dica, e io non rifiuto. Quando si è studiato,
    vedete, si ama l'istruzione e si amano le persone come si deve. E' per
    voi che ve lo dico,  signor Kirìll.  La faccenda dell'altro giorno, se
    non era per voi. sarebbe finita male].
    E, dopo aver chiacchierato ancora un po',  il caporale se ne andò.  La
    questione  accaduta  "l'altro  giorno",  della  quale aveva parlato il
    caporale,  era stata una zuffa tra  prigionieri  e  soldati  francesi,
    durante la quale Pierre era riuscito a calmare i suoi compagni. Alcuni
    di essi avevano visto che Pierre aveva parlato a lungo con il caporale
    e  subito  presero  a  chiedere  che cosa avesse detto.  Mentre Pierre
    riferiva loro le notizie avute dal caporale sulla marcia imminente, si
    avvicinò  alla  porta  della  baracca  un  soldato   francese   magro,
    giallognolo,  lacero;  portando con gesto rapido e timido le dita alla
    fronte in segno di saluto si rivolse a  Pierre  e  gli  chiese  se  in
    quella baracca si trovasse un certo Platoche, al quale egli aveva dato
    da cucire una camicia.
    Una settimana prima i soldati francesi avevano avuto una distribuzione
    di  cuoio  e  di  tela,  che  essi  avevano dato ai prigionieri perché
    confezionassero scarpe e camicie.
    - E' pronta, è pronta,  falchetto!   -  disse Karataev,  uscendo dalla
    baracca e portando la camicia accuratamente piegata
    Karataev,  a  causa  del  caldo  e  per comodità di lavoro,  indossava
    soltanto pantaloni e una camicia lacera,  nera come la terra.  Aveva i
    capelli  legati con una striscia di tiglio,  come usano gli artigiani,
    cosicché  la  sua  faccia  tonda  sembrava  ancora  più  tonda  e  più
    simpatica.
    -  I  patti vanno mantenuti: avevo detto per venerdì ed ecco che oggi,
    venerdì,  è pronta  -  diceva  Platòn,  sorridendo  e  dispiegando  la
    camicia che aveva cucito.
    Il  soldato  francese  si guardò attorno inquieto e,  come vincendo un
    dubbio, si tolse in fretta l'uniforme e infilò la camicia nuova. Sotto
    l'uniforme non aveva nulla,  e il suo corpo nudo,  magro e giallastro,
    era  coperto  da  un  sudicio  panciotto  di seta a fiorellini.  Egli,
    temendo evidentemente che i prigionieri  che  lo  stavano  a  guardare
    ridessero di lui, infilò in fretta la testa nella camicia. Nessuno dei
    prigionieri aprì bocca.
    -  Va proprio a pennello  -  ripeteva Platòn,  tirando giù la camicia.
    Il soldato, dopo aver infilato la testa e le braccia,  senza alzar gli
    occhi, guardava la camicia, osservandone attentamente le cuciture.
    -  Sai,  falchetto,  questo  non è un laboratorio di sartoria e non ci
    sono gli arnesi necessari.  E si usa dire che senza  attrezzi  non  si
    schiaccia  neppure  un  pidocchio  -  prosegui Platòn,  con un sorriso
    rotondo, soddisfatto evidentemente del proprio lavoro.
    - "C'est bien, c'est bien, merci, mais vous devez avoir de la toile de
    reste" [26.  Va bene,  va bene,  grazie,  ma dovete avere ancora della
    tela d'avanzo]  -  disse il francese.
    -  Andrà  ancora  meglio quando la metterai sul corpo nudo  -  osservò
    Karataev, sempre più soddisfatto del suo operato.   -  Più la porterai
    e più te la sentirai comoda.
    -  "Merci,  merci,  mon  vieux,  le  reste..."    -  ripeté il soldato
    sorridendo e, tirata fuori una banconota, la porse a Karataev. - "Mais
    le reste?"
    Pierre vedeva che Platòn non voleva capire ciò che l'altro  diceva  e,
    senza intromettersi nel loro discorso, li guardava. Karataev ringraziò
    per  il  denaro  e  continuò  ad  ammirare  il suo lavoro.  Il soldato
    insisteva per avere i ritagli della tela e pregò  Pierre  di  tradurre
    quello che diceva.
    - Ma che se ne fa dei ritagli?  -  domandò Karataev.  -  Mi verrebbero
    fuori delle magnifiche fasce da piedi. Be', che Iddio lo benedica!
    E  Karataev,  con un viso completamente mutato e fattosi triste,  tirò
    fuori un rotolino di ritagli e,  senza guardare in  viso  il  soldato,
    glielo porse.
    - Pazienza!  -  mormorò e rientrò nella baracca.
    Il soldato guardò la tela,  rifletté un momento e poi rivolse a Pierre
    un'occhiata interrogativa. Lo sguardo di Pierre parve dirgli qualcosa.
    - "Platoche,  dites donc,  Platoche"  -  gridò tutto a  un  tratto  il
    soldato,  facendosi  rosso.   -  "Gardez pour vous..." [27.  Platoche,
    sentite,  Platoche,  tenetela per voi...]  -    aggiunse,  porgendo  a
    Karataev i ritagli. Poi se ne andò.
    -  Ecco,  vedi  un  po'...   -  disse Karataev,  scotendo il capo.   -
    Dicono che sono miscredenti,  ma un'anima ce  l'hanno  anche  loro.  I
    nostri  vecchi  dicevano:  la mano sudata è cedevole,  quella asciutta
    stringe... Quello, nudo com'è, me li ha tuttavia dati.
    Karataev, sorridendo pensoso e guardando i ritagli,  rimase silenzioso
    per un po'.
    - Ma le fasce,  amico, riusciranno una meraviglia!  -  disse e rientrò
    nella baracca.


    CAPITOLO 12.

    Quattro settimane erano passate  da  quando  Pierre  era  stato  fatto
    prigioniero.  Benché  i  Francesi gli avessero proposto di trasferirlo
    dalla baracca dei soldati a quella degli ufficiali,  egli era  rimasto
    in quella in cui l'avevano condotto il primo giorno.
    In Mosca saccheggiata e incendiata,  Pierre era quasi giunto ai limiti
    estremi delle privazioni che un uomo può sopportare;  ma,  grazie alla
    sua robusta costituzione, alla sua ottima salute, che sino allora egli
    non si era reso conto di possedere e,  in particolare, grazie al fatto
    che quelle privazioni erano  avvenute  tanto  insensibilmente  da  non
    poter  dire  quando  fossero  cominciate,  egli  sopportava la propria
    condizione non solo senza soffrire, ma quasi lietamente.  E fu proprio
    in  quel  tempo che conseguì quella serenità e quella soddisfazione di
    se stesso cui prima aveva aspirato invano.  Nel corso della  sua  vita
    aveva,  a  lungo  e in diverse direzioni,  cercato quella calma,  quel
    completo accordo con se stesso,  proprio ciò che l'aveva tanto colpito
    nei  soldati durante la battaglia di Borodinò;  lo aveva cercato nella
    filantropia,  nella massoneria,  negli svaghi della vita mondana,  nel
    vino,  in  un  atto  eroico  di  abnegazione,  nel romantico amore per
    Natascia;  l'aveva cercato attraverso il pensiero,  ma  tutte  le  sue
    ricerche  e  i suoi tentativi gli avevano dato soltanto delusioni.  E,
    senza che più ci pensasse,  aveva trovato quella quiete e quella  pace
    con  se stesso soltanto attraverso il terrore della morte,  attraverso
    le privazioni e attraverso ciò che egli aveva sentito in Karataev.
    I  tremendi  minuti,   trascorsi  durante  le   esecuzioni   capitali,
    sembravano  aver  cancellato  per sempre dalla sua mente i ricordi e i
    sentimenti che prima aveva ritenuto molto importanti.  Non pensava più
    né alla Russia,  né alla guerra, né alla politica, né a Napoleone. Gli
    appariva evidente che tutto ciò non lo riguardava, sentiva che non era
    chiamato a giudicarne e che perciò non poteva farlo.  "Tra la Russia e
    l'estate  non  c'è  alcun  accordo",  diceva,  ripetendo  le parole di
    Karataev,  parole che  avevano  lo  strano  potere  di  calmarlo.  Gli
    parevano  ora inconcepibili e persino buffi tanto la sua intenzione di
    uccidere Napoleone quanto i suoi  calcoli  sul  numero  cabalistico  e
    sulla  bestia  dell'Apocalisse.  Il  suo  sdegno contro la moglie e il
    timore che il suo nome fosse trascinato nel fango gli parevano ora non
    soltanto insignificanti, ma persino divertenti. Che poteva importargli
    che quella moglie conducesse, laggiù, la vita che più le piaceva?  E a
    chi  poteva  importare    -    e  soprattutto a lui  -  che i Francesi
    sapessero o non sapessero che il nome del loro prigioniero  era  conte
    Bezuchov?
    Sovente  adesso  si  ricordava della sua conversazione con il principe
    Andréj e si sentiva pienamente d'accordo con lui pur comprendendone in
    modo un po' diverso il pensiero.  Il principe Andréj pensava e  diceva
    che  esiste  soltanto  la  felicità  negativa,  ma  lo  diceva con una
    sfumatura di amarezza e di ironia.  Dava l'impressione  che  nel  dire
    questo  esprimesse un altro pensiero,  che cioè tutte le aspirazioni a
    una felicità positiva sono insite in noi soltanto  per  tormentarci  e
    non  per  soddisfarci.   Ma  Pierre,  senza  alcuna  riserva  mentale,
    riconosceva la giustezza di questa opinione. L'assenza del dolore,  il
    soddisfacimento   dei   bisogni  e  la  libertà  nello  scegliersi  le
    occupazioni,  cioè la raffigurazione  della  vita,  apparivano  ora  a
    Pierre come la più certa e più alta felicità dell'uomo.  Ora soltanto,
    in prigionia,  per la prima volta Pierre aveva compreso il piacere  di
    mangiare  quando  si  ha fame,  di bere quando si ha sete,  di dormire
    quando se ne ha voglia,  di riscaldarsi quando fa freddo,  di  parlare
    con  un  uomo  quando si ha il desiderio di parlare o di ascoltare una
    voce umana. Il soddisfacimento dei bisogni, un buon cibo,  la pulizia,
    la  libertà,  sembravano  a Pierre,  che era privo di queste cose,  la
    felicità assoluta;  e la scelta di un'occupazione,  cioè la vita,  gli
    pareva,  ora  che  questa scelta era per lui tanto limitata,  una cosa
    così facile da fargli dimenticare  che  il  superfluo  delle  comodità
    annulla la gioia che proviene dal soddisfacimento dei bisogni e che la
    grande  libertà  nello  scegliersi le occupazioni,  quella libertà che
    nella vita gli era stata procurata dall'istruzione,  dalla  ricchezza,
    dalla condizione sociale,  sia appunto quella che rende difficilissima
    la scelta stessa e annulla persino il bisogno e la possibilità di  una
    occupazione.
    Tutti  i  sogni  di  Pierre  erano ora rivolti al tempo in cui sarebbe
    tornato libero. Eppure in seguito e per tutto il resto della sua vita,
    Pierre si ricordò e parlò  sempre  con  entusiasmo  di  quel  mese  di
    prigionia,  di  quelle  sensazioni  irritrovabili,  forti e allegre e,
    soprattutto,   della  completa  tranquillità  d'animo,   dell'assoluta
    libertà interiore che egli aveva conosciuto soltanto in quel tempo.
    Quando,  il primo giorno,  alzatosi di buon mattino,  era uscito dalla
    baracca e aveva visto per prima cosa le cupole scure e  le  croci  del
    monastero  di  Novodévice,  quando  aveva  veduto la rugiada sull'erba
    polverosa,  le cime delle Colline dei  Passeri  e  le  sponde  boscose
    declinanti   dolcemente  verso  il  fiume  che  si  perdevano  in  una
    lontananza violacea, quando aveva sentito il contatto dell'aria fresca
    e aveva udito i gridi dei gracchi che,  venendo da Mosca,  passavano a
    volo  sui campi,  e quando poi,  a oriente,  era comparsa la luce e il
    sole si era maestosamente levato da dietro una nuvola,  e le cupole  e
    le  croci  e  la  rugiada  e  il fiume e la lontananza erano tutto una
    sfavillio di luce gioiosa,  Pierre aveva provato un sentimento  nuovo,
    ancora ignoto, di gioia e di forza vitale.
    Questo  sentimento  non solo non lo abbandonò per tutto il tempo della
    prigionia,  ma si accrebbe in lui a mano a mano che si  moltiplicavano
    le difficoltà della condizione in cui si trovava.
    Questa   sensazione   di  essere  pronto  a  tutto  e  di  un  intenso
    raccoglimento morale era sostenuta dall'alta considerazione che,  poco
    dopo il suo ingresso nella baracca,  i suoi compagni avevano concepito
    per lui. Pierre,  per la sua conoscenza delle lingue,  per il rispetto
    che i Francesi gli dimostravano,  per la semplicità con cui dava tutto
    ciò che gli veniva chiesto (come  ufficiale  riceveva  tre  rubli  per
    settimana),  per  la  forza  di  cui  aveva  dato  prova  ai  compagni
    conficcando chiodi nella parete della baracca,  per  la  cortesia  che
    dimostrava  verso  gli  altri  prigionieri,  per la capacità,  ad essi
    incomprensibile,  di rimanere immobile a  pensare,  senza  far  nulla,
    appariva  come un essere un po' misterioso e superiore.  Quelle stesse
    qualità che nel mondo in cui  viveva  prima  gli  riuscivano,  se  non
    dannose,  certo imbarazzanti  -  la sua forza, la sua indifferenza per
    le comodità della vita, la sua distrazione,  la sua semplicità  -  là,
    tra  quegli uomini,  lo rendevano quasi un eroe.  E Pierre sentiva che
    l'opinione che i compagni avevano di lui gli imponeva dei doveri.


    CAPITOLO 13.

    Nella notte dal 6 al 7 ottobre ebbe inizio il  movimento  di  ritirata
    dalle  truppe  francesi  da  Mosca:  si  distruggevano  le cucine e le
    baracche, si caricavano i carri, e i soldati e i convogli si mettevano
    in moto.
    Alle sette del mattino una scorta francese in assetto di  marcia,  con
    berretti, fucili, zaini, enormi sacchi, stava dinanzi alle baracche, e
    un animato chiacchierio francese,  inframmezzato da improperi, correva
    lungo tutta la linea.
    Nella baracca tutti erano pronti,  vestiti,  calzati,  con le  cinture
    allacciate,  e  attendevano soltanto l'ordine di uscire.  Sokolòv,  il
    soldato ammalato,  pallido,  scarno,  con le occhiaie violacee,  solo,
    scalzo e semivestito,  sedeva al suo posto e con gli occhi che, per la
    magrezza, parevano uscirgli dalle orbite, interrogava con lo sguardo i
    compagni che non gli prestavano alcuna attenzione,  ed emetteva gemiti
    regolari  e  sommessi.  Si  capiva che non tanto la sofferenza  -  era
    malato di dissenteria-  quanto la paura di  rimanere  solo  lo  faceva
    gemere a quel modo.
    Pierre,  calzato  con  un  paio  di scarpe fatte per lui da Karataev e
    ricavate da un pezzo di  cuoio  che  un  soldato  francese  gli  aveva
    portato  per  rifar  la  suola  alle  sue,  e con una corda a guisa di
    cintura, si avvicinò al malato e gli si accoccolò davanti, dicendogli:
    - Sta' tranquillo,  Sokolòv,  non se ne  vanno  del  tutto.  Hanno  un
    ospedale qui; forse tu starai meglio di noi...
    -  O  Signore Iddio!  O morte mia!  O Signore!   -  gemeva il soldato,
    sempre più forte.
    - Adesso vado di nuovo  a  chiederglielo    -    soggiunse  Pierre  e,
    alzatosi, si diresse verso la porta della baracca, alla quale, proprio
    in quel momento,  si avvicinava dall'esterno, insieme con due soldati,
    quel caporale che il giorno innanzi aveva offerto la  pipa  a  Pierre.
    Caporale e soldati erano in tenuta di marcia,  con gli zaini e i chepì
    con il sottogola affibbiato,  il che  mutava  alquanto  le  loro  note
    fisionomie.
    Il  caporale  andava verso la porta per chiuderla,  secondo gli ordini
    ricevuti dai superiori. Prima di uscire,  bisognava contare ancora una
    volta i prigionieri.
    -  "Caporal,  que  fera-t-on  du malade?" [28.  Caporale,  che si farà
    dell'ammalato?]  -  prese  a  dire  Pierre  ma,  nel  momento  in  cui
    parlava,  fu preso dal dubbio se quello fosse il caporale conosciuto o
    un altro,  un ignoto,  così poco adesso il caporale  somigliava  a  se
    stesso. Per di più, contemporaneamente, risonò da destra e da sinistra
    un rullo di tamburo.  Il caporale si accigliò alle parole di Pierre e,
    dopo aver lanciato un'ingiuria senza senso,  sbatté  la  porta.  Nella
    baracca si fece quasi buio, da due parti giungeva, secco e preciso, il
    rullo dei tamburi e copriva i gemiti del malato.
    "Eccola,  eccola di nuovo!", si disse Pierre e, suo malgrado, sentì un
    brivido gelato  corrergli  lungo  la  schiena.  Nel  viso  mutato  del
    caporale,  nel suono della sua voce,  nel rullo eccitante e assordante
    del tamburo,  Pierre aveva  riconosciuto  quella  forza  misteriosa  e
    spietata  che  costringe  gli  uomini,  malgrado  la  loro volontà,  a
    uccidere i loro simili, quella forza che aveva visto in azione durante
    la scena della fucilazione. Era inutile aver paura, inutile cercare di
    evitare quella forza,  rivolgere suppliche agli uomini  che  ne  erano
    strumenti.  Ora Pierre lo sapeva. Bisognava aspettare e aver pazienza.
    Non si avvicinò più al malato e non lo guardò più.  Rimase  presso  la
    porta della baracca, muto e accigliato.
    Quando  la porta fu aperta e i prigionieri,  come un branco di pecore,
    sospingendosi l'un l'altro,  si affollarono verso l'uscita,  Pierre si
    fece largo e si avvicinò a quel capitano che, secondo ii caporale, era
    pronto a fare per lui qualsiasi cosa.  Anche il capitano era in tenuta
    di marcia e dalla sua faccia gelida spirava quella forza spietata  che
    Pierre  aveva  riconosciuto  nelle parole del caporale e nel rullo dei
    tamburi.
    - "Filez,  filez" [29.  Passate,  passate!]  -  ripeteva il  capitano,
    aggrottando   le  sopracciglia  e  guardando  i  prigionieri  che  gli
    passavano davanti.  Pierre sentiva che il suo tentativo sarebbe  stato
    vano, ma gli si avvicinò ugualmente.
    - "Eh bien,  qu'est-ce qu'il y a?" [30.  Ebbene, che c'è?]  -  domandò
    l'ufficiale,  guardandolo freddamente,  come se non  lo  riconoscesse.
    Pierre gli parlò del malato.
    -  "Il  pourra  marcher,  que  diable!"    -  rispose il capitano.   -
    "Filez,  filez" [31.  Ma potrà pur camminare,  che  diavolo!  Passate,
    passate!]  -  proseguì, senza guardare Pierre.
    -  "Mais  non,  il  est à l'agonie..." [32.  Ma no,  è in agonia...] -
    replicò Pierre.
    - "Voulez-vous bien?" [33.  Volete smetterla?]    -    gridò  l'altro,
    aggrottando il viso con aria minacciosa.
    Dram-da dam,  dam,  rullavano i tamburi.  E Pierre comprese che quella
    forza misteriosa si era già impadronita completamente di quegli uomini
    e che ormai qualsiasi altra parola era inutile.
    Gli ufficiali prigionieri,  separati dai soldati,  ebbero l'ordine  di
    camminare avanti; essi erano, compreso Pierre, una trentina; i soldati
    erano trecento.
    Gli  ufficiali fatti uscire dalle altre baracche,  tutti sconosciuti a
    Pierre,  apparivano molto meglio vestiti e guardavano  lui  e  le  sue
    scarpe con diffidenza e con ostilità.  Non lontano da Pierre camminava
    un grosso maggiore che godeva, evidentemente, della stima generale dei
    compagni;  indossava  una  veste  da  camera  alla  tartara,   con  un
    asciugamano  attorno  alla vita,  e aveva il viso gonfio,  giallastro,
    maligno. Si teneva in seno una mano che stringeva una borsa di tabacco
    e con l'altra si appoggiava a  una  lunga  pipa  turca.  Il  maggiore,
    ansimando e soffiando,  brontolava e si irritava contro tutti,  perché
    gli pareva che lo urtassero e che si affrettassero,  mentre non  c'era
    alcun motivo di farlo, e che tutti si meravigliassero mentre non c'era
    nulla che giustificasse tale meraviglia. Un altro ufficiale, piccolo e
    magro,  discorreva  con tutti,  facendo supposizioni su dove sarebbero
    stati condotti e su quanta strada sarebbero riusciti a  fare  in  quel
    giorno.  Un  funzionario,  in  uniforme  di  commissario  e stivali di
    feltro, correva di qua e di là e guardava Mosca incendiata, esprimendo
    ad  alta  voce  le  proprie  osservazioni  su  quale  fosse  la  parte
    incendiata  di Mosca che si vedeva.  Un terzo,  di origine polacca,  a
    giudicare  dalla  pronunzia,   discuteva  con   il   commissario   per
    dimostrargli che si sbagliava nell'identificare i quartieri di Mosca.
    - Di che cosa discutete?   -  diceva irritato il maggiore.  -  Che sia
    di Nikolàj o di Vlass è la stessa cosa. Vedete, no?  E' bruciata tutta
    e  basta!  Che  avete  da  spingere così?  Non vi basta la strada?   -
    aggiunse con irritazione  rabbiosa,  rivolgendosi  a  quello  che  gli
    camminava dietro e che non lo spingeva assolutamente.
    - Ahi,  ahi,  ahi, che hanno fatto?  -  si udivano tuttavia esclamare,
    ora  da  una  parte  ora  dall'altra,  le  voci  dei  prigionieri  che
    guardavano  i  resti  dell'incendio.   -  E i quartieri al di là della
    Moskvà,  e Zubovo e dentro  il  Cremlino...  Guardate,  non  ne  resta
    neppure  la metà.  Ma ve lo dicevo che al di là della Moskvà era tutto
    bruciato... E' proprio così, vedete?
    - Be', adesso lo sapete che è bruciato; e allora perché discutere?   -
    disse il maggiore.
    Attraversando  Chamòvniki  (uno  dei pochi quartieri di Mosca scampato
    all'incendio), davanti a una chiesa, tutta la folla dei prigionieri si
    accalcò improvvisamente da un lato e si udirono risonare  esclamazioni
    di orrore e di ribrezzo.
    -  Oh,  che  furfanti!  Che miscredenti!  Si,  è un morto,  proprio un
    morto... E l'hanno insudiciato con chi sa che cosa...
    Anche Pierre si mosse verso la chiesa accanto alla  quale  si  trovava
    ciò  che  aveva  suscitato  tante  esclamazioni,  e  vide confusamente
    qualcosa addossato al recinto.  Dalle parole dei compagni che vedevano
    meglio  di lui,  apprese che si trattava del cadavere di un uomo messo
    in piedi contro il recinto e il  cui  viso  era  stato  imbrattato  di
    fuliggine.
    -  "Marchez,  sacré  nom...  Filez...  trente  mille  diables..." [34.
    Camminate, sacr...  Avanti...  per mille diavoli!]  -  imprecarono gli
    uomini  di  scorta,  e  i soldati francesi,  con irritazione rabbiosa,
    dispersero a colpi di daga la folla  dei  prigionieri  che  guardavano
    quel morto.


    CAPITOLO 14.

    Per le viuzze di Chamòvniki i prigionieri procedevano soli con la loro
    scorta,  e  con  i carri e i furgoni appartenenti ai soldati,  i quali
    seguivano a breve distanza. Ma,  avvicinandosi ai magazzini di viveri,
    i  prigionieri  si  trovarono  presi in mezzo a un enorme convoglio di
    artiglieria che  avanzava  faticosamente,  frammischiato  a  carri  di
    proprietà privata.
    Presso il ponte tutti si fermarono,  in attesa che si movessero quelli
    che precedevano.  Dal ponte i prigionieri  scorsero,  davanti  e  alle
    spalle, interminabili file di altri convogli che avanzavano. A destra,
    là  dove  la strada di Kaluga davanti a Neskùcnoe svoltava scomparendo
    in lontananza, salivano interminabili file di uomini e di carri. Erano
    le truppe del corpo d'armata di Beauharnais che si erano messe in moto
    per prime: le seguivano,  lungo la riva del fiume e sul ponte Kamenni,
    le truppe e i carriaggi di Ney.
    I  soldati  di  Davoust,  ai  quali  erano  aggregati  i  prigionieri,
    passavano per il Krimskij Brod e si trovavano già, in parte, sulla via
    di Kaluga. Ma la fila dei carri era così lunga che,  mentre gli ultimi
    di Beauharnais non avevano ancora lasciato Mosca per entrare sulla via
    di  Kaluga,  la  testa  delle truppe di Ney usciva già dalla Bolsciàja
    Ordinka.
    Superato il Krimskij Brod,  i prigionieri fecero alcuni passi e poi si
    fermarono, per riprendere subito dopo il cammino, mentre da ogni parte
    si  accalcava  una  quantità  sempre  maggiore di uomini e di veicoli.
    Avendo percorso in più di un'ora  le  poche  centinaia  di  passi  che
    separano  il  ponte  dalla via di Kaluga,  i prigionieri,  giunti alla
    piazza dove si incrociano le vie del quartiere di oltre Moskvà con  la
    strada  di  Kaluga,  stretti  in  un  mucchio,  dovettero  fermarsi  e
    trattenersi per alcune ore in quel crocevia.  Da ogni parte  giungeva,
    incessante  come  il  rumore  del  mare,  un  fragore  di  ruote,  uno
    scalpiccio di piedi e un intrecciarsi continuo di  grida  irose  e  di
    bestemmie.  Pierre,  pigiato  contro il muro di una casa semibruciata,
    ascoltava quei rumori che si fondevano  nella  sua  immaginazione  con
    quello incessante dei tamburi.
    Alcuni   ufficiali   prigionieri,   per   poter   meglio  vedere,   si
    arrampicarono sul muro della casa, accanto al quale si trovava Pierre.
    - Uh, quanta gente! Quanta gente!  Ce n'è persino sui cannoni!  Guarda
    che  pellicce...    -  dicevano alcuni.   -  Lo vedi,  eh,  come hanno
    saccheggiato,  i birbanti...  Ecco,  guarda là su quel carro che  cosa
    c'è...  L'ha  certo  portato via da un'icona...  Devono essere soldati
    tedeschi.  E anche  un  nostro  contadino,  quanto  è  vero  Dio!  Ah,
    mascalzoni! Si è talmente caricato che non riesce quasi a camminare! E
    quanti calessini!  Anche i calessini hanno preso...  E quello che si è
    seduto sui bauli! Santi benedetti! Si azzuffano...
    - Dagli sul muso,  dagli!  Se si va avanti di questo passo non  ci  si
    muove sino a sera. Guarda, guardate... Questo deve essere il convoglio
    di  Napoleone.  Lo vedi,  no,  che cavalli?  Uno stemma con la corona.
    Questa è una casa da campo.  Ha perduto un sacco e non se ne è neppure
    accorto...  Di  nuovo  botte!  Ecco là una donna con un bambino;  mica
    brutta, eh? Ma sì,  ti lasciano proprio passare...  figurati!  Guarda,
    non ha fine. Ragazze russe, com'è vero Dio, quelle sono ragazze russe!
    Vedi come se ne stanno comode in carrozza...
    Una  nuova  ondata  di  curiosità  generale,  come presso la chiesa di
    Chamòvniki,  spinse tutti i prigionieri verso  la  strada,  e  Pierre,
    grazie alla sua statura,  poté vedere, sopra la testa degli altri, ciò
    che aveva attirato la curiosità dei prigionieri. In tre carrozze,  che
    si  erano  mescolate ai cassoni di munizioni,  pigiate una sull'altra,
    viaggiavano alcune donne che,  imbellettate e  con  abiti  dai  colori
    sgargianti, gridavano con voce stridula.
    Dal  momento  in  cui  Pierre aveva avuto la sensazione della presenza
    della forza misteriosa,  nulla più gli era parso strano o  spaventoso:
    né  il  cadavere  imbrattato di fuliggine per divertimento,  né quelle
    donne che si affrettavano chissà dove,  né l'incendio di Mosca.  Tutto
    ciò che egli vedeva,  non gli produceva più alcun effetto,  come se la
    sua  anima,   preparandosi  a  una  lotta  difficile,   rifiutasse  di
    accogliere qualsiasi impressione che avrebbe potuto indebolirla.
    Il  convoglio con le donne passò.  Lo seguivano altri carri,  soldati,
    furgoni,  cassoni;   e  ancora  soldati,   ancora  carrette  e  ancora
    soldati... Di tanto in tanto donne.
    Pierre non vedeva la gente isolatamente, ne vedeva soltanto il moto.
    Tutti  quegli  uomini  e  quei  cavalli  parevano  spinti da una forza
    invincibile.  Tutti,  durante l'ora in cui Pierre rimase a osservarli,
    sbucavano  da strade diverse con l'unico,  identico desiderio di poter
    passare in fretta; tutti,  scontrandosi con gli altri,  cominciavano a
    irritarsi e a venire alle mani,  digrignavano i denti, aggrottavano le
    sopracciglia, si scambiavano a vicenda i medesimi insulti,  e su tutti
    i  visi  si  leggeva  la  stessa espressione di coraggio risoluto e di
    fredda crudeltà che già aveva colpito Pierre la mattina,  guardando il
    viso del caporale, mentre rullavano i tamburi.
    Era  già  quasi  sera  quando il comandante della scorta,  riuniti gli
    uomini con grida  e  discussioni,  si  infilò  tra  i  carriaggi  e  i
    prigionieri,  circondati  da  ogni  parte,  uscirono  sulla  strada di
    Kaluga.
    Marciavano rapidamente,  senza  riposarsi,  e  si  fermarono  soltanto
    quando il sole cominciò a tramontare. I carri furono ammassati gli uni
    accanto agli altri,  e gli uomini iniziarono i preparativi per passare
    la notte.  Tutti parevano irritati  e  scontenti.  Per  un  bel  pezzo
    risuonarono  da ogni parte imprecazioni,  grida di collera,  alterchi.
    Una carrozza,  che veniva dietro la scorta,  urtò uno dei carri  e  ne
    spezzò  il timone.  Accorsero molti soldati: alcuni davano colpi sulle
    teste dei cavalli attaccati ai carri, cercando di farli voltare, altri
    si  azzuffavano  tra  di  loro,  e  Pierre  vide  un  soldato  tedesco
    gravemente ferito alla testa da un colpo di accetta.
    Pareva  che tutti quegli uomini,  fermatisi in mezzo alla campagna nel
    freddo crepuscolo di una giornata d'autunno,  provassero una  medesima
    sensazione  di  sgradevole  risveglio,  dopo  la  fretta  che  si  era
    impadronita di tutti al momento della partenza e  dopo  quella  marcia
    verso una meta ignota. Dopo che si furono fermati, parvero comprendere
    che  non si sapeva ancora dove fossero diretti e che la marcia sarebbe
    stata certo difficile e faticosa.  Durante quella sosta,  i soldati di
    scorta  si  mostrarono verso i prigionieri peggiori di quanto lo erano
    stati alla partenza.  Per la prima volta fu distribuita ai prigionieri
    carne di cavallo.
    Tanto  negli  ufficiali  quanto  nei  soldati  si notava una specie di
    irritazione  personale  contro  i  prigionieri,  che  inaspettatamente
    avevano  sostituito  i  rapporti  quasi amichevoli di prima.  E quella
    irritazione accrebbe ancora quando,  contati  i  prigionieri,  risultò
    che,  durante  la  confusione  verificatasi  all'uscita  da Mosca,  un
    soldato russo,  fingendo di aver male al ventre,  era fuggito.  Pierre
    vide  un  soldato francese percuotere crudelmente un soldato russo che
    si era un po' allontanato dalla strada e sentì il capitano  suo  amico
    rimproverare un sottufficiale per la fuga di quel soldato, minacciando
    di  deferirlo  al  tribunale  di  guerra.   Alla  giustificazione  del
    sottufficiale che quel soldato era  malato  e  non  poteva  camminare,
    l'ufficiale  replicò  che  c'era l'ordine di far fuoco contro chiunque
    fosse rimasto indietro. Pierre sentiva che quella forza fatale, che lo
    aveva oppresso durante la scena della fucilazione e che non aveva  più
    avvertito  nel  periodo  della  prigionia,  lo  teneva di nuovo in suo
    potere.  Aveva paura,  ma sentiva che,  quanto più quella forza fatale
    cercava di schiacciarlo,  tanto più cresceva e prendeva vigore nel suo
    animo un'altra forza, indipendente da quella: la forza della vita.
    Pierre cenò con una zuppa di farina di segala e carne di cavallo e  si
    mise  a  conversare  con  i compagni,  ma né lui né alcuno degli altri
    parlavano di ciò che avevano veduto  a  Mosca,  del  modo  brutale  di
    comportarsi dei soldati francesi, dell'ordine di fucilarli che avevano
    poco prima loro comunicato; tutti, quasi per resistere alla situazione
    che  si  andava  aggravando,  erano  particolarmente allegri e vivaci.
    Discorrevano di  ricordi  personali,  di  scene  divertenti  osservate
    durante  la  marcia,  e  ogni  accenno  alla situazione attuale veniva
    evitato.
    Il sole era tramontato da un pezzo. Stelle lucentissime brillavano qua
    e là nel cielo;  il riflesso  della  luna  piena,  che  cominciava  ad
    alzarsi,  si  diffondeva  simile  a  un  incendio,  e  un enorme globo
    rossastro pareva dondolarsi nell'oscurità grigiastra.  La sera era già
    finita  ma  la notte non cominciava ancora.  Pierre si alzò,  lasciò i
    nuovi compagni  e  si  avviò,  passando  tra  i  fuochi  del  bivacco,
    dall'altra  parte  della  strada  dove  gli  era  stato  detto  che si
    trovavano i soldati prigionieri.  Voleva conversare  con  loro.  Sulla
    strada  una  sentinella  francese  lo  fermò  e  gli ordinò di tornare
    indietro.
    Pierre obbedì,  ma non tornò verso i fuochi,  non verso il luogo  dove
    stavano  i compagni,  bensì verso un carro staccato,  accanto al quale
    non c'era nessuno. Piegando sotto di sé le gambe e abbassando il capo,
    sedette sulla terra fredda accanto  a  una  ruota  e  a  lungo  rimase
    immobile,  immerso nei suoi pensieri. Trascorse più di un'ora. Nessuno
    lo disturbava. A un tratto,  egli scoppiò a ridere del suo grosso riso
    bonario, così forte che tutt'attorno gli uomini si volsero a guardare,
    stupiti per quella strana solitaria risata.
    -  Ah,  ah,  ah!   -  rideva Pierre.  E poi,  a voce alta,  disse a se
    stesso:  -  La sentinella non mi ha fatto passare.  Mi hanno  preso  e
    rinchiuso.  Mi tengono prigioniero. Ma chi hanno preso? Me? me, la mia
    anima immortale? Ah, ah, ah! Ah, ah, ah!  -  e rideva sino ad avere le
    lacrime agli occhi.
    Un uomo si alzò e si avvicinò per vedere di che  cosa  ridesse  quello
    strano tipo grande e grosso.  Pierre tacque, si alzò, si allontanò dal
    curioso e si guardò attorno.
    L'immenso bivacco, che poco prima rumoreggiava del crepitio dei fuochi
    e delle voci degli uomini,  ora  taceva.  Le  fiamme  rosse  dei  falò
    impallidivano e si spegnevano.  Alta,  nel cielo luminoso,  pendeva la
    luna  piena.   I  campi  e   i   boschi   prima   invisibili   di   là
    dall'accampamento,  si  distinguevano ora in lontananza.  E ancora più
    lontano,  oltre quei boschi e  quei  campi,  si  scorgeva  un'infinita
    lontananza, ondulante e luminosa che chiamava a sé... Pierre guardò il
    cielo,  le stelle che sorridevano, sprofondate nell'immensità e pensò:
    "Tutto questo è mio!  Tutto questo è in me!  Tutto questo sono  io!  E
    loro  hanno  preso  tutto questo e l'hanno rinchiuso in una baracca di
    assi bruciacchiate!".  Sorrise e andò a  raggiungere  i  compagni  per
    dormire con loro.


    CAPITOLO 15.

    Nei   primi   giorni   di  ottobre  si  presentò  a  Kutuzòv  un  alto
    parlamentare,  latore di una lettera di Napoleone con una proposta  di
    pace,  falsamente  datata da Mosca,  mentre Napoleone,  in realtà,  si
    trovava già non molto lontano, avanti a Kutuzòv,  sulla vecchia strada
    di  Kaluga.  Kutuzòv rispose a questa lettera così come aveva risposto
    alla prima,  portata da Lauriston: rispose che qualsiasi trattativa di
    pace era assolutamente impossibile.  Non molto dopo, dal distaccamento
    di Dòrochov (35),  che marciava a sinistra di  Tarùtino.  si  ebbe  la
    notizia  che  a  Fomìnskoe  erano  apparse  truppe  appartenenti  alla
    divisione Broussier (36), che quella divisione,  separata dalle altre,
    poteva facilmente essere distrutta. I soldati e gli ufficiali volevano
    di nuovo entrare in azione.  I generali dello stato maggiore, eccitati
    dal ricordo della facile vittoria di Tarùtino,  insistevano presso  il
    generalissimo  perché  fosse attuata la proposta di Dòrochov.  Kutuzòv
    non riteneva necessario un attacco.  Si  adottò  un  provvedimento  di
    mezzo,   come  doveva  accadere:  si  mandò  a  Fomìnskoe  un  piccolo
    distaccamento che avrebbe attaccato Broussier.
    Per uno strano caso questo incarico  -  il  più  difficile  e  il  più
    importante  come risultò in seguito  -  venne affidato a Dochturov,  a
    quel modesto,  piccolo Dochturov  che  nessuno  ci  ha  mai  descritto
    intento  a  ideare  piani  di  battaglia  o  a galoppare in testa a un
    reggimento,  o a gettare croci di guerra sui cannoni e così via;  quel
    Dochturov  che tutti consideravano indeciso e poco perspicace,  ma era
    quel medesimo Dochturov che durante tutta la guerra dei Russi contro i
    Francesi,  da Austerlitz sino al 1813 incontriamo sempre,  dovunque la
    situazione è più difficile. Ad Austerlitz egli rimane ultimo presso la
    diga  di Augezd per riunire i reggimenti e tentare di salvare tutto il
    possibile,  mentre l'esercito fugge rovinosamente e alla  retroguardia
    non si trova nemmeno più un generale.  Ammalato, febbricitante, marcia
    con ventimila uomini verso Smolènsk  per  difendere  la  città  contro
    tutto l'esercito napoleonico.  A Smolènsk, non appena in un accesso di
    febbre si è assopito presso la porta di Malachov,  viene  destato  dal
    cannoneggiamento   sulla  città,   e  Smolènsk  resiste  per  l'intera
    giornata.
    Durante la battaglia di Borodinò,  quando  Bagratiòn  è  caduto  e  le
    truppe  della nostra ala sinistra sono annientate nella proporzione di
    9 a 1,  e tutta la forza dell'artiglieria francese  è  concentrata  su
    quel  punto,  non  si  manda altri se non l'indeciso e poco perspicace
    Dochturov; e Kutuzòv, che stava già per dare l'incarico a un altro, si
    affretta a riparare al suo errore. E il piccolo, modesto Dochturov va,
    e Borodinò è la più fulgida gloria dell'esercito russo.  Molti eroi ci
    sono stati descritti in versi e in prosa,  ma di Dochturov non è stata
    detta quasi neppure una parola.
    Viene mandato di nuovo a Fomìnskoe e di là  a  Malo-Jaròslavetz,  dove
    avviene l'ultima battaglia contro i Francesi,  e di dove evidentemente
    ha iniziato la loro rovina. Molti uomini di genio e molti eroi di quel
    periodo della campagna ci vengono descritti,  ma di Dochturov  neppure
    una  parola o,  per lo meno assai poche e dubbiose.  Ma proprio questo
    silenzio è la dimostrazione più evidente dei suoi meriti.
    E' naturale che,  per chi non comprende il movimento di una  macchina,
    nel vederla in azione,  sembri che la parte più importante di essa sia
    quella  pagliuzza  che  vi  è  caduta  per  caso  e  che,  impedendone
    l'andamento, si agita. Chi ignora come la macchina è costruita non può
    capire che non è la pagliuzza,  che ne guasta e impedisce il moto,  la
    parte essenziale,  bensì quel piccolo ingranaggio che gira  senza  far
    rumore.
    Il 10 ottobre,  il giorno stesso in cui Dochturov,  dopo aver percorso
    metà della  strada  che  conduce  a  Fomìnskoe,  si  era  fermato  nel
    villaggio  di Aristovo,  preparandosi a eseguire puntualmente l'ordine
    ricevuto,  tutto l'esercito  francese,  raggiunta  nel  suo  movimento
    convulso  la  posizione  di  Murat,  a  quanto  pare per impegnare una
    battaglia,  improvvisamente,  senza alcuna ragione,  deviò a  sinistra
    sulla  nuova strada di Kaluga e cominciò ad entrare a Fomìnskoe,  dove
    prima si trovava il solo Broussier.  Dochturov aveva  allora  ai  suoi
    ordini oltre a Dòrochov,  i due piccoli distaccamenti di Figner (37) e
    di Seslavin (33).
    La  sera  dell'11  ottobre,  Seslavin  giunse  ad  Aristovo,  dal  suo
    generale,  conducendo  seco  un soldato della Guardia francese,  fatto
    prigioniero. Costui informò che le truppe,  le quali quel giorno erano
    entrate  a  Fomìnskoe,  costituivano  l'avanguardia di tutta la Grande
    Armata; che Napoleone era lì e da cinque giorni tutto l'esercito aveva
    lasciato Mosca.  Quella stessa  sera  un  servo,  uscito  da  Borovsk,
    raccontò  di aver veduto entrare in città una massa enorme di soldati.
    I cosacchi del distaccamento di Dòrochov riferirono di aver  visto  la
    Guardia  francese  in  marcia  verso Borovsk.  Da tutte queste notizie
    apparve  evidente  che  là,  dove  si  credeva  di  trovare  una  sola
    divisione, era ormai concentrato tutto l'esercito francese proveniente
    da  Mosca  in  una direzione inaspettata: la vecchia strada di Kaluga.
    Dochturov non volle intraprendere nulla,  non vedendo  ormai  più  con
    chiarezza  quale  fosse  il  suo  dovere.  Gli  era  stato ordinato di
    attaccare  Fomìnskoe,  ma  a  Fomìnskoe,  dove  prima  c'era  soltanto
    Broussier,  si  trovava  ora l'intera armata francese.  Ermolov voleva
    agire secondo il proprio punto di vista,  ma Dochturov  insisté  sulla
    necessità  di  avere  ordini  dal  generalissimo.  Si decise allora di
    mandare un rapporto allo stato maggiore.
    Fu scelto per questa missione un ufficiale intelligente, Bolchovìtinov
    (39),  che,  oltre al rapporto scritto,  doveva descrivere a  voce  la
    situazione.  A  mezzanotte  Bolchovìtinov,  ricevuto  il  plico  e  le
    istruzioni verbali,  partì al galoppo,  scortato da un cosacco  e  con
    alcuni cavalli di ricambio, alla volta dello stato maggiore.


    CAPITOLO 16.

    Era  una notte autunnale,  tiepida e buia.  Pioveva da quattro giorni.
    Due volte furono cambiati i cavalli e,  dopo aver percorso al  galoppo
    in  un'ora  e  mezzo  trenta miglia di strada fangosa e sdrucciolevole
    Bolchovìtinov giunse,  dopo l'una di notte,  a  Serascëvka.  Sceso  da
    cavallo  davanti  a  una  casetta recinta da una siepe,  che recava il
    cartello: "Stato Maggiore" e lasciato il cavallo,  entrò in fretta  in
    un'anticamera buia.
    - Il generale di servizio, presto! Si tratta di cosa molto importante!
    -     disse  a  qualcuno  che  si  era  alzato  in  piedi  e  ansimava
    nell'anticamera buia.
    - Sin da ieri non sta bene: sono tre notti che non dorme  -    mormorò
    la  voce  di  un attendente,  in tono supplichevole.   -  Svegliate il
    capitano.
    - E' cosa molto  importante,  da  parte  del  generale  Dochturov    -
    proseguì Bolchovìtinov, entrando attraverso un uscio aperto, trovato a
    tastoni.  L'attendente  gli  passò  davanti  e  si preparò a svegliare
    qualcuno.
    - Vostra signoria, vostra signoria, un corriere!
    - Cosa? Cosa? Da parte di chi?  -  domandò una voce assonnata.
    - Da parte  di  Dochturov  e  di  Alekséj  Petrovic'.  Napoleone  è  a
    Fomìnskoe    -  disse Bolchovìtinov,  senza vedere nel buio la persona
    che lo interrogava,  ma indovinando,  dal suono della voce che non  si
    trattava di Konovnicyn.
    La persona svegliata sbadigliò, stiracchiandosi.
    - Non vorrei destarlo  -  disse,  cercando qualche cosa a tastoni.   -
    E' un po' sofferente! Non si tratterà soltanto di voci?
    - Ecco il rapporto  -    fece  Bolchovìtinov.    -    Ho  l'ordine  di
    consegnarlo immediatamente al generale di servizio.
    -  Aspettate,  faccio  un  po'  di luce.  Ma dov'è che cacci sempre la
    candela,  maledetto?   -  gridò,  rivolto all'attendente l'uomo che si
    stiracchiava. (Era Scerbinin (40), l'aiutante di campo di Konovnicyn).
    -  L'ho trovata, l'ho trovata!  -  aggiunse.
    L'attendente batteva l'acciarino. Scerbinin tastava il candeliere.
    - Ah, che schifo!  -  esclamò con ribrezzo.
    Alla  luce  delle  scintille  Bolchovìtinov vide il volto giovanile di
    Scerbinin con la  candela  in  mano  e,  nell'angolo  anteriore  della
    stanza, un uomo ancora addormentato. Era Konovnicyn.
    Quando la fiamma dapprima azzurrognola e poi rosseggiante del fuscello
    con  lo zolfo si accese contro l'esca,  Scerbinin accese la candela di
    sego,  dal candeliere dal quale fuggivano già scarafaggi,  e guardò il
    messaggero.  Bolchovìtinov era tutto infangato e,  nell'asciugarsi con
    una manica, si era insudiciato anche il viso.
    - Ma chi fa il rapporto?  -  domandò Scerbinin prendendo il plico.
    - La notizia è sicura  -  rispose Bolchovìtinov.  -  I prigionieri,  i
    cosacchi, gli informatori riferiscono concordi la medesima cosa.
    -  Non  c'è  altro  da fare,  bisogna svegliarlo  -  decise Scerbinin,
    alzandosi e avvicinandosi all'uomo in berretto da notte, coperto da un
    cappotto. Pëtr Petrovic'!  -  esclamò. Konovnicyn non si mosse.  -  Al
    quartier generale!   -   esclamò  ancora  Scerbinin  con  un  sorriso,
    sapendo che quelle parole l'avrebbero svegliato.  E infatti,  la testa
    in berretto da notte si sollevò subito.  Sul viso bello  e  deciso  di
    Konovnicyn, a cui la febbre infiammava le guance, rimase ancora per un
    momento   l'espressione   dei  sogni  così  lontani  dalla  situazione
    presente,  ma poi subito egli ebbe un sussulto e quel viso riprese  la
    consueta espressione di calma e di fermezza.
    - Be',  che c'è?  Da parte di chi?  -  domandò senza fretta ma subito,
    sbattendo  le  palpebre.   Ascoltato   il   rapporto   dell'ufficiale,
    Konovnicyn dissuggellò il plico e lesse.  Non appena ebbe finito, posò
    a terra i piedi coperti da calze di seta e cominciò  a  infilarsi  gli
    stivali.  Poi  si  tolse  il  berretto e,  ravviandosi i capelli sulle
    tempie, si mise il copricapo militare.
    - Ci ha messo molto ad arrivare? Andiamo dal generalissimo.
    Konovnicyn comprese subito che la notizia recatagli aveva  una  grande
    importanza  e  che  non si poteva tardare.  Era buona o cattiva quella
    notizia?  Non ci pensava e  non  se  lo  domandava.  La  cosa  non  lo
    interessava.  Egli  non  considerava  le vicende della guerra sotto il
    punto di vista dell'intelligenza e della logica, ma di altro.  Nel suo
    intimo  aveva  la  inespressa,  profonda convinzione che tutto sarebbe
    andato bene,  ma che non si doveva crederlo e tanto meno dirlo,  bensì
    limitarsi  a  fare  il proprio lavoro.  E il proprio lavoro lo faceva,
    dedicandogli ogni sua forza.
    Pëtr Petrovic' Konovnicyn, così come Dochturov, è entrato soltanto per
    motivi di decenza nella  lista  degli  eroi  dei  1812,  con  Barclay,
    Raevskij,  Ermolov,  Platov,  Miloràdovic'. Anch'egli, come Dochturov,
    godeva fama di uomo di capacità e di  conoscenze  piuttosto  limitate;
    come Dochturov non faceva mai piani di battaglie, ma si trovava sempre
    là  dove  la  situazione era più critica;  dormiva sempre con la porta
    aperta,  dacché era stato nominato  generale  di  servizio,  e  voleva
    essere   svegliato   immediatamente   ogni   qualvolta   arrivasse  un
    messaggero;  durante una battaglia  si  esponeva  sempre  ai  maggiori
    pericoli,  tanto  che  Kutuzòv  gliene  faceva  rimprovero e temeva di
    mandarcelo; come Dochturov, era una di quelle inavvertibili rotelle di
    trasmissione che, senza far rumore e senza stridere,  costituiscono la
    parte essenziale di una macchina.
    Uscendo  dall'"izbà" nel buio della notte umida,  Konovnicyn si oscurò
    in volto sia perché gli si era  intensificato  il  mal  di  capo,  sia
    perché  gli  si era affacciato un pensiero fastidioso: quale subbuglio
    la notizia avrebbe suscitato nello stato maggiore,  in  quel  nido  di
    influenti personaggi e,  in modo particolare,  in Bennigsen che,  dopo
    Tarùtino,  era  in  grave  discordia  con  Kutuzòv?   Quali  ordini  e
    contrordini si sarebbero proposti e discussi? E quel presentimento gli
    riusciva penoso, pur sapendo che la cosa era inevitabile.
    Infatti Toll,  dal quale passò subito per comunicargli la notizia,  si
    mise immediatamente ad esporre  le  proprie  riflessioni  a  un  altro
    generale che abitava con lui, tanto che Konovnicyn, che aspettava muto
    e  stanco,  dovette  fargli  osservare  che era opportuno andare senza
    indugio dal generalissimo.


    CAPITOLO 17.

    Kutuzòv,  come tutti i vecchi,  di  notte  dormiva  poco.  Durante  il
    giorno,  invece,  spesso  si addormentava,  quasi improvvisamente.  Ma
    nelle ore notturne, steso sul letto senza neppure spogliarsi, vegliava
    quasi di continuo e pensava.
    Cosi vegliava anche quella notte, reggendosi con la mano grassoccia la
    grossa testa sfregiata,  e  rifletteva,  tenendo  fisso  nell'oscurità
    l'occhio superstite.
    Da quando Bennigsen, che corrispondeva direttamente con l'imperatore e
    che  aveva  la  massima  importanza  nello stato maggiore,  evitava di
    parlargli,  Kutuzòv si sentiva da questo lato più tranquillo circa  il
    possibile  obbligo  di  impegnarsi  con  le  truppe  in inutili azioni
    offensive.  "La lezione della battaglia di Tarùtino e della vigilia di
    quella giornata dolorosissima viva nel suo ricordo,  deve pur essergli
    servita a qualche cosa!", pensava Kutuzòv.
    "Essi devono pur capire che potremmo soltanto perdere  se  prendessimo
    l'iniziativa  dell'offensiva.  La  pazienza  e  il  tempo: ecco i miei
    eroici combattenti!".  Egli sapeva che non si deve  cogliere  la  mela
    dall'albero  quando  è ancora acerba.  La mela cadrà da sé quando sarà
    matura;  se la si coglie prima,  si rovina il frutto e l'albero  e  si
    guadagna  un allegar di denti.  Come un provetto cacciatore sapeva che
    la belva era ferita,  ferita gravemente come soltanto poteva ferire la
    forza del popolo russo, ma se la ferita fosse mortale o no, era ancora
    un problema insoluto. Ora, dal fatto che erano stati mandati Lauriston
    e  Berthier e dai rapporti che giungevano dai partigiani,  Kutuzòv era
    quasi certo che la belva era ferita a  morte.  Ma  occorrevano  ancora
    prove, occorreva aspettare.
    "Essi  vorrebbero  correre  a vedere come l'hanno uccisa.  Aspettate e
    vedrete!  Sempre manovre,  sempre attacchi!",  pensava.  "A che scopo?
    Solo per mettersi in mostra.  Come se ci fosse qualcosa di allegro nel
    battersi.  Sono come i bambini,  dai quali non si riesce a sapere come
    sia  andata  la  zuffa  perché  tutti  vogliono  dimostrare  di  saper
    picchiare sodo. Ma ora non si tratta di questo.  E quali abili manovre
    mi propongono tutti costoro! Credono, quando hanno preveduto due o tre
    casi  (ricordò  il piano di operazioni inviatogli da Pietroburgo),  di
    aver preveduto tutto. E di casi, invece, ce n'è un'infinità!".
    Il problema insoluto,  se la ferita inferta a Borodinò fosse mortale o
    no,  pendeva  ormai  da  un mese sulla testa di Kutuzòv.  Da un lato i
    soldati francesi  avevano  occupato  Mosca;  dall'altro  lato  Kutuzòv
    sentiva, con assoluta certezza, che quel terribile colpo per cui egli,
    con tutti gli uomini russi,  aveva usato ogni sua forza, doveva essere
    stato mortale.  Ma,  in ogni caso,  occorrevano prove,  ciò  che  egli
    aspettava ormai da un mese;  e quanto più il tempo passava,  tanto più
    impaziente egli diventava.  Steso sul letto,  nelle sue notti insonni,
    egli  faceva  la stessa cosa che facevano i suoi giovani generali,  la
    stessa cosa per cui li rimproverava. Immaginava,  così come facevano i
    giovani,  il maggior numero di casi possibili, con la sola differenza,
    tuttavia,  che egli non basava nulla su quelle previsioni  e  che  non
    vedeva  due  o  tre casi soltanto,  ma ne vedeva migliaia.  Quanto più
    rifletteva,  tanto più erano  numerosi  i  casi  che  egli  prevedeva.
    Immaginava  mosse  di ogni specie da parte dell'esercito di Napoleone,
    di tutta l'armata o di una parte di essa,  contro Pietroburgo o contro
    di  lui  per  aggirarlo;  prevedeva  (il  che  gli ispirava i maggiori
    timori) anche il caso che Napoleone lottasse con armi uguali alle sue,
    che rimanesse a Mosca,  aspettandolo.  Kutuzòv considerava persino  la
    possibilità  di una mossa all'indietro di Napoleone su Medin e Juknov;
    ma l'unica cosa che egli non poteva prevedere fu  ciò  che  in  realtà
    accadde:  quel  movimento  folle  e  convulso  dell'esercito  francese
    durante i primi undici giorni successivi  all'uscita  da  Mosca,  quel
    movimento   folle  e  convulso  che  confermava  la  supposizione  che
    l'esercito francese fosse in rotta e si preparasse alla  fuga;  ma  si
    trattava  sempre  e  soltanto di congetture che parevano importanti ai
    giovani generali, ma non a Kutuzòv. Questi, con i suoi sessant'anni di
    esperienza,  sapeva quale valore si potesse attribuire  alle  dicerie,
    sapeva come gli uomini,  quando desiderano qualche cosa,  siano capaci
    di presentare le notizie in modo da confermare la  cosa  desiderata  e
    sapeva  come,  in  tal caso,  omettano volentieri tutto ciò che sembra
    contraddire il loro desiderio.  E,  quanto più Kutuzòv lo  desiderava,
    tanto  meno  si  permetteva di crederlo.  Questo problema occupava ora
    tutte le sue forze spirituali. Il resto non era per lui che l'abituale
    compimento  della  vita.   Così,   un  tale   compimento,   una   tale
    sottomissione  alla vita erano adesso costituiti dai suoi colloqui con
    i generali dello stato maggiore,  dalle lettere che scriveva a  madame
    de   Staël  (41)  da  Tarùtino,   dalla  lettura  di  romanzi,   dalla
    distribuzione delle decorazioni, dalla corrispondenza con Pietroburgo,
    eccetera.  Ma la disfatta dei Francesi,  che egli solo prevedeva,  era
    l'unico desiderio dell'anima sua.
    Anche nella notte dell'11 ottobre,  coricato nel suo letto, reggendosi
    il capo con una mano, egli pensava a questo.
    Nella camera attigua qualcosa si mosse,  e si udirono i passi di Toll,
    di Konovnicyn e di Bolchovìtinov.
    - Ehi,  chi è?  Entrate!  Entra!  Che c'è di nuovo?   -  gridò loro il
    feldmaresciallo.
    Mentre  il  domestico  accendeva  una  candela,  Toll  gli  riferì  il
    contenuto del dispaccio.
    - Chi l'ha portato?  -  domandò Kutuzòv con un'espressione così fredda
    e severa che colpì Toll, non appena la stanza fu illuminata.
    - Non vi possono essere dubbi, altezza serenissima!
    - Fallo venire, fallo venire qui.
    Kutuzòv sedeva con una gamba penzoloni dal letto, appoggiandosi con il
    grosso ventre sull'altra gamba ripiegata.  Socchiuse l'occhio sano per
    veder meglio il messaggero,  come se volesse leggere nel volto di  lui
    ciò che lo preoccupava.
    - Dimmi,  dimmi,  caro...   -  disse a Bolchovltinov con la sua pacata
    voce senile, tenendosi stretta la camicia che gli si apriva sul petto.
    - Avvicinati,  avvicinati di più.  Che notizie mi porti?  Napoleone ha
    lasciato Mosca? Davvero?
    Bolchovìtinov  riferì  minutamente  quanto  gli  era stato ordinato di
    dire.
    - Parla,  parla presto,  non farmi stare in pena!   -   lo  interruppe
    Kutuzòv.
    Bolchovìtinov disse tutto,  poi tacque in attesa di ordini. Toll stava
    per parlare,  ma  Kutuzòv  lo  interruppe  subito.  Egli  voleva  dire
    qualcosa,  ma  improvvisamente il viso gli si contrasse,  egli fece un
    gesto con la mano in direzione di Toll e si  voltò  dall'altra  parte,
    verso l'angolo della stanza dove nereggiavano le immagini sacre.
    - Signore,  Creatore mio!  Hai accolto le mie preghiere... La Russia è
    salva! Ti ringrazio, mio Signore!  -  E pianse.


    CAPITOLO 18.

    Dal momento in cui ha ricevuto la  notizia  che  i  Francesi  lasciano
    Mosca  e  sino alla fine della guerra,  tutta l'attività di Kutuzòv si
    riduce a usare della sua autorità,  della  sua  astuzia  e  delle  sue
    preghiere  per  impedire  alle truppe di effettuare offensive inutili,
    manovre e scontri con un  nemico  ormai  destinato  a  sicura  rovina.
    Dochturov  muove  verso  Malo-Jaròslavetz,   ma  Kutuzòv  indugia  con
    l'intero esercito e ordina di uscire da Kaluga poiché questa  ritirata
    gli  pare  possibilissima.  Kutuzòv  indietreggia  dappertutto,  ma il
    nemico, senza aspettare che egli si ritiri, fugge dalla parte opposta.
    Gli storici di Napoleone  ci  descrivono  la  sua  abilità  tattica  a
    Tarùtino  e a Malo-Jaròslavetz,  facendo delle supposizioni su ciò che
    sarebbe avvenuto se Napoleone fosse riuscito a penetrare nelle  ricche
    province meridionali.
    Ma,  senza dire che niente impediva a Napoleone di penetrare in quelle
    province (giacché l'esercito russo gli lasciava libera la strada), gli
    storici dimenticano che nulla poteva salvare l'esercito  di  Napoleone
    perché  esso portava in sé,  sin da allora,  le condizioni inevitabili
    della sua rovina.  Perché questo esercito,  che  ha  trovato  a  Mosca
    abbondanti riserve di viveri e non è stato capace di conservarle ma le
    ha  sciupate,  questo esercito che,  quando giunge a Smolènsk,  non ha
    raccolto le vettovaglie trovate  ma  le  ha  saccheggiate,  perché  si
    sarebbe  dovuto  riorganizzare nella provincia di Kaluga,  popolata da
    quegli stessi Russi che erano a Mosca e dove la fiamma aveva la stessa
    proprietà di bruciare ciò a cui si appicca il fuoco?
    Quell'esercito  non  poteva  riassestarsi  in  alcun  luogo.  Dopo  la
    battaglia  di  Borodinò  e  il  sacco di Mosca esso portava in sé,  si
    potrebbe dire,  le condizioni cliniche della dissoluzione.  Gli uomini
    di  quello  che  era stato un esercito fuggivano con i loro capi senza
    saper dove, desiderando (Napoleone come l'ultimo dei suoi soldati) una
    cosa sola: liberarsi al più  presto  possibile  da  quella  situazione
    senza  via  di uscita,  di cui tutti,  seppur vagamente,  si rendevano
    conto.
    Soltanto  per  questo,   durante  il  Consiglio  di  guerra  a   Malo-
    Jaròslavetz,   mentre   i  generali,   fingendo  di  tener  consiglio,
    esponevano vari  pareri,  l'ultima  opinione,  quella  di  un  ingenuo
    soldato, il Mouton (42), il quale disse ciò che tutti pensavano e cioè
    che  bisognava  andarsene  con  la  massima rapidità,  chiuse tutte le
    bocche e nessuno, Napoleone compreso, poté obiettare contro una verità
    da  tutti  riconosciuta.   Ma  quantunque  tutti  sapessero  che   era
    necessario andarsene, restava ancora la vergogna della coscienza della
    necessità  di  fuggire  e,  per  vincere tale vergogna,  occorreva una
    spinta dall'esterno.  Spinta che venne al momento opportuno e  fu  ciò
    che  i  Francesi  chiamarono  "le hourra de l'empereur" [43.  l'evviva
    all'imperatore].
    Nel giorno successivo a quella riunione,  Napoleone,  di buon mattino,
    fingendo  di  voler  ispezionare  le truppe e il campo della passata e
    futura battaglia,  uscì con il suo séguito di  marescialli  e  la  sua
    scorta,  tra le linee su cui erano disposte le truppe. I cosacchi, che
    si aggiravano attorno al bottino,  si  imbatterono  nell'imperatore  e
    poco mancò non lo catturassero.  Se i cosacchi non si impadronirono di
    Napoleone in quella circostanza,  ciò accadde per lo stesso motivo che
    rovinò  i  Francesi:  il  bottino  sul  quale  i cosacchi,  qui come a
    Tarùtino, si gettarono, trascurando gli uomini. Essi, senza curarsi di
    Napoleone,  si occuparono solo del bottino,  e l'imperatore ebbe tempo
    di allontanarsi.
    Quando  fu  evidente  che  "les enfants du Don" [44.  i figli del Don]
    avrebbero potuto catturare Napoleone in mezzo al suo esercito, risultò
    chiaro che non restava altro da fare se non fuggire al più presto, per
    la via più vicina e  conosciuta.  Napoleone,  con  il  suo  ventre  di
    quarantenne,  non sentendo più in sé l'agilità e l'ardire di un tempo,
    comprese l'avvertimento.  Sotto l'influenza della  paura  cagionatagli
    dai cosacchi, condivise subito il parere di Mouton e, come narrano gli
    storici, diede l'ordine della ritirata per la strada di Smolènsk.
    Il  fatto che Napoleone fosse d'accordo con Mouton e che le sue truppe
    prendessero la via del ritorno,  non dimostra ancora  che  egli  abbia
    ordinato  la  ritirata,  ma  dimostra  che  le  forze  agenti su tutto
    l'esercito,  nel senso di avviarlo sulla strada  di  Mozaisk,  agivano
    contemporaneamente anche su Napoleone.


    CAPITOLO 19.

    Quando  un  uomo  si  trova  in  movimento,  immagina  sempre che quel
    movimento  abbia  uno  scopo.  Per  percorrere  una  strada  di  mille
    "verste", gli è indispensabile pensare che in fondo a quella strada ci
    sia qualcosa di buono: gli occorre raffigurarsi una terra promessa per
    avere la forza di muoversi.
    La  terra  promessa,  per  i  Francesi,  fu  durante l'avanzata Mosca;
    durante la ritirata, la patria. Ma la patria era troppo lontana e, per
    un uomo che percorre mille  "verste"  è  assolutamente  indispensabile
    dire  a  se stesso,  dimenticando l'ultima meta: "Oggi,  dopo quaranta
    "verste", giungerò al luogo del riposo e del sonno";  durante la prima
    marcia  quel luogo del riposo offusca la meta finale e concentra in sé
    tutti  i  desideri  e  tutte  le  speranze.   Le  aspirazioni  che  si
    manifestano  singolarmente  in  ogni  uomo,  nella folla si accrescono
    sempre.
    Per  i  Francesi  che  tornavano  indietro  sulla  vecchia  strada  di
    Smolènsk,  la  meta  finale   -  la patria  -  era troppo lontana e la
    meta più vicina,  quella a cui,  intensificandosi in  una  proporzione
    enorme  nella  moltitudine,  tendevano  tutti  i  desideri  e tutte le
    speranze, era Smolènsk.  Non perché i soldati sapessero che a Smolènsk
    vi  erano  viveri in abbondanza e truppe fresche,  non perché qualcuno
    avesse loro  detto  questo  (anzi,  i  capi  supremi  dell'esercito  e
    Napoleone  stesso  non  ignoravano  che  a Smolènsk vi era scarsità di
    viveri),  ma perché era la sola cosa che potesse dar loro la forza  di
    marciare  e  di  sopportare  le  continue  privazioni.  Gli uomini che
    sapevano come quegli altri che non sapevano,  ingannando  allo  stesso
    modo se stessi, aspiravano a Smolènsk come a una terra promessa.
    Usciti  che  furono sulla grande strada,  le truppe francesi,  con una
    energia sorprendente e con inaudita rapidità,  correvano verso la meta
    sognata.  Oltre a questa comune aspirazione, che unificava in un tutto
    la moltitudine  dei  soldati  francesi  e  imprimeva  loro  una  certa
    energia,  vi  era un altro motivo che li teneva uniti,  ed era il loro
    numero.  La  stessa  enorme  massa,  quasi  secondo  la  legge  fisica
    dell'attrazione,  attirava a sé i singoli atomi degli individui.  Essi
    movevano,  con la loro massa di centomila uomini,  come con una intera
    nazione.
    Ognuno  di  quegli uomini desiderava una cosa sola: darsi prigioniero,
    sottrarsi a tutte le sventure e a tutti gli orrori.  Ma da un lato  la
    forza della comune aspirazione, Smolènsk, attirava ognuno nella stessa
    direzione,  da  un  altro  lato  non era possibile che un intero corpo
    d'armata si desse prigioniero a una compagnia;  e  benché  i  Francesi
    approfittassero  di  tutte  le  occasioni  per separarsi gli uni dagli
    altri e di ogni minimo pretesto per darsi prigionieri,  tali occasioni
    e tali pretesti non si presentavano spesso. Il loro stesso numero e il
    movimento rapido e compatto toglieva loro queste possibilità e rendeva
    non  solo difficile,  ma impossibile all'esercito russo arrestare quel
    movimento,  nel  quale  era  impegnata  tutta  l'energia  delle  masse
    francesi.  La disgregazione meccanica del corpo non poteva accelerare,
    oltre un certo limite, il processo di decomposizione.
    Una palla di neve  non  può  sciogliersi  istantaneamente:  esiste  un
    limite  di  tempo  prima  del  quale nessun aumento di calore riesce a
    fondere la neve. Al contrario, quanto maggiore è il calore,  tanto più
    diventa dura la neve che rimane.
    Tra  i  capi  militari  russi,  nessuno,  all'infuori  di Kutuzòv,  lo
    comprendeva.  Quando la direzione della  fuga  dell'esercito  francese
    sulla  strada di Smolènsk fu ben delineata,  cominciò ad avverarsi ciò
    che Konovnicyn aveva preveduto nella notte dell'11  ottobre.  Tutti  i
    più alti capi dell'esercito volevano distinguersi, accelerare, tagliar
    fuori,  accerchiare,  far  prigioniere  le  truppe  francesi  e  tutti
    pretendevano di attaccare.
    Soltanto Kutuzòv impiegava tutte le  sue  forze  (e  le  forze  di  un
    generale  in  capo  non sono mai grandi) per impedire lo scatenarsi di
    un'offensiva.
    Egli non poteva dir loro  ciò  che  noi  diciamo  adesso:  perché  dar
    battaglia,  perché  sbarrare  le strade e perdere dei soldati,  perché
    massacrare tanti infelici?  Perché tutto questo,  dal momento  che  da
    Mosca  a  Vjazma  un  terzo  di  quell'esercito  era svanito senza una
    battaglia? Ma egli parlava loro, traendo dalla sua saggezza di vecchio
    ciò che essi potevano comprendere,  parlava loro del ponte  d'oro,  ma
    essi si facevano beffe di lui, lo calunniavano, si agitavano, andavano
    in  collera  e  si mostravano pieni di coraggio dinanzi alla belva già
    uccisa.
    Presso Vjazma, Ermolov,  Miloràdovic',  Platov e altri,  trovandosi in
    prossimità  dei  Francesi,  non  seppero  frenare il loro desiderio di
    accerchiare e sbaragliare due corpi d'armata.  A Kutuzòv,  annunziando
    la  loro  intenzione,  anziché un rapporto,  mandarono in una busta un
    foglio di carta bianca.
    E per quanto Kutuzòv facesse di tutto per trattenere le truppe  russe,
    queste  attaccavano,  cercando  di  tagliare  la  strada al nemico.  I
    reggimenti di fanteria, a quanto si racconta, andavano all'attacco con
    musiche e tamburi, e uccisero e perdettero migliaia di uomini.
    Ma,  quanto a tagliar fuori,  non tagliarono fuori e non sbaragliarono
    nessuno.  E  l'esercito francese,  serrandosi sempre più a cagione del
    pericolo,  continuò,  consumandosi,  la sua  disastrosa  marcia  verso
    Smolènsk.















    NOTE.

    N. 1. Vassilij Sergéevic' Lanskòj (1754-1831), senatore. Nel 1812 fu a
    capo  del reparto approvvigionamenti ed equipaggiamento dell'esercito.
    Nel 1815 divenne governatore della Polonia;  negli anni 1825-1828 ebbe
    la carica di ministro dell'interno.
    N.  3.  Parte  di  movimento  di  un orologio che suona un accordo con
    diverse campane.
    N.  5.  Vassilij Vassìlevic' Orlòv-Denissov (1775-1844),  generale  di
    cavalleria,  si distinse,  al comando di un reggimento di cosacchi,  a
    Borodinò e a Tarùtino nel 1812.
    N. 6. Timofej Dmitrievic' Grekòv, comandante in capo dell'esercito del
    Don, partecipò alle guerre contro i Turchi (1788-1793) e alle campagne
    antifrancesi (1806-1809 e 1812-1815).
    N. 7. Karl Fëdorovic' Bagovùt (1761-1812),  dopo aver partecipato alla
    guerra contro i Turchi, si distinse in molte campagne contro Napoleone
    e cadde sul campo a Tarùtino.
    N.  8.  Horace Francois Sébastiani (1772-1851), conte e maresciallo di
    Francia di La Porta d'Aupugnano,  in  Corsica;  partecipò  alla  prima
    campagna  d'Italia  e cooperò al colpo di stato del 18 brumaio;  tornò
    poi in Italia con Napoleone,  distinguendosi a Marengo.  Fu ferito  ad
    Austerlitz.  Ambasciatore  in  Turchia  tentò  invano di allearla alla
    Francia.  Sottomessosi ai Borboni,  durante i  Cento  giorni  tornò  a
    fianco di Napoleone. Abile diplomatico, fu ministro degli esteri sotto
    Luigi  Filippo.  E'  sua la celebre frase: "L'ordine regna a Varsavia"
    (dopo la repressione russa del 1831).
    N.  9.  Ivan Alekséevic'  Jàkovlev  (1767-1848),  padre  di  Aleksàndr
    Ivànovic' Herzen (1812-1870), il noto filosofo di tendenza hegeliana e
    rivoluzionario.
    N.   10.   Ivan  Vassìlevic'  Tutolmin  (1751-1815),  generale  russo,
    direttore di un collegio a Mosca e consigliere segreto.
    N.  35.  Ivàn Semënovic' Dòrochov (1762-1815),  generale russo che nel
    1812,  all'epoca  dell'invasione francese,  rimasto isolato con la sua
    brigata,  riuscì ad aprirsi  il  varco  tra  le  truppe  nemiche  e  a
    congiungersi con la seconda armata. Prese parte agli scontri davanti a
    Smolènsk,    alla   battaglia   della   Moscova   dove   si   comportò
    brillantemente,   tanto  da  guadagnarsi  il  grado  di   luogotenente
    generale.  Informò Kutuzòv che i Francesi,  in ritirata, avevano preso
    la strada di Kaluga.
    N.  36.  Jean Broussier (1776-1814)  partecipò  come  volontario  alla
    campagna  del Belgio (1791),  poi prese parte a quella d'Italia e alla
    conquista di Roma e di Napoli.  Si distinse  a  Wagram  e  durante  la
    campagna di Russia.
    N.  37.  Aleksàndr Samòjlovic' Figner (1787-1812),  celebre partigiano
    russo che,  rimasto a Mosca quando la città fu occupata dai  Francesi,
    organizzò  la  guerriglia  contro  i nemici e,  per ordine di Kutuzòv,
    reclutò pattuglie di contadini. Cadde in combattimento a Dessau.
    N.  38.  Aleksàndr Nikitin  Seslavin  (1780-1853),  tenente  generale,
    partecipò  alle  guerre  del  1805,  1807 e 1810;  fu spesso accanto a
    Figner con il suo distaccamento partigiano.
    N. 39.  Dmitrij Nikolaevic' Bolchovìtinov (1780-1852),  partecipò alla
    congiura contro lo zar Paolo Primo nel 1801 e venne perciò sospeso dal
    servizio  per  dieci  anni;  nel  1812  prestava servizio col grado di
    maggiore presso lo stato maggiore del Corpo d'armata di Dochturov.
    N. 40. Aleksàndr Andréevic' Scerbinin (1791-1876),  ufficiale di stato
    maggiore; scrisse pregevoli memorie.
    N.  41.  Germaine  de  Staël  (1766-1817),  scrittrice  e  romanziera,
    contribuì a diffondere in Europa le idee del romanticismo.  Avversa  a
    Napoleone fu esiliata in Svizzera.
    N.  42.  Georges  Mouton (1770-1838),  conte di Lobau,  maresciallo di
    Francia. Volontario nel 1792 si distinse,  nel 1800 a Genova,  dove fu
    gravemente ferito; generale aiutante di campo di Napoleone, combatté a
    Friedland e all'isola di Lobau, ricevendo il titolo di conte di Lobau.
    Caduto  prigioniero  a  Dresda,  venne internato in Ungheria sino alla
    prima Restaurazione.  Ferito e catturato a Waterloo,  tornò in Francia
    nel  1818  e  fu  deputato  liberale.  Da  Luigi  Filippo  fu nominato
    comandante della Guardia nazionale parigina,  maresciallo  e  pari  di
    Francia.