GUERRA E PACE di Lev Nicoàevic Tolstòj.


    LIBRO PRIMO.

    PARTE TERZA.


    CAPITOLO 1.

    Il  principe  Vassilij  non  meditava  mai a lungo sui suoi progetti e
    ancor meno pensava di far del male  al  suo  prossimo  per  trarne  un
    vantaggio qualsiasi.  Era soltanto un uomo di mondo che,  avendo avuto
    molto successo in società, si era a tale successo assuefatto.  Secondo
    le   circostanze   e   i   suoi  incontri  con  il  prossimo,   andava
    incessantemente elaborando entro di sé piani e progetti  di  cui  egli
    stesso  non  si  rendeva  esattamente  conto,  ma  che costituivano il
    principale interesse della sua vita.  Non si trattava mai di uno o due
    progetti soltanto,  ma di diecine, alcuni dei quali gli si abbozzavano
    appena nella mente,  altri si realizzavano,  altri finivano nel nulla.
    Per esempio,  egli non diceva mai a se stesso: "Quell'uomo ora è molto
    potente;  io devo conquistarne la fiducia e l'amicizia  e,  per  mezzo
    suo,  ottenere  un  sussidio",  e  nemmeno si diceva: "Ecco,  Pierre è
    diventato ricco;  bisogna che mi dia dattorno per fargli  sposare  mia
    figlia  e  prendere  in  prestito  da  lui i quarantamila rubli che mi
    occorrono",  ma nel momento stesso in cui  si  imbatteva  in  un  uomo
    influente,  il  suo  istinto gli diceva che quell'uomo poteva essergli
    utile;  allora il principe Vassilij gli si  avvicinava  e  alla  prima
    occasione,   senza  premeditazione,  per  puro  istinto,  lo  adulava,
    diventava suo amico e gli diceva quello che occorreva dire.
    A Mosca,  Pierre si trovò a contatto con il principe Vassilij  che  si
    adoperò  per  farlo  nominare gentiluomo di camera,  titolo che allora
    equivaleva al grado di consigliere di stato, e insisté per portare con
    sé il giovane a Pietroburgo e per indurlo a stabilirsi  da  lui.  Come
    per  caso,  e  nello  stesso  tempo con la sicurezza assoluta che così
    dovesse essere, il principe Vassilij si adoperava in ogni modo per far
    sì che Pierre sposasse sua figlia.  Se il principe avesse preparato in
    anticipo  i suoi piani,  non avrebbe potuto avere tanta naturalezza di
    modi,  tanta semplicità e familiarità nei suoi rapporti con le persone
    di condizione sociale superiore o inferiore alla sua.  Ma c'era un non
    so che per cui si sentiva sempre attratto dagli uomini  più  ricchi  e
    più  forti  di  lui,  ed  egli aveva il dono rarissimo di cogliere con
    precisione il momento in cui doveva e poteva approfittarne.
    Pierre, diventato all'improvviso ricchissimo e conte Bezuchov, dopo la
    solitudine e  la  spensieratezza  di  prima,  si  sentì  a  tal  punto
    attorniato  di gente e talmente occupato che soltanto a letto riusciva
    a rimanere solo con se stesso.  Doveva firmare documenti,  presentarsi
    in uffici pubblici, della cui importanza non aveva alcuna idea, doveva
    interrogare  su  mille  cose il suo amministratore,  recarsi nelle sue
    proprietà vicino a Mosca e ricevere una quantità di persone che  prima
    non  volevano neanche sapere che egli esistesse e che ora si sarebbero
    afflitte e offese se egli non avesse voluto vederle.  Queste  svariate
    persone    -    uomini d'affari,  parenti,  conoscenti  -  erano tutte
    ugualmente ben disposte e affettuose verso il giovane erede e tutte si
    mostravano con ogni evidenza  indiscutibilmente  convinte  delle  alte
    qualità di Pierre. Egli udiva di continuo frasi di questo genere: "Con
    la  vostra eccezionale bontà",  oppure "Dato il vostro buon cuore",  o
    anche "Voi,  conte,  che siete tanto onesto" e ancora: "Se egli  fosse
    intelligente  come  voi"  e  via di questo passo,  cosicché cominciava
    davvero a credere alla propria  straordinaria  bontà  e  alla  propria
    eccezionale intelligenza tanto più che, nell'intimo del suo cuore, gli
    era sempre parso di essere davvero molto buono e intelligente. Persino
    le persone,  un tempo malevole e ostili,  erano diventate affettuose e
    tenere verso di lui. La principessa più anziana, quella rabbiosa,  dal
    busto  troppo  lungo  e  dai  capelli  lisci come una bambola,  dopo i
    funerali era entrata in camera di Pierre.  Con gli occhi bassi e rossa
    in  viso,  gli aveva detto di deplorare vivamente i malintesi avvenuti
    tra di loro e di non sentirsi in diritto  di  chiedergli  cosa  alcuna
    oltre al permesso,  dopo la sventura che l'aveva colpita,  di rimanere
    ancora per qualche settimana nella casa che amava tanto e nella  quale
    si  era  tanto  sacrificata.  Nel  pronunziare queste parole non seppe
    frenarsi  e  scoppiò  in  pianto.   Sconvolto  dal  fatto  che  quella
    principessa-statua  avesse potuto mutare a quel modo,  Pierre le aveva
    preso una mano e le aveva chiesto scusa,  senza sapere bene lui stesso
    per  che  cosa.  Da quel giorno la principessa incominciò a lavorare a
    maglia una sciarpa di lana per Pierre e divenne nei suoi riguardi  una
    donna completamente diversa.
    - Devi farlo per lei,  "mon cher";  pensa che ella ha sofferto molto a
    causa del povero defunto!  -  gli disse il principe Vassilij, dandogli
    da firmare una certa carta in favore della principessina.
    Il  principe  Vassilij  aveva  deciso  che  fosse  opportuno   gettare
    quell'osso    -    un  assegno  di  trentamila  rubli   -  alla povera
    principessina,  perché non le potesse venire in mente di parlare della
    partecipazione di lui,  il principe,  nella faccenda del portafoglio a
    mosaico.  Pierre firmò l'assegno e da  quel  giorno  la  principessina
    divenne  ancora  più buona.  Anche le sorelle cominciarono a mostrarsi
    più  affettuose  verso  l'erede;  e  soprattutto  la  minore,  la  più
    graziosa,  quella con il neo, spesso turbava Pierre con i suoi sorrisi
    e il suo confondersi quando lo vedeva.
    A Pierre sembrava naturale che tutti gli volessero bene e gli  sarebbe
    parso  così strano che qualcuno gli fosse ostile da non poter dubitare
    della sincerità delle persone che lo attorniavano.  Inoltre non  aveva
    tempo  di  porsi delle domande sulla sincerità o l'ipocrisia di quella
    gente.  Non aveva mai tempo per nulla e si sentiva sempre in uno stato
    di ebbrezza placida e gaia.  Si rendeva conto di trovarsi al centro di
    un importante movimento generale;  sentiva che  tutti  si  aspettavano
    qualcosa  da lui e che,  se non avesse fatto questo qualcosa,  avrebbe
    rattristato molte persone privandole delle loro speranze; e si rendeva
    anche conto che,  se avesse fatto questa  o  quell'altra  cosa,  tutto
    sarebbe andato bene. Perciò faceva quello che si esigeva da lui, anche
    se quel "bene" rimaneva sempre e soltanto un'attesa...
    In quel primo tempo, chi si occupò più di tutti degli affari di Pierre
    e di Pierre stesso, era stato il principe Vassilij. Questi, dal giorno
    della  morte del conte Bezuchov,  non si era più staccato dal giovane.
    Il  principe  Vassilij  aveva  l'aria   dell'uomo   straordinariamente
    occupato dagli affari,  stanco, oppresso, il quale tuttavia non poteva
    abbandonare in balia della sorte  e  degli  imbroglioni  quel  giovane
    inesperto,  figlio, "après tout" [1. dopo tutto], di un suo caro amico
    e possessore di una così enorme ricchezza.  Nei pochi giorni che passò
    a Mosca,  dopo la morte del conte Bezuchov,  spesso mandava a chiamare
    Pierre o si recava personalmente da lui per elencargli tutto  ciò  che
    doveva  fare,  con  un  tale tono di stanchezza e di sicurezza insieme
    come se ogni volta dicesse:
    "Vous savez que je suis accablé d'affaires et que  ce  n'est  que  par
    pure  charité que je m'occupe de vous,  et puis vous savez bien que ce
    que le vous propose est la seule chose faisable" [2.  "Voi sapete  che
    sono  oberato  dagli affari e che solo per carità mi occupo di voi,  e
    inoltre sapete benissimo che ciò che vi propongo  è  l'unica  cosa  da
    farsi".].
    -  Dunque,  amico  mio,  domani  finalmente partiremo  -  gli disse un
    giorno,  socchiudendo gli occhi,  tastandogli con le dita il gomito  e
    parlandogli come se si trattasse di una cosa già combinata tra di loro
    da molto tempo e ormai immutabilmente decisa.  -  Domani finalmente si
    parte,  e io ti darò un posto nella mia carrozza. Sono molto contento.
    Qui l'essenziale è fatto.  Io sarei dovuto essere partito da un pezzo.
    Guarda qui che cosa ho ricevuto dal cancelliere.  Gli avevo parlato di
    te,  ed eccoti ora iscritto al corpo diplomatico e nominato gentiluomo
    di camera. Adesso la carriera diplomatica ti è aperta.
    Nonostante  l'espressione  accentuata  di  stanchezza  e  di  fermezza
    insieme con cui erano state pronunziate  queste  parole,  Pierre,  che
    aveva  meditato  così  a  lungo  sulla carriera da scegliere,  avrebbe
    voluto ribattere qualche cosa. Ma il principe Vassilij lo prevenne con
    quella sua voce bassa e turbata  che  escludeva  ogni  possibilità  di
    interrompere il suo discorso e della quale si serviva quando giudicava
    necessario convincere qualcuno.
    - "Mais,  mon cher", io l'ho fatto anche per me, per la mia coscienza,
    e non devi quindi ringraziarmi.  Nessuno mai si lagna di essere troppo
    amato;  d'altronde,  tu sei libero e puoi rinunziarvi anche domani. Ma
    deciderai tu stesso a Pietroburgo.  Ed è ormai tempo che ti  allontani
    da  tanti  ricordi  dolorosi.   -  E il principe Vassilij sospirò.   -
    Così è,  così è,  anima  mia.  Il  mio  cameriere  partirà  nella  tua
    carrozza.  Ah,  ecco,  quasi  me ne dimenticavo  -  aggiunse ancora il
    principe Vassilij:  -  tu sai, "mon cher", che io avevo certi conti da
    aggiustare con il defunto;  così mi trattengo ciò che ho riscosso ieri
    dalla  proprietà  di Rjazàn.  Tu non ne hai bisogno.  Poi regoleremo i
    conti...
    Quello che il principe Vassilij aveva  "riscosso  dalla  proprietà  di
    Rjazàn"  e che aveva trattenuto per sé ammontava ad alcune migliaia di
    rubli di tributo dei servi della gleba...
    Anche a Pietroburgo,  come a Mosca,  un'atmosfera di  tenera  amicizia
    avvolse Pierre.  Egli non poté rifiutare il posto,  o meglio il titolo
    (in realtà non faceva nulla) che gli aveva fatto ottenere il  principe
    Vassilij,  e  le  conoscenze,  gli  inviti,  le occupazioni di società
    furono tante che, ancor più che a Mosca, Pierre provava una sensazione
    di stordimento e di fretta e, insieme, quella di un bene impreciso che
    pareva sempre vicino ma che ancora non si manifestava.
    Del gruppo dei suoi  amici  scapoli  molti  non  si  trovavano  più  a
    Pietroburgo.  La Guardia era partita per la guerra, Dòlochov era stato
    degradato,  Anatolij prestava servizio in una città di  provincia,  il
    principe Andréj si trovava all'estero e pertanto Pierre non poteva più
    trascorrere  le  notti  come  un tempo e come gli piaceva,  né sfogare
    qualche volta l'animo suo nelle affettuose conversazioni con un  amico
    più  anziano  e  stimato.  Tutto il suo tempo era occupato dai pranzi,
    dalle feste di ballo, specialmente in casa del principe Vassilij, dove
    in compagnia della grassa principessa, sua moglie,  e della bellissima
    Elen, trascorreva le sue serate.
    Anna  Pàvlovna Scerer,  come tutti gli altri,  aveva mostrato a Pierre
    quale mutamento era avvenuto nella buona società verso di lui.
    Un tempo,  Pierre,  in presenza di Anna Pàvlovna,  aveva la sensazione
    che tutto ciò che diceva fosse sconveniente, inopportuno, senza tatto,
    che  certi discorsi,  che giudicava saggi allorché li formulava dentro
    di sé,  diventassero sciocchi non  appena  li  faceva  ad  alta  voce,
    mentre,  invece, le frasi più stupide di Ippolìt diventavano spiritose
    e piacevoli. Ora, al contrario, qualsiasi cosa egli dicesse,  riusciva
    "charmant". Se anche Anna Pàvlovna non lo dichiarava apertamente, egli
    capiva  che  ella  aveva voglia di dirlo e che si tratteneva dal farlo
    unicamente per un riguardo alla modestia di lui.
    Al principio dell'inverno 1805-1806 Pierre ricevette da Anna  Pàvlovna
    il  consueto  bigliettino  rosa d'invito al quale ella aveva aggiunto:
    "Vous trouverez chez moi la belle Hélène,  qu'on ne se lasse jamais de
    voir" [3.  "Troverete in casa mia la bella Elen,  che non ci si stanca
    mai di ammirare].
    Leggendo queste parole, Pierre sentì per la prima volta che tra lui ed
    Elen si era creato un certo legame riconosciuto  da  tutti,  e  questo
    pensiero,  pur  sgomentandolo  un  poco come se costituisse per lui un
    obbligo che non poteva mantenere,  gli piacque nello stesso tempo come
    una supposizione divertente.
    Quella serata da Anna Pàvlovna non era dissimile dalla prima; soltanto
    la novità che ella offriva ai suoi ospiti non era più Mortemart, ma un
    diplomatico  arrivato da Berlino che portava i particolari più recenti
    sul soggiorno dell'imperatore Aleksàndr a Potsdam e sul giuramento dei
    due amici di difendere,  con una  indissolubile  alleanza,  la  giusta
    causa contro il nemico del genere umano.  Pierre venne accolto da Anna
    Pàvlovna con una sfumatura di tristezza che evidentemente si  riferiva
    alla  recente  perdita  subita dal giovane,  cioè alla morte del conte
    Bezuchov (tutti si ritenevano sempre in dovere  di  convincere  Pierre
    del  suo  profondo  dolore per la morte del padre,  che egli non aveva
    quasi conosciuto) e tale tristezza era assolutamente uguale  a  quella
    tristezza  che la stessa Anna Pàvlovna ostentava quando le capitava di
    nominare l'augusta imperatrice Màrija Fëdorovna.  Pierre ne  fu  molto
    lusingato.  Anna Pàvlovna aveva disposto nel salotto i vari gruppi con
    la sua consueta abilità.  Il gruppo principale,  di cui facevano parte
    il principe Vassilij e i generali, ebbe il privilegio di accogliere il
    diplomatico;  un  altro  era  raccolto  intorno  alla tavola su cui si
    serviva il  tè:  Pierre  avrebbe  voluto  unirsi  al  primo,  ma  Anna
    Pàvlovna,  la  quale  si  trovava  nello  stato  di  eccitazione di un
    condottiero sul campo di battaglia,  preso da migliaia di idee nuove e
    luminose che ha a stento il tempo di realizzare, non appena ebbe visto
    Pierre gli toccò con un dito la manica:
    - "Attendez, j'ai des vues sur vous pour ce soir"  -  e intanto guardò
    Elen e sorrise.   -  "Ma bonne Hélène",  -  soggiunse  -  "il faut que
    vous soyez charitable pour ma pauvre tante,  qui a une adoration  pour
    vous.  Allez lui tenir compagnie pour dix minutes" [4.  Aspettate,  ho
    delle mire su di voi per questa sera...  Mia cara  Elen,  bisogna  che
    abbiate  un  po'  di carità per la mia povera zia,  che ha per voi una
    vera adorazione. Fatele compagnia per dieci minuti.]. E, perché non vi
    dobbiate annoiare troppo,  eccovi il  vostro  amabile  conte  che  non
    rifiuterà di seguirvi.
    La  bellissima  si  diresse  verso la zia,  ma Anna Pàvlovna trattenne
    ancora  Pierre  presso  di  sé,   come  se  dovesse  dargli  un'ultima
    indispensabile indicazione.
    -  Non  è vero che è incantevole?   -  disse al giovane,  indicando la
    bella fanciulla che si allontanava con andatura  maestosa.    -    "Et
    quelle  tenue!" [5.  E che portamento!].  Per una ragazza così giovane
    quale tatto,  quale capacità di comportarsi!  Tutto ciò le  viene  dal
    cuore!  Felice l'uomo al quale essa apparterrà! Con lei accanto, anche
    il meno mondano dei mariti giungerà,  sia pure  suo  malgrado,  a  una
    posizione  brillantissima:  Non vi pare?  Volevo soltanto conoscere la
    vostra opinione...  -  e Anna Pàvlovna lasciò Pierre.
    Pierre aveva risposto in tutta sincerità ad Anna Pàvlovna,  di  essere
    d'accordo  con  lei  circa  il  contegno  di Elen in società.  Se egli
    qualche volta pensava alla fanciulla,  ne riconosceva senza fatica  la
    bellezza  e  l'intelligenza  calma  ed  eccezionale  di cui dava prova
    restandosene dignitosamente silenziosa in società.
    La zia accolse nel suo  cantuccio  i  due  giovani,  ma  pareva  voler
    nascondere la propria adorazione per Elen per manifestare piuttosto la
    sua  paura  per  la  nipote  Anna Pàvlovna.  Guardava verso di lei con
    l'aria  di  domandarle  che  cosa   dovesse   fare   con   quei   due.
    Allontanandosi  da  loro,  Anna Pàvlovna toccò di nuovo con il dito la
    manica di Pierre e gli disse:
    - "J'espère que vous ne direz plus qu'on s'ennuie chez moi" [6.  Spero
    che  non  direte  più  che  in  casa  mia ci si annoia]  - e volse uno
    sguardo ad Elen.
    La fanciulla sorrise con un'espressione che pareva dire che  ella  non
    ammetteva  la possibilità che qualcuno potesse vederla senza andare in
    estasi. La zia tossì,  ingoiò la saliva e dichiarò in francese ad Elen
    di essere lietissima di vederla; poi si volse a Pierre con il medesimo
    saluto  e  la medesima espressione del viso.  Durante la conversazione
    noiosa e zoppicante,  la fanciulla guardava Pierre e gli sorrideva con
    quel suo luminoso, affascinante sorriso che aveva per tutti. Ma Pierre
    era  ormai abituato a quel sorriso che gli diceva così poco,  e non vi
    badò affatto.  La zia parlava intanto della collezione di  tabacchiere
    del  defunto  conte  Bezuchov e mostrava la propria.  La principessina
    Elen chiese di osservare meglio il  ritratto  del  marito  della  zia,
    dipinto sul coperchio.
    -  Deve  essere  un lavoro di Vinesse  -  disse Pierre,  ricordando un
    famoso miniaturista e, chinandosi sulla tavola per prendere in mano la
    tabacchiera,  prestò nello stesso tempo orecchio ai  discorsi  che  si
    svolgevano all'altro tavolo.
    Si alzò per fare il giro, ma la zia gli porse la tabacchiera dietro le
    spalle  di  Elen,  la quale si abbassò un poco in avanti affinché essa
    potesse far passare il braccio e si guardò attorno,  sorridendo.  Come
    sempre ai ricevimenti e in ossequio alla moda del tempo,  indossava un
    abito molto scollato davanti e dietro.  Il busto di lei,  che a Pierre
    era  sempre  parso  di  marmo,  venne a trovarsi così vicino a lui che
    involontariamente egli colse con i suoi occhi miopi  il  fascino  vivo
    delle  spalle  e del collo,  così presso le sue labbra che gli sarebbe
    bastato chinarsi ancora un poco per  sfiorarli.  Pierre  avvertiva  il
    tepore  di  quel corpo,  la dolcezza del profumo che esso emanava,  lo
    scricchiolio delle stecche del busto a ogni movimento della fanciulla.
    Non vedeva più, ora,  una bellezza marmorea che formava un tutto unico
    con  il  vestito,  ma  vedeva e sentiva l'incanto di quel corpo appena
    coperto dall'abito. E, dopo averla vista e sentita così una volta, non
    fu più in grado di vederla diversamente,  così come non  possiamo  più
    tornare all'inganno dopo che esso ci sia stato chiarito.
    "Non  vi eravate dunque ancora accorto di quanto sono bella?",  pareva
    dirgli Elen. "Non vi siete accorto che sono una donna? Già, una donna,
    che potrebbe appartenere a chiunque,  anche  a  voi",  diceva  il  suo
    sguardo.  E in quel preciso momento Pierre ebbe la sensazione che Elen
    non soltanto poteva,  ma doveva diventare sua moglie e che non  poteva
    essere diversamente.
    In  quel  momento  lo  seppe  con la stessa certezza con cui l'avrebbe
    saputo se si fosse trovato con lei davanti  all'altare.  Come  sarebbe
    avvenuto?  Quando? Lo ignorava; non sapeva neppure se sarebbe stato un
    bene (sentiva anzi, chissà perché, che sarebbe stato un male),  ma era
    certo che ciò sarebbe avvenuto.
    Abbassò  gli  occhi,  li rialzò di nuovo e avrebbe voluto continuare a
    vedere Elen come una bella donna lontana da lui e a lui estranea, come
    era stato per il passato, ma non ci riusciva più.  Non ci riusciva più
    come  uno che,  guardando attraverso la nebbia un'erba selvatica nella
    steppa, la creda un albero e poi,  resosi conto che si tratta di erba,
    non può più crederlo un albero.  Elen gli era terribilmente vicino, lo
    aveva ormai in suo potere.  E tra loro due non  esistevano  più  altri
    ostacoli all'infuori della loro stessa volontà.
    - "Bon,  je vous laisse dans votre petit coin. Je vois que vous y êtes
    très bien" [7. Bene, vi lascio nel vostro angolino.  Vedo che ci state
    a meraviglia]  -  risonò la voce di Anna Pàvlovna.
    E  Pierre,  spaventato,  cercando  di  rammentare  se  avesse compiuto
    qualcosa di sconveniente, si guardò attorno, arrossendo.  Gli sembrava
    che tutti sapessero già quello che gli era accaduto.
    Poco dopo,  quando si avvicinò al gruppo principale, Anna Pàvlovna gli
    disse:
    - "On dit que vous embellissez votre maison de Pétersbourg"  -    (Era
    vero;   l'architetto   aveva   affermato  che  occorrevano  lavori  di
    abbellimento  e  Pierre,  senza  neppure  sapere  il  perché,   faceva
    restaurare la sua immensa casa di Pietroburgo).   -  "C'est bien, mais
    ne déménagez pas de chez le prince Basile.  Il est bon d'avoir un  ami
    comme le prince"  -  aggiunse,  rivolgendo un sorriso al principe.   -
    "J'en sais quelque  chose.  N'est-ce  pas?"  [8.  Si  dice  che  state
    rimodernando  la vostra casa di Pietroburgo.  (...) Fate bene,  ma non
    lasciate la casa del principe Vassilij.  E' una buona  cosa  avere  un
    amico  come lui.  (...) Io ne so qualcosa,  non è vero?].  E voi siete
    ancora  così  giovane,  avete  ancora  bisogno  di  consigli!  Non  vi
    dispiaccia  se  abuso  dei  miei  diritti di persona anziana...   -  E
    tacque,  come fanno sempre  le  donne  aspettando  che  si  dica  loro
    qualcosa  dopo  che  esse  hanno  accennato  alla loro età.   -  Ma se
    prendete moglie,  allora è tutt'altra cosa...   -    E  Anna  Pàvlovna
    avvolse  i  due  giovani  in  uno  sguardo  significativo.  Pierre non
    guardava Elen ed Elen non guardava lui,  eppure la sentiva sempre così
    terribilmente vicina. Mormorò qualche cosa e arrossì.
    Ritornato a casa,  Pierre non riusciva a prender sonno, pensando a ciò
    che gli era successo.  Ma che cosa gli era successo,  infine?  Niente!
    Aveva soltanto capito che quella donna,  conosciuta sin dall'infanzia,
    e della quale,  quando gli si diceva  che  era  una  bellezza,  soleva
    distrattamente rispondere: "Sì, è bella", poteva appartenergli.
    "Ma è una sciocca, ho detto io stesso che è una sciocca" pensava. "C'è
    qualcosa di non bello nel sentimento che ha destato in me, qualcosa di
    proibito. Mi hanno raccontato che suo fratello Anatolij era innamorato
    di  lei e lei di lui,  che ne seguì tutta una deplorevole storia e che
    per questo Anatolij fu  fatto  allontanare.  L'altro  suo  fratello  è
    Ippolìt...  Suo padre è il principe Vassilij... No, non è una cosa che
    vada bene!", pensava; ma proprio mentre faceva questi ragionamenti che
    restavano campati per aria,  sorrideva e si rendeva conto che un'altra
    serie  di  ragionamenti  stava  seguendo  i primi,  e cioè,  mentre si
    confessava la nullità di Elen,  sognava che sarebbe  potuta  diventare
    sua  moglie,  amarla,  ed essere tutta diversa da quella che sembrava;
    sognava che tutto ciò che egli aveva pensato e  sentito  dire  di  lei
    poteva  anche  non  essere vero.  E di nuovo non la vedeva più come la
    figlia del principe Vassilij,  ma vedeva tutto il  suo  corpo  coperto
    soltanto  dall'abito grigio.  "Ma perché mai una simile idea è passata
    per il mio cervello?".  E  ancora  una  volta  si  ripeteva  che  quel
    matrimonio  era  una  cosa  impossibile,  una  cosa  disonesta  contro
    natura...  Ricordò le parole e lo sguardo di Anna Pàvlovna quando  gli
    aveva  accennato alla casa,  ricordò le mille allusioni del principe e
    di altri e fu preso, infine, dal terrore di essersi ormai impegnato in
    qualche modo a un'azione che evidentemente era riprovevole e che  egli
    non  doveva  compiere.  Ma  nel  momento  stesso in cui esprimeva a se
    stesso questa decisione,  in  un  altro  cantuccio  della  sua  anima,
    sorgeva l'immagine di lei in tutta la sua femminile bellezza.


    CAPITOLO 2.

    Nel  novembre del 1805,  il principe Vassilij doveva recarsi a fare un
    giro  di  ispezione  in  quattro  governatorati.   Si  era   procurato
    quell'incarico per cogliere nel tempo stesso l'occasione di visitare i
    suoi  poderi  in  rovina e,  dopo aver preso con sé il figlio Anatolij
    (nella cittadina dove era  di  guarnigione),  di  recarsi  con  lui  a
    visitare  il  principe  Nikolàj  Andréevic' Bolkonskij,  allo scopo di
    concludere il matrimonio di Anatolij con la figliuola di quel  vecchio
    ricchissimo.  Ma  prima  di  partire e di cercare di realizzare questi
    nuovi progetti,  il principe Vassilij aveva  bisogno  di  definire  la
    questione  con  Pierre  il  quale,  è  vero,  in  quegli  ultimi tempi
    trascorreva intere giornate  in  casa  (ossia  dal  principe  Vassilij
    presso  il  quale  alloggiava)  e,  pur essendo,  in presenza di Elen,
    bizzarro,  turbato,  sciocco (come dev'essere un innamorato),  non  si
    decideva ancora a fare la domanda di matrimonio.
    "Tout  ca  est  bel  et bon,  mais il faut que ca finisse!" [9.  Tutto
    questo è bello e buono, ma è ora che finisca!] si disse una mattina il
    principe Vassilij con un sospiro di tristezza,  nel rendersi conto che
    Pierre, che pure aveva molti obblighi con lui (pazienza, che Cristo lo
    protegga!),   in   quella  faccenda  non  si  comportava  molto  bene.
    "Gioventù...  leggerezza...  be' siamo d'accordo",  pensò il  principe
    Vassilij,  compiacendosi della propria indulgente bontà, "mais il faut
    que ca finisse!  Posdomani è  l'onomastico  di  Lëlin  (10),  inviterò
    qualcuno e,  se egli non capirà quello che deve fare,  ci penserò io a
    farglielo capire. Sì, ci penserò io. Sono il padre!".
    Nel mese e mezzo trascorso dall'ultimo ricevimento  in  casa  di  Anna
    Pàvlovna  e  dopo quella notte inquieta e insonne,  nella quale Pierre
    aveva deciso che sposare Elen sarebbe stata una sventura,  che  doveva
    evitare  partendo,  non  aveva  saputo  tuttavia  lasciare la casa del
    principe e sentiva con terrore che ogni giorno di più egli, agli occhi
    della gente,  si legava a Elen;  sentiva che gli era ormai impossibile
    tornare  a  considerarla  come  prima,  che  non  aveva  la  forza  di
    allontanarsi e che,  per quanto terribile fosse,  avrebbe dovuto unire
    il  proprio  destino  a  quello  della fanciulla.  Forse poteva ancora
    salvarsi,  ma non passava  giorno  senza  che  in  casa  del  principe
    Vassilij  (il  quale  riceveva  piuttosto  raramente)  non  ci fossero
    ricevimenti ai quali Pierre era obbligato a partecipare se non  voleva
    rovinare il piacere generale e deludere l'attesa di tutti. Il principe
    Vassilij,  nei pochi momenti in cui si trovava in casa, quando passava
    accanto a Pierre gli tirava  la  mano  verso  il  basso,  gli  offriva
    distrattamente  la  guancia  rasata  e  rugosa da baciare e diceva: "A
    domani" oppure: "Vieni a pranzo,  se  no,  non  ti  vedo  mai"  oppure
    ancora:  "E' per te che resto" e via di seguito.  E benché il principe
    Vassilij quando restava per Pierre (così affermava)  non  gli  dicesse
    nemmeno  una  parola,  Pierre non aveva il coraggio di deludere la sua
    aspettativa.  Ogni giorno si ripeteva la stessa cosa: "Devo una  buona
    volta capirla, devo rendermi conto di quello che è. Mi sbagliavo prima
    o mi sbaglio adesso?  No, non è una sciocca; è una ragazza stupenda!",
    si  diceva  talvolta.   "Non  commette  mai  errori,   non  dice   mai
    sciocchezze.  Parla  poco,  ma  quello  che  dice  è sempre semplice e
    chiaro: dunque non è una sciocca.  Non si è mai turbata e non si turba
    mai:  dunque  non  è  una  donna  corrotta!".  Spesso  gli accadeva di
    iniziare con lei una conversazione,  di pensare ad alta voce,  e  ogni
    volta  ella  gli  rispondeva  o  con  una  osservazione breve ma assai
    sensata,  che dimostrava come l'argomento non la interessasse,  oppure
    con un sorriso silenzioso e uno sguardo che dicevano a Pierre,  meglio
    di qualsiasi altra cosa,  la sua superiorità.  E aveva sempre  ragione
    considerando  tutti  i ragionamenti una sciocchezza a paragone di quel
    suo incantevole sorriso.
    Elen gli si rivolgeva sempre con un sorriso gioioso, pieno di fiducia,
    riservato  unicamente  a  lui,   nel  quale  c'era  qualcosa  di   più
    significativo  di  quanto non vi fosse nel consueto sorriso che sempre
    illuminava il suo volto.  Pierre sapeva come  tutti  aspettassero  che
    lui,  finalmente,  dicesse una parola,  che varcasse una certa linea e
    sapeva anche che presto o tardi l'avrebbe varcata;  ma una  specie  di
    terrore   incomprensibile  lo  afferrava  al  solo  pensiero  di  quel
    gravissimo passo. Mille volte in quelle sei settimane durante le quali
    si era sentito sempre più trascinato  verso  quell'abisso  spaventoso,
    Pierre  aveva  detto  a  se  stesso:  "Ma  che è mai questo?  Ci vuole
    decisione! E non ne ho, forse?".
    Voleva decidersi,  ma sentiva con sgomento che in quell'occasione  gli
    mancava la risolutezza di cui si sapeva dotato e che,  effettivamente,
    faceva parte del suo carattere.  Pierre apparteneva a quel  numero  di
    persone  che  sono  forti  soltanto  quando si sentono assolutamente a
    posto con la coscienza.  Ma  dal  giorno  in  cui,  in  casa  di  Anna
    Pàvlovna,  il  desiderio  si  era impadronito di lui mentre si chinava
    verso Elen per osservare la tabacchiera,  un  inconsapevole  senso  di
    colpa paralizzava la sua capacità di decisione.
    Nel  giorno  dell'onomastico  di  Elen,  in casa del principe Vassilij
    cenavano alcuni tra gli amici più intimi e i parenti  più  stretti.  A
    tutti  costoro si era fatto capire che in quel giorno doveva decidersi
    la sorte della festeggiata.  Gli ospiti erano  raccolti  attorno  alla
    tavola.  La principessa Kuràgina,  una donna dall'aspetto maestoso che
    un tempo era stata molto bella, aveva preso posto a capo tavola.  Alla
    sua destra e alla sua sinistra sedevano gli ospiti di più riguardo: un
    vecchio  generale,  sua moglie,  e Anna Pàvlovna;  all'estremità della
    tavola le persone più giovani,  gli ospiti meno importanti e la  gente
    di  casa  tra  cui  Pierre  ed  Elen vicini.  Il principe Vassilij non
    cenava,  e passeggiava attorno alla tavola in una  lieta  disposizione
    d'animo.  Di  tanto  in  tanto,  si sedeva accanto all'uno o all'altro
    degli invitati, a ognuno dei quali rivolgeva distrattamente una parola
    gentile,  fuorché a Pierre e ad Elen,  dei quali  pareva  ignorare  la
    presenza.  Il  principe  Vassilij  comunicava brio a tutti quanti.  Le
    candele di  cera  diffondevano  una  vivida  luce,  l'argenteria  e  i
    cristalli  brillavano,  i  gioielli  delle  signore scintillavano come
    l'oro e l'argento delle spalline degli ufficiali.  Attorno  al  tavolo
    giravano  i  servitori  in  livrea rossa;  tintinnavano i coltelli,  i
    bicchieri,  i piatti e si udiva il brusio animato delle conversazioni.
    A  un'estremità  della  tavola  si  sentiva un vecchio ciambellano che
    giurava amore appassionato a una vecchia baronessa e le sonore  risate
    della  dama;  all'altra  estremità  si  parlava dell'insuccesso di una
    certa Màrija Viktòrovna,  mentre al centro il  principe  Vassilij,  il
    quale  aveva  riunito  attorno  a  sé  alcuni ascoltatori,  sorridendo
    scherzosamente  descriveva  alle  dame  l'ultima  seduta,   quella  di
    mercoledì,   al  Consiglio  di  stato,   durante  la  quale  il  nuovo
    governatore  generale  militare   di   Pietroburgo,   Sergéj   Kuzmìc'
    Vjazmìtinov  (11),  aveva  ricevuto e letto il famoso proclama mandato
    dall'imperatore Aleksàndr Pàvlovic' dal suo quartier generale; in quel
    proclama l'imperatore,  rivolgendosi a Sergéj Kuzmìc',  diceva che  da
    ogni  parte  gli giungevano affermazioni di devozione del popolo,  che
    quella di Pietroburgo gli  era  particolarmente  gradita,  che  andava
    orgoglioso  di  essere  a  capo  di una tale nazione e che faceva ogni
    sforzo per esserne degno.  Il proclama cominciava con  queste  parole:
    "Sergéj Kuzmìc'! Da ogni parte ci giungono voci..." eccetera.
    -  Sicché    -    domandò una signora  -  non è andato oltre le parole
    "Sergéj Kuzmìc'".
    - No,  no...  non una parola di più  -  rispose il  principe  Vassilij
    ridendo.    -   "Sergéj Kuzmìc'...  da ogni parte...  da ogni parte...
    Sergéj Kuzmìc'...".  Il povero Vjazmìtinov non aveva  potuto  dire  di
    più.  Parecchie  volte aveva ripreso la lettura,  ma non appena diceva
    "Sergéj" era preso dai singhiozzi... "Kuzmìc'..." e giù lacrime... "da
    ogni parte",  ma il pianto lo soffocava  a  tal  punto  che  non  poté
    proseguire e si dovette, alla fine, pregare un altro che leggesse.
    -  Kuzmìc'...  da  tutte  le  parti...  e giù lacrime...   -  ripeteva
    qualcuno ridendo.
    - Non siate cattivi!   -  disse Anna Pàvlovna,  dall'altra  parte  del
    tavolo,  minacciando con un dito.   -  "C'est un si brave et excellent
    homme notre bon Viasmitinoff..." [12.  E' una così eccellente persona,
    è un tal brav'uomo il nostro Vjazmìtinov!].
    Gli  ospiti ridevano di cuore.  Nei posti d'onore della tavola,  tutti
    parevano molto allegri,  sotto l'influsso delle più diverse  e  vivaci
    disposizioni   d'animo;   soltanto   Pierre  ed  Elen,   seduti  quasi
    all'estremità della tavola,  erano vicini  e  tacevano;  sul  viso  di
    entrambi  raggiava  un  luminoso sorriso,  non certamente provocato da
    Sergéj Kuzmìc';  era un  sorriso  di  turbamento  di  fronte  ai  loro
    sentimenti.  Qualsiasi cosa gli altri dicessero e per quanto potessero
    ridere e scherzare,  per quanto gustassero i cibi e facessero onore ai
    vini  del  Reno,  al  "sauté"  e  al gelato,  per quanto cercassero di
    evitare con lo sguardo quella coppia e volessero apparire indifferenti
    e disattenti, si avvertiva ugualmente,  chissà perché,  dalle occhiate
    loro lanciate di tanto in tanto,  che l'aneddoto di Sergéj Kuzmìc', le
    risate,  l'apprezzamento per i buoni cibi non erano che finzione,  che
    la vera attenzione di tutti era rivolta soltanto a quei due: Pierre ed
    Elen.  Il principe Vassilij metteva in ridicolo i singhiozzi di Sergéj
    Kuzmìc',  ma nello stesso  tempo  lanciava  un'occhiata  alla  figlia;
    mentre rideva,  l'espressione del suo viso pareva dire: "Bene, bene...
    tutto va bene; oggi si decide ogni cosa".  Anna Pàvlovna lo minacciava
    con  il dito a proposito del "notre bon Viasmitinoff",  ma negli occhi
    di lei,  che si erano fuggevolmente  posati  su  Pierre,  il  principe
    Vassilij  aveva  letto le felicitazioni per il suo futuro genero e per
    la fortuna della figlia.  La  vecchia  principessa,  offrendo  con  un
    triste  sospiro  il  vino  alla  sua  vicina  e rivolgendo uno sguardo
    irritato alla figliuola,  pareva dire: "Eh sì,  ormai a noi non rimane
    che accontentarci di bere un po' di vino dolce,  mia cara; ora tocca a
    questa  gioventù  di  essere   così   insolentemente   felice".   "Che
    sciocchezza  vado  raccontando,  come  se  davvero mi interessassero!"
    pensava il diplomatico guardando i visi raggianti dei due  innamorati.
    "Quella e la felicità!".
    Tra  gli  interessi  artificiosi e meschini che univano quel gruppo di
    persone, dominava ora il sentimento semplice dell'attrazione reciproca
    di un uomo e di una donna, due creature giovani e sane Quel sentimento
    umano aveva soffocato tutto il resto e  volteggiava  leggero  su  quel
    fatuo,  vuoto  chiacchierio.  Le  frasi  scherzose non erano realmente
    allegre,  le notizie non offrivano alcun interesse,  l'animazione  non
    era sincera.  E non soltanto gli invitati,  ma persino i domestici che
    servivano a tavola parevano sentire la stessa cosa e  dimenticavano  a
    tratti  le regole del servizio fermandosi a guardare la bella Elen dal
    volto radioso e la grossa faccia agitata e felice di  Pierre.  Persino
    le  candele  parevano  concentrare  la  loro luce soltanto su quei due
    volti felici.
    Pierre sentiva di essere al centro di tutto,  e questa  sensazione  lo
    rallegrava  e  lo  imbarazzava  nello  stesso tempo.  Si trovava nella
    condizione di un uomo immerso profondamente  in  un  suo  lavoro:  non
    vedeva  e  non  sentiva  nulla  chiaramente,  e  soltanto  a  tratti e
    all'improvviso  gli  balenavano  nella  mente   pensieri   isolati   e
    sensazioni diverse.
    "Così tutto è già finito!",  pensava.  "E com'è avvenuto? Così presto!
    Ora so che non per lei sola, non per me solo ma per tutti la cosa deve
    fatalmente  accadere.  Tutti  l'aspettano,   tutti  ne  sono  talmente
    convinti che io non posso,  no,  non posso deluderli. Ma come avverrà?
    Lo ignoro,  ma so che avverrà,  che avverrà  certamente!",  si  diceva
    Pierre,  guardando quelle superbe spalle che splendevano proprio sotto
    i suoi occhi.
    A tratti era preso da un senso di vergogna.  Si sentiva imbarazzato di
    essere,  lui solo,  il centro dell'attenzione generale, di apparire un
    uomo felice agli occhi di tutti, di apparire,  con il suo brutto viso,
    una specie di Paride,  il fortunato possessore di Elen. "Forse succede
    sempre così e così deve essere...", diceva a se stesso.  "E del resto,
    che  cosa  ho  fatto perché le cose prendessero questa piega?  Quale è
    stato l'inizio?  Sono partito da Mosca insieme con  il  principe...  e
    allora  non c'era ancora nulla...  Poi,  perché accettai di essere suo
    ospite?  Cominciai una sera a giocare a carte con lei,  le raccolsi la
    borsetta,  con  lei  feci qualche passeggiata in carrozza.  Ma quando,
    quando è veramente cominciato tutto questo?". Ed ecco,  ora egli stava
    al suo fianco come fidanzato,  la vedeva, sentiva la sua vicinanza, il
    suo respiro,  avvertiva ogni movimento e la  sfolgorante  bellezza  di
    lei.  Poi,  a  un tratto,  gli pareva che non Elen,  ma lui fosse così
    bello e che per questo  tutti  lo  guardavano;  allora,  felice  della
    generale  ammirazione,  sollevava  il petto,  alzava la testa e gioiva
    della propria felicità.  All'improvviso una  voce,  la  voce  nota  di
    qualcuno,  gli dice due volte la stessa cosa. Ma Pierre è così assorto
    che non capisce che cosa si voglia da lui.
    - Ti domando quando hai ricevuto la lettera di Bolkonskij!   -  ripeté
    per  la  terza volta il principe Vassilij.   -  Ma come sei distratto,
    mio caro!
    Il principe Vassilij sorride,  e Pierre vede che tutti sorridono a lui
    e ad Elen.  "Be', visto che lo sapete tutti", dice Pierre a se stesso,
    "ebbene, sì,  è vero",  e anch'egli sorride con il suo dolce infantile
    sorriso, e sorride anche Elen.
    -  Quando  l'hai  ricevuta?  Veniva da Olmütz?   -  ripeté il principe
    Vassilij che pareva aver bisogno di quell'informazione  per  risolvere
    una questione su cui stava discutendo.
    "Ma come si può parlare di simili sciocchezze o anche solo pensarci?",
    dice Pierre a se stesso.
    - Sì, da Olmütz  -  risponde con un sospiro.
    Dopo  cena Pierre seguì gli altri e accompagnò la sua dama in salotto.
    Gli ospiti presero ad accomiatarsi e alcuni se ne andarono, senza aver
    salutato Pierre ed Elen.  Altri,  come se non volessero distogliere la
    fanciulla dalla sua importante occupazione,  le si avvicinarono per un
    momento e se ne andavano subito, senza permettere che li accompagnasse
    alla porta. Il diplomatico taceva uscendo dal salotto con aria triste;
    gli appariva tutta la vanità della sua carriera diplomatica a paragone
    della felicità di Pierre. Il vecchio generale brontolò irritato quando
    la moglie gli chiese come  stesse  la  sua  gamba.  "Eh,  che  vecchia
    stupida!",   pensò.   "Ecco   Elen   Vassìlevna:   quella,   anche   a
    cinquant'anni, sarà una bellezza!".
    - Credo di potervi porgere i miei rallegramenti    -    sussurrò  Anna
    Pàvlovna alla principessa baciandola con effusione.   -  Se non avessi
    l'emicrania, resterei...
    La  principessa  non  rispose;  era  tormentata  dall'invidia  per  la
    felicità di sua figlia.
    Pierre,  mentre  gli invitati se ne andavano,  rimase a lungo solo con
    Elen nel salottino dove si erano seduti. Spesso, anche prima di quella
    sera, era rimasto a tu per tu con lei,  ma non le aveva mai parlato di
    amore. Ora sentiva che era necessario farlo, ma non sapeva decidersi a
    compiere  quell'ultimo  passo.  Si  vergognava: aveva la sensazione di
    occupare lì,  accanto ad Elen,  il posto di un altro.  "Non è  per  te
    questa felicità",  pareva dirgli una voce interna,  "essa è per coloro
    che non hanno quello che hai tu".  Ma bisognava pur dire qualche cosa,
    ed  egli cominciò a parlare.  Le chiese se era stata soddisfatta della
    serata.  La fanciulla,  come sempre,  gli rispose con  semplicità  che
    quell'ultimo onomastico era stato per lei uno dei più piacevoli.
    Alcuni  tra  i  parenti  più  stretti  rimanevano ancora,  riuniti nel
    salone.  Il principe Vassilij,  con andatura indolente,  si avvicinò a
    Pierre.  Questi  si  alzò e disse che era ormai tardi,  ma il principe
    Vassilij gli volse uno sguardo così severo e  interrogativo,  come  se
    quelle  parole  fossero  tanto  strane  da  non  poter  essere neppure
    ascoltate. Ma poi l'espressione severa scomparve, il principe Vassilij
    prese Pierre per una mano,  tirandola in giù,  lo fece risedere e  gli
    sorrise affettuosamente.
    - Be',  Lëlin,  come va?   -  disse, rivolto subito alla figlia con il
    tono negligente della tenerezza abituale,  proprio  dei  genitori  che
    vezzeggiano  i  figli  sin dall'infanzia,  ma che il principe Vassilij
    usava per imitare gli altri genitori. Poi si volse di nuovo a Pierre.
    - "Sergéj Kuzmìc'...  da ogni parte..."  -  ripeté,  sbottonandosi  il
    bottone superiore del panciotto.
    Pierre sorrise,  ma dal suo sorriso si capiva che non era la storiella
    di  Sergéj  Kuzmìc'  che  in  quel  momento  interessava  il  principe
    Vassilij;  e  a  sua  volta  il principe capì che Pierre aveva capito.
    Borbottò qualche parola e uscì.  A Pierre parve che anche il  principe
    Vassilij  fosse turbato.  La vista del turbamento di quel vecchio uomo
    di mondo commosse Pierre; egli si volse a guardare Elen: anche il viso
    della  fanciulla  appariva  turbato  e  sembrava  che  i  suoi   occhi
    dicessero: "Che volete, la colpa è vostra!".
    "Devo decidermi a fare questo passo,  assolutamente, ma non posso, non
    posso...",  pensava Pierre,  e  subito  si  mise  a  parlare  di  cose
    indifferenti;  chiese  di  Sergéj  Kuzmìc'  e  in che cosa consistesse
    l'aneddoto che egli non aveva sentito bene; ma Elen,  sorridendo,  gli
    rispose che neppure lei lo sapeva.
    Quando  il  principe  Vassilij  rientrò  nel  salotto,  la principessa
    parlava a bassa voce di Pierre con un'anziana signora.
    - Senza dubbio,  "c'est un parti très brillant,  mais le  bonheur,  ma
    chère..." [13. E' un partito ottimo, ma la felicità, mia cara...].
    - "Les mariages se font dans les cieux" [14.  I matrimoni si combinano
    in cielo]  -  rispose la vecchia signora.
    Il principe Vassilij, come se non udisse le signore, andò a sedersi su
    un divano,  in un angolo,  e chinò gli occhi  e  parve  assopirsi.  Si
    scosse quando la testa fu per cadergli sul petto.
    -  Aline   -  disse alla moglie.   -  "Allez voir ce qu'ils font" [15.
    Andate a vedere che cosa fanno].
    La principessa si  avvicinò  all'uscio,  vi  passò  davanti  con  aria
    significativa e indifferente insieme e lanciò un'occhiata nel salotto.
    Pierre ed Elen erano ancora allo stesso posto e discorrevano.
    - Nulla di nuovo  -  disse al marito.
    Il  principe  Vassilij aggrottò le sopracciglia,  storse la bocca,  le
    guance gli tremarono con quell'espressione volgare  e  antipatica  che
    gli era propria;  si scosse,  si alzò,  gettò la testa all'indietro e,
    passando  davanti  alle  signore,   entrò  con  andatura  decisa   nel
    salottino.  A  passo rapido si avvicinò allegramente a Pierre,  con un
    aspetto così insolitamente solenne che il giovane a  quella  vista  si
    alzò di scatto, come spaventato.
    - Dio sia lodato!    -  esclamò.   -  Mia moglie mi ha detto tutto!  -
    Con un braccio circondò Pierre,  con l'altro la figlia.   -  Mia  cara
    Lëlin,  sono molto,  molto contento!  -  La voce gli tremò.  -  Volevo
    molto bene a tuo padre..  e lei sarà per te una  buona  moglie...  Che
    Iddio vi benedica!
    Abbracciò la figlia, poi ancora Pierre, e lo baciò con la bocca vizza.
    Aveva realmente le lacrime agli occhi.
    - Principessa, vieni qui!  -  gridò.
    La  principessa  entrò  e si mise a piangere.  Anche l'anziana dama si
    passò il fazzoletto sugli occhi.  Pierre fu baciato da tutti  e  baciò
    parecchie  volte  la  mano  alla  bella Elen.  Poco dopo i due giovani
    furono di nuovo lasciati soli.
    "Le cose dovevano andare  così,  non  potevano  andare  diversamente",
    pensò  Pierre;  "perciò  è inutile che io mi domandi se è un bene o un
    male. E' senza dubbio un bene che tutto sia deciso e che sia finito il
    tormentoso dubbio di prima". Pierre, in silenzio, teneva tra le sue la
    mano della fidanzata e guardava  lo  splendido  seno  di  lei  che  si
    sollevava e si abbassava.
    - Elen!  -  disse ad alta voce, e s'interruppe.
    "In questi casi",  pensò,  "bisogna dire qualcosa di particolare",  ma
    non riuscì a ricordare che  cosa  si  dovesse  precisamente  dire.  La
    guardò in viso. Ella gli si fece più vicina e il suo viso arrossì.
    -  Ah,  levatevi questi...  questi..  come si chiamano,  questi...   e
    indicava gli occhiali.
    Pierre se li tolse e  i  suoi  occhi,  oltre  all'espressione  strana,
    comune  a tutti coloro che si tolgono gli occhiali,  aveva uno sguardo
    spaurito  e  interrogatore.  Voleva  chinarsi  sulla  mano  di  lei  e
    baciargliela  ancora,  ma  Elen,  con  un  movimento del capo rapido e
    inatteso,  gli afferrò la testa e lo baciò sulla bocca.  L'espressione
    del  suo  viso,  totalmente  mutata,  e  che  rivelava  uno sgradevole
    smarrimento, colpì Pierre.
    "Ormai è troppo tardi... tutto è finito... ma io l'amo!", pensò.
    - "Je vous aime!"  -  mormorò, ricordandosi quello che si deve dire in
    simili casi;  ma quelle parole ebbero un suono  così  insulso  che  si
    vergognò di averle pronunziate.
    Un mese e mezzo dopo egli era sposato e, felice possessore, come tutti
    dicevano,  di  una  bellissima  moglie  e  di  molti  milioni,  andò a
    stabilirsi a Pietroburgo nella grande casa,  completamente  rimessa  a
    nuovo, del conte Bezuchov.


    CAPITOLO 3.

    Il  vecchio  principe  Nikolàj  Andréevic'  Bolkonskij  ricevette  nel
    dicembre  del  1805  una  lettera  dal  principe  Vassilij,   che  gli
    annunziava il suo arrivo insieme con il figlio. ("Parto per un giro di
    ispezioni  e,  si capisce,  non mi sarà difficile una diversione di un
    centinaio di miglia per venirvi a salutare,  mio stimato benefattore",
    scriveva.  "Mi  accompagnerà il mio Anatolij,  che deve raggiungere il
    suo  reggimento,  e  io  spero  che  gli  permetterete  di  esprimervi
    personalmente la profonda stima e devozione che,  come suo padre, egli
    nutre per voi").
    - Ah,  benissimo,  non occorre neppure portare Màrija  in  società:  i
    pretendenti  arrivano  da  soli  -  osservò imprudentemente la giovane
    principessa, quando seppe quella notizia.
    Il principe Nikolàj Andréevic' aggrottò le sopracciglia  e  non  disse
    nulla.
    Due  settimane  dopo  l'arrivo  della  lettera,  verso sera giunsero i
    domestici del principe Vassilij,  che precedevano  il  padrone,  e  il
    giorno dopo arrivò il principe in persona con il figlio.
    Il  vecchio  Bolkonskij  non  aveva  mai avuto un'opinione molto buona
    circa il carattere del principe Vassilij,  e specialmente negli ultimi
    tempi,  quando,  sotto  il regno di Pavel e di Aleksàndr,  il principe
    Vassilij aveva fatto notevoli progressi nei gradi e negli  onori.  Ora
    poi che,  dalle allusioni contenute nella lettera e dalle parole della
    piccola principessa,  aveva capito di cosa si trattasse,  la  mediocre
    opinione  sul conto del principe Vassilij si era mutata nell'animo del
    principe Nikolàj Andréevic' in un sentimento  di  malevolo  disprezzo.
    Parlando  di  lui sbuffava continuamente.  Il giorno dell'arrivo degli
    ospiti il principe Nikolàj Andréevic' era particolarmente  inquieto  e
    di cattivo umore.  Sia che la causa di tale disposizione d'animo fosse
    l'arrivo del principe,  sia che di tale arrivo fosse scontento  perché
    era  di  cattivo  umore,  fatto si è che il malumore c'era,  tanto che
    Tichòn,   sin  dal  mattino,   aveva  sconsigliato  l'architetto   dal
    presentarsi al principe con la sua relazione.
    -  Sentite  come  cammina?    -  disse Tichòn,  attirando l'attenzione
    dell'architetto sul rumore  dei  passi  del  principe.    -    Cammina
    battendo forte con tutta la pianta del piede... e non sappiamo che...
    Tuttavia,  alle  nove precise come al solito,  il principe uscì per la
    passeggiata con la sua pelliccetta di velluto dal bavero di  zibellino
    e  con il berretto della stessa pelliccia.  Il giorno prima era caduta
    molta neve.  Il sentiero che il  principe  Nikolàj  Andréevic'  soleva
    percorrere  per  andare  alle serre era stato ripulito,  i segni della
    scopa erano visibili qua e là sulla  neve  spazzata,  una  pala  stava
    conficcata  nei  morbidi  cumuli  nevosi  ammucchiati  ai due lati del
    sentierino. Il principe fece il giro delle serre,  del cortile e delle
    costruzioni annesse, taciturno e aggrottato.
    -  Ma  con la slitta si può passare?   -  chiese all'intendente che lo
    accompagnava a casa,  somigliantissimo al padrone per il comportamento
    e i modi dignitosi.
    -  La  neve  è alta,  eccellenza...  Ho già dato ordine di spazzare il
    viale.
    Il principe approvò con  un  cenno  del  capo  e  si  avviò  verso  la
    scalinata d'ingresso.
    "Sia  ringraziato  il  Signore",  pensò  l'intendente.  "La burrasca è
    passata!".
    - Non era facile passare,  eccellenza  -  aggiunse l'intendente.  -  A
    quanto ho sentito dire, eccellenza, un ministro verrà a trovare vostra
    eccellenza...
    Il  principe  si  volse di scatto verso l'intendente e lo fissò con lo
    sguardo corrucciato.
    - Cosa? Un ministro? E che ministro? E chi ha dato l'ordine?  -  gridò
    con la voce dura e penetrante.   -  Non  avete  fatto  pulire  per  la
    principessina mia figlia,  e per il ministro sì! Non conosco ministri,
    io!
    - Eccellenza, io credevo...
    - Credevi!  -  gridò il principe pronunziando le parole in modo sempre
    più rapido e slegato.  -  Credevi! Briganti! Canaglie! Ti insegnerò io
    a credere!   -  e,  alzato il bastone verso l'intendente,  lo  avrebbe
    colpito se quest'ultimo non avesse istintivamente evitato il colpo.  -
    Credevi!  Canaglie!  -  continuava a gridare il principe sempre più in
    fretta.  Ma benché Alpatyc',  spaventato della propria audacia di aver
    osato scansare il colpo,  si fosse avvicinato al principe,  abbassando
    umilmente dinanzi a lui la testa calva,  o forse proprio  per  questo,
    pur continuando a urlare:  -  Canaglie!  Si ricopra la strada di neve!
    -  Il principe non alzò una  seconda  volta  il  bastone  e  raggiunse
    precipitosamente la casa.
    Prima di pranzo,  la principessina e "mademoiselle" Bourienne, sapendo
    che il principe era di pessimo umore, lo stavano aspettando, rimanendo
    in piedi: "mademoiselle" Bourienne con un viso  raggiante  che  pareva
    voler  dire:  "Io  non  so  nulla,   sono  quella  di  sempre!"  e  la
    principessina Màrija,  pallida,  spaventata e con gli occhi bassi.  La
    cosa  più  penosa  per  la principessina Màrija era il fatto di sapere
    che,  in  circostanze  simili,  bisognava  agire  come  "mademoiselle"
    Bourienne,  ma che purtroppo lei non poteva.  Le pareva che, se avesse
    finto di non accorgersi di nulla, il padre avrebbe pensato che lei non
    si curava delle sue preoccupazioni;  se poi si fosse dimostrata  anche
    lei  triste  e  di  cattivo umore,  egli avrebbe detto (come già altre
    volte era accaduto) che aveva un viso da funerale  e  altre  cose  del
    genere.
    Il principe guardò il viso spaurito della figlia e sbuffò:
    - Can... ovvero stupida!  -  brontolò.
    "E quell'altra non c'è! Avranno già spettegolato insieme...", pensò, a
    proposito  della  piccola  principessa  che  non si trovava in sala da
    pranzo.
    - Dov'è la principessa?  -  chiese.  -  Si nasconde?
    - Non si sente molto  bene    -    rispose  "mademoiselle"  Bourienne,
    sorridendo allegramente.  -  E' una cosa comprensibile, nello stato in
    cui si trova.
    - Ehm... ehm!  -  bofonchiò il principe, e sedette a tavola.
    Il piatto non gli sembrò abbastanza pulito; vi fece notare una macchia
    e lo buttò via. Tichòn l'afferrò al volo e lo diede al maggiordomo. La
    piccola  principessa  non  era  indisposta,  ma  aveva  una paura così
    invincibile del principe che,  informata del  cattivo  umore  di  lui,
    aveva deciso di non lasciare le sue stanze.
    -  Temo per il bambino  -  aveva detto a "mademoiselle" Bourienne.   -
    Sa Iddio che cosa può accadere se mi spavento!
    La piccola principessa viveva a Lissia-Gori in  preda  a  un  continuo
    senso di timore e di antipatia verso il vecchio principe, antipatia di
    cui  non si rendeva conto,  perché la paura la soverchiava a tal punto
    che essa non  provava  alcun  altro  sentimento.  L'antipatia  le  era
    ricambiata  da parte del suocero,  ma era soffocata dal disprezzo.  La
    principessa,  nel suo soggiorno  a  Lissia-Gori,  si  era  affezionata
    soltanto  a  "mademoiselle"  Bourienne,  trascorreva  con lei giornate
    intere,  la pregava di dormire nella sua camera e spesso  parlava  con
    lei del suocero, criticandolo.
    -  "Il  nous  arrive  du  monde,  mon prince"  -  disse "mademoiselle"
    Bourienne,  spiegando il tovagliolo con le sue piccole mani rosee.   -
    "Son  excellence  le  prince  Kouraguine avec son fils,  à ce que j'ai
    entendu dire?" [16. Aspettiamo gente, signor principe.  Sua eccellenza
    il principe Kuragin con suo figlio, a quanto ho sentito dire].
    - Uhm...  sì... un'eccellenza da poco... Sono stato io a farlo entrare
    nell'amministrazione  -  rispose il principe in tono  sprezzante.    -
    Quanto  al figlio,  poi,  non riesco a capire perché debba venire qui.
    Forse la principessa Lizaveta Kàrlovna e la  principessina  Màrija  lo
    sanno; io ignoro davvero perché conduca qui suo figlio. Per me, non ne
    sentivo  affatto  il bisogno.   -  E guardò la figlia che si era fatta
    rossa.
    - Non stai bene? Che ti senti?  Forse per paura del ministro,  come ha
    detto oggi quel baggiano di Alpatyc'?
    - No, "mon père".
    Per   quanto   avesse   scelto   male  l'argomento  di  conversazione,
    "mademoiselle" Bourienne non  tacque,  ma  continuò  a  parlare  delle
    serre,  della  bellezza  di  un  nuovo  fiore  appena sbocciato,  e il
    principe, dopo la minestra, parve un po' rabbonito.
    Quando si alzò da tavola andò dalla  nuora.  La  piccola  principessa,
    seduta  a  un tavolino da lavoro,  discorreva con la cameriera Mascia.
    Alla vista del vecchio principe, si fece pallida.
    Era molto mutata. Si poteva dire, ora, più brutta che bella. Le guance
    erano un po' cascanti,  il labbro superiore era più che  mai  staccato
    dall'inferiore, e gli occhi parevano tirati all'ingiù.
    -  Sì,  sento  una  certa  pesantezza    -  rispose al principe che le
    chiedeva come stesse.
    - Ti occorre qualche cosa?
    - No, "merci, mon père".
    - Bene, bene...
    Uscì e raggiunse la stanza della servitù dove trovò Alpatyc',  ritto e
    a capo chino.
    - E' stata ributtata la neve sulla strada?
    - Sì,  eccellenza;  perdonate,  eccellenza,  in nome di Dio... è stato
    soltanto per la mia stupidità.
    Il principe lo interruppe e rise del suo riso innaturale.
    - Bene, bene...
    Tese ad Alpatyc' la mano da baciare, poi si ritirò nel suo studio.
    Verso sera arrivò il principe  Vassilij.  Domestici  e  cocchieri  gli
    andarono  incontro  sul  viale  e  con  urla e grida fecero passare le
    slitte sulla strada,  di nuovo a bella posta ricoperta di neve,  e  lo
    condussero  a  un'ala della casa dove,  per lui e per Anatolij,  erano
    state preparate due camere distinte.
    Anatolij, toltasi la giubba,  sedeva con le mani sui fianchi davanti a
    una  tavola,  su  un  angolo della quale teneva distrattamente fissi i
    suoi grandi,  bellissimi occhi.  Egli soleva considerare la  sua  vita
    come  un  piacere  ininterrotto  che qualcuno,  chissà perché,  si era
    impegnato a organizzare per lui.  Allo stesso  modo,  considerava  ora
    quella  visita a un burbero vecchio e a una brutta e ricca ereditiera.
    Secondo lui,  tutto ciò poteva riuscire molto bello e divertente.  "Ma
    perché  non sposarla,  se è così ricca?  La ricchezza non guasta mai",
    pensava Anatolij.
    Si fece la barba,  si profumò con una cura  e  un'eleganza  che  erano
    ormai  per  lui  un'abitudine,  e,  con  quell'espressione  bonaria  e
    conquistatrice insieme che gli  era  innata,  tenendo  alta  la  bella
    testa,  entrò nella camera del padre.  Accanto al principe Vassilij si
    affaccendavano due camerieri che lo  aiutavano  a  vestirsi;  egli  si
    guardava vivacemente attorno e al figlio che entrava fece un cenno con
    il capo come se volesse dire: "Bene! Ti voglio proprio così!".
    - Senza scherzi,  babbo,  è proprio tanto brutta?  Eh?   -  domandò in
    francese come continuando un discorso già molte volte iniziato durante
    il viaggio.
    - Basta con queste sciocchezze! Bada soltanto a dimostrarti rispettoso
    e assennato con il vecchio principe.
    - Se comincerà a brontolare me ne andrò  -  disse Anatolij.   -    Non
    posso soffrire i vecchi bisbetici...
    - Ricordati che tutto il tuo avvenire dipende da questo.
    Frattanto,  nella  stanza  delle  cameriere,  non  solo  era  già noto
    l'arrivo del  ministro  con  il  figlio,  ma  anche  il  loro  aspetto
    esteriore   era   già   stato   descritto  in  ogni  particolare.   La
    principessina Màrija,  tutta sola nella sua camera,  tentava invano di
    dominare il suo profondo turbamento.
    "Perché hanno scritto?  Perché Liza me ne ha parlato?  No, no, la cosa
    non è possibile!",  diceva a se stessa,  guardandosi  nello  specchio.
    "Come  entrerò  in  salotto?  Anche  se quel giovane mi piacesse,  non
    potrei più ormai essere con lui quella che  sono".  Il  solo  pensiero
    dello sguardo di suo padre le riempiva l'anima di sgomento.
    La  piccola  principessa  e "mademoiselle" Bourienne avevano già avuto
    dalla cameriera  Mascia  tutte  le  informazioni  necessarie:  avevano
    saputo  che il figlio del ministro era un bel giovane colorito,  dalle
    sopracciglia nere, e che, mentre il padre trascinava a fatica i piedi,
    nel salire le scale, egli, come un'aquila, le aveva fatte a volo a tre
    gradini per volta. Avute queste informazioni, la piccola principessa e
    "mademoiselle" Bourienne, le cui voci animate si sentivano mentre esse
    percorrevano  ancora  il  corridoio,   entrarono  nella  camera  della
    principessina Màrija.
    - "Ils sont arrivés,  Marie!" [17. Sono arrivati, Màrija!]. Lo sapete?
    -  disse la principessa Liza, facendo dondolare il ventre ingrossato e
    lasciandosi pesantemente cadere su una poltrona.
    Non indossava già più la camicetta che portava al mattino,  ma uno dei
    suoi  abiti  più  belli,  aveva i capelli acconciati con molta cura ma
    l'eccitazione del suo viso non riusciva tuttavia a nascondere i tratti
    avvizziti e cascanti. Vestita nel modo con cui soleva presentarsi alle
    serate mondane di Pietroburgo,  appariva  più  evidente  quanto  fosse
    imbruttita.  Anche  in  "mademoiselle"  Bourienne  si poteva notare un
    miglioramento, sia pure impercettibile nella "toilette", che conferiva
    al suo volto fresco e grazioso una maggiore attrattiva.
    - "Eh bien,  et vous restez comme  vous  êtes,  chère  princesse"    -
    disse.    -  "On va venir annoncer que ces messieurs sont au salon: il
    faudra descendre,  et vous ne faites pas un petit brin  de  toilette!"
    [18.  Ebbene,  principessina,  voi  restate cosi come siete?  Tra poco
    verranno ad annunziarci che quei signori si trovano  già  in  salotto:
    bisogna  scendere,  e  voi  non  avete  ancora  fatto  un  pochino  di
    toeletta].
    La piccola principessa si alzò dalla poltrona, chiamò la cameriera con
    una scampanellata e in fretta,  allegramente,  si mise a combinare e a
    realizzare  un  abbigliamento  per  la  principessina Màrija.  Essa si
    sentiva ferita nella propria dignità per il solo  fatto  che  l'arrivo
    del  probabile  fidanzato la turbava tanto e ancora di più la umiliava
    la circostanza che le sue due amiche non sospettavano neppure  che  le
    cose potessero svolgersi diversamente.  Dire quanto si vergognasse per
    sé e per loro significava rendere palese il proprio turbamento;  ma il
    rifiutare  l'aiuto nell'abbigliarsi che esse le offrivano avrebbe dato
    origine a insistenti e prolungati scherzi. Si fece di fiamma,  la luce
    dei suoi begli occhi si spense,  il viso le si coprì di chiazze e, con
    quella sgradevole espressione di  vittima  che  le  era  abituale,  si
    abbandonò con rassegnazione alle mani di "mademoiselle" Bourienne e di
    Liza.  Le due donne si davano sinceramente da fare per renderla bella;
    era così brutta che nessuna delle due avrebbe potuto  mai  pensare  di
    avere  in  lei  una rivale e perciò sinceramente e fermamente convinte
    come tutte le donne che un vestito riesca ad abbellire qualsiasi viso,
    si accinsero a vestirla.
    - No davvero,  mia buona amica,  il vestito che hai addosso non  va  -
    diceva Liza,  guardando di lato la principessina.  -  Fatti portare il
    vestito "massacà"! Pensa che forse si sta oggi decidendo la tua sorte.
    E questo vestito troppo chiaro non va bene, non va proprio bene!
    Non era il vestito che non andava,  erano il viso e tutta  la  persona
    della   principessina,   ma  "mademoiselle"  Bourienne  e  la  piccola
    principessa non se ne rendevano conto,  pareva  loro  che  mettere  un
    nastro  azzurro  nei cappelli pettinati all'insù,  togliere la sciarpa
    azzurra dal vestito marrone  o  qualche  altro  mutamento  del  genere
    avrebbero  migliorato  le  cose.  Dimenticavano  che non era possibile
    mutare il viso spaurito e la figura della principessina e che  perciò,
    per  quanto  variassero la cornice e gli ornamenti a quel volto,  esso
    continuava a rimanere triste e brutto.  Dopo due o tre cambiamenti  ai
    quali  la  principessina  Màrija  si prestò con assoluta docilità,  la
    piccola principessa le girò attorno due volte per osservare  l'effetto
    dell'acconciatura  alta  (una pettinatura che le alterava il viso e la
    imbruttiva),  l'abito di "massacà" ornato di una sciarpa  azzurra,  le
    aggiustò qui una piega del vestito,  là diede un colpetto alla sciarpa
    con la piccola mano e poi la guardò, piegando il capo ora da una parte
    ora dall'altra.
    - No,  così non va!   -  dichiarò in tono deciso battendo le  mani.  -
    "Non,  Marie,  décidément  ca ne vous va pas.  Je vous aime mieux dans
    votre petite robe grise de tous les jours.  Non,  de grâce faites cela
    pour moi [19.  No,  Màrija,  così non va proprio. Vi preferisco con il
    vostro abitino grigio di tutti i giorni.  Vi prego,  fatelo  per  me].
    Kàtja,    -    disse  volgendosi alla cameriera  -  riporta il vestito
    grigio della principessina e vedrete,  "mademoiselle" Bourienne,  come
    glielo  abbellirò    -    disse  con  un sorriso che pregustava la sua
    soddisfazione artistica.
    Ma quando Kàtja ebbe portato il vestito  richiesto,  la  principessina
    Màrija stava ancora seduta immobile davanti allo specchio,  osservando
    il proprio viso;  e nello specchio vedeva gli occhi pieni di lacrime e
    la bocca tremante, pronta ai singhiozzi.
    - "Voyons,  chère princesse",   -  esclamò "mademoiselle" Bourienne  -
    "encore un petit effort" [20. Suvvia,  principessa,  ancora un piccolo
    sforzo].
    La  principessa  Liza  prese  il vestito dalle mani della cameriera si
    riavvicinò alla cognata.
    - Adesso combineremo un insieme, semplice e grazioso.
    La voce di lei,  di "mademoiselle" Bourienne e quella  di  Kàtja,  che
    rideva per non so che cosa,  si fondevano in un gaio cinguettio simile
    a un canto di uccelli.
    - Non, laissez-moi! [21. No,  lasciatemi!]  -  disse la principessina,
    e  quella  voce  ebbe  un tono così serio e pieno di sofferenza che il
    cinguettio cessò  immediatamente.  Le  tre  donne  guardarono  i  suoi
    grandi, bellissimi occhi pensosi e pieni di lacrime che si alzavano su
    di  loro  limpidi e supplichevoli e capirono che sarebbe stato inutile
    insistere, e anche crudele.
    - "Au moins,  changez de coiffure"  -  disse la piccola  principessa.-
    "Je  vous  disais"  -  aggiunse in tono di rimprovero,  rivolgendosi a
    "mademoiselle" Bourienne:  -  "Marie a une de ces  figures  auxquelles
    ce  genre  de  coiffure  ne  va  pas du tout,  mais du tout,  du tout.
    Changez, de grâce" [22. Almeno cambiate la pettinatura.  Ve lo dicevo,
    io, che Màrija ha uno di quei visi cui non si addice assolutamente una
    pettinatura di questo genere. Cambiatela, per favore].
    -  "Laissez-moi,  laissez-moi,  tout  ca m'est parfaitement égal" [23.
    Lasciatemi, lasciatemi, per me tutto è assolutamente indifferente!]  -
    rispose la voce che tratteneva a stento le lacrime.
    "Mademoiselle" Bourienne e la principessa Liza dovettero confessare  a
    se  stesse  che  la  principessina  Màrija,  vestita a quel modo,  era
    veramente brutta, più brutta del solito; ma ormai era troppo tardi. La
    principessina le guardava con quell'espressione pensosa e  triste  che
    esse  ben  conoscevano,  un'espressione  che  non  ispirava loro alcun
    timore (la principessina non destava mai in alcuno  tale  sentimento),
    ma  sapevano che,  quando sul viso di lei compariva quell'espressione,
    ella diventava taciturna e irremovibile nelle sue decisioni.
    -  "Vous  changerez,  n'est-ce  pas?"  [24.   Cambierete  pettinatura,
    nevvero?]   -  disse Liza e poiché la principessina non rispose,  Liza
    uscì dalla stanza.
    La principessina Màrija rimase sola,  ma non accontentò la cognata,  e
    non  solo  non  mutò  acconciatura,  ma  non  si  guardò  neppure allo
    specchio.  Essa,  con gli occhi fissi a terra e le braccia abbandonate
    lungo  i  fianchi,  taceva  e pensava.  Vedeva con l'immaginazione uno
    sposo,  un uomo forte,  un essere energico,  dominatore,  dal  fascino
    misterioso,  che la trasportava improvvisamente nel suo mondo, diverso
    e felice. Vedeva con il pensiero un bambino "suo", simile a quello che
    aveva visto il giorno innanzi in grembo  alla  figlia  della  nutrice,
    mentre  le  si  attaccava  al seno.  Il marito,  lì accanto,  guardava
    affettuosamente lei e il bimbo.
    "Ma no, questo è impossibile! Sono troppo brutta!", pensava.
    - Favorite per il tè.  Il principe sta per venire  -  disse attraverso
    la porta la voce della cameriera.
    Màrija si scosse,  ebbe paura del suo fantasticare,  si alzò, prima di
    scendere entrò nella stanza delle icone e,  fissando lo sguardo su  di
    una grande immagine annerita del Salvatore, illuminata da una lampada,
    rimase immobile per alcuni minuti a mani giunte.  Un dubbio tormentoso
    opprimeva l'anima della fanciulla.  Avrebbe un giorno provato la gioia
    dell'amore  terreno  per  un  uomo?  Nel  pensare  al  matrimonio,  la
    principessina Màrija aveva sempre sognato anche la felicità  domestica
    e  i  figli,  ma  più di ogni altra cosa e con maggiore ardore segreto
    desiderava l'amore terreno...  e quel sentimento era tanto  più  forte
    quanto più ella cercava di nasconderlo agli altri e a se stessa.  "Mio
    Dio", si diceva, "come posso scacciare dalla mia mente questi pensieri
    diabolici?  Come posso allontanare  da  me,  per  sempre,  i  pensieri
    cattivi  per  poter  compiere tranquillamente la Tua volontà?".  Aveva
    appena formulato questa domanda,  e già Iddio le  rispondeva  nel  suo
    stesso cuore: "Non desiderare nulla per te,  non cercare nulla,  evita
    di turbarti,  non invidiare nessuno.  L'avvenire degli uomini e il tuo
    destino devono esserti ignoti, ma vivi in modo tale da essere pronta a
    tutto.  Se  Iddio vorrà metterti alla prova nel dovere del matrimonio,
    sii pronta a compiere la Sua volontà".
    Con questo pensiero tranquillizzante  (ma  conservando  ugualmente  la
    speranza del suo sogno proibito di felicità terrena), la principessina
    Màrija  si  fece  sospirando  il segno della croce e poi scese,  senza
    pensare né al vestito, né alla pettinatura,  né a come sarebbe entrata
    in salotto, né che cosa avrebbe detto. Quale importanza potevano avere
    queste cose a paragone della predestinazione di Dio,  senza la volontà
    del quale non cade un capello dalla testa dell'uomo?


    CAPITOLO 4.

    Quando la principessina Màrija entrò nel salotto,  vi si trovavano già
    il  principe  Vassilij  con  il  figlio,  intenti  a discorrere con la
    principessa Liza e con "mademoiselle" Bourienne. Allorché ella fece il
    suo ingresso con la sua pesante andatura,  battendo sui  talloni,  gli
    uomini   e   "mademoiselle"  Bourienne  si  alzarono,   e  la  piccola
    principessa, indicandola agli ospiti, disse:
    - "Voilà Marie!" [25. Ecco Màrija!].
    Con una sola  occhiata  la  fanciulla  vide  tutti  i  particolari  di
    ciascuno.  Notò la faccia del principe Vassilij che, al primo vederla,
    si fece seria per un attimo,  ma che tornò subito sorridente;  notò il
    viso  della  piccola  principessa che spiava con curiosità,  sul volto
    degli ospiti,  l'impressione prodotta loro  da  Màrija;  notò  persino
    "mademoiselle"  Bourienne con il suo nastro,  il suo bel viso e il suo
    sguardo vivace di sempre,  fisso  su  di  "lui";  ma  "lui"  non  poté
    vederlo.  Vide soltanto qualcosa di alto di bello,  di luminoso che si
    avvicinava mentre ella entrava nella stanza. Dapprima le si accostò il
    principe Vassilij,  ed ella baciò la testa calva che si chinava  sulla
    sua mano (26) e alle parole di lui rispose che "sì, lo ricordava molto
    bene".  Poi fu la volta di Anatolij, che ella continuava a non vedere.
    Sentì soltanto una mano morbida stringere con forza la  sua  e  sfiorò
    appena con le labbra la fronte bianca sulla quale erano impomatati con
    cura  dei  magnifici capelli biondi.  Quando finalmente lo guardò,  fu
    colpita dalla sua bellezza. Anatolij, con il pollice della mano destra
    infilato tra due bottoni della giubba,  il petto in fuori e la schiena
    rientrante, dondolandosi su una gamba, la guardava in silenzio, con la
    testa leggermente inclinata, gli occhi allegri, evidentemente pensando
    a tutt'altro che a lei. Anatolij non era né pronto, né vivace, né buon
    parlatore, ma possedeva in compenso certe qualità preziose in società,
    quali  una  calma e una sicurezza che nulla riusciva a turbare.  Se un
    uomo,  timido di natura,  tace in un primo incontro e se lascia capire
    che sente l'inopportunità del proprio silenzio e del proprio desiderio
    di trovare qualcosa da dire, le cose andranno male, ma Anatolij taceva
    e,  facendo dondolare una gamba, osservava allegramente l'acconciatura
    della   principessina.    Era   chiaro   che   avrebbe   potuto   così
    tranquillamente   tacere  ancora  a  lungo.   "Se  qualcuno  si  sente
    imbarazzato per il mio silenzio parlate voi,  io non  ne  ho  voglia",
    pareva  voler  dire.  Oltre  a  ciò,  nei  suoi rapporti con le donne,
    Anatolij aveva quel comportamento atto a ispirare loro  la  curiosità,
    lo  spavento  e  persino  l'amore;  il  comportamento  che dimostra la
    sprezzante coscienza della propria superiorità.  Aveva l'aria di dire:
    "Vi  conosco,  vi  conosco...  perché  dovrei  darmi  da fare per voi?
    Sareste felici,  eh,  se lo facessi!".  Probabilmente egli non pensava
    affatto così davanti alle donne (e forse non lo pensava davvero perché
    in  genere pensava pochissimo),  ma le sue arie e il suo comportamento
    parevano veramente significare qualcosa di  simile.  La  principessina
    avvertì  tutto  questo  e,  quasi  volesse  dimostrargli che non osava
    neppure pensare di destare il suo  interesse,  rivolse  la  parola  al
    vecchio principe. La conversazione procedeva generale e molto animata,
    specialmente  grazie  alla  vocina  della  principessa  Liza  e al suo
    labbruzzo superiore troppo corto ornato di lieve peluria  che  metteva
    in  mostra  i  denti  bianchissimi.  Ella  aveva  accolto  il principe
    Vassilij  con  quel  modo  scherzoso  che  usano  spesso  le   persone
    allegramente  loquaci,  e che consiste nel supporre che tra la persona
    alla quale ci si rivolge così e chi parla  siano  stabilite  da  lungo
    tempo consuetudini scherzose,  divertenti ricordi comuni che non tutti
    conoscono,  mentre tali ricordi non esistono affatto,  come in  realtà
    non  esistevano tra la piccola principessa e il principe Vassilij.  Il
    principe ben volentieri si adattò a quel tono;  la piccola principessa
    implicò  in  quei  ricordi di avvenimenti piacevoli mai accaduti anche
    Anatolij, che essa quasi non conosceva.  Pure "mademoiselle" Bourienne
    condivideva  quei  comuni ricordi e persino la principessina Màrija si
    sentiva trascinata con piacere in quelle allegre memorie.
    - Ora  almeno  godremo  completamente  della  vostra  compagnia,  caro
    principe  -  disse la piccola principessa,  rivolgendosi, naturalmente
    in francese, al vecchio principe.  -  Non sarà più come alle serate da
    Annette,  dove voi  fuggivate  sempre.  "Cette  chère  Annette"...  La
    ricordate?
    - Ah, ma voi non mi vorrete mica parlare di politica come Annette!
    - E il nostro tavolino da tè?
    - Oh, sì!
    - E voi, perché non venivate mai da Annette?  -  chiese ad Anatolij la
    piccola principessa.   -  Eh, ma io lo so, lo so!  -  disse strizzando
    gli occhi;   -  vostro fratello Ippolìt mi  ha  parlato  delle  vostre
    avventure.  Oh!    -  e lo minacciò con il dito.   -  Conosco anche le
    vostre birichinate di Parigi!
    - E a te, Ippolìt non ha detto nulla?  -  chiese il principe Vassilij,
    rivolgendosi al figliuolo e tenendo stretta la mano della  principessa
    Liza,  come  se  questa avesse voluto fuggire ed egli fosse riuscito a
    stento a trattenerla.   -  Non  ti  ha  mai  detto  come  lui  si  era
    invaghito  della  graziosa  principessa  e  come  lei "le mettait à la
    porte? Oh, c'est la perle des femmes, princesse!" [27. Lo metteva alla
    porta. Oh, una perla di donna,  principessa!]  -  esclamò rivolto alla
    principessa Màrija.
    Dal  canto suo,  "mademoiselle" Bourienne,  al sentir nominare Parigi,
    non poté astenersi dal partecipare alla conversazione generale.
    Si permise di chiedere  ad  Anatolij  se  avesse  lasciato  Parigi  da
    parecchio tempo e se quella città gli piacesse. Anatolij rispose assai
    volentieri  alla  francesina  e,  guardandola e sorridendo,  si mise a
    discorrere con lei della sua  città  natale.  Non  appena  entrato  in
    salotto e veduta la graziosa "mademoiselle" Bourienne,  Anatolij aveva
    deciso che anche lì a Lissia-Gori non si sarebbe annoiato.  "E'  molto
    carina!",  pensava,  osservandola.  "Molto carina, questa damigella di
    compagnia.  Speriamo che la porti con sé quando diventerà mia moglie",
    si disse. "La petite est gentille" [28. La piccola è carina].
    Il vecchio principe si vestiva lentamente nello studio, e, accigliato,
    pensava  a  ciò  che  doveva  fare.   L'arrivo  di  quegli  ospiti  lo
    contrariava assai.  "Cosa sono per  me  il  principe  Vassilij  e  suo
    figlio?  Il  principe  Vassilij  è un fanfarone,  vuoto,  e suo figlio
    dev'essere della stessa forza",  brontolava tra i denti.  Era irritato
    perché la presenza di quei due risollevava nel suo animo una questione
    mai risolta e sempre soffocata,  una questione a proposito della quale
    il vecchio principe continuava a ingannare se stesso: si  sarebbe  mai
    risolto a separarsi dalla principessina Màrija e darla a un marito? Il
    principe  non si era mai posto in modo chiaro e deciso questa domanda,
    sapendo in anticipo che si sarebbe risposto secondo giustizia;  ma  la
    giustizia  contrastava,  più ancora che con i suoi sentimenti,  con le
    stesse possibilità della sua esistenza.  Il vecchio  principe  Nikolàj
    Andréevic',  infatti,  non  poteva  concepire la propria vita senza la
    presenza della  figliuola  anche  se,  apparentemente,  se  ne  curava
    pochissimo.  "E perché dovrebbe sposarsi?", pensava. "Senza dubbio per
    essere infelice.  Ecco l'esempio di Liza: essa ha sposato Andréj e  se
    anche  può  sembrare  difficile  trovare un marito migliore di lui,  è
    forse contenta della sua sorte?  E chi prenderà Màrija per  amore?  E'
    brutta,  sgraziata.  La  sposerebbero  per  le  sue relazioni e il suo
    denaro.  Non ci sono forse donne che vivono senza marito e sono ancora
    più felici?".
    Questo  si  diceva,  mentre  stava  vestendosi,  il  principe  Nikolàj
    Andréevic',  e intanto sentiva che  la  questione,  sempre  rimandata,
    esigeva  ormai  una  soluzione  immediata.  Era chiaro che il principe
    Vassilij aveva condotto a Lissia-Gori suo figlio con  l'intenzione  di
    fare  una  regolare  domanda  di  matrimonio  e forse in quella stessa
    giornata,  o  nella  seguente,   egli  avrebbe  chiesto  una  risposta
    definitiva.  Il nome e la posizione sociale erano buoni.  "Be', io non
    sarei contrario", si diceva il principe "purché egli sia degno di lei.
    Ed è quello che vedremo!".
    - Sì, è quello che vedremo  -  ripeté ad alta voce.   -  E' quello che
    vedremo!    -    E,  a  passi  svelti e decisi come sempre,  entrò nel
    salotto, con una rapida occhiata avvolse tutti i presenti,  osservò il
    cambiamento  di  vestito  della  principessa  Liza,  il  nastro  della
    Bourienne  e  l'orribile  pettinatura  della  figlia,   i  sorrisi  di
    "mademoiselle" e di Anatolij e l'isolamento della principessina Màrija
    nella  conversazione  generale.  "Si  è acconciata come una stupida!",
    pensò,  rivolgendo  un'occhiata  rabbiosa  alla  figlia.  "Ma  non  si
    vergogna? E lui non si degna neppure di guardarla!".
    Si avvicinò al principe Vassilij.
    - Buon giorno, buon giorno! Felice di vedervi!
    -  "Per  un caro amico sette miglia non allungano la strada" come dice
    il proverbio  -    rispose  il  principe  Vassilij,  rapidamente  come
    sempre,  con disinvolta familiarità.  -  Ecco il mio secondogenito: vi
    prego di volergli bene e di essere indulgente verso di lui.
    Il principe Nikolàj Andréevic' guardò Anatolij.
    - Un bel giovanotto!  -  disse.  -  Suvvia, vieni qui e dammi un bacio
    -  e gli porse la guancia.
    Anatolij baciò il  vecchio  guardandolo  con  una  calma  curiosità  e
    aspettando  da lui,  da un momento all'altro,  una di quelle originali
    uscite di cui il padre gli aveva parlato.
    Il principe Nikolàj Andréevic' sedette al suo solito posto nell'angolo
    del divano,  avvicinò a sé una  poltrona  per  il  principe  Vassilij,
    gliela  indicò  e  prese  a interrogarlo sull'andamento delle novità e
    delle faccende politiche.  Sembrava che ascoltasse con  attenzione  il
    racconto del principe Vassilij,  ma intanto non cessava di guardare la
    principessina Màrija.
    - Cosicché scrivono già da Potsdam?   -  disse,  ripetendo  le  ultime
    parole  del  principe Vassilij;  poi a un tratto si alzò e si avvicinò
    alla figlia.
    - E' per accogliere gli ospiti che ti sei acconciata così, eh?  Bella,
    bella  davvero!   -  le disse.   -  Ti sei fatta una pettinatura nuova
    per i nostri visitatori ma io,  in loro  presenza,  ti  dico  che  non
    avresti dovuto agghindarti a questo modo senza il mio permesso.
    -  Sono  stata  io,  "mon père"  -  intervenne la piccola principessa,
    facendosi rossa.
    - Voi siete libera di fare quello  che  vi  piace,    -    rispose  il
    principe  Nikolàj  Andréevic',  inchinandosi davanti alla nuora  -  ma
    lei non ha bisogno di farsi più brutta di  quello  che  è:  lo  è  già
    abbastanza.
    E  riprese  il  suo  posto  senza  più badare alla figlia che aveva le
    lacrime agli occhi.
    - Al contrario: a me pare che quella pettinatura stia molto bene  alla
    principessina  -  intervenne il principe Vassilij.
    -  Dunque,  mio  caro giovane principe...  come ti chiami?  Vieni qui,
    discorriamo un po' e facciamo conoscenza  -  disse il principe Nikolàj
    Andréevic', rivolgendosi ad Anatolij.
    "Ecco,  la farsa sta per cominciare",  pensò Anatolij  e,  sorridendo,
    andò a sedersi accanto al vecchio.
    -  Dunque,  mio  caro,  voi,  a  quanto  si dice,  siete stato educato
    all'estero.  Non come "tuo" (29) padre e io  che  abbiamo  imparato  a
    leggere  da  un  diacono.  Ditemi,  caro,  ora servite nella Guardia a
    cavallo, vero?  -  chiese il principe, fissando il giovane da vicino.
    - No,  sono passato  nell'esercito    -    rispose  Anatolij,  che  si
    tratteneva a fatica dal ridere.
    - Ah,  benissimo!  Sicché volete servire lo zar e la patria?  Siamo in
    guerra.  Un giovanotto come voi deve prestare  servizio,  certo,  deve
    prestare servizio. Siete in prima linea?
    - No, principe. Il nostro reggimento è in marcia, e io faccio parte...
    di che cosa faccio parte,  papà?  -  chiese Anatolij al padre, con una
    bella risata.
    - Ah, ah! Bel modo di servire la patria, bel modo davvero! Di che cosa
    faccio parte!  -  esclamò ridendo il principe Nikolàj Andréevic' .
    E Anatolij rise ancora più forte.  A un  tratto  il  principe  Nikolàj
    Andréevic' aggrottò il viso.
    - Bene,  bene,  va' pure...  -  disse al giovane il quale, sorridendo,
    ritornò presso le signore.
    - Così  li  hai  fatti  educare  all'estero  i  tuoi  figli,  principe
    Vassilij?  -  domandò il vecchio al padre del giovane.
    - Ho fatto quello che ho potuto e vi dirò che l'educazione di laggiù è
    molto migliore della nostra.
    -  Sì,  oggigiorno è tutto diverso,  tutto nuovo.  Bravo ragazzo!  Su,
    andiamo un po' nel mio studio.
    Prese sotto braccio il principe Vassilij e lo condusse con sé.
    Il principe Vassilij, rimasto a tu per tu con l'amico, gli espresse il
    suo desiderio e le sue speranze.
    - Che cosa credi?  -  chiese aspramente il vecchio principe.  -  Credi
    forse che io la voglia tenere con me  a  ogni  costo,  che  non  possa
    separarmi da lei? Figurarsi!  -  continuò in tono irritato.  -  Magari
    domani stesso! Ti dico subito, però, che voglio conoscere meglio colui
    che  diventerà  mio  genero.  Tu  conosci  i miei princìpi: tutto deve
    essere chiaro come la luce del sole!  Domani la interrogherò davanti a
    te:  se  lei lo desidera,  lui può restare qui un po' di tempo;  resti
    pure e io intanto vedrò e rifletterò.  -  E il principe sbuffò.  -  Se
    lo sposi pure, Màrija,  a me non importa niente!   -  gridò con quella
    stessa  voce  acuta  e  penetrante  con  cui aveva salutato suo figlio
    Andréj.
    - Vi parlerò francamente  -  rispose il principe Vassilij con il  tono
    dell'uomo astuto,  convinto dell'inutilità dell'astuzia di fronte a un
    interlocutore molto intelligente;   -  tanto  voi  leggete  nel  cuore
    delle  persone.  Anatolij  non  è  un  genio,  ma è un ragazzo buono e
    onesto, ed è un ottimo figlio.
    - Bene, bene, vedremo.
    Come sempre accade alle donne vissute a lungo sole, senza compagnia di
    uomini,  le tre signore  di  casa  del  principe  Nikolàj  Andréevic',
    all'arrivo  di  Anatolij,  avevano  sentito ugualmente che sino a quel
    momento la loro vita non era stata vera vita.  La capacità di pensare,
    di sentire, di osservare si era decuplicata all'istante in tutte e tre
    e,  come  se  la loro esistenza fosse stata sino a quel giorno avvolta
    nelle tenebre,  apparve improvvisamente illuminata da una luce nuova e
    vivificatrice.
    La  principessina  Màrija  non  pensava più alla sua faccia e alla sua
    pettinatura; nemmeno se ne ricordava. Il viso bello e aperto dell'uomo
    che  forse  sarebbe  diventato  suo  marito  assorbiva  tutta  la  sua
    attenzione.  Egli  le  pareva  buono,  energico,  deciso,  risoluto  e
    magnanimo.  Era convinta che fosse così.  Mille sogni sulla sua futura
    vita  di  famiglia  le  pullulavano nell'immaginazione,  sogni che lei
    cercava di scacciare e di nascondere.
    "Ma non sono forse troppo fredda con lui?",  si chiedeva la fanciulla.
    "Io cerco di contenermi perché segretamente mi sento già troppo vicina
    a  lui;  ma  egli  non  conosce  questi miei pensieri e potrebbe anche
    credere di essermi antipatico!".
    E la principessina si sforzava,  senza tuttavia riuscirvi,  di  essere
    gentile con il nuovo ospite.
    "La pauvre fille!  Elle est diablement laide!" [30.  Povera ragazza, è
    terribilmente brutta!] pensava intanto di lei Anatolij.
    "Mademoiselle" Bourienne,  anch'essa eccitata  al  massimo  grado  per
    l'arrivo   del  giovanotto,   aveva  pensieri  di  tutt'altro  genere.
    Naturalmente la bella ragazza,  priva di una  ben  definita  posizione
    sociale, senza parenti, senza amici e persino senza patria, non poteva
    pensare  di  dedicare  tutta la sua esistenza al servizio del principe
    Nikolàj Andréevic',  leggergli i libri ad alta  voce,  accontentandosi
    dell'amicizia  della principessina Màrija.  Ella aspettava da un pezzo
    il principe russo che,  di colpo,  avrebbe saputo  apprezzare  la  sua
    superiorità  sulle  principesse  brutte,  mal vestite,  sgraziate,  si
    sarebbe innamorato di lei  e  l'avrebbe  portata  via;  ed  ecco  che,
    finalmente,  era arrivato un principe russo!  "Mademoiselle" Bourienne
    aveva una sua storia sentita raccontare da una zia e che  essa  stessa
    aveva  completato,  una storia che le piaceva ripetersi durante le sue
    fantasticherie.  Era la storia  di  una  ragazza  sedotta  alla  quale
    appariva in sogno la povera madre, "la pauvre mère", e la rimproverava
    di  essersi  data  ad  un  uomo,  senza il matrimonio.  "Mademoiselle"
    Bourienne spesso  si  commoveva  sino  alle  lacrime,  immaginando  di
    raccontare questa vicenda a "lui",  il seduttore. Ora questo "lui", un
    vero principe russo, era apparso. Egli l'avrebbe portata via, poi dopo
    la commovente apparizione della "pauvre mère", l'avrebbe sposata. Così
    si delineava nella mente di "mademoiselle"  Bourienne  la  sua  futura
    storia mentre discorreva di Parigi con Anatolij. Ella non faceva alcun
    calcolo  (non  rifletteva  mai su quanto faceva),  ma tutto quello che
    immaginava era già da lungo tempo pronto nella  sua  mente  e  ora  si
    condensava,  semplicemente,  attorno ad Anatolij al quale desiderava e
    cercava di piacere quanto più fosse possibile.
    La principessa  Liza,  come  un  vecchio  cavallo  di  reggimento  che
    nitrisce  all'udire squillare le trombe,  dimentica del suo stato,  si
    preparava  inconsciamente  al  consueto  galoppo   della   civetteria,
    senz'alcun  proposito,  senza  alcuna intenzione di lotta,  ma con una
    ingenua e spensierata allegria.
    Sebbene Anatolij, quando si trovava in una compagnia femminile, avesse
    l'abitudine  di  recitare  la  parte  dell'uomo  seccato  di   vedersi
    corteggiato  dalle  donne,  provava ora una soddisfazione vanitosa nel
    costatare l'effetto che produceva su quelle tre creature. Inoltre egli
    cominciava  a  sentire  per  la  graziosa   e   provocante   Bourienne
    quell'appassionata  sensazione  animalesca che soleva impossessarsi di
    lui con straordinaria rapidità e che spesso lo spingeva agli atti  più
    volgari e più arditi.
    Dopo  il  tè,   tutti  passarono  nella  saletta  dei  divani,   e  la
    principessina fu  pregata  di  sonare  il  clavicembalo.  Anatolij  si
    appoggiò  allo  strumento  davanti  a  lei,  accanto  a "mademoiselle"
    Bourienne e si mise a guardare la principessina con  occhi  ridenti  e
    allegri. La fanciulla, con un'emozione timida e lieta insieme, sentiva
    su  di  sé  quello sguardo.  La sonata prediletta la trasportava in un
    mondo di intima poesia e lo sguardo che sentiva  su  di  sé  avvolgeva
    quel  mondo  in un'atmosfera poetica anche maggiore.  Ma lo sguardo di
    Anatolij quantunque fisso su di lei,  non seguiva lei ma  i  movimenti
    del piedino di "mademoiselle" Bourienne,  che egli premeva con il suo,
    sotto il clavicembalo.  Anche  "mademoiselle"  Bourienne  guardava  la
    principessina  nei  cui bellissimi occhi leggeva una espressione nuova
    di timida e gioiosa speranza.
    "Come mi vuol bene",  pensava  la  principessina  Màrija.  "Come  sono
    felice  ora e come potrò esserlo in seguito con un'amica così e con un
    simile marito!  Ma sarà veramente mio  marito?",  si  chiedeva,  senza
    osare di alzare lo sguardo sul viso di lui, i cui occhi sentiva sempre
    fissi su di sé.
    La sera,  quando dopo cena tutti si separarono, Anatolij baciò la mano
    alla principessina che,  non sapendo  neppur  lei  stessa  come,  ebbe
    l'ardire di guardare il bel volto maschile che era così vicino ai suoi
    occhi  miopi.  Poi Anatolij si avvicinò a "mademoiselle" Bourienne per
    baciar la mano anche a lei (una  cosa  sconveniente,  ma  egli  faceva
    tutto con grande semplicità e sicurezza),  e "mademoiselle" Bourienne,
    arrossendo, guardò spaventata la principessina.
    "Quelle délicatesse!" [31.  Che delicatezza!] pensò la  principessina.
    "Possibile  che  Amélie  (così  si  chiamava "mademoiselle" Bourienne)
    creda  che  io  possa  essere  gelosa  di  lei  e  che  non   apprezzi
    l'affettuosa tenerezza e la devozione che ha per me?".
    Si  avvicinò  alla  francesina  e la baciò con trasporto.  Anatolij si
    accostò alla piccola principessa per baciare la mano anche a lei.
    - "Non,  non,  non!  Quand votre père m'écrira que vous vous conduisez
    bien,  je vous donnerai ma main à baiser.  Pas avant" [32. No, no, no!
    Quando vostro padre mi avrà scritto che vi comportate bene,  allora vi
    darò la mano da baciare. Prima no!].
    E, sorridendo, alzò un ditino con aria minacciosa e lasciò la stanza.


    CAPITOLO 5.

    Tutti  si  separarono e quella notte nessuno,  a eccezione di Anatolij
    che si addormentò non appena fu a letto, riposò a lungo.
    "Possibile  che  questo  estraneo,  quest'uomo  bello  e  buono  debba
    diventare  mio  marito?",  si  chiedeva la principessina Màrija,  e la
    paura,  che non provava quasi mai,  si impadronì  di  lei.  Temeva  di
    guardarsi  attorno.  Le  sembrava  che  qualcuno  fosse lì,  dietro il
    paravento,  in quell'angolo buio e che quel  qualcuno  fosse  lui,  il
    demonio,  lui, il giovane dalla fronte bianca, dalle sopracciglia nere
    e dalla bocca rossa.
    Chiamò la cameriera e la pregò di rimanere a dormire nella sua camera.
    "Mademoiselle" Bourienne quella sera passeggiò a  lungo  nel  giardino
    d'inverno, aspettando invano qualcuno, ora sorridendogli, ora commossa
    sino  alle lacrime dalle immaginarie parole della "pauvre mère" che le
    rimproverava il suo fallo.
    La principessa Liza brontolava contro la cameriera perché il letto non
    era stato fatto bene,  non poteva restar coricata né su un  fianco  né
    sul  petto.  In  qualsiasi modo si voltasse,  il ventre quella sera le
    dava pena e fastidio.  E quella sera gliene dava più del solito perché
    la  presenza  di  Anatolij  l'aveva  riportata  vivamente indietro nel
    tempo,  in un tempo diverso,  in cui le cose non erano così e tutto si
    svolgeva per lei in modo facile e piacevole. In giubbetto e cuffia, se
    ne  stava  seduta  sulla  poltrona,  mentre  Kàtja  assonnata e con la
    treccia sfatta,  batteva e rivoltava per la  terza  volta  il  pesante
    materasso, borbottando incomprensibili parole.
    - Ti ho detto che è tutto gobbe e rientranze!   -  ripeteva la piccola
    principessa.  -  Sarei tanto contenta di potermi addormentare, e non è
    colpa mia se il materasso me lo impedisce!-  E la sua voce era tremula
    come quella di una bimba che sia lì lì per piangere.
    Neppure il vecchio principe dormiva. Tichòn,  attraverso il sonno,  lo
    sentiva sbuffare e camminare nervosamente.  Al vecchio principe pareva
    di essere stato offeso nella persona di  sua  figlia  e  l'offesa  era
    tanto più grande in quanto non riguardava direttamente lui ma un'altra
    persona,  quella  fanciulla  che  egli amava più di se stesso.  Si era
    detto che avrebbe riflettuto bene  su  tutta  la  faccenda  e  avrebbe
    trovato  la soluzione migliore da adottare,  ma intanto non faceva che
    irritarsi sempre di più.
    "E' bastato il primo venuto ed ecco che suo padre  e  tutto  il  resto
    sono  dimenticati...   Corre  di  sopra  in  camera  sua  si  pettina,
    scodinzola e diventa un'altra!  E' contenta all'idea di  lasciare  suo
    padre!  Sa  benissimo che io me ne accorgo,  ma che gliene importa?  E
    intanto io vedo che quell'idiota non ha occhi che  per  la  Bourienne!
    Bisognerà  mandarla  via quella...  E che mancanza di fierezza per non
    capirlo, se non per sé,  visto che fierezza non ne ha,  almeno per me.
    Bisogna  pur  far  capire che quell'idiota non pensa a lei,  ma solo a
    guardare la Bourienne. No, non ha proprio orgoglio,  ma le mostrerò io
    come...".
    Il  vecchio  principe  sapeva che dicendo alla figlia che s'ingannava,
    che Anatolij corteggiava la Bourienne avrebbe eccitato l'amor  proprio
    della  principessina  in  modo  tale  da  vincere  la  partita,  ossia
    realizzare il suo desiderio di non separarsi  dalla  figlia...  Questo
    pensiero lo calmò alquanto. Chiamò Tichòn e cominciò a svestirsi.
    "Li ha condotti qui il diavolo, quei due!", pensava, mentre Tichòn gli
    copriva  con  la  camicia  da notte il corpo magro e secco,  dal petto
    coperto di peli grigi. "Io non li ho chiamati, costoro!  Sono venuti a
    sconvolgere la mia vita che non avrà più lunga durata".
    -  Al  diavolo!    -   ripeté,  mentre la sua testa non sbucava ancora
    chiusa nella camicia.
    Tichòn conosceva quell'abitudine di esprimere talvolta ad alta voce  i
    propri  pensieri  e  perciò  con  viso impassibile sopportò lo sguardo
    rabbioso e interrogativo che lampeggiava al di sopra della camicia.
    - Sono andati a letto?  -  chiese il principe.
    Tichòn,  come  ogni  bravo  servitore,  indovinava  la  direzione  dei
    pensieri del padrone.  Comprese che la domanda si riferiva al principe
    Vassilij e a suo figlio e rispose:
    - Si sono degnati di coricarsi,  eccellenza,  e hanno  già  spento  il
    lume.
    - Non c'è motivo, non c'è motivo...  -  borbottò in fretta il principe
    e,  cacciati i piedi nudi nelle pantofole e le mani nelle tasche della
    veste da camera, si avvicinò al divano sul quale soleva dormire.
    Sebbene tra Anatolij e "mademoiselle" Bourienne non fosse stata  detta
    nemmeno  una  parola,  essi  si erano perfettamente intesi a proposito
    della prima parte del romanzo,  quella precedente l'apparizione  della
    "pauvre mère";  avevano capito di avere molte cose da dirsi in segreto
    e perciò,  appena  alzati,  cominciarono  a  cercare  l'occasione  per
    incontrarsi  a quattr'occhi.  Mentre la principessina Màrija si recava
    all'ora consueta dal padre,  "mademoiselle" Bourienne  e  Anatolij  si
    incontravano nel giardino d'inverno.
    Quella  mattina  la  principessina Màrija si avvicinò alla porta dello
    studio paterno con  una  insolita  trepidazione.  Le  pareva  che  non
    soltanto  tutti  sapessero che in quel giorno si sarebbe decisa la sua
    sorte,  ma che sapessero anche quali fossero i suoi pensieri.  Leggeva
    questa  impressione  nel  viso  di Tichòn e del domestico del principe
    Vassilij che,  incontratala nel corridoio mentre portava l'acqua calda
    al padrone, le si era inchinato profondamente.
    Quella   mattina  il  vecchio  principe  si  dimostrò  particolarmente
    affettuoso e sollecito verso la figlia,  la quale conosceva assai bene
    quella  sollecitudine;  era  la  stessa che gli compariva sul viso nei
    momenti in cui le sue mani secche si serravano a pugno per il dispetto
    quando essa non riusciva a risolvere un problema di aritmetica e  lui,
    alzandosi,  si  scostava  e lei ripeteva a voce bassa sempre le stesse
    parole.
    Il principe entrò subito in argomento e cominciò a parlare dandole del
    "voi".
    - Mi è stata fatta una proposta che vi riguarda  -  disse,  sorridendo
    in  modo  poco  naturale.    -    Penso  abbiate già indovinato che il
    principe Vassilij è venuto qui portando con sé il suo pupillo  -  (chi
    sa perché il principe Nikolàj Andréevic' chiamava così  Anatolij)    -
    non certo per i miei begli occhi...  Ieri mi ha fatto una proposta che
    vi riguarda e poiché  conoscete  i  miei  princìpi  lascio  a  voi  la
    decisione.
    -  In  che  senso  vi  debbo  intendere,  "mon  père"?    -   disse la
    principessina, impallidendo e poi arrossendo.
    - In che senso intendermi!   -  gridò il padre con voce  irritata.  Il
    principe  Vassilij  ti  trova di suo gradimento come nuora e chiede la
    tua mano per il suo pupillo.  Ecco in che senso devi  intendermi...  e
    come, se non così? Lo chiedo a te.
    -  Non  so  come  voi  la  pensiate,   "mon  père"    -    mormorò  la
    principessina.
    - Io? Io? Ma che c'entro io? Lasciatemi da parte. Non sono io che devo
    sposarmi. Che ne pensate voi? E' questo che si desidera sapere.
    La principessina capiva che suo padre  non  vedeva  favorevolmente  la
    cosa,  ma pensò che in quel momento o mai più si sarebbe decisa la sua
    sorte.  Abbassò gli occhi per evitare lo  sguardo  del  padre,  quello
    sguardo  che,  lo  sentiva,  la rendeva incapace di pensare,  ma,  per
    abitudine, capace soltanto di ubbidire, e disse:
    - Io non desidero altro che fare la  vostra  volontà.  Ma  se  dovessi
    esprimere ciò che desidero...
    Non riuscì a compiere la frase: il principe l'interruppe.
    - Benissimo!  -  gridò.  -  Egli prenderà te, la tua dote e per giunta
    anche "mademoiselle" Bourienne. Quella sarà la moglie e tu...
    Il  principe tacque: si era accorto dell'impressione che quelle parole
    avevano prodotto sulla figlia.  Ella aveva chinato il capo e stava per
    piangere.
    -  Su,  su,  ho  scherzato!    -    disse.   -  Ricorda però una cosa,
    figliuola: io mi attengo al principio che una ragazza ha pieno diritto
    di scelta e quindi ti lascio assoluta libertà.  Ma ricorda  che  dalla
    tua  decisione  dipende  la  felicità  della  tua  vita.  Di me non ti
    preoccupare...
    - Ma... io non so, "mon père"...
    - Non c'è niente da dire!  Lui fa quello che gli è stato  ordinato:  è
    pronto  a  sposare  te  come  qualsiasi  altra;  però tu sei libera di
    scegliere. Va' in camera tua,  rifletti e,  tra un'ora,  ritorna qui e
    davanti a lui dirai sì o no.  So che andrai a pregare.  Sì, prega pure
    o, meglio, rifletti. Va' !  Sì o no,  sì o no,  sì o no!   -   gridava
    ancora quando la principessina,  vacillante come in mezzo alla nebbia,
    usciva dallo studio.
    La sua sorte si era decisa e decisa  felicemente.  Ma  quello  che  il
    padre  aveva  detto  relativamente  alla Bourienne era un'insinuazione
    terribile. Ammesso anche che non fosse vero, era pur sempre terribile,
    ed essa non  poteva  non  pensarci.  Camminava  diritto  avanti  a  sé
    attraverso il giardino d'inverno, senza nulla vedere e sentire quando,
    all'improvviso,  il  noto  bisbiglio  di  "mademoiselle"  Bourienne la
    riscosse.  Sollevò gli occhi e a due passi da sé scorse  Anatolij  che
    abbracciava  la  francesina  e  le mormorava qualcosa.  Anatolij,  con
    un'espressione di collera sul bel viso, guardò la principessina Màrija
    e al primo momento non si staccò  neppure  dalla  Bourienne  che,  dal
    canto suo, non la vedeva.
    "Chi  è là?  Perché?  Aspettate un momento",  pareva dire la faccia di
    Anatolij. La principessina Màrija li guardava ammutolita. Non riusciva
    a capire.  Finalmente "mademoiselle" Bourienne lanciò un grido e fuggì
    precipitosamente.
    Anatolij  con  un allegro sorriso si inchinò alla principessina,  come
    invitandola a ridere di quel caso strano e, stringendosi nelle spalle,
    si avviò verso la porta che conduceva nelle sue stanze.
    Un'ora più tardi,  Tichòn andò a  chiamare  la  principessina  Màrija.
    Disse  che  il  principe  la  desiderava e aggiunse che insieme con il
    padre si trovava anche il principe Vassilij Sergéevic'.  Quando Tichòn
    era entrato dalla principessina,  essa,  seduta sul divano, teneva tra
    le braccia la Bourienne in  lacrime  e  le  accarezzava  dolcemente  i
    capelli. I bellissimi occhi della principessina, tranquilli e luminosi
    come  sempre,  guardavano  con  affettuosa  tenerezza e compassione il
    visino grazioso di "mademoiselle" Bourienne.
    - "Non, princesse, je suis perdue pour toujours dans votre coeur" [33.
    No,  principessa,  nel vostro cuore non c'è più  posto  per  me!]    -
    diceva "mademoiselle" Bourienne.
    -  "Pourquoi?  Je  vous  aime  plus  que  jamais,"    -  rispondeva la
    principessina Màrija  -  "et je tâcherai de faire tout ce qui  est  en
    mon pouvoir pour votre bonheur" [34. Perché? Io vi voglio più bene che
    mai, e cercherò di far tutto ciò che posso per la vostra felicità].
    - "Mais vous me méprisez, vous si pure, vous ne comprendrez jamais cet
    égarement de la passion.  Ah,  ce n'est que ma pauvre mère..." [35. Ma
    voi mi  disprezzate,  voi,  così  pura,  non  potrete  mai  capire  lo
    smarrimento della passione. Oh, solo la mia povera madre...].
    -   "Je   comprends  tout"  [36.   Capisco  tutto]    -    rispose  la
    principessina, con un sorriso triste.  -  Calmatevi, amica mia...  Ora
    andrò da mio padre  -  disse, e lasciò la stanza.
    Quando  la  fanciulla  entrò,  il  principe  Vassilij,  seduto  in una
    poltrona con le gambe  accavallate  e  la  tabacchiera  tra  le  mani,
    sorrideva  intenerito  e  pareva  che lui stesso compatisse la propria
    commozione. Si affrettò a portare una presa di tabacco al naso.
    - "Ah, ma bonne, ma bonne"  -  disse,  alzandosi e prendendole tutte e
    due le mani.  Sospirò e aggiunse:   -  "Le sort de mon fils est en vos
    mains. Décidez, ma bonne, ma chère, ma douce Marie,  que j'ai toujours
    aimée  comme  ma  fille" [37.  Mia cara,  mia cara.  Il destino di mio
    figlio è nelle vostre mani. Decidete, mia buona,  mia cara,  mia dolce
    Màrija, alla quale ho sempre voluto bene come a una figliuola].
    Si scostò, e una vera lacrima brillò nei suoi occhi.
    - Fr...  fr...   -  sbuffava intanto Nikolàj Andréevic'.  -  Ecco qui,
    il principe Vassilij,  a nome del suo pupillo...  ossia di suo figlio,
    chiede  la tua mano.  Vuoi o non vuoi diventare la moglie del principe
    Anatolij Kuragin?  Rispondi: sì o no  -  gridò.   -  Poi io mi riservo
    il diritto di esprimere la mia opinione, semplicemente la mia opinione
    -   aggiunse il principe Nikolàj Andréevic',  rivolgendosi al principe
    Vassilij e rispondendo al suo sguardo supplichevole.  -  Sì o no?
    - Il mio desiderio,  "mon père",  è  di  non  lasciarvi  mai,  di  non
    separare mai la mia vita dalla vostra. Non voglio sposarmi  -  rispose
    decisamente la fanciulla, fissando i suoi bellissimi occhi sul padre e
    sul principe Vassilij.
    -  Sciocchezze,  sciocchezze,  stupidaggini,  assurdità!   -  gridò il
    principe Nikolàj Andréevic',  aggrottando le sopracciglia e,  presa la
    figlia per mano, l'attirò a sé; non la baciò, ma si limitò a sfiorarle
    la  fronte con la fronte,  e le strinse così forte la mano che serrava
    tra le sue che il viso della fanciulla si contrasse,  ed ella mandò un
    grido.
    Il principe Vassilij si alzò.
    -  "Ma  chère,  je  vous  dirai que c'est un moment que je n'oublierai
    jamais, jamais; mais,  ma bonne,  est-ce que vous ne nous donnerez pas
    un peu d'espérance de toucher ce coeur si bon, si généreux. Dites, que
    peut-être...  L'avenir est si grand. Dites: peut-être" [38.  Mia cara,
    posso dirvi che questo è un momento che non dimenticherò mai, mai; ma,
    mia cara, non ci vorrete dare un filo di speranza che un giorno questo
    vostro cuore cosi buono  e  generoso  possa  commuoversi?  Diteci  che
    forse... L'avvenire è così lungo. Dite: forse].
    - Principe, ciò che ho detto è tutto quello che ho nel cuore.
    -  Vi  ringrazio  per  l'onore  che m'avete fatto,  ma non sarò mai la
    moglie di vostro figlio.
    - Bene,  l'argomento è chiuso,  mio caro.  Sono molto lieto di  averti
    veduto,  molto lieto.  Va' principessina, va' in camera tua-  disse il
    vecchio principe.  -  Molto,  molto lieto di averti veduto  -  ripeté,
    abbracciando il principe Vassilij.
    "La mia vocazione è un'altra",  pensava intanto la fanciulla;  "la mia
    vocazione è  di  essere  felice  di  un'altra  felicità:  la  felicità
    dell'amore e del sacrificio.  E, per quanto mi costi, farò la felicità
    della  povera  Amélie.  Lo  ama  così  appassionatamente!  Ed  è  così
    profondamente pentita!  Farò tutto quanto sta in me perché si sposino.
    Se Anatolij non e ricco,  darò io a lei i mezzi,  li  chiederò  a  mio
    padre,  li chiederò ad Andréj. Sarò felice quando lei sarà sua moglie.
    E' così disgraziata, sola, in terra straniera,  senza aiuto!  Mio Dio,
    con  quanta passione deve amarlo se ha potuto smarrirsi così!  Chi sa,
    forse avrei fatto  anch'io  come  lei...",  pensava  la  principessina
    Màrija.


    CAPITOLO 6.

    Da  molto tempo la famiglia Rostòv non aveva più notizie di Nikòluska.
    Solo verso la metà dell'inverno, il conte ricevette una lettera, sulla
    cui busta riconobbe la calligrafia del figlio.  Con quella lettera  in
    mano,  il conte,  vagamente spaventato,  corse in punta di piedi nella
    sua stanza da lavoro cercando di non essere visto,  vi si rinchiuse  e
    cominciò  a  leggere.   Anna  Michàjlovna,  non  appena  fu  informata
    dell'arrivo della lettera (ella sapeva sempre tutto ciò che  succedeva
    in  casa),  entrò a passi silenziosi nello studio e trovò il conte con
    il foglio tra le mani che singhiozzava e rideva contemporaneamente.
    Anna Michàjlovna,  benché i suoi affari si  fossero  ormai  sistemati,
    continuava a vivere in casa Rostòv.
    - "Mon bon ami?" [39.  Mio buon amico?]  -  domandò con tristezza,  in
    tono interrogativo, già pronta a commuoversi.
    Il conte singhiozzò più forte.
    - Nikòluska...  una lettera...  è stato  ferito...  "ma  chère"...  la
    contessa...  promosso  ufficiale...  Sia  lodato Iddio!  Come faremo a
    comunicare questo alla contessuccia?
    Anna Michàjlovna gli sedette accanto,  asciugò col proprio  fazzoletto
    le  lacrime di lui e quelle che erano cadute sul foglio;  poi lesse la
    lettera,  tranquillizzò il conte e concluse  che  prima  dell'ora  del
    pranzo e del tè avrebbe preparato la contessa,  e che poi, dopo il tè,
    con l'aiuto di Dio, le avrebbe spiegato tutto.
    Durante il pranzo, Anna Michàjlovna parlò delle vicende della guerra e
    di Nikòluska; chiese due volte,  sebbene lo sapesse benissimo,  quando
    era  giunta  l'ultima lettera di lui,  e disse che era molto probabile
    che prestissimo,  forse quel giorno stesso,  arrivasse uno scritto del
    giovane. A ognuna di queste allusioni, quando la contessa cominciava a
    turbarsi  e  guardava  ansiosa  ora  il  conte  ora  Anna Michàjlovna,
    quest'ultima, con la massima naturalezza, riconduceva la conversazione
    su argomenti insignificanti. Natascia, che di tutta la famiglia era la
    persona più capace di cogliere le sfumature  delle  intenzioni,  degli
    sguardi  e  dell'espressione  delle  fisionomie,  sin  dall'inizio del
    pranzo  stava  attentissima  e  capiva  che  tra  suo  padre  e   Anna
    Michàjlovna doveva esserci qualcosa che si riferiva a suo fratello,  e
    che Anna Michàjlovna stava preparando il terreno per comunicare questo
    qualcosa.  Per quanto ardita (Natascia sapeva quanto sua  madre  fosse
    sensibile  a ogni notizia che riguardava Nikòluska),  non si arrischiò
    durante il pranzo a far domande; per l'inquietudine non mangiò nulla e
    si agitò continuamente sulla sedia senza dar retta  alle  osservazioni
    della  governante.  Appena  terminato  il  pranzo,  essa si affrettò a
    correre dietro ad Anna Michàjlovna,  la  raggiunse  nella  stanza  dei
    divani e le si buttò al collo.
    - Zia cara, ditemi, cosa è successo?
    - Niente, tesoro...
    -  No,  anima  mia,  cara...  non vi lascio: sono certa che voi sapete
    qualcosa.
    Anna Michàjlovna scosse la testa.
    - "Vous êtes une fine mouche, mon enfant" [40. Siete una furbacchiona,
    bimba mia!]  -  disse.
    - E' arrivata una lettera di Nikolàj?  E' certo!   -   gridò  Natascia
    leggendo già la risposta affermativa sul viso di Anna Michàjlovna.
    -  Ma  in nome di Dio,  sii prudente: tu sai quanto una notizia simile
    possa colpire la tua "maman".
    - Sarò prudente, sarò prudente,  ma parlate.  Non volete dir nulla?  E
    allora vado subito dalla mamma...
    Anna  Michàjlovna  in  poche  parole  mise  Natascia  al  corrente del
    contenuto della lettera, a patto però che non ne accennasse a nessuno.
    - Parola d'onore!   -  rispose  Natascia,  facendosi  il  segno  della
    croce.  -  Non dirò nulla a nessuno  -  e corse subito da Sònja.
    - Nikòlenka...  è ferito, c'è una lettera...  -  esclamò in tono lieto
    e solenne.
    - Nicolas!  -  riuscì soltanto a dire Sònja, facendosi improvvisamente
    pallida.
    Natascia,  al vedere l'impressione prodotta  su  Sònja  dalla  notizia
    della ferita di suo fratello,  ne comprese per la prima volta il senso
    doloroso.
    Si gettò tra le braccia di Sònja e pianse.
    - Solo un poco... una ferita leggera... ma l'hanno promosso ufficiale;
    ora sta bene, lo scrive lui stesso  -  disse tra le lacrime.
    - Come si vede  che  voialtre  donne  siete  tutte  piagnucolose!    -
    esclamò Pétja,  camminando a gran passi decisi su e giù per la stanza.
    -  Io sono tanto contento,  invece,  proprio tanto  contento  che  mio
    fratello si sia distinto.  Voi non sapete che piagnucolare. Non capite
    proprio nulla!
    Natascia sorrise tra le lacrime.
    - Tu hai letto la lettera?  -  chiese Sònja.
    - No,  non l'ho letta,  ma lei mi ha detto che ormai è tutto passato e
    che è già ufficiale.
    - Sia ringraziato Iddio!   -  rispose Sònja,  facendosi il segno della
    croce.
    - Ma se non ti avesse detto la verità? Andiamo da "maman".
    Pétja continuava a passeggiare avanti e indietro per la stanza.
    - Se io fossi al posto di Nikòluska,   -  saltò su a dire  -  ne avrei
    uccisi  chi sa quanti di questi francesacci!  Sono dei vili!  Ne avrei
    ammazzati tanti da farne un mucchio alto così!  -  proseguì Pétja.
    - Taci, Pétja, quanto sei stupido!
    - Non io sono stupido, è stupido chi piange per delle sciocchezze!   -
    dichiarò il ragazzino.
    - Te lo ricordi,  tu?   -  chiese Natascia dopo un minuto di silenzio.
    Sònja sorrise.
    - Se ricordo Nicolas?
    - No,  Sònja,  ti chiedo se te lo ricordi,  se ti  ricordi  di  tutto-
    rispose Natascia con un gesto pieno di zelo, evidentemente desiderando
    di  dare  alle  sue  parole  il  significato più serio.   - Anch'io mi
    ricordo di Nikòlenka... di Borìs invece non mi ricordo affatto.
    - Ma come? Non ti ricordi di Borìs?  -  chiese Sònja con stupore.
    - Non è che non me lo ricordi,  so  com'è,  ma  non  lo  ricordo  come
    Nikòlenka.  Se chiudo gli occhi, lui lo vedo subito, ma Borìs no...  -
    (E chiuse gli occhi).  -  No, non vedo proprio niente!
    - Ah,  Natascia!   -   esclamò  Sònja,  con  aria  solenne,  e  guardò
    seriamente  l'amica,  come se la considerasse indegna di ascoltare ciò
    che stava per dirle e come se parlasse con un'altra  persona  con  cui
    non  fosse possibile scherzare.   -  Ho preso ad amare tuo fratello e,
    qualsiasi cosa possa accadere a me o a lui,  non cesserò mai di amarlo
    per tutta la vita.
    Natascia,  stupita,  con gli occhi pieni di curiosità,  guardava Sònja
    senza parlare. Sentiva che quello che Sònja diceva era la verità,  che
    l'amore  di  cui  la  fanciulla parlava esisteva realmente ma che lei,
    Natascia,  non aveva ancora mai provato nulla di simile.  Credeva a un
    sentimento del genere, ma non lo capiva.
    - Gli scriverai?  -  domandò.
    Sònja si fece pensierosa.
    La  questione  se  dovesse  o no scrivere a Nikolàj e che cosa dovesse
    dirgli era una questione che la tormentava. Ora che egli era ufficiale
    e un eroe ferito, sarebbe stato bello ricordarsi di lui, quasi volendo
    rammentargli l'impegno che aveva preso con lei?
    - Non so...  credo che,  se mi scriverà,  gli risponderò  -  disse  la
    fanciulla, arrossendo.
    - E non ti vergognerai a scrivergli?
    Sònja sorrise.
    - No.
    -   Io  mi  vergognerei  se  dovessi  scrivere  a  Borìs...   non  gli
    scriverei...
    - E perché vergognarsi?
    - Così... non lo so. Mi vergognerei.
    - Io lo so perché si vergogna  -   s'intromise  Pétja,  ancora  offeso
    dalla  precedente  osservazione  di  Natascia.    -    Perché  è stata
    innamorata di quel giovanottone con gli  occhiali    -    (così  Pétja
    indicava  il  suo  omonimo,  il  nuovo  conte  Bezuchov),    -   ora è
    innamorata del "cantante"...   -   (Pétja  parlava  dell'italiano  che
    insegnava canto a Natascia);  -  ecco perché si vergogna!
    - Sei stupido, Pétja  -  rispose Natascia.
    - Non più di te, comare mia,  -  disse il novenne Pétja, come se fosse
    stato un vecchio brigadiere.
    La  contessa  era  stata preparata dalle allusioni di Anna Michàjlovna
    durante il pranzo.  Rientrata in camera e sedutasi nella sua  poltrona
    non  distoglieva  gli  occhi  dal ritratto in miniatura del figlio che
    ornava il coperchio della tabacchiera, mentre i suoi occhi erano pieni
    di lacrime. Anna Michàjlovna,  con la lettera in mano,  si avvicinò in
    punta di piedi alla camera della contessa, e si fermò.
    -  Non entrate  -  disse al vecchio conte che la seguiva.   -  Verrete
    dopo...  -  e si chiuse l'uscio alle spalle.
    Il conte appoggiò l'orecchio alla serratura e rimase in ascolto.
    Sulle prime udì soltanto uno scambio di parole  indifferenti,  poi  la
    sola  voce  di  Anna  Michàjlovna  che parlò a lungo e infine un grido
    seguito da un silenzio: poi di nuovo le due voci che  discorrevano  in
    tono  gioioso,  e  finalmente  dei passi;  e Anna Michàjlovna gli aprì
    l'uscio.  La sua faccia aveva l'espressione fiera di un chirurgo  che,
    terminata una difficile amputazione, introduce il pubblico ad ammirare
    il risultato della sua abilità.
    -  "C'est  fait!"  [41.  Fatto!]  -  disse al conte,  indicando con un
    gesto solenne la contessa che teneva in una mano la tabacchiera con il
    ritratto e nell'altra la lettera e posava le labbra ora su questa  ora
    su quella.
    Alla  vista del marito,  essa gli tese le braccia,  gli serrò la testa
    calva, continuando,  al di sopra di questa,  a fissare la lettera e il
    ritratto  e  infine,  per potervi ancora appoggiare le labbra,  scostò
    dolcemente la testa calva. Vera,  Natascia,  Sònja e Pétja entrarono e
    la  lettura  cominciò.  Nella  lettera  erano  descritte brevemente la
    campagna e le due battaglie alle quali aveva partecipato  Nikòluska  e
    la promozione a ufficiale.  Aggiungeva che baciava le mani a "maman" e
    a "papa",  chiedendo la loro benedizione e mandava un bacio a Vera,  a
    Natascia  e a Pétja.  Inoltre salutava "monsieur" Schelling,  "madame"
    Schloss e la bambinaia e pregava che  si  baciasse  per  lui  la  cara
    Sònja,  che  egli  amava  sempre  allo  stesso  modo  e della quale si
    ricordava sempre. A queste parole Sònja arrossì con tanta violenza che
    le spuntarono le lacrime e,  non  avendo  la  forza  di  sostenere  lo
    sguardo  dei  presenti  rivolto su di lei,  scappò in sala,  si mise a
    correre,  piroettò facendo gonfiare  come  un  pallone  la  sua  gonna
    leggera e poi,  rossa in viso e sorridente,  si sedette per terra.  La
    contessa piangeva.
    - Perché piangete, "maman"?  -  domandò Vera.   -  Di tutto quello che
    scrive c'è da rallegrarsi, non da piangere.
    Era verissimo,  ma il conte,  la contessa e Natascia, tutti quanti, la
    guardarono con aria di rimprovero. "A chi somiglia, questa?", pensò la
    contessa.
    La lettera di Nikòlenka fu riletta cento  volte  e  quelli  che  erano
    giudicati degni di ascoltarla,  dovevano andare dalla contessa che non
    se  la  lasciava  sfuggire  dalle  mani.  Vennero  i  precettori,   le
    bambinaie,  Mìtenka,  alcuni  conoscenti,  e  ogni  volta  la contessa
    rileggeva la lettera  con  un  piacere  sempre  nuovo,  e  ogni  volta
    scopriva  in  essa  ignorate  virtù del suo Nikòluska.  Come le pareva
    strano,  come la rallegrava  il  pensiero  che  vent'anni  prima  ella
    avvertiva  muoversi  in lei con le piccole membra,  quel figlio per il
    quale ella bisticciava con il marito perché lo  viziava,  quel  figlio
    che  aveva imparato prima a dire "pera" e poi "donna",  come le pareva
    strano che quel figlio si trovasse ora lontano, in terra straniera, in
    un ambiente estraneo, e fosse un eroico guerriero, solo, senza guida e
    senza aiuto e agisse ormai da persona adulta. La universale,  secolare
    esperienza  che insegna come i figli,  con insensibile cammino,  dalla
    culla in poi diventino uomini,  non aveva valore per la  contessa.  La
    trasformazione  di quel bimbo in uomo,  passando a grado a grado per i
    vari periodi della crescita,  era per lei straordinario  come  se  mai
    milioni  e  milioni di esseri non fossero diventati uomini percorrendo
    la stessa strada.  E,  come vent'anni prima non poteva credere che  la
    minuscola  creatura che viveva in lei,  accanto al suo cuore,  avrebbe
    gridato, succhiato il suo latte e parlato, così ora non poteva credere
    che quella stessa creatura potesse essere diventata l'individuo  forte
    e coraggioso,  il modello di figlio e di uomo che era ora, a quanto si
    poteva giudicare da quella lettera.
    - E che stile!  Come scrive  bene!    -    diceva  leggendo  la  parte
    descrittiva  della  lettera.    -  E che animo!  Di sé non dice nulla,
    neppure una parola!  Parla invece di un certo Denissov;  eppure egli è
    senza  dubbio  il  più  coraggioso di tutti.  Non dice nulla delle sue
    sofferenze.  Che cuore!  Come lo riconosco!  E come si è ricordato  di
    tutti!  Non ha dimenticato nessuno...  Lo dicevo sempre,  sempre io...
    sin da quando era piccolino così...
    Per più di una settimana tutti in casa prepararono minute e  copiarono
    in  bella  copia  le  lettere per Nikòluska.  Per il vigile zelo della
    contessa e per cura del conte,  si raccolsero gli oggetti necessari  e
    il  denaro  occorrente  per  la  divisa e per tutto ciò di cui potesse
    avere bisogno  il  nuovo  ufficiale.  Anna  Michàjlovna,  donna  molto
    pratica, aveva saputo procurare per sé e per suo figlio una protezione
    speciale anche per quanto riguardava la corrispondenza.  Aveva modo di
    rispedire la sua posta al granduca Konstantìn Pàvlovic' che  comandava
    la  Guardia.  I  Rostòv  supponevano  che  l'indirizzo: "Guardia russa
    all'estero" fosse un indirizzo più  che  sufficiente  e  che,  se  una
    lettera  arrivava  al  granduca  comandante  della Guardia,  non c'era
    ragione perché non pervenisse anche al  reggimento  di  Pàvlograd  che
    doveva  trovarsi  lì  nelle  vicinanze.  Perciò  fu  deciso di mandare
    lettere e denaro per mezzo di un corriere,  a Borìs,  il quale avrebbe
    dovuto far recapitare tutto a Nikòluska.  Le lettere erano del vecchio
    conte,  della contessa,  di Pétja,  di Vera,  di Natascia,  di  Sònja,
    accompagnate  dai  seimila rubli per la divisa e da alcuni oggetti che
    il conte mandava a suo figlio.


    CAPITOLO 7.

    Il 12 di novembre l'esercito di Kutuzòv,  accampato presso Olmütz,  si
    preparava  a  essere passato in rivista,  il giorno seguente,  dai due
    imperatori: di Russia e di Austria.  La  Guardia,  non  appena  giunta
    dalla  Russia,  aveva trascorso la notte a quindici miglia da Olmütz e
    la mattina dopo,  alle dieci precise,  raggiunse direttamente il campo
    della rivista.
    Nikolàj  Rostòv  ricevette quel giorno un biglietto da Borìs,  con cui
    gli comunicava che il reggimento Izmajlovskij avrebbe passato la notte
    a quindici miglia da  Olmütz  e  che  lui,  Borìs,  lo  aspettava  per
    consegnargli una lettera e del denaro.  Il denaro, in particolare, era
    necessario a Rostòv ora che,  reduce  dalla  campagna  di  guerra,  le
    truppe  si  erano  fermate presso Olmütz dove i vivandieri e gli ebrei
    austriaci,  ben provvisti,  che gremivano il campo,  erano in grado di
    offrire  ogni  genere  di  tentazioni.  Al  reggimento di Pàvlograd si
    susseguivano banchetti per festeggiare le decorazioni e le  ricompense
    ottenute  sul  campo,  e  frequenti  viaggi  di  piacere a Olmütz,  da
    un'ungherese, una certa Karolina,  che,  giunta da poco,  aveva aperto
    una trattoria dove parecchie belle ragazze servivano i clienti. Rostòv
    aveva  recentemente  festeggiato  la  propria  promozione a ufficiale,
    aveva acquistato Beduino, il bel morello di Denissov,  ed era pieno di
    debiti con i compagni e i vivandieri.  Ricevuto il biglietto di Borìs,
    partì con un collega per Olmütz dove si trattenne a pranzare, bere una
    bottiglia  di  vino  e  poi,  a  cavallo,   si  avviò  da  solo  verso
    l'accampamento della Guardia a cercare il suo amico d'infanzia. Rostòv
    non era ancora riuscito a mutare uniforme: indossava una giubba un po'
    logora da alfiere con la croce di San Giorgio,  da soldato, un paio di
    pantaloni con il fondo di cuoio e portava una  sciabola  da  ufficiale
    con  la dragona.  Montava un cavallo del Don,  comperato da un cosacco
    durante  la  campagna;   e  il  berretto  ammaccato  da   ussaro   era
    spavaldamente   posato   sulle   ventitré.    Mentre   si   avvicinava
    all'accampamento del  reggimento  Izmajlovskij,  Rostòv  pensava  allo
    stupore di Borìs e di tutti gli altri suoi compagni della Guardia alla
    vista del suo aspetto marziale di ussaro che aveva combattuto.
    La  Guardia aveva partecipato a tutta la campagna di guerra come a una
    passeggiata militare, facendo sfoggio di eleganza e di disciplina.  Le
    marce  erano  state  brevi,  gli zaini venivano caricati sui carri e a
    ciascuna tappa le autorità austriache offrivano agli ufficiali  pranzi
    eccellenti.   I   reggimenti  entravano  nella  città  e  ne  uscivano
    accompagnati dalla banda e durante tutta la campagna (cosa di  cui  la
    Guardia andava orgogliosa), per ordine del granduca, i soldati avevano
    marciato  al  passo  e  gli ufficiali a piedi,  ai loro posti.  Borìs,
    durante tutta la campagna, aveva marciato e si era fermato insieme con
    Berg, ora già comandante di compagnia.  Berg,  avuto il comando di una
    compagnia  durante  la  campagna  per  la  sua  precisione  e  la  sua
    diligenza,  era riuscito a conquistarsi la fiducia dei  capi  e  aveva
    sistemato  molto  vantaggiosamente  i  suoi  affari dal punto di vista
    economico.  Borìs,  per parte sua,  aveva fatto molte  conoscenze  con
    persone  che  potevano  essergli  utili,  e  mediante  una  lettera di
    raccomandazione  di  Pierre,   aveva  conosciuto  il  principe  Andréj
    Bolkonskij,  con  l'aiuto del quale sperava di ottenere un posto nello
    stato maggiore del generalissimo.  Berg e Borìs,  vestiti con accurata
    eleganza, si riposavano, dopo la marcia del giorno avanti, nel lindo e
    ben  arredato  alloggio  che  era  stato loro assegnato,  seduti a una
    tavola rotonda, e giocavano a scacchi.  Berg fumava una lunga pipa che
    teneva  tra  le  ginocchia.  Borìs,  con  la  sua consueta precisione,
    ammucchiava a piramide,  con le bianche mani sottili,  i  pezzi  degli
    scacchi fuori gioco,  in attesa delle mosse di Berg,  e fissava il suo
    avversario,  evidentemente assorto nel gioco,  come  sempre,  pensando
    soltanto a ciò che lo teneva occupato in quel momento.
    - Ebbene, come ve la cavate?  -  disse Borìs.
    -  Faremo  il  possibile    -    rispose Berg,  toccando un pezzo,  ma
    ritirando poi, subito la mano.
    In quel momento la porta si aprì.
    - Ah, eccolo, finalmente!   -  gridò Rostòv.  -  E c'è anche Berg!  Ah
    tu,  "petì sanfàn,  allé cuscé dormir" (42)  -  esclamò,  ripetendo le
    parole della bambinaia di cui un tempo rideva con Borìs.
    - Santi benedetti,  come sei cambiato!   -  Borìs si alzò  per  andare
    incontro  a  Rostòv ma,  alzandosi,  non trascurò di mettere a posto i
    pezzi degli scacchi che  cadevano  e  fece  il  gesto  di  abbracciare
    l'amico, ma Nikolàj si tirò indietro. Con quel particolare senso della
    gioventù che teme le vie battute e vuole esprimere i propri sentimenti
    in  modo  nuovo,  personale  e  diverso  da come li esprimono,  spesso
    fingendo,  gli anziani,  Nikolàj voleva  fare  qualcosa  di  insolito,
    incontrando  l'amico:  voleva  dargli  un pizzicotto o uno spintone e,
    soprattutto, non abbracciarlo né baciarlo come facevano tutti.  Borìs,
    invece, calmo e affettuoso, abbracciò e baciò tre volte Rostòv.
    Erano  trascorsi  sei  mesi  da  quando  i  due giovani si erano visti
    l'ultima volta e,  poiché erano in  quel  periodo  in  cui  i  giovani
    compiono  i  primi  passi  nella  vita,  costatarono  l'uno nell'altro
    straordinarie trasformazioni: le tracce del  tutto  nuove  che  quegli
    ambienti,  nei  quali  avevano  percorso  quei primi passi della vita,
    avevano lasciato in loro.  Erano entrambi molto mutati dal loro ultimo
    incontro  e  fremevano  dal  desiderio  di  mostrarsi reciprocamente i
    mutamenti avvenuti.
    - Eh, voi, maledetti lucidatori di pavimenti! Freschi e puliti come di
    ritorno da una passeggiata...  altro che noi  poveracci...-    esclamò
    Rostòv  con una voce baritonale completamente nuova per Borìs,  mentre
    con baldanza soldatesca indicava i suoi calzoni sporchi di fango.
    Al vociare di Rostòv, la padrona di casa, una tedesca,  comparve sulla
    soglia.
    - Carina, eh?  -  disse Rostòv, strizzando un occhio.
    - Perché gridi tanto?  Vuoi spaventare tutti, tu...  -  osservò Borìs.
    -  Non ti aspettavo oggi  -  aggiunse.   -  Ieri soltanto t'ho mandato
    un  biglietto  per  mezzo  di un mio conoscente,  aiutante di campo di
    Kutuzòv,  Bolkonskij.  Non  credevo  che  te  lo  facesse  avere  così
    presto... Ebbene, come stai? Hai già avuto il battesimo del fuoco?
    Rostòv, senza rispondere, batté la mano sulla croce di San Giorgio, da
    soldato,  che  gli  pendeva da un cordone della giubba e,  mostrato il
    braccio fasciato, guardò Berg con un sorriso.
    - Come vedi...  -  disse.
    - Ah, così, dunque? Bene, bene  -  esclamò Borìs,  pure sorridendo.  -
    Anche  noi  abbiamo  fatto una bella campagna.  Tu sai che il principe
    ereditario è sempre venuto con  il  nostro  reggimento,  cosicché  noi
    abbiamo goduto di tutte le comodità e di tutti i vantaggi. In Polonia,
    pranzi,  feste,  ricevimenti,  balli  da non descriversi!  Il principe
    ereditario è stato molto affabile con tutti noi ufficiali.
    E i due amici si misero a raccontare,  uno le sue  orge  di  ussaro  e
    della  vita  di  accampamento,  l'altro  i  vantaggi e le comodità del
    servizio alle dipendenze di personaggi altolocati.
    - Ah,  si sa,  la Guardia!   -  esclamò Rostòv.   -  Suvvia,  manda  a
    prendere un po' di vino.
    Borìs aggrottò le sopracciglia.
    - Se proprio lo vuoi...  -  disse.
    E,  avviandosi  al  letto,  prese  di  sotto  ai  candidi guanciali il
    borsellino e ordinò che gli fosse portato il vino.
    - Ed eccoti il denaro e le lettere  -  aggiunse.
    Rostòv prese le lettere e,  buttato il  denaro  sul  divano,  puntò  i
    gomiti  sul  tavolo e cominciò a leggere.  Dopo poche righe,  gettò su
    Berg uno sguardo adirato. Incontrandone lo sguardo, Rostòv si coprì il
    viso con la lettera.
    - Però...  un bel po' di denaro vi hanno mandato   -    osservò  Berg,
    accennando   alla   pesante   borsa   che   era   affondata   un  poco
    nell'imbottitura del divano.
    - Noialtri,  conte,  dobbiamo accontentarci di  vivere  con  i  nostri
    stipendi. Quanto a lui, vi dirò...
    -  Sentite,  mio caro Berg,   -  disse Rostòv  -  quando riceverete da
    casa una lettera e vi troverete in compagnia  di  un  amico  al  quale
    vorrete rivolgere chissà quante domande,  e io mi troverò presente, me
    ne andrò subito,  per non disturbarvi.  Datemi retta,  andatevene  per
    favore da qualche parte... magari al diavolo!  -  gridò e subito dopo,
    afferratolo  per  le  spalle,   lo  guardò  affettuosamente,   volendo
    evidentemente addolcire la villania delle proprie parole  e  aggiunse:
    -  Sapete, eh, che non dovete prendervela a male... Mio caro, vi parlo
    a cuore aperto come a un nostro vecchio conoscente.
    - Ma figuratevi,  conte, capisco benissimo  -  disse Berg, alzandosi e
    parlando con voce gutturale.
    - Andate dai padroni di casa: vi hanno  invitato    -    lo  consigliò
    Borìs.
    Berg indossò una giubba pulita di fresco,  senza una macchiolina né un
    granello di polvere,  si pettinò davanti allo  specchio  sollevando  i
    capelli sulle tempie, come li portava l'imperatore Aleksàndr Pàvlovic'
    e,  persuaso  da  un'occhiata  di Rostòv che la sua giubba aveva fatto
    effetto, uscì dalla stanza con un affabile sorriso.
    - Oh, sono un vero animale  -  esclamò Rostòv, continuando a leggere.
    - Perché?  -  chiese Borìs.
    - Ah,  che porco sono io...  che non ho mai scritto alla mia famiglia,
    causando  loro  tanta  ansia!  Che porco!   -  rispose arrossendo.   -
    Suvvia, manda Gavrilo a prendere il vino! Beviamo dunque!
    Tra le lettere dei parenti ne era acclusa una di  raccomandazione  per
    il principe Bagratiòn,  che la vecchia contessa,  su consiglio di Anna
    Michàjlovna, si era procurata per mezzo di conoscenti e che mandava al
    figlio, pregandolo di consegnarla a destinazione e di trarne profitto.
    - Che sciocchezze!  Non ne ho  proprio  bisogno    -    disse  Rostòv,
    buttando la lettera sotto la tavola.
    - Perché la butti via?  -  chiese Borìs.
    - E' una lettera di raccomandazione: non so che farmene!
    -  Come,  non  sai  che  fartene di una lettera di raccomandazione?  -
    domandò Borìs.  -  Questa lettera ti sarà invece molto utile.
    - Non mi sarà utile un bel niente, e io non andrò a fare l'aiutante di
    nessuno.
    - E perché?  -  chiese Borìs.
    - E' una carica da lacché!
    - Vedo che sei sempre lo  stesso  sognatore...    -    replicò  Borìs,
    scuotendo la testa.
    - E tu lo stesso diplomatico. Ma parliamo d'altro. Come va, dunque?  -
    domandò Rostòv.
    -  Eh,  come  vedi...  Finora tutto è andato bene,  ma ti confesso che
    desidererei molto essere nominato aiutante di campo e non  restare  al
    fronte.
    - Perché?
    -  Perché quando si è avviati alla carriera militare,  bisogna cercare
    di percorrerla brillantemente, quanto più sia possibile.
    - Eh già!  -  disse Rostòv, evidentemente pensando ad altro.
    Egli fissava con uno sguardo interrogativo gli  occhi  dell'amico,  ed
    era chiaro che cercava invano la soluzione di un problema.
    Il vecchio Gavrilo portò il vino.
    - Non credi che ora sia il caso di mandare a chiamare Alfonse Karlyc'?
    -  chiese Borìs.  -  Egli berrà con te. Io non bevo.
    -  Sì,  sì,  chiamalo!  Ma  che tipo è questo tuo tedesco?   -  chiese
    Rostòv con un sorriso sprezzante.
    - E' un ottimo uomo, molto onesto e molto simpatico  -  rispose Borìs.
    Rostòv fissò di nuovo l'amico negli occhi e sospirò.  Berg  ritornò  e
    attorno  alla  bottiglia di vino la conversazione dei tre ufficiali si
    animò.  I due della Guardia ripresero a descrivere a  Rostòv  le  loro
    marce e le feste che erano state loro offerte in Russia,  in Polonia e
    all'estero. Riferirono parole e atti del loro comandante, il granduca,
    raccontarono aneddoti relativi alla  sua  bontà  e  al  suo  carattere
    focoso. Berg, secondo la sua abitudine, taceva quando la conversazione
    non  lo  riguardava personalmente ma,  a proposito della bontà e della
    focosità del granduca,  narrò con vero piacere come in  Galizia  fosse
    riuscito  a  parlargli  di  persona  mentre ispezionava i reggimenti e
    montava su tutte le furie per i movimenti irregolari delle truppe. Con
    un simpatico sorriso sulle labbra raccontò come il granduca,  preso da
    un  accesso  di  collera,  gli  si fosse avvicinato gridando "Arnauti!
    (43)" (Arnauti era l'espressione  preferita  del  principe  ereditario
    quando  era  in  preda  alla collera) e subito aveva fatto chiamare il
    comandante della compagnia.
    - Lo credete,  conte?  Non mi spaventai affatto perché sapevo di  aver
    ragione.  Vedete,  conte,  posso  dire,  senza  vantarmi,  di sapere a
    memoria tutti gli ordini  del  giorno  del  reggimento  e  conosco  il
    regolamento come il "Pater noster".  Perciò,  conte,  la mia compagnia
    non è mai trascurata e io avevo quindi  la  coscienza  tranquilla.  Mi
    presentai  -  Berg si alzò e mostrò come si era presentato con la mano
    alla visiera. (In realtà sarebbe stato difficile esprimere con il viso
    un maggior rispetto e un maggior compiacimento per se stesso).   -  Mi
    sollevò di peso,  come si suole dire,  e mi diede una di quelle lavate
    di  testa  che non so descrivere,  urlando: "Arnauti!  Al diavolo!  In
    Siberia!"  -  continuava Berg,  sorridendo maliziosamente.   -  Sapevo
    di aver ragione e perciò stavo muto come un pesce;  non è vero, conte?
    "Ehi,  hai perso la lingua?" urla il granduca.  E io ancora zitto.  Lo
    credereste,  conte?  Il  giorno dopo,  sull'ordine del giorno,  nessun
    accenno alla faccenda.  Ecco ciò che significa non perdere  la  testa!
    Proprio così, conte  -  concluse Berg, riprendendo la pipa e lanciando
    in aria cerchietti di fumo.
    - Sì, sì... giustissimo  -  disse Rostòv, sorridendo.
    Ma  Borìs,  notando  che  Rostòv aveva intenzione di burlarsi di Berg,
    fece volutamente prendere alla conversazione una piega diversa.  Pregò
    Rostòv  di  raccontare  come  e dove era stato ferito.  Rostòv gradiva
    l'argomento e perciò prese a raccontare,  animandosi sempre più a mano
    a mano che la narrazione procedeva.  Descrisse ai due amici lo scontro
    di Schöngraben,  proprio come di solito raccontano  di  una  battaglia
    coloro  che  vi  hanno partecipato,  ossia come avrebbero voluto che i
    fatti si fossero svolti, come ne hanno sentito parlare da altri,  come
    risulta  più  interessante,  ma  trascurando  completamente la realtà.
    Rostòv era un giovane onesto e leale, che a nessun costo avrebbe detto
    volutamente una bugia.  Cominciò il suo racconto con  l'intenzione  di
    narrare  le  cose  com'erano  avvenute veramente ma,  senza rendersene
    conto,  si mise suo malgrado a inventare.  Se avesse narrato  la  pura
    verità a quegli ascoltatori che,  proprio come lui stesso, avevano già
    sentito parecchie volte la descrizione di una carica di  cavalleria  e
    già  ne  avevano  un'idea  chiara  e  precisa,  aspettavano  quindi un
    racconto che vi corrispondesse, o essi non gli avrebbero prestato fede
    o,  il che era peggio,  avrebbero pensato fosse colpa di Rostòv se non
    gli  era  accaduto  ciò che suole generalmente accadere a chi racconta
    una  carica  di  cavalleria.   Egli   non   poteva   raccontare   così
    semplicemente che, mentre tutta la squadra si era lanciata al galoppo,
    lui  era  caduto da cavallo,  slogandosi un braccio e che,  con quanta
    forza aveva in corpo,  era  fuggito  nel  bosco  per  salvarsi  da  un
    francese.  Inoltre  per  raccontare  le  cose  semplicemente com'erano
    accadute,  occorreva un grande sforzo su di sé: dire la verità è molto
    difficile  e  avviene  di  rado  che i giovani ne siano capaci.  I due
    ascoltatori,  del resto,  si aspettavano che descrivesse come si fosse
    lanciato furente nella battaglia,  che raccontasse come,  dimentico di
    sé,  fosse piombato  nel  quadrato  nemico,  facendosi  largo  con  lo
    sferrare  fendenti a destra e a sinistra,  come la sua sciabola avesse
    lacerato la carne  dell'avversario  e  come  infine,  spossato,  fosse
    ruzzolato  a  terra...  e  cose  simili.  Ed  egli raccontò loro tutto
    questo.
    A metà del racconto,  mentre diceva: "Tu  non  puoi  immaginare  quale
    sentimento  strano  di  furore si provi al momento dell'assalto" entrò
    nella stanza il principe Andréj  Bolkonskij.  Il  principe,  al  quale
    piaceva  sostenere  la parte di protettore dei giovani,  lusingato dal
    fatto che si ricercasse la sua protezione, e ben disposto verso Borìs,
    il quale il giorno innanzi aveva saputo acquistarsi la  sua  simpatia,
    desiderava  appagare  il  desiderio del giovane.  Mandato da Kutuzòv a
    portare certi documenti al granduca ereditario,  egli era  venuto  dal
    giovane  ufficiale  sperando di trovarlo solo.  Entrato nella stanza e
    vedendo quell'ussaro che raccontava avventure di guerra (una specie di
    uomini  che  il  principe  Andréj  non  poteva  sopportare),   sorrise
    amichevolmente  a  Borìs,  aggrottò  le  sopracciglia socchiudendo gli
    occhi nel guardare  Rostòv  e,  dopo  essersi  inchinato  leggermente,
    sedette  con  aria  stanca  e  indolente sul divano.  Era visibilmente
    contrariato per essere capitato in una cattiva  compagnia.  Rostòv  lo
    comprese e si fece di brace.  Ma, in fondo, non gliene importava nulla
    giacché si trattava di una persona estranea. Ma poi,  guardando Borìs,
    vide  che  egli  pure  pareva  vergognarsi di quel suo ussaro di prima
    linea.  Nonostante il tono sgradevole e ironico del  principe  Andréj,
    nonostante  il  generico  disprezzo  che,  dal  suo  punto di vista di
    combattente, egli nutriva per tutti gli aiutanti di stato maggiore, ai
    quali evidentemente apparteneva  il  nuovo  venuto,  Rostòv  si  sentì
    imbarazzato,  arrossì e tacque. Borìs domandò quali notizie ci fossero
    allo stato maggiore e che cosa si  dicesse,  se  la  domanda  non  era
    indiscreta, dei nostri piani.
    - Probabilmente si andrà avanti  -  rispose Bolkonskij,  che certo non
    voleva dire di più in presenza di estranei.
    Berg approfittò dell'occasione per informarsi, in modo particolarmente
    cortese,  se,  come si era sentito dire,  i  comandanti  di  compagnia
    avrebbero  avuto  d'ora  innanzi  una  doppia indennità di foraggi.  A
    questa domanda il principe Andréj  rispose  con  un  sorriso  che  non
    poteva parlare di una così importante questione di stato,  e Berg rise
    allegramente.
    -  Per  quanto  vi  riguarda    -    disse  poi  il  principe  Andréj,
    rivolgendosi  a Borìs  -  parleremo più tardi  -  e guardò Rostòv.   -
    Venite da me dopo la rivista e faremo tutto il possibile.
    Dopo aver dato un'occhiata  alla  stanza,  si  volse  a  Rostòv  senza
    degnarsi  di  notare  l'imbarazzo  infantile  e invincibile da cui era
    dominato, che stava trasformandosi in collera, e gli domandò:
    - Se non erro,  voi stavate parlando  dello  scontro  di  Schöngraben:
    c'eravate?
    -  Sì,  c'ero  -  rispose Rostòv con ira,  quasi volesse con quel tono
    offendere l'aiutante.
    Bolkonskij notò lo stato d'animo dell'ussaro e gli parve divertente. E
    sorrise con un po' di disprezzo.
    - Già, ora su quello scontro si fanno molti racconti.
    - Sì, le versioni sono molte  -  disse Rostòv ad alta voce,  guardando
    alternativamente  Borìs  e Bolkonskij con gli occhi fiammeggianti.   -
    Sì,  le versioni sono molte...  ma i nostri racconti,  i  racconti  di
    coloro  che  si  sono  trovati sotto il fuoco nemico,  hanno veramente
    peso,  un peso ben diverso da quello che hanno  i  racconti  di  certi
    bellimbusti  dello  stato maggiore che ricevono delle ricompense senza
    far nulla!
    - E ai quali supponete che io appartenga?   -    domandò  il  principe
    Andréj, con un sorriso calmo e particolarmente gentile.
    Un  sentimento  strano di collera e nello stesso tempo di rispetto per
    la tranquillità di quell'uomo cominciò a  manifestarsi  nell'animo  di
    Rostòv.
    - Non parlo di voi  -  disse egli.   -  Non vi conosco e, lo confesso,
    non desidero conoscervi.  Parlo degli ufficiali dello stato  maggiore,
    in genere.
    -  Ed  ecco  che  cosa  vi  dico    -    lo interruppe in tono calmo e
    autorevole il principe Andréj.   -  Voi volete offendermi,  e io  sono
    pronto  ad  ammettere  che la cosa è facilissima,  qualora non abbiate
    sufficiente rispetto per voi stesso;  ma dovete ammettere che il luogo
    e  il momento sono scelti male.  Fra pochi giorni ci troveremo tutti a
    un grande duello, molto più serio: e oltre a ciò Drubetzkòj,  che dice
    di  essere un vostro vecchio amico,  non è affatto colpevole se la mia
    fisionomia ha la sfortuna di non piacervi.  A ogni modo  -   soggiunse
    alzandosi    -    sapete  il  mio nome e sapete dove trovarmi;  ma non
    dimenticate che io non considero affatto offeso né voi né me, e il mio
    consiglio di uomo più attempato è quello di non dare alcun  seguito  a
    questa  questione.  Dunque,  Drubetzkòj,  vi  aspetto  venerdì dopo la
    rivista.  Arrivederci  -  concluse il principe Andréj,  e uscì con  un
    cenno di saluto ai due giovani.
    Soltanto allorché il principe si fu allontanato, Rostòv pensò a quello
    che avrebbe dovuto rispondergli e si irritò ancora di più per non aver
    detto nulla.  Ordinò che gli fosse subito condotto il suo cavallo,  si
    accomiatò senza alcuna cordialità da Borìs e se ne  andò.  Recarsi  il
    mattino  seguente al quartier generale e sfidare a duello quel borioso
    aiutante,  oppure lasciar perdere tutto?  Questo problema lo  tormentò
    durante tutto il percorso del ritorno.  Ora pensava con ira al piacere
    che avrebbe provato nel vedere la paura di quell'uomo piccolo,  debole
    e orgoglioso davanti alla sua pistola,  ora invece sentiva con stupore
    che,  tra tutti gli uomini  che  conosceva,  quello  che  più  avrebbe
    desiderato avere come amico era appunto quel piccolo aiutante di campo
    che gli era tanto odioso...


    CAPITOLO 8.

    Il  giorno  dopo  l'incontro di Borìs con Rostòv ebbe luogo la rivista
    delle truppe austriache e russe, sia di quelle fresche,  appena giunte
    dalla Russia, sia di quelle che erano tornate dalla campagna di guerra
    di Kutuzòv.  I due imperatori, quello russo con il granduca ereditario
    e quello austriaco con l'arciduca,  passarono  in  rivista  l'esercito
    alleato, forte di ottantamila uomini.
    Sin  dalle  prime  ore  del  mattino  le  truppe,  in divisa perfetta,
    cominciarono a muoversi e ad  allinearsi  sul  campo  prospiciente  la
    fortezza.  Ora  si  muovevano  migliaia  di  piedi,  di baionette,  di
    bandiere sventolanti, che,  al comando degli ufficiali,  si fermavano,
    si  giravano,  occupavano  gli spazi vuoti,  lasciandosi sorpassare da
    altre masse di fanteria con divise diverse; ora l'elegante cavalleria,
    in uniformi rosse, azzurre, verdi ricamate, passava con uno scalpitare
    e un tintinnare cadenzato, preceduta dalla banda,  su cavalli morelli,
    bai,  grigi;  ora allineandosi in una lunga fila al suono metallico di
    cannoni  sobbalzanti  sui   loro   affusti   lucidi   e   scintillanti
    accompagnata dall'odore delle micce,  avanzava lenta,  tra i fanti e i
    cavalieri,  l'artiglieria e andava a occupare i  posti  che  le  erano
    riservati. Non soltanto i generali in divisa da parata, corpo grasso o
    magro  serrato  alla  vita  sino  all'impossibile,  con  i colli rossi
    stretti dal colletto,  in sciarpa  e  decorazioni;  non  soltanto  gli
    ufficiali,  eleganti  e  impomatati,  ma  ogni soldato,  con la faccia
    fresca ben lavata e ben rasata, con la divisa spazzolata sino a essere
    lucida, e ogni cavallo, strigliato e lustro come seta, con la criniera
    lisciata e pettinata; tutti sentivano che qualcosa di molto importante
    e molto solenne stava per avvenire. Ciascun generale e ciascun soldato
    avvertiva la propria nullità,  si sentiva un granello  di  polvere  in
    quel  mare  umano,  e nello stesso tempo aveva coscienza della propria
    forza come parte di quell'enorme tutto.
    Sin dall'alba erano cominciati  i  preparativi  pieni  di  zelo  e  di
    fervore e alle dieci tutto era nell'ordine prescritto. Le truppe erano
    allineate  su  un immenso campo.  Tutto l'esercito era disposto su tre
    file: davanti la cavalleria,  poi l'artiglieria e,  più  indietro,  la
    fanteria.
    Tra  un  piano  e  l'altro  si  apriva  come una strada.  Le tre parti
    dell'esercito erano nettamente separate l'una dall'altra: le truppe di
    Kutuzòv (tra le quali in prima linea,  sul  fianco  destro,  stava  il
    reggimento  di Pàvlograd),  i reggimenti dell'esercito e della Guardia
    venuti dalla Russia e l'esercito austriaco.  Ma tutti  erano  ordinati
    lungo una sola linea, sotto un unico comando.
    Come  il  vento  tra  le foglie,  passò un fruscio inquieto: "Vengono,
    vengono!".  Si udirono voci sgomente,  e l'inquietudine  degli  ultimi
    preparativi passò come una ondata attraverso le truppe.
    Dalla  parte  di Olmütz comparve un gruppo di cavalieri che avanzava e
    nello stesso momento,  benché l'aria fosse calma,  una leggera  brezza
    percorse le schiere,  agitando appena le bandierine delle lance,  e le
    bandiere spiegate fremettero attorno alle aste.  Pareva che quel lieve
    sventolio  esprimesse  la  gioia di tutto l'esercito per l'avvicinarsi
    dei due sovrani. Una voce si levò: "Attenti!". Questo comando, come il
    canto del gallo all'alba,  fu ripetuto da altre voci,  qua e  là.  Poi
    tutto tacque.
    In  quel  silenzio  di  morte  non  si udiva più che uno scalpitare di
    cavalli: era il seguito degli imperatori.  I sovrani cavalcarono verso
    il  fianco  dello  schieramento,  e  le trombe del primo reggimento di
    cavalleria lanciarono nell'aria le loro note squillanti.  Sembrava che
    non soltanto i trombettieri,  ma tutto l'esercito emettesse quei suoni
    di giubilo, rallegrandosi dell'avvicinarsi dei due sovrani.
    Attraverso quelle note si udì,  sola e distinta,  la carezzevole  voce
    giovanile  dell'imperatore Aleksàndr.  Egli pronunziò il saluto,  e il
    primo reggimento rispose con un formidabile "Urrà!" così potente, così
    gioioso e prolungato che gli uomini stessi rimasero come sgomenti  per
    il loro numero e per la forza dell'enorme massa che essi costituivano.
    Rostòv,  fermo  nella prima fila dell'esercito di Kutuzòv  -  la prima
    schiera a cui l'imperatore si era avvicinato  -    provava  lo  stesso
    sentimento  che  provava ciascun uomo di quell'esercito: l'oblio di se
    stesso,   la  coscienza  orgogliosa  della  forza  e   dell'entusiasmo
    appassionato per colui che era il centro di quel trionfo.  Sentiva che
    una parola di quell'uomo sarebbe bastata perché tutta quella massa  (e
    anche  lui,  insignificante  granello che ne faceva parte) si buttasse
    nel fuoco o nell'acqua, pronto al delitto, alla morte o al più sublime
    eroismo...  e perciò egli non poteva fare  a  meno  di  fremere  e  di
    sentirsi  venir  meno il cuore alla vista di colui che si avvicinava e
    che avrebbe potuto dire quella parola.
    - Urrà! Urrà! Urrà!  -  si gridava da tutte le parti,  e un reggimento
    dopo  l'altro  accoglieva l'imperatore al suono delle trombe;  poi gli
    "urrà" si  alternavano  agli  squilli  festosi  che,  rinforzandosi  e
    crescendo di continuo, si fondevano in un rombo assordante.
    Sino a che il sovrano non si era avvicinato,  ogni reggimento,  muto e
    immobile,  pareva un corpo senza vita;  ma non appena l'imperatore gli
    stava innanzi,  il reggimento si animava e rumoreggiava, unendo i suoi
    clamori a quelli di tutta la linea già passata in  rivista.  Al  rombo
    assordante e terribile di tutte quelle voci, tra le masse degli uomini
    immobili,   come  impietriti  nei  loro  quadrati,   si  movevano  con
    noncurante ma ordinata simmetria e, soprattutto, con disinvoltura,  le
    centinaia  di  cavalieri  del  séguito  precedute da due uomini: i due
    imperatori.  Su di  loro  era  concentrata  l'appassionata,  contenuta
    attenzione di quella massa di soldati.
    L'imperatore Aleksàndr,  giovane e bello nell'uniforme della Guardia a
    cavallo, con tricorno messo un po' di traverso,  con il viso simpatico
    e la voce non robusta ma sonora, aveva una grande forza di attrazione.
    Rostòv era vicino ai trombettieri e di lontano,  grazie alla sua vista
    acuta,  aveva riconosciuto l'imperatore e  ne  seguiva  l'avvicinarsi.
    Quando  il  sovrano  fu  a  una distanza di venti passi e Nikolàj poté
    distinguere chiaramente, in ogni particolare,  il bel viso giovanile e
    felice  dell'imperatore,  provò  un senso di tenerezza e di entusiasmo
    che non aveva provato  mai.  Tutto,  nel  sovrano,  ogni  gesto,  ogni
    lineamento, gli pareva affascinante.
    Fermatosi davanti al reggimento di Pàvlograd, lo zar disse qualcosa in
    francese  all'imperatore  d'Austria  e  sorrise.  Alla  vista  di quel
    sorriso,  anche Rostòv cominciò involontariamente  a  sorridere  e  si
    sentì  animato  da  un  amore sempre più grande per il suo imperatore.
    Avrebbe voluto manifestarglielo in qualche modo, ma sapeva che ciò era
    impossibile e gli veniva voglia di piangere.  Lo zar chiamò  a  sé  il
    comandante del reggimento e gli disse alcune parole.
    "Mio  Dio,  che  cosa  accadrebbe  se il sovrano mi parlasse?" pensava
    Rostòv. "Morirei di gioia...!".
    L'imperatore si volse anche agli ufficiali:
    - Signori,   -  disse,  e ogni parola pareva a Rostòv una  parola  che
    scendesse  nel suo animo dal cielo  -  vi ringrazio tutti con tutto il
    cuore!
    Come sarebbe stato felice Rostòv se  in  quel  momento  avesse  potuto
    morire per il suo zar!
    -  Voi  avete  meritato  le bandiere dell'Ordine di San Giorgio,  e ne
    sarete degni!
    "Oh, poter morire, morire per lui!", pensava Rostòv.  Il sovrano disse
    ancora  qualche altra cosa che a Rostòv sfuggì,  e i soldati con tutta
    la forza dei loro polmoni gridarono: "Urrà!".
    Anche Rostòv, curvandosi sulla sella, gridò con forza,  desiderando di
    farsi  persino  male  gridando,  pur  di  poter esprimere tutto il suo
    entusiasmo per il sovrano.
    L'imperatore rimase ancora qualche secondo fermo davanti agli  ussari,
    come indeciso.
    "Come  può  l'imperatore essere indeciso?",  si chiese Rostòv,  ma poi
    anche quell'atteggiamento incerto  gli  parve  grandioso  e  pieno  di
    fascino, come qualsiasi altra cosa l'imperatore facesse.
    L'incertezza   del   sovrano  non  durò  che  un  istante.   Il  piede
    dell'imperatore toccò con la punta aguzza e stretta dello stivale    -
    secondo la moda del tempo  -  la sua cavalla baia di razza inglese; la
    mano chiusa nel guanto bianco raccolse le redini, ed egli passò oltre,
    seguito dall'onda agitata dei suoi aiutanti.  Si allontanava sempre di
    più,  si fermava davanti ad altri reggimenti e  in  breve  Rostòv  non
    riuscì più a vedere che il pennacchio bianco attraverso la folla degli
    ufficiali del séguito che circondava l'imperatore.
    Tra gli ufficiali del séguito Rostòv aveva notato anche Bolkonskij che
    cavalcava  con indolente trascuratezza.  Si ricordò del battibecco che
    aveva avuto con lui il giorno innanzi e si domandò ancora se dovesse o
    non dovesse sfidarlo. "Certamente no" pensò questa volta Rostòv. "Vale
    forse la pena pensare a cose simili in un momento come questo?  In  un
    momento di amore,  di entusiasmo,  di abnegazione,  che valore possono
    avere i nostri litigi e i nostri risentimenti? Io voglio bene a tutti,
    ora, e perdono tutti!".
    Quando l'imperatore ebbe passato in rivista quasi tutti i  reggimenti,
    le  truppe  cominciarono a sfilare in parata davanti a lui;  e Rostòv,
    sul suo Beduino recentemente comperato da Denissov passò  in  coda  al
    suo  squadrone in modo da trovarsi isolato e perfettamente visibile al
    sovrano.
    Prima di giungergli davanti,  Rostòv,  da cavaliere esperto spronò due
    volte  Beduino  e  lo mise felicemente a quel trotto focoso e marziale
    che Beduino prendeva quando si scaldava.  Piegando sul petto  il  muso
    bianco  di  schiuma,  tenendo ritta la coda e quasi volando per l'aria
    senza toccare terra,  sollevando alte e con grazia le  zampe,  Beduino
    passò in modo stupendo, come se anch'esso sentisse su di sé lo sguardo
    del  sovrano.  Rostòv  stesso,  le  gambe  all'indietro,  il ventre in
    dentro,  sentendosi un  tutto  unico  con  il  cavallo,  con  il  viso
    aggrottato ma raggiante,  "alla diavola",  come diceva Denissov, passò
    davanti allo zar.
    - Bravi gli ussari di Pàvlograd!  -  esclamò il sovrano.
    "Mio Dio,  come sarei felice se egli mi ordinasse in questo momento di
    gettarmi nel fuoco!", pensò Rostòv.
    Quando  la  rivista  fu  terminata,  gli  ufficiali,  quelli venuti di
    recente e quelli di Kutuzòv,  si riunirono in gruppi  e  si  misero  a
    parlare delle ricompense, degli Austriaci e delle loro uniformi, dello
    schieramento  del  Bonaparte  e  della  difficile condizione in cui si
    sarebbe trovato ora,  specialmente quando fosse giunto anche il  corpo
    d'armata di Essen, e la Prussia si fosse alleata a noi.
    Ma   nei   diversi   gruppi  si  parlava  soprattutto  dell'imperatore
    Aleksàndr, si ripetevano le sue parole, i suoi gesti, e tutti ne erano
    entusiasti.
    Un unico desiderio era nell'animo  di  ognuno:  il  desiderio  di  non
    indugiare  a  marciare contro il nemico sotto il comando di Aleksàndr.
    Agli ordini di un simile capo sarebbe stato impossibile non  riportare
    la  vittoria,  qualunque  fosse l'avversario.  Così,  dopo la rivista,
    pensavano Rostòv e la maggior parte degli ufficiali.
    E tutti,  in quel momento,  erano certi di vincere,  più certi che  se
    avessero già sbaragliato il nemico in due grandi battaglie.


    CAPITOLO 9.

    Il  giorno  successivo a quello della rivista Borìs,  indossata la sua
    divisa più bella e accompagnato dagli auguri di successo del suo amico
    Berg, si recò ad Olmütz,  da Bolkonskij,  per approfittare delle buone
    intenzioni   di   lui  e  procurarsi  una  posizione  migliore  e  più
    desiderabile di tutte,  quella di aiutante di campo di un  personaggio
    importante, che, nell'esercito, gli pareva la migliore. "E' facile per
    Rostòv al quale il padre manda decine di migliaia di rubli",  pensava,
    "affermare di non voler fare il lacché di nessuno;  ma io,  che non ho
    nulla,  all'infuori della mia testa,  devo pensare alla carriera e non
    posso lasciarmi sfuggire, senza approfittarne, una buona occasione!".
    A Olmütz, quel giorno, non trovò il principe Andréj, ma la vista della
    città che ospitava il quartier generale,  il Corpo diplomatico e  dove
    abitavano  i  due  imperatori  con  i  loro seguiti,  i cortigiani e i
    dignitari,  accrebbe in lui il desiderio di appartenere a  quel  mondo
    superiore.
    Egli  non  conosceva  nessuno  e,  nonostante la sua elegante uniforme
    della Guardia,  tutte quelle persone altolocate che passavano  per  le
    strade  in  lussuose  carrozze,  con  pennacchi  nastri e decorazioni,
    militari o cortigiani, parevano essere così smisuratamente al di sopra
    di lui,  ufficialetto della Guardia,  da  non  potere  neppure  volere
    ammettere la sua esistenza. Nella residenza del generalissimo Kutuzòv,
    dove  si  recò  a cercare Bolkonskij,  tutti gli aiutanti di campo,  e
    persino le ordinanze,  lo guardarono come se volessero  fargli  capire
    che  di ufficiali come lui ne venivano moltissimi ma che ormai avevano
    annoiato tutti.  Nonostante ciò o,  piuttosto,  a cagione di  ciò,  il
    giorno seguente,  il 15,  egli ritornò a Olmütz e, recatosi nella casa
    abitata da Kutuzòv,  chiese di Bolkonskij.  Il principe Andréj era  in
    casa  e Borìs venne introdotto in una vasta sala dove probabilmente in
    altri tempi si ballava e dove  ora  si  trovavano  cinque  letti,  dei
    mobili  disparati,  una  tavola,  delle  sedie,  un  clavicembalo.  Un
    aiutante di campo,  in veste da camera persiana,  sedeva a un  tavolo,
    accanto  alla  porta,   e  scriveva.  Un  altro,  il  rosso  e  grasso
    Nesvitzkij,  era sdraiato su di un letto con le mani sotto la testa  e
    rideva  con  un  ufficiale che gli sedeva accanto.  Un terzo sonava al
    clavicembalo un valzer viennese,  un  altro  ancora,  appoggiato  allo
    strumento,  cantava.  Bolkonskij non c'era. Nessuno di questi signori,
    al vedere Borìs, mutò posizione.  Quello che scriveva e al quale Borìs
    si era rivolto,  voltandosi sgarbatamente gli disse che Bolkonskij era
    di servizio e che,  se aveva bisogno di vederlo,  doveva andare  nella
    sala  d'attesa,  passando quella porta che era lì,  a sinistra.  Borìs
    ringraziò e si recò in sala d'aspetto dove già si trovavano una decina
    di ufficiali e alcuni generali.
    Nel momento in cui Borìs entrava,  il principe Andréj,  con gli  occhi
    sprezzantemente   socchiusi  (aveva  quell'espressione  di  stanchezza
    cortese che dice chiaramente: se non  fosse  un  dovere  non  perderei
    neppure  un minuto a discorrere con voi) ascoltava un vecchio generale
    russo decorato, dal viso di un rosso acceso che,  rigido e con aria di
    ossequio servile e militaresco, gli comunicava qualcosa.
    -  Bene:  favorite  attendere   -  disse in russo al generale,  ma con
    quella pronunzia francese con cui soleva parlare quando voleva  essere
    sprezzante e, avendo visto Borìs, senza più badare al vecchio generale
    che  gli  correva dietro pregandolo di ascoltarlo ancora,  gli fece un
    cenno con il capo e andò verso di lui con un lieto sorriso.
    In quel momento Borìs capì chiaramente quello che aveva già sospettato
    da un pezzo,  ossia che nell'esercito,  oltre alla disciplina  e  alle
    norme  di  subordinazione  scritte  dal  regolamento,   che  tutto  il
    reggimento e anche lui conoscevano,  esistevano altre e più importanti
    norme  di  subordinazione,  quelle che ora costringevano quel generale
    impettito, dal viso paonazzo, ad aspettare rispettosamente,  mentre il
    capitano  principe  Andréj trovava più comodo per sé intrattenersi con
    il sottotenente Drubetzkòj.  E Borìs decise più fermamente che mai  di
    prestare  d'ora  innanzi  il  suo  servizio  non secondo la disciplina
    scritta sui regolamenti,  ma secondo le leggi di questa subordinazione
    non scritta. Sentiva che il solo fatto di essere stato raccomandato al
    principe Andréj lo rendeva superiore a un generale il quale,  in altre
    circostanze,  al  fronte,  avrebbe  potuto  annientare  lui,  semplice
    sottotenente  della Guardia.  Il principe Andréj gli si avvicinò e gli
    porse la mano.
    - Mi dispiace molto che ieri non mi abbiate  trovato...  Ho  trascorso
    tutta  la  giornata  in  compagnia  dei  Tedeschi.  Siamo  andati  con
    Weirother a verificare l'ordine di operazione.  Quando i  Tedeschi  si
    mettono a essere pignoli, non la finiscono più!
    Borìs  sorrise,  come se capisse ciò a cui il principe aveva accennato
    come cosa comunemente nota,  mentre era la prima volta  che  udiva  il
    nome di Weirother e anche le parole "ordine di operazione".
    - Dunque,  mio caro, vi sta sempre a cuore di essere nominato aiutante
    di campo? Ho pensato a voi in questo tempo.
    - Sì  -  disse Borìs, chissà perché, arrossendo.   -  Avrei intenzione
    di  rivolgermi al generalissimo,  al quale ha scritto in mio favore il
    principe Kuragin.  Vorrei pregarlo per avere quel posto,   -  aggiunse
    quasi  per scusarsi  -  perché temo che la Guardia non sia destinata a
    partecipare ai combattimenti.
    - Bene, bene... parleremo di tutto  -  rispose il principe Andréj.   -
    Lasciatemi soltanto annunziare questo signore e sono subito da voi.
    Mentre  il  principe  Andréj andava ad annunziare il generale dal viso
    paonazzo, questi che evidentemente non condivideva i punti di vista di
    Borìs sui vantaggi della  disciplina  non  scritta,  lanciò  una  tale
    occhiata  a quell'audace sottotenente che gli aveva impedito di finire
    il suo discorso con l'aiutante che Borìs si sentì  imbarazzato.  Volse
    il capo e aspettò con impazienza che il principe Andréj ritornasse dal
    gabinetto del generalissimo.
    - Ecco, mio caro, che cosa avrei pensato per voi  -  disse il principe
    Andréj   quando   furono   ritornati  nella  grande  sala  dov'era  il
    clavicembalo.  -  E' inutile che vi presentiate al generalissimo: egli
    sarebbe molto cortese con voi,  vi inviterebbe a pranzo,   -  ("questo
    non  sarebbe  poi  tanto  male per quella tale subordinazione",  pensò
    Borìs)  -  ma non otterreste alcun  altro  risultato.  Di  aiutanti  e
    ufficiali d'ordinanza ce ne sarà tra poco un battaglione.  Ecco invece
    cosa  faremo:  ho  un  buon  amico,  il  generale  aiutante  di  campo
    dell'imperatore, il principe Dolgorukov (44), che è un'ottima persona.
    Quantunque non lo sappiate,  il fatto si è che adesso Kutuzòv,  il suo
    stato maggiore e noi tutti non contiamo un  bel  niente;  tutto  si  è
    concentrato  nell'imperatore.  Noi  andremo dunque da Dolgorukov,  dal
    quale devo per l'appunto passare.  Gli ho già parlato di voi e vedremo
    se  gli  sarà  possibile trovarvi una sistemazione presso di sé oppure
    qualche posto... più vicino al sole.
    Il principe Andréj si animava sempre in modo  particolare  quando  gli
    capitava  di  guidare  un  giovane e di aiutarlo ad avere successo nel
    mondo.  Sotto il pretesto dell'aiuto da offrire a un altro,  aiuto che
    per orgoglio non avrebbe mai accettato per sé,  egli veniva a trovarsi
    in quegli ambienti che procuravano il successo e  che  lo  attiravano.
    Con molto piacere,  quindi,  si interessava di Borìs e con lui si recò
    dal principe Dolgorukov.
    Era già sera avanzata quando varcarono la soglia del palazzo  occupato
    dagli imperatori e dai loro seguiti.
    In  quello  stesso  giorno  si  era  tenuta  una  seduta del Consiglio
    superiore di guerra,  alla quale avevano assistito tutti i membri  del
    Consiglio stesso e i due sovrani.  In quella seduta, contrariamente al
    parere degli anziani generali  -  Kutuzòv e il principe  Schwarzenberg
    (45)    -    si era deciso di prendere immediatamente l'offensiva e di
    dare al Bonaparte battaglia  campale.  La  seduta  era  appena  finita
    quando il principe Andréj,  accompagnato da Borìs,  entrò nel palazzo,
    chiedendo del principe Dolgorukov.  Tutti i personaggi  del  quartiere
    generale  si  trovavano  ancora  in  grande agitazione per la vittoria
    riportata quel giorno in Consiglio dal partito dei  giovani.  Le  voci
    dei  temporeggiatori,  che  avevano  consigliato  di  aspettare ancora
    qualche avvenimento prima di iniziare l'offensiva,  erano  state  così
    unanimemente  soffocate  e  le  loro obiezioni respinte con prove così
    evidenti circa i vantaggi di un'offensiva immediata,  che  l'argomento
    di  cui si era trattato in Consiglio  -  quello della futura battaglia
    e della vittoria considerata come certissima  -  sembravano non essere
    nel futuro,  ma appartenere ormai al passato.  Tutti i vantaggi  erano
    per noi: forze immense che senza dubbio superavano quelle di Napoleone
    si trovavano concentrate in un unico punto;  le truppe, eccitate dalla
    presenza dei sovrani,  si  mostravano  impazienti  di  combattere;  la
    posizione  strategica su cui si doveva operare era nota sino ai minimi
    particolari  al  generale  austriaco  Weirother   che   era   a   capo
    dell'esercito  (per  un  caso  fortunato  l'anno  precedente le truppe
    avevano fatto le manovre proprio sul terreno dove ora avrebbero dovuto
    battersi i Francesi);  il terreno prescelto era conosciuto e riportato
    sulle  mappe  in ogni particolare,  e infine Bonaparte,  evidentemente
    indebolito, non prendeva alcuna iniziativa.
    Dolgorukov, uno dei più convinti partigiani dell'offensiva, era appena
    tornato dalla seduta del Consiglio, stanco morto ma pieno di fervore e
    orgoglioso per la vittoria riportata.  Il principe Andréj gli presentò
    il suo protetto,  ma Dolgorukov,  dopo aver stretto cortesemente e con
    forza la mano di Borìs,  non gli disse una  sola  parola  e,  incapace
    evidentemente  di astenersi dall'esprimere le idee che in quel momento
    tanto lo preoccupavano, si rivolse in francese al principe Andréj:
    - Ah, mio caro, che battaglia abbiamo sostenuto! Voglia soltanto Iddio
    che quella che ne sarà  la  conseguenza  abbia  un  esito  altrettanto
    vittorioso.  Però,  mio  caro,   -  continuò,  parlando a scatti e con
    grande animazione  -  devo riconoscere la mia manchevolezza di  fronte
    agli Austriaci e in particolare di fronte a Weirother.  Che ammirevole
    esattezza, che meticolosità, che conoscenza del paese, che capacità di
    prevedere tutte le possibilità,  tutte le condizioni,  tutti i  minimi
    particolari!  Insomma,  mio  caro,  i  vantaggi delle condizioni nelle
    quali ci troviamo non si potrebbero immaginare migliori. La precisione
    austriaca, unita al valore russo: che volete di più?
    - Dunque l'attacco è definitivamente deciso?  -  domandò Bolkonskij.
    - Vi dirò, mio caro, che mi pare che Buonaparte non sappia decisamente
    a qual santo votarsi.  Forse sapete già che  oggi  è  giunta  una  sua
    lettera  all'imperatore    -    aggiunse  Dolgorukov  con  un  sorriso
    significativo.
    - Ah, davvero? E che cosa scrive?  -  chiese Bolkonskij.
    - Che cosa può scrivere? Tralalà, lalà, lalà... eccetera...  tanto per
    guadagnare tempo.  Vi accerto che ormai è nelle nostre mani;  questo è
    sicuro.  Ma la cosa più divertente di tutte    -    disse,  scoppiando
    improvvisamente  in  una  bonaria  risata  -  è che non si sapeva come
    indirizzargli la risposta.  Al console no,  all'imperatore,  va da sé,
    no... quindi, secondo me, al generale Buonaparte.
    -  Ma  tra  il  non  riconoscerlo  imperatore  e il chiamarlo generale
    Buonaparte, c'è una bella differenza  -  osservò Bolkonskij.
    - Per l'appunto...   -  lo interruppe Dolgorukov,  in fretta e  sempre
    ridendo.    -    Voi  conoscete Bilibin: è un uomo molto intelligente.
    Consigliava di indirizzare: "All'usurpatore e  al  nemico  del  genere
    umano".
    E Dolgorukov scoppiò in una fragorosa risata.
    - E niente altro?  -  chiese Bolkonskij.
    -  Tuttavia  Bilibin,  da  uomo  intelligente e spiritoso quale è,  ha
    trovato un indirizzo serio.
    - Quale ?
    - "Al capo del governo francese,  "au chef du gouvernement  francais""
    -    rispose  Dolgorukov  con  soddisfazione e serietà.  - Non vi pare
    azzeccato?
    - D'accordo;  ma non  credo  che  ne  sarà  entusiasta    -    osservò
    Bolkonskij.
    - Per niente!  Mio fratello lo conosce: ha pranzato spesso con lui, in
    casa dell'attuale imperatore,  a Parigi,  e mi diceva di non aver  mai
    conosciuto  un  diplomatico più fine e più astuto: un misto di finezza
    francese e di ciarlataneria italiana!  Conoscete la  storia  dei  suoi
    rapporti  con  il  conte Markòv (46)?  Il conte Markòv era il solo che
    sapeva come ci si doveva comportare con lui.  Lo conoscete  l'aneddoto
    del fazzoletto? E' fantastico!
    E  il  loquace Dolgorukov,  rivolgendosi ora a Borìs,  ora al principe
    Andréj, raccontò come il Bonaparte,  desiderando mettere alla prova il
    nostro ambasciatore Markòv,  lasciò cadere a bella posta davanti a lui
    il fazzoletto e si fermò, guardandolo e aspettando, probabilmente, che
    Markòv lo raccogliesse.  Ma Markòv aveva  lasciato  subito  cadere  il
    proprio  vicino a quello di Bonaparte e si era chinato a raccoglierlo,
    senza tirare su l'altro.
    - Delizioso!  -  esclamò Bolkonskij.   -  Ma ecco,  principe,  io sono
    venuto  qui  da  voi  per  pregarvi di far qualcosa per questo giovane
    ufficiale che...
    Egli non poté finire la frase.  Un aiutante di campo entrò ed annunziò
    a Dolgorukov che l'imperatore lo attendeva.
    - Ah,  mi dispiace!  -  esclamò Dolgorukov, affrettandosi ad alzarsi e
    stringendo la mano a Bolkonskij e a Borìs.   -  Sarò lietissimo,  come
    voi  sapete,  di  fare tutto ciò che dipende da me sia per voi sia per
    questo giovanotto.   -  Strinse ancora una volta la mano a  Borìs  con
    un'espressione  di  bonaria  e  sincera  disinvoltura..  -  A un'altra
    volta!
    Borìs era molto turbato al pensiero del potere  supremo  al  quale  in
    quel momento si sentiva così vicino.  Era conscio di essere a contatto
    con quelle molle che guidavano tutti  i  movimenti  di  quelle  enormi
    masse di uomini di cui egli, nel suo reggimento, sentiva di essere una
    piccolissima  parte.  Passati  nel  corridoio,  dietro  a  Dolgorukov,
    incontrarono un uomo di bassa statura,  in abiti borghesi,  che usciva
    dall'appartamento  dell'imperatore,  nel  quale  Dolgorukov  stava per
    entrare.  Il viso di  quell'uomo  aveva  un'espressione  di  vivissima
    intelligenza  e la mascella inferiore prominente,  che tuttavia non lo
    deturpava,  gli conferiva un aspetto vivace e  astuto.  Quell'uomo  di
    bassa statura fece un amichevole cenno del capo a Dolgorukov e con uno
    sguardo  freddo  e  fisso squadrò il principe Andréj,  venendo diritto
    verso di lui e aspettando evidentemente che questi lo salutasse e  gli
    cedesse il passo.  Il principe Andréj non fece né una cosa né l'altra;
    il  suo  viso  assunse  un'espressione  di  collera  e   il   giovane,
    voltandosi, passò rasente il muro del corridoio.
    - Chi è?  -  chiese Borìs.
    -  E'  uno  degli  uomini  più  ragguardevoli  ma  più  antipatici che
    esistano.  E' il  ministro  degli  affari  esteri,  il  principe  Adam
    Ciartoritzskij  (47).  Queste   -  disse Bolkonskij con un sospiro che
    non poté trattenere mentre uscivano dal palazzo  -   sono  le  persone
    che decidono della sorte dei popoli.
    Il  giorno  seguente  le  truppe  si  misero in marcia e,  prima della
    battaglia di Austerlitz,  Borìs non poté  rivedere  né  Bolkonskij  né
    Dolgorukov   e  rimase  per  un  certo  tempo  ancora  nel  reggimento
    Izmailovskij.


    CAPITOLO 10.

    Il giorno 16, all'alba, lo squadrone di Denissov, al quale apparteneva
    Nikolàj Rostòv e che faceva parte del corpo  del  principe  Bagratiòn,
    lasciò il suo accantonamento per entrare,  come si dice,  in azione e,
    dopo aver percorso un miglio,  dietro ad altre colonne,  venne fermato
    sulla strada maestra.  Rostòv vide passare avanti a sé i cosacchi,  il
    primo e il secondo  squadrone  degli  ussari,  alcuni  battaglioni  di
    fanteria con le artiglierie e infine i generali Bagratiòn e Dolgorukov
    con i loro aiutanti di campo. Tutta la paura che aveva avuto, come già
    l'altra  volta  nell'imminenza  dell'attacco,  tutta  la lotta interna
    sostenuta per vincerla,  e tutti i sogni sul modo di distinguersi,  da
    vero  ussaro,  nella  prossima  battaglia,  erano  stati  inutili.  Lo
    squadrone rimase  nella  riserva  e  Nikolàj  Rostòv  passò  tutta  la
    giornata in preda alla noia e alla tristezza.  Alle nove antimeridiane
    udì davanti a sé scariche di fucileria e  grida  "urrà";  vide  alcuni
    feriti  che  venivano  trasportati  indietro e infine scorse un intero
    distaccamento di cavalleria francese,  circondato da un  centinaio  di
    cosacchi.  Evidentemente il combattimento era già finito ed era chiaro
    che,  sebbene non molto importante,  doveva avere avuto buon esito.  I
    soldati  e  gli  ufficiali  che  tornavano  indietro  parlavano di una
    brillante vittoria,  dell'occupazione della città di Wischau  e  della
    cattura di tutto uno squadrone francese.  Il cielo era limpido dopo la
    leggera brinata della notte,  e  lo  splendore  di  quella  soleggiata
    giornata  autunnale coincideva con la notizia della vittoria,  notizia
    portata non solo dal racconto di chi vi aveva preso  parte,  ma  anche
    dall'espressione  gioiosa  dei  volti  dei soldati,  degli ufficiali e
    degli aiutanti di campo che continuavano a ripassare davanti a Rostòv.
    E tanto più si stringeva il cuore di  Nikolàj  che  aveva  inutilmente
    sofferto  tutta  la  paura  che  precede  una  battaglia  e  che aveva
    trascorso nell'inattività quel giorno così pieno di allegria!
    - Rostòv,  vieni qui,  beviamo per scacciare il  dolore!    -    gridò
    Denissov, sedendosi sul ciglio della strada, davanti a una bottiglia e
    un pacco di antipasti.
    Gli  ufficiali dello squadrone si erano riuniti in circolo discorrendo
    e mangiucchiando le provviste di Denissov.
    - Ecco che ne portano un altro!  -  osservò uno di essi,  indicando un
    prigioniero,  un  dragone  francese  che  procedeva  a  piedi  tra due
    cosacchi.  Uno di questi teneva per le briglie il grande e bel cavallo
    del prigioniero francese.
    - Vendimi quel cavallo!  -  gridò Denissov al cosacco.
    - Prego, vossignoria...
    Gli  ufficiali si alzarono e attorniarono i cosacchi e il prigioniero.
    Il dragone era un giovane alsaziano che parlava francese  con  accento
    tedesco.  Ansimava  per  l'emozione,  era  rosso  in viso e,  sentendo
    parlare francese,  si mise a discorrere in fretta con  gli  ufficiali,
    rivolgendosi  ora all'uno ora all'altro.  Diceva che non sarebbe stato
    fatto prigioniero se il suo "caporal" non lo avesse mandato a prendere
    certe gualdrappe dove, e lui glielo aveva detto, c'erano i Russi.  E a
    ogni  parola  aggiungeva:  "mais qu'on ne fasse pas du mal à mon petit
    cheval" [48.  Ma non fate del male al  mio  cavallino]  e  accarezzava
    l'animale.
    Si  vedeva  che  non  capiva bene dove si trovasse.  Ora si scusava di
    essersi lasciato prendere,  ora si immaginava di trovarsi  davanti  ai
    suoi  superiori e si vantava di aver sempre fatto il proprio dovere da
    buon soldato. Nella nostra retroguardia aveva portato con sé, in tutta
    la sua franchezza, l'atmosfera dell'esercito francese, che ci era così
    estranea e poco nota.
    I cosacchi vendettero il cavallo per due luigi e  lo  comperò  Rostòv,
    che aveva ricevuto da casa molto denaro e che era il più ricco tra gli
    ufficiali.
    -  "Mais  qu'on  ne  fasse  pas  du mal à mon petit cheval"  -  ripeté
    ingenuamente l'alsaziano a Rostòv quando il cavallo fu consegnato a un
    ussaro.
    Rostòv, sorridendo, tranquillizzò il dragone e gli diede del denaro.
    - "Allè,  allè!" (49)  -  disse il cosacco,  toccando il  braccio  del
    prigioniero, perché si mettesse in cammino.
    - L'imperatore! L'imperatore!  -  si udì a un tratto esclamare tra gli
    ussari.
    Tutti accorrevano e si agitavano,  e Rostòv vide avanzare sulla strada
    alcuni cavalieri dai pennacchi bianchi sul  berretto.  In  un  momento
    tutti furono ai loro posti, in attesa.
    Rostòv  non  ricordava e non si rendeva conto di come fosse accorso al
    suo posto e come fosse montato in sella. In un attimo svanirono il suo
    rammarico di non aver preso parte all'azione,  il  suo  stato  d'animo
    triste  e annoiato della vigilia in mezzo a quei visi sin troppo noti;
    in un attimo si dileguò ogni pensiero che riguardava se  stesso;  egli
    era  completamente sommerso dal senso di felicità che suscitava in lui
    la vicinanza dell'imperatore.  Quella vicinanza  lo  compensava  della
    perdita di quella giornata. Era felice come un innamorato in attesa di
    un tanto desiderato convegno! Non osava guardarsi attorno tra le file,
    ma  pur  senza volgersi sentiva con istinto appassionato l'avvicinarsi
    del sovrano. E non lo sentiva soltanto per il rumore degli zoccoli dei
    cavalli che si udiva sempre più forte, ma lo sentiva perché,  a misura
    che  il rumore aumentava,  tutto attorno a lui diventava più luminoso,
    più gioioso,  più festoso.  Sempre più si accostava a Rostòv quel sole
    che  diffondeva  attorno  a  sé  i  raggi  di una luce più dolce e più
    maestosa,  ed egli già aveva l'impressione di essere avvolto dal  loro
    calore. Già udiva la sua voce, quella voce calma, carezzevole, solenne
    e insieme così semplice.  Come Rostòv presentiva,  si fece un silenzio
    di tomba in mezzo al quale risonò la voce dell'imperatore.
    - "Les hussards de Pàvlograd?" [50.  Gli ussari di Pàvlograd?]  disse,
    in tono interrogativo.
    -  "La  réserve,  sire"  [51.  La riserva,  sire]  -  rispose un'altra
    qualunque voce umana,  dopo quella sovrumana  che  aveva  detto:  "Les
    hussards de Pàvlograd?".
    Il  sovrano  arrivò  all'altezza  di  Rostòv  e  si  fermò.   Il  viso
    dell'imperatore era ancora più bello  di  quanto  non  lo  fosse  alla
    rivista,  tre  giorni  prima.  Era illuminato dalla luce di una felice
    giovinezza,  di una  giovinezza  così  ingenua  da  far  pensare  alla
    vivacità di un fanciullo quattordicenne;  ma nello stesso tempo era il
    viso raggiante di un grande imperatore. Per caso,  mentre osservava lo
    squadrone,  gli  occhi del sovrano incontrarono quelli di Rostòv e per
    due secondi appena vi si fissarono.  Comprese l'imperatore quello  che
    accadeva nell'animo di Rostòv?  (A Rostòv parve che egli avesse capito
    tutto).  I suoi occhi azzurri si soffermarono per  due  secondi  sulla
    faccia  di  Rostòv,  il  quale  ebbe l'impressione che da quegli occhi
    azzurri si diffondesse una luce mite e dolcissima.  Poi a un tratto il
    sovrano  sollevò le sopracciglia,  con un movimento brusco della gamba
    sinistra colpì il cavallo e proseguì al galoppo.
    Il giovane imperatore non  aveva  saputo  resistere  al  desiderio  di
    assistere al combattimento e,  nonostante le insistenze dei cortigiani
    per impedirglielo, a mezzogiorno, staccatosi dalla terza colonna,  che
    egli  seguiva,  galoppò  verso  l'avanguardia.  Non  era  ancor giunto
    all'altezza  degli  ussari,  che  alcuni  aiutanti  gli  erano  venuti
    incontro con la notizia del felice esito dello scontro.
    Il combattimento, che non aveva avuto altro successo se non la cattura
    di  uno  squadrone  nemico,  gli  venne  descritto  come una splendida
    vittoria sui Francesi  e  fu  per  questo  che  l'imperatore  e  tutto
    l'esercito,  specialmente prima che il fumo della polvere del campo di
    battaglia si fosse dissipato,  credettero che i Francesi fossero stati
    realmente  sconfitti  e  costretti  a ritirarsi.  Pochi minuti dopo il
    passaggio dell'imperatore,  fu dato l'ordine  di  avanzare  ad  alcuni
    squadroni  del  reggimento  di  Pàvlograd.   A  Wischau,  una  piccola
    cittadina tedesca,  Rostòv vide ancora una volta  l'imperatore.  Sulla
    piazza,  dove  prima  che  il  sovrano  giungesse aveva avuto luogo un
    notevole scambio di colpi di fucile,  giacevano alcuni soldati morti o
    feriti,   che   non   si  erano  ancora  potuti  trasportare  altrove.
    L'imperatore, circondato dal suo séguito militare e civile, montava un
    cavallo sauro, diverso da quello del giorno della rivista,  dalla coda
    tagliata  all'inglese  e,  chinato  un  poco sul fianco e reggendo con
    gesto grazioso l'occhialetto d'oro,  guardava un soldato  che  giaceva
    sul  selciato,  senza l'elmo e con la testa insanguinata.  Quel ferito
    era tanto sudicio, rozzo e ripugnante, che Rostòv giudicò offensiva la
    sua vicinanza all'imperatore.  Il giovane vide che le  spalle  un  po'
    curve  del  sovrano,  quasi  fossero percorse da un brivido di freddo,
    sussultarono e notò che con il piede sinistro spronò  nervosamente  il
    fianco della sua cavalcatura che,  ormai avvezza,  volgeva attorno uno
    sguardo indifferente,  senza muoversi dal posto.  Un aiutante di campo
    smontò da cavallo e, preso il ferito sotto le ascelle, lo adagiò su di
    una barella. Il soldato gemette.
    -  Più  piano,  più piano!  Non è possibile fare più piano?   -  disse
    l'imperatore che pareva soffrire  più  del  soldato  morente.  Poi  si
    allontanò.
    Rostòv  vide  che  l'imperatore aveva le lacrime agli occhi e lo sentì
    dire a Ciartoritzskij, in francese:
    - Che orribile cosa,  che orribile cosa la  guerra!  "Quelle  terrible
    chose que la guerre!".
    Le truppe d'avanguardia si disposero davanti a Wischau, di fronte alla
    linea  degli  avamposti  nemici  che  per  tutta la giornata,  ad ogni
    scaramuccia,  avevano  ceduto  terreno  ai  Russi.  Vennero  trasmessi
    all'avanguardia   i   ringraziamenti  del  sovrano,   furono  promesse
    ricompense e i soldati ebbero doppia razione di acquavite.  Ancora più
    allegri  che  nella notte precedente brillarono i fuochi del bivacco e
    più gioiosi echeggiarono i canti dei  soldati.  Denissov  quella  sera
    festeggiò  la  sua  promozione  a maggiore e Rostòv,  che aveva bevuto
    parecchio,  alla fine del banchetto propose un  brindisi  alla  salute
    dell'imperatore,  ma  non  "dell'augusto  imperatore" come si dice nei
    banchetti ufficiali,  ma "alla salute del  sovrano,  dell'uomo  buono,
    magnanimo  e affascinante.  Sì,  beviamo alla sua salute e alla sicura
    nostra vittoria sui Francesi!".
    - Se già prima ci siamo battuti  -  continuò    -    senza  cedere  ai
    Francesi,   come  sotto  Schöngraben,   che  faremo  ora  che  abbiamo
    l'imperatore che ci guida?  Moriremo tutti e moriremo  con  gioia  per
    lui.  Non  è  così,  signori?  Forse non mi esprimo bene...  ho bevuto
    molto, ma questi sono i miei sentimenti e, credo, anche i vostri. Alla
    salute di Aleksàndr Primo, urrà!
    - Urrà!  -  ripeterono le voci esaltate degli ufficiali.  E il vecchio
    capitano  Kirsten  non  gridò  meno  forte  né  con meno entusiasmo di
    Rostòv, giovane di vent'anni.
    Quando gli ufficiali ebbero bevuto e rotto  i  bicchieri,  Kirsten  ne
    empì ancora altri e,  in maniche di camicia, con un bicchiere in mano,
    si avvicinò al falò dei soldati e, con il braccio alzato, rimase fermo
    davanti a loro in atteggiamento maestoso e solenne,  con i suoi lunghi
    baffi grigi e il petto bianco che si intravedeva attraverso la camicia
    aperta, illuminato dalla luce delle fiamme.
    -  Ragazzi,  alla  salute  del nostro sovrano imperatore,  alla nostra
    vittoria sul nemico, urrà!   -  gridò con la sua voce forte dal timbro
    baritonale di vecchio ussaro.
    Gli  ussari  si  strinsero attorno a lui e risposero con un altissimo,
    unanime grido.
    A notte tarda, quando tutti si furono separati,  Denissov batté con la
    mano grossa e corta sulla spalla del suo caro Rostòv.
    - Poiché in guerra non si sa di chi innamorarsi,  ecco che costui si è
    innamorato dell'imperatore  -  disse.
    - Denissov,  non scherzare su questo argomento  -  esclamò Rostòv.   -
    Si tratta di un sentimento tanto alto, tanto nobile...
    - Lo credo, amico mio, lo credo... Lo approvo e lo condivido.
    - No, tu non capisci !
    E  Rostòv,  alzatosi,  si mise a passeggiare tra i fuochi del bivacco,
    pensando alla gioia di morire non già per salvargli la vita (a  questo
    non  osava  nemmeno  pensare),  ma  semplicemente per morire sotto gli
    occhi dell'imperatore.  Egli era veramente innamorato del suo sovrano,
    della  gloria delle armi russe e della speranza nel futuro trionfo.  E
    non era il solo a provare quel sentimento in  quei  memorabili  giorni
    che precedettero la battaglia di Austerlitz: i nove decimi dei soldati
    e degli ufficiali russi di allora erano innamorati, se pure con minore
    entusiasmo, del loro imperatore e della gloria delle armi russe.


    CAPITOLO 11.

    Il giorno seguente, l'imperatore si trattenne a Wischau. Il suo medico
    personale  Villiers  (52)  fu  più  volte  chiamato presso di lui.  Al
    quartier generale e fra le truppe più vicine si diffuse la notizia che
    il sovrano  fosse  indisposto.  Non  prendeva  cibo  e  quella  notte,
    dicevano coloro che gli erano vicini, aveva dormito male. Il malessere
    dell'imperatore  non  aveva  altra  causa  che  la  forte  impressione
    prodotta sul suo animo sensibile dalla vista dei feriti e dei morti.
    All'alba del giorno 17,  fu accompagnato  a  Wischau,  protetto  dalla
    bandiera  bianca,  un  ufficiale  francese  che  chiedeva  una udienza
    all'imperatore   di   Russia.   Quell'ufficiale   era   Savary   (53).
    L'imperatore  si  era  appena  addormentato  e  perciò  Savary dovette
    aspettare. Verso mezzogiorno venne ammesso alla presenza del sovrano e
    mezz'ora  dopo  ritornava  agli  avamposti   dell'esercito   francese,
    accompagnato dal principe Dolgorukov.
    A  quanto si sentiva dire,  lo scopo della venuta di Savary era quello
    di proporre all'imperatore russo un incontro con Napoleone. Con grande
    gioia e orgoglio di tutto l'esercito,  la proposta  di  quell'incontro
    era stata respinta e,  in sua vece,  fu mandato con Savary il principe
    Dolgorukov,  il vincitore di Wischau,  per intavolare  trattative  con
    Napoleone  qualora,  contrariamente  a  tutte  le  supposizioni,  esse
    contenessero un reale desiderio di pace.
    A sera, quando ritornò, Dolgorukov andò direttamente dall'imperatore e
    si trattenne a lungo a quattr'occhi con lui.
    Il 18 e il 19 di novembre le truppe procedettero di altre due tappe e,
    dopo brevi scaramucce, gli avamposti nemici indietreggiarono.  Sin dal
    mezzogiorno  del  19,  cominciarono  a  verificarsi  nelle  alte sfere
    dell'esercito un intenso movimento e  un'animazione  indaffarata,  che
    durò sino al mattino successivo, 20 novembre giorno in cui fu sferrata
    la memorabile battaglia di Austerlitz (54).
    Sino  al  mezzogiorno  del  19,   i  discorsi  animati,  l'andirivieni
    frettoloso,  le corse avanti e indietro degli  aiutanti  di  campo  si
    limitarono  al quartiere generale di Kutuzòv e allo stato maggiore dei
    comandanti delle colonne.  Verso sera,  attraverso gli ordini  portati
    dagli  aiutanti  di campo,  il movimento si diffuse in tutti i reparti
    dell'esercito e nella notte dal 19 al 20,  la massa degli  ottantamila
    uomini  dei  sovrani  alleati  si  levò dagli accampamenti e risonando
    ondeggiò tumultuosa, come un'enorme tela lunga dieci miglia.
    Quel movimento concentrato che  aveva  avuto  inizio  il  mattino  nel
    quartier  generale degli imperatori e che aveva dato la spinta al moto
    successivo era simile alla spinta iniziale della  ruota  centrale  dei
    grandi  orologi  che  si  vedono  sulle  torri.  Una  ruota  si  muove
    lentamente, la seguono una seconda, poi una terza e via via si mettono
    a  girare,  sempre  più  rapidamente,  ruote,   pulegge,   ingranaggi,
    cominciano  a  sonare  i  "carillons",  a  balzar  fuori le figurine e
    ritmicamente iniziano a muoversi le lancette,  segnando  il  risultato
    del movimento generale.
    Come  nel  meccanismo  dell'orologio,  così  in  quello  militare,  il
    movimento,  una volta iniziato,  continua sino  al  risultato  finale;
    altrettanto  inerti  e immobili restano le parti del meccanismo sino a
    quando la trasmissione del moto non sia giunta sino a  loro.  Ed  ecco
    che allora cominciano a stridere sugli assi le ruote, ingranandosi con
    i loro dentini,  a fischiare le pulegge che girano rapidamente, mentre
    la ruota vicina resta immobile e fissa come se dovesse  per  centinaia
    di anni mantenere quella immobilità;  ma poi, a un certo momento, ecco
    che una leva la tocca ed essa, obbedendo all'impulso generale, cigola,
    gira,  e si  confonde  in  un'unica  azione  comune  di  cui  le  sono
    incomprensibili il risultato e lo scopo.
    Come  nell'orologio  il  risultato  del  complesso  moto  delle varie,
    innumerevoli rotelle e pulegge non è altro che  un  lento  e  regolare
    spostamento delle lancette che indicano il tempo, così il risultato di
    tutti  i  complessi  movimenti umani di quei centosessantamila Russi e
    Francesi,  l'effetto di  tutte  quelle  passioni,  dei  desideri,  dei
    rimpianti,  dei pentimenti, delle sofferenze, delle umiliazioni, degli
    slanci orgogliosi,  della paura,  degli  entusiasmi  di  tutti  quegli
    uomini,  fu soltanto la sconfitta della battaglia di Austerlitz, detta
    anche la battaglia dei tre imperatori,  cioè un lento movimento  della
    lancetta della storia sul quadrante della storia dell'umanità.
    Il  principe  Andréj  era  quel  giorno  di  servizio  e  non  si  era
    allontanato mai dal generalissimo.
    Alle sei  pomeridiane,  Kutuzòv  giunse  al  quartier  generale  degli
    imperatori e, dopo essersi trattenuto per poco con il sovrano, si recò
    presso il gran maresciallo di Corte, conte Tolstòj.
    Bolkonskij  approfittò  di  quel  momento  per recarsi da Dolgorukov a
    raccogliere notizie e  particolari  sull'azione.  Il  principe  Andréj
    sentiva che Kutuzòv era turbato e contrariato per qualche motivo e che
    al  quartier  generale non erano soddisfatti di lui;  si rendeva conto
    che tutti i personaggi del quartier generale imperiale si comportavano
    verso il vecchio ufficiale come persone che  sanno  quello  che  altri
    ignorano; perciò desiderava parlare con Dolgorukov.
    -  Ah,  buongiorno,  "mon  cher"    -    esclamò  Dolgorukov che stava
    prendendo il tè con Bilibin.   -  Domani è il gran giorno.  Che fa  il
    vostro vecchio? E' di malumore?
    - Non posso dire che sia proprio di malumore,  ma ho l'impressione che
    desidererebbe essere ascoltato.
    - Ma l'hanno già ascoltato nel Consiglio di guerra  e  sarà  ascoltato
    ancora,   purché  parli  assennatamente.   Certo  è  che  ritardare  e
    aspettare,  ora che Buonaparte teme più di tutto una battaglia campale
    è assolutamente impossibile.
    -  Ma  voi  l'avete veduto?   -  chiese il principe Andréj.   -  Com'è
    questo Buonaparte? Che impressione vi ha fatto?
    - Sì,  l'ho veduto e mi sono convinto  che  egli  teme  una  battaglia
    campale  più  di  ogni  cosa  al  mondo   -  ripeté Dolgorukov,  dando
    evidente e grande importanza  a  questa  conclusione  che  egli  aveva
    tratto dal suo colloquio con Napoleone.  -  Se non avesse timore della
    battaglia, perché avrebbe chiesto un colloquio, iniziato trattative e,
    soprattutto,  perché sarebbe indietreggiato, mentre la ritirata è cosa
    tanto contraria alla sua tattica bellica?  Credetemi: egli  ha  paura,
    veramente  paura della battaglia campale.  La sua ora è sonata.  Ve lo
    assicuro io.
    - Ma ditemi, com'è?  -  insisté il principe Andréj.
    - E' un uomo in soprabito grigio,  il quale desiderava molto che io lo
    chiamassi  "vostra  maestà"  ma che,  con suo gran dispiacere,  non ha
    ricevuto da me alcun titolo.  E' un  uomo  così,  niente  di  più    -
    rispose Dolgorukov, guardando Bilibin con un sorriso.  - Nonostante il
    mio profondo rispetto per Kutuzòv,  -  proseguì -  affermo che saremmo
    davvero  degli  sciocchi  se  aspettassimo  non so cosa,  dando così a
    Napoleone il modo di andarsene o di ingannarci,  proprio ora in cui  è
    sicuramente nelle nostre mani.  No,  non bisogna dimenticare Suvorov e
    le sue regole: non mettersi  mai  nelle  condizioni  dell'attacco,  ma
    essere sempre i primi ad attaccare. Credetemi, in guerra l'energia dei
    giovani  è  spesso una guida migliore di tutta l'esperienza dei vecchi
    temporeggiatori!
    - Ma in  quale  posizione  lo  attaccheremo?  Sono  andato  oggi  agli
    avamposti  e  nessuno  può dire con precisione dove sia concentrato il
    grosso delle sue forze  -  disse il principe Andréj.
    Egli avrebbe voluto esporre a Dolgorukov il  piano  di  battaglia  che
    aveva preparato.
    - Ah, ma questo non ha assolutamente alcuna importanza!  -  rispose in
    fretta  Dolgorukov,  alzandosi e spiegando sulla tavola una carta.   -
    Tutte le eventualità sono previste: se si trova a Brünn...
    E il principe Dolgorukov, rapidamente e con poca chiarezza,  si mise a
    spiegare il piano del movimento aggirante di Weirother.
    Il  principe  mosse  alcune obiezioni e cominciò a spiegare il proprio
    piano che poteva essere dello stesso valore di quello di Weirother  ma
    che aveva un difetto: quello di Weirother era già stato approvato. Non
    appena  il principe Andréj cominciò a dimostrare gli svantaggi di quel
    piano e i vantaggi del proprio, Dolgorukov cessò di ascoltarlo e prese
    a guardare  distrattamente,  anziché  la  carta,  la  faccia  del  suo
    interlocutore.
    - Del resto,  oggi si terrà da Kutuzòv un Consiglio di guerra; potrete
    approfittarne per esporre le vostre idee  -  consigliò Dolgorukov.
    - Lo farò  -  rispose il principe Andréj, scostando da sé la carta.
    - Ma su che cosa discutete,  signori miei?   -  intervenne Bilibin che
    sino  a  quel  momento  aveva ascoltato sorridendo allegramente quella
    conversazione e che ora, era chiaro, si preparava a scherzare.  -  Sia
    domani giorno di vittoria o  di  sconfitta,  la  gloria  dell'esercito
    russo è assicurata. Oltre al vostro Kutuzòv non c'è un solo comandante
    russo.  I comandanti sono: "Herr General" Wimpfen (55),  "le comte" de
    Langeron (56),  "le prince" de  Liechtenstein  (57),  "le  prince"  de
    Hohenlohe  (58) e "enfin Prsch...  Prsch...  et ainsi de suite,  comme
    tous les noms polonais" [E infine Prsch...  Prsch...  e così via  come
    tutti i nomi polacchi] (59).
    - "Taisez-vous,  mauvaise langue!" [60. Tacete, linguaccia!]  -  disse
    Dolgorukov.   -  Non è  vero:  attualmente  ci  sono  già  due  russi:
    Miloràdovic' (61) e Dochturov e ce ne sarebbe anche un altro, il conte
    Arakceev  (62), se non avesse i nervi troppo scossi.
    -  Credo  però  che Michaìl Ilarjònovic' sia ormai uscito  -  disse il
    principe Andréj.  -  Vi auguro fortuna e successo, signori  - aggiunse
    e, dopo aver stretto la mano a Dolgorukov e a Bilibin, uscì.
    Rientrando nel suo alloggio,  il principe Andréj non seppe trattenersi
    dal  chiedere a Kutuzòv,  che gli sedeva accanto silenzioso,  che cosa
    pensasse della battaglia del giorno successivo.
    Kutuzòv guardò severamente il suo aiutante di campo e dopo  una  breve
    pausa gli rispose:
    -  Penso  che  saremo  sconfitti.  L'ho  detto al conte Tolstòj e l'ho
    pregato di riferirlo all'imperatore. Sai che cosa mi ha risposto? "Eh,
    mon cher général,  je me mêle de riz et de cotelettes,  mêlez-vous des
    affaires de la guerre" [63.  "Eh,  mio caro generale,  io mi occupo di
    riso e di bistecche,  e voi occupatevi delle faccende della  guerra"].
    Già, mi ha risposto proprio così.


    CAPITOLO 12.

    Alle  dieci  di  sera,  Weirother  arrivò,  portando  i  suoi piani da
    Kutuzòv, dov'era riunito il Consiglio di guerra. Tutti i comandanti in
    capo  erano  stati  convocati  presso  il  generalissimo  e  tutti,  a
    eccezione del principe Bagratiòn, che si era rifiutato di intervenire,
    si trovarono all'ora indicata.
    Weirother,  che  aveva  preparato  il piano per la prossima battaglia,
    offriva per la sua  vivacità  e  la  sua  impazienza  un  sorprendente
    contrasto   con  Kutuzòv,   scontento  e  assonnato,   che  funzionava
    svogliatamente da presidente e  da  guida  del  Consiglio  di  guerra.
    Appariva  evidente che Weirother si sentiva alla testa di un movimento
    ormai inarrestabile.  Era come un cavallo tra le stanghe di  un  carro
    che,  presa la rincorsa,  scenda precipitosamente lungo un pendio. Era
    lui a trascinare? Oppure a essere trascinato? Non lo sapeva, ma andava
    a rotta di collo,  senza  avere  ormai  più  il  tempo  di  riflettere
    sull'esito  della  sua  corsa  precipitosa.  Quella sera Weirother era
    andato due volte a osservare personalmente gli avamposti  nemici;  due
    volte era stato dai sovrani da quello russo e da quello austriaco, per
    fare  rapporti e dare chiarimenti,  e poi nel suo ufficio,  dove aveva
    dettato in tedesco le ultime disposizioni.  Era giunto da  Kutuzòv  in
    condizioni di estrema stanchezza.
    Tutto preso,  evidentemente, dai suoi pensieri, si dimenticava persino
    di essere cortese con il generalissimo: lo  interrompeva,  parlava  in
    fretta   e   non   molto   chiaramente,   senza   guardare  in  faccia
    l'interlocutore,  senza  rispondere  alle  domande  che  gli  venivano
    rivolte.   Era   tutto  inzaccherato  di  fango  e  aveva  un  aspetto
    compassionevole, stanco e smarrito ma,  nello stesso tempo,  sicuro di
    sé e pieno d'orgoglio.
    Kutuzòv  abitava in un piccolo castello a breve distanza da Ostralitz.
    In un'ampia sala,  trasformata  in  studio  del  generalissimo,  erano
    riuniti lo stesso Kutuzòv e i membri del Consiglio di guerra.  Stavano
    bevendo il tè.  Non aspettavano che il  principe  Bagratiòn  per  dare
    inizio  alla  seduta.  Alle  otto  giunse  l'ufficiale  d'ordinanza di
    Bagratiòn con la notizia che il principe non  poteva  intervenire.  Il
    principe  Andréj  entrò  per  informare della cosa il generalissimo e,
    approfittando del permesso avuto in precedenza da Kutuzòv di assistere
    alla seduta, rimase nella sala.
    - Poiché il principe Bagratiòn  non  verrà,  possiamo  incominciare  -
    dichiarò   Weirother,   alzandosi   rapidamente   dal   suo   posto  e
    avvicinandosi al tavolo su cui era stesa una grande mappa dei dintorni
    di Brünn.
    Kutuzòv con la giubba sbottonata da cui,  come liberato,  emergeva  il
    grasso collo,  era seduto in una poltrona alla Voltaire con le mani un
    po' gonfie, da vecchio, simmetricamente posate sui bracciuoli, e quasi
    dormiva. Al suono della voce di Weirother,  aprì a fatica il suo unico
    occhio.
    - Sì,  sì, ve ne prego, è già tardi  -  e, fatto un cenno con il capo,
    l'abbassò di nuovo sul petto e chiuse gli occhi.
    Se in un primo momento i membri del Consiglio avevano potuto  supporre
    che Kutuzòv fingesse di dormire, i suoni che cominciarono a sfuggirgli
    dal  naso  durante  la lettura di Weirother,  dimostrarono che in quel
    momento,  per il generale in capo,  si trattava di una cosa assai  più
    importante  che  non  fosse  il dimostrare il proprio disprezzo per il
    piano di battaglia. Si trattava per lui dell'invincibile bisogno umano
    di abbandonarsi al sonno.  Egli dormiva veramente.  Weirother,  con il
    gesto  dell'uomo  troppo  occupato per permettersi di perdere anche un
    solo minuto, lanciò un'occhiata verso Kutuzòv e, convinto che dormiva,
    prese un foglio e a voce alta e monotona cominciò a  leggere  l'ordine
    di operazione della prossima battaglia,  iniziando dal titolo: "Ordine
    di operazioni per l'attacco alle posizioni nemiche dietro Kobelnitz  e
    Sokolnitz, 20 novembre 1805".
    La disposizione era difficile e complessa. Nell'originale era detto:
    "Da  der  Feind  mit  seinem  linken Flu'gel an die mit Wald bedeckten
    Berge lehnt und sich mit seinem rechten  Flügel  längs  Kobelnitz  und
    Sokolnitz hinter die dort befindlichen Teiche zieht, wir im Gegentheil
    mit  unserem  linken Flügel seinem rechten sehr debordiren,  so ist es
    vortheilhaft letzteren Flügel des Feindes zu attakiren, besonders wenn
    wir die Dörfer Sokolnitz und Kobelnitz im Besitze haben,  wodurch  wir
    dem  Feind  zugleich  in  die  Flanke  fallen  und  ihn auf der Fläche
    zwischen Schlapenitz und dem Thürassa-Walde  verfolgen  konnen,  indem
    wir den Defileen von Schlapanitz und Bellowitz ausweichen,  welche die
    feindliche Front decken.  Zu diesem Endzwecke  ist  es  nothig...  Die
    erste Kolonne marschirt...  Die zweite Kolonne marschirt... Die dritte
    Kolonne marschirt...",    [64.  "Poiché  il  nemico  trova  protezione
    all'ala  sinistra  delle  sue  forze  appoggiandole  alle  falde delle
    montagne boscose e stende l'ala destra al di là degli stagni che vi si
    trovano,   lungo  Kobelnitz  e  Sokolnitz   e   noi,   al   contrario,
    sopravvanziamo  di molto con la nostra ala sinistra la sua ala destra,
    ci conviene  attaccare  quest'ultima,  soprattutto  avendo  in  nostro
    possesso i villaggi di Sokolnitz e di Kobelnitz,  per cui nel medesimo
    tempo possiamo attaccare di sorpresa il fianco del nemico e inseguirlo
    nelle pianure tra Schlapanitz e la foresta di Thuras, evitando le gole
    tra Schlapanitz e Bellowitz,  che coprono lo  schieramento  nemico.  A
    tale  scopo  è  necessario...  La prima colonna marcerà...  La seconda
    colonna marcerà...  La terza  colonna  marcerà..."]  eccetera  leggeva
    Weirother. I generali sembravano ascoltare di mala voglia il complesso
    piano delle operazioni.  Il biondo e alto generale Bukshevden stava in
    piedi, con le spalle appoggiate alla parete, e,  fissando gli occhi su
    una  candela  accesa,  sembrava  che  non ascoltasse e che non volesse
    neppure far credere agli altri  di  ascoltare.  Proprio  dirimpetto  a
    Weirother,  fissando su di lui gli occhi spalancati e lucenti, sedeva,
    in atteggiamento marziale,  il rubicondo  Miloràdovic',  con  le  mani
    posate  sulle  ginocchia  e  i gomiti in fuori,  i baffi all'insù e le
    spalle  sollevate.  Egli  taceva  ostinatamente,   guardando  in  viso
    Weirother  e  abbassava  gli  occhi  soltanto  quando il capo di stato
    maggiore austriaco smetteva di parlare.  In quei momenti  Miloràdovic'
    volgeva  occhiate  significative  sugli  altri generali;  ma da quelle
    occhiate significative era impossibile capire  se  egli  approvasse  o
    disapprovasse,  se fosse contento o no del piano delle operazioni. Più
    vicino a Weirother di tutti gli  altri  stava  il  conte  Langeron  il
    quale,  con un fine sorriso sul volto di francese meridionale, sorriso
    che durò per tutto il tempo della lettura, si guardava le dita sottili
    che facevano rapidamente girare una tabacchiera d'oro con un  ritratto
    sul  coperchio.  Nel  bel  mezzo  di  uno dei periodi più lunghi della
    lettura,  egli arrestò il movimento rotatorio della tabacchiera,  alzò
    il  capo  e,  con  una  piega di antipatica cortesia agli angoli delle
    labbra sottili,  interruppe Weirother e fu sul punto di dire qualcosa;
    ma  il  generale  austriaco,   continuando  imperterrito  la  lettura,
    aggrottò il viso e agitò i gomiti  come  se  volesse  dire:  "Dopo  mi
    esporrete  le  vostre  idee;  per adesso favorite osservare la carta e
    ascoltare".  Langeron sollevò gli occhi con espressione di stupore,  e
    si   volse   verso  Miloràdovic'  come  cercando  una  spiegazione  e,
    incontrando lo  sguardo  di  lui  denso  di  significati  ma  che  non
    significava  nulla,  abbassò  tristemente  gli  occhi  e riprese a far
    roteare la tabacchiera tra le dita sottili.
    - "Une lecon de géographie" [65.  Una lezione di geografia]  -   disse
    come tra sé ma abbastanza forte perché lo sentissero.
    Przebyscevskij  con  rispettosa  ma  dignitosa cortesia piegava con la
    mano l'orecchio verso Weirother,  con l'atteggiamento di chi  è  tutto
    preso dall'attenzione. Il piccolo Dochturov sedeva proprio di fronte a
    Weirother  con  aria modesta e zelante e,  chino sulla carta spiegata,
    studiava coscienziosamente  lo  schieramento  e  il  terreno  che  non
    conosceva.  Parecchie  volte pregò Weirother di ripetere alcune parole
    che non aveva ben  compreso  e  alcuni  difficili  nomi  di  villaggi.
    Weirother lo accontentava, e Dochturov prendeva appunti.
    Quando la lettura,  durata più di un'ora, fu finita, Langeron fermò di
    nuovo la tabacchiera e,  senza guardare Weirother e  nessun  altro  in
    modo particolare, cominciò a esporre le difficoltà di attuazione di un
    piano come quello,  piano che supponeva note le condizioni del nemico,
    mentre tali condizioni potevano mutare di continuo, dato che il nemico
    era in movimento.  Le osservazioni di Langeron  erano  giuste,  ma  si
    capiva  che  il  loro  scopo  era soprattutto quello di far sentire al
    generale Weirother,  che aveva letto il suo piano di schieramento  con
    la  boriosa  sicurezza di chi si trova davanti a scolaretti,  che egli
    non era in presenza di ignoranti,  ma di uomini  capaci  di  insegnare
    qualcosa a lui,  in fatto di questioni militari.  Allorché la monotona
    voce di Weirother tacque Kutuzòv  aveva  aperto  gli  occhi,  come  un
    mugnaio  che  si desta quando si interrompe il soporifero rumore delle
    ruote del mulino.  Ascoltò ciò che diceva Langeron e,  come se volesse
    chiedere: "Ah, vi occupate ancora di queste sciocchezze?", si affrettò
    a chiudere gli occhi e chinò il capo più di prima.
    Cercando  di ferire quanto più velenosamente fosse possibile Weirother
    nel suo amor proprio  di  autore  militare,  Langeron  dimostrava  che
    Bonaparte  poteva facilmente attaccare invece di subire l'attacco e in
    tal modo rendere  assolutamente  vano  il  piano  operativo  dei  suoi
    avversari.  Weirother  rispose  a tutte le osservazioni con un sorriso
    calmo e sprezzante preparato,  era chiaro,  per  qualsiasi  obiezione,
    indipendentemente da ciò che gli sarebbe stato detto.
    -  Se  egli  avesse  potuto  attaccare,  ci  avrebbe attaccati oggi  -
    disse.
    - Supponete dunque che  non  abbia  forze  sufficienti?    -    chiese
    Langeron.
    -  E'  molto  se ha quarantamila uomini  -  rispose Weirother,  con il
    sorriso indulgente di un medico al quale un cerusico  voglia  indicare
    un rimedio.
    -  Se è così,  egli prepara la sua rovina aspettando il nostro attacco
    -    obiettò  Langeron  con  un  fine,   ironico  sorriso,   guardando
    Miloràdovic' che gli era vicino, per avere approvazione e conferma.
    Ma  Miloràdovic'  in quel momento non pensava affatto a ciò che i suoi
    colleghi stavano discutendo.
    - "Ma foi" [66.  In fede mia]  -  disse.   -  Vedremo domani sul campo
    di battaglia.
    Weirother  sorrise di nuovo con quel sorriso che pareva voler dire che
    gli sembrava ridicolo e strano incontrare delle obiezioni da parte dei
    generali russi ed essere costretto a dimostrare cose delle  quali  non
    soltanto lui, ma anche i due imperatori erano più che convinti.
    - Il nemico ha spento i fuochi e laggiù nel suo accampamento si ode un
    rumore continuo  -  disse.   -  Cosa significa?  O si ritira,  ed è la
    sola cosa che dobbiamo temere, o cambia posizione  -  e, così dicendo,
    sorrise.  -  Ma se anche occupasse la posizione di Thuras, non farebbe
    altro  che  evitarci  delle  difficoltà  e   tutte   le   disposizioni
    resterebbero valide sino ai minimi particolari.
    -  E  in  che modo?   -  chiese il principe Andréj che già da un pezzo
    aspettava il momento per esprimere i propri dubbi.
    Kutuzòv si svegliò, tossì e guardò i generali.
    - Signori, le disposizioni per le operazioni di domani, anzi, per oggi
    giacché è già passata la mezzanotte,  non possono essere cambiate    -
    disse.  -  Voi le avete udite, e noi tutti compiremo il nostro dovere.
    Prima  della  battaglia  non c'è nulla di più importante che...   -  e
    tacque un momento  -  nulla di  più  importante  che  fare  una  bella
    dormita.
    E  fece l'atto di alzarsi.  I generali si inchinarono e uscirono.  Era
    già passata la mezzanotte. Anche il principe Andréj lasciò la sala.

    Il Consiglio di guerra,  davanti al quale il principe Andréj non aveva
    potuto  esporre,  come  sperava,  il  suo progetto,  lasciò in lui una
    impressione vaga e confusa. Chi aveva ragione?  Dolgorukov e Weirother
    o  Kutuzòv,  Langeron  e  quanti  altri  non  approvavano  il piano di
    attacco?  Non lo sapeva.  "Ma possibile che Kutuzòv non  abbia  potuto
    esprimere  direttamente all'imperatore le sue idee?  Possibile che non
    possa agire diversamente?  Possibile che per considerazioni  personali
    di alcuni cortigiani si debbano mettere a repentaglio migliaia di vite
    e anche la mia,  la mia vita?",  diceva tra sé.  "Sì, è possibilissimo
    che domani io resti ucciso",  pensò.  E a un  tratto,  all'idea  della
    morte,  una quantità di ricordi,  i più lontani e i più intimi, gli si
    ridestarono nella mente;  ricordò l'ultimo  saluto  al  padre  e  alla
    moglie,  ricordò  i primi tempi del suo amore,  la gravidanza di lei e
    provò per Liza e  per  se  stesso  un  senso  di  pietà.  In  preda  a
    un'agitazione   nervosa  e  commossa,   uscì  dalla  casupola  in  cui
    alloggiava con Nesvitzkij e si mise a passeggiare davanti a essa.
    La notte era  avvolta  dalla  nebbia,  attraverso  la  quale  filtrava
    misteriosamente  la luce della luna.  "Sì,  domani",  pensava,  "forse
    domani tutto sarà finito per me,  forse questi ricordi non avranno più
    alcun significato.  Domani,  probabilmente, anzi certamente,  -  ne ho
    il presentimento  -  dovrò finalmente mostrare per la prima volta  ciò
    di  cui  sono  capace".  E  si figurò la battaglia,  la sconfitta,  il
    concentramento della mischia in un punto solo,  lo  smarrimento  e  la
    confusione  di tutti i capi.  Ed ecco che quel momento felice,  quella
    sua Tolone da tanto tempo attesa finalmente gli si offre. Egli esprime
    con chiara fermezza la sua opinione a  Kutuzòv,  a  Weirother  e  agli
    imperatori.   Tutti   sono   colpiti   dalla   giustezza   delle   sue
    considerazioni, ma nessuno si assume la responsabilità di realizzarle.
    Allora egli si mette alla testa di un reggimento,  di  una  divisione,
    pone come condizione che nessuno interferisca nei suoi piani,  conduce
    la sua divisione nel punto decisivo e da solo riporta  la  vittoria...
    "E  la morte e la sofferenza?",  sussurra dentro di lui un'altra voce.
    Ma  il  principe  Andréj  non  ascolta  questa  voce  e   continua   a
    fantasticare  sui suoi successi.  La battaglia che segue è preparata e
    organizzata da lui solo.  Egli ha il titolo di ufficiale di  ordinanza
    di Kutuzòv,  ma in realtà è lui,  Andréj Bolkonskij,  che fa tutto. E'
    lui solo che vince la battaglia.  Kutuzòv viene esautorato ed  egli  è
    nominato generalissimo... "E poi?", sussurra di nuovo l'altra voce, "e
    poi, se prima di fare tutto ciò non sarai ferito, ucciso, ingannato, e
    poi?". "E poi", risponde a se stesso il principe Andréj, "e poi non so
    che cosa accadrà,  non so e non voglio sapere. Ma se voglio questo, se
    voglio la gloria, se voglio che gli uomini mi conoscano, mi amino, non
    ho alcuna colpa di volerlo,  di non voler altro che questo,  di vivere
    soltanto  per  questo,  sì,  soltanto  per  questo!  Non lo dirò mai a
    nessuno ma,  mio Dio,  che cosa devo fare se non amo nulla fuorché  la
    gloria  l'amore degli uomini?  La morte,  le ferite,  la perdita della
    famiglia,  nulla mi spaventa!  Per quanto mi possano essere  cari  mio
    padre,  mia  sorella,  mia  moglie  -  le persone che amo di più -  le
    darei subito tutte,  anche se ciò possa parere terribile e innaturale,
    per un momento di gloria e di trionfo,  per essere amato da uomini che
    non conosco e non conoscerò mai,  ecco,  proprio per l'amore di questi
    uomini", pensava, prestando orecchio ai discorsi che si svolgevano nel
    cortile  dell'abitazione  di Kutuzòv,  dove echeggiavano le voci degli
    attendenti che preparavano i bagagli.  Una voce,  probabilmente quella
    del cocchiere, canzonando il vecchio cuoco di Kutuzòv, che il principe
    Andréj conosceva e che si chiamava Tit, diceva:
    - Tit, ehi, Tit?
    - Che vuoi?  -  rispondeva il vecchio.
    - Tit, va' a trebbiare il grano  -  diceva il burlone.
    - Va' al diavolo!  -  risonava un'altra voce, coperta dalle risate dei
    domestici e degli attendenti.
    "Eppure io li amo e voglio trionfare soltanto per tutti costoro; anelo
    soltanto a questa forza misteriosa e a questa gloria che sento passare
    sopra di me, qui, in mezzo a questa nebbia!".


    CAPITOLO 13.

    Rostòv  si  trovava quella notte con il suo plotone agli avamposti del
    distaccamento di Bagratiòn.  I suoi ussari erano sparsi a  due  a  due
    lungo  la  linea;  egli  stesso  la percorreva a cavallo,  cercando di
    lottare contro il sonno che irresistibilmente  lo  vinceva.  Alle  sue
    spalle  era visibile un'enorme distesa nella quale erano disseminati i
    fuochi di bivacco del nostro esercito, che ardevano confusamente nella
    nebbia. Davanti a lui buio e foschia...
    Per quanto Rostòv aguzzasse lo sguardo in quella  lontananza  brumosa,
    non  vedeva nulla;  ora gli pareva di scorgere qualcosa di grigio o di
    nero,  ora alcuni fuochi balenavano laggiù  dove  doveva  trovarsi  il
    nemico,  ora gli pareva che tutto fosse frutto della sua vista. Gli si
    chiudevano gli occhi e nell'immaginazione gli sorgevano  di  volta  in
    volta vuoi l'imperatore, vuoi Denissov, vuoi i suoi ricordi moscoviti:
    egli  si  affrettava  ad  aprire  di nuovo gli occhi e lì davanti a sé
    vedeva la testa e le orecchie  del  cavallo  sulla  cui  groppa  stava
    seduto,  le  nere figure degli ussari quando si avvicinava a sei passi
    da loro e, in lontananza, ancora oscurità, ancora nebbia.  "Perché no?
    Può darsi benissimo",  pensava Rostòv,  "che l'imperatore mi incontri,
    mi dia un incarico come a un qualunque altro ufficiale e mi dica: "Va'
    in ricognizione laggiù".  Molte volte ho sentito dire  come  per  puro
    caso abbia conosciuto un ufficiale e l'abbia preso con sé.  Ah,  se mi
    prendesse con sé!  Come vigilerei su di lui,  come gli direi tutta  la
    verità,  come gli denunzierei coloro che lo ingannano!". E Rostòv, per
    immaginarsi con vivezza il proprio affetto e la propria devozione  per
    il sovrano,  si raffigurava un nemico o un traditore tedesco,  ed egli
    non solo lo uccideva con piacere, ma lo schiaffeggiava su tutte due le
    guance davanti all'imperatore.  A  un  tratto,  un  grido  lontano  lo
    riscosse. Egli sussultò e aprì gli occhi.
    "Dove  sono?  Ah  sì,  agli avamposti.  Parola d'ordine e controparola
    sono: timone e Olmütz. Peccato che il nostro squadrone sia di riserva,
    domani!",  pensò.  "Chiederò di essere mandato al fuoco: forse  questa
    sarà l'unica occasione per vedere l'imperatore.  Già, tra poco è l'ora
    del cambio.  Farò ancora un giro  e  poi  andrò  dal  generale  e  gli
    esprimerò il mio desiderio". Si raddrizzò sulla sella e spinse innanzi
    il  cavallo per ispezionare ancora una volta la linea dei suoi ussari.
    Gli pareva che il buio fosse meno fitto.  A  sinistra  si  vedeva  una
    salita lievemente illuminata e, di fronte, un'altura nera che sembrava
    diritta come un muro.  Su quell'altura spiccava una macchia bianca che
    Rostòv non sapeva assolutamente definire: era una radura in  un  bosco
    illuminata  dalla  luna  o neve non ancora sciolta o un gruppo di case
    bianche?  Gli parve persino che su quella macchia bianca  qualcosa  si
    muovesse. "Certo è neve quella macchia; una macchia, "une tache"" [67.
    una macchia], pensò Rostòv. "Ma no, non è "une tache"...".
    "Natascia,  sorella, occhi neri... Na... taska... Come si meraviglierà
    quando le dirò che ho visto l'imperatore! Nataska, prendi...".
    - Più a destra,  signoria,  qui ci sono dei cespugli  -  disse la voce
    di  un  ussaro  davanti  al  quale Rostòv,  mezzo addormentato,  stava
    passando.  Rostòv alzò il capo  che  gli  penzolava  quasi  sino  alla
    criniera  del  cavallo  e  si  fermò  accanto  all'ussaro.   Un  sonno
    giovanile,  infantile quasi lo vinceva inesorabilmente.  "A  che  cosa
    stavo pensando?  Non voglio dimenticarlo. Come parlerò all'imperatore?
    No...  no...  questo  avverrà  domani.   Ah  ecco  sì...   pensavo  di
    attaccare...  ma  chi?  Gli ussari e i baffi...  Un ussaro con i baffi
    passava sempre per la via Tverskàja a Mosca:  ho  pensato  a  lui  una
    volta proprio davanti alla casa di Gurev... il vecchio Gurev... Eh sì,
    è  un  gran bravo ragazzo Denissov!  Ma tutte queste sono sciocchezze.
    Ciò che importa  è  che  adesso  l'imperatore  è  qui.  Quando  mi  ha
    guardato, voleva dirmi qualcosa, ma non ha osato... No, ero io che non
    osavo. Ma sono sciocchezze... l'essenziale è di non dimenticare quello
    che ho pensato di importante,  sicuro...  Na...  taska... attaccare...
    sì,  sì,  sì,  va bene!".  E di nuovo la testa si abbassava  verso  la
    criniera  del  cavallo.  A  un  tratto  gli  parve  che gli sparassero
    addosso.  "Che  è?  Che  è?  Giù,  da'  sciabolate.  Che  è?",   disse
    svegliandosi.  Nell'attimo in cui apriva gli occhi, Rostòv udì davanti
    a sé,  laggiù dov'era il nemico,  le grida prolungate di  migliaia  di
    voci.  Il suo cavallo e quello dell'ussaro che cavalcava al suo fianco
    drizzarono le orecchie.  Nel punto da cui  si  sentiva  giungere  quel
    frastuono,  si accese e si spense prima un fuoco, poi un altro e lungo
    tutta la linea delle truppe francesi,  sulle colline,  brillarono  più
    fuochi mentre si moltiplicavano incessantemente le grida. Rostòv udiva
    delle parole francesi,  ma non poteva distinguerle. Era un rombo fatto
    di troppe voci. Adesso si riusciva soltanto a sentire: aaa! e rrr!!
    - Che cos'è?  Che ne pensi?   -  domandò Rostòv all'ussaro che era  al
    suo fianco.  -  E' il nemico?
    L'ussaro non rispose.
    -  Ehi,  non  senti?    -   chiese Rostòv,  dopo aver atteso un po' la
    risposta.
    - E chi lo può sapere, signoria?  -  rispose di malavoglia l'ussaro.
    - Giudicando dalla posizione dovrebbe  trattarsi  del  nemico,  no?  -
    ripeté Rostòv.
    -  Può darsi di sì,  può darsi di no  -  disse l'ussaro.   -  E' buio,
    non si sa... Ehi, ehi, tu...  -  gridò al cavallo che si agitava sotto
    di lui.
    Anche  il  cavallo  di  Rostòv  era   molto   irrequieto:   si   mosse
    nervosamente,  scalpitò con gli zoccoli sulla terra indurita dal gelo,
    ascoltando le voci e  guardando  i  fuochi.  Le  grida,  crescendo  di
    continuo,  si  fusero infine in un unico clamore generale quale poteva
    essere prodotto soltanto da un  esercito  di  migliaia  di  uomini.  I
    fuochi si propagavano sempre di più, forse accesi lungo tutta la linea
    francese.  Rostòv  non  aveva più sonno.  Le grida allegre e trionfali
    dell'esercito nemico lo eccitavano.  Ora  distingueva  chiaramente  le
    parole:  "Vive l'empereur!  Vive l'empereur!" [68.  Viva l'imperatore!
    Viva l'imperatore!].
    - E non devono essere lontani, forse là,  dietro il ruscello  -  disse
    all'ussaro che gli stava vicino.
    Costui si limitò a sospirare senza rispondere, e tossì irritato. Lungo
    la  linea  degli  ussari risonò lo scalpitio di un cavallo al trotto e
    dalla nebbia notturna emerse a un tratto, simile a un enorme elefante,
    la figura di un sottufficiale degli ussari.
    - Signor tenente, i generali!  -  disse il nuovo venuto, avvicinandosi
    a Rostòv.
    Rostòv,  continuando a voltarsi dalla parte dei fuochi e delle  grida,
    trottò  con  il  suo  subalterno  incontro  ad  alcuni  cavalieri  che
    avanzavano lungo la linea.  Uno di essi montava un cavallo bianco.  Il
    principe  Bagratiòn  con  il  principe Dolgorukov e i loro aiutanti di
    campo erano venuti a osservare quello strano  fenomeno  dei  fuochi  e
    delle  grida dell'esercito nemico.  Rostòv,  avvicinatosi a Bagratiòn,
    fece il suo rapporto e, unitosi agli aiutanti di campo, ascoltò quello
    che dicevano i generali.
    - Credetemi,  -  disse il principe Dolgorukov,  rivolto a Bagratiòn  -
    non  è  che  un'astuzia;  egli  si  è  ritirato  e  ha  ordinato  alla
    retroguardia di accendere i fuochi e di  fare  rumore  per  trarci  in
    inganno.
    - Non credo...  -  rispose Bagratiòn;  -  sin da ieri sera li ho visti
    su quella collina; se si fossero ritirati se ne sarebbero andati anche
    di là.  Signor ufficiale,  -  continuò, rivolgendosi a Rostòv  -  sono
    ancora laggiù i suoi esploratori?
    - Ieri  sera  c'erano;  ora  non  posso  saperlo,  eccellenza.  Se  me
    l'ordinate, andrò a vedere con i miei ussari  -  disse Rostòv.
    Bagratiòn si fermò e,  senza rispondere,  cercava di distinguere nella
    nebbia il viso di Rostòv.
    - Be' andate a vedere  -  gli disse dopo un breve silenzio.
    - Signorsì.
    Rostòv spronò il cavallo, chiamò il sottufficiale Fedcenko e altri due
    ussari,  comandò loro di seguirlo e si  diresse  al  trotto  lungo  il
    pendio,  dirigendosi  verso  il  punto da cui giungevano incessanti le
    grida, in preda a una lieta emozione per il fatto di andare,  solo con
    i  suoi  due  uomini,  verso quella lontananza nebbiosa,  misteriosa e
    piena di pericoli, dove nessuno era andato prima di lui. Bagratiòn gli
    gridò dall'alto di non oltrepassare il ruscello,  ma Rostòv  finse  di
    non  aver  udito  e,  senza  fermarsi,  continuò  ad andare sempre più
    lontano, ingannandosi di continuo,  scambiando gli arbusti per alberi,
    i  borri  per  uomini  e spiegandosi poi,  uno dopo l'altro,  i propri
    errori.  Scesa la collina a trotto serrato,  non vedeva più né  fuochi
    dei Russi,  né quelli del nemico,  ma udiva più alte e più distinte le
    grida dei Francesi. Giù nella pianura,  davanti a sé,  scorse qualcosa
    che  sembrava  un fiume,  ma quando fu più vicino riconobbe una strada
    maestra. Uscito sulla strada, trattenne il cavallo, incerto se dovesse
    seguirla o attraversarla soltanto e  proseguire,  per  i  campi  neri,
    verso  la  collina  opposta.  Seguire  la strada,  che brillava tra la
    nebbia,  era meno pericoloso perché più facilmente si poteva vedere se
    vi fossero degli uomini.
    - Seguitemi!   -  disse e,  dopo aver traversato la strada al galoppo,
    si spinse su per l'altura verso il luogo in cui la sera  aveva  veduto
    un picchetto francese.
    - Signoria, eccoli!  -  gridò alle sue spalle uno degli ussari.
    E  Rostòv  non aveva ancora potuto distinguere una massa scura apparsa
    improvvisamente nella nebbia,  quando brillò una fiamma,  si  udì  una
    detonazione e un proiettile ronzò in alto,  in mezzo alla nebbia,  con
    un suono dolente e tacque. Un secondo fucile non sparò,  ma brillò una
    fiamma  sul  focone.  Rostòv  voltò  il  cavallo  e  tornò indietro al
    galoppo. Con intervalli diversi si udirono altri quattro colpi e altre
    quattro pallottole passarono  sibilando  e  producendo  suoni  diversi
    l'uno  dall'altro.  Rostòv,  trattenendo il cavallo eccitato dai colpi
    come il  suo  cavaliere,  continuò  al  passo.  "Bene,  bene!  Ancora!
    Ancora",  diceva dentro di lui una voce allegra.  Ma le fucilate erano
    cessate.
    Soltanto quando fu vicino a Bagratiòn,  Rostòv lanciò  il  cavallo  al
    galoppo e portando la mano alla visiera si accostò al generale.
    Dolgorukov  insisteva nella sua opinione,  secondo la quale i Francesi
    si ritiravano e avevano acceso  dei  fuochi  soltanto  per  trarre  in
    inganno gli avversari.
    - Ma questo cosa prova?  -  stava dicendo, mentre Rostòv si accostava.
    -  Possono essersi ritirati e aver lasciato qualche picchetto.
    - Evidentemente non se ne sono ancora andati tutti, principe  -  disse
    Bagratiòn.  -  Domani, domani mattina sapremo tutto .
    - Eccellenza,  il picchetto di ieri sera è ancora sulla collina,  allo
    stesso posto  -  riferì Rostòv,  chino in avanti,  continuando a tener
    la  mano  alla  visiera  e  incapace  di  frenare il sorriso di gioia,
    provocato in lui  dalla  corsa  e  specialmente  dal  fischiare  delle
    pallottole.
    -  Va  bene,  va  bene  -  disse Bagratiòn;   -  vi ringrazio,  signor
    ufficiale.
    - Eccellenza, permettetemi di rivolgervi una preghiera.
    - Di che si tratta?
    - Domani il mio squadrone dovrà rimanere di riserva:  permettetemi  di
    pregarvi di aggregarmi al primo squadrone.
    - Come vi chiamate ?
    - Conte Rostòv.
    - Bene. Restate con me come ufficiale d'ordinanza.
    - Sei figlio di Iljà Andréevic'?  -  chiese Dolgorukov.
    Ma Rostòv non gli rispose.
    - Allora posso sperare, eccellenza?
    - Darò gli ordini opportuni.
    "Domani,  chissà,  è  possibile  che  mi  si mandi dall'imperatore con
    qualche messaggio", pensò Rostòv. "Dio sia lodato!".
    Le grida e i fuochi nel campo nemico  erano  causati  dal  fatto  che,
    mentre  tra  le  file si leggeva un proclama di Napoleone,  questi,  a
    cavallo,   passava  tra  i  suoi  bivacchi.   I  soldati,   vedendolo,
    accendevano  fasci  di  paglia  e  gridando:  "Vive  l'empereur!"  gli
    correvano dietro.
    Ecco il testo del proclama di Napoleone:
    "Soldati!  L'esercito russo  si  leva  contro  di  voi  per  vendicare
    l'esercito  austriaco di Ulma.  Sono quegli stessi battaglioni che voi
    sbaragliaste presso Hollabrünn e che  poi  inseguiste  incessantemente
    sino a qui. Le posizioni che noi occupiamo sono formidabili e mentre i
    nemici marceranno per girare attorno alla mia destra, noi presenteremo
    il  fianco!  Soldati!  Io  stesso guiderò i vostri battaglioni.  Starò
    lontano dal fuoco se voi,  con il vostro consueto coraggio,  porterete
    nelle  file  nemiche  il disordine e il turbamento;  ma se la vittoria
    rimanesse,  anche per un solo istante,  incerta,  vedreste  il  vostro
    imperatore  esporsi  per  primo  ai  colpi dei nemici,  perché non può
    esservi incertezza nella vittoria,  soprattutto  in  questa  giornata,
    nella  quale  è  in  gioco  l'onore  della  fanteria  francese,   così
    necessario all'onore dell'intera nazione.
    "Non si scompongano le file con il pretesto di portar  via  i  feriti!
    Ognuno  si  metta  bene  in  mente  l'idea  che bisogna vincere questi
    mercenari dell'Inghilterra,  animati da tanto  odio  verso  la  nostra
    nazione.  Questa  vittoria  metterà  fine  alla  nostra campagna e noi
    potremo ritornare ai nostri alloggiamenti invernali, dove ci aspettano
    le nuove truppe che ora si stanno formando in Francia;  allora la pace
    sarà degna del mio popolo, di voi e di me
    Napoleone".


    CAPITOLO 14.

    Alle cinque del mattino l'oscurità era ancora completa.  Le truppe del
    centro,  della riserva e il fianco destro di Bagratiòn stavano tuttora
    immobili,  ma all'ala sinistra, le colonne di fanteria di cavalleria e
    di artiglieria  che  dovevano  per  prime  scendere  dalle  alture  ad
    attaccare  l'ala destra dei Francesi e respingerla,  secondo il piano,
    entro i monti della Boemia,  già si agitavano e cominciavano a  levare
    il  campo.  Il  fumo dei falò,  nei quali si gettava tutto ciò che era
    ingombrante,  pungeva gli  occhi.  Faceva  freddo  ed  era  buio.  Gli
    ufficiali  bevevano  in  fretta il tè e facevano colazione;  i soldati
    masticavano le gallette,  pestavano i piedi per  scaldarsi  e  stavano
    riuniti  attorno  ai  fuochi,  gettando  sulla  legna  i  resti  delle
    baracche,  le sedie,  i tavoli,  le ruote,  i mastelli e tutte le cose
    superflue  che non si potevano trasportare.  Le guide austriache delle
    colonne  passavano  tra  le  truppe  russe   e   davano   il   segnale
    dell'avanzata  imminente.  Non appena un ufficiale austriaco compariva
    presso  la  tenda  di  un  comandante  di  reggimento,  il  reggimento
    cominciava a prepararsi: i soldati lasciavano i fuochi,  accatastavano
    gli  zaini  nelle  carrette,   nascondevano  la  pipa  negli  stivali,
    prendevano  i fucili e si allineavano.  Gli ufficiali si abbottonavano
    la giubba,  si agganciavano le  sciabole  e  gli  zaini  e,  gridando,
    percorrevano le file dei loro uomini,  gli addetti alle salmerie e gli
    attendenti attaccavano i cavalli,  caricavano e legavano i carri.  Gli
    aiutanti  di  campo,  i  comandanti  di  battaglione  e di reggimento,
    montavano in sella, si facevano il segno della croce,  impartivano gli
    ultimi ordini,  le istruzioni, gli incarichi ai soldati delle salmerie
    che rimanevano indietro.  Si udiva lo scalpiccio uniforme di  migliaia
    di  piedi.  Le colonne si mettevano in moto,  senza nulla sapere della
    loro meta, senza vedere, a causa dei compagni che li circondavano, del
    fumo e della nebbia diventata più fitta,  né il luogo che  lasciavano,
    né quello verso il quale si avviavano.
    Il  soldato  in  marcia  è  circondato,  limitato e trascinato dal suo
    reggimento come il marinaio lo è dalla nave che lo porta.  Per  quanto
    vada  lontano,  per  quanto strane,  sconosciute e pericolose siano le
    latitudini che tocca,  dappertutto e sempre ha attorno a sé,   -  come
    il marinaio ha ovunque la stessa tolda,  gli stessi alberi,  le stesse
    sartie della nave  -  i medesimi compagni, le solite file, il consueto
    sergente Ivàn Mitric',  l'immancabile cane della compagnia,  Zucka,  i
    medesimi  superiori.   Raramente  il  soldato  desidera  conoscere  le
    latitudini in cui la sua nave si trova; ma nel giorno della battaglia,
    Dio sa come e di dove, nello spirito delle truppe si diffonde,  uguale
    per tutti,  una nota austera che preannunzia l'avvicinarsi di qualcosa
    di decisivo e di solenne,  che eccita in ciascuno un'avida  curiosità.
    Nei giorni di battaglia il soldato cerca di uscire dagli interessi del
    suo  reggimento,  tende  l'orecchio,  aguzza  gli  occhi  e si informa
    avidamente su ciò che avviene attorno a lui.
    La nebbia era tanto fitta che, quantunque spuntasse il giorno,  non si
    vedeva a dieci passi di distanza. I cespugli sembravano alberi enormi,
    i luoghi piani parevano burroni o declivi. Dappertutto, da ogni parte,
    si poteva urtare contro un nemico invisibile. Ma le colonne marciarono
    a lungo, sempre in mezzo a quella nebbia, scendendo e salendo colline,
    oltrepassando giardini e orti,  in un paese nuovo,  ignoto;  senza mai
    incontrare il nemico. I soldati, anzi, venivano a sapere che davanti e
    dietro a loro, nella stessa direzione, si movevano altre colonne russe
    e ogni soldato marciava con il cuore sereno perché aveva la  sicurezza
    che dove andava lui  -  non sapeva dove  -  andavano anche molti altri
    dei nostri.
    - Sai, sono passati anche quelli di Kursk  -  si diceva tra le file.
    -  E' incredibile,  fratello mio,  pensare alla massa di uomini che si
    sono riuniti!  Guardavo ieri sera quando si accendevano i fuochi e non
    se ne vedeva la fine! Proprio come a Mosca, parola mia!
    Nonostante  che  non  uno  dei comandanti delle colonne percorresse le
    file e parlasse con i soldati (i comandanti delle colonne come abbiamo
    veduto nella riunione del Consiglio di  guerra  erano  di  malumore  e
    scontenti dell'azione intrapresa e perciò si limitavano a eseguire gli
    ordini   senza  preoccuparsi  di  tener  su  il  morale  dei  soldati)
    nonostante questo,  i soldati  procedevano  allegramente  come  sempre
    quando vanno all'attacco.  Ma dopo circa un'ora di marcia nella nebbia
    fitta,  la maggior parte  della  truppa  fu  costretta  a  fermarsi  e
    attraverso  le file si diffuse la dolorosa consapevolezza di un grande
    disordine e di una  grande  confusione.  E'  difficile  dire  come  si
    propaghi  tale  sensazione,  ma  è  certo che essa si propaga rapida e
    sicura,  inavvertita  e  irresistibile,   come  l'acqua  in  un  luogo
    scosceso. Se l'esercito russo fosse stato solo, senza alleati, sarebbe
    forse  passato  ancora molto tempo prima che quella sensazione confusa
    di disordine diventasse comune certezza: ma ora,  provando un  piacere
    particolare    e    naturale,    nell'attribuire    la   colpa   della
    disorganizzazione alla stupidità dei Tedeschi,  tutti  erano  convinti
    dell'esistenza  di  una pericolosa confusione dovuta a quei divoratori
    di salsicce.
    - Che succede?  Perché ci fermiamo?  Ci  siamo  già  imbattuti  con  i
    Francesi?
    - No, non si sente nulla... sparerebbero.
    -  Ci  siamo tanto affrettati a metterci in moto e ora eccoci fermi in
    mezzo alla campagna!  Sono sempre loro,  quei  maledetti  Tedeschi,  a
    rovinare tutto! Quei demoni senza un po' di cervello !
    -  Io  li  farei  marciare  davanti,  ma  quelli,  non aver paura,  si
    accalcano alle nostre spalle. E intanto noi qui fermi, senza mangiare!
    - Insomma, ci si muove, là? Dicono che la cavalleria abbia sbarrato la
    strada  -  disse un ufficiale.
    - Ah, quei maledetti Tedeschi!  Non conoscono neppure il loro paese  -
    osservò un altro.
    -  Di  quale  divisione  siete?    -    gridò  un  aiutante  di campo,
    avvicinandosi.
    - Della diciottesima.
    - Ma allora,  perché siete qui?  Già da un pezzo dovreste  essere  più
    avanti. Ora non potete muovervi prima di sera...
    -  I  soliti ordini insensati: non sanno neppur loro quello che fanno!
    -  esclamò un ufficiale, e si allontanò.
    Poi passò un generale che,  irritatissimo,  si mise  a  gridare  frasi
    violente in una lingua che non era la russa.
    - Tafa-lafa...  che diavolo dice quello?  Non si capisce un accidenti!
    -  esclamò un soldato,  facendo il verso al generale che  già  si  era
    allontanato.
    - Io li fucilerei, quei vigliacchi!
    -  Avevamo l'ordine di trovarci alle nove sul posto e non siamo ancora
    arrivati a mezza strada. Che perfetta organizzazione!   -  si ripeteva
    da diverse parti.
    E  quello  slancio  di energia,  manifestatosi nella truppa all'inizio
    della marcia,  incominciava a mutarsi in stizza e collera  contro  gli
    ordini assurdi e contro i Tedeschi.
    Ecco  qual  era,  in  realtà,  la  causa  della confusione: durante il
    movimento della cavalleria austriaca,  che marciava all'ala  sinistra,
    il  comando  superiore,  costatando  che  il  centro  russo era troppo
    lontano  dall'ala  destra,   aveva  dato  ordine  alla  cavalleria  di
    spostarsi  sulla  destra.  Alcune  migliaia  di cavalli stavano perciò
    passando  ora  davanti  alla  fanteria,  la  quale  era  costretta  ad
    aspettare.
    In  testa  era  sorta  una discussione tra il comandante della colonna
    austriaca e un generale russo.  Questi strepitava,  pretendendo che la
    cavalleria  si  fermasse;  l'austriaco  cercava di dimostrargli che la
    colpa non era sua, ma dei comandi superiori. Frattanto le truppe erano
    costrette a star ferme: si annoiavano ed erano giù di morale.
    Dopo un'ora, finalmente,  poterono riprendere la marcia e cominciarono
    a scender giù per la collina.  La nebbia,  rada sulla cima,  diventava
    sempre più densa, là dove le truppe erano scese. Avanti,  nella nebbia
    fitta,  si udirono alcune scariche di fucileria, dapprima a intervalli
    irregolari: tra...  tra  ta  ta  e  poi  sempre  più  regolari  e  più
    frequenti. Il combattimento si iniziava sul fiumiciattolo Goldbach.
    Non  avendo  previsto  di  incontrare  a  valle  il nemico sul fiume e
    scontratisi in esso per caso,  senza una parola di incoraggiamento dai
    loro capi, con la convinzione di essere arrivati tardi e, soprattutto,
    senza  nulla vedere né davanti né attorno a loro a causa della nebbia,
    i Russi scambiavano,  con lentezza e  senza  alcuna  energia,  qualche
    fucilata  con  i  nemici,  avanzavano  e  di  nuovo si fermavano,  non
    ricevendo a tempo gli ordini dei comandanti e degli aiutanti di campo,
    che vagavano qua e là,  in mezzo alla nebbia,  attraverso quel terreno
    sconosciuto, senza riuscire a trovare i loro reparti. Così cominciò la
    battaglia  per  la prima,  seconda e terza colonna,  giunte alle falde
    della collina.  La quarta,  con la quale si trovava lo stesso Kutuzòv,
    era ferma sulle alture di Pratzen.
    In  basso,  dove l'azione era iniziata,  la nebbia infittiva sempre di
    più. In alto si era diradata, ma non era tuttavia possibile vedere ciò
    che avveniva di fronte.  Si trovavano le forze nemiche a  distanza  di
    circa  dieci  miglia  come noi supponevamo,  oppure laggiù,  in quella
    fascia di nebbia? Sino a dopo le otto, nessuno poté saperlo.
    Erano le nove antimeridiane. La nebbia,  giù in basso,  formava ancora
    un   mare  grigio  e  compatto,   ma  sul  villaggio  di  Schlapanitz,
    sull'altura dove si trovava Napoleone attorniato dai suoi marescialli,
    l'aria era perfettamente limpida.  Il cielo sopra di lui era chiaro  e
    azzurro,  e  l'enorme  disco  del  sole,  simile  a un immenso sughero
    galleggiante,  ondeggiava sulla superficie di un mare di nebbia  color
    del latte.  Non soltanto tutte le truppe francesi,  ma anche Napoleone
    con il suo stato maggiore,  si trovavano non oltre il fiume e al di là
    dei villaggi di Sokolnitz e di Schlapanitz  -  dietro ai quali avevamo
    intenzione di disporre le nostre posizioni e di attaccare battaglia  -
    ma  al  di  qua di essi e tanto vicino alle truppe russe che Napoleone
    poteva distinguere a occhio nudo, in mezzo a esse,  un cavaliere da un
    fante.  Napoleone,  un  po'  innanzi  ai suoi marescialli,  montava un
    piccolo  cavallo  grigio  di  razza  araba  e  indossava  un  cappotto
    turchino,  quello  stesso  con  cui  aveva fatto la campagna d'Italia.
    Muto,  guardava le colline che si profilavano vagamente nella nebbia e
    sulle  quali,  in  lontananza,  si  movevano le truppe russe e porgeva
    orecchio alle scariche di fucileria echeggianti nella valle.  In  quel
    momento,  sul  suo  viso  magro,  non un muscolo si moveva;  gli occhi
    sfavillanti erano immobili e fissi in un sol punto.  Le sue previsioni
    risultavano  giuste:  le truppe russe erano in parte già discese nella
    valle, sino agli stagni e ai laghi,  in parte lasciavano quelle alture
    di  Pratzen  che  egli  aveva intenzione di occupare e che considerava
    come  chiave  di  volta  della  posizione.   Attraverso   la   nebbia,
    nell'avvallamento  formato  da  due  alture  accanto  al  villaggio di
    Pratzen,  egli  vedeva  le  colonne  russe,   con  le  loro  baionette
    luccicanti,  marciare sempre nella stessa direzione e scomparire,  una
    dopo l'altra, nel mare di nebbia.  Dalle informazioni ricevute la sera
    innanzi,  dal  rumore  delle  ruote  e  dei  passi uditi la notte agli
    avamposti,  dal movimento disordinato delle colonne russe,  da tutti i
    calcoli  fatti,  Napoleone  era  convinto che gli alleati lo credevano
    lontano,  innanzi  a  sé,   che  le  colonne  in  moto  verso  Pratzen
    costituivano  il  centro dell'esercito russo e che quel centro era già
    abbastanza debole per essere  attaccato  con  successo.  Tuttavia  non
    voleva ancora iniziare l'azione.
    Quello  era  per  lui  un  giorno  solenne,  l'anniversario  della sua
    incoronazione. Prima dell'alba, aveva preso sonno per alcune ore e poi
    riposato,  allegro,  fresco,  in quella felice disposizione d'animo in
    cui tutto pare possibile e tutto riesce, era salito a cavallo e si era
    recato  sul  campo.  Immobile,  guardava  le alture che si profilavano
    attraverso la nebbia,  e sul  suo  viso  freddo  era  impressa  quella
    particolare sfumatura di gioia sicura e meritata,  che si può scorgere
    sul volto di un giovane innamorato e felice.  I marescialli,  alle sue
    spalle, non osavano distrarre la sua attenzione. Egli guardava a volta
    a  volta  le  alture  di  Pratzen e il sole che,  sempre più luminoso,
    sorgeva al di sopra della nebbia.
    Quando l'astro del giorno emerse del tutto e con  una  luce  accecante
    brillò sui campi e su quell'immenso grigiore,  Napoleone,  come se non
    aspettasse altro per iniziare  la  battaglia,  liberò  dal  guanto  la
    destra  fine e bianca,  fece un cenno ai marescialli e diede ordine di
    attaccare.  I  marescialli,  accompagnati  dagli  aiutanti  di  campo,
    galopparono  via  in  diverse  direzioni e pochi minuti dopo il grosso
    dell'esercito francese  avanzò  rapidamente  verso  quelle  alture  di
    Pratzen che l'esercito russo andava via via abbandonando,  continuando
    a scendere verso sinistra, giù nella valle.


    CAPITOLO 15.

    Alle otto Kutuzòv mosse a cavallo  verso  Pratzen,  alla  testa  della
    quarta  colonna  di  Miloràdovic',   quella  che  doveva  occupare  le
    posizioni delle colonne di Przebyscevskij e di Langeron, già discese a
    valle.  Egli salutò gli uomini del reggimento che era innanzi e ordinò
    di mettersi in marcia, dimostrando così di avere intenzione di guidare
    personalmente  quella  colonna.  Giunto  al  villaggio di Pratzen,  si
    fermò.  Il principe Andréj,  che faceva parte  del  suo  numerosissimo
    séguito,  gli  stava  alle  spalle  di qualche passo.  Egli si sentiva
    turbato,  irritato e nello stesso tempo risoluto e calmo come chiunque
    veda  ormai  vicino  un  momento  da tanto desiderato.  Era fermamente
    convinto che quella giornata sarebbe stata la  sua  Tolone  o  il  suo
    Ponte d'Arcole: come le cose si sarebbero svolte non lo sapeva, ma era
    certo che quello che pensava sarebbe accaduto.  Conosceva il terreno e
    la posizione delle nostre truppe quanto  poteva  conoscerli  qualsiasi
    ufficiale dell'esercito.  Aveva già dimenticato il piano strategico da
    lui ideato, che ormai, era chiaro,  non era più realizzabile.  Adesso,
    aderendo  al  piano di Weirother,  il principe Andréj rifletteva sulle
    possibili eventualità nelle quali sarebbero stati utili le sue  rapide
    considerazioni e la sua risolutezza.
    In basso,  a sinistra, in mezzo alla nebbia, si udivano le scariche di
    fucileria scambiate da truppe invisibili.  Pareva al  principe  Andréj
    che là si fosse concentrata la battaglia, che là si sarebbe trovato il
    maggior ostacolo;  "là",  pensava,  "io sarò mandato con una brigata o
    con una divisione  e  là,  con  la  bandiera  in  pugno,  mi  lancerò,
    travolgendo tutto quanto troverò sulla mia strada".
    Egli  non poteva guardare con indifferenza le bandiere dei battaglioni
    che passavano.  Di continuo,  alla vista  di  ciascuna  di  esse,  gli
    sorgeva  il  pensiero:  forse con questa o forse con quest'altra dovrò
    guidare all'assalto le truppe!
    La nebbia della notte aveva lasciato sulle alture  una  brina  che  si
    trasformava  in rugiada,  ma che si stendeva ancora negli avvallamenti
    come un mare di un bianco lattiginoso.  Giù nella valle,  a  sinistra,
    dove erano discese le nostre truppe e donde provenivano le scariche di
    fucileria  non si vedeva nulla.  Al di sopra delle alture il cielo era
    limpido,  di un luminoso azzurro,  e a destra splendeva lo sfavillante
    disco del sole.  Di fronte, in lontananza, sull'altra riva del mare di
    nebbia,  si vedevano emergere le colline boscose  sulle  quali  doveva
    trovarsi  l'esercito  nemico: infatti si scorgeva confusamente qualche
    cosa.  A destra,  dove la Guardia,  immersa  nella  foschia,  lasciava
    dietro di sé l'eco di un rumore continuo di passi e di ruote, di tanto
    in  tanto  balenava un luccichio di baionette;  a sinistra,  dietro il
    villaggio,  masse altrettanto  numerose  di  cavalleria  avanzavano  e
    scomparivano nella bruma.  Davanti e dietro,  marciava la fanteria. Il
    generalissimo, fermo all'uscita del villaggio,  guardava le truppe che
    gli sfilavano davanti. Quella mattina, Kutuzòv sembrava stanchissimo e
    irritato.  La fanteria che stava passando davanti a lui si fermò senza
    aver ricevuto alcun ordine,  avendo evidentemente  incontrato  qualche
    ostacolo più avanti, sulla sua strada.
    - Ma insomma,  dite che si dispongano per colonne di battaglioni e che
    girino attorno al villaggio  -  gridò irritato Kutuzòv a  un  generale
    che  gli  si  era  avvicinato.    -    Possibile che non comprendiate,
    eccellenza,  mio egregio signore,  che non ci  si  può  distendere  in
    sfilata per la strada di un villaggio mentre si va contro il nemico?
    -  Io  pensavo,  eccellenza,  di dispormi in colonna dopo l'uscita dal
    villaggio  -  rispose il generale.
    Kutuzòv ebbe una risata dispettosa.
    - Bell'affare davvero!  Fareste lo spiegamento proprio  di  fronte  al
    nemico! Ottima idea!
    -  Il  nemico  è  ancora lontano,  eccellenza.  Secondo il piano delle
    operazioni...
    - Ma che piano, ma che piano!  -  gridò stizzosamente Kutuzòv.  -  Chi
    ve l'ha detto? Vi prego di fare quello che vi si ordina.
    - Signorsì, eccellenza.
    - "Mon cher",  -  sussurrò Nesvitzkij al principe Andréj  -  "le vieux
    est d'une humeur de chien" [69. Il vecchio è di pessimo umore].
    Un  generale  austriaco,  dal  pennacchio verde sul cappello e con una
    giacca bianca, si avvicinò al galoppo a Kutuzòv e gli domandò,  a nome
    dell'imperatore, se la quarta colonna fosse già impegnata nell'azione.
    Kutuzòv,  senza  rispondergli,  si  voltò dalla parte opposta e il suo
    sguardo si posò per caso sul principe Andréj,  che era lì accanto.  Al
    vedere  Bolkonskij,  il  generalissimo addolcì l'espressione cattiva e
    amara del suo sguardo, come se volesse significare che il suo aiutante
    di campo non aveva alcuna colpa di quanto stava  accadendo.  E,  senza
    dar risposta al messaggero austriaco, si rivolse a Bolkonskij:
    -  "Allez  voir,  mon  cher,  si  la  troisième  division a dépassé le
    village. Dites-lui de s'arrêter et d'attendre mes ordres" [70.  Andate
    a  vedere,  mio  caro,  se  la  terza  divisione  ha  oltrepassato  il
    villaggio. Ditele di fermarsi e di attendere i miei ordini].
    Non appena il principe Andréj si fu mosso, Kutuzòv lo richiamò.
    - "Et demandez-lui si les tirailleurs sont postés"   -    aggiunse.  -
    "Ce qu'ils font, ce qu'ils font!" [71. E informatevi se hanno disposto
    i tiratori scelti.  Che cosa fanno! Che cosa fanno!]  -  esclamò quasi
    tra sé, sempre senza rispondere all'austriaco.
    Il principe Andréj partì al galoppo per eseguire l'ordine.
    Sorpassati tutti i battaglioni che marciavano davanti a lui,  fermò la
    terza divisione e costatò che,  realmente,  avanti alle nostre colonne
    non c'era una linea di fucilieri. Il comandante che era alla testa del
    reggimento,  fu molto stupito per l'ordine che  il  generalissimo  gli
    mandava  di  far  appostare  i suoi tiratori.  Era infatti convinto di
    avere davanti a sé altre truppe e che il nemico fosse  lontano  almeno
    dieci miglia. Effettivamente, davanti non si vedeva nulla, a eccezione
    di  una distesa deserta in pendio e coperta da una fitta nebbia.  Dopo
    aver trasmesso a nome del comandante supremo l'ordine di riparare alla
    negligenza commessa,  il principe Andréj tornò  indietro  al  galoppo.
    Kutuzòv  era  ancora fermo al posto di prima e con il vecchio,  grosso
    corpo afflosciato sulla sella,  sbadigliava a occhi chiusi.  Le truppe
    non si movevano più, ma stavano immobili con i fucili a pied'arm.
    -  Bene,  bene    -    disse  al principe Andréj,  e si voltò verso un
    generale che,  con l'orologio in mano,  affermava  che  era  tempo  di
    mettersi  in  marcia,  poiché tutte le colonne dell'ala sinistra erano
    già discese al fondo valle.
    - Arriveremo in tempo, eccellenza  -  disse Kutuzòv, sbadigliando.   -
    Arriveremo in tempo!  -  ripeté.
    In quel momento,  alle spalle di Kutuzòv,  si udirono in lontananza le
    grida acclamanti dei reggimenti,  che  si  propagarono  in  un  attimo
    avvicinandosi  alle  colonne  russe.  Si capiva che il personaggio cui
    esse erano dirette doveva passare al galoppo.  Quando anche i  soldati
    del reggimento davanti al quale stava Kutuzòv,  unirono le loro voci a
    quelle che giungevano senza posa,  egli si tirò un po' in disparte  e,
    accigliato,  si  voltò  a  guardare.  Sulla  strada  di Pratzen pareva
    galoppasse un intero squadrone di variopinti cavalieri.  Due  di  essi
    precedevano  gli  altri  a  gran  velocità.  Uno  in uniforme nera con
    pennacchio bianco,  montava un sauro dalla  coda  ritta,  all'inglese;
    l'altro  in divisa bianca era in sella a un cavallo nero.  Erano i due
    imperatori con il loro séguito.  Kutuzòv,  con  l'affettazione  di  un
    subalterno che si trovi in linea, comandò l'attenti alle truppe e poi,
    salutando,  si  avvicinò all'imperatore.  La sua persona e i suoi modi
    erano  improvvisamente  mutati:  egli  aveva  assunto  l'aria  di   un
    subalterno  che  non  discute e,  affettando un rispetto eccessivo che
    sembrò colpire in  modo  sgradevole  l'imperatore  Aleksàndr,  gli  si
    avvicinò salutando.
    La sfumatura di un'impressione fastidiosa,  simile a una sfilacciatura
    di nebbia su un cielo chiaro,  passò veloce sul viso giovane e  felice
    dell'imperatore  e  si  dileguò.  Dopo che era stato indisposto,  egli
    appariva più magro che sul campo di  Olmütz  dove  Bolkonskij  l'aveva
    veduto   per  la  prima  volta  fuori  della  Russia;   ma  la  stessa
    affascinante fusione di maestosità e di  dolcezza  illuminava  i  suoi
    bellissimi  occhi  grigi  (72) e sulle sue labbra sottili affiorava la
    medesima,  varia mobilità di espressione improntata  soprattutto  alla
    fiduciosa ingenuità della giovinezza.
    Alla rivista di Olmütz,  il sovrano era apparso al principe Andréj più
    maestoso;  qui gli sembrava più allegro e più  energico.  Dopo  quella
    galoppata  di  tre  miglia,  era  accalorato  e,  fermando il cavallo,
    respirò a pieni polmoni e  volse  lo  sguardo  sui  visi  giovanili  e
    animati come il suo, degli ufficiali del séguito.
    Ciartoritzskij,  Novosilzòv,  il  principe Volkonskij (73),  Stroganov
    (74) e  gli  altri,  tutti  elegantemente  vestiti,  tutti  giovani  e
    allegri,  montati su cavalli di pregio,  freschi, appena appena un po'
    sudati, si erano fermati dietro il sovrano,  conversando e sorridendo.
    L'imperatore  Francesco,  un giovane dal viso lungo e colorito,  stava
    molto eretto in sella al suo bellissimo stallone morello  e  con  aria
    preoccupata  guardava  lentamente  attorno  a sé.  Chiamò uno dei suoi
    aiutanti di campo vestiti di bianco e gli domandò qualche cosa. "Forse
    avrà voluto sapere a che ora sono partiti" pensò il  principe  Andréj,
    osservando la sua vecchia conoscenza con un sorriso che non riusciva a
    trattenere,  al  ricordo  dell'udienza che gli era stata concessa.  Il
    séguito dei due imperatori era costituito da scelti giovani  ufficiali
    d'ordinanza, russi e austriaci, della Guardia e di altri reggimenti di
    linea.  Tra  di  loro,  alcuni  conducevano a mano,  coperti da ricche
    gualdrappe ricamate, i cavalli di ricambio degli imperatori.
    Come attraverso una finestra  spalancata  irrompe  all'improvviso  dai
    campi  una ventata di aria fresca in una stanza afosa,  così da quella
    bella,  brillante gioventù,  giunta al galoppo,  spirò sull'immusonito
    stato maggiore un'ondata di giovinezza,  di energia,  di sicurezza nel
    successo.
    -  Perché  non  cominciate,   Michaìl  Ilarjònovic'?     -      chiese
    frettolosamente l'imperatore a Kutuzòv,  guardando nello stesso tempo,
    con cortesia, l'imperatore Francesco.
    - Aspetto maestà  -  rispose Kutuzòv inchinandosi rispettosamente.
    L'imperatore abbassò  il  capo  e  tese  l'orecchio,  accigliandosi  e
    mostrando di non aver capito.
    - Aspetto, maestà  -  ripeté Kutuzòv (e il principe Andréj notò che il
    labbro  inferiore del generalissimo era agitato da un tremito anormale
    mentre pronunziava la parola "aspetto").   -    Le  colonne  non  sono
    ancora tutte riunite, maestà.
    L'imperatore  aveva  udito,  ma  si  capì  che la risposta non gli era
    piaciuta: alzò le spalle un po' curve, guardò Novosilzòv che gli stava
    vicino e parve che con quello sguardo volesse lagnarsi di Kutuzòv.
    - Ma noi, Michaìl Ilarjònovic', non siamo sul campo di Tzaritzyn, dove
    non si comincia una rivista sino a  che  non  sono  arrivati  tutti  i
    reggimenti    -   osservò il sovrano,  guardando di nuovo l'imperatore
    Francesco come per invitarlo,  se  non  a  partecipare  al  colloquio,
    almeno ad ascoltare;  ma l'imperatore Francesco continuava a guardarsi
    attorno e non udiva.
    - E' appunto per questo,  maestà,  che non comincio  -  disse  Kutuzòv
    con  voce  sonora,  come  per  evitare  la  possibilità  di non essere
    sentito,  e di nuovo un tremito passò sul suo viso.   -  Non  comincio
    proprio perché non siamo a una rivista, maestà, e nemmeno sul campo di
    Tzaritzyn  -  soggiunse con voce chiara e cortese.
    Nel  séguito  dell'imperatore,  tutti  i visi espressero contrarietà e
    biasimo,  e gli ufficiali si scambiarono un'occhiata.  "Per quanto sia
    vecchio,  non dovrebbe,  in nessun caso, parlare così all'imperatore",
    dicevano quei visi.
    Il sovrano lo guardò fisso e con attenzione  negli  occhi,  aspettando
    che  egli dicesse ancora qualche cosa.  Ma Kutuzòv,  chinata la testa,
    pareva,  anche da parte sua,  aspettare.  Il silenzio  durò  quasi  un
    minuto.
    -  Del  resto,  se  vostra  maestà  me  lo  comanda...    -  disse poi
    sollevando il capo e riprendendo il suo tono  di  prima,  di  generale
    ottuso che non discute, ma ubbidisce.
    Spronò  il  cavallo  e,  chiamato  a sé il comandante della colonna di
    Miloràdovic', gli diede l'ordine di avanzare.
    L'esercito si mosse  di  nuovo;  due  battaglioni  del  reggimento  di
    Nòvgorod  e  un  battaglione  di  quello  di Apseròn sfilarono dinanzi
    all'imperatore.
    Mentre passava il battaglione di Apseròn, Miloràdovic', rosso in viso,
    senza cappotto,  con le decorazioni sulla  giubba  e  con  il  bicorno
    dall'enorme  pennacchio piantato sulle ventitré,  galoppò in avanti e,
    salutando baldanzosamente,  fermò  di  colpo  il  cavallo  davanti  al
    sovrano.
    - Dio sia con voi, generale  -  gli disse l'imperatore.
    -  "Ma  foi,  sire,  nous  ferons  ce que sera dans notre possibilité,
    sire!" [75.  In fede mia,  sire,  faremo tutto quanto è  nelle  nostre
    possibilità,  sire!]   -  rispose lietamente Miloràdovic',  provocando
    tra i signori del séguito un  sorriso  beffardo  per  la  sua  cattiva
    pronunzia francese.
    Miloràdovic' fece voltare bruscamente il suo cavallo e andò a mettersi
    a  qualche passo alle spalle del sovrano.  I soldati del reggimento di
    Apseròn, eccitati dalla presenza dell'imperatore, sfilarono davanti ai
    due sovrani con passo ritmico e baldanzoso.
    - Ragazzi!  -  gridò Miloràdovic' con voce possente, allegra e sicura,
    eccitato a tal punto dalle  scariche  di  fucileria,  dalla  battaglia
    imminente e dall'aspetto marziale con cui sfilavano gli arditi soldati
    di  Apseròn,  già  suoi  compagni  sotto  Suvorov,  da  dimenticare la
    presenza  dell'imperatore.  -  Ragazzi,   non  sarà  questo  il  primo
    villaggio che avrete conquistato!
    - Felici di riuscire!  -  risposero i soldati, gridando.
    A  quel  grido  inatteso,  il cavallo dell'imperatore s'impennò.  Quel
    cavallo che l'imperatore aveva montato in Russia durante le riviste  e
    le parate, portava ora qui, sul campo di Austerlitz, il suo cavaliere,
    sopportandone  i  colpi  distratti  del  piede sinistro,  drizzando le
    orecchie al crepitio delle  fucilate,  proprio  come  aveva  fatto  in
    piazza d'armi, senza comprendere il significato di quelle fucilate, né
    quello   della   vicinanza   dello  stallone  morello  dell'imperatore
    Francesco,  né di tutto quanto diceva,  pensava e sentiva colui che lo
    cavalcava.
    L'imperatore   si  volse  con  un  sorriso  a  uno  dei  suoi  intimi,
    indicandogli i bravi soldati di Apseròn, e gli disse qualcosa.


    CAPITOLO 16.

    Kutuzòv,  accompagnato dai suoi aiutanti di campo,  seguiva al passo i
    fucilieri.
    Dopo aver percorso mezzo miglio in coda alla colonna, si fermò accanto
    a  un  casolare  isolato  (che probabilmente era stato un'osteria) che
    sorgeva nel punto in cui la strada si biforcava.  Tutt'e due le strade
    scendevano a valle e lungo entrambe avanzavano le truppe.
    La  nebbia  cominciava a diradarsi e a circa due miglia di distanza si
    distinguevano vagamente le truppe nemiche sulle alture  dirimpetto.  A
    sinistra,   in  basso,   le  scariche  di  fucileria  si  udivano  più
    distintamente. Kutuzòv si fermò e parlò con il generale austriaco.  Il
    principe   Andréj,   un  po'  indietro,   li  osservava  attentamente;
    desiderando veder meglio, chiese a un aiutante di campo il binoccolo.
    - Guardate,  guardate  -   rispose  questi,  fissando  non  le  truppe
    lontane, ma il declivio dell'altura di fronte a sé.  -  Sono Francesi!
    I  due  generali  e  gli  aiutanti  di  campo afferrarono anch'essi il
    binoccolo, strappandoselo a vicenda di mano. A un tratto le loro facce
    si trasformarono,  e un'espressione di terrore le coprì.  I  Francesi,
    che   tutti   supponevano   a   dieci   miglia   di  distanza,   erano
    inaspettatamente comparsi lì davanti.
    - E' il nemico? No! Ma sì, guardate... E' proprio il nemico. Come mai?
    -  esclamarono alcune voci all'intorno.
    Il principe Andréj vide a occhio nudo,  in basso a destra,  una  folta
    colonna  di Francesi,  a non più di cinquecento passi dal luogo in cui
    si trovava Kutuzòv,  che saliva il pendio incontro  al  reggimento  di
    Apseròn.
    "Ecco,  l'ora  decisiva  è  venuta!  E'  giunto  per  me il momento di
    agire!", pensò il principe Andréj e, spronato il cavallo,  si avvicinò
    a Kutuzov.
    - Bisogna fermare il reggimento di Apseròn, eccellenza!  -  gridò.
    Ma  in  quel  momento  tutto  fu avvolto dal fumo,  mentre il fuoco di
    fucileria echeggiò vicinissimo  e  una  voce  ingenuamente  spaventata
    gridava,  a due passi dal principe Andréj: "Eh,  fratelli, è finita!".
    Quella voce parve un comando e,  al suono di essa,  tutti  si  diedero
    alla fuga.
    Una folla confusa,  sempre crescente, si precipitava indietro correndo
    verso il luogo dove  cinque  minuti  prima  le  truppe  erano  sfilate
    davanti  agli  imperatori.  E  non  solo era difficile fermarla ma era
    quasi impossibile non essere trascinati dalla sua irruenza. Bolkonskij
    cercava soltanto di  non  lasciarsi  tagliar  fuori  da  quella  massa
    disordinata   e   si  guardava  attorno  stupito,   senza  riuscire  a
    comprendere ciò che accadeva davanti ai suoi occhi.  Nesvitzkij con il
    viso  paonazzo,  dall'espressione rabbiosa e irriconoscibile gridava a
    Kutuzòv che,  se non si fosse allontanato subito,  sarebbe  certamente
    stato  fatto  prigioniero.  Kutuzòv  non  si mosse e senza rispondere,
    estrasse di tasca il fazzoletto.  Aveva una guancia  insanguinata.  Il
    principe Andréj si fece largo sino a lui.
    - Siete ferito?  -  gli domandò, trattenendo a stento il tremito della
    mascella.
    -  La  ferita  non  è  qui,  ma  là   -  rispose Kutuzòv,  premendo il
    fazzoletto sulla guancia sanguinante e indicando con  l'altra  mano  i
    fuggiaschi.   -  Fermateli!   -  gridò, ma nello stesso momento, certo
    convinto dell'impossibilità della cosa, spronò il cavallo e si slanciò
    verso destra.
    Ma una nuova ondata di fuggiaschi lo raggiunse e lo trascinò indietro.
    I soldati che fuggivano formavano una massa  così  compatta  che,  una
    volta  capitati  là  in  mezzo,  era  difficile potersi liberare.  Chi
    gridava: "Muoviti, perché ti fermi?", chi, in quello stesso punto,  si
    voltava indietro e sparava in aria;  chi dava colpi persino al cavallo
    che montava Kutuzòv.  Con grandi  sforzi  il  generalissimo  riuscì  a
    liberarsi da quella fiumana di gente e, uscitone a sinistra con il suo
    séguito  ridotto a meno della metà,  si slanciò nella direzione da cui
    provenivano le cannonate più vicine.  Il principe  Andréj,  liberatosi
    egli pure dalla stretta della massa dei fuggiaschi, sempre tentando di
    non allontanarsi da Kutuzòv, vide sul declivio della collina, in mezzo
    al fumo, una batteria russa che sparava ancora e un gruppo di Francesi
    che  correva  verso  di  essa.  Più  innanzi,  la  fanteria  russa era
    immobile: non andava  avanti  a  portar  aiuto  alla  batteria  e  non
    indietreggiava  per  seguire  i  fuggiaschi.  Un generale a cavallo si
    staccò da quella fanteria immobile e si avvicinò  a  Kutuzòv,  il  cui
    séguito  era  ridotto a soli quattro uomini.  Tutti erano pallidi e si
    guardavano senza dir nulla.
    - Fermate quei miserabili!   -  urlò,  ansimando Kutuzòv al comandante
    del reggimento,  indicando i fuggiaschi;  ma, proprio in quel momento,
    quasi a punirlo di quelle parole,  innumerevoli proiettili,  come  uno
    stormo di uccelli,  passarono volando e sibilando sul reggimento e sul
    séguito del generalissimo.
    I Francesi attaccavano la batteria e, visto Kutuzòv,  sparavano contro
    di lui.  Quella scarica ferì a una gamba il comandante del reggimento;
    alcuni soldati furono uccisi e il sottotenente che reggeva la bandiera
    se  la  lasciò  sfuggire  di  mano;   la  bandiera  vacillò  e  cadde,
    impigliandosi  nei  fucili dei soldati vicini.  I soldati senza averne
    avuto l'ordine, cominciarono a far fuoco.
    - Oh!  -  gemette Kutuzòv con un'espressione disperata.  -  Bolkonskij
    -  mormorò con voce tremante,  conscio della propria senile debolezza.
    -  Bolkonskij,  che succede?   -  soggiunse,  indicando il battaglione
    disorganizzato e il nemico che avanzava.
    Ma,  ancor prima che avesse finito di parlare,  il principe Andréj con
    il  pianto  in  gola  per  la  rabbia e per la vergogna era balzato da
    cavallo per correre verso la bandiera.
    - Ragazzi, avanti!  -  gridò con voce infantilmente stridula.
    "Ecco,  ecco!",  pensava il principe Andréj mentre,  afferrata  l'asta
    della bandiera, ascoltava con piacere i sibili dei proiettili diretti,
    evidentemente, proprio contro di lui. Alcuni soldati caddero.
    - Urrà!  -  gridò il principe Andréj, reggendo a stento tra le mani la
    pesante bandiera, e si slanciò in avanti, con la certezza che tutto il
    battaglione lo avrebbe seguito.
    E  infatti  soltanto  per  pochi  passi egli corse avanti da solo.  Un
    soldato si mosse,  un altro lo seguì e infine l'intero battaglione  si
    slanciò   e  lo  sorpassò  gridando  "urrà!".   Un  sottufficiale  del
    battaglione afferrò,  correndo,  la  bandiera  che  vacillava,  troppo
    pesante per le mani delicate del principe Andréj, ma fu ucciso subito.
    Il principe Andréj riuscì ad afferrare ancora una volta la bandiera e,
    trascinandola   per   l'asta,   continuò  a  correre  insieme  con  il
    battaglione.  Vedeva dinanzi a  sé  i  nostri  artiglieri:  alcuni  si
    battevano,  altri  abbandonavano  i  cannoni e gli correvano incontro;
    vedeva anche  i  soldati  della  fanteria  francese  impadronirsi  dei
    cavalli  degli  artiglieri e affrettarsi a voltare i cannoni.  Insieme
    con il battaglione,  il principe Andréj era già a  venti  passi  dalla
    batteria.  Udiva  sopra  di sé il sibilo ininterrotto delle pallottole
    mentre vedeva incessantemente,  alla sua destra e alla  sua  sinistra,
    soldati  che  gemevano cadendo.  Ma non fermava lo sguardo su di essi:
    teneva gli occhi fissi soltanto su quello che  avveniva  di  fronte  a
    lui,  là  dov'era la batteria.  Distingueva nettamente la figura di un
    artigliere dai capelli rossi e con il chepì a sghimbescio che tirava a
    sé un caricatore che  un  soldato  francese  cercava  di  strappargli.
    Vedeva  già chiaramente l'espressione smarrita e insieme inferocita di
    quei due uomini che  evidentemente  non  capivano  che  cosa  stessero
    facendo.
    "Che  fanno,  costoro?",  pensava  il  principe  Andréj,  guardandoli.
    "Perché l'artigliere rosso non fugge, dal momento che non ha più armi?
    E perché il francese non lo uccide?  Non farà in tempo a  fuggire  sin
    qui,  che  l'altro si ricorderà di avere un fucile e farà fuoco contro
    di lui".
    Infatti un altro francese, con il fucile spianato, correva verso i due
    avversari e la sorte dell'artigliere dai capelli rossi, che ancora non
    capiva ciò che l'attendeva e  si  era  trionfalmente  impadronito  del
    caricatore,  stava  per decidersi...  Il principe Andréj non vide però
    come la cosa andò a finire. Ebbe l'impressione che uno dei soldati che
    gli erano più vicini lo colpisse sul capo con un grosso  bastone.  Non
    provò  un  forte dolore;  ciò che lo contrariava era il fatto che quel
    dolore lo  distraeva  e  gli  impediva  di  vedere  quello  che  stava
    guardando.
    "Che  c'è?  Sto  cadendo?  Le  gambe mi si piegano?",  pensò,  e cadde
    supino.  Aprì gli occhi sperando di vedere come fosse finita la  lotta
    tra  il  francese e gli artiglieri;  desiderava sapere se l'artigliere
    dai capelli rossi fosse stato ucciso o  no  e  se  i  cannoni  fossero
    caduti nelle mani dei nemici oppure fossero salvi.  Ma non vide nulla.
    Sopra di lui non c'era più niente,  più niente se  non  il  cielo,  il
    cielo  alto,  infinitamente  alto,  non  sereno  eppure  infinitamente
    profondo,  sul quale correvano dolcemente delle  nuvole  grigie.  "Che
    dolcezza,  che  calma,  che  solennità!  Tutto  diverso  da  quando io
    correvo!",  pensò il principe Andréj.  "Non è più  come  quando  tutti
    gridavano  e  fuggivano,  come  quando  l'artigliere  e il francese si
    contendevano  furenti  il   caricatore...   Allora   le   nuvole   non
    galleggiavano così alte in questo profondo cielo infinito!  Perché mai
    non lo vedevo, poco fa, questo cielo così profondo? E come sono felice
    di averlo finalmente conosciuto! Sì, tutto è vanità,  tutto è inganno,
    fuorché  questo  cielo senza fine!  Nulla,  nulla esiste se non questa
    immensità. Ma non esiste neanche il cielo...  nulla esiste all'infuori
    di questo silenzio e di questa pace... E sia lodato Iddio".


    CAPITOLO 17.

    Alle nove,  sull'ala destra di Bagratiòn,  la battaglia non era ancora
    cominciata.  Non volendo cedere alle pretese  di  Dolgorukov,  che  lo
    incitava  a  dare  inizio  all'azione,  e  desiderando  declinare ogni
    responsabilità,  Bagratiòn propose a Dolgorukov di mandare a  chiedere
    ordini  dal generalissimo.  Bagratiòn sapeva che,  data la distanza di
    quasi dieci miglia che separava un'ala dall'altra,  anche se l'inviato
    non  fosse  stato  ucciso (com'era assai probabile) e anche supponendo
    che costui trovasse (cosa molto difficile) il comandante supremo,  non
    sarebbe potuto tornare con gli ordini prima di sera.
    Bagratiòn  volse  sul  séguito lo sguardo dei grandi occhi assonnati e
    privi di espressione,  e il primo viso che colpì la sua attenzione  fu
    quello infantile di Rostòv, trepidante di ansiosa speranza. Mandò lui.
    - E se, eccellenza, se incontrassi sua maestà prima del generalissimo?
    -  chiese Rostòv, immobile, con la mano alla visiera.
    -  Potete  fare  l'ambasciata  a  sua  maestà    -   disse Dolgorukov,
    affrettandosi a parlare prima di Bagratiòn.
    Finito il suo turno di servizio agli avamposti,  Rostòv  aveva  potuto
    dormire  un po' avanti lo spuntar del giorno e ora si sentiva allegro,
    ardito, deciso,  con quella elasticità di movimenti,  quella sicurezza
    nella propria fortuna e quella disposizione di spirito che fa apparire
    ogni cosa facile, gaia, possibile.
    Quella mattina tutti i suoi desideri erano stati esauditi: si dava una
    battaglia  campale  alla  quale  egli  prendeva parte;  per di più era
    ufficiale d'ordinanza  di  un  generale  coraggiosissimo  e,  inoltre,
    veniva  mandato  in  missione  presso Kutuzòv o forse presso lo stesso
    imperatore. Il mattino era limpido, il suo cavallo in ottima forma. Si
    sentiva colmo di gioia e di felicità.  Non appena  ricevuto  l'ordine,
    spronò  il  cavallo  e  galoppò dapprima lungo le linee occupate dalle
    truppe di Bagratiòn, non ancora impegnate nell'azione; poi entrò nello
    spazio occupato dalla cavalleria di Uvarov (76) e  qui  notò  i  primi
    movimenti e i primi indizi dell'imminente combattimento;  oltrepassata
    la cavalleria di Uvarov, udì chiaramente avanti a sé le cannonate e le
    scariche di fucileria. I colpi si facevano sempre più forti.
    Nell'aria fresca del mattino non  si  diffondeva  più  come  prima,  a
    intervalli regolari, l'eco di due, tre colpi di fucileria e poi di una
    o due cannonate,  ma lungo i declivi dei colli di Pratzen, si udiva il
    crepitio della  fucileria  interrotto  da  tiri  di  artiglieria  così
    frequenti  che  talora  alcuni  colpi  di  cannone  non risonavano più
    distintamente, ma si fondevano in un solo rombo ininterrotto.
    Sulle pendici dei monti le  vampate  dei  fucili  parevano  fuggire  e
    rincorrersi,  e  il  fumo  dei  cannoni  si  infittiva in globi che si
    allargavano e si fondevano  insieme.  Tra  il  fumo  si  notavano,  al
    luccichio  delle  baionette,  le  masse  di fanteria in movimento e le
    linee serrate dell'artiglieria, con i suoi cassoni verdi.
    Sopra una piccola altura  Rostòv  fermò  un  momento  il  cavallo  per
    osservare ciò che avveniva;  ma,  per quanto aguzzasse lo sguardo, non
    poté comprendere né distinguere nulla: laggiù,  in mezzo al  fumo,  si
    agitavano uomini, e truppe si muovevano avanti e indietro. Perché? Chi
    erano?  Dove andavano?  Non era possibile capirlo. Quella vista e quei
    rumori non solo non destavano in Rostòv alcun sentimento di timore, ma
    non  facevano  che  accrescere  nel  suo  animo  coraggio,  energia  e
    decisione.
    "Ancora,   ancora,   su;  ancora  più  forte",  pensava,  rivolgendosi
    mentalmente a quel frastuono,  e di nuovo riprendeva a galoppare lungo
    la  linea,  spingendosi  sempre  più lontano e penetrando infine nella
    zona delle truppe che già combattevano.
    "Non so come si svolgeranno le cose laggiù", pensava,  "ma certo tutto
    andrà benissimo".
    Dopo aver oltrepassato alcuni reparti austriaci,  Rostòv si avvide che
    il fronte dello schieramento immediatamente  successivo  (si  trattava
    della Guardia) era già impegnato nell'azione.
    "Tanto meglio! Vedrò tutto da vicino!", pensò.
    Stava  cavalcando lungo la prima linea.  Alcuni cavalieri gli venivano
    incontro al galoppo.  Erano i nostri ulani della Guardia che tornavano
    all'attacco con le file in disordine.  Rostòv li evitò,  si avvide che
    uno di essi era coperto di sangue e galoppò oltre.
    "Questo non mi riguarda", si disse.  Non fece in tempo a percorrere un
    centinaio di passi che alla sua sinistra apparve,  a un tratto, su una
    vastissima estensione di terreno,  un'enorme massa  di  cavalieri,  in
    divise bianche splendenti,  che gli venivano incontro a trotto veloce.
    Rostòv lanciò il suo cavallo a spron battuto  per  uscire  dalla  loro
    strada  e  sarebbe  riuscito  a  evitarli  se  essi avessero mantenuto
    un'andatura costante,  ma quelli acceleravano  la  loro  corsa  sicché
    alcuni cavalli già galoppavano.  Rostòv sentiva sempre più nitidamente
    il calpestio degli zoccoli e il tintinnio  delle  armi  e  sempre  più
    distinti gli apparivano i cavalli,  le persone e persino i visi. Erano
    i nostri cavalieri della Guardia che andavano alla  carica  contro  la
    cavalleria francese che le veniva incontro.
    La  Guardia  galoppava,  ma  tratteneva  ancora i cavalli.  Rostòv già
    vedeva le facce dei cavalieri,  udiva  il  comando:  "Avanti  avanti!"
    urlato  da  un  ufficiale  che  spingeva  alla massima velocità il suo
    purosangue.  Temendo di essere travolto e trascinato irresistibilmente
    nell'attacco contro i Francesi, continuava a galoppare lungo il fronte
    con  quanta  forza  aveva  il  suo  cavallo,  ma  non  fece in tempo a
    evitarli.
    Il cavaliere più esterno della fila,  un uomo grande  e  grosso  dalla
    faccia  butterata,  si  accigliò,  furioso  di trovarsi davanti Rostòv
    contro il quale doveva  inevitabilmente  cozzare.  Costui  lo  avrebbe
    senza  dubbio  atterrato  con  il  suo Beduino (Rostòv si sentiva così
    piccolo e debole a paragone di quegli uomini giganteschi  e  dei  loro
    cavalli) se non gli fosse venuta l'idea di agitare lo scudiscio contro
    gli  occhi  del  cavallo  che  gli  precipitava  contro.  Il  pesante,
    altissimo morello s'impennò,  drizzando le orecchie  ma  il  cavaliere
    butterato  gli  buttò  nei  fianchi  i  potenti  speroni  e l'animale,
    agitando la coda e tendendo il collo,  galoppò oltre con  la  rapidità
    del fulmine.  Appena i cavalieri della Guardia ebbero superato Rostòv,
    egli li udì gridare: "Urrà!" e, voltatosi indietro,  vide che le prime
    file  già si scontravano con altre file di soldati in divisa straniera
    dalle spalline rosse,  senza dubbio Francesi.  Poi non poté vedere più
    nulla  perché  subito  dopo  da qualche parte i cannoni cominciarono a
    sparare e tutto fu avvolto nel fumo.
    Nel momento in cui i cavalieri della  Guardia,  dopo  averlo  evitato,
    scomparvero nel fumo, Rostòv esitò, domandandosi se dovesse seguirli o
    andare  là  dove  era  stato mandato.  Era questo il magnifico attacco
    della Guardia russa a cavallo  che  meravigliò  gli  stessi  Francesi.
    Rostòv  fu  atterrito  quando  in seguito venne a sapere che di quella
    enorme massa di bellissimi soldati,  di giovani,  ricchi  e  brillanti
    ufficiali  e  alfieri  che  gli  erano  passati  accanto galoppando su
    migliaia di cavalli di gran pregio,  erano rimasti in  vita,  dopo  la
    carica, soltanto diciotto.
    "Perché invidiare gli altri? La mia ora non tarderà e tra poco, forse,
    vedrò l'imperatore!", pensò Rostòv e si allontanò al galoppo.
    Giunto all'altezza dei reparti della fanteria e della Guardia, si rese
    conto  che  essa  era  bersagliata  dall'artiglieria  nemica non tanto
    perché sentiva fischiare i  proiettili  quanto  perché  in  faccia  ai
    soldati  egli  lesse  l'inquietudine  e  in  faccia agli ufficiali una
    strana solennità guerriera.
    Mentre passava dietro una delle linee dei reggimenti di fanteria della
    Guardia, udì una voce chiamarlo per nome.
    - Rostòv!
    - Chi mi chiama?  -  domandò, non riconoscendo Borìs.
    - Lo sai? Siamo capitati in prima linea! Il nostro reggimento è andato
    all'attacco!   -  disse Borìs sorridendo di quel  felice  sorriso  dei
    giovani che per la prima volta affrontano il battesimo del fuoco.
    Rostòv si fermò.
    - Ebbene, com'è andata?  -  disse.
    -  Li  abbiamo  respinti!    -  rispose vivacemente Borìs,  diventando
    loquace.  -  Non puoi immaginare...
    E Borìs si mise a raccontare che la Guardia,  ferma su una posizione e
    avendo  veduto  davanti  a  sé  certe  truppe,  le  aveva  sulle prime
    scambiate per truppe austriache, quando all'improvviso, dai proiettili
    che quelle lanciavano,  aveva capito di trovarsi in prima linea,  e di
    dovere,  inaspettatamente,  entrare in azione. Rostòv, senza ascoltare
    oltre Borìs, spronò il cavallo.
    - Dove vai?  -  chiese Borìs.
    - Da sua maestà, per una missione.
    - Eccolo!   -  disse Borìs,  il quale aveva capito che Rostòv cercasse
    sua altezza anziché sua maestà.
    Egli  indicò  il  granduca che,  a un centinaio di passi da loro,  con
    l'elmo e la divisa di ufficiale della Guardia a cavallo, con le spalle
    alte e le sopracciglia aggrottate,  gridava qualcosa  a  un  ufficiale
    austriaco in divisa bianca, pallidissimo.
    -  Ma  quello  è  il  granduca,  e  io devo parlare al generalissimo o
    all'imperatore!  -  disse Rostòv, e spronò il cavallo.
    - Conte, conte!  -  gridò allora Berg,  che era eccitato quanto Borìs,
    accorrendo dalla parte opposta.  -  Conte, sono stato ferito alla mano
    destra  -  (mentre parlava mostrava la mano insanguinata e bendata con
    un  fazzoletto)  -  e non mi sono ritirato!  Conte,  tengo la sciabola
    con la mano sinistra: nella famiglia dei von Berg, conte,  erano tutti
    cavalieri!
    Berg disse ancora qualcosa ma Rostòv, senza dargli più ascolto, si era
    allontanato.
    Oltrepassata la Guardia e uno spazio vuoto Rostòv, per non capitare di
    nuovo  in  prima  linea  come  quando  si era trovato proprio sotto la
    carica della cavalleria,  si avviò lungo le linee delle  truppe  della
    riserva,  passando alla larga dal punto in cui si udivano più forti le
    scariche di fucileria e gli spari dei cannoni. A un tratto,  davanti a
    sé  e  dietro  alle  nostre  truppe,  in un luogo nel quale non poteva
    neppur vagamente supporre la presenza del nemico,  udì delle  fucilate
    vicinissime.  "Che  vuol  dire questo?" si chieste Rostòv.  "Il nemico
    alle nostre spalle?  Non è possibile...",  pensò,  e a  un  tratto  fu
    assalito  da  un'orribile  paura  per  se  stesso  e per l'esito della
    battaglia.  "Comunque sia",  pensò,  "ora non  posso  certo  ritornare
    indietro.  Devo cercare il generalissirno qui,  e, se tutto è perduto,
    il mio dovere è di morire con gli altri".
    Il presentimento funesto,  che si  era  a  un  tratto  impadronito  di
    Rostòv,  andava diventando certezza a mano a mano che egli si spingeva
    più innanzi nello spazio occupato da  una  massa  di  truppe  diverse,
    oltre Pratzen.
    - Che è? Che succede? A chi tirano? Chi spara?  -  domandava Rostòv ai
    soldati  russi  e  austriaci  che  accorrevano  in  fuga  disordinata,
    tagliandogli la strada.
    - Eh, lo sa il diavolo!  Siamo sconfitti!  Tutto è perduto...   -  gli
    rispondevano in russo,  in tedesco,  in ceco,  le bande dei fuggiaschi
    che non capivano più di lui che cosa stesse accadendo.
    - Abbasso i Tedeschi!  -  gridò uno.
    - Che il diavolo se li porti, quei traditori.
    - "Zum Henker diese Russen!" [77. Al diavolo, questi Russi!]  borbottò
    un tedesco.
    Alcuni feriti si  trascinavano  lungo  la  strada.  Invettive,  grida,
    gemiti si confondevano in un unico generale frastuono. Gli spari erano
    cessati.  Come più tardi venne a sapere Rostòv, si trattava di soldati
    russi e austriaci che sparavano gli uni contro gli altri.
    "Mio Dio! Che è mai questo?", pensava Rostòv. "Anche qui,  dove a ogni
    istante può vederli l'imperatore!  Ma no... no... certamente si tratta
    di pochi vigliacchi.  Passerà...  non è possibile che succedano queste
    cose... Purché io riesca a far presto, a passar oltre!", pensava.
    Rostòv  non  poteva  ammettere  l'idea  della  disfatta  e della fuga.
    Quantunque vedesse i  cannoni  e  le  truppe  francesi  sui  colli  di
    Pratzen,  proprio  là  dove  gli  avevano  dato l'incarico di andare a
    cercare il generalissimo,  non poteva e non voleva credere che  quella
    fosse la realtà.


    CAPITOLO 18.

    Rostòv aveva l'ordine di cercare Kutuzòv o l'imperatore nei pressi del
    villaggio di Pratzen; ma non soltanto essi non vi si trovavano, ma non
    c'era  neppure  un  capo.  S'incontravano solo bande diverse di truppe
    disorganizzate. Sforzò il cavallo già spossato per oltrepassare al più
    presto quella turba ma, quanto più andava innanzi,  tanto più cresceva
    il  disordine tumultuoso.  Sulla strada maestra,  dove era uscito,  si
    affollavano carrozze ed equipaggi di  ogni  specie,  soldati  russi  e
    austriaci  di tutte le armi,  feriti e non feriti.  Tutta quella folla
    tumultuava e ribolliva sotto il cupo fragore  delle  granate  francesi
    collocate sulle alture di Pratzen.
    -  Dov'è  l'imperatore?  Dov'è Kutuzòv?   -  domandava Rostòv a quanti
    poteva fermare; ma da nessuno riusciva a ottenere una risposta.
    Infine, afferrato per il bavero un soldato, lo costrinse a rispondere.
    - Eh, mio caro, da un pezzo sono scappati tutti quanti!  -  rispose il
    soldato, ridendo di chi sa che cosa e dibattendosi per liberarsi dalla
    stretta di Rostòv.
    Lasciato quel soldato,  che certo era ubriaco,  il  giovane  ufficiale
    fermò  il cavallo dell'attendente o del palafreniere di un personaggio
    importante e si mise a interrogarlo.  L'ordinanza informò  Rostòv  che
    un'ora  prima  l'imperatore era stato portato via in gran fretta,  per
    quella stessa strada, gravemente ferito.
    - Non è possibile!  -  esclamò Rostòv.   -  Forse si tratta di qualcun
    altro...
    -  L'ho visto con i miei occhi  -  ribatté l'attendente con un sorriso
    presuntuoso.   -  E lo conosco bene l'imperatore: l'ho  visto  chi  sa
    quante  volte a Pietroburgo come ora vedo voi.  Era seduto in carrozza
    pallido,  pallidissimo...  Quando hanno lanciato al galoppo i  quattro
    morelli,  santi  benedetti,  ci è passato davanti come un fulmine.  Li
    conosco bene i cavalli  dell'imperatore  e  conosco  bene  anche  Iljà
    Ivanyc', e Iljà Ivanyc' non fa il cocchiere se non per lo zar.
    Rostòv lasciò andare il cavallo dell'attendente e stava per proseguire
    quando  un  ufficiale  ferito  che  passava  lì accanto gli rivolse la
    parola:
    - Chi cercate?   -  gli domandò.   -  Il generale in  capo?  E'  stato
    ucciso da un obice che l'ha colpito in pieno petto,  davanti al nostro
    reggimento.
    - Ucciso no, ma ferito  -  corresse un altro ufficiale.
    - Ma chi? Kutuzòv?  -  chiese Rostòv.
    - No, non lui, quell'altro...  come si chiamava?  Ma non importa.  Ben
    pochi  sono  rimasti  vivi...  Andate  da  quella  parte,  verso  quel
    villaggio,  dove  si  è  riunito  tutto  il  comando    -    soggiunse
    l'ufficiale, indicando il villaggio di Hostieradek, e si allontanò.
    Rostòv  procedeva  al  passo,  non  sapendo  più da chi e dove andare.
    L'imperatore ferito, la battaglia perduta! Ormai non era più possibile
    dubitarne.  Seguiva la direzione che gli era stata indicata  verso  il
    villaggio  di  cui distingueva in lontananza il campanile e la chiesa.
    Perché avrebbe  dovuto  affrettarsi?  Che  cosa  poteva  dire,  ormai,
    all'imperatore o a Kutuzòv se pure fossero stati vivi e illesi?
    - Andate da quella parte,  eccellenza, se no sarete certamente ucciso'
    -  gli gridò un soldato.  -  Sarete ucciso!
    - Che stai dicendo?  -  intervenne un altro.  -  Da che parte vuoi che
    vada? Di qui è più vicino.
    Rostòv rifletté per un momento e poi si avviò proprio nella  direzione
    che gli avevano indicata come più pericolosa.
    "Ormai tutto è indifferente!  Se l'imperatore è ferito,  perché dovrei
    cercare di evitare i pericoli?", pensava.
    E raggiunse quella parte  del  terreno  dove  erano  stati  uccisi  in
    maggior  numero  i soldati in fuga da Pratzen.  I Francesi non avevano
    ancora occupato quella località che i Russi,  rimasti vivi  o  feriti,
    avevano  abbandonato da un pezzo.  Sul terreno,  come biche su un buon
    campo,  giacevano dai dieci  ai  quindici  morti  o  feriti  per  ogni
    "dessiatina" (78) di terra.  I feriti strisciando,  si erano riuniti a
    gruppi di due o tre e si udivano le loro grida e i loro lamenti, forse
    talvolta simulati,  come parve a Rostòv.  Per non vedere tutti  quegli
    uomini che soffrivano,  il giovane mise il cavallo al trotto,  e provò
    un senso di paura.  Egli non temeva per la sua vita,  ma  per  il  suo
    coraggio  che  gli  era  necessario  e  che,  lo  sapeva,  non avrebbe
    sopportato la vista di quei disgraziati.
    I Francesi, che avevano smesso di sparare su quel campo disseminato di
    morti e di feriti,  perché ormai non vi si  trovava  più  una  persona
    viva,  scorgendo a un tratto un aiutante di campo che lo attraversava,
    puntarono  su  di  lui  i  pezzi  e  lanciarono   parecchie   granate.
    L'impressione  prodotta  da quei sibilanti,  terribili suoni e da quei
    morti che lo circondavano,  si trasformò per Rostòv in una  sensazione
    di  orrore  e  di pietà per se stesso.  Ricordò l'ultima lettera della
    madre. "Che cosa proverebbe" pensò, "se mi vedesse ora qui,  in questo
    campo, sotto il tiro dei cannoni nemici puntati su di me?".
    Nel  villaggio  di  Hostieradek  c'erano  truppe  russe  che  si erano
    ritirate dal campo di battaglia e che,  pur appartenendo a corpi e  ad
    armi  diverse,  apparivano  discretamente  ordinate.  Là  il  tiro dei
    cannoni francesi non li poteva raggiungere e il  fragore  degli  spari
    pareva  lontano.  Tutti  vedevano  e dicevano ormai chiaramente che la
    battaglia era perduta.  Nessuno sapeva indicare a  Rostòv  dove  fosse
    l'imperatore  né  dove  fosse  Kutuzòv,  ed  egli non sapeva più a chi
    domandare.  Alcuni assicuravano che fosse vera  la  notizia  circa  la
    ferita  dell'imperatore,  altri dicevano che era falsa e ne spiegavano
    la  diffusione  con  il  fatto  che  effettivamente,   nella  carrozza
    imperiale,  era stato portato via di galoppo dal campo di battaglia il
    gran maresciallo di Corte conte Tolstòj pallido e spaventato il quale,
    con gli altri del séguito dell'imperatore, si era recato sul campo. Un
    ufficiale riferì a Rostòv di aver notato nel villaggio, a sinistra, la
    presenza di alcuni pezzi grossi del comando.  Rostòv si recò nel luogo
    indicato  senza speranza di trovare qualcuno,  ma soltanto per sgravio
    di coscienza.  Dopo aver percorso circa tre miglia e aver oltrepassato
    le ultime truppe russe, vide presso un orto, circondato da un fossato,
    due  cavalieri in sosta.  Uno dei due,  che aveva un pennacchio bianco
    sul chepì, parve a Rostòv che non gli fosse sconosciuto; l'altro,  che
    non conosceva,  in sella a uno stupendo cavallo fulvo che Rostòv aveva
    certamente già veduto, si avvicinò al fossato, spronò e, allentando le
    briglie,  saltò leggermente dall'altra parte.  Soltanto un  po'  della
    terra  smossa  dagli  zoccoli del cavallo cadde dall'orlo del fossato.
    Fatto  poi  voltare  bruscamente  l'animale,   ripeté   il   salto   e
    rispettosamente   si   volse   al  cavaliere  dal  pennacchio  bianco,
    invitandolo, evidentemente, a fare la stessa cosa. Ma l'altro,  la cui
    figura  pareva  nota  a Rostòv e,  chissà perché,  teneva avvinta a sé
    l'attenzione del giovane,  fece con il capo e con  la  mano  un  cenno
    negativo  e  proprio  da  quel cenno Rostòv riconobbe il suo adorato e
    pianto sovrano.
    "Ma non può essere lui,  solo,  in  questo  campo  deserto!",  pensava
    Rostòv.  In  quel  momento  l'imperatore  voltò  il capo e Rostòv poté
    vedere i lineamenti amati e così vivamente impressi nella sua memoria.
    L'imperatore era  pallido,  aveva  le  guance  incavate  e  gli  occhi
    infossati, ma tanto più grandi erano il fascino e la dolcezza dei suoi
    tratti! Rostòv si sentì felice, costatando la falsità delle voci sulla
    ferita  dell'imperatore.  Si sentì felice di averlo veduto.  Sapeva di
    potere, anzi di dovere,  rivolgersi direttamente a lui per rifargli la
    domanda che Dolgorukov gli aveva ordinato di fargli.
    Ma  come  un giovane innamorato che trema e si turba,  non osando dire
    quello che è il sogno delle sue notti e  si  guarda  attorno  smarrito
    quasi  cercando  un  aiuto  e la possibilità di rimandare e di fuggire
    quando giunge il tanto sospirato minuto di trovarsi a tu  per  tu  con
    lei, così Rostòv, che aveva raggiunto ciò che più desiderava al mondo,
    non sapeva come avvicinarsi al sovrano,  e mille considerazioni gli si
    affacciavano  per  persuaderlo   che   era   una   cosa   impossibile,
    sconveniente e inopportuna.
    "Ma  come?  Avrei  l'aria di essere contento di approfittare del fatto
    che egli è solo e abbattuto.  In questo momento di tristezza  gli  può
    essere  penoso  e imbarazzante la vista di una persona sconosciuta;  e
    poi,  che cosa potrei dirgli ora  che,  al  solo  guardarlo  mi  sento
    mancare  il  cuore  e  mi  si  inaridisce  la  bocca?".  Non uno degli
    innumerevoli  discorsi   che   egli   aveva   preparato   mentalmente,
    rivolgendosi  all'imperatore,  gli  tornava  ora  alla memoria.  Erano
    discorsi preparati per la maggior parte per circostanze  ben  diverse,
    che  egli  pronunziava  per  lo  più  nei momenti della vittoria e dei
    trionfi e specialmente quando, gravemente ferito, giaceva sul letto di
    morte,   mentre  l'imperatore  lo  ringraziava  per  il   suo   eroico
    comportamento ed egli,  esalando l'estremo respiro, gli dimostrava con
    i fatti il suo devoto amore.
    "E poi,  come farei a chiedergli ordini riguardanti l'ala destra,  dal
    momento  che  ormai  sono  le  quattro  pomeridiane  e  la battaglia è
    perduta? No, decisamente non devo avvicinarmi a lui, non devo turbarlo
    nelle sue meditazioni.  Preferisco mille volte la morte piuttosto  che
    ricevere   uno  sguardo  irritato  o  suscitare  in  lui  una  cattiva
    impressione",  decise Rostòv e,  con il cuore colmo di amarezza  e  di
    disperazione,   si   allontanò  continuando,   tuttavia,   a  guardare
    l'imperatore immobile e sempre nel medesimo atteggiamento indeciso.
    Mentre  Rostòv,  immerso  in  quelle  considerazioni,  si  allontanava
    tristemente,  si  trovò  per caso a passare da lì il capitano von Toll
    (79) che,  vedendo il sovrano,  gli offrì i suoi servigi e lo aiutò  a
    superare  a  piedi il fossato.  L'imperatore,  desiderando riposarsi e
    sentendosi poco bene, si mise a sedere sotto un melo e von Toll rimase
    accanto a lui.  Rostòv da lontano vide con rammarico e con invidia von
    Toll  parlare  a lungo e animatamente con il sovrano e vide il sovrano
    che,  evidentemente piangendo,  si copriva gli occhi  con  la  mano  e
    stringeva quella di von Toll.
    "E pensare che potrei essere io al suo posto!", si disse il giovane e,
    trattenendo a fatica lacrime di pietà per la sorte dell'imperatore, si
    allontanò disperato, senza sapere dove si dirigesse e perché.
    La  sua disperazione era tanto più profonda in quanto si rendeva conto
    che la propria debolezza era la causa di tanto dolore.
    Avrebbe   potuto...    non   solo   potuto   ma   dovuto   avvicinarsi
    all'imperatore: gli si era offerta un'occasione unica per dimostrargli
    la  sua  devozione  e  non  ne aveva approfittato...  "Che ho fatto!",
    pensò.  Voltò il cavallo e ritornò dove aveva  veduto  poco  prima  il
    sovrano,  ma  al  di  là del fossato non c'era più nessuno.  Passavano
    soltanto carri e vetture.  Da un conducente Rostòv venne a sapere  che
    lo  stato  maggiore  di  Kutuzòv  si  trovava  non  lontano  di lì,  e
    precisamente nel villaggio verso il quale si dirigevano i  veicoli.  E
    Rostòv li seguì.
    Davanti  a  lui  camminava  il  palafreniere  di Kutuzòv che conduceva
    alcuni cavalli con la  gualdrappa.  Seguiva  una  carrozza  e,  dietro
    ancora.   un   vecchio  domestico  del  generalissimo,   in  berretto,
    pellicciotto, e con le gambe storte.
    - Tit, ehi, Tit!  -  chiamò il palafreniere.
    - Che vuoi?  -  rispose distrattamente il vecchio.
    - Tit, va' a trebbiare!
    - Scemo, puah!  -  rispose il vecchio e, irritato, sputò.
    Camminavano per un po' in silenzio e poi riprendevano a scherzare.

    Alle cinque pomeridiane la battaglia era  definitivamente  perduta  su
    tutto il fronte.  Più di cento cannoni erano già caduti nelle mani dei
    Francesi.
    Przebyscevskij con il suo corpo d'armata aveva  deposto  le  armi.  Le
    altre colonne, dimezzate, si ritiravano in masse disordinate.
    Il  resto  delle  truppe  di  Langeron  e  di  Dochturov  si accalcava
    confusamente attorno agli stagni, sulle dighe e presso il villaggio di
    Auhest.
    Alle sei soltanto attorno alla chiusa di Auhest  si  udiva  ancora  il
    rombo  dei cannoni dei Francesi che avevano postato parecchie batterie
    sul pendio delle colline di  Pratzen  e  sparavano  contro  le  nostre
    truppe che si ritiravano.
    Alla retroguardia, Dochturov e gli altri raccoglievano i battaglioni e
    si  difendevano  a  fucilate  contro  la  cavalleria  francese  che li
    inseguiva.
    Annottava.  Sulla stretta diga di Auhest,  dove per tanti anni si  era
    tranquillamente  seduto  il vecchio mugnaio con il berretto in testa e
    la lenza in mano,  mentre il nipotino con  le  maniche  della  camicia
    rimboccate  cercava  di  afferrare nel secchio i palpitanti pesciolini
    d'argento; su quella stessa diga dove per tanti,  tanti anni i Moravi,
    in   berrettoni   di   pelo  e  grosse  giubbe  turchine,   passavano,
    pacificamente su carri a due cavalli carichi di grano e per la  stessa
    strada ritornavano bianchi di farina;  su quella stessa diga ora,  tra
    carriaggi e cannoni,  sotto i cavalli e tra  le  ruote,  si  pigiavano
    uomini stravolti dal terrore della morte,  scavalcandosi l'un l'altro,
    passando  sopra  i  moribondi,  uccidendo,  soltanto  per  essere  poi
    ugualmente uccisi, dopo qualche passo.
    A  intervalli  brevissimi,  di dieci secondi,  in mezzo a quella densa
    folla cadeva una palla di cannone e scoppiava una granata uccidendo  e
    coprendo di sangue coloro che si trovavano vicini.  Dòlochov, ferito a
    un braccio, appiedato,  con dieci o dodici soldati della sua compagnia
    (era  già  stato  promosso  ufficiale) e il comandante del reggimento,
    ancora a  cavallo,  erano  i  soli  superstiti  del  loro  reggimento.
    Sospinto  dalla  folla,  quel  pugno  di  uomini  si  accalcava  verso
    l'imboccatura della diga e,  premuto da tutte le  parti  aveva  dovuto
    fermarsi perché più avanti un cavallo era caduto sotto un cannone e la
    folla  si affaccendava per tirarlo fuori.  Una cannonata uccise alcuni
    soldati dietro di loro;  un'altra colpì qualcuno e fece schizzare  del
    sangue su Dòlochov. La folla premette disperatamente in avanti, avanzò
    di alcuni passi, si fermò.
    "Ancora cento passi e sono salvo...  Se resto qui ancora dieci minuti,
    è la morte sicura...", ciascuno pensava.
    Dòlochov,  che era in mezzo alla folla,  si slanciò verso  il  margine
    esterno della diga,  facendo ruzzolare a terra due soldati e corse sul
    ghiaccio sdrucciolevole, che copriva lo stagno.
    - Voltate quel cannone!    -    gridava,  correndo  sul  ghiaccio  che
    scricchiolava sotto di lui.  -  Voltatelo! Regge!
    Il  ghiaccio  resisteva,  sì,  ma s'incurvava e scricchiolava,  ed era
    evidente che stava per aprirsi non solo sotto il peso  del  cannone  e
    della  folla,  ma  anche  sotto  quello  del  solo Dòlochov.  Tutti lo
    guardavano e si serravano sulla riva senza decidersi  a  scendere  sul
    ghiaccio.  Il comandante del reggimento, che era sull'orlo, a cavallo,
    alzò la mano e aprì la bocca, rivolgendosi a Dòlochov.  All'improvviso
    un  proiettile  sibilò passando così basso che tutti si chinarono.  Si
    udì come un tonfo in una pozza: il generale e il cavallo caddero in un
    lago di sangue. Nessuno si volse a guardare, nessuno pensò a sollevare
    il generale.
    - Va' sul ghiaccio!  Avanti!  Va' sul ghiaccio!  Voltate quel cannone!
    Non senti?   -  gridarono insieme,  dopo che la palla aveva colpito il
    generale, molte voci di soldati che non sapevano neppur loro perché lo
    facessero.
    Uno degli ultimi cannoni che salivano sulla diga  andò  sul  ghiaccio.
    Una  turba  di  soldati  si mise a correre,  scendendo la diga,  sullo
    stagno gelato.  Sotto il peso di uno dei primi,  il ghiaccio si ruppe,
    una  gamba  dell'uomo si immerse nell'acqua;  egli cercò di rizzarsi e
    sprofondò sino alla  cintola.  I  soldati  più  vicini  esitarono,  il
    conducente del cannone fermò il cavallo, ma alle sue spalle risonavano
    ancora  le  stesse  grida:  "Avanti,  avanti  sul ghiaccio!  Perché si
    fermano?". E urli di terrore serpeggiavano tra la folla. I soldati che
    circondavano i cannoni agitavano le braccia e battevano i cavalli  per
    farli girare e avanzare.  Gli animali,  recalcitrando,  si mossero. Il
    ghiaccio,  che reggeva gli uomini appiedati,  si spaccò per  un  ampio
    tratto,  e  una  quarantina  di uomini che vi erano sopra,  gettandosi
    avanti  e  indietro  tra  urla  di  spavento,   caddero  nell'acqua  e
    affogarono.
    Le  palle  di  cannone continuavano a sibilare a intervalli regolari e
    piombavano sul ghiaccio, nell'acqua e, più spesso, in mezzo alla folla
    che copriva la diga, le sponde e lo stagno.


    CAPITOLO 19.

    Sul poggio di Pratzen giaceva il  principe  Andréj  Bolkonskij,  nello
    stesso  posto  in  cui  era  caduto,  tenendo  in  pugno  l'asta della
    bandiera. Perdeva sangue e, senza rendersene conto,  emetteva a tratti
    un gemito sommesso, pietoso e infantile.
    Verso  sera  cessò di lamentarsi e svenne.  Non seppe mai quanto fosse
    durato il suo deliquio. A un tratto sentì di essere vivo e di soffrire
    per un violento dolore che gli straziava la testa.
    "Dov'è quel cielo profondo che prima non conoscevo e che ho visto oggi
    per la prima volta?",  fu il suo immediato pensiero.  "E anche  questa
    acuta  sofferenza  mi  era  ignota...  Sì,  non sapevo nulla di nulla,
    sinora... Ma dove sono?", si chiese.
    Tese l'orecchio e udì un calpestio di  zoccoli  che  si  avvicinava  e
    alcune  voci che parlavano in francese.  Aprì gli occhi.  Sopra di lui
    c'era di nuovo quello stesso cielo profondo sul quale galleggiavano le
    nuvole che salivano sempre più su e attraverso le  quali  si  scorgeva
    l'infinito azzurro.  Egli non voltò la testa e non vide coloro che,  a
    giudicare dal rumore degli zoccoli e delle voci, si erano fermati e si
    avvicinavano a lui.
    Quei  cavalieri  erano  Napoleone  e  due  suoi  aiutanti  di   campo.
    Percorrendo  il  campo  di  battaglia,  Bonaparte impartiva gli ultimi
    ordini per rinforzare le batterie che sparavano sulla diga di  Auhest,
    e osservava gli uccisi e i feriti rimasti sul campo di battaglia.
    - "De beaux hommes!" [80. Bella gente!]  -  disse Napoleone, guardando
    un  granatiere  russo  caduto che,  con la faccia contro il suolo e la
    nuca annerita,  giaceva bocconi con un braccio  proteso  lontano,  già
    irrigidito dalla morte.
    - "Les munitions des pièces de position sont épuisées,  sire!" [81. Le
    munizioni per i pezzi in postazione sono finite,  sire!] -  gli  disse
    in quel momento un aiutante di campo che veniva dalle batterie puntate
    verso Auhest.
    - "Faites avancer celles de la réserve" [82. Fate portare quelle della
    riserva]  -  ordinò Napoleone e,  fatti alcuni passi,  si fermò presso
    il principe Bolkonskij  che  giaceva  supino  accanto  all'asta  della
    bandiera, il cui drappo era stato preso dai Francesi come trofeo.
    -  "Voilà  une  belle  mort"  [83.  Ecco  una  bella  morte]  -  disse
    Napoleone, guardando il principe Andréj.
    Il principe Andréj comprese che quelle parole si riferivano  a  lui  e
    che  chi  parlava  era Napoleone,  giacché aveva udito chiamare "sire"
    colui che le aveva pronunziate.  Ma le voci  gli  giungevano  come  il
    ronzio di una mosca.  Non solo non lo interessavano, ma vi badò appena
    e le dimenticò subito.  La testa gli ardeva: sentiva di perdere sangue
    e vedeva sopra di sé il cielo lontano, profondo e infinito. Sapeva che
    colui  che  parlava  era  Napoleone,  il suo eroe,  ma in quel momento
    Napoleone  gli   pareva   un   uomo   straordinariamente   piccolo   e
    insignificante,  a  paragone  con  ciò  che stava accadendo tra la sua
    anima  e  quel  cielo  profondo  e  infinito  sul   quale   correvano,
    inseguendosi,  le nuvole. Gli era assolutamente indifferente chi fosse
    colui che era lì e che cosa egli dicesse, era soltanto contento per il
    fatto che degli uomini gli si  fossero  fermati  vicino  e  desiderava
    soltanto  che  lo  aiutassero  a  ritornare alla vita,  che gli pareva
    adesso tanto bella giacché soltanto adesso  la  capiva  in  modo  così
    diverso.  Raccolse  tutte  le  forze  che  gli restavano per muoversi,
    articolare un suono qualsiasi.  Agitò un poco una gamba  ed  emise  un
    gemito debole e doloroso che impietosì anche lui stesso.
    -  Oh,  è vivo!   -  esclamò Napoleone.   -  Sollevate da terra questo
    giovane, "ce jeune homme", e portatelo al posto di soccorso.
    Detto ciò,  Napoleone si allontanò,  movendo incontro  al  maresciallo
    Lannes che,  alzando il cappello,  sorridendo e congratulandosi per la
    vittoria, veniva verso l'imperatore.
    Il principe Andréj non ricordò null'altro, perse i sensi per l'intenso
    dolore provato mentre lo  adagiavano  sulla  barella,  per  le  scosse
    inevitabili  durante  il trasporto e per l'esame doloroso della ferita
    al posto di medicazione.  Rinvenne soltanto alla fine  della  giornata
    quando,  con altri ufficiali russi feriti e prigionieri, venne portato
    all'ospedale. Durante questo secondo trasporto si sentì meglio e fu in
    condizione di guardare attorno a sé e di parlare.
    Le prime parole che  udì,  riavendosi,  furono  quelle  dell'ufficiale
    francese di scorta che diceva in fretta:
    -  Fermatevi  qui.  L'imperatore  passerà  tra poco e gli farà piacere
    vedere questi prigionieri.
    - Oggi ce ne sono tanti, quasi tutto l'esercito russo è prigioniero...
    e può darsi che ormai si sia già annoiato di vederne  -    obiettò  un
    altro ufficiale.
    -  Be',  tuttavia...  Questo qui,  dicono,  comandava tutta la Guardia
    dell'imperatore Aleksàndr  -  osservò il primo che  aveva  parlato,  e
    indicò  un  ufficiale russo ferito nella bianca divisa della Guardia a
    cavallo.
    Bolkonskij riconobbe in lui il principe  Repnìn  (84)  che  incontrava
    spesso nei salotti di Pietroburgo.  Accanto giaceva un altro ufficiale
    ferito della Guardia a cavallo, un ragazzo di diciannove anni.
    Bonaparte, sopraggiunto al galoppo, fermò il cavallo.
    - Chi è il superiore in grado?  -  chiese,  alla vista dei prigionieri
    .
    Gli fu nominato il colonnello principe Repnìn.
    -  Voi  comandavate  la Guardia dell'imperatore Aleksàndr?   -  chiese
    Napoleone.
    - Comandavo solo uno squadrone  -  rispose Repnìn.
    - Il vostro reggimento ha compiuto con onore il proprio dovere.
    - La lode di un grande capitano è il premio migliore per un soldato  -
    rispose Repnìn.
    - E ve la faccio con piacere  -  disse Napoleone, e aggiunse:  - Chi è
    questo giovane accanto a voi?
    Il principe Repnìn fece il  nome  del  tenente  Suchtelen  (85).  Dopo
    averlo guardato, Napoleone disse sorridendo:
    -  "Il  est  venu bien jeune se frotter à nous" [86.  E' venuto troppo
    giovane a battersi con noi].
    - La giovinezza non impedisce di aver coraggio  -   mormorò  con  voce
    rotta Suchtelen.
    -  Magnifica  risposta!    -  esclamò Napoleone.   -  Giovanotto,  voi
    andrete lontano.
    Il principe Andréj, messo in prima fila davanti all'imperatore in quel
    trofeo  di  prigionieri,   non  poteva  sfuggire   all'attenzione   di
    Napoleone.
    Ricordandosi,  evidentemente,  di averlo visto sul campo di battaglia,
    si rivolse a lui,  usando quello  stesso  appellativo  di  giovanotto,
    "jeune  homme",  insieme  con  il  quale  Bolkonskij  gli  era rimasto
    impresso nella memoria.
    - "Et vous,  jeune homme?"  -  chiese volgendosi a lui.   -   Come  vi
    sentite,  "mon brave?" [87.  E voi,  giovanotto?  Come vi sentite, mio
    coraggioso?].
    Benché cinque minuti prima il principe Andréj fosse stato in grado  di
    poter  dire  alcune  parole ai soldati che l'avevano portato lì,  ora,
    fissando gli occhi di Napoleone,  taceva...  In quel momento tutti gli
    interessi  che preoccupavano Napoleone gli parevano così meschini e il
    suo eroe stesso con la sua piccola ambizione, con quella sua gioia per
    la vittoria,  così insignificante a confronto con quel profondo cielo,
    giusto e buono, da lui veduto e compreso, che non poté rispondergli.
    Tutto  ora  gli  sembrava  inutile  e  piccolo  di  fronte al severo e
    maestoso slancio del pensiero suscitato in lui  dalla  debolezza,  dal
    dolore  fisico,  dalla  perdita  di  sangue  e dall'attesa della morte
    vicina.  Guardando negli occhi Napoleone,  il principe Andréj  pensava
    alla  vanità  della  grandezza,  alla vanità della vita di cui nessuno
    poteva capire il significato,  alla vanità  ancora  più  grande  della
    morte di cui nessuno tra i vivi poteva intendere e spiegare il senso.
    L'imperatore,  senza  aspettare  la  risposta,  si voltò e,  mentre si
    allontanava, ordinò a un ufficiale superiore:
    - Si abbiano per questi signori le massime cure,  siano portati al mio
    bivacco.  Voglio che il mio dottor Larrey (88) esamini le loro ferite.
    Arrivederci, principe Repnìn!  -  e,  spronato il cavallo,  se ne andò
    al galoppo.
    Sul suo viso splendevano la soddisfazione di se stesso e la felicità.
    I soldati che avevano trasportato il principe Andréj e che gli avevano
    tolto  la piccola immagine d'oro che la principessina Màrija gli aveva
    messo al collo (89),  costatata la benevolenza  con  cui  l'imperatore
    aveva trattato il prigioniero, si affrettarono a restituirgliela.
    Il principe Andréj non vide chi gliela aveva rimessa né come, ma sopra
    l'uniforme,   sul  petto,  era  ricomparsa,  tutto  a  un  tratto,  la
    medaglietta appesa alla sottile catenina d'oro.
    "Come  sarebbe   bello",   pensò   il   principe   Andréj,   guardando
    quell'immagine che con tanta commozione e affetto la sorella gli aveva
    messo  al  collo,  "come  sarebbe  bello se tutto fosse così limpido e
    semplice come sembra alla principessina  Màrija!  Come  sarebbe  bello
    sapere  dov'è possibile cercare aiuto in questa vita e cosa ci aspetta
    quando essa  è  finita,  là  oltre  la  tomba!  Come  sarei  felice  e
    tranquillo se ora potessi dire: Signore, perdonami! Ma a chi lo direi?
    La  forza  indefinita,  incomprensibile,  inaccessibile alla quale non
    posso rivolgermi,  ma che neppure so esprimere a  parole,  è  il  gran
    Tutto o il Nulla?", diceva a se stesso. "Oppure è quel Dio cucito qui,
    in questo amuleto datomi dalla principessina Màrija? Nulla, nulla vi è
    di certo all'infuori della vanità di ciò che posso comprendere e della
    maestà di qualcosa di incomprensibile e di troppo grande!".
    Le   barelle   si  mossero.   Ogni  scossa  gli  procurava  un  dolore
    insopportabile;  la febbre era salita,  ed egli cominciava a delirare.
    Il  pensiero del padre,  della moglie,  della sorella,  del figlio che
    doveva  nascere,   della  tenerezza  provata  la  notte  prima   della
    battaglia, la figura del piccolo, insignificante Napoleone, e su tutto
    ciò  il  cielo profondo e infinito,  costituivano le visioni confuse e
    vaghe del suo delirio.
    Gli si affacciarono alla mente la vita tranquilla e la dolce  felicità
    familiare di Lissia-Gori.  E già godeva di quella felicità,  quando, a
    un tratto,  ecco comparire il piccolo Napoleone  con  il  suo  sguardo
    indifferente,  limitato  e  felice  della sventura altrui,  e allora i
    dubbi,  le sofferenze ritornavano,  e  soltanto  il  cielo  prometteva
    tranquillità   e  pace.   Verso  il  mattino  tutti  questi  sogni  si
    mescolarono e si confusero nel caos e  nelle  tenebre  del  delirio  e
    dell'incoscienza che, secondo il parere dello stesso Larrey, medico di
    Napoleone,  sarebbero  finiti  con  la  morte  piuttosto  che  con  la
    guarigione.
    - "C'est un sujet nerveux et bilieux"  -  disse Larrey,   -  "il  n'en
    réchappera  pas"  [90.  E'  un  soggetto nervoso e bilioso;  non se la
    caverà].
    Insieme con gli altri feriti  in  condizioni  disperate,  il  principe
    Andréj fu affidato alle cure degli abitanti del luogo.



    NOTE.

    N. 10. Diminutivo di Elena.
    N.  11.  Sergéj Kuzmic' Vjazmitinov (1749-1819). Generale di fanteria,
    fu vicepresidente del Consiglio di guerra dal 1802, poi ministro della
    guerra.  Dal 1805 al 1811 fu  governatore  di  Pietroburgo,  nel  1812
    ministro della polizia e, lo stesso anno, presidente del Consiglio dei
    ministri.
    N. 26. Era usanza che la donna baciasse il capo dell'uomo che le stava
    baciando la mano.
    N. 29. Sic.
    N.  42.  "Petits enfants, allez coucher, dormir". (Ragazzini, andate a
    letto a dormire).
    N.  43.  "Arnauti"  è  una  denominazione,  di  origine  turca,  della
    popolazione  albanese.  In  Russia  venivano  denominati "arnauti" gli
    albanesi d'origine  che  abitavano  nel  distretto  di  Izmail,  nella
    Bessarabia.
    N.  44.  Pëtr  Petrovic'  Dolgorukov (1771-1806).  Mandato in missione
    presso Napoleone prima della battaglia di Austerlitz,  convinto  della
    supremazia russa,  favorì il precipitare degli avvenimenti. Durante la
    battaglia di Austerlitz comandava la fanteria del corpo di Bagratiòn.
    N.   45.   Karl  Philipp  Schwarzenberg  (1771-1820)   feldmaresciallo
    austriaco,   comandante  degli  alleati  contro  Napoleone.   Tra  gli
    incarichi diplomatici che ebbe,  vi fu anche  quello  di  trattare  le
    nozze del Bonaparte con Maria Luisa Asburgo.
    N.  46.  Arkadij  Ivànovic' Markòv (1747-1827),  diplomatico russo che
    prestò servizio sotto  Caterina  Seconda,  Paolo  Primo  e  Alessandro
    Primo.  Negli  anni  1801-1803  fu ambasciatore a Parigi,  che dovette
    lasciare perché risultato sgradito a Napoleone.
    N.  47.  Adam Ciartoritzskij (1770-1861),  di origine polacca,  fu una
    figura  eminente  non  solo  del  mondo  russo,  ma  anche  di  quello
    internazionale europeo. Opera sua è la politica ostile a Napoleone del
    governo russo durante la quarta coalizione.  Dopo la pace  di  Tilsit,
    lasciò la Russia e si ritirò in Polonia, curandone gli interessi.
    N. 49. "Allez allez!" (Andate, andate!).
    N. 52. Jakov Vassìlevic' Villiers (1765-1854), barone russo di origini
    scozzesi,   medico   celebre.   Dal   1809   al   1838  fu  presidente
    dell'Accademia medico-chirurgica.
    N.  53.  Anne-Jean-Marie-René Savary  (1774-1833),  nominato  duca  di
    Rovigo dopo la battaglia di Friedland (1807).  Fu aiutante di campo di
    Napoleone in Egitto e a Marengo; divenuto colonnello della gendarmeria
    popolare assunse anche il ruolo di capo della  polizia  segreta.  Dopo
    aver  guidato  l'armata  spagnola,  succedette  a Fouché nel 1810 come
    responsabile del ministero della  polizia.  Durante  la  monarchia  di
    Luglio fu comandante in capo in Algeria. Redasse interessanti "Memorie
    per  servire  alla  storia dell'imperatore Napoleone",  pubblicate nel
    1828.
    N. 54. Com'è noto,  i Russi rifiutarono fino al 1919 di riconoscere la
    riforma  del  calendario stabilita da papa Gregorio Tredicesimo (1502-
    1585;  papa dal 1572) con la bolla "Inter gravissimas" del  1582.  Una
    delle  conseguenze più vistose della riforma gregoriana del calendario
    fu la soppressione  dei  giorni  5-14  ottobre  1582.  Alle  datazioni
    "ortodosse"  di  Tolstòj,   per  avere  la  datazione  del  calendario
    occidentale,  bisogna  aggiungere  perciò  12  giorni.  E  infatti  la
    battaglia di Austerlitz di cui si parla in queste pagine ebbe luogo il
    2 dicembre 1805.
    N. 55. Max Wimpfen (1770-1807), generale austriaco, aggregato nel 1805
    allo Stato maggiore di Kutuzòv.
    N.  56. Alexander F., conte di Langeron (1763-1831), dopo essere stato
    ufficiale regalista francese,  nel 1789 passò a servizio della Russia,
    per  la  quale  prese  parte  alle  guerre  contro  i  Turchi e contro
    Napoleone. A Odessa conobbe A. S. Puskin.
    N.   57.   Johann  Joseph,   principe  di  Liechtenstein  (1760-1836),
    feldmaresciallo austriaco. Diresse i negoziati che portarono alla pace
    di Presburgo (1805) e firmò per l'Austria il trattato di Schönbrunn.
    N.  58.  Friedrich Ludwig, principe di Hohenlohe (1746-1818), generale
    di origini prussiane, partecipò alle battaglie di Austerlitz e Jena.
    N. 59. Si tratta di Ignatij Jakovlevic' Przebyscevskij (n.  1775),  il
    quale  prese  parte alla battaglia di Austerlitz come comandante della
    terza colonna dell'esercito russo.  Fatto prigioniero,  al suo ritorno
    in  patria  venne  processato  e  degradato  a soldato semplice per la
    durata di  un  mese,  trascorso  il  quale  decise  di  ritirarsi  dal
    servizio.
    N.  61.  Michaìl  Andréevic'  Miloràdovic'' (1771-1825) partecipò alla
    guerra russo-turca e a tutte le campagne napoleoniche.  Fu governatore
    di  Pietroburgo  e  cadde per le ferite infertegli dai ribelli durante
    l'insurrezione decabrista.
    N.   62.   Alekséj  Andréevic'  Arakceev  (1769-1834),   generale   di
    artiglieria,  favorito di Alessandro Primo,  fu ministro della guerra.
    Noto per la sua durezza e la sua crudeltà.
    N.  72.  "Quandoque bonus dormitat Homerus!".  Qui,  e in pochi  altri
    casi,  il  Tolstòj  ha  una  disattenzione e descrive come "grigi" gli
    occhi dell'imperatore,  che descrive invece come "azzurri"  nel  corso
    della rivista (confronta capitolo 10) e altrove.
    N. 73. Pëter Michàilovic' Volkonskij (1776-1852), generale-aiutante di
    campo di Alessandro Primo. Si distinse nella battaglia di Austerlitz.
    N. 74. Pavel Aleksàndrovic' Stroganov (1774-1817), amico d'infanzia di
    Alessandro Primo e,  in seguito, suo aiutante di campo. Partecipò alla
    battaglia di Austerlitz,  fu a  Londra  con  incarichi  diplomatici  e
    infine si distinse a Borodinò.
    N.  76.  Fëdor  Petrovic'  Uvarov (1770-1824) protesse la ritirata dei
    Russi ad Austerlitz con la  cavalleria.  Combatté  anche  a  Borodinò.
    Partecipò a tutte le campagne contro Napoleone.
    N. 78. Misura pari a circa un ettaro.
    N.  79.  Kärl  Fëdorovic'  von  Toll (1777-1842),  traduttore in russo
    dell'ordine di operazioni di Weirother, che pervenne ai vari comandi a
    battaglia già iniziata.  Capo di Stato maggiore  nel  1830,  partecipò
    nello stesso anno alla repressione dell'insurrezione polacca.
    N.  84.  Nikolàj Grigorevic' Repnìn (1778-1833),  principe, generale e
    aiutante di campo.  Ferito al petto e alla testa ad Austerlitz,  venne
    fatto  prigioniero con soli 18 uomini del suo celebre quarto squadrone
    di cavalleria della Guardia.
    N.  85.  Pavel Petrovic'  Suchtelen  (1788-1833),  conte,  generale  e
    aiutante  di  campo.  Ad  Austerlitz  ricopriva  il grado di cornetta;
    ferito e fatto prigioniero, ritornò patria nel 1806.
    N.  88.  Dominique-Jean Larrey  (1766-1842),  barone,  pioniere  della
    chirurgia  francese  e  medico personale di Napoleone,  che accompagnò
    anche a Waterloo dove venne  ferito.  Lasciò  numerose  memorie  delle
    campagne  militari  a  cui  partecipò,  oltre  a diverse pubblicazioni
    scientifiche.
    N.  89.  Un'altra distrazione del Tolstòj!  Confronta nel capitolo  25
    della  Parte  prima  una  diversa descrizione della "piccola immagine"
    donata ad Andréj da sua sorella Màrija.