Lev N. Tolstòj.
    GUERRA e PACE.


    LIBRO QUARTO

    PARTE TERZA.


    CAPITOLO 1.

    La  battaglia  di Borodinò,  seguita dall'occupazione di Mosca e dalla
    fuga dei Francesi,  senza altre battaglie,  è uno dei fenomeni storici
    più istruttivi.
    Tutti  gli storici sono concordi nell'affermare che l'attività esterna
    degli stati e dei popoli nei loro urti reciproci,  si manifesta con le
    guerre  e che,  a seconda dei maggiori e minori successi militari,  la
    forza politica degli stati e dei popoli cresce o diminuisce.
    Per quanto strane siano le descrizioni storiche di come  un  qualsiasi
    re  o  un  qualsiasi imperatore abbia radunato il suo esercito e abbia
    combattuto contro l'esercito nemico  riportando  una  vittoria,  abbia
    ucciso   tre,   cinque,   diecimila  uomini  e  di  conseguenza  abbia
    assoggettato uno stato e un intero popolo di alcuni milioni di uomini;
    per quanto sia incomprensibile il motivo per cui la sconfitta del solo
    esercito,  ossia della centesima parte di tutte le forze di un popolo,
    costringa  il  popolo  intero  a sottomettersi,  tutti gli avvenimenti
    della storia (per quanto essa ci è nota) confermano la  verità  che  i
    maggiori   o   minori  successi  dell'esercito  di  un  popolo  contro
    l'esercito di un altro popolo costituiscono le cause  o,  almeno,  gli
    indizi  essenziali  dell'accrescimento o della diminuzione delle forze
    dei popoli. Quando un esercito riporta una vittoria,  subito aumentano
    i diritti del popolo vittorioso a detrimento del popolo vinto.  Quando
    un esercito subisce una sconfitta,  il popolo vinto è privato di certi
    suoi  diritti,  a  seconda  dell'importanza  della sconfitta e,  se la
    disfatta è totale, totale deve essere il suo assoggettamento.
    Così fu (secondo la storia)  dai  tempi  più  remoti  sino  ai  nostri
    giorni. Tutte le guerre di Napoleone confermano tale regola. A seconda
    dell'entità  delle  sue  sconfitte,  l'Austria  perde i suoi diritti e
    aumentano i diritti e  la  potenza  della  Francia.  Le  vittorie  dei
    Francesi  a  Jena  e  ad  Auerstadt  annientano  l'indipendenza  della
    Prussia.
    Ma ecco che nel 1812,  tutto a un tratto,  i  Francesi  riportano  una
    vittoria a Mosca,  Mosca è occupata e,  in seguito a ciò,  senza altre
    battaglie, non è la Russia che cessa di esistere, ma cessa di esistere
    un esercito di  seicentomila  uomini  e,  dopo  l'esercito,  cessa  di
    esistere  tutta la Francia napoleonica.  Far concordare i fatti con le
    leggi della storia,  dire che dopo la battaglia il campo  di  Borodinò
    restò  ai Russi e che,  dopo Mosca,  vi furono altri combattimenti che
    distrussero l'esercito di Napoleone, non è possibile.
    Dopo la vittoria dei Francesi a Borodinò,  non solo non vi  fu  alcuna
    battaglia  campale,  ma neppure uno scontro di una qualche importanza;
    eppure l'armata francese cessò di  esistere.  Come  si  spiega  questo
    fatto?  Se  si  trattasse  di  un esempio che riguarda la storia della
    Cina,  potremmo dire che non è un fenomeno storico (una delle consuete
    scappatoie degli storici quando qualche fatto non concorda con le loro
    teorie);  se  si trattasse di uno scontro di breve durata,  cui avesse
    preso parte un esiguo numero di armati,  potremmo accettare  il  fatto
    come  un'eccezione;  ma  l'avvenimento  si  compì  sotto gli occhi dei
    nostri padri,  per i quali erano in gioco la vita  o  la  morte  della
    patria,  e  quella  guerra  fu  la più grande delle guerre sino allora
    conosciute.
    Quel periodo della campagna  del  1812,  che  va  dalla  battaglia  di
    Borodinò  all'espulsione dei Francesi dalla Russia,  ha dimostrato che
    una battaglia vinta non solo non determina una conquista,  ma non ne è
    neppure  un indizio;  ha dimostrato che la forza che decide il destino
    dei popoli non sta nei conquistatori e nemmeno negli eserciti e  nelle
    battaglie, ma in qualche altra cosa.
    Gli  storici  francesi,  parlando  della  condizione  dell'esercito di
    Napoleone prima dell'esodo  da  Mosca,  sostengono  che  nella  Grande
    Armata  tutto  era a posto,  fuorché la cavalleria,  l'artiglieria e i
    carriaggi e che inoltre mancava il fieno per nutrire i  cavalli  e  il
    bestiame cornuto.  Nulla poteva rimediare a questa mancanza,  perché i
    contadini dei dintorni bruciavano il loro fieno piuttosto che darlo ai
    Francesi.
    La battaglia vinta non diede il risultato consueto perché i contadini,
    Karp e Vlass,  che dopo l'esodo dei Francesi vennero a Mosca  con  dei
    carri  per  saccheggiare  la città,  e in generale non offrirono certo
    esempi di sentimenti  eroici    -    come  tutti  gli  altri  numerosi
    contadini  della  loro  specie   -  anziché portare fieno ai Francesi,
    preferirono darlo alle fiamme,  nonostante il  buon  prezzo  che  essi
    erano disposti a pagare.
    Immaginiamo due uomini che duellino alla spada secondo tutte le regole
    dell'arte  della  scherma:  l'assalto  dura  abbastanza a lungo;  a un
    tratto, uno dei duellanti si accorge di essere ferito e,  comprendendo
    che  la  faccenda  è  seria  e  che  è in gioco la sua vita,  butta la
    sciabola e,  afferrato il primo bastone che gli capita  fra  le  mani,
    comincia a farlo roteare.  Ma immaginiamo anche che il duellante,  che
    così assennatamente ha impiegato il mezzo migliore e più semplice  per
    raggiungere  lo  scopo,  animato  nello  stesso tempo dalle tradizioni
    cavalleresche,  voglia nascondere la realtà del fatto e dica  di  aver
    vinto  rispettando tutte le regole dell'arte.  E' possibile immaginare
    quale imbroglio e quale confusione nascerebbero dalla  descrizione  di
    quel duello?
    Il  duellante  che pretendeva il combattimento secondo tutte le regole
    dell'arte erano i Francesi;  il suo  avversario,  che  ha  gettato  la
    sciabola  e ha afferrato il randello sono i Russi;  coloro che cercano
    di spiegare le fasi del combattimento secondo le regole della  scherma
    sono gli storici che hanno narrato questo avvenimento.
    Dal  tempo  dell'incendio  di  Smolènsk ebbe inizio una guerra che non
    seguiva alcuna precedente tradizione guerresca. L'incendio delle città
    e dei villaggi,  la ritirata dopo la battaglia,  il colpo di  Borodinò
    seguito  da  una  nuova  vittoria,  l'incendio di Mosca,  la caccia ai
    predoni, la cattura dei convogli, la guerriglia partigiana,  non erano
    che infrazioni alle regole.
    Napoleone  lo sentiva e,  sin dal tempo in cui si fermò a Mosca (nella
    posizione regolare dello  spadaccino)  e,  invece  della  spada,  vide
    levato  contro di sé il randello,  non cessò di lagnarsi con Kutuzòv e
    con l'imperatore perché la guerra era condotta contrariamente a  tutte
    le  regole  (come  se  esistessero  regole  per  uccidere gli uomini).
    Nonostante le lagnanze dei Francesi per l'inosservanza  delle  regole,
    nonostante  che  i Russi di condizione elevata considerassero,  chissà
    perché,  vergognoso battersi con il randello e volessero battersi  "en
    quarte" o "en tierce", o fare un'abile finta "en prime" [1. in quarta,
    in  terza (...) in prima] eccetera,  il randello della guerra popolare
    si sollevò con tutta la grandiosità  della  sua  forza  minacciosa  e,
    senza  chiedersi  quali  fossero  le  regole e i gusti di alcuno,  con
    ingenua semplicità,  ma con molto  vantaggio,  si  alzò,  si  abbassò,
    colpendo  i  Francesi  sino  a  che  l'intero esercito invasore non fu
    annientato.
    E felice non è quel popolo che, come i Francesi nell'anno 1813, saluta
    secondo tutte le regole dell'arte e,  voltando verso il nemico  l'elsa
    della spada, la consegna con gesto grazioso e cortese al suo magnifico
    vincitore!  Felice  è  invece  quel  popolo che nell'ora del pericolo,
    senza chiedere come abbiano  agito  gli  altri  in  casi  simili,  con
    facilità  e  semplicità,  alza  il  primo  randello  che  gli capita e
    colpisce con quello sino a quando il sentimento dell'offesa ricevuta e
    della vendetta che tormentano il suo  animo,  non  ceda  il  posto  al
    disprezzo e alla pietà.


    CAPITOLO 2.

    Una  delle più evidenti e vantaggiose eccezioni a quelle che chiamiamo
    le regole della guerra è l'azione di uomini isolati contro uomini  che
    si serrano in masse compatte.  Azioni di questo genere appaiono sempre
    nelle guerre di carattere popolare.  Ed ecco in che  cosa  consistono:
    anziché opporsi massa a massa, gli uomini si sparpagliano, attaccano a
    pochi  per  volta  e fuggono immediatamente quando vengono assaliti da
    forze preponderanti; poi,  alla prima occasione propizia,  sferrano un
    nuovo  attacco.  Così  fecero i guerriglieri di Spagna,  così fecero i
    montanari del Caucaso e così fecero i Russi nel 1812.
    Una guerra così fatta fu chiamata guerra partigiana, pensando,  con il
    darle  questo nome,  di spiegarne il significato.  E' evidente che una
    guerra del genere non  segua  alcuna  regola,  ma  sia  diametralmente
    opposta  a  una  nota norma tattica riconosciuta infallibile.  Afferma
    questa norma che l'attaccante deve concentrare le proprie  truppe  per
    essere al momento della battaglia più forte del nemico.
    La  guerra partigiana (ha sempre successo,  come dimostra la storia) è
    assolutamente l'opposto di questa norma.
    Questa  contraddizione  si  verifica  perché   la   scienza   militare
    identifica  la  forza  delle  truppe  con  il loro numero.  La scienza
    militare afferma che quanto più numerose sono le truppe tanto maggiore
    è la loro forza.  "Les gros bataillons  ont  toujours  raison"  [2.  I
    grossi battaglioni hanno sempre ragione].
    Così dicendo,  la scienza militare è simile a quel genere di meccanica
    che,  basandosi sulla osservazione del movimento dei corpi soltanto in
    rapporto alla loro massa, vuole affermare che le forze sono o non sono
    equivalenti soltanto perché lo sono, e non lo sono, le loro masse.
    La  forza  (quantità  del  moto)  è  il  prodotto  delle  masse per la
    velocità.
    Anche in guerra la forza delle truppe è data dal prodotto di una massa
    per qualche altra cosa, per un'incognita x.
    La scienza militare,  osservando nella storia innumerevoli  esempi  in
    cui  la  massa delle truppe non coincide con la forza,  in cui piccoli
    reparti sottomettono i  grandi,  riconosce  vagamente  l'esistenza  di
    questo  incognito  moltiplicatore,  e si sforza di trovarlo ora in una
    formazione geometrica,  ora nell'armamento ora  - più comunemente    -
    nella genialità dei condottieri.  Ma la sostituzione di questi diversi
    termini come moltiplicatori non dà risultati che si  accordino  con  i
    fatti storici.
    Eppure  basterebbe soltanto rinunziare alla falsa opinione sugli eroi,
    sull'efficacia degli ordini emanati dall'alto durante una  guerra,  ed
    ecco che si riuscirebbe a trovare questa x incognita.
    Questa  x  è  lo  spirito  dell'esercito,  ossia  il maggiore o minore
    desiderio di battersi e di affrontare il pericolo di tutti gli  uomini
    che lo compongono, assolutamente indipendente dal fatto che si battano
    o  no  sotto il comando di geni o di non geni,  su tre o su due linee,
    armati di randelli o di fucili che sparano trenta colpi al minuto. Gli
    uomini,  che hanno maggior desiderio di battersi,  si  mettono  sempre
    nelle condizioni più vantaggiose per farlo.
    Lo  spirito  delle  truppe è il moltiplicatore della massa che dà come
    prodotto la forza.  Definire ed esprimere il significato dello spirito
    dell'esercito,  di questo ignoto moltiplicatore,  è un problema la cui
    soluzione spetta alla scienza.
    Questa  soluzione  sarà  possibile  solo  quando  cesseremo  di  porre
    arbitrariamente,   in  sostituzione  di  questa  incognita  x,  quelle
    condizioni nelle quali la forza si  manifesta,  come  gli  ordini  del
    condottiero,   l'armamento,   eccetera,   ritenendoli  il  valore  del
    moltiplicatore;  ma riconosceremo questa incognita x in tutta  la  sua
    interezza,  ossia come il maggiore o minore desiderio di battersi e di
    affrontare il pericolo.  Soltanto esprimendo  per  equazioni  i  fatti
    storici  conosciuti,  si  potrà,  confrontando  il  valore relativo di
    questa incognita, sperare di trovare l'incognita stessa.
    Dieci uomini o dieci battaglioni o dieci divisioni  combattono  contro
    quindici uomini o battaglioni o divisioni;  li vincono, ossia li hanno
    uccisi o catturati senza eccezione;  essi stessi hanno perduto quattro
    unità.  Così,  da una parte,  se ne sono distrutti quattro, dall'altra
    quindici. Dunque quattro equivale a quindici e di conseguenza 4 x = 15
    y.  Quindi,  x diviso y= 15 diviso 4.  Questa equazione non ci  dà  il
    valore  dell'incognita,  ma  il  rapporto  tra due incognite.  E dalla
    sostituzione  in  tali  equazioni  delle  varie  unità  storiche   (le
    battaglie,  le campagne, i periodi della guerra), si ricavano serie di
    numeri in  cui  debbono  esistere  certe  leggi,  che  possono  essere
    scoperte.
    La   norma   tattica  secondo  cui  bisogna  agire  con  grandi  masse
    nell'attacco e con piccoli gruppi di uomini sparpagliati nella difesa,
    conferma soltanto senza averne la  consapevolezza  questa  verità:  la
    forza di un esercito dipende dal suo spirito.  Per condurre gli uomini
    sotto il fuoco,  ci vuole più  disciplina  che  per  difendersi  dagli
    attaccanti,  e  tale disciplina si raggiunge soltanto con movimenti di
    massa.  Ma questa norma,  nella  quale  viene  trascurato  lo  spirito
    dell'esercito,   si   dimostra  continuamente  inesatta  e,   in  modo
    particolare,  contraddittoria alla realtà  là  dove  il  morale  delle
    truppe si dimostra molto elevato o fortemente depresso, ossia in tutte
    le guerre popolari.
    I Francesi,  ritirandosi nel 1812,  sebbene secondo le leggi tattiche,
    debbano difendersi alla spicciolata,  si serrano in un mucchio  perché
    il  loro  morale è così a terra che soltanto la massa può tenere unite
    le truppe.  I Russi,  al contrario,  stando alla  tattica,  dovrebbero
    attaccare in massa,  ma in realtà si smembrano perché il loro morale è
    tanto alto che uomini isolati battono, senza avere ordini,  i Francesi
    e  non  hanno  bisogno  di  alcuna  costrizione  per  sottoporsi  alle
    difficoltà e ai pericoli.


    CAPITOLO 3.

    La cosiddetta guerra partigiana ebbe inizio con l'entrata del nemico a
    Smolènsk.
    Prima ancora che la guerra partigiana  fosse  ufficialmente  accettata
    dal  nostro  governo,  già  migliaia di uomini dell'esercito nemico  -
    saccheggiatori,  dispersi,  foraggiatori -  erano stati sterminati dai
    cosacchi e dai contadini che li uccidevano così,  inconsciamente, come
    i cani inconsciamente sbranano un cane idrofobo, randagio.
    Denìss Davydov (3),  con il suo istinto di russo,  comprese per  primo
    l'importanza  di  quella terribile arma che,  senza preoccuparsi delle
    regole dell'arte militare,  annientava i Francesi,  e a lui spetta  la
    gloria dei primi tentativi per legalizzare questo genere di guerra.
    Il  24  agosto  fu  riconosciuto  il primo distaccamento partigiano di
    Davydov e, subito dopo, se ne organizzarono molti altri: quanto più la
    guerra continuava, tanto più numerosi diventavano tali distaccamenti.
    I  partigiani  distruggevano  la  Grande  Armata  pezzo   per   pezzo.
    Raccoglievano  le  foglie  avvizzite  che cadevano da sole dall'albero
    disseccato  dell'esercito  francese  e,   talora,   davano   scrolloni
    all'albero  stesso.  Nell'ottobre,  mentre  i Francesi correvano verso
    Smolènsk,  erano  già  in  azione  centinaia  di  reparti  partigiani,
    d'importanza e di carattere diversi. Taluni di essi imitavano i metodi
    dell'esercito regolare: disponevano della fanteria,  della cavalleria,
    di stati maggiori e di ogni comodità;  altri erano composti unicamente
    di cosacchi o di cavalleria;  altri ancora, minori o misti, di fanti e
    di cavalieri;  infine vi erano alcune bande composte di contadini e di
    proprietari,   di  cui  nessuno  conosceva  l'esistenza.  Un  diacono,
    divenuto capo di un reparto,  in un mese catturò alcune  centinaia  di
    prigionieri;  e vi fu una certa Vassilissa,  moglie di uno "stàrosta",
    che uccise centinaia di soldati francesi.
    Gli ultimi  giorni  di  ottobre  furono  i  più  attivi  della  guerra
    partigiana.  Il  primo  periodo  di questa lotta,  in cui i partigiani
    stessi si meravigliavano della loro audacia e, temendo di venire da un
    momento all'altro circondati e catturati dai Francesi, senza quasi mai
    scendere da cavallo, si nascondevano nei boschi,  nell'attesa continua
    di  essere  inseguiti,  era  ormai passato.  Ormai questa guerra aveva
    assunto un carattere definito, e tutti vedevano chiaramente ciò che si
    poteva e ciò che era  impossibile  intraprendere  contro  i  Francesi.
    Ormai soltanto i comandanti dei corpi che, con i loro stati maggiori e
    secondo  le  regole  della  guerra,  marciavano  lontano dai Francesi,
    ritenevano  ancora  parecchie  cose  inattuabili.   Le  piccole  bande
    partigiane,  che già da qualche tempo avevano iniziato la loro opera e
    seguivano i nemici molto da vicino,  giudicavano possibile ciò  che  i
    capi  dei  grandi reparti non osavano neppure pensare.  I cosacchi e i
    contadini,  poi,  che si insinuavano in  mezzo  ai  soldati  francesi,
    ritenevano che ormai nulla ci fosse di impossibile.
    Il 22 ottobre, Denissov, uno dei capi, si trovava con la sua banda nel
    pieno fervore della passione partigiana. Sin dal mattino era in marcia
    con  il  suo  reparto.  Per  tutta  la  giornata,  attraverso i boschi
    fiancheggianti la strada maestra,  aveva  tenuto  d'occhio  un  grosso
    convoglio francese che trasportava materiale di cavalleria insieme con
    alcuni  prigionieri russi e che,  separatosi dal resto dell'esercito e
    sotto  buona  scorta,   come  avevano  detto  gli  informatori   e   i
    prigionieri,  si  dirigeva  verso  Smolènsk.  Non  soltanto Denissov e
    Dòlochov (anch'egli comandante di una  piccola  compagnia  partigiana)
    che  procedeva  non  lontano  da Denissov,  ma anche i capi dei grossi
    distaccamenti,  che avevano uno stato  maggiore,  sapevano  di  questo
    convoglio; tutti ne erano stati informati e, come diceva Denissov, gli
    mostravano  i  denti.  Due  comandanti  di  quei  grossi corpi  -  uno
    polacco e l'altro tedesco  -  quasi contemporaneamente,  ciascuno  per
    proprio  conto,  mandarono  a  Denissov  l'invito di unirsi a loro per
    assalire di sorpresa il convoglio.
    - No, mio caro, li ho anch'io i baffi...  -  disse Denissov,  leggendo
    quella carta;  e scrisse al comandante tedesco che,  nonostante il suo
    vivo desiderio di essere agli ordini di un generale così  brillante  e
    famoso,  era  costretto  a rifiutare quella fortuna giacché si era già
    posto sotto il comando  del  generale  polacco;  al  generale  polacco
    scrisse  la  stessa  cosa,  informandolo di essersi già posto sotto il
    comando del generale tedesco.
    Denissov agiva così perché aveva  intenzione,  senza  doverne  rendere
    conto ad alcun superiore, di attaccare e di impadronirsi del convoglio
    insieme con Dòlochov,  con le sue sole ed esigue forze.  Il 22 ottobre
    il convoglio si dirigeva dal villaggio di  Mikùlino  al  villaggio  di
    Sciàmsevo.  A  sinistra  della  strada  da  Mikùlino  a  Sciàmsevo  si
    stendevano dei grandi boschi che, in certi punti rasentavano la strada
    stessa,  e in certi altri se ne allontanavano di un miglio e  più.  In
    quei boschi, ora inoltrandosi nel folto, ora comparendo qua e là lungo
    i margini,  Denissov marciò per tutta la giornata senza mai perdere di
    vista il convoglio francese in  cammino.  Sin  dal  mattino,  a  breve
    distanza da Mikùlino,  là dove il bosco costeggiava la strada,  alcuni
    cosacchi di Denissov si erano  impadroniti  di  due  furgoni  francesi
    carichi  di selle di cavalleria,  che erano affondati nel fango,  e li
    avevano trascinati nel bosco.  Da quel momento e sino  alla  sera,  la
    banda  senza  attaccare  aveva  seguito  il  movimento  dei  Francesi.
    Bisognava,  senza spaventarli,  lasciarli arrivare sino a Sciàmsevo  e
    là,  unitamente a Dòlochov che doveva giungere verso sera per prendere
    accordi,  al posto di guardia della foresta (a un miglio da Sciàmsevo)
    piombare all'improvviso,  verso l'alba,  sui Francesi,  sbaragliarli e
    catturarli tutti.  Più indietro,  a due miglia da  Mikùlino,  dove  il
    bosco  toccava  la  strada,  erano  stati  lasciati  sei  cosacchi con
    l'incarico di avvertire immediatamente qualora fossero comparse  altre
    colonne francesi.
    Davanti  a Sciàmsevo,  Dòlochov doveva allo stesso modo sorvegliare la
    strada  per  osservare  a  quale  distanza  ci  fossero  altre  truppe
    francesi.  Si  supponeva  che  millecinquecento  uomini scortassero il
    convoglio. Denissov ne aveva duecento, Dòlochov quasi altrettanti.  Ma
    la  superiorità  numerica  dei nemici non arrestava Denissov.  La sola
    cosa che gli occorresse sapere era con quali truppe avesse esattamente
    a che fare;  a questo scopo Denissov doveva  catturare  una  "lingua",
    ossia  un uomo della colonna nemica.  L'assalto del mattino ai furgoni
    si era svolto con tale rapidità che i Francesi sui furgoni erano stati
    uccisi e, vivo,  era stato preso soltanto un tamburino,  un ragazzo un
    po'  ritardato,  incapace  di  riferire  alcunché di positivo sul tipo
    delle truppe in colonna.
    Denissov riteneva pericoloso un secondo attacco,  dovendosi evitare di
    mettere in allarme tutta la colonna e perciò mandò innanzi a Sciàmsevo
    un  certo  Tichòn  Scerbatij,   un  contadino  della  sua  banda,  con
    l'incarico di catturare se fosse  possibile  almeno  uno  dei  furieri
    francesi che già dovevano essere in quel villaggio.


    CAPITOLO 4.

    Era  una giornata d'autunno tiepida e piovosa.  Il cielo e l'orizzonte
    erano entrambi color dell'acqua torbida. Ora sembrava che scendesse la
    nebbia, ora all'improvviso cadeva uno scroscio obliquo di pioggia.
    Denissov,  avvolto in una "burka" (4) e  con  il  capo  coperto  dalla
    "papacha" (5) grondante acqua,  montava un cavallo di razza, magro dai
    fianchi  incavati  e  stretti  nei  finimenti.   Egli,   come  la  sua
    cavalcatura  che  piegava  il  muso  di  lato  e drizzava le orecchie,
    storcendo il viso sotto la pioggia obliqua  e  con  aria  preoccupata,
    guardava  fisso  dinanzi  a sé.  Il suo volto scarno dalla barba folta
    corta e nera, aveva un'espressione di collera.
    A fianco di Denissov, anch'egli in "burka" e "papacha",  su un robusto
    e  ben  nutrito  cavallo  del Don,  cavalcava un "essaùl" (6) cosacco,
    collaboratore di Denissov.
    Terzo cavaliere era  l'"essaùl"  Lovàjskij,  anch'egli  in  "burka"  e
    "papacha",  lungo,  piatto come un'asse,  biondo,  gli occhi stretti e
    chiari,  con un'espressione tranquilla e soddisfatta di sé nel viso  e
    nel portamento.
    Sebbene   fosse   impossibile   dire   in   che  cosa  consistesse  la
    particolarità del cavallo e del cavaliere alla prima occhiata  gettata
    sull'"essaùl" e su Denissov, si vedeva che Denissov, zuppo d'acqua, si
    trovava  a  disagio,  che  Denissov era un uomo montato su un cavallo;
    mentre,  guardando l'"essaùl",  appariva chiaro che  egli  si  sentiva
    calmo  e  a  suo  agio come sempre e che non era un uomo in sella a un
    cavallo, ma un uomo che con la sua cavalcatura costituiva e formava un
    essere unico, ingigantito da una duplice forza.
    Precedeva i tre un contadino che faceva da guida fradicio di  pioggia,
    in caffettano grigio e colbacco bianco.
    Li seguiva di poco,  sopra un cavalluccio kirghiso magro e snello, con
    la coda e la criniera lunghissime e le labbra lacerate  e  sanguinanti
    per il morso,  un giovane ufficiale con un cappotto turchino francese.
    Accanto a lui cavalcava un ussaro,  che aveva  con  sé,  sulla  groppa
    della  cavalcatura,  un  ragazzo  con  una lacera divisa francese e un
    colbacco azzurro.  Il ragazzo si teneva stretto all'ussaro con le mani
    livide per il freddo,  agitava i piedi nudi cercando di riscaldarli e,
    alzando  le  sopracciglia,  si  guardava  attorno,  stupito.   Era  il
    tamburino francese fatto prigioniero quella mattina.
    Più  indietro,  per  tre  o  per quattro,  sulla strada stretta che si
    snodava nel bosco, venivano prima gli ussari,  poi i cosacchi,  alcuni
    in  "burka",   altri  in  cappotto  francese,  altri  ancora  con  una
    gualdrappa gettata sulla testa.  I cavalli,  fulvi o  bai,  sembravano
    neri per la pioggia che scorreva loro addosso;  il loro collo,  per la
    criniera inzuppata d'acqua,  sembrava stranamente sottile.  Un  vapore
    denso si alzava dai loro fianchi. E le uniformi, le selle, le briglie,
    tutto  era bagnato,  viscido e molle come la terra e le foglie cadute,
    di cui era cosparsa la strada.  Gli uomini sedevano rannicchiati sulla
    sella,  cercando  di non muoversi per intiepidire l'acqua che scorreva
    lungo il loro corpo, e per non lasciare passare l'acqua nuova e fredda
    che colava sotto le selle e le ginocchia e dietro  il  collo.  Tra  le
    file dei cosacchi, due furgoni, cui erano attaccati cavalli francesi e
    cavalli cosacchi, sobbalzavano rumorosamente, urtando contro i ceppi e
    i  rami secchi che ingombravano la strada,  diguazzando nell'acqua che
    stagnava nelle carreggiate.
    Il cavallo di Denissov, per aggirare una pozzanghera sulla strada,  si
    trasse da una parte e gli fece urtare un ginocchio contro un albero.
    -  Ehi,  diavolo!    -  gridò rabbiosamente Denissov e,  digrignando i
    denti, colpì due o tre volte l'animale con lo scudiscio, inzaccherando
    di acqua e di fango sé e i compagni. Egli era di pessimo umore sia per
    la pioggia,  sia per l'appetito  (dalla  mattina  non  aveva  mangiato
    nulla)  e,  soprattutto,  perché  non  aveva  avuto  alcuna notizia di
    Dòlochov e perché l'uomo mandato a prelevare la "lingua" non ritornava
    ancora.
    "E' poco probabile che si presenti un'altra occasione come questa  per
    assalire  il  convoglio.  Attaccare da solo è troppo rischioso,  ma se
    rimandiamo l'impresa a un altro giorno,  qualche banda più numerosa ci
    porterà via il bottino di sotto il naso",  pensava Denissov, guardando
    continuamente avanti  nella  speranza  di  vedere  l'atteso  messo  di
    Dòlochov.
    Giunto su uno spiazzo,  di dove si poteva spingere lontano lo sguardo,
    Denissov si fermò.
    - Sta arrivando qualcuno  -  disse.
    L'"essaùl" guardò nella direzione indicata da Denissov.
    - Sono due a cavallo: un  ufficiale  e  un  cosacco.  Tuttavia  non  è
    "supponibile"  che  sia il colonnello in persona  -  disse l'"essaùl",
    che amava usare parole ignote ai cosacchi.
    I due cavalieri,  dopo essere discesi lungo il pendio,  scomparvero in
    un  avvallamento del terreno,  ma dopo pochi minuti ricomparvero.  Per
    primo,  a uno stanco galoppo,  incitando con lo  scudiscio  l'animale,
    veniva un ufficiale con i capelli arruffati,  bagnato sino all'osso, e
    con i pantaloni rimboccati sin  sopra  le  ginocchia.  Lo  seguiva  al
    trotto  il  cosacco,  ritto  sulle  staffe.  L'ufficiale,  un  ragazzo
    giovanissimo,  dal  largo  viso  colorito,  gli  occhi  mobilissimi  e
    allegri, si avvicinò a Denissov e gli tese un plico tutto bagnato.
    - Da parte del generale  -  disse il giovane ufficiale.  -  Scusate se
    è bagnato...
    Denissov, accigliato, prese il plico e cominciò a dissuggellarlo.
    -  Ecco,  tutti  dicevano che era pericoloso,  pericoloso  -  proseguì
    l'ufficiale,  rivolgendosi all'"essaùl",  mentre Denissov leggeva.   -
    Del resto,  io e Komarov (e indicò il cosacco) eravamo pronti a tutto.
    Abbiamo ognuno due pisto...  E questo chi è?   -  domandò,  vedendo il
    tamburino francese.   -  Un prigioniero?  Avete già avuto uno scontro?
    E' possibile parlargli?
    - Rostòv! Pétja  -  gridò allora Denissov, che aveva finito di leggere
    il plico.   -  Perché non hai detto subito chi eri?   -  e Denissov si
    volse con un sorriso e tese la mano all'ufficiale.
    Quell'ufficiale era Pétja Rostòv.
    Durante  tutta  la  strada,  Pétja  si  era  preparato a presentarsi a
    Denissov come si conviene a un ufficiale e ad un  adulto,  senza  fare
    alcun  cenno  alla loro antica conoscenza.  Ma non appena Denissov gli
    ebbe sorriso,  subito il volto di Pétja si illuminò;  arrossì di gioia
    e, dimenticando il contegno ufficiale che voleva mantenere, cominciò a
    raccontare come fosse riuscito a passare davanti ai soldati francesi e
    disse  quanto  fosse  contento  di  avere  avuto quell'incarico e come
    avesse già partecipato al combattimento nei pressi di Vjazma,  dove un
    ussaro si era veramente distinto.
    - Insomma,  sono proprio felice di vederti  -  lo interruppe Denissov,
    e il suo viso assunse di nuovo un'espressione preoccupata .
    - Michaìl Feoklityc'  -  disse,  volgendosi all'"essaùl".   -   E'  di
    nuovo  un messaggio di quel tedesco.  E' il suo ufficiale d'ordinanza.
    -  E Denissov comunicò all'"essaùl" Feoklityc' che  il  contenuto  del
    messaggio,  recapitatogli allora,  era una nuova,  insistente proposta
    del generale tedesco a Denissov perché si unisse a lui nell'assalto al
    convoglio.  -  Se non l'assaliremo domani, quel convoglio,  il tedesco
    ce lo porterà via di sotto il naso  -  concluse.
    Mentre Denissov parlava con l'"essaùl", Pétja, imbarazzato per il tono
    freddo  di  lui,  e supponendo che la causa di tale freddezza fosse lo
    stato dei  propri  pantaloni,  prese  ad  accomodarseli  di  sotto  al
    cappotto,  in  modo che nessuno se ne accorgesse e cercando intanto di
    assumere l'aspetto più marziale possibile.
    - Ci sono ordini da parte di vostra signoria?   -  domandò a Denissov,
    portando  la mano alla visiera e riprendendo la parte dell'aiutante di
    campo del generale,  a cui si era preparato.   -  Oppure devo  restare
    presso la signoria vostra?
    -  Ordini?   -  ripeté pensoso Denissov.   -  Puoi rimanere qui sino a
    domani?
    - Ah,  ve ne prego!   -  esclamò Pétja.   -  Posso dunque rimanere con
    voi?
    - Ma quali ordini precisi hai avuto dal generale? Di ritornare subito?
    -  domandò Denissov. Pétja arrossì.
    - Non mi ha dato alcun ordine.  Credo di potere...  -  rispose in tono
    interrogativo.
    - D'accordo  -  disse Denissov. E, rivolto ai suoi subordinati, ordinò
    che la banda si recasse al luogo di riposo già stabilito nel  bosco  e
    che   l'ufficiale  sul  cavallo  kirghiso  (quell'ufficiale  aveva  le
    funzioni di aiutante) andasse a cercare Dòlochov per  informarsi  dove
    fosse e se quella sera sarebbe venuto. Denissov stesso, con l'"essaùl"
    e  Pétja,  aveva  intenzione di avvicinarsi al margine del bosco dalla
    parte di Sciàmsevo per osservare il luogo nel quale si  accampavano  i
    Francesi  e  verso il quale il giorno successivo doveva essere diretto
    l'attacco.
    - Su barbone!  -  disse, rivolto al contadino che faceva da guida.   -
    Devi condurci verso Sciàmsevo.
    Denissov,  Pétja  e  l'"essaùl",  accompagnati  da  alcuni  cosacchi e
    dall'ussaro che sorvegliava il prigioniero,  si diressero a  sinistra,
    attraverso le forre, verso il margine del bosco.


    CAPITOLO 5.

    La pioggia era cessata,  scendeva la nebbia e grosse gocce di acqua si
    staccavano dai rami.  Denissov,  l'"essaùl"  e  Pétja  cavalcavano  in
    silenzio dietro al contadino con il colbacco che,  con i piedi calzati
    di "lapty",  camminava leggero e senza far rumore sulle radici e sulle
    foglie fradicie, guidandoli verso il margine del bosco.
    Uscito  su  un pendio,  il contadino si fermò,  si guardò attorno e si
    diresse verso una fila di alberi che andavano diradandosi. Arrestatosi
    presso una maestosa quercia,  che non aveva ancora  perduto  tutte  le
    foglie, con un cenno misterioso della mano li chiamò a sé.
    Denissov e Pétja gli si avvicinarono. Dal punto in cui il contadino si
    era  fermato  si  potevano vedere i soldati francesi.  Subito oltre il
    bosco si stendeva un campo di biade, in lieve pendenza.  A destra,  al
    di là di un burrone dirupato, si vedevano un villaggetto e una piccola
    casa  padronale  con  il  tetto in rovina.  In quel piccolo villaggio,
    nella casa padronale e su tutto il poggio,  nel giardino,  accanto  al
    pozzo,  presso lo stagno e lungo tutta la via in salita dal ponte sino
    al villaggio a una distanza di  non  più  di  quattrocento  metri,  si
    scorgevano  nella  nebbia ondeggiante numerosi soldati e se ne udivano
    distintamente le grida  -  in una lingua che non era la russa  -   per
    incitare i cavalli a superare l'erta e per chiamare qualcuno.
    -  Conducete  qui  il  prigioniero   -  disse Denissov sottovoce senza
    distogliere gli occhi dai soldati francesi.
    Il cosacco scese di sella,  fece smontare il tamburino e,  insieme con
    lui, si avvicinò a Denissov. Denissov, indicando la folla dei soldati,
    gli  domandò  a  quali corpi appartenessero.  Il ragazzo,  cacciate in
    testa le mani livide per  il  freddo  e  sollevando  le  sopracciglia,
    guardava  spaventato  Denissov  e,  nonostante l'evidente desiderio di
    dire tutto ciò che sapeva,  si impappinò  nel  rispondere  e  confermò
    soltanto  le  domande di Denissov.  Questi,  accigliato,  gli voltò le
    spalle  e  si  rivolse   all'"essaùl",   comunicandogli   le   proprie
    impressioni.
    Pétja,  facendo con il capo rapidi movimenti, guardava a volta a volta
    il tamburino,  il  capitano,  Denissov,  l'"essaùl",  i  Francesi  nel
    villaggio e sulla strada,  cercando di non lasciarsi sfuggire nulla di
    importante.
    - Venga  o  non  venga  Dòlochov,  bisogna  che  ci  impadroniamo  del
    convoglio,  non  vi  pare?   -  disse Denissov,  i cui occhi mandavano
    lampi di allegria.
    - Il luogo è favorevole  -  osservò il capitano.
    - Manderemo la fanteria dal basso attraverso le paludi    -    riprese
    Denissov.    -    Scivolerà  facendosi  sotto  il giardino;  voi con i
    cosacchi passerete da quella parte  -  Denissov indicò il bosco al  di
    là  del  villaggio   -  e io,  con i miei ussari,  di qui...  E quando
    sentirete un colpo...
    - Sarà impossibile passare dal burrone, è tutto un pantano  -  osservò
    l'"essaùl".   -  I cavalli vi affonderebbero;  bisognerà  passare  più
    sinistra.
    Mentre  i  due così parlavano a mezza voce,  giù nel valloncello dalla
    parte dello stagno,  si udì uno sparo seguito da un altro,  si alzò un
    fumo  bianco  e  si  levarono  le  grida concordi,  quasi allegre,  di
    centinaia di voci francesi. Al primo momento, Denissov e l'"essaùl" si
    trassero indietro.  Erano tanto vicini che parve  loro  di  essere  la
    causa di quelle fucilate e di quelle grida.  Ma le grida e le fucilate
    non li riguardavano.  Giù in basso,  in mezzo ai  pantani,  si  vedeva
    correre un uomo coperto da qualcosa di rosso. Evidentemente era contro
    di lui che i Francesi avevano gridato e sparato.
    - Ma quello è il nostro Tichòn!   -  esclamò l'"essaùl".  -  Sì, sì, è
    proprio lui!
    - Che birbante!  -  osservò Denissov.
    - Se la caverà  -  disse l'"essaùl", ammiccando.
    L'uomo che essi avevano chiamato Tichòn, giunto di corsa al fiume,  vi
    si  gettò  dentro  tanto bruscamente che gli spruzzi si levarono tutto
    attorno e, sparito per un momento, uscì carponi, tutto nero d'acqua, e
    continuò la sua corsa. I soldati che lo inseguivano, si fermarono.
    - E' in gamba, eh?  -  osservò l'"essaùl".
    - Che razza di animale!   -  esclamò Denissov,  sempre con la medesima
    aria di dispetto.  -  E che mai avrà fatto in tutto questo tempo?
    - Chi è?  -  domandò Pétja.
    - E' uno dei nostri cosacchi. L'ho mandato a prelevare una "lingua".
    -  Ah  sì!    -    disse  Pétja  sin  dalle  prime parole di Denissov,
    accennando con il capo come se capisse ogni cosa sebbene, decisamente,
    non avesse capito proprio niente.
    Tichòn Scerbatij,  uno degli uomini più  utili  della  banda,  era  un
    contadino  di Pokròvskoe,  presso Gzat.  Quando,  all'inizio delle sue
    imprese, Denissov era giunto a Pokròvskoe e, come sempre,  aveva fatto
    chiamare lo "stàrosta" e gli aveva domandato quali notizie si avessero
    dei nemici, lo "stàrosta" gli aveva risposto, come sempre facevano gli
    "stàrosta",  quasi  con l'aria di difendersi,  che non sapeva niente e
    che non aveva visto nessuno.  Ma quando Denissov gli ebbe spiegato che
    il  suo  scopo era di dare addosso ai soldati francesi e aveva chiesto
    se fossero venuti a girovagare da quelle parti,  lo "stàrosta" rispose
    che,  in  realtà,  alcuni  saccheggiatori erano comparsi,  ma che solo
    Tichòn Scerbatij,  nel loro villaggio,  si occupava  di  quelle  cose.
    Denissov  aveva  mandato  a  chiamare  Tichòn  e,  lodatolo per la sua
    attività, gli aveva detto, in presenza dello "stàrosta", alcune parole
    sulla fedeltà allo zar e alla patria e sull'odio contro i Francesi che
    i figli della terra russa dovevano nutrire nel loro animo.
    - Noi non facciamo alcun  male  ai  Francesi    -    dichiarò  Tichòn,
    evidentemente  imbarazzato  dalle  parole  di  Denissov.   -  Ci siamo
    divertiti soltanto un po' così,  con i giovanotti,  tanto per il gusto
    di farlo.  A dire il vero,  abbiamo ucciso due diecine di predoni,  ma
    non abbiamo fatto nulla di male...
    Il  giorno  seguente,   quando  Denissov,   che  aveva   completamente
    dimenticato  il contadino,  ebbe lasciato Pokròvskoe,  gli fu riferito
    che Tichòn si era unito alla banda e chiedeva di poter rimanere con  i
    partigiani. Denissov aveva ordinato che restasse.
    Tichòn,   che  sulle  prime  si  occupava  dei  lavori  pesanti,  come
    accatastare la legna per i fuochi,  attingere  l'acqua,  scorticare  i
    cavalli  e  via  dicendo,  ben  presto  dimostrò un grande gusto e una
    grande  capacità  per  la  guerriglia.   Di   notte   si   allontanava
    dall'accampamento  e  andava  a  far  bottino,  e  ogni  volta tornava
    portando abiti e armi francesi  e,  quando  glielo  ordinavano,  anche
    prigionieri.  Denissov,  esonerato  Tichòn  dai lavori pesanti,  aveva
    cominciato a condurlo con sé nelle spedizioni e l'aveva arruolato  tra
    i cosacchi.
    Tichòn,  al  quale  non piaceva montare a cavallo,  preferiva andare a
    piedi,  ma non c'era pericolo che rimanesse indietro dalla cavalleria.
    Le  sue  armi  erano  costituite da un moschetto,  che portava più che
    altro per burla,  da una picca e da una scure,  di cui si serviva come
    il  lupo  si  serve  dei  denti  per  togliersi  le  pulci  dal pelo e
    rosicchiare le  ossa  più  grosse.  Tichòn,  con  la  stessa  abilità,
    spaccava  una  trave  lanciando con forza la scure che prendeva per il
    manico, tagliava sottili bacchette e intagliava cucchiai.
    Nella banda di Denissov, egli occupava un posto speciale ed esclusivo.
    Quando  c'era  da  eseguire  un  lavoro  particolarmente  difficile  e
    sudicio, come cavar fuori a forza di spalle un carro dal fango, tirare
    per  la  coda  un  cavallo,  cacciarsi  proprio  in  mezzo  ai soldati
    francesi,  percorrere in un giorno cinquanta  miglia  a  piedi,  tutti
    indicavano Tichòn.
    - Che diavolo gli fa, a lui? E' forte come un toro!
    Una volta un soldato francese, da lui catturato, gli aveva sparato una
    pistolettata  colpendolo  nella  parte  bassa  della  schiena.  Quella
    ferita,  che Tichòn aveva curato esclusivamente con vodka di dentro  e
    di  fuori,  era  stato  oggetto  degli scherzi più allegri da parte di
    tutti i componenti la banda,  scherzi  ai  quali  Tichòn  si  prestava
    volentieri.
    - Be' amico,  ti ci proverai ancora?  Ti hanno sistemato a dovere, eh?
    -  dicevano ridendo i cosacchi,  e Tichòn,  facendo  smorfie  buffe  e
    rattrappendosi  tutto,  fingeva  di  andare  in  collera e insultava i
    Francesi con le ingiurie più comiche.  Quell'incidente aveva avuto  su
    Tichòn  un  unico  effetto:  dopo  essere  stato  ferito,  faceva meno
    prigionieri di prima.
    Tichòn era l'uomo più utile e più coraggioso della banda.  Nessuno era
    più  abile  di  lui  nel cogliere le occasioni per assalire il nemico,
    nessuno aveva catturato e ucciso  più  soldati  francesi  di  lui;  di
    conseguenza  era diventato il buffone di tutti,  cosacchi e ussari,  e
    volentieri si assoggettava  a  quella  parte.  Ora  Tichòn  era  stato
    mandato  da  Denissov,  sin dalla notte precedente,  a Sciàmsevo,  per
    prendere una  "lingua".  Ma,  o  che  non  si  fosse  accontentato  di
    prenderne una sola o che si fosse addormentato durante la notte, fatto
    si è che soltanto di giorno era andato a cacciarsi proprio in mezzo ai
    nemici e, come Denissov aveva veduto, era stato scoperto e inseguito.


    CAPITOLO 6.

    Dopo  aver  parlato  ancora  per  un  po'  di  tempo  con l'"essaùl" a
    proposito  dell'assalto  del  giorno  dopo  che  ora,   osservando  la
    vicinanza  dei  nemici,  considerava definitivamente deciso,  Denissov
    fece voltare il cavallo e tornò indietro.
    - Be', mio caro, ora andiamo ad asciugarci  -  disse a Pétja.
    Mentre si avvicinava al posto di guardia del bosco, Denissov si fermò,
    fissando gli occhi tra il folto.  Attraverso il bosco veniva,  tra  un
    albero  e l'altro,  un uomo che camminava a grandi passi leggeri sulle
    lunghe gambe e con le lunghe braccia penzoloni, in caffettano, "lapty"
    ai piedi e cappello di Kazàn sulla testa con il fucile  a  tracolla  e
    una scure infilata nella cintola. Alia vista di Denissov, l'uomo buttò
    in fretta qualcosa in mezzo a un cespuglio e,  togliendosi il cappello
    zuppo d'acqua  dalle  tese  afflosciate,  si  avvicinò  al  superiore.
    Quell'uomo era Tichòn. La faccia butterata dal vaiuolo e segnata dalle
    rughe,   con  gli  occhi  piccoli  e  stretti,   raggiava  di  gioiosa
    soddisfazione. Sollevò il capo e,  come se si trattenesse a fatica dal
    ridere, fissò Denissov.
    - Be', dove ti sei cacciato?  -  domandò Denissov.
    -  Dove mi sono cacciato?  In cerca di soldati francesi  -  rispose in
    fretta e con aria baldanzosa Tichòn, con la sua rauca voce bassa.
    - E perché ci sei andato di giorno? Animale! E allora non l'hai preso?
    - Per prenderlo, l'ho preso, e come!  -  rispose Tichòn.
    - E dov'è?
    - L'ho  preso  subito,  sul  far  dell'alba,    -    proseguì  Tichòn,
    piantandosi  saldamente sui larghi piedi calzati di "lapty"  -  e l'ho
    portato nel bosco. L'ho osservato bene,  ma non faceva al caso nostro.
    Be', mi sono detto, vado a prenderne un altro che vada meglio.
    -  Ma guarda che razza di animale!   -  esclamò Denissov all'"essaùl".
    -  Perché non hai portato quello?
    - E perché portarlo?   -  rispose Tichòn in fretta e in tono irritato.
    -    Quello non andava bene: forse che non so quali sono quelli che ci
    vogliono?
    - Che animale! Ebbene?
    - Sono andato dunque a prenderne un altro  -  proseguì  Tichòn.  -  Mi
    sono  internato  nella foresta e mi sono messo bocconi,  così...  -  E
    Tichòn, con inattesa agilità e rapidità,  si sdraiò sul ventre per far
    vedere  come aveva fatto.   -  Me ne è capitato uno a tiro  -  seguitò
    -  e l'ho acchiappato così...   -  E Tichòn balzò in  piedi  svelto  e
    leggero.   -  Andiamo,  gli dico, dal colonnello. Si è messo a fare un
    baccano d'inferno;  e lì ce n'erano altri quattro dei  loro.  Mi  sono
    piombati addosso con le sciabole, io ho risposto con la scure, così...
    Che fate?  dico. Che Cristo sia con voi!  -  gridò Tichòn, agitando le
    braccia e cacciando fuori il petto con aria minacciosa.
    - Sì, sì, dal poggio abbiamo visto...  andavi come una saetta in mezzo
    alle  pozzanghere    -    disse  l'"essaùl",  socchiudendo  gli  occhi
    scintillanti.
    Pétja aveva una  gran  voglia  di  ridere,  ma  vedeva  che  tutti  si
    frenavano.  Distolse  gli occhi dal viso di Tichòn e li posò su quello
    dell'ussaro e di Denissov,  senza capire che cosa  significasse  tutto
    questo.
    -  Tu  non  fare  il  buffone    -    disse  Denissov,   tossicchiando
    nervosamente.  -  Perché non hai portato il primo?
    Tichòn cominciò a grattarsi con una mano la schiena e con  l'altra  la
    testa.  A  un tratto la faccia gli si distese in uno stupido,  radioso
    sorriso,   che  rivelò  la  mancanza  di  un  dente  (per  questo  era
    soprannominato  Scerbatij).  Denissov  sorrise,  e  Pétja  scoppiò  in
    un'allegra risata alla quale fece eco lo stesso Tichòn.
    - Perché non andava proprio bene!   -  dichiarò Tichòn.   -  Indossava
    una striminzita uniforme malandata. Dove lo potevo portare? E poi, era
    insolente.  "Come?",  diceva, "sono figlio anch'io di un generale. Non
    ci vado!".
    -  Che  animale!    -    esclamò  Denissov.    -    Avevo  bisogno  di
    interrogarlo...
    -  Ma  l'ho  interrogato io  -  rispose Tichòn.   -  Dice di non saper
    niente.  I nostri,  dice,  sono molti,  ma valgono ben poco;  non  c'è
    rimasto che il nome.  Basterà che facciate "ah!" e li prenderete tutti
    quanti  -    concluse  Tichòn  in  tono  allegro  e  deciso,  fissando
    Denissov.
    -  Vuoi vedere che ti farò dare cento staffilate e allora la pianterai
    di fare il buffone?  -  disse Denissov con aria severa.
    - Ma perché vi arrabbiate?   -  domandò Tichòn.   -  Non li  ho  forse
    visti  i vostri Francesi?  Aspettate solo che sia buio e ve ne porterò
    anche tre di quelli che volete.
    - Su,  andiamo!   -  interruppe Denissov,  e cavalcò sino al posto  di
    guardia, accigliato e di pessimo umore.
    Tichòn  lo  seguì e Pétja sentì che i cosacchi ridevano di lui e di un
    certo paio di stivali che egli aveva buttato in mezzo a un cespuglio.
    Quando l'impeto di ilarità suscitato dalle parole  e  dal  sorriso  di
    Tichòn si fu calmato, Pétja capì improvvisamente che quel Tichòn aveva
    ucciso un uomo,  e si sentì a disagio. Guardò il tamburino prigioniero
    e sentì una stretta al cuore.  Ma quel disagio durò un  momento  solo.
    Provò il bisogno di alzar la testa,  di assumere un'aria marziale e di
    interrogare l'"essaùl", con un certo tono di importanza,  sull'impresa
    del  giorno successivo,  per mostrarsi non indegno della compagnia con
    la quale si trovava.
    L'ufficiale inviato da Denissov venne loro incontro  per  via  con  la
    notizia che Dòlochov sarebbe venuto subito e che da quella parte tutto
    andava bene.
    Denissov diventò allegro da un momento all'altro e chiamò Pétja.
    - Su, adesso parliamo un po' di te  -  gli disse.


    CAPITOLO 7.

    Partito da Mosca dopo aver lasciato la famiglia, Pétja aveva raggiunto
    il  suo  reggimento  e  poco  dopo  era  stato  assunto come ufficiale
    d'ordinanza da un generale che comandava un grande  distaccamento.  Da
    quando era stato promosso ufficiale e,  in particolare,  da quando era
    entrato  a  far  parte  dell'esercito  operante  con  il  quale  aveva
    partecipato alla battaglia di Vjazma, Pétja si trovava in uno stato di
    continua,  gioiosa  eccitazione perché si sentiva ormai un adulto,  ed
    era animato  da  un  vivace  entusiasmo,  voglioso  di  non  lasciarsi
    sfuggire l'occasione di mostrarsi un vero eroe. Era felicissimo di ciò
    che  aveva veduto e sperimentato nell'esercito,  ma nello stesso tempo
    gli pareva che il vero eroismo potesse manifestarsi in luoghi  diversi
    da  quelli  in  cui  egli  si  trovava.  Perciò aveva sempre fretta di
    arrivare dove non era.
    Quando il 21 ottobre il suo generale aveva  espresso  l'intenzione  di
    mandare  qualcuno  alla  banda di Denissov,  Pétja aveva implorato con
    tanta insistenza di essere scelto  lui,  che  il  generale  non  aveva
    saputo  dire  di no.  Tuttavia,  scegliendolo come suo messaggero,  il
    generale,  ricordandosi dell'azione insensata compiuta da  Pétja  alla
    battaglia  di Vjazma dove il ragazzo,  invece di seguire la strada che
    lo conduceva direttamente al luogo in cui era stato  inviato,  si  era
    spinto al galoppo sino alla prima linea,  sotto il fuoco del nemico, e
    là aveva sparato due volte con la  pistola,  proprio  per  questo,  al
    momento  del  commiato,  il  generale  gli  aveva vietato nel modo più
    assoluto di partecipare a qualsiasi azione  di  Denissov.  Per  questo
    motivo Pétja si era turbato ed era arrossito quando Denissov gli aveva
    domandato  se  avesse  il permesso di rimanere.  Sino a quando non era
    giunto al margine del bosco,  Pétja aveva sentito  di  dover  compiere
    scrupolosamente  il proprio dovere tornando subito alla sua compagnia.
    Ma,  dopo aver visto i Francesi,  dopo aver visto  Tichòn,  dopo  aver
    saputo  che  durante  la notte ci sarebbe stato certamente un attacco,
    con la mutabilità propria dei giovani per  cui  essi  passano  da  una
    decisione all'altra, aveva stabilito che il suo generale (per il quale
    sino  a  quel  momento aveva avuto un'alta considerazione) non era che
    uno spregevole tedesco,  mentre Denissov era un  eroe,  l'"essaùl"  un
    eroe e un eroe pure Tichòn e che sarebbe stato vergognoso lasciarli in
    un momento critico.
    Scendeva il crepuscolo quando Denissov, Pétja e l'"essaùl" giunsero al
    posto di guardia. Nella semioscurità si intravedevano cavalli sellati,
    cosacchi  e ussari che improvvisavano delle baracchette nella radura e
    (perché i nemici non vedessero il fumo) accendevano il fuoco in  fondo
    a un burrone del bosco.  Nel vestibolo della piccola "izbà" un cosacco
    con  le  maniche  rimboccate  stava  tagliando  a  pezzi  un  montone,
    nell'"izbà"  propriamente  detta tre ufficiali della banda di Denissov
    stavano costruendo una tavola, servendosi di una porta. Pétja si tolse
    la giubba fradicia per farla asciugare e si mise subito ad aiutare gli
    ufficiali a preparare la tavola per il pranzo.
    Dopo dieci minuti la tavola,  coperta da  una  tovaglia,  era  pronta.
    Sopra  erano  posati  la  vodka,  una fiaschetta di rum,  pane bianco,
    montone arrosto e il sale.
    Seduto a tavola con gli ufficiali e lacerando con le mani, sulle quali
    colava il grasso, il profumato montone arrostito,  Pétja si trovava in
    uno  stato  di entusiasmo infantile,  di tenero amore per tutti i suoi
    simili e perciò si sentiva certo dell'amore degli altri verso di lui.
    - Dunque, Vassilij Fëdorovic',  che ne dite?   -  disse,  volgendosi a
    Denissov.    -    Credete che non importi nulla se resto un giorno con
    voi?   -  E,  senza attendere la risposta,  continuò rispondendosi  da
    solo:    -  Sono stato mandato a prendere informazioni...  e io mi sto
    informando.  Soltanto,  mandatemi dov'è più importante...  Non  chiedo
    ricompense...  vorrei  solo...    -  Pétja strinse i denti e si guardò
    attorno, alzando di scatto il capo e agitando una mano.
    - Dov'è più importante...  -  ripeté Denissov, sorridendo.
    - Vi prego soltanto,  per favore,  di darmi un  comando...  perché  io
    possa  comandare...  che  cosa vi costa?   -  proseguì Pétja.   -  Ah,
    volete un coltello?  -  disse, rivolgendosi a un ufficiale che cercava
    di tagliare un pezzo di  montone.  E  gli  porse  il  suo  coltello  a
    serramanico.
    L'ufficiale fece l'elogio del coltello.
    - Prendetelo,  tenetelo voi.  Io ne ho parecchi altri uguali...  disse
    Pétja,  facendosi  rosso.    -    Santi  benedetti!   Mi  ero  proprio
    dimenticato...    -    esclamò  a  un  tratto.    -  Ho dell'uva passa
    meravigliosa, sapete, di quella senza i vinacciuoli.  Abbiamo un nuovo
    vivandiere, che ha cose magnifiche. Ne ho comperato dieci libbre. Sono
    abituato a mangiare un po' di roba dolce. Ne volete?  -  E Pétja corse
    nell'anticamera,  dal  suo  cosacco,  e  tornò  con  un  sacchetto che
    conteneva circa cinque libbre di uva passa.   -  Mangiatene,  signori,
    mangiatene,  ve  ne prego!  Avete per caso bisogno di una caffettiera?
    -  domandò all'"essaùl".   -  L'ho comperata dal nostro vivandiere:  è
    magnifica!  Quell'uomo ha delle cose bellissime. Ed è molto onesto. Ve
    ne darò una, senza fallo. E forse avrete già consumato tutte le vostre
    pietre focaie... è facile che succeda. Ne ho prese con me,  ne ho qui,
    ecco...   -  e indicò il sacco  -  un centinaio. Le ho acquistate a un
    prezzo assai modico. Prendetene,  per favore,  quante ve ne occorrono,
    anche tutte... - Poi, temendo di avere esagerato, tacque e arrossì.
    Cercò di ricordare se avesse commesso qualche sciocchezza. E, passando
    in  rassegna  i  ricordi  di  quella giornata,  si fermò su quello del
    tamburino francese. "Noi qui stiamo benissimo, ma lui?  Dove l'avranno
    messo? Gli avranno dato da mangiare? Non gli avranno fatto del male?",
    pensò.  Ma,  essendosi  reso  conto  di  avere esagerato con le pietre
    focaie, adesso aveva paura. "Potrei domandare di lui, ma direbbero che
    è un ragazzo che ha compassione di un ragazzo.  Farò veder loro domani
    che  ragazzo  sono!  Devo proprio vergognarmi di domandare?",  pensava
    Pétja. "Ma no,  via!",  e subito,  tutto rosso in viso e guardando gli
    ufficiali  per  rendersi  conto  se  si  sarebbero fatti beffe di lui,
    disse:
    -  Non  si  potrebbe  chiamare  qui  quel  ragazzo  che  avete   fatto
    prigioniero e dargli qualcosa da mangiare? Forse...
    - Sì, è un ragazzo che fa pena  -  disse Denissov, senza evidentemente
    trovare  nulla di vergognoso in quel pensiero.   -  Fatelo venire qui.
    Si chiama Vincent Bosse. Chiamatelo.
    - Vado a chiamarlo io.
    - Sì,  chiamalo,  chiamalo...  E' un ragazzo che fa pena   -    ripeté
    Denissov.
    Pétja  era  sull'uscio  quando  Denissov  disse  quelle parole.  Tornò
    indietro,  passò  rapidamente  tra  gli  ufficiali  e  si  avvicinò  a
    Denissov, dicendogli:
    - Permettete che vi dia un bacio,  caro!  Ah,  che bella cosa!   -  E,
    dopo aver baciato Denissov, corse fuori.
    - Bosse! Vincent!  -  gridò Pétja, fermandosi accanto alla porta .
    - Che volete, signore?  -  rispose una voce nell'oscurità.
    Pétja rispose che cercava il ragazzo francese preso  prigioniero  quel
    giorno.
    - Ah, Vesenni?  -  domandò il cosacco.
    I  cosacchi  avevano  già  mutato  in  Vesenni  il nome di Vincent,  i
    contadini e i soldati in Vissen.  In entrambe le varianti,  quel  nome
    derivante  da  "vesnà"  (7)  si  addiceva  assai  bene alla figura del
    giovane prigioniero.
    - Era laggiù a  scaldarsi  presso  il  fuoco.  Ehi  Visenia,  Visenia,
    Vesenni  -  si udiva gridare tra le risate, nell'oscurità.
    -  E'  un  ragazzino  in  gamba   -  disse l'ussaro che stava vicino a
    Pétja.   -  Gli abbiamo dato da mangiare poco fa: aveva  una  fame  da
    lupo!
    Si udì un rumore di passi nell'oscurità,  e il tamburino,  diguazzando
    con i piedi nudi nel fango, si avvicinò alla porta.
    - "Ah, c'est vous!"  -  disse Pétja.   -  "Voulez-vous manger?  N'ayez
    pas  peur,  on  ne  vous  fera  pas de mal"  -  aggiunse timidamente e
    toccandogli un braccio con gesto affettuoso.  -  "Entrez, entrez!" [8.
    Ah, siete voi! Volete mangiare?  Non abbiate paura: non vi si farà del
    male. Entrate, entrate!].
    - "Merci,  monsieur" [9. Grazie, signore]  -  rispose il tamburino con
    voce tremante, dal tono quasi infantile,  e prese a sfregare contro la
    soglia i piedi nudi infangati.
    Pétja  avrebbe  voluto  dire  molte  cose al tamburino,  ma non osava.
    Aspettò accanto a lui che avesse finito; poi, nell'oscurità, gli prese
    una mano e gliela strinse.
    - "Entrez,  entrez"   -      ripeté  soltanto,  con  voce  sommessa  e
    carezzevole.
    "Ah, che cosa potrei fare per lui?" chiese a se stesso Pétja e, aperta
    la porta, fece passare il ragazzo avanti a sé.
    Quando  il  tamburino  si  trovò  nell'"izbà",  Pétja  andò  a sedersi
    lontano,  ritenendo  che  fosse  umiliante  per  lui  prestare  troppa
    attenzione  a  quel  ragazzo.  Tastava soltanto il denaro che aveva in
    tasca e si domandava se non sarebbe stato ridicolo darlo al tamburino.
    Dal tamburino, al quale per ordine di Denissov avevano dato vodka e un
    pezzo di montone arrosto,  e  al  quale  avevano  fatto  indossare  un
    caffettano  russo  con l'intenzione di tenerlo nella compagnia anziché
    mandarlo via con i prigionieri, l'attenzione di Pétja fu distratta dal
    sopraggiungere di Dòlochov.  Durante la sua permanenza  nell'esercito,
    Pétja  aveva  ascoltato  molti  racconti  sul coraggio straordinario e
    sulla crudeltà di Dòlochov verso i Francesi e perciò,  dal momento  in
    cui  Dòlochov  entrò nell'"izbà",  Pétja non gli levò più gli occhi di
    dosso: lo fissava assumendo un'aria sempre più baldanzosa; scuoteva la
    testa tenuta alta per mostrarsi degno di stare  insieme  con  un  uomo
    simile.
    L'aspetto di Dòlochov colpì stranamente Pétja per la sua semplicità.
    Denissov indossava un "cekmèn" (10), portava la barba, aveva sul petto
    una immagine di San Nicola Taumaturgo e,  sia nel modo di parlare, sia
    in ogni atteggiamento rivelava la singolarità della propria posizione.
    Dòlochov  che  in  passato,  a  Mosca,  indossava  invece  un  costume
    persiano, aveva ora l'aspetto di un rigido e artefatto ufficiale della
    Guardia.  Aveva  il  viso  accuratamente  sbarbato,  portava la giubba
    ovattata della Guardia con la croce di San Giorgio all'occhiello e  un
    berretto  semplicissimo.  Depose  in un angolo la "burka" inzuppata e,
    avvicinatosi a Denissov senza salutare  nessuno,  si  mise  a  parlare
    subito  del  prossimo attacco.  Denissov disse delle mire che i nostri
    reparti avevano su quel convoglio,  della missione di Pétja e di  come
    avesse  risposto ai due generali.  Poi riferì tutto ciò che sapeva del
    distaccamento francese.
    - Sta bene, ma bisogna conoscere quali e quante truppe ci sono - disse
    Dòlochov.  -  Andremo a vedere.  Senza sapere con certezza quanti sono
    i  nemici,  non si può iniziare un attacco.  A me piace organizzare le
    cose a dovere.  C'è qualcuno di questi signori  che  sia  disposto  ad
    accompagnarmi nel loro accampamento? Ho con me anche un'uniforme...
    - Io! Io! Io! Vi accompagnerò io!  -  esclamò Pétja.
    -  No,  tu  non hai nessun bisogno di andare  -  disse Denissov;  poi,
    volgendosi a Dòlochov,  aggiunse:  -  Quanto  a  lui,  non  lo  lascio
    andare a nessun costo.
    - Oh, bella!  -  esclamò Pétja.  -  E perché non dovrei andare ?
    - Perché non è il caso.
    -  Voi  mi vorrete perdonare,  ma...  ma io ci andrò,  ecco tutto.  Mi
    prendete con voi ?  -  domandò a Dòlochov.
    - Perché no?  -  rispose distrattamente Dòlochov,  fissando in viso il
    tamburino  francese.    -    E' qui da molto tempo questo ragazzo?   -
    chiese a Denissov.
    - Lo abbiamo preso oggi, non sa nulla di nulla. Lo terrò qui con me.
    - Be', e gli altri, dove li metti?  -  domandò Dòlochov.
    - Come,  dove li metto?  Li  rimando  contro  ricevuta    -    rispose
    Denissov,  facendosi  improvvisamente  rosso.    -    E posso dire con
    orgoglio di non avere  sulla  coscienza  neanche  un  uomo.  E'  forse
    difficile  mandare  in città trenta o anche trecento prigionieri sotto
    scorta piuttosto che insudiciare, è la parola giusta, il proprio onore
    di soldato?
    - Senti, questi discorsi li potrebbe fare il contino qui presente, che
    ha sedici anni  -  ribatté con fredda ironia Dòlochov.  -  Ma alla tua
    età si deve smetterla con queste cose.
    - Ma io non dico nulla,  dico soltanto che verrò con voi,  a qualsiasi
    costo  -  dichiarò timidamente Pétja.
    - Per noi due,  caro, è ora di lasciar da parte queste piacevolezze  -
    proseguì   Dòlochov,    quasi   trovasse   un   particolare    piacere
    nell'insistere  su  quell'argomento che irritava Denissov.   -  Dimmi,
    perché questo l'hai preso con te?-  domandò  scotendo  la  testa.    -
    Perché  ti fa pena,  no?  Le conosciamo le tue ricevute...  Tu rimandi
    cento partigiani,  ma ne arrivano trenta.  Gli altri muoiono di fame o
    vengono uccisi. Non è dunque preferibile non prenderli?
    L'"essaùl", strizzando gli occhi, approvava con cenni del capo.
    -  Non  importa,  qui  non  c'è da discutere.  Non voglio caricarmi la
    coscienza di questo peso. Dici che muoiono? Sia pure, ma non per colpa
    mia.
    Dòlochov rise.
    - Chi, dunque, ha impedito loro di prendermi almeno venti volte? Ma se
    ci acciuffano,  me e te,  con tutta la  tua  cavalleria,  finiremo  lo
    stesso appesi a un albero.   -  Tacque per un poco. - Però ora bisogna
    agire.  Manda a cercare il mio cosacco e a prendere la mia  sacca.  Ho
    con me due divise francesi.  Allora, vuoi venire con me?  -  domandò a
    Pétja.
    - Io? Sì,  sì,  senza dubbio!   -  esclamò Pétja,  facendosi rosso sin
    quasi alle lacrime e gettando uno sguardo a Denissov.
    Mentre  Dòlochov  discuteva con Denissov su ciò che bisognava fare dei
    prigionieri, Pétja aveva provato un senso di imbarazzo e di ansia,  ma
    ancora  una  volta  non  aveva  avuto tempo di capire bene di che cosa
    parlassero. "Se le persone adulte, e conosciute, la pensano così, vuol
    dire che dev'essere così,  e che è bene  sia  così",  si  diceva.  "Ma
    l'importante è che Denissov non si metta in mente di potermi comandare
    e  che  io  gli  debba  obbedire.  Andrò con Dòlochov all'accampamento
    francese. Ci può andare lui? Quindi ci posso andare anch'io!".
    A tutte le esortazioni di Denissov di non andare, Pétja rispondeva che
    anche lui era abituato a fare le cose a modo, e non senza riflettere e
    che non pensava mai al pericolo che poteva correre.
    - Perché,  dovete ammetterlo anche voi,  dal fatto di non  sapere  con
    certezza  in  quanti  sono  laggiù,  può  dipendere  forse  la vita di
    centinaia di uomini,  mentre noi siamo due soli.  E poi ne ho un  gran
    desiderio...  quindi  ci  andrò  senza  dubbio  e  voi  non cercate di
    dissuadermi... Sarebbe peggio...


    CAPITOLO 9.

    Indossate le divise francesi,  Pétja e Dòlochov cavalcarono  verso  la
    radura dalla quale Denissov aveva osservato il campo nemico e,  usciti
    dal bosco in una oscurità completa, scesero nella valletta.  Giunti in
    basso,  Dòlochov  ordinò al cosacco che lo accompagnava di aspettare e
    si avviò a trotto serrato lungo la  strada  che  conduceva  al  ponte.
    Pétja,  con il cuore che gli veniva meno per l'emozione, gli cavalcava
    a fianco.
    - Se cadiamo nelle loro mani,  non mi lascerò prendere vivo: ho con me
    una pistola!  -  sussurrò Pétja.
    -  Non  parlare  in russo  -  gli mormorò in fretta Dòlochov e in quel
    momento si udì nell'oscurità il richiamo: "Qui vive?" [11.  Chi va là]
    e il rumore metallico di un fucile.
    Pétja sentì affluirgli il sangue al viso e mise mano alla pistola.
    -  "Lanciers  du  sixième"  [12.  Lancieri  del  sesto  reggimento]  -
    rispose  Dòlochov,  senza  accelerare  né  rallentare  l'andatura  del
    cavallo. La nera figura della sentinella si delineò sul ponte.
    - "Mot d'ordre?" [13. Parola d'ordine?].
    Dòlochov trattenne il cavallo e proseguì al passo.
    - "Dites donc,  le colonel Gérard est ici?" [14. Ditemi, il colonnello
    Gérard è qui?]  -  domandò.
    - "Mot d'ordre!"  -  ripeté, senza rispondere, la sentinella sbarrando
    il passo.
    - "Quand un officier fait sa ronde,  les sentinelles ne demandent  pas
    le  mot  d'ordre..."   -  gridò Dòlochov,  subito irritato,  avanzando
    verso la sentinella.  -  "Je vous demande si le colonel est ici?" [15.
    Quando un ufficiale fa la ronda,  le sentinelle non chiedono la parola
    d'ordine. Vi domando se il colonnello è qui].
    E,  senza aspettare risposta dalla sentinella che si scostava Dòlochov
    si avviò al passo lungo la salita.
    Poco dopo notò l'ombra scura di un uomo  che  stava  attraversando  la
    strada.  Dòlochov  lo  chiamò  e  gli  domandò  dove  si trovassero il
    comandante e gli ufficiali.  L'uomo,  che era un soldato con lo  zaino
    sulle  spalle,  si  fermò,  si  avvicinò  al  cavallo di Dòlochov,  lo
    accarezzò e in tono semplice e amichevole riferì che il  comandante  e
    gli ufficiali si trovavano lassù,  in cima alla collina, verso il lato
    destro,  nel cortile  della  fattoria,  come  egli  definiva  la  casa
    padronale.
    Procedendo  lungo  la  strada,  ai  due  lati  della  quale si udivano
    provenire le voci dei soldati francesi che stavano attorno ai  fuochi,
    Dòlochov svoltò nel cortile della casa padronale.  Varcato il portone,
    smontò da cavallo e si avvicinò a un  grande  falò  attorno  al  quale
    stavano  seduti  alcuni  uomini  che  discorrevano  ad  alta  voce.  A
    un'estremità, qualcosa stava bollendo in una marmitta, e un soldato in
    ginocchio,  in berretto e cappotto turchino,  con il  viso  illuminato
    dalla fiamma, rimestava il liquido con la bacchetta del fucile.
    - "Oh,  c'est un dur à cuire!" [16.  Oh, è duro da cuocere!]  -  disse
    uno degli ufficiali che sedeva nell'ombra,  dalla  parte  opposta  del
    fuoco.
    - "Il les fera marcher les lapins..." [17. Li sistemerà come si deve!]
    -  osservò un altro, con una risata. Poi ambedue tacquero e, all'udire
    il  rumore  dei passi di Dòlochov e di Pétja che con i loro cavalli si
    stavano avvicinando, fissarono gli occhi nell'oscurità.
    - "Bonjour,  messieurs!" [18.  Buon  giorno,  signori!]    -    salutò
    cortesemente Dòlochov, a voce alta.
    Gli ufficiali si mossero nell'ombra e uno di essi,  alto, con il collo
    lungo, si accostò a Dòlochov.
    - "C'est vous, Clément?"  -  domandò.  -  "D'où diable..." [19.  Siete
    voi,  Clément?  Ma  da  dove  diavolo...]   -  ma,  vedendo di essersi
    ingannato,   non  completò  la  frase  e,   corrugando  lievemente  le
    sopracciglia, salutò Dòlochov come uno sconosciuto e gli chiese in che
    cosa  potesse  essergli  utile.  Dòlochov  rispose  che  lui  e il suo
    compagno dovevano raggiungere il reggimento e domandò,  rivolgendosi a
    tutti,  in  generale,  se  conoscessero  qualche  ufficiale  del sesto
    reggimento.  Nessuno sapeva nulla.  Pétja ebbe l'impressione  che  gli
    ufficiali  cominciassero  a  guardare  con ostilità e diffidenza lui e
    Dòlochov. Per qualche minuto vi fu un generale silenzio.
    - "Si vous comptez sur la soupe du soir, vous venez trop tard" [20. Se
    contate sulla zuppa serale, arrivate in ritardo]  -  disse una voce di
    là dal fuoco, trattenendo una risata.
    Dòlochov rispose che avevano mangiato e che dovevano proseguire quella
    notte stessa.
    Affidò i  cavalli  al  soldato  che  rimestava  nella  marmitta  e  si
    accovacciò  davanti  al  fuoco,  vicino all'ufficiale dal collo lungo.
    Questi,  che lo guardava senza togliergli  gli  occhi  di  dosso,  gli
    domandò per la seconda volta a quale reggimento appartenesse. Dòlochov
    non  rispose  come se non avesse udito la domanda e,  dopo aver acceso
    una pipa francese che tirò fuori dalla  tasca  della  divisa,  domandò
    agli ufficiali sino a che punto della strada si poteva procedere senza
    il pericolo di incontrare i cosacchi.
    - "Les brigands sont partout" [21.  Quei briganti sono dappertutto]  -
    rispose l'ufficiale  che  era  dall'altro  lato  del  fuoco.  Dòlochov
    osservò  che  i cosacchi erano pericolosi soltanto per i dispersi come
    lui e il suo compagno,  ma che non avrebbero certo osato aggredire  un
    distaccamento  numeroso.  E  lo disse in tono quasi interrogativo.  Ma
    nessuno rispose.
    "Be'...  adesso se ne andrà",  pensava Pétja a  ogni  momento  mentre,
    ritto davanti al fuoco, ascoltava.
    Ma Dòlochov riprese la conversazione interrotta e cominciò addirittura
    a chiedere chiaramente di quanti uomini fosse composto un battaglione,
    quanti  battaglioni,  quanti  prigionieri.  Domandando dei prigionieri
    russi che si trovavano nella colonna, Dòlochov disse:
    - "La vilaine affaire de traîner  ces  cadavres  après  soi.  Vaudrait
    mieux fusiller cette canaille!" [22. Brutto affare, trascinarsi dietro
    questi  cadaveri.  Sarebbe  meglio  fucilare  queste  canaglie!]  -  e
    scoppiò  in  una  risata  sonora  e  così  strana   che   Pétja   ebbe
    l'impressione  che  i  Francesi  dovessero  scoprire l'inganno e,  suo
    malgrado,  arretrò di un passo scostandosi dal fuoco.  Nessuno rispose
    alle parole e alla risata di Dòlochov e l'ufficiale francese,  che non
    era visibile (era sdraiato  in  terra  e  avvolto  nel  mantello),  si
    sollevò e disse sottovoce qualche parola al compagno vicino.  Dòlochov
    si alzò e chiamò il soldato al quale aveva affidato i cavalli.
    "Ci  restituiranno   i   cavalli?",   pensava   Pétja,   avvicinandosi
    involontariamente a Dòlochov.
    I cavalli furono portati.
    - "Bonjour, messieurs!"  -  disse Dòlochov.
    Pétja avrebbe voluto dire "bonsoir",  ma non ci riuscì.  Gli ufficiali
    intanto parlottavano tra di loro. Dòlochov impiegò un po' di tempo per
    inforcare il cavallo che non stava fermo,  poi,  al  passo,  uscì  dal
    portone.  Pétja  lo  seguiva  da  vicino  desiderando,  ma non osando,
    voltarsi indietro per vedere se  i  Francesi  li  inseguissero  oppure
    no...
    Giunti che furono sulla strada, Dòlochov non tornò indietro attraverso
    i campi,  ma proseguì in direzione del villaggio.  A un certo punto si
    fermò e tese l'orecchio.
    - Senti?  -  domandò.
    Pétja riconobbe un suono di voci russe e vide attorno ai fuochi  scure
    figure di prigionieri russi. Scendendo verso il ponte Pétja e Dòlochov
    passarono  davanti  a  una  sentinella  che,  senza  dire  una parola,
    continuò ad andare su e giù con aria cupa,  e raggiunsero la  valletta
    dove li attendeva il cosacco.
    - E ora,  addio!  Di' a Denissov che sarà per domani all'alba al primo
    sparo  -  disse Dòlochov, e fece per andarsene. Ma Pétja si aggrappò a
    lui con una mano esclamando:
    - No, no! Siete un vero eroe! Ah, come vi siete comportato bene! Com'è
    stato bello! Come vi voglio bene!
    - Sta bene,  sta bene  -  rispose Dòlochov,  ma Pétja non lo  lasciava
    andare e nel buio Dòlochov vide che il ragazzo si chinava verso di lui
    e  voleva baciarlo.  Dòlochov lo baciò,  si mise a ridere e voltato il
    cavallo, scomparve nell'oscurità.


    CAPITOLO 10.

    Tornato al posto  di  guardia,  Pétja  trovò  Denissov  nell'ingresso.
    Turbato,  inquieto,  irritato contro se stesso per aver lasciato andar
    via Pétja, stava aspettandolo.
    - Sia ringraziato Iddio!   -  esclamò.   -   Sia  ringraziato  Iddio!-
    ripeté,  mentre ascoltava l'entusiastica narrazione di Pétja.-  Che il
    diavolo ti porti! Per colpa tua non ho dormito.  Be',  sia ringraziato
    Iddio.  Ora  va'  a  sdraiarti  e  a  riposare.  Un  sonnellino sino a
    domattina ce lo possiamo permettere...
    - Sì... no...  -  disse Pétja  -  non ho ancora sonno.  Mi conosco: se
    mi addormento,  addio!  E' finita. E poi non ho l'abitudine di dormire
    prima di una battaglia.
    Rimase  per  qualche  tempo  nell'"izbà",   ricordando  con  gioia   i
    particolari   della   sua   escursione   e   immaginando   quelli  del
    combattimento imminente. Poi, accortosi che Denissov dormiva,  si alzò
    e uscì nel cortile.
    Fuori  era  ancora  scuro.  La  pioggia  era cessata,  ma dagli alberi
    cadevano ancora grosse  gocce  d'acqua.  In  vicinanza  del  posto  di
    guardia  si  vedevano  le sagome scure delle capannucce dei cosacchi e
    quelle  dei  cavalli  impastoiati.  Al  di  là  della  piccola  "izbà"
    nereggiavano  due  furgoni  accanto  ai  quali stavano i cavalli;  nel
    burrone rosseggiava un fuoco che  mandava  gli  ultimi  bagliori.  Non
    tutti i cosacchi e gli ussari dormivano: di tanto in tanto si udivano,
    insieme  con  il  cadere  delle  gocce  e  il  rumore  dei cavalli che
    frangevano la biada, voci sommesse, quasi bisbigli.
    Pétja uscì dal vestibolo,  si guardò attorno nel buio e si avvicinò ai
    furgoni.  Sotto  i  furgoni  qualcuno russava e attorno alcuni cavalli
    sellati masticavano la biada.  Nell'oscurità Pétja  riconobbe  il  suo
    cavallo,  che egli chiamava Karabàch,  sebbene fosse ucraino, e gli si
    avvicinò.
    - Be',  Karabàch,  domani...  domani tocca  a  noi    -    gli  disse,
    annusandogli le froge e baciandolo.
    - Come mai,  signore,  non dormite?   -  si levò la voce di un cosacco
    seduto sotto un furgone.
    - Ma, io.. Ti chiami Lichacëv, vero? Sono tornato or ora,  siamo stati
    dal Francesi.
    E Pétja raccontò al cosacco,  in ogni particolare, non soltanto la sua
    ricognizione,  ma anche il motivo per cui era andato e perché riteneva
    che  fosse  preferibile  mettere a repentaglio la propria vita anziché
    fare le cose a casaccio.
    - Però dovreste dormire  -  osservò il cosacco.
    - No, ci sono abituato  -  rispose Pétja.   -  A proposito,  le pietre
    focaie  delle vostre pistole non si sono consumate?  Io ne ho portate.
    Se ti servono, prendile.
    Il cosacco si sporse da sotto il  furgone  per  vedere  Pétja  più  da
    vicino.
    -  Perché  io  sono abituato a fare ogni cosa scrupolosamente-continuò
    Pétja.   -  Ci sono di quelli che le fanno così,  alla bell'e  meglio,
    senza prepararsi...  ma poi se ne pentono.  E' un sistema che a me non
    piace.
    - Giustissimo  -  approvò il cosacco.
    - Ancora una cosa,  caro: affilami per favore la  sciabola.  Mi  si  è
    smuss...  -  (Ma Pétja aveva paura di dire una bugia)  -  ...non è mai
    stata affilata. Puoi farlo tu?
    - Perché no?
    Lichacëv si alzò, frugò in un sacco e Pétja udì quasi subito il rumore
    guerresco  della  pietra  che  sfregava  l'acciaio.  Si  arrampicò sul
    furgone e si sedette sulla sponda mentre,  sotto,  il cosacco affilava
    la sciabola.
    - Ebbene, i nostri giovanotti dormono?  -  domandò.
    - Alcuni sì, altri no.
    - E il ragazzo che fa?
    - Vesenni?  E' là, sdraiato in terra. Dormendo si fa passare la paura.
    Era proprio contento!
    Pétja rimase ancora lì a lungo, silenzioso,  ascoltando i vari rumori.
    Nel buio si udirono risonare dei passi e si profilò una figura scura.
    - Che stai affilando?  -  domandò l'uomo, avvicinandosi al furgone.
    - Sto affilando la sciabola del signore.
    - Benissimo  -  rispose l'uomo che a Pétja parve un ussaro.  -  Dimmi,
    è rimasta qui da voi la tazza?
    - Eccola, è accanto alla ruota.
    L'ussaro prese la tazza.
    - Sarà presto giorno  -  disse sbadigliando, e se ne andò.
    Pétja avrebbe dovuto sapere che si trovava in un bosco, nella banda di
    Denissov,  a  un  miglio  dalla  strada;  che era seduto su un furgone
    catturato ai Francesi, accanto al quale erano legati i cavalli e sotto
    il quale sedeva  il  cosacco  Lichacëv  che  gli  stava  affilando  la
    sciabola; che la grossa macchia scura a destra era il posto di guardia
    e  che quella chiara,  in basso a sinistra,  era un fuoco che si stava
    spegnendo,  che l'uomo venuto poco prima a cercare  la  tazza  era  un
    ussaro che voleva bere;  ma egli non sapeva e non voleva sapere niente
    di tutto questo.  Si trovava in un regno incantato,  dove non esisteva
    nulla  che  somigliasse  alla  realtà.  La  grande macchia nera poteva
    essere un posto di guardia, sì,  ma poteva anche essere una grotta che
    conduceva nell'infinita profondità della terra. La macchia rossa forse
    era  un  fuoco,  ma  poteva anche essere l'occhio di un mostro immane.
    Egli,  forse,  stava seduto sul bordo di  un  furgone,  ma  era  anche
    possibile che non fosse seduto su un furgone,  ma in cima a una torre,
    spaventosamente alta,  cadendo dalla quale,  per giungere alla  terra,
    gli  sarebbe  toccato  volare  per  un giorno intero,  un mese intero,
    volare sempre e non arrivare  mai!  E  sotto  il  furgone  si  trovava
    semplicemente  il cosacco Lichacëv,  d'accordo,  ma poteva anche darsi
    che quello fosse l'uomo più buono, più coraggioso,  più meraviglioso e
    più perfetto del mondo, che nessuno conosceva. Forse l'ussaro venuto a
    cercar  acqua e sceso nella valletta era davvero un ussaro,  ma poteva
    darsi che non fosse sceso,  ma sparito alla  sua  vista,  sparito  del
    tutto e che non esistesse più.
    Qualsiasi  cosa  avesse ora veduto,  Pétja non si sarebbe più stupito.
    Era in un mondo incantato dove tutto era possibile...
    Guardò il cielo. Anche il cielo, la terra erano incantati. Il cielo si
    stava rischiarando e sulle cime degli alberi si inseguivano rapide  le
    nubi,  come scoprendo le stelle.  Sembrava,  a tratti, che il cielo si
    sgombrasse  e  allora  appariva  nero  e  sereno.  Talvolta  si  aveva
    l'impressione  che  quelle nere macchie fossero nubi;  a tratti pareva
    che il cielo si sollevasse altissimo sopra la testa; a tratti, invece,
    che si abbassasse tanto da far credere  di  poterlo  toccare  con  una
    mano.
    Pétja cominciava ad assopirsi, e la sua testa a ciondolare.
    Dai rami degli alberi cadevano gocce. Si udiva un parlottare sommesso.
    I cavalli nitrivano e si mordevano. Qualcuno russava.
    - Zzig,  zzig, zzig...  -  sibilava la lama, affilandosi sulla pietra,
    e tutto a un tratto Pétja udì un armonioso coro che eseguiva  un  inno
    sconosciuto,  dolce e maestoso. Pétja aveva inclinazione per la musica
    come Natascia e più di Nikolàj,  ma non l'aveva mai studiata,  non  ci
    pensava mai e perciò i motivi che gli sorgevano improvvisi nella mente
    erano  per  lui  una  novità  particolarmente  attraente.   La  musica
    diventava sempre più forte.  La  melodia  si  allargava,  si  spandeva
    passando  da  uno  strumento  all'altro e si trasformava in ciò che si
    chiama una fuga,  sebbene Pétja non avesse la minima idea di  ciò  che
    fosse una fuga. Ciascuno strumento, ora simile a un violino, ora a una
    tromba, ma più bello e più sonoro dei violini e delle trombe, eseguiva
    la  sua  parte  e,  senza  aver concluso il motivo,  si fondeva con un
    altro, che iniziava quasi allo stesso modo,  poi con un terzo,  con un
    quarto;  infine tutti si fondevano in un motivo unico, si dissolvevano
    per ricongiungersi ed effondersi ora in solenne canto di  chiesa,  ora
    in un inno sfolgorante e vittorioso.
    "Ah  sì,  sto  sognando...",  si diceva Pétja,  ciondolando in avanti.
    "L'ho nelle orecchie.  E  forse  è  la  mia  musica.  Ancora,  ancora!
    Continua, mia musica! Continua!".
    Egli chiuse gli occhi. Da diverse parti, come di lontano, cominciarono
    a  vibrare  i  suoni,  ad  accordarsi,  a scindersi,  a inseguirsi,  a
    riunirsi e di nuovo a fondersi in quell'inno dolce e solenne. "Ah, che
    incanto! Quanto voglio io e come voglio io!", si disse Pétja. Si trovò
    a dirigere quell'immenso coro di strumenti.
    "Attenti,  più piano,  più piano...  ora quasi morendo...".  E i  suoi
    obbedivano.  "E adesso con più vigore,  con più forza...  Più allegro,
    ancora più gioioso...".  E da una ignota profondità si levarono  suoni
    sempre  più  maestosi.  "E ora attaccate con le voci!",  ordinò Pétja.
    Dapprima si levarono da lontano voci maschili, poi femminili.  Le voci
    si  levavano,  si levavano in un crescendo misurato e solenne.  Pétja,
    nell'ascoltare la loro indicibile bellezza,  si sentiva colmo di gioia
    e di sgomento.
    Alla  solenne marcia trionfale si univa il canto e le gocce cadevano e
    sibilava lo zzig, zzig, zzig...  della sciabola,  e di nuovo i cavalli
    si  mordevano e nitrivano senza disturbare il coro,  anzi accordandosi
    con esso.
    Pétja non sapeva da quanto tempo durasse tutto questo; egli ne godeva,
    si meravigliava del suo godimento e  si  rammaricava  di  non  poterlo
    condividere con nessuno. Lo svegliò la voce affettuosa di Lichacëv.
    - E' pronta, signoria: potreste tagliare in due un soldato francese...
    Pétja si svegliò.
    - E' l'alba, è proprio già l'alba!  -  esclamò.
    I  cavalli,  prima  invisibili,  ora  si  vedevano  sino  alla coda e,
    attraverso i rami  spogli,  traspariva  una  luce  acquosa.  Pétja  si
    scosse,  balzò in piedi, cavò di tasca un rublo d'argento e lo porse a
    Lichacëv,  provò la sciabola tirando un fendente nell'aria e la rimise
    nel  fodero.  I  cosacchi  stavano  slegando  i cavalli e serravano le
    cinghie alle selle.
    - Ecco il comandante!  -  disse Lichacëv.
    Dal posto di guardia uscì Denissov e,  chiamato Pétja,  ordinò a tutti
    di prepararsi.


    CAPITOLO 11.

    Nella semioscurità, gli uomini presero rapidamente ciascuno il proprio
    cavallo,  strinsero  le  cinghie  e si divisero in reparti.  Denissov,
    ritto presso il posto di guardia,  impartiva  gli  ultimi  ordini.  La
    fanteria  della  banda,  sguazzando  nel fango con centinaia di piedi,
    s'incamminò lungo la strada e subito scomparve tra gli  alberi,  nella
    nebbia  mattutina.  L'"essaùl" diede qualche disposizione ai cosacchi.
    Pétja teneva il suo cavallo per la briglia,  aspettando con impazienza
    l'ordine  di balzare in sella.  La faccia lavata con l'acqua fredda e,
    in particolare, gli occhi brillavano; un brivido gli serpeggiava lungo
    la schiena e il suo corpo era agitato da un fremito continuo.
    - Allora, è tutto pronto?  -  domandò Denissov.  -  Avanti i cavalli.
    Vennero condotti i cavalli. Denissov ebbe uno scatto di collera contro
    un cosacco perché le cinghie della sella non erano ben  tese  e,  dopo
    averlo  rimproverato  aspramente,  salì  in  arcione.  Pétja  prese la
    staffa. Il cavallo, per abitudine,  volle mordergli la gamba ma Pétja,
    che non sentiva il proprio peso, balzò rapido in sella e, voltandosi a
    guardare  gli  ussari  che  alle sue spalle si mettevano in marcia nel
    buio, si avvicinò a Denissov.
    - Vassilij Fëdorovic', mi darete qualche incarico?  Ve ne scongiuro...
    in nome di Dio...  -  gli disse.
    Pareva  che  Denissov  avesse  dimenticato  l'esistenza  di Pétja.  Lo
    guardò.
    - Di una cosa sola ti prego: di obbedirmi e di non impicciarti in  ciò
    che non ti riguarda  -  gli disse severamente.
    Durante tutto il percorso,  Denissov non rivolse più la parola a Pétja
    e cavalcò in silenzio.  Quando giunsero al margine  del  bosco,  nella
    pianura  si  vedeva  già  spuntare il giorno.  Denissov mormorò alcune
    parole all'"essaùl" e poco dopo i cosacchi sfilarono davanti a Pétja e
    a Denissov.  Quando furono  tutti  passati,  Denissov  spronò  il  suo
    cavallo   e   cominciò   a  scendere  lungo  il  pendio.   I  cavalli,
    appoggiandosi sulle  zampe  posteriori  e  scivolando  a  ogni  passo,
    discesero  nell'avvallamento.  Pétja procedeva accanto a Denissov.  Il
    tremito che gli agitava il corpo aumentava sempre. Intanto la luce del
    giorno cresceva,  mentre la nebbia  velava  ancora  le  cose  lontane.
    Giunto in basso e voltandosi a guardare indietro, Denissov fece con il
    capo un cenno al cosacco che gli stava accanto.
    - Il segnale!  -  ordinò.
    Il cosacco alzò un braccio e subito risonò un colpo.
    In  quello  stesso  momento  si  udì  lo  scalpitio dei cavalli che si
    lanciavano avanti al galoppo,  si levarono grida da diverse  parti  ed
    echeggiarono altre fucilate.
    Nello  stesso  istante in cui risonarono il primo calpestio e le prime
    grida, Pétja sferrò il suo cavallo e, senza ascoltare Denissov che gli
    gridava qualcosa,  si mise a galoppare a briglia sciolta.  Alla  prima
    detonazione  gli  era  sembrato  che  tutto  splendesse  come in pieno
    giorno. Si avvicinò al ponte. Davanti a lui, sulla strada,  andavano a
    briglia  sciolta  i  cosacchi.  Sul  ponte  si  urtò con un cosacco in
    ritardo e galoppò oltre. Avanti a lui,  certi uomini  -  probabilmente
    i  Francesi    -   venivano correndo dalla destra sulla sinistra della
    strada. Uno di essi incespicò e cadde nel fango,  quasi sotto le zampe
    del cavallo di Pétja.
    Presso una "izbà" si erano affollati alcuni cosacchi.  Dal mezzo della
    folla si levò a un tratto un grido terribile. Pétja cavalcò verso quei
    cosacchi e la prima cosa che  vide  fu  il  viso  pallidissimo  di  un
    soldato  francese  con  la  mascella che tremava,  il quale cercava di
    trattenere con tutt'e due le mani l'asta di una lancia puntata  contro
    di lui.
    - Urrà!  Ragazzi...  ecco i nostri!   -  gridò Pétja e,  allentando le
    briglie al cavallo,  che era  eccitatissimo,  si  buttò  avanti  sulla
    strada, al galoppo.
    Più  innanzi si udiva un intenso fuoco di fucileria.  I cosacchi,  gli
    ussari e i cenciosi prigionieri russi, che correvano ai due lati della
    strada,  lanciavano tutti insieme alte grida incoerenti.  Un francese,
    in  cappotto  azzurro e senza berretto,  dall'aspetto coraggioso,  dal
    viso rosso e accigliato, si difendeva con la baionetta da un gruppo di
    ussari. Quando Pétja giunse, il giovane era già a terra,  ucciso.  "Di
    nuovo  in  ritardo!",  gli  balenò nella mente,  e galoppò più lontano
    verso un punto in  cui  le  fucilate  erano  più  frequenti.  I  colpi
    echeggiavano  nel cortile della casa padronale dove egli era stato con
    Dòlochov la sera precedente.  I Francesi,  nascosti dietro  una  folta
    siepe,  sparavano contro i cosacchi.  Presso la porta d'ingresso Pétja
    scorse tra il fumo della polvere Dòlochov,  con il viso di un  pallore
    verdastro, che gridava qualcosa ai suoi uomini.
    - Aggirarli!  Aspettate la fanteria!   -  gridava, mentre Pétja gli si
    avvicinava al galoppo.
    - Aspettare? Urrà!  -  urlò Pétja e, senza perdere un minuto,  galoppò
    verso  il  luogo  dov'era più intenso il fuoco di fucileria e dove più
    denso  si  levava  il  fumo  della  polvere.   Rintronò  una  scarica,
    fischiarono  nell'aria  alcune  pallottole  che andarono a conficcarsi
    chissà dove. I cosacchi e Dòlochov si slanciarono dietro a Pétja verso
    il portone della casa. Alcuni Francesi, avvolti in un fumo densissimo,
    gettarono  le  armi,   uscirono  di  corsa  da  dietro   i   cespugli,
    arrendendosi ai cosacchi, mentre altri fuggivano sulla collina o verso
    lo stagno.  Pétja galoppava attorno al cortile padronale,  e invece di
    tenere le briglie,  agitava in modo  stranamente  veloce  entrambe  le
    braccia,  piegandosi sempre di più da un lato della sella. Il cavallo,
    urtando contro una catasta di legna che si andava spegnendo nella luce
    del  mattino,  recalcitrò  e  Pétja  cadde  pesantemente  sul  terreno
    bagnato. I cosacchi videro il ragazzo agitare convulsamente le braccia
    e  le  gambe,  mentre  la testa rimaneva immobile.  Una pallottola gli
    aveva trapassato il cranio.
    Dopo aver parlato con un ufficiale superiore francese,  che era uscito
    dalla  casa  con  un  fazzoletto  bianco sulla punta della spada e che
    aveva dichiarato  di  arrendersi,  Dòlochov  scese  da  cavallo  e  si
    avvicinò a Pétja che giaceva immobile, con le braccia spalancate.
    - Finito!   -  esclamò, accigliandosi e andò verso il portone incontro
    a Denissov che veniva verso di lui.
    - Ucciso?   -  gridò Denissov,  non appena ebbe veduto da  lontano  il
    corpo di Pétja nella posizione a lui ben nota di un corpo senza vita.
    - Finito!  -  ripeté Dòlochov, come se gli facesse piacere pronunziare
    quella parola,  e mosse rapidamente verso i prigionieri che i cosacchi
    si erano affrettati a circondare. "Non ne faremo!", gridò a Denissov.
    Denissov non rispose,  si avvicinò a Pétja,  scese da cavallo e con le
    mani che tremavano voltò verso di sé quel viso imbrattato di polvere e
    di fango e già coperto dal pallore della morte.
    "Io  sono abituato a qualcosa di dolce...  Ho dell'uva passa squisita.
    Prendetela  tutta",  ricordò.  E  i  cosacchi  si  volsero  stupiti  a
    guardare,  udendo  il  lamento  simile  al  guaito  di un cane con cui
    Denissov si staccò rapidamente dal cadavere e si avvicinò alla  siepe,
    aggrappandovisi con le mani
    Fra  i  prigionieri  liberati  da  Dòlochov  e da Denissov c'era anche
    Pierre Bezuchov.


    CAPITOLO 12.

    Per il gruppo di prigionieri di cui Pierre faceva  parte,  durante  la
    marcia  di  ritirata  da  Mosca,  non  era  giunto  alcun ordine dalle
    autorità francesi.  Il 22 ottobre quel gruppo non si trovava  già  più
    con  le  stesse  truppe  e  gli  stessi convogli con cui era uscito da
    Mosca.  La metà di un convoglio di  gallette,  che  li  aveva  seguiti
    durante le prime tappe, era stata presa dai cosacchi; l'altra metà era
    andata avanti. Dei soldati di cavalleria appiedati che li precedevano,
    non  ce  n'era  più  uno:  erano tutti scomparsi.  L'artiglieria,  che
    durante le prime marce si vedeva più avanti,  era stata sostituita ora
    dagli  enormi convogli del maresciallo Junot (23),  scortati da truppe
    di Westfalia.  Dietro ai  prigionieri  avanzava  il  convoglio  con  i
    bagagli della cavalleria.
    Dopo Vjazma,  le truppe francesi, che prima marciavano in tre colonne,
    camminavano ora in un unico  gruppo.  Quei  segni  di  disordine,  che
    Pierre  aveva  notato  nel  corso della prima tappa dopo Mosca,  erano
    giunti al limite estremo.
    La strada che essi seguivano era,  da entrambi i lati,  disseminata di
    carogne di cavalli;  frotte di soldati laceri,  rimasti indietro dalle
    diverse colonne,  si susseguivano in continuazione,  ora unendosi alla
    colonna in marcia, ora distaccandosene di nuovo.
    Di tanto in tanto, durante la marcia, si erano avuti falsi allarmi e i
    soldati  del  convoglio afferravano i fucili,  sparavano e fuggivano a
    precipizio,  urtandosi  a  vicenda,  poi  tornavano  e  si  riunivano,
    ingiuriandosi l'un l'altro per l'inutile paura.
    Questi  tre  gruppi  che  marciavano  insieme    -    il  convoglio di
    cavalleria,  il gruppo dei  prigionieri  e  i  carriaggi  di  Junot  -
    formavano  ancora  un  tutto  unico  e  distinto,  sebbene il primo il
    secondo e il terzo si venissero rapidamente dissolvendo.
    Il convoglio di cavalleria formato all'inizio di centoventi carri, era
    ora ridotto a sessanta;  gli altri erano stati catturati dai  Russi  o
    abbandonati. La stessa sorte avevano subìto alcuni carri di Junot. Tre
    erano  stati assaliti e saccheggiati da frotte di soldati sbandati del
    corpo di Davoust. Dai discorsi dei tedeschi, Pierre aveva saputo che a
    quel  convoglio  era  stata  assegnata  una  scorta  maggiore  che  ai
    prigionieri  e che uno dei loro commilitoni,  un soldato tedesco,  era
    stato fucilato per ordine del maresciallo in persona, per essere stato
    trovato in  possesso  di  un  cucchiaio  di  argento  appartenente  al
    maresciallo stesso.
    Di quei tre gruppi in marcia si faceva sempre meno numeroso quello dei
    prigionieri. Erano partiti da Mosca in trecento ed erano ora ridotti a
    meno di cento.  I prigionieri imbarazzavano gli uomini di scorta anche
    più delle selle del convoglio di cavalleria e dei  bagagli  di  Junot.
    Essi capivano che le selle e i bagagli potevano essere utili a qualche
    cosa,  ma  il  fatto  che  soldati  affamati  e  intirizziti dovessero
    sorvegliare dei Russi ugualmente affamati e intirizziti  che  morivano
    dal freddo,  che restavano indietro lungo la strada e che essi avevano
    l'ordine di fucilare,  era per loro non soltanto  incomprensibile,  ma
    addirittura  ripugnante.  E  i  soldati  di  scorta  temendo,  data la
    dolorosa  situazione  in  cui  essi  si  trovavano,  di  cedere  a  un
    sentimento  di  pietà  verso  i prigionieri e di peggiorare la propria
    condizione, li trattavano con particolare severità e durezza.
    A Dorogobuze,  mentre i soldati della scorta,  dopo aver  rinchiuso  i
    prigionieri  in  una stalla,  se ne erano andati a saccheggiare i loro
    propri depositi, alcuni prigionieri avevano scavato un passaggio sotto
    il muro ed erano riusciti a fuggire ma, ripresi poco dopo, erano stati
    fucilati.
    L'ordine dato alla partenza da Mosca,  che gli  ufficiali  prigionieri
    marciassero  separatamente  dai  soldati,  era stato ormai da un pezzo
    annullato;  tutti i prigionieri  che  potevano  camminare  procedevano
    insieme e Pierre,  sin dalla terza tappa,  si era riunito a Karataev e
    al cagnolino grigio lilla che si era scelto come padrone Karataev.
    Tre giorni dopo la partenza dalla capitale, Karataev era stato ripreso
    da quella febbre che già l'aveva costretto a  letto  nell'ospedale  di
    Mosca  e,  a  mano  a  mano  che  andava perdendo le forze,  Pierre si
    staccava sempre più da lui. Egli non riusciva a capirne la ragione ma,
    da quando Karataev aveva incominciato  a  indebolirsi,  Pierre  doveva
    fare  uno  sforzo  su  se  stesso  per andargli vicino.  Quando gli si
    accostava,  quando udiva i gemiti che Karataev emetteva nel  coricarsi
    durante  le soste,  quando avvertiva l'odore sempre più penetrante che
    emanava dalla sua persona,  Pierre si sentiva costretto a scostarsi il
    più possibile e non pensava più a lui.
    In   prigionia,   nella   baracca,   Pierre  aveva  imparato  non  con
    l'intelligenza ma con tutto il suo essere, con la sua stessa vita, che
    l'uomo è stato creato per essere felice,  che la felicità è dentro  di
    lui,  nella soddisfazione delle sue necessità naturali e umane,  e che
    tutto il male deriva non dalla privazione,  bensì dal  superfluo;  ora
    però,  in  quelle  ultime  tre settimane di marcia,  aveva appreso una
    nuova e consolante verità: aveva appreso che al mondo non c'è nulla di
    terribile e che, come non esiste alcuna condizione in cui l'uomo possa
    essere pienamente felice e libero,  così non esiste condizione in  cui
    egli  possa  essere  totalmente  infelice  e  privo di libertà.  Aveva
    appreso che esiste un limite alla sofferenza e un limite alla  libertà
    e  che  tali limiti sono assai vicini;  che l'uomo,  il quale soffriva
    perché nel suo letto di rose un petalo si era sciupato, aveva sofferto
    precisamente come soffriva ora lui, addormentandosi sulla nuda e umida
    terra, lasciando intirizzire un lato del corpo per riscaldare l'altro;
    che quando gli capitava  di  calzare  gli  scarpini  da  ballo  troppo
    stretti  soffriva  come  soffriva  adesso  che camminava completamente
    scalzo (da un pezzo ormai le sue scarpe  erano  divenute  inservibili)
    con i piedi escoriati e coperti di piaghe. Aveva appreso che quando di
    sua  libera volontà (allora così gli pareva) aveva sposato sua moglie,
    non era più libero di adesso che lo rinchiudevano in una stalla per la
    notte.
    Di tutte quelle che anch'egli in seguito chiamava sofferenze,  ma  che
    allora  quasi  non  avvertiva,  la  più  terribile erano i piedi nudi,
    escoriati,  coperti di piaghe (la carne di  cavallo  era  nutriente  e
    appetitosa,  la  dose  di  salnitro  usato invece del sale era persino
    gradevole; non faceva troppo freddo perché di giorno durante la marcia
    aveva sempre caldo e di notte c'erano i grandi fuochi dei bivacchi;  i
    pidocchi   che  lo  divoravano  gli  scaldavano  il  corpo).   L'unica
    sofferenza, veramente insopportabile,  in un primo tempo,  era il male
    ai piedi.
    La  sera  del secondo giorno di marcia,  osservando presso il fuoco le
    sue piaghe,  Pierre aveva pensato che gli  sarebbe  stato  impossibile
    continuare ad andare avanti in quello stato;  ma poi,  quando tutti si
    alzarono,  si avviò zoppicando e,  quando si  fu  riscaldato,  camminò
    senza sentire dolore, sebbene la sera le sue piaghe fossero ancora più
    orribili a vedersi. Ma egli non le guardava e pensava ad altro.
    Soltanto  adesso  Pierre  aveva  compreso tutta la forza della volontà
    dell'uomo e la salutare capacità per cui  l'uomo  può  successivamente
    fissare la propria attenzione su cose diverse,  capacità che è come la
    valvola di sicurezza delle caldaie,  che lascia uscire  l'eccesso  del
    vapore non appena la pressione superi una certa misura.
    Egli  non  vedeva e non udiva come venivano fucilati i prigionieri che
    rimanevano indietro,  sebbene già più di un centinaio di essi  fossero
    morti  a quel modo.  Non pensava a Karataev che di giorno in giorno si
    faceva più debole e che,  evidentemente,  non avrebbe tardato a subire
    la  stessa  sorte.  E  tanto  meno  pensava  a  se stesso.  Quanto più
    difficile  diventava  la  sua   condizione,   quanto   più   terribile
    l'avvenire,  tanto  più sorgevano in lui pensieri,  ricordi e immagini
    gioiose,  rasserenanti e  indipendenti  dalla  situazione  in  cui  si
    trovava.


    CAPITOLO 13.

    Il 22 ottobre,  a mezzogiorno, Pierre percorreva una strada in salita,
    fangosa e sdrucciolevole,  guardando i propri piedi e le asperità  del
    terreno.  Di  tanto  in tanto lanciava un'occhiata alla folla ben nota
    che l'attorniava, poi di nuovo si osservava i piedi. L'una e gli altri
    erano ugualmente cose sue e ben note.  Il cagnolino grigio lilla dalle
    zampe  storte  correva allegramente lungo il margine della strada e di
    tanto in tanto,  per dar prova della sua destrezza e della sua  gioia,
    alzava una delle zampe posteriori e saltellava sulle altre tre, poi di
    nuovo correva su tutte e quattro e,  abbaiando,  si slanciava contro i
    corvi appollaiati sulle carogne.  Il cagnolino grigio  lilla  era  più
    allegro e più ben nutrito che a Mosca.  Da ogni parte si trovava carne
    di diversi animali  -  dalla carne umana a quella equina  -   in  vari
    stadi  di  decomposizione;  gli uomini in marcia impedivano ai lupi di
    avvicinarsi, cosicché il cagnolino poteva mangiare a sazietà.
    Pioveva dalla mattina;  pareva che da  un  momento  all'altro  dovesse
    cessare  e  il  cielo rasserenarsi ma,  dopo una breve pausa,  l'acqua
    riprendeva a cadere più forte. La strada, già zuppa, non ne poteva più
    assorbire, e in tutti gli incavi del terreno scorrevano ruscelletti.
    Pierre camminava guardando a destra e a sinistra,  contando i passi  a
    tre per tre e segnandoli sulle dita. Rivolgendosi alla pioggia, diceva
    dentro di sé: "Giù, giù ancora... ancora!".
    Gli pareva di non pensare a nulla,  ma in un angolo lontano e profondo
    sentiva qualcosa di importante  e  di  confortevole  sfiorare  il  suo
    animo.  Era  la  conclusione  più  sottile  e più spirituale della sua
    conversazione del giorno avanti con Karataev.
    Il giorno avanti, durante la sosta serale,  tremando dal freddo presso
    un  fuoco spento,  Pierre si era alzato e si era avvicinato a un fuoco
    più vicino,  che ardeva ancora.  Accanto a questo sedeva  Platòn  che,
    copertasi la testa con il cappotto come un piviale,  stava raccontando
    ai soldati con la sua voce simpatica ma ancora debole per la malattia,
    una storia che Pierre già conosceva. Era passata la mezzanotte,  l'ora
    in  cui  di  solito  Karataev  si rimetteva dal suo attacco febbrile e
    appariva particolarmente animato. Avvicinatosi al fuoco,  all'udire la
    voce debole e malata di Platòn, al vedere quel suo viso illuminato dal
    fuoco  che  ispirava  pietà,  Pierre si sentì stringere penosamente il
    cuore.  Si spaventò della pietà che gli ispirava  quell'uomo  e  volle
    andarsene,  ma  non  c'erano  altri  fuochi e Pierre,  cercando di non
    guardare Platòn, si decise a rimanere lì.
    - Be', come va la salute?  -  gli domandò.
    - La salute?  Se piangi sul tuo male,  Dio non ti  manderà  la  morte-
    rispose Karataev, e subito riprese il racconto iniziato.
    -  ...Ed  ecco,  fratello  mio   -  proseguì Platòn con un sorriso sul
    volto pallido e scarno e un particolare, lieto scintillio negli occhi.
    -  Ed ecco, fratello mio...
    Da  un  pezzo  Pierre  conosceva  la  storia.   Karataev   gliel'aveva
    raccontata  almeno sei volte,  e ogni volta con una gioia particolare.
    Ma per quanto Pierre la conoscesse bene,  ora l'ascoltava come  se  si
    trattasse   di   una   cosa  nuova  e  quel  quieto  entusiasmo,   che
    evidentemente provava Karataev nel raccontare,  si comunicò a  poco  a
    poco anche a lui.  Era la storia di un vecchio mercante che viveva una
    vita virtuosa e in grazia di Dio con la famiglia e che una volta,  con
    un compagno,  un ricco mercante, si era recato in pellegrinaggio a San
    Macario.
    Fermatisi in una locanda,  i due amici  si  erano  addormentati  e  il
    giorno  dopo  il  compagno  del mercante era stato trovato con la gola
    tagliata e derubato di  tutto.  Un  coltello  insanguinato  era  stato
    rinvenuto  sotto  il  cuscino  del  vecchio  mercante,  che  era stato
    processato,  fustigato e,  dopo che gli  furono  strappate  le  narici
    "secondo le regole" diceva Karataev, mandato al bagno penale.
    -  Ed  ecco,  fratello  mio...    -   (a questo punto del racconto era
    arrivato Pierre)  -  ...che da quel fatto passarono più di dieci anni.
    Il vecchietto è sempre ai lavori  forzati.  Vive  sottomesso,  non  fa
    niente di male e prega continuamente Dio di farlo morire.
    Bene.  Una notte i forzati si riuniscono,  così come noi adesso,  e il
    vecchietto è con loro.  E il discorso cadde sul perché ognuno era lì a
    soffrire  e  di  che cosa era colpevole davanti a Dio.  Cominciarono a
    raccontare: uno aveva un assassinio sulla coscienza, un altro ne aveva
    due; quello aveva appiccato un incendio, quell'altro era un fuggiasco,
    così,  senza ragione.  E chiesero allora al vecchietto: "Tu,  nonnino,
    perché  sei  qui  a  soffrire?".  "Io,  fratelli  miei cari",  dice il
    vecchietto, "soffro per i peccati miei e anche per quelli altrui.  Non
    ho  ucciso  nessuno,  non ho rubato la roba degli altri perché,  anzi,
    vestivo i fratelli poveri.  Io,  fratelli miei,  sono  un  mercante  e
    possedevo  una grande ricchezza".  Così e così,  dice.  E raccontò con
    molti particolari come si svolse la cosa. "Io", dice, "non mi affliggo
    per me, vuol dire che Iddio è venuto a cercarmi. Ho solo un rimpianto:
    la mia vecchia e i miei figliuoli...".  E il vecchierello  si  mise  a
    piangere. Caso volle che in quel gruppo si trovasse proprio l'uomo che
    aveva  ucciso il mercante.  "Dove,  nonnino,  è accaduto questo fatto?
    Quando, in che mese?". Tutto gli domandò, mentre il cuore cominciava a
    dolergli. Si avvicinò al vecchierello e giù... gli cadde ai piedi. "E'
    colpa mia, vecchietto, se ti trovi qui a penare...  E' la pura verità:
    quest'uomo  soffre a torto,  senza alcuna colpa.  Io,  io sono stato a
    compiere il delitto e a nascondere il coltello sotto il cuscino di lui
    che dormiva. Perdonami, nonnino, perdonami, per amore di Cristo!".
    Karataev tacque, sorridendo con gioia e, guardando il fuoco,  accomodò
    le braci.   -  E il vecchierello dice: "Dio ti deve perdonare,  perché
    davanti a Lui siamo tutti peccatori,  io peno per i miei  peccati".  E
    scoppiò in lacrime amare.  Cosa credi,  falchetto?  -  disse Karataev,
    raggiante di un sorriso sempre più luminoso,  come se in ciò che stava
    per dire adesso fossero contenuti il fascino e il significato di tutto
    il racconto.  -  Cosa credi falchetto? L'assassino confessò tutto alle
    autorità.   "Io",   dice  "ho  ucciso  sei  persone"  (era  un  grande
    mascalzone), ma, soprattutto, mi dispiace per questo vecchierello. Non
    deve più piangere per colpa mia".  Si denunziò,  scrissero,  mandarono
    una carta,  tutto come si deve. Ma era un posto lontano, e passò molto
    tempo prima che si rifacesse il processo,  prima che  fossero  spediti
    tutti gli incartamenti necessari per informare le autorità.  Si giunse
    finalmente allo zar.  Intanto  arrivò  l'ordine  dello  zar:  liberare
    immediatamente il mercante,  dargli una ricompensa, quello che avevano
    deciso laggiù.  Giunse la carta e incominciarono a cercare il vecchio.
    Dov'è  quel  vecchietto  che  ha sofferto,  pur essendo innocente?  E'
    arrivata la carta dello zar.  E continuarono a cercare.   -  (Il mento
    di  Karataev tremava).   -  Ma Dio gli aveva già perdonato: era morto.
    Proprio così, falchetto!  -  concluse Karataev e a lungo, in silenzio,
    rimase a fissare nel vuoto.
    Non il racconto in sé,  ma il suo  misterioso  significato,  la  gioia
    entusiastica che brillava sul volto di Karataev mentre raccontava,  il
    significato misterioso di quella  gioia,  colmavano  di  vaga  letizia
    l'animo di Pierre.


    CAPITOLO 14.

    - "A vos places!" [24. Ai vostri posti!]  -  gridò improvvisamente una
    voce.
    Tra  i  prigionieri  e  i  soldati  che li sorvegliavano si diffuse un
    allegro trambusto,  come  l'attesa  di  qualcosa  di  piacevole  e  di
    solenne.  Da  tutte  le  parti si levarono grida di comando e dal lato
    sinistro,  passando  al  trotto  davanti  ai  prigionieri,   apparvero
    eleganti cavalieri in sella a magnifici cavalli.  Tutti i visi avevano
    quell'espressione di attesa che si suole notare  nella  gente  che  si
    trova in vicinanza delle supreme autorità.
    - "L'empereur!  L'empereur!  Le maréchal!  Le duc!" [25. L'imperatore!
    L'imperatore! Il maresciallo! Il duca!].
    Poi,  appena passata una scorta di soldati  ben  nutriti,  si  udì  il
    rotolio  di  una  carrozza  trainata  da  cavalli  grigi.  Pierre vide
    fugacemente il bel viso calmo,  bianco e grassoccio di un uomo con  il
    tricorno.  Era uno dei marescialli. Lo sguardo del maresciallo si posò
    sull'alta  figura  di  Pierre  e  nell'espressione  con  la  quale  il
    maresciallo  corrugò le sopracciglia e volse il viso dall'altra parte,
    parve a Pierre di notare un sentimento di compassione e  il  desiderio
    di nasconderlo.
    Il  generale,   che  comandava  le  salmerie,  con  un  viso  rosso  e
    spaventato,  galoppava dietro la  carrozza,  spronando  il  suo  magro
    cavallo.  Alcuni ufficiali si erano riuniti in crocchio;  i soldati li
    circondavano. Tutti avevano l'aria ansiosa e commossa.
    - "Qu'est-ce qu'il a dit?  Qu'est-ce qu'il a dit?" [26.  Che  cosa  ha
    detto? Che cosa ha detto?]  -  sentiva domandare Pierre.
    Durante  il passaggio del maresciallo,  i prigionieri si erano riuniti
    in gruppo e Pierre rivide Karataev,  che aveva perso di vista sin  dal
    mattino;  Karataev, avvolto in un mantello, era seduto in terra con le
    spalle appoggiate al tronco di una betulla.
    Il  suo  volto   non   aveva   soltanto   l'espressione   di   gioioso
    intenerimento,  la  stessa  di quando aveva raccontato la storia delle
    sofferenze dell'innocente mercante,  ma raggiava anche di  una  serena
    solennità.
    Karataev  guardava Pierre con lo sguardo bonario dei suoi occhi tondi,
    velati ora da una lacrima, ed era evidente che lo chiamava, che voleva
    dirgli qualche cosa. Ma Pierre aveva troppa paura per se stesso.  Fece
    come  se  non  si  fosse  accorto  di quello sguardo e si allontanò in
    fretta.
    Quando i prigionieri ripresero la strada,  Pierre si  voltò  indietro.
    Karataev sedeva sul margine della strada,  accanto alla betulla; e due
    francesi, chini su di lui, dicevano qualcosa. Pierre non si voltò più.
    Zoppicando proseguì la salita.
    Alle sue spalle, nel punto in cui aveva visto seduto Karataev,  risonò
    un  colpo  d'arma da fuoco.  Pierre lo udì perfettamente ma proprio in
    quel momento si ricordò  di  non  aver  terminato  un  certo  calcolo,
    iniziato prima dell'arrivo del maresciallo,  che si riferiva al numero
    delle tappe che rimanevano da compiere prima di giungere a Smolènsk. E
    riprese a contarle. Due soldati francesi, uno dei quali teneva in mano
    un fucile ancora fumante gli passarono davanti. Erano entrambi pallidi
    e nell'espressione dei loro volti  -  uno dei due gli gettò un  timido
    sguardo    -   egli vide qualcosa di simile a ciò che aveva notato sul
    viso del giovane soldato  durante  la  scena  dell'esecuzione.  Pierre
    guardò  il soldato e si ricordò che proprio lui,  due giorni addietro,
    nel fare asciugare la camicia accanto al fuoco l'aveva bruciata e  che
    tutti l'avevano preso in giro.
    Dal  punto  in  cui prima era seduto Karataev,  giunse il guaito di un
    cane. "Che cos'ha da latrare, quella stupida bestia?" pensò Pierre.
    I compagni prigionieri che gli camminavano accanto,  come già  Pierre,
    non  si  voltarono  indietro  a guardare il punto da cui era giunto il
    colpo di fucile e poi il guaito del cane; ma le facce di tutti avevano
    assunto la stessa grave espressione.


    CAPITOLO 15.

    La colonna dei prigionieri, le salmerie e i bagagli del maresciallo si
    fermarono nel villaggio di Sciàmsevo.  Tutti  si  riunirono  a  gruppi
    attorno ai fuochi.  Pierre si accostò a uno dei falò,  mangiò carne di
    cavallo arrostita,  si sdraiò con le spalle  rivolte  al  fuoco  e  si
    addormentò.  Dormiva  di  quel  medesimo  sonno di cui aveva dormito a
    Mozaisk dopo Borodinò. Di nuovo la realtà si confondeva con i sogni, e
    di nuovo qualcuno - egli stesso, forse, o un altro  -  gli suggeriva i
    pensieri, gli stessi pensieri, anzi, che aveva avuto a Mozaisk.
    "La vita è il tutto. La vita è Dio. Tutto muta luogo e muove, e questo
    movimento  è  Dio.   E  finché   dura   la   vita,   dura   la   gioia
    dell'autocoscienza di Dio.  Amare la vita significa amare Dio.  La più
    difficile e la più santa di tutte le cose è amare la  vita  nelle  sue
    sofferenze, nelle sue sofferenze senza colpa".
    "Karataev!" ricordò poi Pierre.
    E  tutto a un tratto,  Pierre vide nel sogno,  come se fosse vivo,  un
    mite vecchietto da tempo dimenticato,  un maestro che in Svizzera  gli
    insegnava  geografia.  "Aspetta",  diceva il vecchietto,  e mostrava a
    Pierre un mappamondo.  Il mappamondo era una sfera  viva,  oscillante,
    che  non  aveva dimensioni.  Tutta la sua superficie era costituita da
    gocce strettamente serrate le une alle altre.  E tutte quelle gocce si
    movevano,  cambiavano  posto;  ora parecchie si fondevano in una sola,
    ora una sola si divideva in molte. Ogni goccia tendeva a dilatarsi,  a
    occupare il maggior spazio possibile,  ma le altre, che tendevano allo
    stesso  scopo  la   premevano,   talvolta   distruggendola,   talvolta
    fondendosi con essa. "Ecco la vita" disse il vecchio maestro.
    "Com'è  semplice  e chiaro" pensò Pierre.  "Come ho potuto,  prima non
    saperlo?".
    "Al centro è Dio, e ogni goccia tende ad allargarsi per rifletterLo in
    più ampie proporzioni.  E cresce,  si fonde,  si  restringe,  scompare
    dalla  superficie,  entra  in  profondità  e di nuovo riemerge.  Ecco,
    Karataev si è fuso con le altre  gocce  ed  è  scomparso".  "Avez-vous
    compris,  mon enfant?" [27.  Avete capito,  ragazzo mio?],  domandò il
    maestro.
    - "Avez-vous compris, sacré nom?" [28. Avete capito,  corpo di bacco?]
    -  gridò una voce, e Pierre si svegliò.
    Si  sollevò  e  rimase  seduto.  Accanto al fuoco stava accoccolato un
    francese che,  dopo avere malamente respinto un soldato russo,  faceva
    arrostire  un pezzo di carne infilzata sulla bacchetta del fucile.  Le
    sue mani rosse,  coperte di peli,  dalle vene sporgenti e  dalle  dita
    corte,  facevano  girare  la  bacchetta con molta destrezza.  Il volto
    scuro e accigliato,  dalle sopracciglia  aggrottate,  era  chiaramente
    visibile ai bagliori del fuoco.
    -  "Ca  lui est bien égal!"  -  borbottò,  rivolgendosi rapidamente al
    soldato che gli stava alle spalle,  -  "...brigand. Va!" [29.  Per lui
    è proprio lo stesso... brigante. Oh!].
    E  il soldato,  continuando a far girare la bacchetta,  guardò Pierre,
    torvo. Pierre voltò in là la faccia, fissando gli occhi nell'ombra. Un
    soldato russo prigioniero,  quello stesso al quale il  francese  aveva
    dato  uno  spintone,  sedeva  accanto  al  fuoco e con la mano toccava
    qualcosa.  Guardando più da  vicino,  Pierre  riconobbe  il  cagnolino
    grigio lilla che, scodinzolando, era accucciato accanto al soldato.
    - Ah,  sei venuto?   -  disse Pierre.   -  Ah, Pla...  -  cominciò, ma
    non completò la parola.
    All'improvviso,  nella sua  mente,  si  venivano  collegando  immagini
    diverse.   Rammentava   lo   sguardo  che  Platòn,   seduto  ai  piedi
    dell'albero,  gli aveva rivolto,  il colpo di fucile che aveva sentito
    giungere  di là,  il guaito del cagnolino,  le facce colpevoli dei due
    soldati francesi che gli erano passati davanti,  il  fumo  che  ancora
    usciva dalla canna del fucile, l'assenza di Karataev a quella tappa, e
    fu  sul  punto  di  comprendere  che  Karataev era stato ucciso...  Ma
    proprio in quel momento si ricordò,  Dio sa  come  e  perché,  di  una
    serata trascorsa con una bella polacca,  in estate,  sul balcone della
    sua casa di Kiev.  E tuttavia,  senza collegare i  ricordi  di  quella
    giornata e senza trarre da essi alcuna conclusione,  Pierre chiuse gli
    occhi, e il quadro della natura estiva si mescolò con il ricordo di un
    bagno, della sfera liquida e oscillante, ed egli sprofondò chissà dove
    nell'acqua che, a poco a poco, gli si richiuse sopra la testa.
    Prima del sorgere del sole,  fu destato da una fitta sparatoria  e  da
    alte grida. Davanti a Pierre passavano di corsa alcuni francesi.
    - "Les cosaques!" [30.  I cosacchi!]  -  gridò uno di essi e,  dopo un
    minuto, una folla di facce russe circondò Pierre.
    Per un pezzo egli non riuscì a capire che cosa fosse accaduto. Da ogni
    parte udiva levarsi le grida gioiose dei compagni.
    - Fratelli!  Amici cari,  fratelli!   -   gridavano  piangendo  vecchi
    soldati,  abbracciando i cosacchi e gli ussari.  Questi circondavano i
    prigionieri e offrivano loro chi  indumenti,  chi  scarpe,  chi  pane.
    Pierre  singhiozzava,  seduto  per  terra in mezzo a loro e non poteva
    pronunziare neppure una parola.  Abbracciò il primo soldato russo  che
    gli venne vicino e, piangendo, lo baciò.

    Dòlochov stava ritto presso il portone della casa in rovina mentre gli
    sfilava  davanti  una  lunga  teoria  di  soldati  francesi disarmati.
    Costoro,  turbati da tutto quanto era accaduto,  parlavano tra di loro
    ad alta voce ma,  quando passavano davanti a Dòlochov,  che si batteva
    leggermente il frustino sugli stivali e lanciava occhiate  gelide  che
    non  promettevano nulla di buono,  smettevano di parlare.  Dalla parte
    opposta,  il cosacco di Dòlochov contava  i  prigionieri,  e  ad  ogni
    centinaio faceva sul portone un segno con il gesso.
    - Quanti?  -  domandò Dòlochov al cosacco che contava i prigionieri.
    - Siamo al secondo centinaio  -  rispose il cosacco.
    - "Filez, filez"  -  ripeteva Dòlochov che aveva imparato quel modo di
    dire  dai  Francesi  e,  incontrando  lo  sguardo  dei prigionieri che
    passavano, i suoi occhi brillavano di una luce crudele.
    Denissov,  con il viso cupo,  a capo scoperto,  seguiva i cosacchi che
    portavano  il  corpo  di Pétja Rostòv alla fossa che era stata scavata
    nel giardino.


    CAPITOLO 16.

    Dal 28 ottobre,  quando erano cominciati i geli,  la fuga dei Francesi
    aveva  assunto  un  aspetto  anche  più tragico,  quello di uomini che
    morivano di freddo o si bruciavano  a  morte  attorno  ai  fuochi  dei
    bivacchi e proseguivano,  avvolti nei mantelli o in carrozza,  la loro
    fuga con il bottino dell'imperatore,  dei  re  e  dei  duchi;  ma,  in
    sostanza,  il  processo della fuga e della disgregazione dell'esercito
    francese, dal giorno in cui aveva abbandonato Mosca, non era mutato.
    Da Mosca sino a Vjazma, dei 73000 uomini dell'esercito francese, senza
    contare la Guardia (che durante tutta la guerra non fece nulla se  non
    saccheggiare) ne rimasero 36000 (di questi non più di cinquemila erano
    rimasti  uccisi  in  combattimento).   Ecco  il  primo  termine  della
    progressione  da  cui,   con  matematica  esattezza,   si  ricavano  i
    successivi.
    L'esercito  francese  continuò  a  dissolversi e a distruggersi sempre
    nella stessa proporzione da Mosca a Vjazma,  da Vjazma a Smolènsk,  da
    Smolènsk alla Beresinà,  dalla Beresinà a Vilna, indipendentemente dal
    freddo più o  meno  intenso,  dall'inseguimento,  dagli  ostacoli  del
    percorso   e   da   qualsiasi  altra  condizione  avversa  considerata
    separatamente.  Dopo Vjazma le truppe francesi anziché su tre  colonne
    si riunirono in un unico gruppo e così marciarono sino alla fine. Ecco
    che cosa Berthier scriveva al suo sovrano (è noto come i capi militari
    si  permettano di descrivere,  in modo assai diverso dalla verità,  la
    situazione di un esercito):

    "Je crois devoir faire connaître à Votre Majesté l'état de ses troupes
    dans les différents corps d'armée  que  j'ai  été  à  même  d'observer
    depuis  deux  ou  trois  jours  dans  différents passages.  Elles sont
    presque débandées.  Le nombre des soldats qui suivent les drapeaux est
    en  proportion  du quart au plus dans presque tous les régiments;  les
    autres marchent isolément dans différentes  directions  et  pour  leur
    compte  dans  l'espérance  de  trouver  des  subsistances  et  pour se
    débarrasser de la discipline.  En général ils regardent Smolensk comme
    le  point où ils doivent se refaire.  Ces derniers jours on a remarqué
    que beaucoup de soldats jettent leurs cartouches et leurs armes.  Dans
    cet  état  de  choses,  l'intérêt  du  service de Votre Majesté exige,
    quelles que soient  ses  vues  ultérieures,  qu'on  rallie  l'armée  à
    Smolensk, en commencant à la debarrasser des non-combattants, tels que
    les  hommes  démontés,  et  des  bagages  inutiles  et  du matériel de
    l'artillerie,  qui n'est plus en proportion avec les forces actuelles.
    En  outre  des  jours de repos,  des subsistances sont nécessaires aux
    soldats qui sont exténués par la faim et  la  fatigue;  beaucoup  sont
    morts  ces derniers jours sur la route et dans les bivouacs.  Cet état
    de choses va toujours en augmentant et donne lieu de craindre  que  si
    l'on  n'y  prête un prompt remède,  on ne soit plus maître des troupes
    dans un combat.
    Le 9 novembre, à 30 verstes de Smolensk".
    [31.  "Ritengo mio dovere mettere  al  corrente  vostra  maestà  sulle
    condizioni  delle  sue truppe nei diversi corpi d'armata che ho potuto
    osservare da due o tre giorni in diversi punti durante la marcia. Esse
    sono quasi sbandate. Il numero dei soldati che segue le bandiere è, in
    quasi tutti i reggimenti,  in proporzione  di  un  quarto,  gli  altri
    marciano  per  proprio  conto in direzioni diverse,  nella speranza di
    trovare di che vivere e di liberarsi dal  peso  della  disciplina.  In
    generale,  considerano Smolènsk come il luogo in cui devono riposarsi.
    In questi ultimi giorni si è  notato  che  molti  soldati  gettano  le
    cartucce  e le armi.  In tale stato di cose,  l'interesse della maestà
    vostra,  quali che possano essere i suoi ulteriori disegni,  esige che
    l'esercito  venga riunito a Smolènsk,  cominciando ad alleggerirlo dei
    non combattenti,  quali sono per esempio  i  cavalieri  rimasti  senza
    cavalli,  dei bagagli inutili e del materiale di artiglieria che non è
    proporzionato alle forze attuali.  Inoltre i soldati,  estenuati dalla
    fame  e  dalle  fatiche,  hanno  assoluto bisogno di qualche giorno di
    riposo; in questi ultimi tempi, molti sono morti lungo la strada e nei
    bivacchi. Questo stato di cose si va sempre più aggravando e fa temere
    che,  se non si corre ai ripari,  non si sia più in grado di comandare
    le truppe durante un combattimento.
    9 novembre, a 30 miglia da Smolènsk"].

    Dopo  essere  entrati  a  Smolènsk,  da loro considerata come la Terra
    promessa, i Francesi si uccidevano tra di loro per arraffare i viveri,
    saccheggiavano  i  loro  depositi  e,  allorché  tutto  fu  distrutto,
    continuarono la loro fuga.
    Tutti  marciavano  senza sapere dove andassero e perché.  E ancor meno
    degli altri lo sapeva il genio di Napoleone,  poiché nessuno gli  dava
    ordini.   Tuttavia   l'imperatore   e   quanti   gli  stavano  attorno
    conservavano le loro abitudini: scrivevano lettere, ordini,  rapporti,
    ordini  del  giorno,  si  chiamavano l'un l'altro: "Sire,  Mon Cousin,
    Prince d'Eckmühl, Roi de Naples..." [32.  "Sire,  cugino,  principe di
    Eckmühl,  re  di Napoli..."] e così via.  Ma gli ordini del giorno e i
    rapporti rimanevano lettera morta,  nulla si eseguiva  di  quanto  era
    ordinato  perché non si poteva far nulla e sebbene si servissero degli
    appellativi di maestà,  altezza,  cugino eccetera,  tutti sentivano di
    essere  gente  miserabile e abbietta,  che aveva fatto molto male,  un
    male che ora dovevano scontare.
    E, per quanto fingessero di preoccuparsi dell'esercito, ognuno pensava
    unicamente a se stesso,  al mezzo di  fuggire  più  rapidamente  e  di
    mettersi in salvo.


    CAPITOLO 17.

    Le  operazioni  delle  truppe  russe  e  di quelle francesi durante la
    campagna della ritirata da Mosca sino al Niemen, hanno somiglianza con
    un gioco a moscacieca,  quando ai due che giocano si bendano gli occhi
    e uno di essi,  di tanto in tanto, suona un campanellino per avvertire
    della sua presenza l'altro che deve acchiapparlo. Sulle prime,  quello
    che deve essere preso suona senza paura dell'avversario,  ma quando le
    cose cominciano a mettersi male,  nel tentativo di non farsi  sentire,
    fugge  dal  nemico  e spesso,  cercando di evitarlo,  gli va proprio a
    cadere tra le braccia.
    Sulle prime le truppe di Napoleone davano ancora qualche segno di vita
    -  ciò avveniva nel primo periodo della loro marcia  sulla  strada  di
    Kaluga   -  ma poi,  quando si trovarono sulla strada di Smolènsk,  si
    diedero alla fuga,  stringendo nella mano  il  piccolo  battaglio  del
    campanellino e spesso,  credendo di allontanarsi dai Russi,  correvano
    loro addosso.
    Data la rapidità della fuga dei Francesi inseguiti dai Russi e dato il
    conseguente stato di sfinimento dei cavalli,  il più importante  mezzo
    per rendersi conto della posizione in cui si trovava il nemico, e cioè
    le  ricognizioni  con  la cavalleria,  non esisteva più.  Inoltre,  in
    seguito ai  frequenti  e  rapidi  spostamenti  dei  due  eserciti,  le
    informazioni  che si potevano avere risultavano sempre tardive.  Se il
    giorno 2 del mese giungeva la notizia che l'esercito nemico si trovava
    il giorno uno in  un  certo  posto,  il  giorno  3  in  cui  diventava
    possibile  intraprendere  qualche  azione,  quell'esercito  aveva  già
    compiuto altre due tappe e si trovava ormai in tutt'altra posizione.
    Un esercito fuggiva,  l'altro lo  inseguiva.  Usciti  da  Smolènsk,  i
    Francesi  avevano  davanti  molte strade diverse;  era logico supporre
    che,  essendo rimasti a Smolènsk per quattro giorni,  avrebbero dovuto
    sapere dove si trovasse il nemico, combinare qualche piano vantaggioso
    e  intraprendere  qualche azione.  Invece dopo quella sosta di quattro
    giorni,  le truppe francesi ripresero  la  fuga,  non  volgendo  né  a
    destra,  né a sinistra ma,  senza compiere alcuna manovra e senza fare
    alcun calcolo, continuarono per la vecchia strada, la peggiore, quella
    che va verso Kràsnoe e Orsa, strada che avevano già percorsa.
    Aspettando il nemico alle spalle, e non di fronte,  i soldati francesi
    correvano  divisi  in  due  colonne,  distanziate  l'una dall'altra di
    ventiquattro ore.  In testa a tutti fuggiva l'imperatore,  seguito dai
    re e dai duchi.  L'esercito russo, supponendo che Napoleone si sarebbe
    diretto a destra passando oltre il Dnieper  -  sola  cosa  ragionevole
    che  potesse  fare  -  si buttò anch'esso a destra e uscì sulla strada
    maestra di Kràsnoe.  Là,  come in una partita a moscacieca,  le truppe
    francesi incontrarono la nostra avanguardia. All'inaspettata vista del
    nemico,  i  Francesi  si smarrirono,  si fermarono colti da improvviso
    sgomento,   poi  ripresero  la  fuga,   abbandonando  i  compagni  che
    marciavano dietro di loro. Lì, quasi attraverso lo schieramento russo,
    per  tre  giorni  passarono  l'uno  dopo  l'altro i reparti distaccati
    francesi:  prima  il  viceré,   poi  Davoust,   poi  Ney.   Tutti   si
    abbandonarono  a  vicenda,  abbandonarono  i  loro carriaggi,  le loro
    artiglierie, metà dei loro uomini, e continuarono a fuggire, di notte,
    deviando continuamente per evitare di incontrare i Russi.
    Ney, che veniva per ultimo (perché, nonostante la situazione disperata
    o proprio in conseguenza di essa voleva percuotere il piancito  contro
    cui  avevano  sbattuto,  aveva  indugiato  per  far saltare le mura di
    Smolènsk che non davano fastidio a nessuno) con il suo corpo  d'armata
    di  diecimila  uomini,  raggiunse  Napoleone  a  Orsa con mille uomini
    appena,  dopo avere abbandonato per via tutti  i  soldati  e  tutti  i
    cannoni e aver attraversato nottetempo il Dnieper,  percorrendo la via
    dei boschi.
    Da Orsa la fuga continuò lungo la strada di Vilna,  sempre giocando  a
    moscacieca con l'esercito che li inseguiva.  Sulla Beresinà si ebbe un
    altro scontro.  Molti soldati francesi annegarono,  molti si arresero,
    ma  quelli che avevano attraversato il fiume fuggirono oltre.  Il loro
    comandante supremo,  avvolto in  una  pelliccia  e  salito  sopra  una
    slitta, fuggì al galoppo, solo, abbandonando i compagni.
    Chi poté,  si mise in salvo,  come lui; chi non ci riuscì, si arrese o
    dovette morire.


    CAPITOLO 18.

    Sembrerebbe che,  occupandosi di questa campagna di fuga dei Francesi,
    i  quali  fecero tutto ciò che era possibile per rovinarsi,  quando in
    ogni mossa di quella massa fuggente,  a  cominciare  dalla  deviazione
    sulla  strada di Kaluga sino alla fuga del comandante supremo,  non ci
    fu il minimo buonsenso, sembrerebbe,  dico,  che occupandosi di questo
    periodo della campagna,  agli storici, i quali attribuiscono le azioni
    delle masse alla volontà di un solo uomo, fosse impossibile descrivere
    questa ritirata con le solite concezioni.  E invece  no!  Montagne  di
    libri sono state dedicate dagli storici a questa campagna,  e in tutti
    sono riportati gli ordini impartiti da  Napoleone,  i  suoi  piani  di
    manovra  abilmente concepiti,  con cui guidava l'esercito e le geniali
    disposizioni dei suoi marescialli.
    La ritirata di Malo-Jaròslavetz,  quando i Russi gli lasciavano libero
    il  passaggio verso un paese fertile e quando davanti a lui era aperta
    quella strada parallela,  per la quale poi fu  inseguito  da  Kutuzòv,
    quella  inutile  ritirata  su  una  strada  ormai devastata,  ci viene
    presentata  con  molte  profonde  considerazioni.  E  con  altrettante
    profonde considerazioni ci viene descritta la sua ritirata da Smolènsk
    a  Orsa.  E  poi  ci  viene  descritto  l'eroismo  di Napoleone presso
    Kràsnoe, dove si vuole che egli si preparasse ad accettare battaglia e
    a comandarla personalmente e dove, giocherellando con un bastoncino di
    betulla, abbia detto:
    - "J'ai assez fait l'empereur, il est temps de faire le général!  [33.
    Ho   fatto  abbastanza  l'imperatore,   ora  è  tempo  che  faccia  il
    generale!].
    Nonostante ciò, egli fuggì ancora più lontano,  abbandonando alla loro
    sorte  i  reparti rimasti indietro,  separati dall'esercito.  Ci viene
    inoltre descritta la magnanimità dei marescialli, di Ney specialmente,
    la quale si manifesta con il buttarsi di notte in mezzo ai boschi  per
    attraversare  il  Dnieper  in  modo  da  aggirare  i  Russi e arrivare
    precipitosamente a Orsa senza bandiere,  senza cannoni e senza i  nove
    decimi dei suoi uomini.
    E, infine, la partenza del grande imperatore dalla sua valorosa armata
    ci  viene  presentata  dagli  storici come una mossa eroica e geniale.
    Persino quest'ultimo gesto, la fuga,  che in linguaggio umano potrebbe
    essere definita l'ultimo gradino della viltà, di cui si insegna a ogni
    bambino a vergognarsi,  anch'esso, nel linguaggio degli storici, trova
    la sua giustificazione.
    Quando è ormai impossibile tendere oltre i  fili  tanto  elastici  del
    ragionamento  storico,  quando un'azione è palesemente contraria a ciò
    che quasi tutta  l'umanità  definisce  bene  o  anche  giustizia,  gli
    storici  ricorrono  al concetto salvatore della grandezza.  Come se la
    grandezza dovesse escludere la possibilità di misurare il  bene  e  il
    male.  Per l'uomo grande,  il male non esiste.  Non esiste infamia che
    possa essere imputata a colpa di chi è grande.
    - "C'est grand!"  -  dicono gli storici,  e allora non esistono più né
    il  bene,  né il male,  ma esiste soltanto ciò che è "grand" e ciò che
    non lo è.  Il "grand" è bene,  il non "grand" è male.  Il  "grand"  è,
    secondo  il  concetto  degli  storici,  una  qualità propria di alcuni
    esseri particolari,  che  vengono  definiti  eroi.  E  Napoleone  che,
    avvolto  in  una morbida pelliccia,  fugge verso casa abbandonando non
    solo i compagni che soccombono ma (secondo il suo  parere)  anche  gli
    uomini da lui trascinati sino là, sente "que c'est grand", e quindi la
    sua coscienza è tranquilla.
    -  "Du  sublime" (egli vede in sé qualcosa di sublime) "au ridicule il
    n'y a qu'un pas",  dice.  E tutto il mondo per  cinquant'anni  ripete:
    "Sublime!  Grand!  Napoléon le grand!  Du sublime au ridicule il n'y a
    qu'un pas!" [34. "Sublime! Grande! Il grande Napoleone! Dal sublime al
    ridicolo non c'è che un passo!"].
    E a nessuno viene in mente che il fatto di riconoscere  una  grandezza
    che  non  può  essere  misurata  con  il  metro  del bene e del male è
    soltanto la confessione della sua  infinita  piccolezza  e  della  sua
    nullità.
    Per noi,  con la misura del bene e del male dataci da Cristo,  non c'è
    nulla di incommensurabile, e non esiste grandezza là dove non esistono
    semplicità, bontà e verità.


    CAPITOLO 19.

    Quale russo,  nel leggere la  descrizione  dell'ultimo  periodo  della
    campagna dell'anno 1812,  non ha provato un penoso senso di stizza, di
    insoddisfazione e di poca chiarezza?  Chi non si è posta  la  domanda:
    come mai non sono stati catturati e annientati tutti i Francesi, visto
    che  erano  circondati  da  tre  armate  di forze preponderanti e che,
    essendo in rotta,  affamati e intirizziti,  si arrendevano in folla  e
    che  (come  ci  racconta  la  storia)  lo  scopo  dei Russi consisteva
    precisamente nell'arrestare, tagliar fuori e farli tutti prigionieri?
    Come mai l'esercito russo,  inferiore per numero di  uomini  a  quello
    francese, diede la battaglia di Borodinò, come mai questo esercito che
    circondava da tre lati il nemico e aveva per scopo la sua cattura, non
    è  riuscito a conseguirla?  E' possibile che i Francesi avessero su di
    noi una preponderanza tale  che,  dopo  averli  circondati  con  forze
    superiori  alle loro,  non riuscissimo poi a sconfiggerli?  Come mai è
    potuto accadere un fatto simile?
    La storia (quella che viene definita  con  questo  nome),  rispondendo
    alle domande su esposte, afferma che un fatto simile è potuto accadere
    perché  Kutuzòv,  Tormassov,  Ciciagòv (35) e altri e altri ancora non
    attuarono questa o quest'altra manovra.
    Ma perché non le attuarono? Perché, se per colpa loro non fu raggiunto
    lo scopo prefisso,  essi non furono processati e condannati?  Ma,  pur
    ammettendo  che  la  colpa  dell'insuccesso russo sia da attribuirsi a
    Kutuzòv,  Ciciagòv eccetera,  non si riesce a capire come  mai,  nelle
    condizioni  in  cui  si  trovava,  l'esercito  russo  a Kràsnoe e alla
    Beresinà (in  ambedue  i  casi  era  più  numeroso)  non  abbia  fatto
    prigioniero  tutto  l'esercito francese con i marescialli,  con i re e
    con l'imperatore, se proprio questo era il suo scopo.
    La spiegazione di tale strano fenomeno,  quale è  data  dagli  storici
    militari russi, e che cioè Kutuzòv abbia impedito l'offensiva, è priva
    di  fondamento  perché  noi  sappiamo che la volontà di Kutuzòv non fu
    sufficiente a  trattenere  dall'offensiva  le  truppe  a  Vjazma  e  a
    Tarùtino.
    Perché  l'esercito  russo,  che  con forze molto più deboli ottenne la
    vittoria a Borodinò su un nemico in piena efficienza,  fu vinto poi  a
    Kràsnoe   e  alla  Beresinà  con  forze  superiori  dalle  stremate  e
    disorganizzate torme francesi?
    Se lo scopo  dei  Russi  consisteva  nel  tagliar  fuori  e  catturare
    Napoleone  e i marescialli,  e se tale scopo non solo non fu raggiunto
    ma tutti i tentativi per riuscirvi furono ogni volta resi inutili  nel
    modo più vergognoso,  allora è perfettamente giustificato il fatto che
    l'ultimo periodo della campagna venga presentato dai Francesi come  un
    seguito  di vittorie ed è perfettamente ingiustificato il fatto che ci
    venga presentato dagli storici russi come un periodo vittorioso.
    Gli storici militari russi, per quel tanto in cui la logica è per essi
    obbligatoria,   giungono  malvolentieri  a   questa   conclusione   e,
    nonostante  i  loro  slanci  lirici  sull'eroismo,  sull'abnegazione e
    simili cose, devono, loro malgrado, ammettere che la ritirata da Mosca
    da parte dei Francesi  è  un  susseguirsi  di  vittorie  da  parte  di
    Napoleone e un susseguirsi di sconfitte da parte di Kutuzòv.
    Ma,  pur lasciando completamente da parte l'amor proprio nazionale, si
    sente che tale conclusione ha in sé  una  contraddizione  giacché  una
    serie  di  vittorie portò i Francesi a una completa sconfitta,  mentre
    una serie di sconfitte portò  i  Russi  all'annientamento  totale  del
    nemico e alla liberazione della patria.
    L'origine  di  questa contraddizione sta nel fatto che gli storici,  i
    quali studiano  gli  avvenimenti  nelle  lettere  dei  sovrani  e  dei
    generali,  nei rapporti,  nei piani eccetera, pongono come scopo reale
    dell'ultimo periodo della guerra del 1812  -  scopo non  mai  esistito
    -  l'accerchiamento e la cattura di Napoleone con i suoi marescialli e
    con il suo esercito.
    Questo scopo non è mai esistito, né poteva esistere, giacché non aveva
    senso  ed  era assolutamente impossibile raggiungerlo.  Esso non aveva
    alcun  senso,   in  primo  luogo  perché  l'armata  disorganizzata  di
    Napoleone  fuggiva  dalla  Russia  con  la massima rapidità possibile,
    ossia faceva precisamente ciò che ogni russo desiderava.  Perché mai i
    Russi  avrebbero dovuto compiere diverse operazioni contro un esercito
    che stava fuggendo quanto più in fretta poteva?
    In secondo luogo, sarebbe stato assurdo mettersi sulla strada di gente
    che concentrava ogni sua energia nella fuga.
    In terzo luogo,  sarebbe stato insensato perdere il  proprio  esercito
    per  annientare  quello  francese  che  già stava annientandosi da sé,
    senza cause esterne e in tale progressione che,  senza ostacolargli il
    cammino,  non  poteva  fare  attraversare  la  frontiera  a  un numero
    maggiore di uomini  di  quelli  che  la  attraversarono  nel  mese  di
    dicembre, e cioè una centesima parte di tutta la sua armata.
    In  quarto  luogo,   sarebbe  stato  insensato  il  desiderio  di  far
    prigionieri l'imperatore, i re, i duchi, tutti uomini che,  ridotti in
    prigionia,  avrebbero impacciato i movimenti dei Russi, come dovettero
    ammettere i più abili diplomatici di quel tempo (J.  de Maistre (36) e
    altri).  E  ancora  più  insensato  il  desiderio  di  catturare corpi
    d'armata francese quando le nostre truppe si erano,  prima di Kràsnoe,
    dimezzate,  e sarebbe stato necessario assegnare,  ai corpi d'esercito
    prigionieri,  divisioni di scorta,  mentre i nostri soldati non sempre
    ricevevano  la  razione  completa,  mentre i prigionieri già catturati
    morivano di fame.
    Tutto il profondissimo piano escogitato per tagliare fuori e catturare
    Napoleone con il suo esercito  potrebbe  essere  paragonato  al  piano
    dell'ortolano  che,  per  scacciare  dal  suo orto una mandria che gli
    calpesta le aiuole,  corresse al cancello e si mettesse a picchiare le
    bestie   sulla   testa.   La   sola   cosa  che  si  potrebbe  dire  a
    giustificazione dell'ortolano sarebbe  che  egli  aveva  agito  in  un
    accesso  di collera,  ma neppure questo giustificherebbe i compilatori
    dei progetti,  perché essi non soffrirono il danno di avere le  aiuole
    calpestate.
    Ma,  oltre che assurda,  l'idea di sbarrare la strada a Napoleone, era
    anche impossibile.
    Impossibile innanzi tutto perché,  come ci  insegna  l'esperienza,  il
    movimento  di colonne a cinque miglia di distanza in una battaglia non
    coincide mai con i piani prestabiliti  e  quindi  la  probabilità  che
    Ciciagòv,  Kutuzòv  e  Wittgenstein  si  riunissero in tempo nel posto
    prestabilito era talmente minima da  essere  considerata  impossibile,
    come pensava Kutuzòv il quale,  nel ricevere il progetto, dichiarò che
    le  diversioni  a  grande  distanza  non  portano  mai  al   risultato
    desiderato.
    In  secondo luogo era impossibile perché,  per paralizzare la forza di
    inerzia che  faceva  muovere  in  ritirata  l'esercito  di  Napoleone,
    sarebbe  occorso  un contingente di truppe senza paragone più numeroso
    di quello che avevano i Russi.
    In terzo luogo, era impossibile perché il termine militaresco "tagliar
    fuori" non ha alcun significato. Si può tagliare un pezzo di pane,  ma
    non un esercito. Tagliar fuori un esercito  -  sbarrargli la strada  -
    è  impossibile,  giacché  all'intorno  c'è  sempre molto spazio in cui
    girare ed esiste la notte, durante la quale non si vede nulla, cosa di
    cui si sarebbero dovuti convincere gli studiosi non  fosse  altro  che
    per gli esempi di Kràsnoe e della Beresinà.  Non è possibile, nel modo
    più assoluto, prendere prigioniero qualcuno, se questo qualcuno non vi
    consente,  come non è possibile catturare una rondine,  benché  la  si
    possa prendere qualora venga a posarsi sulla mano. Si possono prendere
    prigionieri  coloro  che  si  arrendono,  come i Tedeschi,  secondo le
    regole della strategia e della tattica. Ma l'esercito francese,  molto
    giustamente,  non  trovava opportuno farlo,  giacché la medesima morte
    per fame e per freddo lo attendeva sia  se  fuggiva  sia  se  si  dava
    prigioniero.
    In quarto luogo,  poi,  ed è la cosa più importante, non era possibile
    perché mai, dacché mondo è mondo,  nessuna guerra fu mai combattuta in
    condizioni  così terribili quali quelle in cui si svolse la guerra del
    1812,  e le truppe russe,  inseguendo quelle  francesi,  tendevano  al
    massimo  tutte  le loro forze e non avrebbero potuto fare di più senza
    distruggere se stessi.
    Durante lo  spostamento  dell'armata  russa  da  Tarùtino  a  Kràsnoe,
    andarono  perduti cinquantamila uomini,  tra malati e ritardatari,  un
    numero pari a metà degli abitanti di una grossa città di provincia.  E
    la metà degli uomini furono perduti per l'esercito senza combattere.
    E  proprio  a  proposito di questo periodo della campagna,  durante la
    quale l'esercito, senza stivali e senza pellicce,  con razioni scarse,
    senza  vodka,  passa  per mesi la notte nella neve alla temperatura di
    quindici gradi sotto zero; quando il giorno non dura che sette od otto
    ore e tutte le altre sono di notte e durante la  notte  la  disciplina
    non  serve  più  a nulla;  quando non avviene come in battaglia,  dove
    soltanto per qualche ora gli uomini sono in pericolo di  morte  e  non
    c'è  più disciplina,  ma per mesi e mesi vivono lottando a ogni minuto
    contro la morte per fame e per freddo;  quando in un mese  perisce  la
    metà  dell'esercito:  proprio  a  proposito  di  questo  periodo della
    campagna,  gli storici ci raccontano che Miloràdovic'  avrebbe  dovuto
    compiere una marcia laterale da una parte e Tormassov dall'altra,  che
    Ciciagòv si sarebbe dovuto spostare (spostarsi con la neve al di sopra
    del ginocchio) e che questo o quell'altro generale  sgominò  e  tagliò
    fuori il nemico eccetera eccetera.
    L'esercito  russo,  metà  del  quale  morì,  fece  tutto  ciò  che era
    possibile fare per raggiungere uno scopo degno del suo popolo, e non è
    colpa sua se  altri  uomini  russi,  seduti  nelle  loro  calde  case,
    pensavano che si dovesse fare ciò che era impossibile.
    Tutta  questa strana,  incomprensibile contraddizione tra i fatti e la
    descrizione della storia,  deriva  semplicemente  da  questo  che  gli
    storici  che hanno scritto su tale avvenimento hanno narrato la storia
    dei buoni sentimenti e delle belle parole dei diversi generali, ma non
    la storia degli avvenimenti veri e propri.
    A loro sembrano molto significative  le  parole  di  Miloràdovic',  le
    ricompense  avute dall'uno e dall'altro generale e le loro congetture;
    ma il problema dei cinquantamila uomini rimasti negli ospedali o nelle
    tombe non li interessa neppure perché non è oggetto dei loro studi.
    Eppure basta soltanto non prendere in  considerazione  lo  studio  dei
    rapporti e dei piani operativi dei generali e meditare,  invece, sulle
    azioni di quelle centinaia di migliaia di  uomini  che  presero  parte
    diretta  e  immediata agli avvenimenti,  perché tutti i problemi,  che
    sembrano prima  insolubili,  trovino  a  un  tratto,  con  incredibile
    facilità e semplicità, una sicura, chiara soluzione.
    Lo scopo di sbarrare la strada a Napoleone e al suo esercito non è mai
    esistito se non nell'immaginazione di qualche diecina di persone. Esso
    non  poteva  esistere  perché  era  assurdo  e  la  sua  realizzazione
    impossibile.
    Lo scopo del popolo era uno solo: liberare la patria dall'invasore.  E
    questo  scopo  si  raggiungeva  innanzi  tutto da sé perché i Francesi
    fuggivano  e  perciò  occorreva  soltanto  non  ostacolare   il   loro
    movimento.
    In  secondo  luogo  quello  scopo  si  raggiungeva con le azioni della
    guerra partigiana che decimò i nemici e,  in terzo  luogo,  perché  un
    grosso  esercito  russo  seguiva le orme di quello francese,  pronto a
    usare la forza nel caso di un arresto nel movimento del nemico.
    L'esercito russo dovette agire come la sferza su un animale che corre.
    E l'esperto  guidatore  sapeva  che  è  più  utile  tenere  la  frusta
    sollevata   minacciosamente  anziché  percuotere  con  essa  la  testa
    dell'animale in corsa.







    NOTE.

    N.  3.  Denìss Vassilevic' Davydov  (1784-18~9),  poeta  e  scrittore;
    dapprima  aiutante  di campo di Bagratiòn,  fu poi generale durante la
    guerra del 1812.
    N. 4. Mantello di feltro usato nel Caucaso.
    N. 5. Berretto caucasico di pelliccia.
    N. 6. Capitano cosacco.
    N. 10. Mantello cosacco.
    N. 23. Andoche Junot,  duca di Abrantès (1771-1813),  nominato,  per i
    meriti  acquistati  a  Tolone,   ufficiale  e  aiutante  di  campo  di
    Napoleone, si segnalò in Italia e in Egitto, dove fu promosso generale
    di brigata.  Dopo una carriera molto movimentata,  comandò nel 1812 un
    corpo della Grande Armata. Coraggioso, ma non eccessivamente abile, fu
    relegato   da  Napoleone  al  governo  delle  province  illiriche  ma,
    impazzito, fu ricondotto in Francia dove si uccise.
    N.  35.  Pavel Vassìlevic'  Ciciagòv  (1770-1849),  ammiraglio  russo,
    ministro della marina, ebbe dallo zar Aleksàndr Primo il comando delle
    province danubiane. Chiamato a sbarrare il passaggio della Beresinà ai
    Francesi, si lasciò sfuggire Napoleone. Alla fine della campagna diede
    le  dimissioni e andò a vivere all'estero.  Scrisse una "Relazione sul
    passaggio della Beresinà".
    N.  36.  Joseph de Maistre (1753-1821),  scrittore e diplomatico.  Dal
    1802  al  1805  dimorò a Pietroburgo come ministro plenipotenziario di
    Vittorio Emanuele Primo re di Sardegna.  Tra le sue  opere  ricordiamo
    "Le serate di Pietroburgo"; "Il papa"; "Considerazioni sulla Francia".