Lev N. Tolstòj.
    GUERRA E PACE.


    LIBRO SECONDO.

    PARTE TERZA.


    CAPITOLO 1.

    Nel 1808 l'imperatore Aleksàndr si recò a Erfurt per un nuovo incontro
    con  l'imperatore  Napoleone;  nell'alta  società  di  Pietroburgo  si
    parlava assai della grandiosità di quel solenne convegno.
    Nel 1809 l'accordo tra i due dominatori del mondo, come erano definiti
    i  due  sovrani,  giunse al punto che,  quando in quell'anno Napoleone
    dichiarò  guerra  all'Austria,   un  corpo  d'armata  russo  passò  la
    frontiera  per  appoggiare  il nemico di un tempo,  Napoleone,  contro
    l'imperatore  d'Austria  già  alleato  della  Russia;   al  punto  che
    nell'alta società si sussurrava sulla possibilità di un matrimonio tra
    Napoleone e una delle sorelle dell'imperatore di Russia.  Ma oltre che
    alla politica estera, l'attenzione della società russa era soprattutto
    rivolta alle riforme interne, che in quel tempo si stavano attuando in
    tutti i rami dell'amministrazione dello stato.
    La vita,  intanto,  la vera vita degli uomini con i suoi interessi più
    importanti quali la salute,  le malattie,  il lavoro e il riposo con i
    suoi interessi intellettuali, scientifici,  letterari,  musicali,  con
    quelli del sentimento,  dell'amore,  dell'amicizia,  dell'odio,  delle
    passioni, si svolgeva come sempre, indipendentemente dall'inimicizia e
    dall'accordo con Napoleone  Bonaparte  e  al  di  fuori  di  qualsiasi
    possibile riforma.
    Il   principe   Andréj  trascorse  due  anni  in  campagna  senza  mai
    allontanarsi.  Tutte le innovazioni e  le  imprese  che  Pierre  aveva
    iniziato  nei  suoi  possedimenti  senza  giungere ad alcun risultato,
    passando di continuo dall'una all'altra, erano state invece realizzate
    dal principe Andréj senza che egli  ne  parlasse  ad  alcuno  e  senza
    fatica apparente.
    Egli  possedeva  in  sommo  grado quella tenacia pratica che mancava a
    Pierre e che, senza sforzi né scosse da parte sua, dava impulso a ogni
    sua impresa.
    Uno dei suoi possedimenti,  in cui  lavoravano  trecento  servi  della
    gleba,  fu  assegnato  a  liberi  coltivatori e costituì uno dei primi
    esempi in Russia;  in altre tenute le prestazioni di lavoro gratuite e
    obbligatorie furono sostituite da canoni fissi.  A Boguciàrovo, Andréj
    aveva fatto venire,  a sue  spese,  una  levatrice  per  assistere  le
    partorienti,  e un prete che insegnava a leggere e a scrivere ai figli
    dei contadini e dei domestici.
    Il principe Andréj trascorreva metà del suo tempo a Lissia-Gori con il
    padre e il figliuolo,  tuttora affidato alle cure della  bambinaia,  e
    l'altra  metà  nell'eremo di Boguciàrovo,  come suo padre lo definiva.
    Nonostante l'indifferenza che aveva manifestato a Pierre per tutti gli
    avvenimenti  del  mondo  esterno,  egli  li  seguiva  con  attenzione,
    riceveva  molti libri e notava con stupore che le persone che venivano
    da suo padre o da lui,  direttamente da Pietroburgo,  ossia  dal  vero
    centro  di ogni attività vitale,  erano molto meno informate di quanto
    non lo fosse lui,  che abitava sempre in campagna,  sugli  svolgimenti
    della politica interna e estera.
    Oltre  alle  cure  dei  suoi  poderi  e  alla lettura di libri di ogni
    genere,  il principe Andréj si occupava  allora  dell'analisi  critica
    delle  nostre  due  ultime sfortunate campagne di guerra e redigeva un
    progetto di modificazione dei nostri codici e regolamenti militari.
    Nella primavera del 1809,  il principe Andréj si recò nella  provincia
    di Rjazàn, per visitare la tenuta del figlio, di cui era tutore.
    Mentre, riscaldato dal sole primaverile, viaggiava nella sua carrozza,
    osservava  l'erba novella,  le tenere giovani foglie delle betulle,  i
    primi cumuli delle bianche nuvolette primaverili  che  si  inseguivano
    nel  limpido  azzurro  del cielo.  Non pensava a nulla,  e si guardava
    attorno lieto e spensierato.  Oltrepassato il traghetto,  dove  l'anno
    precedente  aveva  conversato  con  Pierre  e  oltrepassato il sudicio
    villaggio,  aie,  campi a grano invernale,  il ponte presso  il  quale
    c'erano ancora cumuli di neve e la salita argillosa tra le strisce dei
    campi  mietuti,  fiancheggiati  da cespugli verdeggianti,  entrò in un
    bosco di betulle che si stendeva ai due lati della strada.  Nel  bosco
    faceva  quasi caldo,  non si sentiva alito di vento.  Le betulle,  già
    coperte di verdi foglioline collose,  erano immobili  e  di  sotto  il
    fogliame   caduto   dell'anno   precedente   spuntava,    sollevandolo
    leggermente, la prima erbetta e occhieggiavano le violette. Sparse qua
    e là per il bosco,  alcuni piccoli abeti con il loro perenne  fogliame
    verde  cupo  rammentavano  sgradevolmente  l'inverno.  All'entrare nel
    bosco i cavalli sbuffarono e si coprirono di sudore.
    Il domestico Pëtr  disse  qualcosa  al  cocchiere,  il  quale  rispose
    affermativamente.   Ma   Pëtr   non   era   evidentemente  soddisfatto
    dell'approvazione del cocchiere e si  voltò,  da  cassetta,  verso  il
    padrone.
    -  Come  si  respira bene,  eccellenza!   -  disse,  con un rispettoso
    sorriso.
    - Cosa dici?
    - Come si respira bene, eccellenza!
    "Cosa diavolo dice?",  pensò il principe  Andréj.  "Sì,  certo,  parla
    della  primavera",  pensò ancora,  guardandosi attorno.  "E' già tutto
    verde!  Così presto...  Le betulle,  gli ontani,  i ciliegi cominciano
    già... E le querce non si vedono ancora... ah sì, eccone una!".
    Una  quercia  sorgeva sul margine della strada.  Probabilmente,  dieci
    volte più vecchia delle betulle che  formavano  il  bosco,  era  dieci
    volte  più  grossa  e  due  volte più alta di ognuna di esse.  Era una
    quercia enorme,  con rami spezzati evidentemente da molto tempo,  e la
    scorza  screpolata e coperta di vecchie cicatrici.  Con le sue braccia
    smisurate e le dita enormi, nodose, divaricate, senza simmetria,  essa
    si ergeva tra le ridenti betulle, simile a un vecchio mostro, malvagio
    e  sprezzante.  Essa sola e i piccoli abeti cupi,  eternamente verdi e
    disseminati per  il  bosco,  non  volevano  cedere  all'incanto  della
    primavera  e  non  volevano  vedere  né la lieta stagione,  né il sole
    sfavillante.
    "Primavera, ancora felicità!",  pareva dire la quercia.  "Come mai non
    vi è ancora venuto a noia questo assurdo, eterno inganno! E' sempre la
    stessa cosa, ed è sempre un inganno!".
    "Non  esistono  né primavera,  né sole,  né felicità.  Ecco,  guardate
    quegli abeti morti,  schiacciati,  sempre solitari  e  guardate  me...
    Vedete?  Io tengo distese le mie dita spezzate,  scortecciate dovunque
    mi siano cresciute, sul dorso,  sui fianchi...  e rimango così,  e non
    credo né alle vostre speranze né ai vostri inganni!".
    Il  principe  Andréj si girò parecchie volte a guardare quella quercia
    mentre s'inoltrava nel bosco,  come se da  essa  aspettasse  qualcosa.
    Anche  ai  piedi  dell'immenso  albero crescevano erbe e fiori,  ma la
    quercia continuava a ergersi in mezzo a loro immobile  e  corrucciata,
    mostruosa e ostinata.
    "Sì,  quella  quercia  ha  ragione,  mille volte ragione",  pensava il
    principe Andréj. "Lasciamo che gli altri,  i giovani,  cedano a questi
    inganni.  Noi  conosciamo  la vita,  e la nostra è finita!".  Un nuovo
    susseguirsi di pensieri sconsolati,  ma di una tristezza dolce,  sorse
    nell'animo  del principe Andréj alla vista della quercia.  E per tutta
    la durata del viaggio egli parve ancora una volta meditare su tutta la
    propria  vita,  per  giungere  alla  medesima,  antica,   disperata  e
    tranquilla   conclusione,   secondo  la  quale  egli  non  doveva  più
    intraprendere nulla di nuovo,  ma semplicemente finire la  vita  senza
    far del male a nessuno, senza agitarsi e senza desiderare cosa alcuna.


    CAPITOLO 2.

    Per  affari riguardanti la tutela della tenuta di Rjazàn,  il principe
    Andréj aveva bisogno di parlare con il maresciallo della  nobiltà  del
    distretto,  che era il conte Iljà Andréevic' Rostòv e verso la metà di
    maggio, il principe Andréj partì per recarsi da lui.
    Si era nel periodo caldo della primavera.  Il bosco  era  ormai  tutto
    rivestito  di verde,  la strada era polverosa e il caldo già tale che,
    passando vicino all'acqua, si provava il desiderio di fare un bagno.
    Il principe  Andréj,  triste  e  preoccupato  per  quello  che  doveva
    chiedere al maresciallo della nobiltà, percorreva in carrozza il viale
    del giardino che conduceva a Otràdnoe,  la casa dei Rostòv;  a destra,
    di là dagli alberi, udì delle liete grida di donne e scorse un piccolo
    gruppo di fanciulle passare correndo attraverso il viale, davanti alla
    sua carrozza.  Precedendo le altre,  si avvicinò  più  di  tutte  alla
    carrozza una fanciulla dai capelli neri,  gli occhi neri, molto esile,
    stranamente esile,  con un vestito di  cotone  giallo,  un  fazzoletto
    bianco  annodato  sul  capo,  da  sotto al quale sfuggivano ciocche di
    capelli arruffati.  La fanciulla gridava qualcosa ma,  alla vista  del
    forestiero, corse indietro ridendo, senza guardarlo.
    Tutt'a un tratto,  chissà perché, il principe Andréj provò un senso di
    malessere. La giornata era bella,  il sole radioso e tutto all'intorno
    spirava allegria, ma quell'esile e graziosa fanciulla non sapeva e non
    voleva sapere nulla della sua esistenza, ed era soddisfatta e appagata
    di una vita sua propria,  probabilmente insulsa,  ma allegra e felice.
    "Che cosa la rende tanto  lieta?  A  che  cosa  pensa?  Non  certo  ai
    regolamenti militari,  non certo ai problemi riguardanti il canone dei
    contadini di Rjazàn... A che cosa dunque? E di che cosa è felice?", si
    chiedeva, suo malgrado, il principe Andréj, con curiosità.
    Il conte Iljà Andréevic' nel 1809 viveva a Otràdnoe la stessa vita che
    aveva vissuto per l'innanzi, cioè ricevendo quasi tutta la nobiltà del
    governatorato, tra partite di caccia,  spettacoli,  pranzi e sonatori.
    Egli,  come per ogni ospite nuovo,  fu lieto della visita del principe
    Andréj e lo indusse, dopo molta insistenza, a trattenersi per la notte
    in casa sua.
    Nel corso di quella noiosa giornata, durante la quale i vecchi padroni
    di casa  e  i  più  importanti  tra  gli  invitati  di  cui,  a  causa
    dell'avvicinarsi  di  un  onomastico  la casa del conte era piena,  si
    occuparono del principe Andréj, questi,  volgendo più volte lo sguardo
    su  Natascia,  che  rideva e si divertiva con i più giovani componenti
    della compagnia, si chiedeva: "A che pensa? Perché è tanto felice?".
    La sera,  rimasto solo in quella casa nuova,  per un  pezzo  non  poté
    prender sonno. Lesse un po', spense la candela, poi la riaccese. Nelle
    stanze,  le cui imposte erano chiuse dall'interno,  faceva caldo. Egli
    brontolava stizzito contro quel vecchio balordo (così chiamava Rostòv)
    che l'aveva trattenuto con il  pretesto  che  i  documenti  non  erano
    ancora arrivati dalla città, e contro se stesso per essere rimasto.
    A  un certo momento si avvicinò alla finestra per aprirla.  Non appena
    ebbe schiuso le imposte,  il chiarore della luna,  come se da un pezzo
    fosse  lì  davanti alla finestra in attesa di quel momento,  inondò la
    stanza.  Il principe aprì i vetri.  La notte era  fresca,  immobile  e
    chiara.  Proprio davanti alla finestra si stendeva un filare di alberi
    potati di fresco,  neri da un lato,  illuminati  da  un'argentea  luce
    dall'altro.  Ai  loro  piedi  cresceva una vegetazione umida,  grassa,
    fitta,  tra la quale spiccavano qua  e  là  foglie  e  ramoscelli  che
    parevano d'argento. Più lontano, dietro agli alberi neri, luccicava un
    tetto bagnato di rugiada; a destra si ergeva un grande albero fronzuto
    dai rami e dal tronco di un bianco luminoso e in alto,  sopra di esso,
    splendeva la luna,  quasi piena  nel  cielo  primaverile,  chiarissimo
    quasi  senza  stelle.  Il principe Andréj si affacciò appoggiandosi al
    davanzale, e i suoi occhi si fissarono su quel cielo.
    La camera che egli occupava era al piano di  mezzo;  anche  le  stanze
    sopra  la sua erano abitate e non vi si dormiva.  Egli udì il suono di
    alcune voci femminili.
    - Ancora una volta, soltanto una volta  -  disse lassù una voce che il
    principe Andréj riconobbe immediatamente.
    - Ma quando,  dunque,  ti deciderai a dormire?   -   rispose  un'altra
    voce.
    -  Non  dormirò,  non  posso  dormire...  che  ci  vuoi fare?  Suvvia,
    un'ultima volta!
    E le due voci femminili intonarono una frase musicale che era la  fine
    di una canzone.
    - Ah, che incanto! Ma ora basta, dormiamo...
    - Dormi tu, io non posso  -  rispose la prima voce, avvicinandosi alla
    finestra.  La  fanciulla  si  era evidentemente affacciata,  perché si
    udivano distintamente il fruscio della sua veste e  persino  il  ritmo
    del  suo  respiro.  Tutto  tacque  e  parve pietrificarsi nel chiarore
    lunare e nelle ombre  dense.  Anche  il  principe  Andréj  evitava  di
    muoversi per non rivelare la sua involontaria presenza.
    - Sònja!  Sònja!   -  disse di nuovo la prima voce.  -  Ma come si può
    dormire? Guarda che meraviglia! Ah, che splendore! Svegliati, Sònja  -
    ripeté quasi con le lacrime nella voce.  -  Non ho mai visto una notte
    più incantevole di questa.
    Sònja rispose a malincuore qualcosa.
    - Ma no,  vieni a vedere che luna!  E' un incanto!  Vieni  qui,  cara,
    vieni qui. Ma non vedi? Io vorrei accoccolarmi così, stringere le mani
    attorno  alle  ginocchia  con la maggior forza possibile,  prendere lo
    slancio e volar via! Ecco, così!
    - Smettila, potresti cadere.
    Si udì il rumore di una breve lotta e la voce malcontenta di Sònja:
    - Lo sai che sono quasi le due?
    - Ah, tu vuoi proprio rovinarmi tutto! Vieni, vieni qui!
    Seguì un nuovo silenzio,  ma il principe Andréj sapeva  che  essa  era
    ancora  là,  alla  finestra;  di tanto in tanto sentiva ora un leggero
    movimento ora un lieve sospiro.
    - Ah,  mio Dio!  mio Dio!  Cosa è mai?   -  ella esclamò  tutto  a  un
    tratto.   -  E sta bene,  andiamo a dormire!  -  e sbatté con forza la
    finestra.
    "E della mia esistenza non le importa  nulla!",  pensava  il  principe
    Andréj  mentre  stava  ad  ascoltarla  parlare,  aspettando  e insieme
    temendo, chissà mai perché, di udire qualcosa sul conto suo. "E ancora
    lei! Neanche se fosse fatto apposta!", pensava.
    Improvvisamente gli sorse  nell'animo  un  tale  inatteso  tumulto  di
    pensieri  e di speranze giovanili,  in contrasto con tutta la sua vita
    che,  non sentendosi la forza di analizzare e  di  spiegarsi  ciò  che
    provava, si addormentò immediatamente.


    CAPITOLO 3.

    Il giorno seguente, dopo aver preso commiato soltanto dal conte, senza
    aspettare che uscissero le signore, il principe Andréj tornò a casa.
    Giugno  era  già  iniziato  allorché,  sulla  via  del  ritorno,  egli
    riattraversò il bosco di betulle,  dove la vecchia quercia contorta lo
    aveva  colpito  in modo tanto strano e indimenticabile.  Le sonagliere
    tintinnavano nel bosco più sordamente che non un mese e mezzo innanzi;
    tutta la vegetazione era folta,  fitta e ombrosa;  e i giovani  abeti,
    sparsi tra gli alti alberi, non violavano la bellezza dell'insieme ma,
    in armonia con il tono generale,  inverdivano delicatamente di giovani
    teneri germogli.
    La giornata  era  stata  calda:  da  qualche  parte  si  preparava  un
    temporale,  ma  soltanto una piccola nube lasciò cadere qualche goccia
    di pioggia sulla polvere della strada  e  sulle  tenere  foglie  degli
    alberi.  Il  lato  sinistro  del  bosco era buio,  immerso nell'ombra;
    quello destro, umido,  lucido,  brillava al sole,  dondolandosi appena
    sotto  il  vento.  Tutte le piante erano fiorite.  Gli usignuoli,  ora
    vicini, ora lontani, lanciavano i loro gorgheggi.
    "Sì,  qui in questo bosco c'era quella quercia con la quale mi sentivo
    in  accordo",  pensò  il  principe  Andréj.  "Ma  dov'è?",  si chiese,
    guardando verso il lato sinistro della strada e, senza saperlo,  senza
    riconoscerla,  stava  proprio  ammirando  la  quercia che cercava.  Il
    vecchio albero, tutto trasformato,  aprendo come un tendaggio la folta
    chioma scura,  lucida e gonfia di linfa,  si beava,  oscillando appena
    appena, ai raggi del sole che tramontava.  Non più dita contorte,  non
    più cicatrici,  non più lo sconforto diffidente e doloroso,  nulla più
    di tutto ciò. Attraverso la dura corteccia centenaria,  si erano fatte
    strada,  senza  rami,  giovani  foglioline  lucenti e gonfie di linfa;
    pareva impossibile che fossero  state  generate  da  un  albero  tanto
    vecchio!  "Si, è proprio quella quercia!", si disse il principe Andréj
    e, a un tratto, senza ragione,  fu invaso da una sensazione gioiosa di
    rinascita  primaverile.  E  nello  stesso  istante affluirono alla sua
    mente i momenti più intensi della sua vita: Austerlitz e il suo  cielo
    profondo;  il viso,  carico di rimprovero, di sua moglie morta, Pierre
    sulla chiatta, la fanciulla turbata dalla bellezza della notte, quella
    notte, la luna... tutto gli tornò improvvisamente alla memoria.
    "No, la vita non è finita a trent'anni",  concluse con ferma decisione
    il  principe  Andréj.  "Non basta che io sappia cosa avviene dentro di
    me,  bisogna che lo sappiano  anche  gli  altri,  e  Pierre  e  quella
    fanciulla  che  voleva  volare  in  cielo...   Bisogna  che  tutti  mi
    conoscano,  affinché la mia vita non si svolga per me  solo,  affinché
    essi  non  vivano  indipendentemente dalla mia esistenza...  Essa deve
    riflettersi in tutti,  e tutti devono vivere in  perfetta  unione  con
    me!".
    Tornato  dal  suo viaggio,  il principe Andréj si decise a partire per
    Pietroburgo,   in  autunno,   e  trovò  una  quantità  di  ragioni   a
    giustificazione del suo proposito. Una serie di considerazioni logiche
    e  assennate  per  dimostrare  la  necessità assoluta di compiere quel
    viaggio e persino di prestare servizio, era pronta, a ogni momento, ai
    suoi ordini.  Non riusciva neppure a capire,  adesso,  come mai  prima
    avesse  potuto avere dei dubbi sulla necessità assoluta di partecipare
    attivamente alla vita,  proprio come un mese innanzi non  capiva  come
    sarebbe  potuta venirgli in mente l'idea di lasciare la campagna.  Gli
    pareva evidente che  tutta  la  sua  esperienza  di  vita  si  sarebbe
    veramente  perduta  invano,  non  avrebbe  avuto  alcun  senso  se non
    l'avesse ora applicata alla pratica e non avesse di nuovo  partecipato
    attivamente alla vita. E non riusciva nemmeno a capire come mai prima,
    basandosi  su  altrettanto  poco  ragionevoli pretesti,  gli apparisse
    evidente che si sarebbe umiliato se,  dopo tante lezioni che gli aveva
    dato la vita, avesse creduto ancora alla possibilità di essere utile e
    alla  possibilità  di  amare  e  di essere felice.  Ora la ragione gli
    dimostrava tutto il contrario.
    Dopo quel  viaggio,  il  principe  Andréj  cominciò  ad  annoiarsi  in
    campagna;  le  occupazioni di una volta non lo interessavano e spesso,
    solo nel suo studio, si alzava,  si avvicinava allo specchio e a lungo
    si  soffermava  a osservare il suo viso.  Poi si voltava e guardava il
    ritratto della povera Liza che con i riccioli  raccolti  "alla  greca"
    pareva  fissarlo  dalla  cornice dorata con dolce tenerezza.  Ella non
    diceva più a suo marito le terribili parole di un tempo,  lo osservava
    curiosa,  con semplicità e gaiezza.  E il principe Andréj, con le mani
    intrecciate  dietro  la  schiena,  andava  su  e  giù  per  la  stanza
    aggrottando  le sopracciglia,  ora sorridendo assorto in quei pensieri
    irragionevoli, inesprimibili a parole e segreti come un delitto,  quei
    pensieri legati a Pierre,  alla gloria, alla fanciulla, alla finestra,
    alla quercia,  alla bellezza femminile e all'amore;  a quei  pensieri,
    insomma,  che  avevano  mutato  tutta la sua vita.  E in quei momenti,
    quando qualcuno entrava nello studio, egli era particolarmente freddo,
    severo, risoluto e, soprattutto, logico e tutt'altro che benevolo.
    - "Mon cher",   -    capitava  che  dicesse  la  principessina  Màrija
    entrando  in uno di quei momenti  -  Nikòluska non può uscire oggi per
    la sua passeggiata; fa freddo!
    - Se facesse caldo,   -    rispondeva  allora  alla  sorella  in  modo
    particolarmente  secco  il  principe  Andréj    -  il piccolo potrebbe
    uscire con la sola camicina,  ma poiché fa freddo bisogna mettergli un
    abitino pesante,  inventato, è chiaro, proprio a questo scopo. Ecco la
    conseguenza del fatto che fuori fa freddo,  e non che si debba  tenere
    in  casa un bambino che ha bisogno di prendere aria  -  diceva con una
    logica tutta particolare,  come se punisse  qualcuno  per  tutto  quel
    lavorio misterioso,  illogico, che si svolgeva incessantemente nel suo
    intimo.
    In quei casi la principessina Màrija si rendeva conto di di quanto  il
    lavoro intellettuale inaridisse gli uomini.


    CAPITOLO 4.

    Il principe Andréj arrivò a Pietroburgo nell'agosto del 1809.  In quel
    momento la gloria del giovane Speranskij (1) e  le  riforme  che  egli
    andava  realizzando erano nel periodo culminante.  Un giorno di quello
    stesso  mese  di  agosto,   durante  una  passeggiata,   la   carrozza
    dell'imperatore  si  era rovesciata,  e l'imperatore stesso,  sbalzato
    fuori,  aveva avuto una  gamba  ferita;  l'incidente  lo  costrinse  a
    rimanere per tre settimane a Peterchòv,  dove riceveva ogni giorno,  e
    unicamente, Speranskij. In quel tempo si stavano preparando non solo i
    due famosi decreti che avevano provocato  una  viva  agitazione  nella
    società,   quello  per  l'abolizione  dei  gradi  di  Corte  e  quello
    sull'istituzione degli esami per i titoli di assessore di  Collegio  e
    di  consigliere  di  stato,  ma  anche  studiando una costituzione che
    doveva  mutare  totalmente  l'organizzazione  della  giustizia,  delle
    finanze  e  dell'amministrazione di tutta la Russia,  dal Consiglio di
    stato al comune rurale.  Cominciarono in quel  periodo  a  realizzarsi
    quei  confusi  sogni di liberalismo dell'imperatore,  con i quali egli
    era salito al trono e che tentava di tradurre in atto con l'aiuto  dei
    suoi   collaboratori  Ciartoritzskij,   Novosilzòv,   Kociubéj  (2)  e
    Stroganov che egli stesso chiamava scherzosamente "le Comité de  Salut
    public" [3. Il Comitato di salute pubblica].
    Ora  Speranskij  aveva  sostituito tutti costoro per la parte civile e
    Arakceev per quella militare.  Il principe Andréj,  poco dopo  il  suo
    arrivo,  si  presentò  a  Corte nella sua qualità di ciambellano,  per
    un'udienza.  L'imperatore lo incontrò  due  volte  senza  degnarsi  di
    rivolgergli  neppure  una  parola.  Anche  prima di allora il principe
    Andréj aveva sempre ritenuto di  essere  antipatico  all'imperatore  e
    aveva l'impressione che la sua faccia e la sua persona gli riuscissero
    sgradite.  Nello  sguardo  freddo  e  distaccato con cui il sovrano lo
    aveva guardato,  il principe Andréj avvertì più che mai la conferma di
    tale supposizione.  I cortigiani gli spiegarono che l'indifferenza del
    sovrano nei suoi riguardi  derivava  dal  fatto  che  sua  maestà  era
    scontenta  perché  Bolkonskij dal 1805 non aveva più prestato servizio
    nell'esercito.
    "Io stesso so sino  a  che  punto  le  simpatie  e  le  antipatie  non
    dipendano  dalla  nostra  volontà",  si  diceva  il principe Andréj "e
    perciò  non  posso  neppure  pensare   di   presentare   personalmente
    all'imperatore  il  mio progetto sul codice militare;  ma la mia opera
    andrà  avanti  da  sé".   Espose  il  suo  memoriale  a   un   vecchio
    feldmaresciallo amico di suo padre.  Il feldmaresciallo, fissatogli un
    appuntamento, lo accolse affettuosamente e gli promise di riferirne al
    sovrano.  Dopo  qualche  giorno  il  principe  Andréj  fu  invitato  a
    presentarsi al ministro della guerra, conte Arakceev.
    Il giorno fissato, alle nove del mattino, il principe Bolkonskij entrò
    nella sala d'aspetto del conte Arakceev.
    Il  principe  Andréj non conosceva Arakceev personalmente e neppure lo
    aveva mai visto,  ma tutto quanto sapeva  di  lui  gli  ispirava  poco
    rispetto verso quell'uomo.
    "Egli è il ministro della guerra,  persona di fiducia dell'imperatore,
    e nessuno deve interessarsi  delle  sue  qualità  personali;  egli  ha
    l'incarico  di  esaminare  il mio progetto e pertanto lui può avviarlo
    alla realizzazione", pensava il principe Andréj,  mentre aspettava con
    molta altra gente,  importante o meno,  nella sala di attesa del conte
    Arakceev.
    Durante il periodo del suo servizio,  per la maggior parte svolto come
    aiutante  di  campo,  aveva  veduto molte sale di attesa di personaggi
    importanti e le diverse caratteristiche di quelle anticamere gli erano
    ben chiare.  Quella del conte Arakceev aveva un  carattere  del  tutto
    particolare. Sul viso delle persone poco importanti che attendevano il
    loro  turno  di  udienza  si  leggeva  un'espressione  di  umiltà e di
    sottomissione,  su quello delle persone più ragguardevoli era  scritto
    invece   un   unico   sentimento   di   imbarazzo,    nascosto   sotto
    un'ostentazione di disinvoltura e di ironia per la propria persona, la
    propria  situazione  e  il   personaggio   che   aspettavano.   Alcuni
    camminavano pensosi avanti e indietro,  altri, bisbigliando, ridevano,
    e il principe Andréj sentì dire "le sobriquet" Sila Andreic' (4) e  le
    parole:  "lo  zio  ti  sistemerà"  riferendosi  al conte Arakceev.  Un
    generale (un personaggio importante), visibilmente offeso per il fatto
    di dover aspettare tanto,  stava seduto con  le  gambe  accavallate  e
    sorrideva tra sé e sé con disprezzo.
    Ma non appena l'uscio si apriva,  tutti i visi esprimevano a un tratto
    lo stesso sentimento: la  paura.  Il  principe  Andréj  pregò  per  la
    seconda volta un funzionario di servizio di annunziarlo,  ma questi lo
    guardò con aria beffarda e gli disse che il suo turno sarebbe venuto a
    tempo  debito.   Dopo  parecchie  altre  persone,   fatte  entrare   e
    riaccompagnate   dall'aiutante   fuori  dal  gabinetto  del  ministro,
    attraverso il terribile uscio venne introdotto un ufficiale che  colpì
    il  principe Andréj per il suo aspetto umile e sgomento.  L'udienza di
    quell'ufficiale  si  protrasse  a  lungo.  Improvvisamente  al  di  là
    dell'uscio si udirono gli scoppi di una voce sgradevole e l'ufficiale,
    pallido  in  volto  e  con  le  labbra  tremanti,  uscì  e  attraversò
    l'anticamera tenendosi il capo tra le mani.
    Subito dopo di lui,  il principe Andréj fu condotto  a  quell'uscio  e
    l'ufficiale di servizio gli disse sottovoce:
    - A destra, in direzione della finestra.
    Il  principe  Andréj  entrò  in uno studio arredato con ordine,  senza
    lusso, e accanto alla tavola scorse un uomo sulla quarantina alto, con
    il busto lungo, la testa oblunga, i capelli tagliati corti e la faccia
    segnata da rughe profonde,  le sopracciglia aggrottate  su  due  occhi
    ottusi,  di colore verde castano,  e il naso rosso,  un po' spiovente.
    Arakceev, senza guardarlo, volse il viso verso di lui.
    - Voi, cosa chiedete?  -  gli domandò.
    - Io non chiedo nulla,  eccellenza  -  rispose lentamente il  principe
    Andréj.
    Gli occhi di Arakceev si posarono su di lui.
    - Sedetevi  -  disse.  -  Siete il principe Bolkonskij, vero?
    -  Io  non  chiedo  nulla,  ma  sua  maestà l'imperatore si degnato di
    mandare a vostra eccellenza un mio memoriale.
    - Vedete,  mio caro,  ho letto il vostro progetto  -    lo  interruppe
    Arakceev,  pronunziando  in  tono  gentile  soltanto le prime parole e
    continuando poi, senza più guardare in viso il suo interlocutore,  con
    un  tono che si faceva sempre più sprezzante,  brontolò:  -  Proponete
    nuove leggi militari? Le leggi sono tante,  e non c'è nessuno per fare
    eseguire  le vecchie.  Oggi tutti scrivono leggi: scrivere è assai più
    facile che eseguire.
    - Sono venuto da vostra eccellenza per volontà dell'imperatore al fine
    di conoscere se vostra eccellenza vorrà tener conto del mio  memoriale
    -  replicò cortesemente il principe Andréj.
    - A proposito del vostro memoriale,  ho espresso la mia decisione alla
    Commissione.  Io "non" l'approvo  -  dichiarò  Arakceev,  alzandosi  e
    prendendo una carta dallo scrittoio.  -  Ecco  -  disse, e la porse al
    visitatore.
    Sulla carta, di traverso, era scritto a matita, senza maiuscole, senza
    tener conto dell'ortografia,  senza segni di interpunzione: "Compilato
    senza serie basi perché si tratta di un'imitazione del codice militare
    francese e si  allontana  senza  necessità  dal  regolamento  militare
    esistente".
    -  A quale Commissione è stato trasmesso il mio progetto?   -  domandò
    il principe Andréj.
    - Alla Commissione per la revisione del codice militare e ho fatto  la
    proposta perché siate ammesso a farne parte, ma senza compenso.
    Il principe Andréj sorrise.
    - Non ne desidero.
    -  Membro senza compenso  -  ripeté Arakceev.   -  Ho l'onore...  Ehi,
    chiama!  Chi c'è ancora?   -    soggiunse,  inchinandosi  al  principe
    Andréj.


    CAPITOLO 5.

    In  attesa  della  notizia  ufficiale  della sua nomina a membro della
    Commissione,   il   principe   Andréj   riannodò   antiche   relazioni
    specialmente  con persone notoriamente in auge e che potevano essergli
    utili.  Ora a Pietroburgo provava un sentimento simile  a  quello  che
    aveva  provato  alla  vigilia  della  battaglia,  quando una curiosità
    inquieta lo aveva tormentato e  spinto  invincibilmente  verso  quegli
    ambienti nei quali si preparava il futuro da cui dipendeva la sorte di
    milioni di esseri umani.  Dallo sdegno dei vecchi, dalla curiosità dei
    profani,  dal  riserbo  di  coloro  che  agivano,  dalla  frettolosità
    preoccupata  di  tutti,  dal  numero  infinito  dei  Comitati  e delle
    Commissioni di cui ogni giorno  veniva  a  conoscere  l'esistenza,  si
    rendeva  conto  che  allora,  nel 809,  si preparava a Pietroburgo una
    grandiosa battaglia civile,  il cui capo  era  un  personaggio  a  lui
    sconosciuto,  misterioso,  ma  che riteneva geniale: Speranskij.  E la
    stessa opera della  riforma,  che  gli  era  nota  solo  vagamente,  e
    l'artefice principale di essa, Speranskij, cominciavano a interessarlo
    così appassionatamente che nella sua coscienza la revisione del codice
    militare  passò  ben  presto  al  secondo  posto nell'ordine delle sue
    preoccupazioni.
    Il principe Andréj si trovava nelle  migliori  condizioni  per  essere
    bene  accolto  negli  ambienti più diversi e più elevati della società
    pietroburghese.  Il partito riformatore lo riceveva  e  lo  accoglieva
    cordialmente, in primo luogo perché egli godeva fama di essere un uomo
    intelligente   e   molto   colto;   in   secondo  luogo  perché,   con
    l'emancipazione già concessa ai propri contadini,  si era ormai creato
    una  reputazione  di  liberale.  Il  partito  dei  vecchi scontenti si
    rivolgeva a lui,  come figlio di suo padre,  e cercava la sua simpatia
    nel deplorare le riforme. La società femminile, il cosiddetto "mondo",
    lo riceveva con piacere perché era un "partito" ricco e brillante,  un
    personaggio quasi nuovo,  cinto dell'aureola della  romanzesca  storia
    della sua supposta morte e della tragica fine di sua moglie.  Inoltre,
    l'opinione generale di quanti lo avevano conosciuto nel  passato,  era
    che  egli  durante  quei cinque anni fosse molto mutato in meglio,  si
    fosse fatto più affabile,  e che quel  contegno  altero,  affettato  e
    ironico  di  un  giorno fosse scomparso per lasciare il posto a quella
    calma che soltanto con gli anni  si  può  acquistare.  Si  cominciò  a
    parlare di lui, a interessarsi di lui, tutti desideravano vederlo.
    Il  giorno successivo a quello della sua visita al conte Arakceev,  il
    principe Andréj andò dal conte Kociubéj e gli raccontò  del  colloquio
    con  "Sila  Andréevic'"  (così Kociubéj chiamava Arakceev,  con quella
    stessa aria vagamente beffarda verso qualcosa che il  principe  Andréj
    aveva già notato nell'anticamera del ministro della guerra).
    -  "Mon  cher",   anche  in  questa  faccenda  non  eviterete  Michaìl
    Michàjlovic'.  "C'est le grand faiseur" [5.  E' colui che  fa  tutto].
    Gliene parlerò. Ha promesso di venire, questa sera...
    - Ma che ne capisce Speranskij di regolamenti militari?  -  domandò il
    principe Andréj.
    Kociubéj  scosse  il  capo sorridendo,  come se si meravigliasse della
    ingenuità di Bolkonskij.
    - Ho già parlato di voi con  lui  nei  giorni  scorsi    -    continuò
    Kociubéj  -  a proposito dei vostri contadini emancipati.
    - Ah, siete voi, principe, che avete emancipato i vostri contadini?  -
    chiese  un  vecchio  del  tempo  di  Caterina,   voltandosi  con  fare
    sprezzante verso Bolkonskij.
    - Quella mia piccola proprietà non  mi  rendeva  nulla    -    rispose
    Bolkonskij,  cercando  di minimizzare il suo gesto affinché il vecchio
    non si irritasse inutilmente.
    - "Vous craignez d'être en retard"  [6.  Voi  temete  di  arrivare  in
    ritardo]  -  disse il vecchio,  guardando Kociubéj.  -  Io non capisco
    una cosa  -  continuò poi.   -  Chi lavorerà  la  terra,  se  si  darà
    libertà ai contadini?  E' facile scrivere delle leggi,  ma è difficile
    governare.  Proprio come adesso: io vi domando,  conte,  chi potrà più
    essere  a  capo  delle  varie  amministrazioni,  ora  che tutti devono
    sostenere esami?
    - Quelli che  li  avranno  superati,  penso    -    rispose  Kociubéj,
    accavallando una gamba sull'altra e guardandosi attorno.
    -  Io  ho,  per  esempio,  come  impiegato  nei  miei  uffici un certo
    Prjanìcnikov,  un'ottima  persona,   un  uomo  d'oro,   che  ha  ormai
    sessant'anni: è possibile che vada a dare gli esami?
    -  Sì,  senza  dubbio questa è una difficoltà,  giacché l'istruzione è
    assai poco diffusa...
    Il conte Kociubéj non compì la frase, si alzò e,  preso per un braccio
    il  principe  Andréj,  andò  incontro a un uomo sulla quarantina alto,
    biondo, calvo,  dalla grande fronte scoperta e dalla faccia lunga e di
    una  bianchezza  straordinaria.  L'uomo  che  entrava  in quel momento
    indossava una marsina turchina, e aveva la croce di una decorazione al
    collo e una stella sul petto, a sinistra. Era Speranskij.  Il principe
    Andréj lo riconobbe subito e, come avviene nei momenti più gravi della
    vita,  sentì che l'anima gli tremava.  Non avrebbe saputo dire se quel
    tremito fosse di rispetto, di invidia o di trepidante attesa. Tutta la
    persona di Speranskij rappresentava un "tipo singolare" tanto  che  lo
    si  poteva  subito riconoscere.  Nella società nella quale viveva,  il
    principe Andréj non aveva mai visto nessuno  che,  pur  nei  movimenti
    goffi  e pesanti,  dimostrasse tanta calma e tanta sicurezza di sé,  e
    nessuno che avesse uno sguardo nello stesso tempo così  fermo  e  così
    dolce.  Negli occhi semichiusi e un po' umidi,  non aveva mai visto un
    sorriso così deciso che tuttavia non significava nulla,  né aveva  mai
    udito una voce così esile, uguale e sommessa e, soprattutto, non aveva
    mai  scorto  una così dolce bianchezza del viso e delle mani,  mani un
    poco larghe ma straordinariamente  morbide,  bianche  e  delicate.  Un
    simile delicato candore del viso, il principe Andréj l'aveva osservato
    soltanto  nei soldati rimasti lungo tempo in ospedale.  Quell'uomo era
    Speranskij,  segretario di stato,  confidente  dell'imperatore  e  suo
    compagno  di viaggio a Erfurt,  dove più di una volta aveva incontrato
    Napoleone e gli aveva parlato.
    Speranskij non volgeva gli occhi ora su un viso  ora  sull'altro  come
    involontariamente  accade  di fare quando si entra in un luogo dove si
    trovano riunite molte persone,  e non aveva alcuna fretta di  parlare.
    Parlava  lentamente,  piano,  sicuro  di  essere  ascoltato e,  mentre
    parlava, guardava soltanto il suo interlocutore.
    Il principe Andréj seguiva con particolare attenzione  ogni  parola  e
    ogni  gesto  di  Speranskij.  Come  succede  sempre agli uomini e,  in
    particolare a quelli che giudicano severamente il  loro  prossimo,  il
    principe Andréj,  incontrandosi con una persona nuova e,  soprattutto,
    con un uomo come Speranskij che già conosceva di fama, si aspettava di
    trovare in lui l'assoluta perfezione delle qualità umane.
    Speranskij espresse a  Kociubéj  il  proprio  rincrescimento  per  non
    essere arrivato prima, ma era stato trattenuto a palazzo. Non disse di
    essere  stato  trattenuto  dal  sovrano,  e  il  principe  Andréj notò
    quell'affettazione  di  modestia.   Quando   Kociubéj   gli   presentò
    Bolkonskij,  Speranskij  sollevò  lentamente  gli  occhi  sul principe
    Andréj e, sempre con lo stesso sorriso, lo guardò in silenzio.
    - Sono felicissimo di conoscervi;  ho sentito parlare  molto  di  voi,
    come tutti, del resto  -  disse poi.
    Kociubéj  accennò  brevemente  all'accoglienza  fatta  da  Arakceev  a
    Bolkonskij. Speranskij accentuò il suo sorriso.
    - Il direttore della Commissione per  i  codici  militari,  il  signor
    Magnitzkij (7),  è mio ottimo amico  -  disse, accentuando ogni parola
    e ogni sillaba  -  e,  se volete,  posso farvelo conoscere.   -    (Al
    punto  fermo  fece  una  sosta).    -  Spero che troviate in lui della
    simpatia e il desiderio di contribuire a tutto ciò che è ragionevole e
    utile.
    Attorno a Speranskij si era già formato un gruppo di persone,  e anche
    quel  vecchio  che  aveva parlato del suo impiegato Prjanìcnikov aveva
    rivolto a Speranskij una domanda.
    Il principe Andréj,  senza partecipare alla  conversazione,  osservava
    tutti  i  movimenti di Speranskij,  di quell'uomo che poco tempo prima
    era un oscuro seminarista,  e che teneva ora nelle sue mani  grasse  e
    bianche  le  sorti della Russia.  Il principe Andréj era colpito dalla
    straordinaria, sprezzante calma con la quale il ministro rispondeva al
    vecchio.  Pareva che da inaccessibili altezze gli  rivolgesse  le  sue
    indulgenti  parole.  Allorché  il  vecchio  cominciò  a parlare a voce
    troppo alta,  Speranskij sorrise e dichiarò di non poter giudicare sul
    maggiore o minore vantaggio di quanto era gradito all'imperatore.
    Dopo  aver conversato per qualche tempo nel gruppo comune,  Speranskij
    si alzò,  si avvicinò al principe Andréj  e  lo  chiamò  in  disparte,
    all'altra  estremità  della stanza.  Si capiva che riteneva necessario
    occuparsi di lui.
    - Non ho ancora potuto parlare un momento  con  voi,  principe,  preso
    dall'animata   conversazione   alla   quale   mi  ha  trascinato  quel
    rispettabile vecchio  -  disse, con un sorriso bonariamente sprezzante
    come se volesse far capire che tanto lui  quanto  il  principe  Andréj
    comprendevano  la pochezza di quelle persone con le quali aveva appena
    finito di conversare.  Questo modo di  trattarlo,  colpì  il  principe
    Andréj,  che  si  sentì  lusingato.   -  Io vi conosco da molto tempo;
    innanzi tutto per l'opera a favore dei  vostri  contadini,  opera  che
    costituisce  il  primo  esempio di un progetto che noi vorremmo vedere
    sviluppato e seguito;  in secondo luogo perché siete uno di quei  rari
    ciambellani  che  non si ritengono offesi dal nuovo decreto sui titoli
    di Corte, decreto che ha suscitato tanti commenti e tanti malumori.
    - Già  -  rispose il principe Andréj;   -  mio padre non ha voluto che
    io approfittassi di quel diritto: ho cominciato il  mio  servizio  dai
    gradi più bassi.
    -  Vostro padre è un uomo del vecchio stampo,  evidentemente superiore
    ai nostri contemporanei che tanto biasimano quel provvedimento con  il
    quale non si fa altro che ristabilire la giustizia naturale.
    -  Io penso,  tuttavia,  che quel biasimo abbia,  almeno in parte,  un
    fondamento  -   disse  il  principe  Andréj,  cercando  di  combattere
    l'influenza di Speranskij che già cominciava a subire.  Gli dispiaceva
    essere d'accordo  con  lui  in  ogni  cosa:  voleva  contraddirlo.  Il
    principe  Andréj,  che di solito discorreva bene e con scioltezza,  si
    rendeva conto ora di provare una certa difficoltà  a  esprimersi.  Era
    troppo  preso  dalle  osservazioni che stava facendo sulla personalità
    dell'illustre uomo di stato.
    - Un fondamento forse sì, ma per l'ambizione personale  -  osservò con
    voce sommessa Speranskij.
    - In parte anche per lo stato  -  osservò Andréj.
    - In  che  senso  l'intendete?    -    chiese  Speranskij,  abbassando
    lentamente gli occhi.
    - Sono un ammiratore di Montesquieu (8)  -  rispose il principe Andréj
    -    e  la sua idea che "le principe des monarchies est l'honneur,  me
    paraît incontestable.  Certains droits et privilèges de la noblesse me
    paraissent  être  des  moyens de soutenir ce sentiment" [9.  ...che il
    principio delle monarchie è l'onore,  mi sembra indiscutibile.  Taluni
    diritti  e  privilegi  della  nobiltà mi sembrano essere dei mezzi per
    sostenere questo sentimento].
    Il sorriso  scomparve  dalla  faccia  bianca  di  Speranskij,  la  cui
    fisionomia  apparve  allora  molto  più  gradevole.  Evidentemente  il
    pensiero del principe Andréj gli era parso interessante.
    - "Si vous envisagez la question sous ce point  de  vue  [10.  Se  voi
    considerate  la  questione  sotto  questo  punto  di vista]  cominciò,
    pronunziando le parole francesi con visibile sforzo e parlando  ancora
    più lentamente che in russo, ma sempre con la massima calma.
    Affermò  che  l'onore,  "l'honneur",  non  poteva  essere sostenuto da
    privilegi nocivi all'andamento del servizio, che l'onore, "l'honneur",
    è un concetto negativo, un'astensione da azioni riprovevoli,  oppure è
    una fonte sicura di emulazione onde ottenere approvazione e ricompense
    che ne siano la manifestazione.
    Le sue deduzioni erano concise, semplici e chiare.
    -   L'istituzione   che  sostiene  l'onore  in  questione,   fonte  di
    emulazione, è un'istituzione simile alla "Légion d'honneur" del grande
    imperatore Napoleone,  la quale non nuoce,  ma  contribuisce  al  buon
    andamento del servizio reso e non un privilegio di casta o di Corte.
    -  Non discuto,  ma non si può negare che i privilegi di Corte abbiano
    raggiunto lo stesso scopo    -    obiettò  il  principe  Andréj;  ogni
    cortigiano,  infatti,  si  sente  obbligato  a mantenere degnamente la
    propria posizione.
    - Ma voi non avete voluto  approfittarne,  principe,    -    disse  il
    ministro.  dimostrando  con un sorriso che desiderava mettere fine con
    queste parole cortesi  a  una  discussione  imbarazzante  per  il  suo
    interlocutore.   -  Se mi farete l'onore di venire da me mercoledì,  -
    soggiunse  -  vi comunicherò,  dopo aver parlato con  Magnitzkij,  ciò
    che vi potrà interessare e avrò inoltre il piacere di una più profonda
    conversazione con voi.
    Chiuse  gli  occhi,  salutando  "à  la  francaise"  e,  senza prendere
    congedo, lasciò la sala, cercando di non essere notato.


    CAPITOLO 6.

    Nei primi tempi del suo soggiorno a Pietroburgo, il principe Andréj si
    rese conto che tutto il cumulo di pensieri  su  cui  aveva  riflettuto
    durante  la  sua  vita  solitaria  era  completamente  offuscato dalle
    piccole preoccupazioni che qui si erano impadronite di lui.
    Ogni sera,  tornato a casa,  segnava sul suo taccuino quattro o cinque
    visite o appuntamenti indispensabili,  a ore stabilite.  Il meccanismo
    dell'esistenza,  la giornata suddivisa in modo da potersi  trovare  in
    tempo  dappertutto,  gli  sottraevano  gran  parte  della  sua energia
    vitale.  Non faceva nulla e neppure pensava né aveva tempo per  farlo;
    si  limitava  a  parlare,  e  parlava con successo di quello che aveva
    profondamente meditato quando viveva in campagna.
    Notava a volte,  con un certo dispetto,  che gli accadeva di  ripetere
    nello  stesso  giorno  le  stesse  cose  in  diverse riunioni.  Ma era
    talmente occupato durante l'intera giornata,  che non aveva neppure il
    tempo di rendersi conto di non pensare a nulla.
    Speranskij,  come in quel primo incontro con lui in casa di Kociubéj e
    come il mercoledì successivo in casa sua, dove ricevendolo a tu per tu
    gli aveva parlato a lungo e molto confidenzialmente,  aveva fatto  sul
    principe  Andréj  una  profonda impressione.  Questi,  che considerava
    spregevoli e nulle un così gran numero di persone e che aveva un  così
    ardente  desiderio  di  incontrare  in  un altro essere umano l'ideale
    vivente di  quella  perfezione  alla  quale  egli  aspirava,  credette
    facilmente  di  aver  trovato  in  Speranskij  il  suo  ideale di uomo
    intelligente e ricco di virtù.  Se Speranskij non fosse appartenuto  a
    un ceto sociale diverso da quello del principe Andréj,  e avesse avuto
    la sua  medesima  educazione  e  le  sue  medesime  abitudini  morali,
    Bolkonskij  avrebbe ben presto scoperto i suoi lati deboli umani,  non
    eroici;  ma  ora  quella  tendenza  logica,  per  lui  strana,   della
    intelligenza di Speranskij gli ispirava tanto più rispetto quanto meno
    riusciva  a  comprenderla interamente.  Oltre a ciò,  Speranskij,  sia
    perché apprezzava le capacità del principe Andréj sia perché  riteneva
    utile ingraziarselo,  metteva in mostra la propria intelligenza pacata
    e imparziale,  e lo lusingava con quella fine adulazione  inseparabile
    dalla presunzione, che consiste nel far capire a un interlocutore, con
    tacito  riconoscimento,  che  lo  si  considera  come l'unica persona,
    insieme con noi,  capace di capire la stupidità di "tutti" gli altri e
    la profonda fondatezza delle nostre idee.
    Durante  la  loro  lunga conversazione del mercoledì sera,  Speranskij
    aveva detto più volte:  -  Da "noi" si considera tutto ciò che è al di
    fuori del comune livello di un'abitudine radicata profondamente...   -
    oppure, con un sorriso:   -  Ma "noi" vogliamo che i lupi siano sazi e
    le pecore salve...   -  oppure ancora:  -  "Essi" non sono in grado di
    capire...   -  e tutto ciò con una espressione che voleva significare:
    "Noi, voi e io, comprendiamo che cosa siano loro e chi siamo noi".
    Quel  primo  lungo  colloquio  con  Speranskij  non  aveva  fatto  che
    rafforzare nel principe Andréj l'impressione avuta la prima volta  che
    lo  aveva  veduto.  Egli  ammirava  in  lui  un  uomo ragionevole,  un
    pensatore profondo di grande intelligenza, giunto al potere per merito
    della propria energia,  potere che impiegava unicamente  per  il  bene
    della  Russia.   Agli  occhi  del  principe  Andréj,   Speranskij  era
    esattamente l'uomo capace di spiegare razionalmente tutti  i  fenomeni
    della  vita,  l'uomo  che  giudicava  importante  soltanto ciò che era
    razionale,  che sapeva misurare tutte le cose  entro  i  limiti  della
    ragione: l'uomo, insomma, che egli avrebbe voluto essere. In tutto ciò
    che  Speranskij  diceva,  la  semplicità  e  la  chiarezza  sembravano
    dominare in modo tale che il principe  Andréj,  suo  malgrado,  finiva
    sempre  con l'essere d'accordo con lui.  Se obiettava e discuteva,  lo
    faceva a bella posta soltanto perché voleva mantenersi indipendente  e
    non  sottomettersi  totalmente  alle  opinioni  del  ministro.   Tutto
    procedeva così, per il meglio; ma una cosa turbava il principe Andréj:
    lo sguardo freddo,  glaciale di Speranskij,  che non gli permetteva di
    penetrargli   nell'animo,   e  le  sue  mani  morbide  e  bianche  che
    involontariamente il principe Andréj era tratto a  guardare,  come  di
    solito  si  guardano  le  mani  degli  uomini che detengono il potere.
    Quello sguardo di ghiaccio e quelle mani delicate  irritavano,  chissà
    perché,  il  principe  Andréj.  Era  anche  spiacevolmente colpito dal
    troppo grande disprezzo per gli uomini  che  notava  in  Speranskij  e
    dalla  varietà  delle prove che questi citava per sostenere le proprie
    opinioni. Speranskij,  infatti,  si serviva di ogni possibile arma del
    pensiero,  eccezion  fatta  per  la  comparazione,  e,  come pareva al
    principe Andréj, passava con eccessivo ardire dall'una all'altra.  Ora
    adottava il punto pratico dell'uomo di azione e biasimava i sognatori,
    ora  si  poneva  sul  terreno  satirico  e  ironicamente scherniva gli
    avversari,  ora diventava di una rigida logicità o si levava sino alle
    altezze  metafisiche (ed era questa l'arma che usava di preferenza per
    le sue dimostrazioni).  Egli  sollevava  una  questione  alle  altezze
    metafisiche,  passava  alle definizioni del tempo,  dello spazio,  del
    pensiero e,  traendone questa o quella confutazione,  ridiscendeva  al
    piano della discussione.
    In  generale,  il  tratto principale del carattere di Speranskij,  che
    colpiva maggiormente il principe Andréj,  era la  fede  indiscutibile,
    immutabile  nella forza e nei diritti della ragione.  Era evidente che
    Speranskij non avrebbe mai potuto pensare,  come  accadeva  spesso  al
    principe Andréj, che non si può mai esprimere tutto ciò che si pensa e
    che  nemmeno  gli  sarebbe  venuto il dubbio se non fosse un'assurdità
    tutto ciò che pensava e ciò in cui  credeva.  Ed  era  appunto  questa
    caratteristica  della  mente  di  Speranskij  che  più  di  ogni altra
    attraeva il principe Andréj.
    Nei primi tempi della  sua  conoscenza  con  Speranskij,  il  principe
    Andréj  nutriva  per  lui  un entusiasmo appassionato,  paragonabile a
    quello che un tempo aveva provato per Bonaparte.  La  circostanza  che
    Speranskij  fosse  figlio di un ecclesiastico e che per questo potesse
    essere  disprezzato  dalle  persone  sciocche-    come  infatti  molti
    facevano    -  quale uomo di chiesa e figlio di prete,  costringeva il
    principe Andréj e considerare  con  particolare  riguardo  il  proprio
    interesse per quell'uomo e a rafforzarlo inconsciamente in sé.
    In  quella  prima  sera  che  Bolkonskij  passò  in casa del ministro,
    discorrendo della codificazione  delle  leggi,  Speranskij  gli  aveva
    raccontato con una sfumatura di ironia che la Commissione esisteva già
    da cinquant'anni,  era costata milioni e non aveva combinato nulla,  e
    che Rosenkampf (11) aveva  incollato  un'etichetta  su  ogni  articolo
    della legislazione comparata.
    - Ed ecco tutto ciò per cui lo stato ha profuso milioni!  -  proseguì.
    -    Ora  noi  vogliamo  dare  un nuovo potere giuridico al senato,  e
    intanto non abbiamo leggi!  Ecco perché è un vero peccato  che  uomini
    come voi non prestino ora servizio.
    Il  principe  Andréj  osservò  che  per prestar servizio in quel campo
    occorrevano nozioni giuridiche delle quali egli era privo.
    - Ma non c'è nessuno che le  possegga!  Che  volete,  è  un  "circulus
    vitiosus"  [12.  circolo  vizioso],  dal  quale  dobbiamo sforzarci di
    uscire.
    Una settimana dopo,  il principe  Andréj  era  nominato  membro  della
    Commissione  che  aveva  il compito di elaborare il codice militare e,
    cosa  che  non  si  aspettava  affatto,  capo  di  una  sezione  della
    Commissione  stessa  per  la  redazione delle nuove leggi.  Pregato da
    Speranskij,  egli prese la prima parte del codice civile che si  stava
    componendo  e,  servendosi  del  codice  napoleonico  e  di  quello di
    Giustiniano (13), lavorò al capitolo i diritti della persona.


    CAPITOLO 7.

    Due anni addietro,  nel 1808,  tornato a Pietroburgo da un viaggio nei
    suoi  possedimenti,  Pierre  si era trovato senza volerlo a capo della
    massoneria della capitale. Organizzava Logge,  reclutava nuovi membri,
    si dava da fare per l'unificazione delle diverse Logge esistenti e per
    il  possesso degli autentici statuti massonici.  Offriva denaro per la
    costruzione dei templi e integrava,  come poteva,  la  raccolta  delle
    offerte,  per la quale la maggior parte dei membri si dimostrava avara
    e negligente.  Quasi unicamente con i propri mezzi manteneva  la  casa
    dei poveri fondata dall'Ordine a Pietroburgo.
    Frattanto la sua vita scorreva come prima,  tra le medesime passioni e
    le medesime sregolatezze.  Gli piaceva molto bere e mangiare  bene  e,
    sebbene  giudicasse ciò immorale e umiliante,  non poteva astenersi da
    quei divertimenti ai quali partecipava  in  compagnia  degli  scapoli.
    Trascorso un anno in un febbrile susseguirsi di occupazioni serie e di
    piaceri  viziosi,  Pierre  cominciò  tuttavia  a capire che il terreno
    della massoneria sul quale si reggeva, tanto più gli sfuggiva di sotto
    ai piedi quanto più egli tentava di tenervisi ritto.  E  nello  stesso
    tempo  avvertiva che quanto più il terreno sul quale si reggeva andava
    sprofondandoglisi sotto, tanto più egli vi era, suo malgrado,  legato.
    Quando  era  entrato nella massoneria,  aveva provato la sensazione di
    chi posi fiduciosamente  il  piede  sulla  superficie  liscia  di  una
    palude: postovi un piede,  era sprofondato. Per persuadersi pienamente
    della solidità del terreno su cui si  reggeva,  aveva  posato  l'altro
    piede ed era sprofondato ancora di più.  Ormai era impantanato e,  suo
    malgrado, camminava immerso nella palude sino al ginocchio.
    Jussif Alekséevic' non era a Pietroburgo.  Negli  ultimi  tempi  aveva
    smesso  di interessarsi degli affari della massoneria della capitale e
    abitava a Mosca,  di dove non si era  mai  più  allontanato.  Tutti  i
    confratelli,  membri  delle  varie  Logge,  erano  persone  che Pierre
    conosceva nella vita, e gli riusciva difficile vedere in loro soltanto
    dei  confratelli  in  massoneria  e  non  il  principe  B.,  non  Ivàn
    Vassìlevic'   D.,   che   egli  frequentava  quasi  quotidianamente  e
    considerava per lo più come esseri deboli e nulli.  Sotto ai grembiali
    e  ai simboli massonici,  Pierre vedeva le divise e le decorazioni che
    essi  ricercavano  avidamente  nella  vita.  Spesso,  raccogliendo  le
    elemosine e contando venti o trenta rubli tra le entrate, iscritti per
    lo più come debito da una diecina di membri,  la metà almeno dei quali
    erano ricchi quanto lui,  Pierre ripensava al giuramento massonico  in
    cui  ogni confratello prometteva di dare tutte le proprie sostanze per
    il prossimo;  e allora nel suo animo sorgevano dubbi su cui cercava di
    non soffermarsi.
    Pierre   divideva   in  quattro  categorie  tutti  i  confratelli  che
    conosceva. Alla prima assegnava quelli che non prendevano parte attiva
    né agli affari delle Logge né  agli  interessi  del  prossimo,  ma  si
    interessavano   unicamente  dei  misteri  della  scienza  dell'Ordine,
    occupati dai problemi che riguardavano la  triplice  denominazione  di
    Dio  o  i tre princìpi delle cose  -  zolfo,  mercurio e sale  -  o il
    significato del quadrato e di tutte le figure del tempio di  Salomone.
    Pierre   rispettava  questa  categoria  di  frammassoni,   alla  quale
    appartenevano per la  maggior  parte  i  fratelli  anziani  e  secondo
    l'opinione di Pierre, lo stesso Jussif Alekséevic', ma non condivideva
    i loro interessi. Il suo cuore non era attratto dal lato mistico della
    massoneria.
    Alla  seconda categoria Pierre iscriveva se stesso e i fratelli simili
    a lui,  ossia coloro che cercavano,  esitavano e non trovavano  ancora
    nella massoneria una via diritta e comprensibile,  ma che speravano di
    trovarla.
    Nella terza categoria,  che era la  più  numerosa,  egli  includeva  i
    fratelli che della massoneria non vedevano altro che le forme e i riti
    esteriori  e  che  tenevano  in  gran conto la loro stretta osservanza
    senza preoccuparsi né del loro contenuto, né del loro significato. Fra
    questi erano Villarski, e il Gran Maestro della Loggia principale.
    Alla quarta categoria, infine,  apparteneva,  secondo Pierre,  un gran
    numero  di  massoni,  entrati  nella  società soprattutto negli ultimi
    tempi. Erano uomini  -  così li giudicava Pierre  -  che non credevano
    in nulla e nulla desideravano,  e che erano entrati a far parte  della
    massoneria  soltanto  per legarsi con i confratelli giovani,  ricchi e
    potenti per le loro relazioni e per la notorietà del  loro  nome,  che
    erano assai numerosi nella Loggia.
    Pierre cominciava a sentirsi insoddisfatto della propria attività.  La
    massoneria o,  per lo meno,  la massoneria che aveva conosciuto  lì  a
    Pietroburgo gli pareva talvolta basata soltanto sull'esteriorità. Egli
    non  dubitava della massoneria in sé e per sé ma sospettava che quella
    russa si fosse incamminata per una  strada  sbagliata,  allontanandosi
    così  dalla  sua fonte.  Perciò alla fine dell'anno,  Pierre partì per
    l'estero,  allo scopo di dedicarsi allo  studio  dei  supremi  misteri
    dell'Ordine.

    Nell'estate   del   1809,   Pierre   ritornò   a  Pietroburgo.   Dalla
    corrispondenza dei nostri massoni con quelli dell'estero si era saputo
    che Bezuchov era riuscito,  all'estero,  ad acquistarsi la fiducia  di
    molte   personalità  altolocate  e  che,   dopo  aver  superato  molte
    iniziazioni, era stato promosso a un altissimo grado massonico e molto
    portava con sé per il bene comune della massoneria russa. I massoni di
    Pietroburgo andavano da lui cercando di ingraziarselo e a tutti  parve
    che egli si nascondesse e preparasse qualche cosa.
    Fu  fissata una riunione solenne della Loggia di secondo grado,  nella
    quale  Pierre  aveva  promesso  di  comunicare   quello   che   doveva
    trasmettere  ai  fratelli  di  Pietroburgo  da parte dei capi più alti
    dell'Ordine. La riunione ebbe luogo al completo. Dopo i riti consueti,
    Pierre si alzò e cominciò il suo discorso:
    - Cari fratelli,   -  prese a dire,  facendosi rosso e impappinandosi,
    con  in  mano  il  testo  scritto del discorso  -  non basta custodire
    nella quiete della Loggia i nostri segreti:  bisogna  agire...  agire.
    Noi  ci  troviamo  in  una specie di sopore,  ma dobbiamo agire...   -
    Pierre prese il quaderno e cominciò a leggere.
    - "Per la diffusione della pura verità e il trionfo della  virtù,  noi
    dobbiamo liberare gli uomini dai pregiudizi, diffondere norme conformi
    allo  spirito  dei  tempi,  assumerci il compito dell'educazione della
    gioventù,  unirci con indissolubili legami alle  persone  di  ingegno,
    vincere   con   ardire   e  insieme  con  prudenza  la  superstizione,
    l'incredulità e la stoltezza,  formare con gli uomini  a  noi  devoti,
    legati tra di loro da un'unica meta, e che abbiano forza e potere.
    "Per raggiungere tale scopo,  bisogna assicurare alla virtù il trionfo
    sul vizio,  bisogna sforzarsi affinché l'uomo onesto ottenga,  già  su
    questa terra, il premio eterno per la sua virtù. Ma alla realizzazione
    di  questi  progetti  ci  sono  di  ostacolo  le  attuali  istituzioni
    politiche.  Che fare in tale stato di cose?  Favorire le  rivoluzioni,
    rovesciare tutto ciò che esiste,  opporre violenza a violenza? No, noi
    siamo ben lontani da questo. Qualsiasi riforma basata sulla violenza è
    degna di biasimo,  giacché non servirà mai a correggere il male sino a
    che  gli  uomini restano tali quali sono,  e perché la saggezza non ha
    bisogno della violenza.
    "Tutto il piano dell'Ordine  deve  avere  come  base  l'educazione  di
    uomini   forti,   virtuosi  e  legati  dall'unità  delle  convinzioni,
    convinzioni che consistono nel perseguitare  sempre  e  con  tutte  le
    forze  il  vizio  e  la stoltezza e nel proteggere l'intelligenza e la
    virtù;  nel trarre dalla polvere gli uomini degni  e  associarli  alla
    nostra fratellanza. Soltanto allora il nostro Ordine avrà il potere di
    legare  le  mani ai fautori del disordine e dirigerli in modo che essi
    neppure se ne accorgano. In una parola, bisogna istituire una forma di
    governo universale che si diffonda in tutto il mondo senza distruggere
    i legami civili e accanto alla quale tutti gli altri  governi  possano
    continuare  a  esistere con il loro ordinamento consueto e fare tutto,
    meno quello che dovesse ostacolare l'alto  scopo  del  nostro  Ordine,
    cioè il trionfo delle virtù sul vizio.  Uno scopo di tal genere si era
    imposto il cristianesimo;  esso insegnava agli uomini a essere saggi e
    buoni  e  a  seguire  per il loro vantaggio l'esempio e l'insegnamento
    degli uomini migliori e più sapienti.
    "Allorché tutto era immerso nelle tenebre, bastava,  naturalmente,  la
    predicazione:   la   nuova   verità   le  conferiva  una  forza  tutta
    particolare;  ma oggi abbiamo bisogno di mezzi molto  più  forti.  Ora
    bisogna  che  l'uomo,  guidato  dalle proprie sensazioni,  trovi nella
    virtù il piacere.  Non è  possibile  sradicare  le  passioni,  occorre
    soltanto  sforzarsi  per  indirizzarle  a  un  nobile scopo,  e perciò
    bisogna che ognuno possa soddisfare le  proprie  passioni  nei  limiti
    della virtù e che il nostro Ordine ne offra i mezzi.
    "Non  appena  avremo  riunito  in ogni stato un certo numero di uomini
    degni, ognuno di essi ne avrà foggiati due altri,  e tutti si uniranno
    strettamente  tra  di loro;  allora tutto sarà possibile per il nostro
    Ordine  che  molto  ha  già  saputo  fare  in  segreto  per  il   bene
    dell'umanità".
    Quel discorso produsse nella Loggia non solo una profonda impressione,
    ma  un mezzo subbuglio.  La maggior parte dei fratelli,  avvertendo in
    esso pericolose tendenze  verso  gli  Illuminati  (14)  accolsero  con
    freddezza  ostile  le  parole  di  Pierre  che ne rimase profondamente
    stupito.  Il Gran Maestro fece delle obiezioni,  e Pierre,  con calore
    sempre crescente,  prese a sviluppare le proprie idee.  Da molto tempo
    non si era avuta una seduta così burrascosa. Si formarono dei partiti:
    gli uni accusavano Pierre,  rimproverandolo di essere un  illuminista,
    gli altri lo sostenevano. Durante quella riunione Pierre, per la prima
    volta   nella   sua   vita,   fu   colpito   dalla   infinita  varietà
    dell'intelligenza umana,  varietà la quale fa sì che la verità  stessa
    non  si  presenti mai sotto il medesimo aspetto a due persone diverse.
    Anche quelli tra i membri dell'associazione che parevano essere  dalla
    parte  di  Pierre,  lo  comprendevano  a modo loro,  con limitazioni e
    mutamenti  che  egli  non  poteva  accettare,   giacché  gli   premeva
    soprattutto  di  trasmettere agli altri le proprie idee,  precisamente
    come egli stesso le intendeva.
    Alla  fine  della  seduta   il   Gran   Maestro   rivolse   a   Pierre
    un'osservazione  malignamente  ironica,  sul  suo  ardore,  facendogli
    notare che nella discussione  egli  non  era  stato  guidato  soltanto
    dall'amore per la virtù,  ma anche dalla passione per la lotta. Pierre
    non gli rispose e domandò bruscamente se la sua proposta sarebbe stata
    accettata.  Gli fu risposto di no: allora  egli,  senza  attendere  le
    solite formalità, lasciò la Loggia e tornò a casa.


    CAPITOLO 8.

    L'angoscia  di cui Pierre aveva tanta paura s'impossessò nuovamente di
    lui. Per tre giorni, dopo il suo discorso,  rimase in casa sdraiato su
    un divano, senza ricevere nessuno e senza andare in alcun luogo.
    Proprio  in quel periodo ricevette una lettera dalla moglie,  la quale
    lo supplicava di concederle un colloquio.  Gli descriveva la nostalgia
    che  provava  per  lui  e  il desiderio di dedicargli tutta la propria
    vita.
    Alla fine della lettera gli annunziava che tra qualche giorno  sarebbe
    tornata a Pietroburgo da un viaggio all'estero.
    Dopo quella lettera,  la solitudine di Pierre fu rotta dalla visita di
    un fratello massone,  uno di quelli da lui  meno  stimati,  il  quale,
    condotto  abilmente  il  discorso sulle relazioni coniugali di Pierre,
    gli fece intendere,  sotto forma di consiglio  fraterno,  che  la  sua
    severità  verso  la  moglie era ingiusta e che Pierre si comportava in
    modo non conforme alle leggi della massoneria,  rifiutando il  perdono
    alla pentita.
    In  quegli stessi giorni sua suocera,  la moglie,  cioè,  del principe
    Vassilij,  lo mandò a chiamare,  supplicandolo di passare da lei anche
    soltanto  per  pochi  minuti  per parlargli di un affare della massima
    importanza. Pierre vide in tutto questo una congiura contro di lui che
    tendeva a farlo riconciliare con la moglie, cosa che però, nello stato
    d'animo in cui si trovava,  non gli riusciva nemmeno  sgradita.  Tutto
    gli   era   indifferente:  Pierre  ormai  non  attribuiva  più  grande
    importanza a nulla nella vita e,  sotto l'influenza  dell'angoscia  in
    cui  era  caduto,  non  teneva  più  né alla propria libertà,  né alla
    propria ferma intenzione di punire la moglie.
    "Nessuno  ha  ragione,   nessuno  ha  torto;   dunque  neppure  lei  è
    colpevole",   pensava.   Se   Pierre   non   acconsentì   subito  alla
    riconciliazione con la moglie fu  soltanto  perché  le  condizioni  di
    spirito  in  cui  si  trovava gli toglievano la forza di intraprendere
    qualsiasi cosa. Se la moglie si fosse presentata a lui,  non l'avrebbe
    scacciata.  Non era forse indifferente, a paragone con tutto quanto lo
    preoccupava, vivere o non vivere con lei?
    Senza curarsi di rispondere né alla moglie, né alla suocera,  una sera
    tardi  Pierre si mise in viaggio alla volta di Mosca per vedere Jussif
    Alekséevic'. Ecco ciò che Pierre scriveva nel suo diario:

    "Mosca, 17 novembre.
    "Ritorno appena dalla casa del benefattore e  ho  fretta  di  annotare
    quello  che  ho provato.  Jussif Alekséevic' vive poveramente e già da
    tre anni soffre  di  un  male  alla  vescica  che  gli  procura  gravi
    sofferenze.  Nessuno  lo ha mai udito gemere né pronunziare una parola
    di ribellione. Dal mattino sino a notte inoltrata, eccezione fatta per
    il tempo in cui si nutre dei cibi più frugali,  lavora per la scienza.
    Mi ha accolto affabilmente e ha voluto che mi sedessi sul letto in cui
    giaceva.   Gli  ho  fatto  il  segno  dei  cavalieri  d'Oriente  e  di
    Gerusalemme, ed egli mi ha risposto alla stessa maniera e poi,  con un
    mite sorriso,  mi ha interrogato su quello che avevo veduto e imparato
    nelle Logge prussiane e scozzesi.  Gli ho raccontato  ogni  cosa  come
    sapevo,  riferendogli  i punti principali delle proposte presentate da
    me  alla  Loggia  di  Pietroburgo  e  gli  ho  comunicato  la  cattiva
    accoglienza fattami e la rottura avvenuta tra me e i fratelli.  Jussif
    Alekséevic', dopo aver taciuto e riflettuto a lungo,  mi ha esposto su
    tutto questo i suoi punti di vista,  i quali mi illuminarono subito il
    mio passato e la strada futura che si apre  di  fronte  a  me.  Mi  ha
    sorpreso chiedendomi se ricordassi in che cosa consistesse il triplice
    scopo dell'Ordine: 1) nella conservazione e conoscenza del mistero; 2)
    nella  purificazione e correzione di noi stessi per esserne partecipi;
    3) nella correzione del genere umano attraverso  la  tendenza  a  tale
    purificazione.  Quale dei tre è il primo e più importante fine?  Senza
    dubbio la propria correzione e purificazione.  A questo  soltanto  noi
    possiamo  sempre tendere,  indipendentemente da qualsiasi circostanza.
    Ma nello stesso tempo questa stessa  meta  esige  da  noi  la  massima
    fatica e perciò, quando pecchiamo per orgoglio, noi, perdendo di vista
    lo  scopo  cui  tendiamo,  ci  occupiamo di penetrare i misteri che la
    nostra impurità ci rende indegni  di  penetrare  o  ci  dedichiamo  al
    perfezionamento  del genere umano,  mentre siamo noi stessi un esempio
    di bassezza e di corruzione.  L'illuminismo non è quindi una  dottrina
    pura,  perché  si è lasciata attrarre dall'attività sociale ed è piena
    di orgoglio.  Per tali motivi Jussif Alekséevic' ha condannato il  mio
    discorso  e  tutta  la  mia  attività.  Nel mio intimo mi sono sentito
    d'accordo con lui.  A proposito delle  mie  vicende  familiari  mi  ha
    detto: "Il dovere principale del vero massone,  come già ho affermato,
    consiste nel tendere al proprio perfezionamento. Ma spesso pensiamo di
    poter più agevolmente  raggiungere  tale  scopo  allontanando  da  noi
    stessi tutte le difficoltà della vita; invece, signor mio, soltanto in
    mezzo   al   frastuono   del   mondo   si   possono   raggiungere  tre
    importantissime mete: 1) la conoscenza di noi stessi,  giacché  l'uomo
    non   può   conoscersi  se  non  attraverso  il  confronto;   2  )  il
    perfezionamento, che si ottiene soltanto per mezzo della lotta;  3) il
    conseguimento  della virtù principale: l'amore per la morte.  Soltanto
    le vicissitudini della vita possono dimostrarci la vanità  della  vita
    stessa  e  sorreggere il nostro innato amore della morte e dell'inizio
    di una nuova vita". Queste parole sono tanto più eccezionali in quanto
    Jussif Alekséevic',  nonostante le sue terribili  sofferenze  fisiche,
    non  si  sente mai oppresso dal peso della vita,  eppure ama la morte,
    anche se non  si  sente  ancora  totalmente  pronto  per  affrontarla,
    nonostante  la  purezza  e  l'elevatezza della sua vita interiore.  In
    seguito,  il mio benefattore mi ha spiegato minutamente il significato
    del  grande  quadrato  del mondo e mi ha dimostrato che i numeri 3 e 7
    sono il fondamento di tutto.  Mi ha consigliato di non staccarmi dalla
    comunità  dei  fratelli  di  Pietroburgo  e,  occupando  nella  Loggia
    soltanto mansioni di secondo grado,  tentare di  liberare  i  fratelli
    dagli  errori di orgoglio per condurli sulla vera via della conoscenza
    di sé e su quella del proprio perfezionamento.  Inoltre ha consigliato
    a  me  personalmente  di osservarmi di continuo e a questo scopo mi ha
    dato un quaderno,  questo stesso sul quale,  d'ora  innanzi,  annoterò
    tutte le mie azioni".

    "Pietroburgo, 23 novembre.
    "Vivo  di  nuovo  con mia moglie.  Mia suocera è venuta da me tutta in
    lacrime e mi ha detto  che  Elen  era  qui  e  che  mi  supplicava  di
    ascoltarla,  che  ella  era  innocente  e  infelice  a  causa  del mio
    abbandono  e  molte  altre  cose  ancora.  Io  sapevo  che  se  avessi
    consentito  a  vederla,  non  avrei  più  avuto la forza di opporle un
    rifiuto.  Nel dubbio non sapevo  a  chi  ricorrere  per  aiuto  e  per
    consiglio.  Se il mio benefattore fosse stato qui, mi avrebbe indicato
    lui la strada da seguire.  Mi sono ritirato  nella  mia  stanza  e  ho
    riletto  certe  lettere di Jussif Alekséevic',  ho ricordato le nostre
    conversazioni e ne ho dedotto che non dovevo dire di no a chi pregava,
    mi sono persuaso che era mio dovere tendere una mano  soccorritrice  a
    chiunque, e specialmente a una persona così strettamente legata a me e
    che,  infine, dovevo portare la mia croce. Ma se io l'ho perdonata per
    compiere un'azione virtuosa, la mia unione con lei deve avere soltanto
    uno scopo spirituale.  Così ho deciso  e  così  ho  scritto  a  Jussif
    Alekséevic'.  Ho  detto  a mia moglie che la pregavo di dimenticare il
    passato,  di perdonare tutti i miei torti e che da parte mia non avevo
    nulla  da  perdonarle.  Ho provato un senso di gioia nel parlare così.
    Ella non deve sapere quanto mi sia stato  penoso  rivederla!  Mi  sono
    sistemato nella casa grande, nelle stanze del piano superiore, e provo
    una lieta sensazione di rinnovamento spirituale".


    CAPITOLO 9.

    Come  sempre,  anche  allora l'alta società,  pur riunendosi a Corte e
    nelle grandi feste da ballo,  era divisa in parecchi gruppi,  ciascuno
    dei  quali  aveva  caratteristiche  sue  proprie.  Tra questi,  il più
    numeroso era il gruppo  francese    -    favorevole  all'alleanza  con
    Napoleone  -  di cui facevano parte Rumjanzòv e Caulaincourt (15).  In
    questo gruppo, Elen occupò uno dei posti più in vista non appena si fu
    stabilita con il marito a Pietroburgo.  Il suo salotto era frequentato
    dai  membri  dell'ambasciata francese e da molte persone,  note per la
    loro intelligenza e la loro cortesia, che avevano le stesse tendenze.
    Elen si trovava a Erfurt, durante il famoso convegno degli imperatori,
    e di  là  aveva  portato  quelle  relazioni  con  tutte  le  celebrità
    filonapoleoniche  di  Europa.  A  Erfurt ella aveva ottenuto brillanti
    successi. Napoleone stesso, notatala a teatro, aveva chiesto chi fosse
    e aveva espresso la propria viva ammirazione.  Il  successo  di  Elen,
    come  donna  bella  ed  elegante,  non stupiva Pierre,  giacché con il
    passare degli anni ella s'era fatta più bella che mai;  ma una cosa lo
    meravigliava:  il fatto che in quei due anni sua moglie fosse riuscita
    a crearsi la fama "d'une femme charmante, aussi spirituelle que belle"
    [16. di donna incantevole, spiritosa e intelligente quanto bella].  Il
    celebre  "prince  de  Ligne"  (17) le scriveva lettere di otto pagine.
    Bilibin teneva in serbo  i  suoi  motti  di  spirito  per  offrire  la
    primizia  alla  contessa  Bezuchov.  Essere ricevuti nel salotto della
    contessa Bezuchov era considerato  un  attestato  di  intelligenza;  i
    giovani,  prima di andare ai ricevimenti di Elen,  leggevano dei libri
    per procurarsi argomenti di conversazione;  i segretari d'ambasciata e
    persino gli ambasciatori le confidavano segreti diplomatici,  cosicché
    ella aveva,  in certe questioni,  un'autorità indiscussa.  Pierre  che
    sapeva  quanto  essa fosse stupida,  con uno strano senso di stupore e
    insieme di paura,  assisteva talvolta ai ricevimenti e ai pranzi della
    moglie,  durante  i  quali  si  parlava  di  politica,  di poesia e di
    problemi filosofici.  A quelle serate  egli  provava  un  qualcosa  di
    simile a ciò che deve provare un prestigiatore che teme a ogni istante
    di  vedere scoperte le sue sofisticazioni.  Ma sia perché per dirigere
    un salotto come quello era indispensabile appunto  la  stupidità,  sia
    perché  gli  stessi  ingannati  trovavano  piacere  nell'inganno,   la
    mistificazione non veniva scoperta e la fama "d'une femme charmante et
    spirituelle" che  Elen  Vassìlevna  Bezùchova  si  era  acquistata  si
    affermava  sempre  di  più,  tanto  che  essa  poteva dire le cose più
    volgari e più stupide con la certezza che tutti  sarebbero  andati  in
    estasi a ogni sua parola,  e avrebbero trovato un significato profondo
    che ella stessa non sospettava neppure.
    Pierre era precisamente il marito che ci voleva per  quella  brillante
    donna di mondo. Egli era quell'originale distratto, quel marito "grand
    seigneur"  che  non  disturbava  nessuno e che,  non solo non rovinava
    l'impressione generale del tono elevato di quel  salotto,  ma  per  il
    contrasto  che faceva con il tatto e la raffinatezza della moglie,  le
    serviva da sfondo vantaggioso.  Pierre,  a causa  delle  sue  continue
    occupazioni concentrate in quei due anni su interessi non materiali, a
    causa  del  sincero  disprezzo  che nutriva per tutto il resto,  aveva
    imparato nella società frequentata dalla moglie, società che non aveva
    per lui alcuna attrazione, quel tono di indifferenza,  di noncuranza e
    di  benevolenza  verso  tutti,  che  non  si acquista con l'arte e che
    pertanto ispira un involontario rispetto.  Entrava nel  salotto  della
    moglie  come  in un teatro,  conosceva tutti,  era ugualmente contento
    della  presenza  di  tutti,   e  provava  verso  tutti   la   medesima
    indifferenza.  Talvolta  prendeva  parte  a  una  conversazione che lo
    interessava e allora,  senza curarsi se "les messieurs de l'ambassade"
    [18.  i  signori  dell'ambasciata]  fossero  presenti o no,  esprimeva
    balbettando le proprie idee,  le quali  a  volte  erano  assolutamente
    inopportune  nell'atmosfera  del  momento.  Ma  l'opinione  comune  su
    quell'originale marito "de la femme la plus distinguée de Pétersbourg"
    [19.  della  donna  più  distinta  di  Pietroburgo]  si  era  talmente
    consolidata  che nessuno prendeva "au sérieux" [20.  sul serio] le sue
    uscite.
    Fra i molti giovani che frequentavano quotidianamente la casa di Elen,
    Borìs Drubetzkòj,  che aveva già fatto notevolissimi  progressi  nella
    carriera  militare,  dopo  il  ritorno  della contessa da Erfurt,  era
    l'ospite più intimo di casa Bezuchov. Elen lo chiamava "mon page" [21.
    il mio paggio] e si comportava con lui come con un bambino. Il sorriso
    che gli rivolgeva era identico a quello  che  rivolgeva  a  tutti  gli
    altri,  ma a Pierre riusciva talvolta sgradito.  Borìs trattava Pierre
    con un rispetto  particolare,  dignitoso  e  triste,  e  anche  quella
    sfumatura  di rispetto cagionava a Pierre una vaga inquietudine.  Egli
    aveva tanto sofferto, tre anni addietro,  per l'offesa subita da parte
    della  moglie,  che  ora  si  assicurava dalla possibilità di un'altra
    offesa del genere,  in primo luogo con il non essere il marito di  sua
    moglie,  e  in  secondo  luogo  con  il  non  permettersi di concepire
    sospetti su di lei.
    "No, adesso che è diventata "bas bleu" [22. un'intellettuale]", diceva
    a se stesso, "ha rinunziato per sempre ai piaceri di una volta. Non si
    è mai dato il caso che una "bas bleu" abbia una passione di cuore". Si
    ripeteva quella regola,  attinta chissà di dove e  alla  quale,  senza
    dubbio,  credeva. Ma, cosa strana, la presenza di Borìs nel salotto di
    Elen,  presenza quasi continua,  agiva  su  di  lui  fisicamente:  gli
    paralizzava  le  membra  e  rendeva  impacciati  e  irresoluti  i suoi
    movimenti.
    "Questa antipatia è strana",  si diceva Pierre;  "e  pensare  che  una
    volta quel giovane mi era tanto simpatico!".
    Agli occhi del gran mondo Pierre era un gran signore, il marito un po'
    cieco  e  ridicolo di una donna famosa,  un originale intelligente che
    non faceva nulla,  ma non nuoceva a  nessuno,  un  bravo  e  simpatico
    ragazzo.  E intanto nella sua anima si svolgeva un lavorio di sviluppo
    interiore,  complesso e faticoso  che,  rivelandogli  molte  cose,  lo
    condusse a numerosi dubbi e a molte gioie spirituali.


    CAPITOLO 10.

    Pierre continuava il suo diario,  ed ecco che cosa vi scriveva in quel
    tempo:

    "24 novembre
    "Mi sono alzato alle otto,  ho letto la Sacra Scrittura e poi mi  sono
    recato  all'ufficio  (per consiglio del suo benefattore,  Pierre aveva
    accettato una carica in una delle commissioni); sono tornato per l'ora
    del pranzo che ho consumato da solo,  poiché la contessa  aveva  molti
    invitati  a me antipatici e,  dopo aver mangiato e bevuto frugalmente,
    ho trascritto alcuni documenti per i  fratelli.  La  sera  sono  sceso
    dalla  contessa e ho raccontato una buffa storia sul conto di B.  e mi
    sono  ricordato  che  non  dovevo  farlo  quando  già  tutti  ridevano
    rumorosamente.
    "Vado  a  letto  in  condizione  di spirito serena e lieta.  Gran Dio,
    aiutami a camminare sulle tue orme: 1) a vincere  la  collera  con  la
    dolcezza  e  la  sopportazione,  2)  la  lussuria con l'astinenza e il
    disgusto,  3) ad allontanarmi dalla vanità e a non staccarmi: a) dagli
    affari di stato inerenti al mio impiego; b) dalle cure della famiglia;
    c)  dai  rapporti  dell'amicizia  e  d) dalle occupazioni di carattere
    economico".

    "27 novembre
    "Mi sono alzato tardi.  Dopo essermi svegliato,  sono rimasto ancora a
    lungo a letto,  abbandonandomi alla pigrizia. Mio Dio! Aiutami e dammi
    la forza di poter camminare  sulla  Tua  strada.  Ho  letto  la  Sacra
    Scrittura,  ma  senza il dovuto raccoglimento.  E' poi venuto da me il
    confratello Urussov e insieme  abbiamo  conversato  sulla  vanità  del
    mondo.  Mi ha parlato dei nuovi progetti dell'imperatore.  Dapprima li
    ho criticati,  ma ho ricordato i  precetti  e  le  parole  del  nostro
    benefattore,  secondo  i  quali  il vero massone deve essere un attivo
    agente dello stato,  quando si esige  la  sua  partecipazione  e  deve
    contemplare  con spirito sereno le cose alle quali non è chiamato.  La
    mia lingua è la mia nemica. Ho avuto la visita dei confratelli G. V. e
    O.,   con  i  quali  abbiamo  discusso  sull'ammissione  di  un  nuovo
    confratello.  Essi mi impongono la carica di retore per la quale io mi
    sento debole e indegno. Poi il discorso è caduto sul significato delle
    sette colonne e dei gradini del Tempio: sette discipline, sette virtù,
    sette vizi, sette doni dello Spirito Santo. Il confratello O.  è stato
    molto  eloquente.  La  sera  hanno avuto luogo alcune iniziazioni.  Il
    nuovo arredamento della Loggia ha contribuito molto alla  magnificenza
    della  cerimonia.  E'  stato  ammesso  Borìs  Drubetzkòj.  Io lo avevo
    proposto,  e io sono stato il suo retore.  Un sentimento strano mi  ha
    turbato  per tutto il tempo che passai con lui nella buia camera delle
    iniziazioni.  Scoprii in me un sentimento di  odio  verso  quell'uomo,
    sentimento  che  mi  sforzo  invano  di  vincere.  Proprio  per questo
    desidererei sinceramente di salvarlo dal  male  e  di  condurlo  sulla
    strada della verità,  ma i cattivi pensieri sul suo conto non mi hanno
    lasciato.  Pensavo che lo scopo per cui era entrato  nella  massoneria
    fosse  costituito solo dal desiderio di avvicinarsi a certi personaggi
    e di acquistare il loro favore. Oltre al fatto che più di una volta si
    era informato se N.  e S.  facessero parte della nostra Loggia (al che
    io  non  potevo  rispondere) oltre a questo,  dico,  egli,  in base ad
    alcune mie osservazioni,  non è incline a nutrire venerazione  per  il
    nostro  sacro Ordine ed è troppo preso e soddisfatto della sua persona
    fisica per desiderare realmente di migliorare il  suo  io  spirituale;
    io,  pur  non  avendo  motivo di dubitare di lui,  sentivo che non era
    sincero e per tutto il tempo che sono rimasto a tu per tu  nella  buia
    camera d'iniziazione,  mi pareva che sorridesse con disprezzo alle mie
    parole,  e avrei voluto realmente trafiggerlo con la spada che  tenevo
    puntata  sul  suo  petto  nudo.  Non riuscivo a essere eloquente e non
    potevo sinceramente comunicare i miei dubbi ai miei confratelli  e  al
    Gran Maestro.  O grande Architetto della natura,  aiutami a trovare la
    strada  della  verità,  che  mi  conduca  fuori  dal  labirinto  della
    menzogna".

    Dopo  questo,  tre  pagine  del diario erano bianche e poi era scritto
    quanto segue:

    "Ho avuto un lungo e istruttivo colloquio con il fratello V. che mi ha
    consigliato di affidarmi al fratello A. Molte cose,  sebbene io ne sia
    indegno,  mi sono state rivelate. Adonàj è il nome di chi ha creato il
    mondo. Eloìm è il nome di chi tutto governa.  Il terzo nome che non si
    può  pronunziare,  ha  il  significato  di "Tutto".  I colloqui con il
    fratello V. mi danno forza, mi illuminano e mi sorreggono lungo la via
    della virtù.  Di fronte a lui non c'è più posto per  il  dubbio.  Vedo
    chiaramente  la  differenza tra il meschino insegnamento delle scienze
    umane e la nostra santa dottrina che abbraccia ogni cosa.  Le  scienze
    umane suddividono tutto per capire e uccidono tutto per vedere.  Nella
    santa scienza dell'Ordine tutto è unità,  tutto si conosce  nella  sua
    totalità  vitale.  La  Trinità  rappresenta i tre princìpi delle cose:
    zolfo,  mercurio e sale.  Lo zolfo ha le  proprietà  dell'olio  e  del
    fuoco;  in unione con il sale,  per effetto del suo calore, ne suscita
    la forza di attrazione per mezzo della quale attira il mercurio, se ne
    impadronisce,  lo trattiene e insieme con  esso  dà  forma  a  diversi
    corpi.   Il   mercurio   è   una   sostanza   spirituale,   liquida  e
    volatilizzabile  -  Cristo, lo Spirito Santo, Lui!".

    "3 dicembre
    "Mi sono svegliato tardi, ho letto la Sacra Scrittura, ma sono rimasto
    insensibile.  Poi sono uscito dalla mia camera e ho passeggiato per la
    sala.   Volevo  meditare,   ma  rievocavo  invece,  mio  malgrado,  un
    avvenimento  accaduto  quattro  anni  addietro.  Il  signor  Dòlochov,
    incontrandosi con me a Mosca dopo il duello,  mi disse che sperava che
    io godessi ora di una  perfetta  tranquillità  spirituale,  nonostante
    l'assenza  di  mia moglie.  Io non risposi.  Mi ricordo ora di tutti i
    particolari di quell'incontro e dentro l'anima mia, senza aprir bocca,
    gli ho detto le più cattive parole e gli ho dato le risposte più acri.
    Poi mi sono ripreso e ho abbandonato questo pensiero  soltanto  quando
    mi  sono  sentito  preso  da  un impeto di collera;  ma non me ne sono
    pentito abbastanza.  Più tardi è venuto da me Borìs Drubetzkòj e si  è
    messo a raccontarmi certe sue avventure;  io sin dal suo apparire,  ho
    subito provato un senso di fastidio per quella visita e gli  ho  detto
    delle  frasi cattive.  Egli mi ha risposto.  Allora mi sono irritato e
    l'ho investito con una quantità di parole insolenti,  persino volgari.
    Borìs  non  mi  ha risposto,  e io sono tornato padrone di me soltanto
    quando era ormai già troppo tardi.  Mio Dio,  io non so  assolutamente
    come  comportarmi  verso  di  lui.  E  la causa di tutto è il mio amor
    proprio.  Io mi considero superiore a lui e perciò divento peggiore di
    lui,  perché egli è indulgente verso le mie volgarità,  mentre io,  al
    contrario, provo nei suoi confronti soltanto disprezzo.  Mio Dio,  fa'
    che  in  sua presenza io mi renda meglio conto della mia bassezza e mi
    comporti in modo tale da essere utile anche a lui. Dopo pranzo mi sono
    addormentato e mentre sonnecchiavo ho udito chiaramente una  voce  che
    mi diceva all'orecchio: "E' il tuo giorno".
    "Ho  sognato  di camminare nel buio e di essere circondato da una muta
    di cani, ma io proseguivo senza paura;  a un tratto un piccolo cane mi
    afferra  con  i  denti  il polpaccio sinistro e non lo lascia più.  Ho
    cercato di strangolarlo con le mani. L'ho appena allontanato da me che
    un altro, più grande, mi addenta.  Tento di sollevarlo,  ma quanto più
    lo sollevo tanto più esso diventa grosso e pesante.  A un tratto, ecco
    giungere il fratello A. che, presomi sottobraccio, mi conduceva con sé
    verso un edificio per entrare nel quale  occorreva  passar  sopra  una
    stretta tavola di legno.  Vi posi sopra il piede: la tavola si piegò e
    cadde,  e io presi ad arrampicarmi su  uno  steccato  che  riuscivo  a
    fatica a raggiungere con le mani.  Dopo enormi sforzi, ho tirato su il
    mio corpo in modo che le gambe penzolavano da una  parte  e  il  corpo
    dall'altra. Mi sono voltato e ho visto il fratello A. che, ritto sullo
    steccato,  mi  indicava un ampio viale e un giardino nel quale sorgeva
    un grande,  bellissimo edificio.  Mi sono svegliato.  Signore,  grande
    Architetto della natura,  aiutami ad allontanare da me i cani,  le mie
    passioni,  e l'ultima di esse,  che concentra in sé la forza di  tutte
    quelle di un tempo, e aiutami a entrare in quel tempio della virtù, la
    cui visione ho raggiunto in sogno".

    "7 dicembre
    "Ho  sognato  che Jussif Alekséevic' si trovava nella mia casa,  io ne
    ero felicissimo e desideravo  accoglierlo  degnamente.  Mi  pareva  di
    discorrere senza posa con degli estranei e,  a un tratto,  mi è venuto
    in mente che questo potesse non piacergli e volevo avvicinarmi  a  lui
    per  abbracciarlo.  Ma  non appena mi sono accostato,  ho visto il suo
    viso trasfigurarsi e diventare più giovane;  egli mi dice a voce bassa
    qualcosa sulla dottrina dell'Ordine,  a voce così bassa che non riesco
    a sentirlo. Poi, nel sogno, siamo usciti tutti dalla stanza e allora è
    accaduto qualcosa di incomprensibile.  Eravamo seduti o  sdraiati  sul
    pavimento.  Egli mi diceva qualcosa. Io desideravo dimostrargli la mia
    sensibilità  e,  senza  badare  ai  suoi  discorsi,  ho  cominciato  a
    immaginare   lo  stato  della  mia  personalità  spirituale  di  uomo,
    illuminato dalla grazia di Dio.  Ma avevo le lacrime agli occhi ed ero
    contento che egli lo avesse notato,  ma egli mi ha guardato con stizza
    ed è balzato in piedi troncando il suo discorso.  Rimasi male,  e  gli
    chiesi se ciò che aveva detto si riferisse a me;  egli non mi rispose,
    ma mi diede uno sguardo affettuoso, e poi, tutto a un tratto, ci siamo
    ritrovati nella mia camera dove c'è un letto a  due  piazze.  Egli  si
    coricò  sulla sponda del letto,  e io ero come spinto dal desiderio di
    accarezzarlo e di sdraiarmi accanto a lui.  Mi pareva che mi  dicesse:
    "Ditemi la verità, qual è la vostra più grande passione? La conoscete?
    Io  credo  che  già  la  conosciate".  Turbato da quelle domande,  gli
    rispondevo che la mia più grande passione era  la  pigrizia.  Ed  egli
    scosse  incredulo il capo.  Io,  sempre più turbato,  gli risposi che,
    sebbene per suo consiglio vivessi con mia moglie,  non vivevo tuttavia
    con lei da marito.  A queste parole obiettò che non dovevo privare mia
    moglie delle mie carezze e mi fece intendere che  quello  era  un  mio
    preciso dovere. Ma io ribattei che mi vergognavo e, a un tratto, tutto
    scomparve. Mi sono svegliato e nei miei pensieri ho ritrovato il passo
    delle  Sacre  Scritture:  "In  lui era la vita,  e la vita era la luce
    degli uomini.  E la luce riluce nelle tenebre e le tenebre non l'hanno
    compresa"  (23).  Il  viso  di  Jussif  Alekséevic'  era  giovanile  e
    luminoso. Quel giorno ho ricevuto una lettera dal mio benefattore,  in
    cui mi scriveva dei doveri della vita coniugale".

    "9 dicembre
    "Ho  fatto un sogno dal quale mi sono destato con il cuore in tumulto.
    Ho sognato di essere a Mosca,  nella mia casa,  nelle grandi sale  dei
    divani,  ed  ecco  che vedo uscire dal salotto Jussif Alekséevic'.  Mi
    resi  subito  conto  che  in  lui  il  processo  della  rinascita  era
    totalmente  compiuto e mi precipitai a corrergli incontro.  Mi pareva,
    in sogno, di baciargli il volto e le mani,  ed egli mi diceva: "Ti sei
    accorto che il mio viso è diverso?".  Lo fissai, continuando a tenerlo
    tra le mie braccia,  e mi parve che il suo viso fosse giovane,  che la
    sua  testa fosse calva e i suoi lineamenti completamente cambiati.  Mi
    pareva di dirgli: "Vi avrei riconosciuto se vi avessi  incontrato  per
    caso",  e  frattanto  pensavo:  "Gli ho detto la verità?".  Tutto a un
    tratto vedo che egli giace come un corpo morto;  poi a poco a poco  si
    riprende  ed entra con me nello studio,  tenendo tra le mani un grosso
    libro di pergamena alessandrina,  vergato a mano.  Gli dicevo: "Questo
    l'ho  scritto io".  Ed egli mi rispondeva con un cenno affermativo del
    capo.  Ho aperto il libro,  su ogni pagina del quale vi erano stupendi
    disegni.  Mi  pareva  di sapere che quelle immagini rappresentavano le
    avventure dell'anima con il suo Diletto.  E mi pareva  di  vedere,  in
    quelle pagine, la bellissima figura di una fanciulla in vesti di velo,
    con  il  corpo  trasparente  che si levava a volo verso le nubi.  E mi
    pareva  di  sapere  che  quella  fanciulla  non  era  altro   che   la
    raffigurazione  del  Cantico  dei  Cantici.  Guardando quei disegni mi
    rendevo  conto  di  far  male,  ma  di  non  sapermi  distogliere  dal
    contemplarli.  "Signore, aiutami! Dio mio, se questo abbandono è opera
    Tua,  sia fatta la tua volontà;  ma se io  ne  sono  stato  la  causa,
    insegnami  Tu  che  cosa  devo  fare.  Io mi perderò a causa della mia
    depravazione, se Tu mi abbandonerai!"".


    CAPITOLO 11.

    Gli affari di Rostòv durante quei  due  anni  che  la  famiglia  aveva
    trascorsi in campagna, non erano per nulla migliorati.
    Quantunque Nikolàj Rostòv continuasse,  con fermo proposito, a prestar
    servizio in un reggimento non brillante spendendo  relativamente  poco
    denaro,  l'andamento  di vita a Otràdnoe e l'amministrazione tenuta da
    Mìtenka,  facevano sì che i debiti erano ogni anno in continuo aumento
    e la sola risorsa che si offrisse al vecchio consisteva nel riprendere
    servizio;  egli  si recò a Pietroburgo per procurarsi un posto e nello
    stesso tempo come diceva,  per far divertire,  per l'ultima volta,  le
    sue ragazze. Poco dopo l'arrivo dei Rostòv a Pietroburgo, Berg domandò
    la mano di Vera, e la sua domanda venne accolta.
    Quantunque i Rostòv a Mosca appartenessero,  senza nemmeno saperlo,  e
    senza domandarsi di  quale  ceto  sociale  facessero  parte,  all'alta
    società,  quando furono a Pietroburgo, il loro ambiente era formato da
    gente piuttosto mista e non ben  definita.  A  Pietroburgo  erano  dei
    provinciali,  sino  ai  quali non s'abbassavano neppure quelle persone
    che i Rostòv a Mosca ospitavano senza chiedersi a quale  ceto  sociale
    appartenessero.
    Ospitali a Pietroburgo, come a Mosca, si potevano incontrare alle loro
    cene  le  persone più diverse: vicini di campagna,  vecchi proprietari
    terrieri  non  ricchi,  con  le  loro  figlie,  la  damigella  d'onore
    Perònskaja,  Pierre  Bezuchov,  e  il  figlio  del  mastro  di  posta,
    impiegato a Pietroburgo. Tra gli uomini,  diventarono presto intimi di
    casa Rostòv: Borìs,  Pierre, che il vecchio conte aveva incontrato per
    via e portato a casa con sé, e Berg che trascorreva giornate intere da
    loro e dimostrava verso la maggiore  delle  contessine,  Vera,  quella
    attenzione che può dimostrare soltanto un uomo che abbia intenzione di
    fare una domanda di matrimonio.
    Non  invano  Berg  mostrava  a  tutti  la sua mano destra ferita nella
    battaglia di Austerlitz,  e sorreggeva con la sinistra la  spada,  che
    non gli serviva assolutamente a nulla.  Con tanta perseveranza e tanta
    gravità  narrava  quell'episodio,   che  tutti   si   erano   convinti
    dell'importanza e dell'utilità del suo gesto.  Del resto,  proprio per
    Austerlitz, Berg aveva avuto ben due ricompense al valore.
    Anche nella guerra di Finlandia (24) egli era riuscito a distinguersi.
    Aveva raccolto la scheggia di una granata che aveva ucciso un aiutante
    di  campo  a  fianco  del  generalissimo  e  l'aveva  portata  al  suo
    comandante.  Aveva raccontato anche questo fatto,  come già l'episodio
    di Austerlitz,  a tutti,  con tanta foga e tanta  insistenza,  che  di
    nuovo  tutti  erano  convinti che bisognava assolutamente fare ciò che
    egli aveva fatto e anche per la guerra di  Finlandia  Berg  era  stato
    insignito di due ricompense.  Nel 1809 era capitano della Guardia, con
    parecchie decorazioni  al  valore,  e  occupava  a  Pietroburgo  posti
    particolarmente vantaggiosi.
    Sebbene qualcuno, piuttosto scettico, sorridesse quando gli si parlava
    dei  meriti di Berg,  non si poteva negare che egli fosse un ufficiale
    zelante e coraggioso, tenuto in gran conto dai superiori, e un giovane
    irreprensibile che aveva avanti a sé  una  brillante  carriera  e  che
    godeva di una solida posizione nella buona società.
    Quattro anni prima,  essendosi incontrato nella platea di un teatro di
    Mosca con un amico tedesco, Berg gli aveva indicato Vera Rostòv e,  in
    tedesco,  aveva detto: "Das soll mein Weib werden " [25.  "Quella sarà
    mia moglie"];  da quel momento aveva deciso  di  sposarla.  Adesso,  a
    Pietroburgo,  dopo  aver  considerato  la  condizione  dei Rostòv e la
    propria,  aveva concluso che fosse giunto il momento giusto e fece  la
    sua dichiarazione.
    Sulle prime la domanda fu accolta con uno stupore poco lusinghiero per
    lui. Era sembrato strano che il figlio di un oscuro, piccolo nobile di
    Livonia  chiedesse  la  mano  di  una contessa Rostova;  ma la qualità
    dominante del carattere di Berg era un egoismo tanto ingenuo e bonario
    che i Rostòv finirono con il pensare,  loro malgrado,  che il  partito
    fosse buono e,  data la ferma convinzione di lui,  non solo buono,  ma
    addirittura  ottimo.   Inoltre  gli  affari  dei  Rostòv  erano  molto
    dissestati,  cosa  che  il  pretendente  doveva  certo sapere;  e poi,
    soprattutto,  Vera aveva ventiquattro anni,  aveva  frequentato  molta
    gente e,  quantunque fosse indiscutibilmente bella e virtuosa, nessuno
    ancora aveva chiesto di sposarla. Il consenso, dunque, fu accordato.
    - Ecco,  vedete,   -  diceva Berg a un suo compagno che definiva amico
    soltanto  perché sapeva che tutti hanno degli amici  -  ecco,  vedete,
    io ho calcolato ogni  cosa  e  non  prenderei  moglie  se  non  avessi
    riflettuto a tutto e se non ritenessi questo passo vantaggioso. Ma ora
    i  miei  genitori sono in condizioni finanziarie abbastanza buone,  ho
    combinato per loro un'affittanza di terre nella regione del Baltico, e
    io posso vivere a Pietroburgo: con il mio stipendio,  la  sostanza  di
    lei e la mia precisione e oculatezza,  me la caverò benissimo.  Non mi
    sposo per il denaro,  giacché ritengo che questa  sia  un'azione  poco
    nobile,  ma  bisogna  che  la  moglie  collabori  con  il marito e che
    ciascuno metta la propria parte. Io ho la mia carriera,  lei ha le sue
    relazioni  e  qualche modesta rendita.  E in questi tempi ciò vuol pur
    dire qualche cosa, non è vero? E quello che più importa,  Vera Rostova
    è una ragazza bellissima,  onorata e mi ama...  -  Berg nel dir questo
    arrossì e sorrise.   -  E anch'io l'amo perché  è  assennata  e  molto
    buona.  Sua  sorella,  al  contrario,  pur  appartenendo  alla  stessa
    famiglia, è completamente diversa, ha un carattere poco simpatico, non
    è neanche molto intelligente;  insomma...  non mi va troppo...  La mia
    fidanzata,  invece...  Ecco,  verrete da noi...   -  e voleva dire: "a
    desinare",  ma rifletté un momento e  disse  "a  prendere  il  tè"  e,
    volgendo rapidamente in bocca la lingua, cacciò fuori un cerchietto di
    fumo che simboleggiava in pieno il suo sogno di felicità.
    Dopo  la  prima  impressione di stupore,  suscitata nei genitori dalla
    domanda di Berg,  subentrò in famiglia  la  festosa,  consueta  gioia,
    abituale  in  simili casi,  ma si trattava di una gioia superficiale e
    fittizia.  I genitori della giovane contessa avvertivano un  senso  di
    imbarazzo  e di vergogna,  come se provassero il rimorso di aver amato
    così poco Vera da sbarazzarsene ora così volentieri.  Più di tutti era
    turbato il vecchio conte. Egli, probabilmente, non avrebbe saputo dire
    la  causa  del  suo  imbarazzo,  che in realtà derivava dalle precarie
    condizioni finanziarie.  Il conte ignorava nel modo più  assoluto  che
    cosa  possedesse,  a  quanto  ammontassero  i  suoi  debiti e che cosa
    avrebbe potuto  dare  in  dote  a  Vera.  Quando  erano  nate  le  sue
    figliuole,  era  stata assegnata a ciascuna una proprietà con trecento
    anime;  ma una di quelle  proprietà  era  stata  venduta,  l'altra  si
    trovava così gravata di ipoteche che la si doveva vendere, perciò dare
    in  dote  una  tenuta  non era possibile.  E il denaro liquido mancava
    completamente.
    Berg era ormai fidanzato da più  di  un  mese,  mancava  soltanto  una
    settimana  alle  nozze,  e  il  conte  non  aveva ancora risolto nulla
    relativamente alla questione della dote e non ne aveva neppure parlato
    con la moglie.  Ora pensava di assegnare a Vera la tenuta  di  Rjazàn,
    ora  meditava  di vendere un bosco,  ora di prendere denaro a prestito
    firmando delle cambiali.  Pochi giorni prima delle nozze,  Berg  entrò
    una  mattina  nello studio del conte e con un affabile sorriso domandò
    rispettosamente al futuro suocero di essere informato sulla dote della
    contessina Vera.  Il conte rimase talmente turbato a  quella  domanda,
    attesa e temuta da tanto tempo,  che senza riflettere rispose la prima
    cosa che gli passò per la mente.
    - Mi fa piacere,  sì,  mi fa piacere che tu  ti  preoccupi  di  questa
    questione: sarai contento...
    E,  dopo  aver  battuto  una  mano  sulla  spalla  di  Berg,  si alzò,
    desideroso di troncare il discorso sull'argomento. Ma Berg, sempre con
    lo stesso affabile sorriso sulle  labbra,  gli  dichiarò  che  se  non
    avesse  saputo  con  certezza ciò che Vera avrebbe avuto di dote e non
    avesse avuto in anticipo almeno una parte di  ciò  che  era  destinato
    alla fanciulla, egli sarebbe stato costretto a ritirarsi.
    -  Perché,  giudicate  voi  stesso,  conte:  se  mi permettessi ora di
    prender moglie senza essere certo  di  avere  i  mezzi  necessari  per
    mantenerla, commetterei una bassezza...
    Il  colloquio  si  concluse  così,  che il conte,  volendo dimostrarsi
    generoso,  e non desiderando  subire  nuove  domande,  disse  che  gli
    avrebbe rilasciato una cambiale di ottantamila rubli. Berg sorrise con
    dolcezza,  baciò  il  conte  sulla spalla e dichiarò che gli era molto
    riconoscente,  ma che non poteva assolutamente iniziare la  sua  nuova
    vita senza disporre di trentamila rubli in contanti.
    - Almeno ventimila, conte,  -  aggiunse  -  e la cambiale sarà solo di
    sessantamila.
    - Sì,  sì,  sta bene...   -  rispose in fretta il conte.  -  Soltanto,
    scusami,  caro,  ma mi permetterai  di  darti  i  ventimila  rubli  in
    contanti  e  di rilasciarti ugualmente una cambiale di ottantamila.  E
    adesso dammi un bacio.


    CAPITOLO 12.

    Nel 1809 Natascia aveva sedici anni,  e il 1809 era proprio l'anno che
    la fanciulla aveva fissato come termine,  quattro anni prima, contando
    sulle dita, dopo il primo bacio scambiato con Borìs.  Da allora non lo
    aveva  più  rivisto.  In  presenza  di Sònja e della madre,  quando il
    discorso cadeva su di lui,  ella soleva dire con  disinvoltura  e  con
    tranquillità, come di cosa decisa, che quello che era avvenuto quattro
    anni  prima era una fanciullaggine della quale non era neppure il caso
    di parlare e che era ormai dimenticata da un pezzo. Ma in fondo al suo
    cuore la fanciulla si domandava se l'impegno con Borìs fosse  soltanto
    uno scherzo o una promessa seria che la legava a lui. E questa domanda
    la tormentava.
    Borìs,  da  quando  era  partito da Mosca,  nel 1805,  per raggiungere
    l'esercito, non aveva più riveduto i Rostòv. Era stato a Mosca diverse
    volte,  era passato non lontano da Otràdnoe,  ma non era mai andato  a
    trovarli.
    Natascia  pensava talvolta che egli non volesse vederla,  e questa sua
    supposizione era confermata dal tono triste con cui le persone  grandi
    parlavano di lui.
    -  Al  giorno  d'oggi  si  dimenticano  i vecchi amici!   -  diceva la
    contessa, quando qualcuno accennava a Borìs.
    Anna Michàjlovna, che negli ultimi tempi frequentava meno i Rostòv, si
    comportava in modo stranamente dignitoso  e  ogni  volta  parlava  con
    entusiasmo  e  riconoscenza dei meriti di suo figlio e della brillante
    carriera che stava percorrendo.  Quando  i  Rostòv  si  stabilirono  a
    Pietroburgo, Borìs andò a trovarli.
    Si  recò  in  casa  loro non senza un certo turbamento.  Il ricordo di
    Natascia era il più poetico  tra  tutti  i  ricordi  della  sua  vita;
    nondimeno  si  recava  dai  Rostòv  con  la  ferma  intenzione di fare
    intendere chiaramente alla fanciulla e ai suoi genitori che i rapporti
    d'infanzia tra lui e Natascia non potevano costituire  un  impegno  né
    per lei né per lui. Egli aveva ora una brillante posizione in società,
    grazie   all'intimità   con   la   contessa   Bezùchova  e  godeva  di
    un'altrettanto  brillante   posizione   nell'esercito,   grazie   alla
    protezione  di  un  personaggio  altolocato  di  cui si era pienamente
    acquistata la fiducia, e già vagheggiava un progetto di matrimonio con
    una delle  più  ricche  fanciulle  della  città,  progetto  facilmente
    realizzabile.
    Allorché  Borìs  entrò nel salotto dei Rostòv,  Natascia si trovava in
    camera sua.  Informata dell'arrivo del  giovane,  essa,  con  il  viso
    soffuso  di  rossore,  entrò  quasi  di corsa nel salotto,  sorridendo
    affettuosamente.
    Borìs ricordava la Natascia in gonnella corta,  con gli occhi  neri  e
    lucenti  sotto i riccioli scomposti,  infantilmente gaia e ridente che
    egli aveva conosciuto quattro anni addietro e perciò, quando entrò nel
    salotto una Natascia del tutto diversa,  egli si sentì imbarazzato,  e
    la sua faccia espresse un'estatica meraviglia;  una simile espressione
    rallegrò molto Natascia.
    - Be', riconosci ancora la tua piccola amica?   -  chiese la contessa.
    Borìs  baciò la mano a Natascia e si meravigliò del mutamento avvenuto
    in lei.
    - Come vi siete fatta bella!
    "E come!" risposero gli occhi ridenti della fanciulla.
    - E papà,  vi sembra invecchiato?   -  domandò,  e si  sedette,  senza
    prendere parte alla conversazione tra Borìs e la contessa,  osservando
    sino ai minimi particolari il fidanzato dell'infanzia. Egli sentiva su
    di sé il peso affettuoso e ostinato di quello sguardo e,  di tanto  in
    tanto, lanciava un'occhiata alla fanciulla.
    La  divisa,  gli speroni,  la cravatta,  la pettinatura di Borìs erano
    all'ultima moda e "comme il faut" [26. come si conviene].  Natascia lo
    notò  subito.  Egli  sedeva un po' di fianco in una poltrona,  accanto
    alla contessa,  e con la destra si lisciava macchinalmente  il  guanto
    della  mano  sinistra,  attillato  e candido,  e parlava stringendo le
    labbra,  in modo particolare e raffinato,  dei divertimenti  dell'alta
    società  pietroburghese,  e  in  tono leggermente ironico rievocava il
    passato e gli amici di Mosca.  Natascia avvertì che non  a  caso  egli
    accennò, facendo i nomi delle persone dell'alta aristocrazia, al ballo
    di un ambasciatore e agli inviti ricevuti da N. N. e da S. S.
    La fanciulla,  continuando a restar seduta in silenzio, non cessava di
    guardare Borìs di sottecchi.  E quello sguardo  cagionava  al  giovane
    ufficiale un turbamento e una inquietudine sempre più crescenti.  Egli
    si volgeva più spesso verso Natascia e si interrompeva  nel  racconto.
    Non si trattenne più di dieci minuti,  si alzò e si accomiatò,  mentre
    gli occhi curiosi,  provocanti e  un  po'  beffardi  della  fanciulla,
    rimanevano fissi su di lui.  Dopo quella prima visita,  Borìs si disse
    che Natascia aveva per lui la stessa attrattiva di un  tempo,  ma  che
    non  gli conveniva abbandonarsi a quel sentimento perché un matrimonio
    con lei  -  una ragazza quasi senza dote  -  sarebbe  stato  un  danno
    per  la  sua  carriera  e  che,  d'altra parte,  il rinnovare l'antica
    relazione senza avere per scopo il matrimonio sarebbe  stato  un  atto
    disonesto.
    Borìs decise di evitare gli incontri con Natascia ma,  nonostante tale
    decisione,  dopo qualche giorno  tornò  dai  Rostòv,  a  poco  a  poco
    cominciò  a  recarvisi spesso,  e le sue visite durarono talora intere
    giornate.   Immaginava  che  una  spiegazione   con   Natascia   fosse
    indispensabile;  sentiva  il  dovere  di  dirle  che il passato doveva
    essere dimenticato e che,  malgrado tutto,  ella non poteva  diventare
    sua  moglie  giacché egli era privo di mezzi e non gliel'avrebbero mai
    concessa.  Ma non riusciva a trovare il momento opportuno per iniziare
    quella  spiegazione,  e  ogni  giorno  si  invischiava  sempre di più.
    Natascia,  stando alle osservazioni di sua madre e  di  Sònja,  pareva
    sempre  innamorata  di  Borìs.  Gli cantava le romanze preferite,  gli
    mostrava il suo album, e l'obbligava a scrivervi qualche pensiero, non
    gli permetteva di parlare  del  passato,  come  per  fargli  intendere
    quanto  fosse bello il presente.  E ogni giorno egli se ne andava come
    avvolto in una nebbia,  senza aver detto ciò che aveva  intenzione  di
    dire,  senza sapere neppure che cosa avesse fatto, perché fosse venuto
    né come tutto ciò si sarebbe risolto.
    Borìs aveva cessato di frequentare il salotto  di  Elen,  ogni  giorno
    riceveva  da lei biglietti pieni di rimproveri,  e tuttavia passava le
    giornate intere in casa Rostòv.


    CAPITOLO 13.

    Una sera, mentre la vecchia contessa, sospirando e tossicchiando,  già
    in  tenuta  da  notte,  senza  riccioli finti,  con un'unica ciocca di
    capelli bianchi che spuntavano di sotto la  cuffietta  candida,  stava
    facendo  sul  tappetino  le  profonde  genuflessioni  delle  preghiere
    serali, udì stridere l'uscio alle sue spalle e vide precipitarsi nella
    stanza Natascia,  con le pantofole nei  piedi  nudi,  i  bigodini  nei
    capelli,  vestita  anch'essa  per  la  notte.  La  contessa  si  voltò
    aggrottando il viso.  Stava recitando la  sua  ultima  preghiera:  "Se
    questo letto dovesse essere la mia tomba...".  L'irruzione di Natascia
    aveva troncato la sua disposizione alla preghiera. La fanciulla, rossa
    in viso e agitata, al vedere sua madre in atto di pregare, si fermò di
    colpo,  si rannicchiò,  e involontariamente cacciò  fuori  la  lingua,
    facendo  a  se  stessa  un cenno minaccioso.  Vedendo poi che la madre
    continuava le orazioni, corse in punta di piedi sino al letto,  lasciò
    cadere rapida le pantofole strisciando un piede contro l'altro e saltò
    su  quella  coltre che la contessa temeva potesse essere la sua coltre
    funebre.  Era un alto letto di piume con cinque morbidi guanciali  che
    diventavano sempre più piccoli.  Natascia vi saltò sopra, sprofondò in
    tutta quella morbidezza,  si spostò  verso  la  parete  e  cominciò  a
    muoversi sotto le coperte, distendendosi, sollevando le ginocchia fino
    al mento,  scalciando e ridendo in maniera appena appena udibile,  ora
    coprendosi la testa,  ora guardando la madre.  La contessa,  finita la
    preghiera,  si  avvicinò  al  letto  con  aria severa;  ma vedendo che
    Natascia si era nascosta sotto le coperte,  sorrise del  suo  bonario,
    debole sorriso.
    - Su, su, su...  -  disse.
    - Mamma,  posso parlarti un poco?   -  chiese Natascia.   -  Una volta
    ancora,  a cuore aperto,  e poi basta.   -  E,  gettate le braccia  al
    collo della contessa,  la baciò sotto il mento.  Nei suoi rapporti con
    la madre,  Natascia usava modi apparentemente  bruschi,  ma  era  così
    abile  e  delicata  che,  in qualunque modo l'abbracciasse,  lo faceva
    sempre senza cagionarle né dolore, né fastidio, né disagio.
    - Sentiamo: di che cosa si tratta questa sera?   -  chiese  la  madre,
    appoggiandosi ai guanciali e aspettando che Natascia,  fatte altre due
    giravolte su se stessa,  si stendesse accanto a lei  sotto  la  stessa
    coperta e ne avesse tratto fuori le braccia,  assumendo un'espressione
    seria.
    Quelle visite notturne di Natascia,  che avvenivano prima del  ritorno
    del  conte  dal circolo,  erano uno dei prediletti piaceri tanto della
    madre quanto della figlia.
    - Di che si tratta, dunque? Anch'io ti devo parlare...
    Natascia pose la mano sulla bocca della madre.
    - Di Borìs...  lo so  -  disse in tono serio.   -    Sono  venuta  per
    questo.  Non parlate, lo so da me. No, parlate, invece.  -  E tolse la
    mano.  -  Ditemi, mamma, non è simpatico?
    - Natascia,  tu hai ormai sedici anni  e  alla  tua  età  io  ero  già
    sposata.  Dici  che Borìs è simpatico.  Sì,  è molto simpatico,  e gli
    voglio bene come a un figliuolo.  Ma tu che vuoi?  Che cosa  pensi  di
    fare? Gli hai fatto girar la testa, questo lo vedo...
    Così parlando,  la contessa guardò la figlia. Natascia era distesa nel
    letto,  immobile,  e guardava fissamente davanti a sé verso una  delle
    sfingi  di  mogano  intagliate  agli  angoli  del  letto,  cosicché la
    contessa vedeva soltanto di profilo il viso della figlia. Quel viso la
    colpì per la sua espressione seria e concentrata.
    Natascia ascoltava e rifletteva.
    - Ebbene?  -  disse.
    - Tu gli hai fatto girare la testa,  e a che scopo?  Che cosa vuoi  da
    lui? Lo sai bene che non lo puoi sposare.
    - Perché?  -  domandò Natascia, senza mutare posizione.
    -  Perché  è  giovane,  perché  è  povero,  perché  è nostro parente e
    perché... tu stessa non lo ami.
    - E come lo sapete?
    - Lo so. E non è bene, cara.
    - E se io volessi?
    - Smettila di dire sciocchezze  -  osservò la contessa.
    - E se volessi...
    - Natascia, bada che io parlo seriamente.
    Natascia non lasciò che la madre continuasse,  prese la lunga mano  di
    lei,  gliela baciò prima sul dorso,  poi sulla palma,  poi la rigirò e
    baciò   successivamente   le   dite,   sulle   falangi,    sussurrando
    infantilmente: "Gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio...".
    - Parlate,  mamma, perché tacete, adesso? Parlate  -  disse voltandosi
    verso la madre che con occhio affettuoso osservava la figlia e che  in
    quella  contemplazione  sembrava aver dimenticato tutto ciò che voleva
    dire.
    - E' una cosa  che  non  va,  anima  mia.  Non  tutti  possono  capire
    l'amicizia  che  esiste tra te e Borìs sin dall'infanzia,  e il vedere
    tanta intimità tra voi due può danneggiarti  agli  occhi  degli  altri
    giovani  che  frequentano  la  nostra  casa  ma,  soprattutto,  lo fai
    inutilmente soffrire.  Forse egli aveva già trovato un buon partito  e
    ora tu gli fai perdere la testa.
    - Perdere la testa...  -  ripeté Natascia.
    - Ti dirò quello che accadde a me... Io avevo un cugino...
    - Lo so, Kirìll Matveic', ma è vecchio, no?
    -  Non è stato sempre vecchio.  Senti,  Natascia,  parlerò io a Borìs.
    Egli non deve più venir da noi così spesso...
    - E perché, se gli fa piacere venire?
    - Perché so che non si potrà arrivare a una conclusione.
    - Come lo sapete? No, mamma, non ditegli nulla. Ma che sciocchezza!  -
    esclamò Natascia,  con il tono di una persona  alla  quale  si  voglia
    portar  via  ciò che le appartiene.   -  Sia pure: non lo sposerò,  ma
    lasciate che continui a venire qui se  questo  gli  fa  piacere  e  fa
    piacere anche a me.   -  Natascia guardò sua madre e sorrise.   -  Non
    lo sposerò ma... così...  -  ripeté.
    - Così come, cara?
    - Sì, così. Cosa importa se non mi sposo; ma... così...
    - Così,  così...   -  ripeté la contessa e,  sobbalzando con tutto  il
    corpo, scoppiò in un'improvvisa, bonaria risata da vecchia.
    - Smettetela di ridere,  basta!  -  esclamò Natascia.  -  Fate tremare
    il  letto.  Mi  assomigliate  terribilmente,  siete  sempre  pronta  a
    ridere...  Aspettate...  -  Afferrò tutt'e due le mani della contessa,
    su di una baciò la nocca "giugno" e poi continuò a baciare  "luglio  e
    agosto" sull'altra mano.   -  Mamma, ma lui è tanto innamorato? Che ve
    ne pare? Anche di voi si innamoravano così? E' molto, molto simpatico,
    vero? Però non è del tutto di mio gusto. E' stretto,  stretto...  come
    la pendola della sala da pranzo!  Non mi capite?  Stretto,  sapete,  e
    grigio chiaro...
    - Ma che cosa vai dicendo?  -  domandò la contessa.
    Natascia proseguì.
    - Possibile che non mi comprendiate?  Nikòlinka  capirebbe!  Bezuchov,
    invece,  è  turchino,  turchino  scuro,  con  del  rosso...  E poi,  è
    quadrato.
    - Anche con quello tu civetti  -  osservò la contessa ridendo.
    - No, ho saputo che è massone... E' simpatico, turchino scuro, con del
    rosso... Come posso spiegarmi?
    - Contessinuccia,  non dormi?   -  si udì la  voce  del  conte  di  là
    dall'uscio.  Natascia  balzò dal letto a piedi nudi,  prese in mano le
    pantofole e scappò di corsa nella sua camera.
    Per un bel pezzo non riuscì a prendere sonno.  Pensava con  insistenza
    che  nessuno  poteva  comprendere  ciò  che  era  in lei e ciò che lei
    comprendeva.
    - Sònja?  -  pensò, guardando la fanciulla che dormiva rannicchiata, e
    la folta treccia di lei.   -   Ma  no,  essa  è  troppo  virtuosa.  E'
    innamorata  di  Nikòlinka e non vuol sapere altro.  E la mamma,  anche
    lei,  non capisce.  E' meraviglioso come sono intelligente...  e com'è
    carina!    -  proseguì,  parlando di sé in terza persona e immaginando
    che  così  parlasse  di  lei  un  uomo  molto  intelligente,   il  più
    intelligente,  il  migliore  degli  uomini.   -  Non le manca nulla  -
    continuava  quell'uomo;    -    ha  un'intelligenza  straordinaria,  è
    simpatica e poi è bella,  molto, molto bella e abile; sa nuotare, va a
    cavallo magnificamente e ha una voce!  Una voce che  si  può  definire
    meravigliosa!
    Canticchiò  la  frase  musicale che preferiva a tutte,  da un'opera di
    Cherubini (27),  si buttò sul letto,  ridendo di gioia al pensiero che
    si sarebbe addormentata subito, e chiamò Dunjascia perché spegnesse la
    candela. Dunjascia non era ancora uscita dalla camera che Natascia era
    già  passata  in un altro mondo,  più felice di questo,  nel mondo dei
    sogni dove tutto era facile e bello come nella realtà,  ma mille volte
    migliore perché era diverso.
    Il giorno dopo la contessa chiamò Borìs per parlare con lui, e da quel
    giorno egli cessò di frequentare la casa dei Rostòv.


    CAPITOLO 14.

    Il 31 dicembre,  alla vigilia del nuovo anno 1810,  per il "réveillon"
    (28),  si svolgeva un ballo in casa di un gran dignitario del tempo di
    Caterina.  Al ballo dovevano essere presenti il corpo diplomatico e il
    sovrano.
    Sul lungo  Neva  degli  Inglesi,  il  famoso  palazzo  del  dignitario
    splendeva di innumerevoli luci. All'ingresso, ai piedi della scalinata
    coperta  di  panno  rosso e vivamente illuminata,  stava di guardia la
    polizia, e non soltanto i gendarmi,  ma il capo stesso con una diecina
    di suoi ufficiali.  Le carrozze,  una dopo l'altra, giungevano e se ne
    andavano incessantemente, con servitori in livrea rossa e servitori in
    cappelli piumati.  Dalle carrozze scendevano signori in uniforme,  con
    decorazioni  e nastri,  e dame vestite di raso e di ermellino posavano
    con cautela il piede sul predellino rumorosamente abbassato e, a passo
    rapido e silenzioso, avanzavano sul tappeto della scalinata.
    Al sopraggiungere di ogni equipaggio,  un  mormorio  si  levava  dalla
    folla, mentre i cappelli si sollevavano.
    - L'imperatore? No... un ministro... un principe... un ambasciatore...
    Non  vedi le piume?   -  si diceva nella folla.  Uno degli spettatori,
    vestito  meglio  degli  altri,  che  pareva  conoscere  tutti,  andava
    elencando i nomi dei principali dignitari del tempo.
    Un  terzo  degli  invitati  era già giunto al palazzo della festa e in
    casa dei Rostòv,  che dovevano partecipare  al  ballo,  i  preparativi
    continuavano ancora, agitati e frettolosi.
    A proposito di quel ballo si erano avute, nella famiglia Rostòv, molte
    discussioni,  molta  attesa  e molta paura che l'invito non giungesse,
    che gli abiti non fossero pronti o  che  qualcosa  potesse  andare  di
    traverso.
    Insieme  con  i  Rostòv  doveva  recarsi  alla  festa Màrija Ignàtevna
    Perònskaja,  amica e parente  della  contessa,  magra  e  gialla  dama
    d'onore  della  vecchia  Corte,  che  avrebbe  fatto  da  guida a quei
    provinciali Rostòv nell'alta società di Pietroburgo.
    Alle dieci di sera,  i Rostòv dovevano passare a prenderla al giardino
    di  Tauride,  ma  alle dieci meno cinque le signorine non erano ancora
    pronte.
    Natascia partecipava per la prima volta a un gran ballo.  Quel  giorno
    ella  si  era  alzata alle otto e aveva trascorso tutta la giornata in
    un'agitazione e in un'attività febbrili.  Sin dal primo mattino  aveva
    prodigato  tutti i suoi sforzi per far sì che lei stessa,  sua madre e
    Sònja fossero abbigliate nel miglior modo  possibile,  e  Sònja  e  la
    contessa  si  erano  affidate completamente a lei.  La contessa doveva
    indossare un vestito di velluto cremisi cangiante e le  due  fanciulle
    abiti di velo bianco trasparenti su sottovesti rosa e dalla scollatura
    guernita di rose. I capelli dovevano essere acconciati "alla greca".
    Le  operazioni essenziali erano state fatte: i piedi,  le braccia,  il
    collo,  gli orecchi,  erano stati lavati,  profumati e incipriati  con
    grande cura,  come si conviene quando ci si reca a una festa da ballo,
    le calze traforate di seta erano già state infilate e le scarpette  di
    raso  bianco  ornate di fiocchetti già calzate.  Le acconciature erano
    quasi terminate. Sònja aveva finito di vestirsi, la contessa pure,  ma
    Natascia,  che si era data da fare per tutte,  era in ritardo.  Sedeva
    ancora davanti allo specchio,  con un accappatoio gettato sulle  magre
    spalle. Sònja, ormai pronta, era ritta in mezzo alla stanza e premendo
    con  il  mignolo  sino  a  farsi  male,  si  appuntava l'ultimo nastro
    frusciante.
    - Non così, Sònja, non così!  -  esclamò Natascia,  volgendo il capo e
    afferrandosi  con  le  mani  i  lunghi  capelli che la cameriera stava
    acconciandole e che non fece in tempo a lasciare.
    - Quel nastro messo a quel modo non sta bene: vieni qui!   -  Sònja le
    si avvicinò e si sedette. Natascia glielo annodò in un altro modo.
    -  Scusate,  signorina,  ma  non riesco a far nulla...   -  osservò la
    cameriera, che teneva ancora tra le mani i capelli di Natascia.
    - Ah, mio Dio, farai dopo! Ecco, Sònja, adesso va bene.
    - Siete pronte sì o no?   -  si udì la voce della contessa.   -   Sono
    quasi le dieci.
    - Subito, subito! E voi, mamma, siete pronta?
    - Non ho più che da appuntarmi il "tocco" sull'acconciatura.
    - Non fatelo senza di me!   -  gridò Natascia.   -  Da sola, non siete
    capace...
    - Ma sono già le dieci.
    Si era deciso di arrivare al ballo per le dieci e mezzo,  ma  Natascia
    doveva  finire  di vestirsi e poi si doveva ancora passare al giardino
    di Tauride.
    Pettinata  che  fu,  Natascia,  in  sottanina  corta  sotto  la  quale
    spuntavano  le  scarpine  da ballo e con addosso un giacchettino della
    madre, corse da Sònja,  la esaminò rapidamente e poi andò dalla madre.
    Facendole voltare la testa in ogni senso,  le appuntò il tocco e, dopo
    averle baciato i capelli grigi,  si avvicinò di nuovo  alle  cameriere
    che stavano lavorando all'orlo della sua gonna.
    La  gonna  era  troppo  lunga:  due  delle  ragazze  erano  intente ad
    accorciarla, cucendo in fretta; una terza, che teneva gli spilli tra i
    denti e tra le labbra,  correva ora  dalla  contessa,  ora  da  Sònja,
    mentre una quarta le reggeva,  con le braccia alzate,  la bianca veste
    di velo.
    - Marvuscia, sbrigati, cara!
    - Volete darmi il ditale, signorina?
    - Ma siete finalmente pronte?  -  chiese il conte, entrando.   -  Ecco
    dei   profumi  per  voi...   La  signorina  Perònskaja  ci  starà  già
    aspettando.
    - Ecco fatto,  signorina  -  disse una cameriera,  sollevando con  due
    dita  il  lembo  della veste accorciata;  ci soffiò sopra e lo scosse,
    rivelando con quei gesti come fosse ben conscia della vaporosità e del
    candore dell'abito che teneva tra le mani.
    Natascia cominciò a infilarsi il vestito.
    - Subito, subito, papà! Non entrare ancora!  -  gridò di sotto il velo
    della gonna che le copriva il viso.
    Sònja chiuse la porta sbattendola.  Ma un minuto dopo fu fatto entrare
    il conte,  in marsina azzurra,  calze di seta e scarpine, impomatato e
    profumato.
    - Ah, papà, come sei bello! Una meraviglia!   -  esclamò Natascia che,
    ritta  in  mezzo  alla  camera,  si  stava aggiustando le pieghe della
    veste.
    - Permettete,  signorina,  permettete  -  diceva la cameriera che,  in
    ginocchio, tirava qua e là la gonna, spostando gli spilli da un angolo
    all'altro della bocca, con la punta della lingua.
    - Di' quello che vuoi  -  gridò con accento di disperazione Sònja;   -
    di' quello che vuoi, ma il tuo abito è ancora troppo lungo.
    Natascia si allontanò un poco per guardarsi nella specchiera.  L'abito
    era veramente troppo lungo.
    -  Com'è  vero  Dio,  signorina,  non  è  troppo  lungo    -  dichiarò
    Marvuscia,  che si trascinava in ginocchio sul pavimento  dietro  alla
    signorina.
    - Be',  se vi pare ancora troppo lungo,  lo accorciamo in un minuto  -
    disse risolutamente Dunjascia,  togliendosi un ago dal fazzoletto  che
    portava sul petto e accingendosi al lavoro, seduta sul pavimento.
    In  quel  momento  entrò  con  timidi passi silenziosi la contessa con
    l'abito di velluto e il tocco in testa.
    - Uh, la mia bellezza!  -  gridò il conte.   -  La più bella di tutte!
    -   Fece per abbracciare la moglie ma quella,  tutta rossa,  si scostò
    nel timore che il marito le sgualcisse il vestito.
    - Mamma, il tocco va messo più di sbieco  -  suggerì Natascia.  Ora te
    lo accomodo io  -  e si slanciò in avanti,  mentre le cameriere che le
    stavano accorciando  la  gonna  non  fecero  in  tempo  a  seguirla  e
    lacerarono un lembo di essa.
    - Mio Dio, cosa è successo! Ma giuro che non è colpa mia!
    - Non è nulla,  lo accomodo subito: nessuno se ne accorgerà  -  diceva
    Dunjascia.
    - Oh,  che bellezza,  oh,  la mia regina!   -  esclamò dalla soglia la
    vecchia bambinaia.  -  E Sònjuska, pure, siete due bellezze!
    Finalmente, alle dieci e un quarto, tutta la famiglia salì in carrozza
    e partì. Ma bisognava ancora passare dal giardino di Tauride.
    La  Perònskaja  era  già  pronta.  Malgrado  l'età  e la bruttezza,  i
    preparativi si erano svolti precisamente come dai Rostòv,  se pure con
    minor  fretta,  dato  che  per  lei  era  una cosa abituale,  ma aveva
    anch'essa lavato, profumato,  incipriato il suo vecchio e brutto corpo
    e  con  la stessa cura si era lavata dietro le orecchie;  come in casa
    Rostòv,   la  vecchia  cameriera   aveva   ammirato   con   entusiasmo
    l'abbigliamento  della  padrona  allorché  questa  comparve in salotto
    indossando un vestito giallo,  con il corsetto fregiato dal monogramma
    delle dame di Corte.
    La  Perònskaja  lodò  l'abbigliamento  delle  Rostòv.   Queste  fecero
    l'elogio del buon gusto di lei e  della  sua  toeletta  e,  con  molte
    precauzioni perché le acconciature e le gonne non si sciupassero, alle
    undici salirono tutti in carrozza e partirono.


    CAPITOLO 15.

    Dalla  mattina  Natascia  non  era  stata libera un minuto e non aveva
    neppure avuto il tempo di pensare a ciò che l'attendeva.
    Nell'aria umida e fredda,  nello spazio  ristretto  e  semibuio  della
    carrozza traballante, per la prima volta le si presentò alla mente ciò
    che  avrebbe  trovato  laggiù,  nei  saloni illuminati,  alla festa da
    ballo: la musica, i fiori, le danze,  l'imperatore,  tutta la gioventù
    brillante   di   Pietroburgo.   Ciò   che   l'attendeva  era  talmente
    meraviglioso che non poteva neanche crederci,  tanto era in  contrasto
    con  l'impressione  di  freddo,  di  mancanza  di spazio e di buio che
    provava nella carrozza. Capì quello che sarebbe stato soltanto quando,
    dopo essere passata sul rosso  tappetto  della  scalinata,  entrò  nel
    vestibolo,  si tolse la pelliccia e, a fianco di Sònja, precedendo sua
    madre, salì tra i fiori lo scalone sfarzosamente illuminato.  Soltanto
    allora   si  ricordò  come  dovesse  comportarsi  e  cercò  d'assumere
    quell'atteggiamento  maestoso  che  riteneva  indispensabile  in   una
    ragazza  che si rechi a un ballo.  Ma,  per sua fortuna,  gli occhi le
    rimasero abbagliati: non distingueva più nulla chiaramente,  il  polso
    le batteva cento volte al minuto, e il sangue le martellava nel cuore.
    Non  le  fu  dunque  possibile  assumere  quell'aria  di  sussiego che
    l'avrebbe resa ridicola,  e camminava sentendosi quasi venir meno  per
    l'emozione,  facendo grandi sforzi per nascondere il suo turbamento. E
    questo era proprio il contegno che  le  si  addiceva  meglio  di  ogni
    altro.  Davanti e dietro ai Rostòv, conversando sottovoce, in abito da
    ballo, salivano altri invitati. Gli specchi lungo la sala riflettevano
    le signore in vesti bianche, azzurre, rosa, con diamanti e perle sulle
    braccia scoperte e sui colli nudi.
    Natascia guardava in quegli specchi,  ma  non  poteva  distinguere  la
    propria   figura  dalle  altre.   Tutto  si  confondeva  in  un'unica,
    scintillante processione.  Quando entrò nella prima  sala,  un  ronzio
    regolare  di  voci,  di  passi,  di  saluti,  la stordì;  la luce e lo
    scintillio l'abbagliavano ancora di più.  Il padrone e la  padrona  di
    casa,  che  già da mezz'ora stavano presso la porta e che ripetevano a
    tutti coloro che entravano le stesse parole: "Charmé  de  vous  voir!"
    [29.  "Felice di vedervi!"], accolsero nello stesso modo i Rostòv e la
    signorina Perònskaja.  Le due fanciulle biancovestite,  con i  capelli
    neri    ornati    di   rose,    fecero   un'eguale   riverenza,    ma,
    involontariamente,  la padrona di casa fermò più a  lungo  lo  sguardo
    sulla  sottile  figura  di  Natascia,  ed  ebbe  per  lei  un  sorriso
    particolare,  diverso da quello che  aveva  per  tutti  gli  invitati.
    Guardando  la fanciulla ricordava forse il bel tempo,  che non sarebbe
    tornato mai più,  della sua gioventù e del suo primo ballo.  Anche  il
    padrone di casa seguì con lo sguardo Natascia e domandò al conte quale
    fosse sua figlia.
    - "Charmante!" [30.  Deliziosa!]  -  disse,  baciandosi la punta delle
    dita.
    Nel salone da ballo gli invitati si affollavano presso  la  porta,  in
    attesa  dell'imperatore.  La  contessa  prese  posto nelle prime file.
    Natascia sentiva e capiva che alcune persone chiedevano di lei  e  che
    molti occhi la guardavano.  Capì di piacere a quanti l'avevano notata,
    e questo la rassicurò un poco.
    "C'è gente come noi e ce n'è anche di peggio!", pensò.
    La signorina  Perònskaja  indicava  alla  contessa  i  personaggi  più
    importanti presenti al ballo.
    - Ecco l'ambasciatore d'Olanda... guardate... quello là, in fondo, con
    i  capelli  bianchi    -  diceva,  indicando un vecchietto dalla folta
    chioma argentea e ricciuta il quale faceva ridere,  chissà perché,  un
    gruppo di signore che lo attorniavano.
    -  Ed  ecco  la  regina  di  Pietroburgo,  la  contessa  Bezùchova   -
    aggiunse, accennando a Elen che stava entrando in quel momento.- Com'è
    bella! Neppure Màrija Antònovna (31) regge al suo confronto.  Guardate
    come l'ammirano giovani e vecchi! Bella e intelligente. Si dice che un
    principe ereditario...  vada pazzo per lei. E quelle due là, guardate,
    quantunque  non  siano  così  belle,  sono  anche  più  attorniate  da
    ammiratori.
    E  indicò  una  signora  che  attraversava  la sala accompagnata dalla
    figliuola, una fanciulla piuttosto bruttina.
    - La ragazza è un partito...  milionario  -  aggiunse la  Perònskaja.-
    Ed ecco gli spasimanti. Quello è il fratello della contessa Bezùchova,
    Anatolij  Kuragin    -    e  indicò un bel cavaliere della Guardia che
    passava con la testa alta in mezzo alle signore e con lo sguardo volto
    chissà dove.  -  Com'è bello,  vero?  Dicono che gli daranno in moglie
    quella  milionaria.  Anche  vostro  cugino  Drubetzkòj  le  sta  molto
    attorno...  Sfido,  si tratta di  milioni!  Ma  sì,  sì...  è  proprio
    l'ambasciatore di Francia  -  rispose alla contessa che,  accennando a
    Caulaincourt,  le domandava chi  fosse.-    Guardatelo,  che  arie  da
    imperatore!  Malgrado  tutto,  però,  i  Francesi  sono  molto,  molto
    simpatici: in società nessuno riesce  più  simpatico  di  loro...  Ah,
    eccola,  la nostra Màrija Antònovna!  E' pur sempre lei,  però, la più
    bella di tutte... E che abbigliamento semplice! Deliziosa,  veramente!
    E  quel  tipo laggiù,  quel grasso,  con gli occhiali è il frammassone
    internazionale  -  soggiunse la Perònskaja,  indicando  Bezuchov.    -
    Mettetelo vicino a sua moglie e vedrete come sarà grottesco!
    Pierre avanzava dondolandosi sul corpo pesante, facendosi largo tra la
    gente,  salutando a destra e a sinistra con noncurante bonarietà, come
    se camminasse in mezzo alla folla di un  mercato.  Si  moveva  tra  la
    ressa, evidentemente cercando qualcuno.
    Natascia  guardava  con  piacere  il  viso noto di Pierre,  il viso di
    quell'uomo grottesco,  come l'aveva definito la Perònskaja,  e  sapeva
    che   Pierre,   tra  tutta  quella  gente,   cercava  proprio  loro  e
    specialmente lei.  Egli le aveva promesso di partecipare al ballo e di
    presentarle dei cavalieri.
    Ma  prima di avvicinarsi ai Rostòv,  Pierre si fermò presso un giovane
    bruno, non alto, molto bello, in uniforme bianca,  che stava davanti a
    una  finestra  e  conversava  con  un signore alto,  vecchio dal petto
    coperto di decorazioni.  Natascia riconobbe subito il giovane di media
    statura  in  uniforme  bianca:  era  Bolkonskij,  che  le sembrò molto
    ringiovanito, più allegro e più bello.
    - Ecco un'altra conoscenza, Bolkonskij!  Lo vedete,  mamma?   -  disse
    Natascia, indicando il principe Andréj.  -  Ricordate che ha trascorso
    una notte da noi a Otràdnoe?
    - Ah, lo conoscete anche voi?  -  interloquì la Perònskaja.  -  Io non
    lo posso soffrire!  "Il fait à présent la pluie et le beau temps" [32.
    Adesso fa il buono e il cattivo  tempo].  E'  di  una  superbia  senza
    limiti: ha preso da suo padre.  E' diventato molto amico di Speranskij
    e stanno preparando insieme non so quali progetti...  Guardate come si
    comporta con le signore! Quelle gli rivolgono la parola e lui si volta
    dall'altra parte  -  disse,  indicandolo.   -  Se facesse così con me,
    gli insegnerei io l'educazione!


    CAPITOLO 16.

    Tutt'a un tratto  grande  agitazione:  la  folla  fu  percorsa  da  un
    mormorio, si accalcò, si divise di nuovo e tra due ali di invitati, al
    suono dell'orchestra, entrò l'imperatore, seguito dai padroni di casa.
    Il sovrano camminava svelto,  salutando a destra e a sinistra, come se
    volesse liberarsi al più presto dei  primi  momenti  dell'incontro.  I
    musicanti  eseguivano una "polacca",  allora assai in voga soprattutto
    per le parole che cominciavano così:  "Aleksàndr,  Elizaveta,  voi  ci
    affascinate!".  L'imperatore  entrò  nel  salone,  mentre  la folla si
    slanciò verso gli usci; alcuni personaggi,  i cui volti avevano mutato
    espressione,  entrarono  in fretta dietro il sovrano e poi rapidamente
    tornarono indietro.  La folla,  dall'uscio del salotto,  si riversò di
    nuovo  nel  salone,  e nel vano apparve l'imperatore intento a parlare
    con la padrona di casa. Un giovane, visibilmente turbato,  mosse verso
    le signore,  pregandole di farsi da parte. Alcune di esse, infatti, il
    cui viso esprimeva un completo oblio di ogni convenienza  mondana,  si
    spingevano avanti, incuranti di sgualcire i loro abiti da ballo.
    Gli uomini cominciarono ad avvicinarsi alle dame e già si formavano le
    prime coppie della "polacca".
    Tutti  fecero  largo  e  l'imperatore,  sorridendo e traendo per mano,
    contro tempo,  la padrona di casa,  varcò la soglia  del  salotto.  Lo
    seguivano  il  padrone  di  casa  con Màrija Antònovna Naryskina;  poi
    venivano  ambasciatori,  ministri,   diversi  generali  dei  quali  la
    Perònskaja diceva via via i nomi,  senza pigliar fiato. Più della metà
    delle dame avevano  già  i  loro  cavalieri  e  già  ballavano,  o  si
    preparavano  a  ballare  la  polacca.  Natascia  sentiva che stava per
    rimanere con sua madre e con Sònja nel piccolo  gruppo  delle  signore
    addossate  alla  parete  e  che  nessuno invitava a ballare.  Le esili
    braccia abbandonate lungo i fianchi,  il seno appena  segnato  che  si
    sollevava  seguendo  il  ritmo del respiro,  guardava dinanzi a sé con
    occhi scintillanti e spauriti,  con l'espressione dell'attesa  di  una
    grandissima  gioia  o di un grandissimo dolore.  Non si interessava né
    dell'imperatore né  degli  importanti  personaggi  che  la  Perònskaja
    indicava.  Un  solo  pensiero  occupava  la  sua mente: "Possibile che
    nessuno si avvicini a me,  possibile che io non sia  tra  le  prime  a
    ballare?  Che  non  si accorgano di me tutti questi uomini i quali non
    sembrano  neppure  vedermi  e,   se  mi   guardano,   lo   fanno   con
    un'espressione  che pare voglia dire: "Ah,  non è lei...  non è quella
    che cercavo...  non mette neppur  conto  di  guardarla!".  No,  non  è
    possibile!",  pensava. "Costoro devono capire che io desidero ballare,
    che so ballare bene e che si divertirebbero molto ballando con me".
    Le note della "polacca", che durava già da parecchio tempo, giungevano
    all'orecchio di Natascia tristi come un ricordo.  Ella aveva voglia di
    piangere.  La Perònskaja si era allontanata da loro. Il conte stava in
    un altro angolo della sala;  la contessa,  Sònja e lei erano sole come
    in una foresta,  in mezzo a quella folla di estranei, non interessanti
    e non necessarie ad alcuno.  Il principe Andréj in  compagnia  di  una
    signora  passò  loro  davanti,  evidentemente  senza riconoscerle.  Il
    bell'Anatolij,  sorridendo,  diceva  qualcosa  alla  dama  alla  quale
    offriva  il braccio e passando guardò Natascia con lo stesso interesse
    con cui avrebbe guardato un  muro.  Per  ben  due  volte  Borìs  passò
    davanti  alle fanciulle e tutt'e due le volte volse il capo dall'altra
    parte. Berg e sua moglie, che non ballavano, si avvicinarono a loro.
    A Natascia, quella riunione di famiglia lì,  al ballo,  come se non vi
    fosse un altro luogo più adatto per le conversazioni domestiche, parve
    umiliante. Essa non ascoltava e non guardava Vera che le stava dicendo
    non so che cosa a proposito del suo abito verde.
    Finalmente  l'imperatore  si fermò accanto alla sua ultima dama (aveva
    ballato con tre signore), la musica tacque; l'aiutante di campo, serio
    e affaccendato,  corse dalle Rostòv pregandole di tirarsi  ancora  più
    indietro,  sebbene  esse  fossero  già  con  le spalle appoggiate alla
    parete  mentre  dalla  galleria  cominciarono  a  giungere,   caute  e
    indistinte,  le  note dolci e trascinanti di un valzer.  L'imperatore,
    sorridendo,  diede uno sguardo  alla  sala.  Trascorse  un  minuto,  e
    nessuno ancora riprendeva a ballare. L'aiutante di campo, direttore di
    sala,  si avvicinò alla contessa Bezùchova e la invitò.  Essa,  con un
    bel sorriso,  sollevò una mano  e  gliela  pose  sulla  spalla,  senza
    guardarlo.  L'aiutante,  vero  esperto  in  materia,  con  sicurezza e
    misura,  senza affrettarsi,  allacciò stretta la sua dama e si slanciò
    con  lei,  dapprima  scivolando  lungo  un  semicerchio,  poi,  giunto
    all'angolo della sala e presa la mano sinistra  della  dama,  le  fece
    fare  un  giro  su  se  stessa e,  tra i suoni sempre più rapidi della
    musica, si udì solo il battere ritmico degli agili piedi dell'aiutante
    mentre, ogni tre battute, al momento della girata,  l'abito di velluto
    della dama ondeggiava, sollevandosi.
    Natascia  fissava  la coppia e sentiva tanta voglia di piangere perché
    non era stata invitata lei a ballare quel primo giro di valzer.
    Il  principe  Andréj,   nella  sua  bianca  divisa  di  colonnello  di
    cavalleria,  in  calze  di seta e scarpini,  allegro e animato,  stava
    nelle prime file del gruppo a breve distanza dalle Rostòv.  Il  barone
    Vierhof  discorreva con lui della prima seduta del Consiglio di stato,
    che doveva aver luogo il giorno seguente.  Il  principe  Andréj,  come
    intimo di Speranskij e come membro della Commissione legislativa,  era
    in grado di dare informazioni sicure a  proposito  di  quella  seduta,
    sulla quale correvano voci diverse.  Ma egli non ascoltava ciò che gli
    stava dicendo il suo interlocutore e guardava ora l'imperatore  ora  i
    cavalieri  che  si  accingevano a ballare ed esitavano a lanciarsi nel
    circolo della danza.
    Il principe Andréj osservava quei ballerini intimiditi dalla  presenza
    del sovrano e quelle dame che ardevano dal desiderio di essere notate.
    Pierre si accostò a lui e lo prese per un braccio.
    - Voi ballate sempre.  Qui c'è una mia "protégée" [33.  protetta],  la
    piccola Rostova: andate a invitarla  -  gli disse.
    - Dov'è?   -  domandò Bolkonskij.   -  Vi chiedo scusa  -    aggiunse,
    rivolgendosi   al   barone.     -    Continueremo  altrove  la  nostra
    conversazione.  A un ballo si deve pur ballare!   -  E si mosse  nella
    direzione   che   Pierre  gli  indicava.   L'espressione  disperata  e
    trepidante del viso di Natascia colpì lo sguardo del principe  Andréj.
    Riconobbe  la fanciulla,  ne indovinò i pensieri,  capì che questo era
    per lei il primo ballo,  ricordò  i  discorsi  della  giovinetta  alla
    finestra e con aria allegra si avvicinò alla contessa Rostòv.
    -  Permettetemi  che  vi  presenti  mia  figlia  -  disse la contessa,
    arrossendo.
    - Ho già il piacere di conoscerla,  se la contessina si ricorda di  me
    -    rispose il principe Andréj con un inchino profondo e cortese,  in
    contrasto con le osservazioni fatte dalla  Perònskaja  sui  suoi  modi
    villani.  Si  avvicinò a Natascia e sollevò il braccio per cingerle la
    vita ancor prima di averla invitata a ballare.  Le propose un giro  di
    valzer.  Il  viso  trepidante di Natascia,  pronto alla disperazione e
    all'entusiasmo,  si  illuminò  di  colpo  di  un  sorriso  di  felice,
    infantile riconoscenza.
    "Ti  attendevo  da  un  pezzo",  pareva dire quella bambina sgomenta e
    felice,  con il  sorriso  spuntato  da  dietro  le  lacrime  pronte  a
    sgorgare, mentre posava la mano sulla spalla del principe Andréj. Essi
    formavano  la seconda coppia che entrava nel giro.  Il principe Andréj
    era uno dei più  abili  ballerini  del  suo  tempo.  Natascia  ballava
    mirabilmente.  I  suoi  piedini,  nelle  scarpine  di raso,  pareva si
    sollevassero rapidi e leggeri, indipendentemente da lei, e il suo viso
    raggiava di entusiasmo e di felicità.  Il suo collo e le  sue  braccia
    erano di una magrezza infantile,  non belle.  Paragonate con le spalle
    di Elen,  quelle di Natascia erano gracili,  il seno non  formato,  le
    braccia sottili;  ma su Elen pareva si fosse posata la patina di tutte
    le migliaia di sguardi che  avevano  sfiorato  il  suo  corpo,  mentre
    Natascia aveva l'aspetto di una bimba che per la prima volta indossava
    un  abito  scollato,  una bimba che si sarebbe vergognata di mostrarsi
    così se non l'avessero convinta che così era necessario fare.
    Al principe Andréj piaceva ballare e,  desideroso di liberarsi al  più
    presto  sia  delle  conversazioni  politiche  e  impegnate  che  tutti
    intavolavano  con  lui,  sia  della  timidezza  che  lo  indispettiva,
    cagionata  dalla presenza del sovrano,  si era messo a ballare e aveva
    scelto Natascia, perché Pierre gliel'aveva indicata e perché era stata
    la prima donna graziosa a cadergli sotto  gli  occhi;  ma  non  appena
    strinse a sé quel corpicino agile e snello,  e la fanciulla si mosse e
    gli sorrise così da vicino,  l'ebbrezza del fascino che emanava da lei
    gli  salì alla testa;  e mentre,  riprendendo fiato e lasciandola,  si
    fermava  a  guardare  le  coppie  che  ancora  ballavano,   si   sentì
    ringiovanito e pieno di vita.


    CAPITOLO 17.

    Dopo il principe Andréj,  a Natascia si avvicinò Borìs,  invitandola a
    ballare; poi si presentò anche l'aiutante di campo che aveva aperto le
    danze,  seguito da altri giovani.  E Natascia,  cedendo a Sònja alcuni
    dei suoi troppo numerosi cavalieri, accesa in viso e felice, non smise
    di  ballare  per  tutta  la sera.  Non vide nulla di ciò che in quella
    festa interessava tutti gli altri.  Non solo non notò che l'imperatore
    si  intrattenne a lungo a conversare con l'ambasciatore francese,  non
    si avvide come egli parlasse con particolare amabilità con l'una e con
    l'altra signora o come il tale o tal altro principe facesse o  dicesse
    questo  o  quell'altra  cosa,  né che Elen avesse un grande successo e
    fosse  stata  onorata  della  particolare  attenzione  di   un   certo
    personaggio; ella non vide nemmeno l'imperatore, e si accorse che egli
    se ne era andato soltanto perché, dopo che il sovrano ebbe lasciato la
    sala,  l'animazione  del  ballo  si fece più viva.  Il principe Andréj
    ballò con Natascia uno degli allegri "cotillons" prima della cena.  Le
    ricordò  il  loro primo incontro nel viale di Otràdnoe e come ella non
    riuscisse ad addormentarsi in una certa notte  di  luna,  e  le  disse
    anche che, suo malgrado, l'aveva udita parlare alla finestra. Natascia
    arrossì  a  quel ricordo e cercò di giustificarsi,  come se si dovesse
    vergognare del sentimento in preda al quale il principe Andréj l'aveva
    involontariamente sorpresa.
    Il principe Andréj, come tutte le persone cresciute nell'alta società,
    amava aver rapporti nel bel mondo con coloro che  erano  esenti  dalla
    comune impronta mondana.  E così era Natascia, con i suoi stupori, con
    la sua gioia,  la sua  timidezza  e  persino  con  i  suoi  errori  di
    francese.  Egli  si  comportava  con la fanciulla e le parlava in modo
    particolarmente affettuoso.  Sedendole accanto e discorrendo  con  lei
    degli  argomenti  più  comuni  e senza importanza,  il principe Andréj
    ammirava il gioioso splendore degli occhi e del sorriso  di  lei,  che
    non  dipendevano dalle parole che il giovane pronunziava,  ma soltanto
    dall'intima sua felicità.  Quando altri invitavano Natascia ed ella si
    alzava sorridendo e si metteva a ballare,  il principe Andréj ammirava
    soprattutto la sua grazia timida e  ingenua.  A  metà  del  "cotillon"
    Natascia,  dopo  la fine di una figura,  ritornò con il respiro ancora
    ansante al suo posto.  Un  altro  cavaliere  la  invitò.  Era  stanca,
    oppressa,  e  avrebbe voluto rifiutare,  ma a un tratto si decise,  si
    alzò e allegramente posò la mano sulla spalla del suo nuovo  cavaliere
    e sorrise al principe Andréj.
    "Sarei  stata  felice  di riposarmi e di restare seduta accanto a voi,
    sono stanca, ma poiché, come vedete, mi invitano, io ne sono lieta, io
    voglio bene a tutti, e noi due, a questo riguardo,  ci intendiamo...",
    e molte, molte altre cose ancora diceva quel sorriso.
    Quando il cavaliere la lasciò,  Natascia attraversò correndo la sala a
    prendere altre due dame per la figura successiva.
    "Se si avvicinerà prima a sua cugina,  ella sarà mia moglie",  disse a
    se stesso,  all'improvviso,  il principe Andréj, guardandola. Natascia
    mosse subito verso la cugina.
    "Che sciocchezze ci passano talvolta per il capo!",  pensò il principe
    Andréj.  "Ma  è  certo  che  questa fanciulla è tanto graziosa e tanto
    originale che non ballerà neppure un  mese  qui  a  Pietroburgo  senza
    trovar  marito...  Qui  è  una  vera  rarità".  Così  pensava,  mentre
    Natascia,  accomodandosi la rosa che portava  alla  cintura,  tornò  a
    sedersi accanto a lui.
    Alla  fine  del  "cotillon",  il  vecchio  conte in marsina azzurra si
    avvicinò alla coppia.  Invitò il principe Andréj a casa  sua,  e  alla
    figliuola  chiese  se fosse contenta.  Natascia non gli rispose;  ebbe
    soltanto un sorriso che pareva voler dire in tono di  rimprovero:  "E'
    possibile domandare una cosa simile?".
    -  Non  mi  sono  mai divertita tanto in vita mia!   -  rispose,  e il
    principe Andréj notò come le sue esili braccia che si erano  sollevate
    rapidamente per abbracciare il padre,  erano subito ricadute. Natascia
    era realmente felice,  come non lo era mai stata in  vita  sua.  Aveva
    raggiunto  quel  supremo  grado di gaudio in cui una creatura umana si
    sente infinitamente buona e non può credere alla possibilità del male,
    della sventura e del dolore.
    Durante quel ballo, Pierre per la prima volta si sentì umiliato per la
    posizione che sua  moglie  occupava  nell'alta  società.  Era  cupo  e
    distratto.  Una  ruga  profonda gli attraversava la fronte;  ritto nel
    vano di una finestra,  guardava  attraverso  le  lenti,  senza  vedere
    nessuno.
    Natascia,  nell'andare a cena, gli passò davanti. Il viso accigliato e
    dall'espressione dolorosa di Pierre la colpì. Si fermò, avrebbe voluto
    aiutarlo,  cedergli il soprappiù della  felicità  di  cui  si  sentiva
    traboccare il cuore.
    - Ci si diverte, vero, conte?  -  gli disse.
    Pierre sorrise distrattamente, certo senza capire ciò che Natascia gli
    diceva.
    - Sì, sono molto contento  -  rispose.
    "Com'è  possibile essere scontenti di qualche cosa?",  pensò Natascia,
    "specialmente quando si è buoni come questo Bezuchov!".  Agli occhi di
    Natascia  coloro  che  partecipavano  al  ballo  erano  tutte  persone
    ugualmente buone, amabili,  belle,  persone che si amavano a vicenda e
    che, perciò, dovevano essere felici.


    CAPITOLO 18.

    Il giorno seguente il principe Andréj ripensò al ballo della sera,  ma
    senza soffermarvisi a lungo... "Sì, è stata una festa molto brillante,
    e anche... sì, la Rostova è molto carina.  C'è in lei qualcosa di così
    fresco,  di così naturale, di così non pietroburghese che la distingue
    dalle altre".  Ecco tutto quello che pensò del ballo della vigilia  e,
    non appena ebbe bevuto il tè, si mise al lavoro.
    Ma sia per la stanchezza sia per la mancanza di sonno, la giornata non
    era  propizia  alle  occupazioni,  e il principe Andréj non riusciva a
    combinar nulla;  non faceva che criticare il proprio lavoro,  cosa che
    gli  accadeva  spesso,  e  fu  quindi  contento  quando  seppe che era
    arrivato qualcuno.
    Il visitatore era un  tal  Bitzkij,  membro  di  diverse  Commissioni,
    frequentatore  di  tutti  gli  ambienti  di Pietroburgo,  appassionato
    seguace delle nuove idee e di Speranskij,  efficiente  propagatore  di
    tutte le notizie della città, uno di quegli uomini che si scelgono una
    direttiva come un abito,  secondo la moda, ma che, proprio per questo,
    ne appaiono i più ardenti sostenitori.
    Toltosi in fretta il cappello,  entrò di corsa e tutto preoccupato dal
    principe Andréj e cominciò subito a parlare. Aveva appena conosciuto i
    particolari  della  seduta  del Consiglio di guerra di quella mattina,
    aperta dall'imperatore,  e li raccontava con entusiasmo.  Il  discorso
    del sovrano era stato straordinario: uno di quei discorsi che soltanto
    un monarca costituzionale può pronunziare.
    -  L'imperatore  ha detto ben chiaro che il Consiglio e il Senato sono
    le basi dello stato, ha detto che non l'arbitrio, ma soltanto i solidi
    principi ne sono il fondamento.  E ha aggiunto anche  che  il  sistema
    finanziario  esige una riforma e che "i conti" devono essere portati a
    conoscenza del pubblico   -    raccontava  Bitzkij,  sottolineando  le
    parole  più  significative e spalancando gli occhi con intenzione.   -
    Sì,  l'avvenimento  di  oggi  è  l'inizio  di  un'èra  nuova,  la  più
    importante della nostra storia  -  concluse.
    Il  principe  Andréj  ascoltava  la descrizione della inaugurazione di
    quel Consiglio di stato,  che egli aveva atteso con tanta  impazienza,
    che  considerava  di  importanza  eccezionale,  e  si meravigliava che
    l'avvenimento, ora che si era realizzato,  non solo non lo commovesse,
    ma  gli  apparisse  più  che insignificante.  Ascoltava con tranquilla
    ironia le parole entusiaste di Bitzkij.  E  gli  veniva  in  mente  un
    pensiero  semplicissimo: "Che cosa importa a me e a Bitzkij,  che cosa
    importa a noi di quello che l'imperatore ha ritenuto opportuno dire al
    Consiglio di stato?  Forse che tutto questo può rendermi più felice  e
    migliore di quanto sono?".
    E  tale semplicissimo pensiero distrusse a un tratto tutto l'interesse
    che il principe  Andréj  aveva  sentito  in  passato  per  le  riforme
    realizzate.  Quel  giorno  stesso  egli  doveva  andare  a  pranzo  da
    Speranskij "en petit comité" [34.  in una ristretta cerchia di amici],
    come gli aveva detto il padrone di casa quando lo aveva invitato. Quel
    pranzo  tra  i  familiari  e  gli  amici  di un uomo per il quale egli
    nutriva tanta ammirazione, interessava molto il principe Andréj, tanto
    più che egli non aveva  ancora  veduto  Speranskij  nel  suo  ambiente
    familiare; ora, però, non aveva più voglia di andare.
    All'ora stabilita per il pranzo,  tuttavia,  il principe Andréj faceva
    il suo ingresso nella piccola  casa  appartenente  a  Speranskij,  nel
    giardino di Tauride.  Nella sala da pranzo dal pavimento di legno,  di
    un lindezza fuori del comune (una lindezza che ricordava quella di  un
    convento),  il  principe Andréj che era leggermente in ritardo,  trovò
    riunite alle cinque  tutte  le  persone  di  quel  "petit  comité"  di
    Speranskij.  Non  c'erano  signore,  all'infuori  della figlioletta di
    Speranskij (una ragazzina dal viso lungo,  somigliantissima al  padre)
    con la sua governante.  Gli invitati erano Gervais (35),  Magnitzkij e
    Stolypin (36). Già dall'anticamera il principe Andréj sentì parlare ad
    alta voce e udì un riso rumoroso, simile a quello proprio degli attori
    sul palcoscenico.  E qualcuno,  con una  voce  che  pareva  quella  di
    Speranskij,  rispondeva a scatti: ah... ah... ah... Il principe Andréj
    non aveva mai sentito ridere Speranskij, e quella sonora,  martellante
    risata dell'uomo di stato lo colpì in modo strano.
    Il  principe Andréj entrò in sala da pranzo.  Gli invitati erano tutti
    radunati a una piccola tavola,  tra due finestre,  sulla  quale  erano
    disposti  gli  antipasti.   Speranskij,  in  marsina  grigia  con  una
    decorazione  sul  petto  e  che  evidentemente  indossava  ancora   il
    panciotto  bianco  e  l'alta cravatta candida che portava alla celebre
    seduta  del  Consiglio  di  stato,  sedeva  accanto  alla  tavola  con
    espressione   allegra.   Gli   ospiti  lo  circondavano.   Magnitzkij,
    rivolgendosi a Michaìl Michàjlovic', gli stava raccontando un aneddoto
    che Speranskij ascoltava,  ridendo prima ancora che Magnitzkij  avesse
    parlato.  Nel momento in cui il principe Andréj entrava, le parole del
    narratore erano di nuovo soffocate dalle risa. Stolypin, masticando un
    pezzo di pane, rideva con la sua potente voce di basso; Gervais rideva
    di un riso pigolante e sommesso e Speranskij con voce acuta e chiara.
    Speranskij,  continuando a ridere,  tese al principe  Andréj  la  mano
    morbida e grassoccia.
    - Molto lieto di vedervi, principe  -  gli disse.  -  Un momentino...-
    continuò  parlando  a  Magnitzkij  e  interrompendone il racconto.   -
    Oggi,  sia ben inteso,  il nostro è un pranzo di piacere;  non  voglio
    sentire una parola sugli affari di stato.   E, rivoltosi a Magnitzkij,
    riprese a ridere.
    Il principe Andréj con lo stupore misto alla tristezza che procura una
    delusione,  ascoltava  e  guardava  Speranskij.   Quell'uomo  non  gli
    sembrava  più  Speranskij,  ma  una persona diversa.  Tutto ciò che di
    misterioso e di affascinante il principe vedeva prima in lui gli parve
    a un tratto chiaro e tutt'altro che affascinante.
    A tavola la conversazione proseguì animatissima,  tutta basata  su  un
    susseguirsi  di aneddoti buffi.  Magnitzkij non aveva ancora terminato
    il suo racconto che già un  altro  invitato  si  dimostrava  pronto  a
    raccontare  qualcosa  che doveva essere ancora più divertente.  Per la
    maggior parte le storielle riguardavano,  se  non  proprio  l'ambiente
    dell'amministrazione,  certo i personaggi che la costituivano.  Pareva
    che in quel gruppo di gente,  tutti avessero definitivamente stabilito
    la  nullità di quelle persone,  tanto che gli unici rapporti possibili
    con loro non potessero  essere  se  non  del  genere  comico  bonario.
    Speranskij  narrò  che  durante  la  seduta  del mattino,  avendo egli
    domandato a un funzionario sordo quale fosse il suo parere, costui gli
    aveva risposto che era senz'altro  della  medesima  opinione.  Gervais
    narrò  tutta  una  storia  relativa  a  un'ispezione,  famosa  per  la
    stupidità di tutti i personaggi che vi  erano  interessati.  Stolypin,
    tartagliando,  interloquì  parlando con calore degli abusi del passato
    ordine di cose,  minacciando di dare alla  conversazione  un  tono  di
    serietà.  Magnitzkij si mise a canzonare la foga di Stolypin.  Gervais
    lanciò un frizzo, e la conversazione riprese l'allegro tono di prima.
    Era evidente che Speranskij,  dopo le sue fatiche,  amava riposarsi  e
    stare  allegro  in  mezzo  a  una simpatica cerchia di persone,  e gli
    ospiti,  che si rendevano conto del suo desiderio,  cercavano in  ogni
    modo di divertire lui e se stessi. Ma era un divertimento, quello, che
    al principe Andréj pareva pesante e tutt'altro che piacevole. Egli non
    rideva  e  temeva,   per  questo,  di  rendersi  poco  simpatico  alla
    compagnia.  Ma nessuno notò  che  il  suo  contegno  contrastasse  con
    l'umore della compagnia. Tutti apparivano molto allegri.
    Parecchie   volte   provò   il   desiderio   di   prender  parte  alla
    conversazione,  ma ogni volta la sua  parola  schizzava  via  come  un
    turacciolo dall'acqua: non riusciva a scherzare insieme con gli altri.
    Non  c'era  nulla  di male né di inopportuno in ciò che essi dicevano:
    era tutto spiritoso e avrebbe potuto  essere  anche  comico;  ma  quel
    qualche  cosa  che  costituisce  il  sale dell'allegria,  non soltanto
    mancava,  ma si capiva che quella gente non sapeva neppure che potesse
    esistere.
    Dopo  pranzo,  la  figlia  di  Speranskij e la governante si alzarono.
    Speranskij fece alla figliuola una carezza con la sua mano  bianca,  e
    la  baciò.  E  anche  quel  gesto  parve  al  principe Andréj privo di
    naturalezza.
    Gli uomini,  secondo l'uso inglese,  rimasero a tavola davanti  a  una
    bottiglia  di Porto.  Nel bel mezzo di una conversazione avviata sulla
    politica di Napoleone in Spagna,  politica  che  tutti  approvavano  e
    sulla quale tutti erano d'accordo,  il principe Andréj cominciò a fare
    delle obiezioni. Speranskij sorrise e, volendo evidentemente sviare il
    discorso dalla direzione presa,  raccontò un  aneddoto  che  con  quel
    discorso  non  aveva  alcuna  relazione.   Per  qualche  minuto  tutti
    tacquero.
    Dopo essere rimasto ancora un po' seduto a tavola,  Speranskij  stappò
    la bottiglia di vino e disse:
    -  Al  giorno d'oggi il vino buono è raro come un ciabattino che abbia
    le scarpe.   -  Diede la bottiglia al domestico e si  alzò.  Tutti  lo
    imitarono  e,   continuando  a  parlare  rumorosamente,  passarono  in
    salotto.  Subito vennero portati a Speranskij due plichi recapitati da
    un  corriere.  Egli  li prese e si recò nel suo studio.  Non appena fu
    uscito,   l'allegria  generale  scomparve  e  gli  ospiti  presero   a
    discorrere tra di loro, discutendo pacatamente.
    -  Suvvia,  un  po'  di  declamazione,  ora!    -  esclamò Speranskij,
    ritornando dallo studio.   -   Ha  un  ingegno  davvero  sorprendente-
    disse, rivolgendosi al principe Andréj.
    Magnitzkij  si  mise  subito in posa e cominciò a recitare in francese
    versi scherzosi,  scritti da lui stesso su alcuni noti  personaggi  di
    Pietroburgo,   spesso  interrotto  dagli  applausi  dei  presenti.  Il
    principe Andréj, alla fine della recitazione, si avvicinò a Speranskij
    per accomiatarsi.
    - Dove andate così presto?  -  gli domandò.
    - Ho promesso di partecipare a una serata...
    Tacquero.   Il  principe  Andréj  guardava  da  vicino  quegli   occhi
    cristallini  e  impenetrabili  e  gli pareva ridicolo il fatto di aver
    potuto attender qualcosa da Speranskij e dalla propria attività, a lui
    collegata,  e di aver potuto dare  importanza  a  ciò  che  Speranskij
    faceva.  E,  dopo che lo ebbe lasciato,  quel modo di ridere forzato e
    non allegro di lui non cessava di risonargli alle orecchie.
    Tornato  a  casa,   il  principe  Andréj   ripensò   alla   sua   vita
    pietroburghese  di  quegli  ultimi  quattro mesi come a un qualcosa di
    nuovo. Ripensò alle sue occupazioni,  alle sue ricerche,  alla vicenda
    del  suo  progetto per un nuovo codice militare che era stato preso in
    considerazione,  ma sul quale si cercava di far  cadere  il  silenzio,
    unicamente perché un altro lavoro,  che pur valeva assai poco, era già
    stato compilato e presentato al sovrano;  ripensò  alle  sedute  della
    commissione di cui Berg era membro; e ricordò come in quelle sedute si
    discutesse  con cura e a lungo su tutto quanto riguardava la formalità
    esteriore  e  lo  svolgimento  delle  sedute  e  come,   invece,   con
    altrettanta  cura e rapidità si sorvolasse su tutto ciò che costituiva
    l'essenza delle questioni.  Si ricordò del suo lavoro di  legislatore,
    della  diligenza  e accuratezza con cui aveva tradotto in lingua russa
    gli articoli delle leggi romane e di quelle francesi e provò  vergogna
    di se stesso.  Poi rivide con il pensiero Boguciàrovo,  la sua vita in
    campagna,  il  suo  viaggio  a  Rjazàn;  ripensò  ai  contadini,  allo
    "stàrosta"  (37)  Dron  e,  applicando  loro con il pensiero i diritti
    della persona, che egli aveva suddiviso in paragrafi, si meravigliò di
    aver potuto, così a lungo, dedicarsi a un lavoro così ozioso.


    CAPITOLO 19.

    Il giorno successivo il principe Andréj  si  recò  a  fare  visita  ad
    alcune  famiglie alle quali non si era ancora presentato;  tra queste,
    la famiglia Rostòv, con la quale aveva rinnovato la conoscenza durante
    il ballo.  Oltre che da un dovere di  cortesia,  che  lo  obbligava  a
    recarsi  da  loro,  il  principe Andréj era spinto a quella visita dal
    desiderio di vedere in  casa  sua  quella  fanciulla  tanto  vivace  e
    originale, che gli aveva lasciato un così piacevole ricordo.
    Natascia  fu  una  delle  prime  persone  della  famiglia  a  venirgli
    incontro.  Indossava un abitino azzurro da  casa,  con  il  quale  gli
    sembrò ancora più carina di quanto non gli fosse apparsa al ballo.  La
    fanciulla e tutti i Rostòv accolsero il  visitatore  come  un  vecchio
    amico, in modo semplice e affettuoso. Quella famiglia, che il principe
    Andréj  aveva  un  tempo  giudicato  tanto severamente,  gli parve ora
    composta di persone schiette, semplici e buone.  La bonaria ospitalità
    del vecchio conte,  particolarmente rara a Pietroburgo, fu tale che il
    principe Andréj non poté rifiutare l'invito di trattenersi a pranzo.
    "Sì,  è veramente una famiglia eccellente"  pensava  Bolkonskij;  "una
    famiglia che,  è chiaro, non comprende quale tesoro abbia in Natascia,
    ma che costituisce  lo  sfondo  migliore  per  dar  risalto  a  questa
    poetica, affascinante fanciulla così piena di vita!".
    Il  principe  Andréj  avvertiva  in  Natascia  l'esistenza di un mondo
    particolare, a lui completamente estraneo, un mondo colmo di gioie che
    egli non conosceva, un mondo a lui inaccessibile del quale aveva avuto
    già una vaga manifestazione nel viale di Otràdnoe e alla  finestra  in
    quella notte di luna.  Ora quel mondo non lo irritava più, non gli era
    più estraneo; anzi, ora che vi era entrato,  vi trovava piaceri sino a
    quel giorno ignorati.
    Dopo il pranzo, Natascia, pregata dall'ospite, sedette al clavicembalo
    e  cominciò a cantare.  Il principe Andréj,  ritto presso la finestra,
    discorreva con le signore  e  l'ascoltava.  Nel  mezzo  di  una  frase
    musicale  tacque  e  sentì  a un tratto che le lacrime,  di cui non si
    credeva più capace, gli facevano groppo alla gola. Guardò Natascia che
    cantava e nel suo animo scaturì qualcosa di nuovo e di felice. Egli si
    sentiva  felice,   sì,   e  nello  stesso  tempo  triste.   Non  aveva
    assolutamente  alcun motivo per piangere,  ma stava proprio per farlo.
    Su che cosa?  Sul suo amore di un tempo?  Sulla  piccola  principessa?
    Sulle  sue disillusioni?  Sulle sue speranze per l'avvenire?  Sì e no.
    Ciò che più di ogni altra cosa gli suscitava quel desiderio di lacrime
    era il violento contrasto,  di cui aveva avuto  improvvisa  coscienza,
    tra  qualcosa  di  infinito  e  di  grande che era in lui e la materia
    angusta,  corporea,  di cui si sentiva fatto e di cui era fatta  anche
    Natascia.  Contrasto che lo rattristava e lo allietava insieme, mentre
    Natascia cantava.
    Non appena ebbe finito di cantare,  la fanciulla si avvicinò a  lui  e
    gli  domandò se la sua voce gli fosse piaciuta.  Ma,  subito dopo aver
    parlato,  si confuse per quello che aveva detto,  comprendendo che non
    avrebbe dovuto fare simile domanda.  Egli sorrise,  guardandola,  e le
    rispose che il suo canto gli era piaciuto come gli piaceva  tutto  ciò
    che ella facesse.
    Il  principe  Andréj  lasciò  a sera inoltrata la casa dei Rostòv.  Si
    coricò per abitudine,  ma si  rese  ben  presto  conto  di  non  poter
    dormire. Ora accendeva la candela e si metteva a sedere sul letto, ora
    si  alzava  per  coricarsi subito dopo,  senza sentire affatto la noia
    dell'insonnia;  aveva l'anima piena di gioia e di freschezza,  come se
    fosse  uscito da una stanza soffocante e buia alla libera luce di Dio.
    Non gli passava neppure per la mente di essere innamorato di Natascia,
    non pensava a lei,  se la immaginava soltanto e,  in  seguito  a  ciò,
    vedeva  in  una luce nuova tutta la propria vita.  "Perché mi dibatto,
    perché mi affanno e mi agito in questa angusta, chiusa cornice, mentre
    la vita,  l'intera vita mi si apre dinanzi con tutte le sue gioie?" si
    chiedeva. E per la prima volta, dopo molto tempo, si mise a fare lieti
    progetti  per l'avvenire.  Decise che doveva occuparsi dell'educazione
    del figlio e trovare per lui un precettore al  quale  affidarlo;  poi,
    date   le   dimissioni,   sarebbe  partito  per  l'estero  a  visitare
    l'Inghilterra,  la Svizzera,  l'Italia.  "Devo approfittare della  mia
    libertà sino a che sento di essere giovane e forte", si diceva. "Aveva
    ragione  Pierre quando affermava che per essere felici bisogna credere
    che la felicità è possibile.  E ora io ci credo.  Lasciamo che i morti
    seppelliscano  i  loro morti;  ma sino a che si vive si deve vivere ed
    essere felici", pensava.


    CAPITOLO 20.

    Un mattino il colonnello Adolf Berg  -    che  Pierre  conosceva  come
    conosceva  tutti a Mosca e a Pietroburgo  -  entrò in casa di lui,  in
    luccicante uniforme,  con i capelli impomatati e pettinati  in  avanti
    come li portava l'imperatore.
    -  Sono stato dalla contessa vostra consorte e ho avuto la sfortuna di
    sentir rispondere con un rifiuto alla mia preghiera: spero, conte,  di
    essere più fortunato con voi  -  disse sorridendo.
    - Che cosa desiderate, colonnello? Sono a vostra disposizione.
    -  Mi  sono ormai sistemato definitivamente nel mio nuovo appartamento
    -  gli comunicò Berg,  certo,  evidentemente,  che quella notizia  non
    poteva  non  essere  gradita    -  e vorrei organizzare una serata per
    riunire i conoscenti di mia moglie e miei  -  (e sorrise in modo anche
    più amabile).  -  Volevo pregare la contessa e voi di farmi l'onore di
    venire a casa nostra per una tazza di tè... per la cena.
    Soltanto la contessa  Elen  Vassìlevna,  ritenendo  umiliante  per  se
    stessa  la  compagnia  di  quel Berg,  poteva avere la crudeltà di non
    accettare un simile invito.  Berg aveva  spiegato  perché  desiderasse
    riunire  in  casa  sua una piccola e scelta compagnia,  perché ciò gli
    avrebbe fatto piacere e perché,  mentre per il gioco delle carte o per
    qualche  cosa  che fosse male gli sarebbe dispiaciuto spendere denaro,
    per una buona compagnia era pronto a sostenere delle spese,  con tanta
    chiarezza  che  Pierre  non  ebbe  il coraggio di rifiutare l'invito e
    promise di non mancare.
    - Non troppo tardi,  conte,  se posso osare di chiedervelo:  verso  le
    otto  meno dieci,  se non vi dispiace.  Faremo una partitina.  Ci sarà
    anche il mio generale, che è molto buono con me. Poi ceneremo,  sicché
    fatemi la cortesia di venire!
    Contrariamente alla sua abitudine di essere sempre in ritardo,  Pierre
    quella sera arrivò dai Berg alle otto meno  un  quarto,  anziché  alle
    otto meno dieci.
    I  Berg,  dopo  aver  preparato  tutto  quanto poteva occorrere per il
    ricevimento,  erano in attesa di accogliere gli invitati.  I due sposi
    stavano seduti nel loro salottino nuovo, lindo, luminoso, arredato con
    mobili  acquistati  di  recente e adorno di busti e di piccoli quadri.
    Berg in una uniforme nuova fiammante, abbottonata, sedeva accanto alla
    moglie,  alla quale stava spiegando che  si  potevano  e  si  dovevano
    sempre  conoscere  persone  di  grado più elevato del proprio,  perché
    soltanto così si trae piacere dalle proprie conoscenze.
    - Puoi sempre prendere qualche esempio da loro,  puoi chiedere  sempre
    qualcosa. Guarda un po' come sono vissuto io sin dai primi gradi della
    mia  carriera    -  (Berg misurava la propria vita non dagli anni,  ma
    dalle promozioni).   -  I miei colleghi  di  allora  non  sono  ancora
    nulla,  e  io sto per essere nominato comandante di reggimento e ho la
    fortuna di essere vostro marito-  e, in così dire,  si alzò e baciò la
    mano  a  Vera  ma,  chinandosi  verso  di lei,  raddrizzò l'angolo del
    tappeto che si era piegato.  -  Come sono riuscito a conquistare tutto
    questo?  Specialmente scegliendo con abilità le mie conoscenze.  Va da
    sé che bisogna essere anche virtuosi e precisi.
    Berg sorrise, convinto della propria superiorità su una debole donna e
    tacque, pensando che, nonostante tutto, quella sua graziosa moglie era
    pur  sempre  una  debole  donna,  non in grado di capire tutto ciò che
    costituisce la superiorità di un uomo, "ein Mann zu sein" [38.  essere
    un  uomo].  Anche Vera in quello stesso momento sorrise convinta della
    propria superiorità sul suo buon marito virtuoso il  quale,  tuttavia,
    come tutti gli uomini,  aveva, secondo l'opinione di Vera, un concetto
    sbagliato della vita. Berg, giudicando da sua moglie,  reputava deboli
    e  sciocche  tutte  le  donne,   Vera,  giudicando  da  suo  marito  e
    generalizzando le sue  osservazioni,  pensava  che  tutti  gli  uomini
    attribuiscono  a sé soli l'intelligenza mentre in realtà non capiscono
    nulla e sono orgogliosi ed egoisti.
    Berg si alzò e,  abbracciata con cautela la moglie per non  sgualcirle
    la mantellina di pizzo,  che aveva pagato fior di quattrini,  la baciò
    sulla bocca.
    - Una cosa soltanto dobbiamo evitare: che arrivino troppo  presto  dei
    figli  -  disse, per una incosciente associazione di idee.
    -  Certo    -  rispose Vera.   -  Io non ne desidero affatto.  Bisogna
    vivere per la società.
    - Ne portava una identica la principessa Jussùpova  -  disse poi  Berg
    con  un  sorriso  bonariamente  felice,  accennando alla mantellina di
    Vera.
    In quel momento fu annunziato il conte  Bezuchov.  I  due  coniugi  si
    guardarono con un sorriso di soddisfazione,  ciascuno attribuendo a sé
    l'onore di quella visita.
    "Ecco che cosa significa saper scegliere le  conoscenze"  pensò  Berg;
    "ecco ciò che significa sapersi comportare!".
    -  Ti  prego  soltanto  di  non  interrompermi  quando intrattengo gli
    ospiti,   -  disse Vera  -  giacché so benissimo come comportarmi  con
    ciascuno di loro e che cosa bisogna dire a seconda delle persone.
    Anche Berg sorrise.
    -  Ma  non sempre si può: a volte con gli uomini bisogna fare discorsi
    da uomini  -  obiettò.
    Pierre fu ricevuto nel salotto nuovo,  dove non c'era modo di  sedersi
    senza distruggere la simmetria, l'ordine, la pulizia, e perciò era ben
    comprensibile   e   niente   affatto   strano   che   Berg  proponesse
    generosamente di distruggere la simmetria delle poltrone o del  divano
    per  un  ospite  di  tanta  importanza e che,  trovandosi lui stesso a
    questo riguardo in una dolorosa incertezza,  finisse con  il  lasciare
    all'ospite  stesso  la  risoluzione del problema.  Pierre distrusse la
    simmetria avvicinando una sedia,  e Vera e Berg diedero subito  inizio
    al ricevimento, interrompendosi a vicenda nell'intrattenere l'ospite.
    Vera,   avendo   stabilito  che  a  Pierre  fosse  necessario  parlare
    dell'ambasciata francese,  attaccò subito questo argomento;  Berg,  il
    quale  aveva  invece  stabilito  che fosse adatta una conversazione da
    uomini,  interruppe la moglie e passò a parlare della questione  della
    guerra  con  l'Austria  e,  involontariamente,  portò  il  discorso  a
    considerazioni personali sulle proposte che gli erano state  fatte  di
    partecipare  alla campagna d'Austria e sui motivi che l'avevano spinto
    a non accettarle. Quantunque la conversazione risultasse molto slegata
    e quantunque Vera fosse  seccata  per  quell'intrusione  dell'elemento
    maschile, i due coniugi sentivano con piacere che, sebbene vi fosse un
    solo invitato, la serata era iniziata molto bene e somigliava, come si
    somigliano  due  gocce  d'acqua,  a  qualsiasi  altra  serata  con  le
    conversazioni, il tè e le candele accese.
    Poco dopo arrivò Borìs,  vecchio amico dei Berg,  che trattava Vera  e
    Berg  con  una  sfumatura  di superiorità e di protezione.  Dopo Borìs
    entrarono una signora con un colonnello, il generale in persona, poi i
    Rostòv,  e la serata si presentò indiscutibilmente uguale a  tutte  le
    altre  serate.  Berg  e  Vera  non  potevano  trattenere un sorriso di
    soddisfazione al vedere il  loro  salotto  così  pieno  di  movimento,
    all'udire  quel  continuo  chiacchierio,  il  fruscio delle gonne e lo
    strisciare degli inchini. Tutto era come in qualsiasi altro salotto, e
    in particolar modo lo  era  il  generale  che  lodava  l'appartamento,
    battendo sulle spalle di Berg e che,  con paterna padronanza, ordinava
    di preparare il tavolino per una  partita  di  "boston".  Il  generale
    sedette  accanto  al  conte  Iljà  Andréevic'  che,  dopo di lui,  era
    l'ospite più ragguardevole.  I vecchi con i vecchi,  i giovani  con  i
    giovani,  la  padrona  di  casa attorno alla tavola del tè sulla quale
    erano  disposti,  in  un  cestello  d'argento,   gli  stessi  identici
    pasticcini  che  si  sarebbero visti a una serata dei Panin...  Tutto,
    insomma, come in qualunque altra casa ove avesse luogo un ricevimento.


    CAPITOLO 21.

    Pierre,  essendo uno degli ospiti più ragguardevoli,  doveva giocare a
    "boston" con Iljà Andréevic',  con il generale e con il colonnello. Al
    tavolo da gioco toccò a Pierre di sedersi in modo da aver  proprio  di
    fronte  Natascia;  il giovane fu subito colpito dallo strano mutamento
    avvenuto in lei dal giorno del ballo.  Natascia era  taciturna  e  non
    solo  non appariva più bella come lo era il giorno del ballo,  ma,  se
    non avesse avuto un'aria così dolce e  indifferente  a  tutto,  la  si
    sarebbe detta addirittura brutta.
    "Che  cosa  ha?",  pensava  Pierre,  guardandola.  La fanciulla sedeva
    accanto alla sorella davanti  alla  tavola  del  tè  e  rispondeva  di
    malavoglia  e  senza  guardarlo a ciò che diceva Borìs,  seduto al suo
    fianco.  Pierre,  che aveva buttato tutte le  carte  e  che  con  gran
    soddisfazione  del suo compagno aveva fatto cinque mani,  udendo rumor
    di passi e di saluti  di  alcune  persone  che  stavano  entrando  nel
    salotto,  mentre raccoglieva le sue vincite, volse di nuovo lo sguardo
    verso di lei.
    "Che cosa le sarà mai accaduto?", si domandò, sempre più stupito.
    Il principe Andréj, con un'espressione di riguardosa tenerezza, diceva
    qualcosa alla fanciulla che gli stava davanti. Ella,  alzata la testa,
    rossa  in  viso  e  trattenendo  a  fatica  il  respiro affannoso,  lo
    guardava.  La luce ardente di non so quale fuoco interno spentosi  per
    qualche   tempo,   ardeva  nuovamente  in  lei.   Appariva  del  tutto
    trasfigurata.  Da brutta che era,  tornò a diventare quale era apparsa
    al ballo.
    Il  principe  Andréj  si  avvicinò  a  Pierre,  e questi notò sul viso
    dell'amico un espressione nuova e giovanile. Parecchie volte,  durante
    il gioco,  Pierre cambiò posto, ora voltando le spalle a Natascia, ora
    sedendole di nuovo di fronte e durante i  "rubbers"  (39)  continuò  a
    osservare attentamente la fanciulla e l'amico.
    "Qualcosa di molto importante avviene certamente tra di loro", pensava
    Pierre,  e un sentimento lieto e nello stesso tempo amaro lo agitava e
    gli faceva dimenticare il gioco.
    Dopo  sei  "rubbers"  il  generale  si  alzò,  dicendo  che  così  era
    impossibile  giocare e Pierre rimase libero.  Natascia,  Sònja e Borìs
    discorrevano in un angolo.  Vera,  con un fine sorriso  sulle  labbra,
    parlava  con  il  principe Andréj.  Pierre si avvicinò al suo amico e,
    dopo aver domandato se quello che dicevano non fosse  un  segreto,  si
    sedette tra lui e Vera.  Quest'ultima, notato l'interesse del principe
    Andréj verso Natascia,  aveva ritenuto che in una  vera  serata  fosse
    indispensabile  fare  argute  allusioni  ad  argomenti  sentimentali e
    perciò,  approfittando di un momento in cui  il  principe  Andréj  era
    rimasto solo,  aveva iniziato con lui una conversazione sul sentimento
    in generale e su sua  sorella  in  particolare.  Con  un  ospite  così
    intelligente,   quale  ella  giudicava  il  principe  Andréj,  trovava
    necessario mettere in azione tutta la sua arte diplomatica.
    Quando Pierre si avvicinò a loro,  notò che Vera era trascinata  dalle
    sue  parole  e che il principe Andréj,  il che gli accadeva raramente,
    appariva turbato.
    - Cosa ne pensate?   -   chiedeva  Vera  con  il  suo  consueto,  fine
    sorriso.    -    Voi,  principe,  che  siete  tanto  perspicace  e che
    comprendete così facilmente il carattere delle persone,  cosa  pensate
    di Natascia?  Credete che possa essere costante nei suoi affetti?  Che
    possa,  come altre donne,   -  (Vera pensava a se stessa)  -  amare un
    uomo per sempre e restargli per sempre fedele? E' questo, a parer mio,
    il vero amore. Che ne dite, principe?
    -  Conosco  troppo  poco vostra sorella  -  rispose il principe Andréj
    con un sorriso ironico,  sotto  il  quale  cercava  di  nascondere  il
    proprio  turbamento    -    per risolvere una questione così delicata;
    inoltre ho notato che,  quanto meno  una  donna  piace,  tanto  più  è
    costante    -    aggiunse,  e  volse  uno sguardo a Pierre che in quel
    momento si stava avvicinando.
    - Sì,  questo è vero,  principe;  al nostro tempo,   -  proseguì Vera,
    accennando  al  proprio tempo come in genere amano farlo le persone di
    intelligenza limitata,  le quali credono di aver  trovato  e  valutato
    tutte  le  caratteristiche  della  loro  epoca  e sono persuase che le
    qualità degli uomini mutino con i tempi    -    al  tempo  nostro  una
    ragazza gode di tanta libertà che "le plaisir d'être courtisée" spesso
    soffoca in lei il sentimento vero.  "Et Nathalie,  il faut l'avouer, y
    est très sensible"  [40.    Il  piacere  di  essere  corteggiata...  E
    Natascia,  devo  confessarlo,  a  questo è molto sensibile]  -  Questa
    nuova allusione a Natascia fece di nuovo aggrottare le sopracciglia al
    principe Andréj;  egli fece per  alzarsi,  ma  Vera  continuò  con  un
    sorriso ancora più fine:
    -  Credo che nessuna ragazza sia mai stata corteggiata quanto lei,   -
    disse Vera  -  ma sinora nessuno le  è  mai  piaciuto  veramente.  Voi
    sapete,  conte,   -  proseguì rivolta a Pierre  -  che anche il nostro
    simpatico cugino Borìs che era,  sia detto "entre nous"...  molto,  ma
    molto  "dans  le  pays  du  tendre..." [41.  Fra noi...  nel paese del
    tenero...]  -  concluse alludendo a una  carta  dell'amore  allora  in
    voga.
    Il principe Andréj taceva, cupo e accigliato.
    - Voi siete amico di Borìs, nevvero, principe?  -  gli chiese Vera.
    - Sì, lo conosco...
    - Vi avrà certo parlato del suo amore d'infanzia per Natascia...
    -  Ah,  ci fu un amore d'infanzia?   -  chiese a un tratto il principe
    Andréj, arrossendo.
    - Sì,  "vous savez,  entre  cousin  et  cousine  cette  intimité  mène
    quelquefois à l'amour: le cousinage est un dangereux voisinage. N'est-
    ce   pas?"  [42.   Sapete,   tra  cugini  l'intimità  sfocia  talvolta
    nell'amore; cugini pericolosi vicini... Non è vero?].
    - Senza dubbio  -  rispose il principe  Andréj  e  a  un  tratto,  con
    un'animazione  del  tutto innaturale,  cominciò a scherzare con Pierre
    sul suo modo di comportarsi con le sue cinquantenni cugine  di  Mosca;
    poi,  nel  bel  mezzo  del  suo  discorso  scherzoso si alzò e,  preso
    sottobraccio l'amico, lo condusse in disparte.
    - Che c'è?   -  gli domandò Pierre,  che aveva  osservato  stupito  la
    strana   vivacità   dell'amico   e   notato  lo  sguardo  che  questi,
    nell'alzarsi, aveva rivolto a Natascia.
    - Ho bisogno...  ho bisogno di parlarti  -    gli  disse  il  principe
    Andréj.    -  Tu conosci i nostri guanti da donna  -  (alludeva a quei
    guanti massonici che si davano a  ogni  nuovo  confratello  perché  li
    offrisse  alla  donna  amata).    -  Io...  ma no...  ne parleremo più
    tardi...   -  E con uno strano scintillio negli  occhi  e  una  strana
    inquietudine  nei  gesti,  il  principe si avvicinò a Natascia e le si
    sedette accanto. Pierre notò che l'amico le chiedeva qualcosa e che la
    fanciulla gli rispondeva, arrossendo.
    Ma in quel momento Berg si  fece  presso  a  Pierre  e  lo  pregò  con
    insistenza  di prendere parte alla discussione sorta tra il generale e
    il colonnello, relativamente agli avvenimenti spagnuoli.
    Berg era soddisfatto e felice.  Un sorriso di gioia non abbandonava il
    suo volto.  La serata era riuscita a meraviglia e in tutto e per tutto
    simile alle altre cui aveva partecipato.  Tutto,  tutto uguale.  Erano
    uguali le conversazioni delicate delle signore, le partite alle carte,
    il  generale  che  alzava  la  voce  durante il gioco,  il samovàr e i
    pasticcini; mancava però una cosa sola, una cosa che egli aveva sempre
    visto nelle serate e che desiderava imitare: mancava la  conversazione
    ad  alta  voce  tra  gli uomini,  una discussione su qualche argomento
    importante e intellettualmente impegnato.  Il generale  aveva  avviato
    quella discussione, e Berg trascinò Pierre a prendervi parte.


    CAPITOLO 22.

    Il giorno dopo il principe Andréj, invitato dal conte Iljà Andréevic',
    andò a pranzo dai Rostòv, con i quali trascorse l'intera giornata.
    In  casa tutti sapevano per chi venisse il principe,  il quale,  senza
    cercare  di  nasconderlo,  rimase  continuamente  con  Natascia.   Non
    soltanto  nell'animo  della  fanciulla,   sgomenta  eppure  felice  ed
    entusiasta,  ma in tutta la casa regnava  un  vago  sbigottimento  per
    qualcosa  di  importante  che stava per accadere.  La contessa con gli
    occhi tristi, pensosi e seri guardava il principe Andréj mentre questi
    parlava con Natascia,  e timidamente e  con  affettazione  avviava  un
    qualsiasi  insignificante  discorso  non  appena  egli  si  volgeva  a
    guardarla.  Sònja temeva di staccarsi da Natascia e nello stesso tempo
    di  infastidire lei e il principe restando insieme con loro.  Natascia
    impallidiva per l'ansia dell'attesa quando le accadeva di restare  per
    un momento a quattr'occhi con il principe,  il quale la stupiva per la
    sua timidezza.  Ella sentiva che egli aveva qualcosa da dirle,  ma che
    non sapeva decidersi.
    Quando,  la sera,  il principe Andréj se ne fu andato,  la contessa si
    avvicinò a Natascia e le domandò sottovoce:
    - Ebbene?
    - Mamma, in nome di Dio, non domandatemi nulla per ora. E' una cosa di
    cui non bisogna parlare  -  rispose Natascia.
    Ma ciononostante la fanciulla,  quella sera un  po'  commossa  un  po'
    sbigottita,  rimase  a  lungo  coricata  nel letto della madre con gli
    occhi spalancati. Ora le raccontava come egli l'aveva lodata, ora come
    le aveva parlato del progetto di fare un viaggio all'estero,  ora come
    le  aveva  chiesto dove avrebbe trascorso quell'anno l'estate e infine
    come l'aveva interrogata su Borìs.
    - Ma una cosa simile...  una cosa simile...  non  l'ho  mai  provata!-
    diceva.  -  Ho paura, ho tanta paura quando mi trovo sola con lui. Che
    significa?  Significa  che  si  tratta di una cosa seria,  sì?  Mamma,
    dormite?
    - No, anima mia, ho paura anch'io  -  rispondeva la madre.  -  Ma ora,
    va'!
    - E' inutile,  tanto non  dormirò.  Che  assurdità  dormire!  Mammina,
    mammina,  una  cosa  simile  non  mi  è  mai accaduta!   -  riprese la
    fanciulla stupita e sgomenta di fronte a quel sentimento  che  sentiva
    dentro di sé e di cui era consapevole.  -  Lo potevamo mai pensare?
    Le  pareva  di essere innamorata del principe Andréj da quando l'aveva
    visto per la prima volta a Otràdnoe.  Ed era come sbigottita da quella
    strana,  inattesa  fortuna  di aver di nuovo incontrato proprio l'uomo
    che aveva scelto allora (era fermamente convinta di questo) e al quale
    non le pareva di riuscire indifferente. "E, come a farlo apposta, egli
    si trova a Pietroburgo ora  che  ci  siamo  anche  noi...  e  dovevamo
    proprio   incontrarci  a  quel  ballo!   Tutto  ciò  è  destino...   è
    evidentemente voluto dal destino...  Del resto già allora,  quando  lo
    vidi per la prima volta provai un non so che di particolare".
    - E che cos'altro ti ha detto? Dimmi quei versi...  -  chiese la madre
    pensierosa,  interrogandola  sui  versi  che  il principe Andréj aveva
    scritto sull'album di Natascia.
    - Mamma, non è una vergogna che sia vedovo?
    - Smettila,  Natascia.  Prega il buon Dio.  "Les mariages se font dans
    les cieux" [43. I matrimoni si decidono in cielo].
    - Mamma,  cara,  come vi voglio bene,  come tutto è bello!  -  esclamò
    Natascia, piangendo di gioia e di commozione e abbracciando la madre.
    Frattanto il principe Andréj era in casa di Pierre,  al quale  parlava
    del suo amore per Natascia e della sua ferma intenzione di sposarla.

    Quel  giorno,  in  casa della contessa Elen Vassìlevna si svolgeva uno
    dei consueti ricevimenti. Tra gli ospiti erano presenti l'ambasciatore
    di  Francia,   un  principe  del  sangue  che  da  tempo   frequentava
    assiduamente la casa della contessa,  molte dame e numerosi, brillanti
    cavalieri. Pierre era disceso, aveva fatto un giro per le sale e aveva
    stupito gli invitati per l'espressione cupa e triste del viso.
    Sin dalla sera del ballo,  Pierre si sentiva minacciato da  una  delle
    sue crisi di ipocondria contro la quale, con sforzi disperati, cercava
    di  combattere.  Proprio da quando quel principe era diventato assiduo
    di sua moglie,  egli  aveva  inaspettatamente  ricevuto  la  nomina  a
    ciambellano  e  da  allora  aveva  cominciato  a  provare  un senso di
    imbarazzo e di vergogna nel trovarsi in mezzo alla gente e sempre  più
    spesso  gli tornavano alla mente le idee nere di un tempo sulla vanità
    di tutto ciò che è umano. Il sentimento,  sorto in quel periodo tra la
    sua protetta Natascia e il principe Andréj, aveva accresciuto, proprio
    per  il  contrasto  tra la sua condizione e quella dell'amico,  la sua
    tristezza.  Egli cercava tuttavia di non pensare più né a sua  moglie,
    né  a  Natascia,  né  al  principe  Andréj.  Di nuovo tutto gli pareva
    meschino in confronto all'eternità,  di nuovo  gli  si  affacciava  la
    domanda:  "A  che scopo?".  E per giorni e notti intere si imponeva di
    lavorare alle opere massoniche,  sperando  di  allontanare  da  sé  lo
    spirito  maligno.   Pierre,  uscito  dalle  stanze  della  contessa  a
    mezzanotte, era salito nel suo appartamento al piano superiore e, dopo
    avere indossato una logora veste da camera,  si sedette davanti  a  un
    tavolino,  nella  camera  bassa e piena di fumo;  mentre era intento a
    ricopiare certi atti originali scozzesi,  sentì entrare qualcuno.  Era
    il principe Andréj.
    - Ah,  siete voi?  -  chiese Pierre con aria distratta e scontenta.  -
    Come vedete, sto lavorando  -  disse, accennando al suo quaderno,  con
    quell'espressione  con  cui  gli  uomini  infelici guardano il proprio
    lavoro come a un'àncora di salvezza contro le avversità della vita.
    Il principe Andréj,  con un viso raggiante di entusiasmo e di gioia di
    vivere,   si   fermò   davanti   a   Pierre,   e,   senza   accorgersi
    dell'espressione triste dell'amico,  gli sorrise con  l'egoismo  delle
    persone felici.
    - Ebbene, amico mio,  -  gli disse  -  già ieri volevo parlarti, e ora
    sono  venuto  per  farlo.  Non  ho  mai provato nulla di simile.  Sono
    innamorato, mio caro...
    Pierre trasse un profondo sospiro  e  si  abbandonò  pesantemente  sul
    divano accanto a lui.
    - Di Natascia Rostova, vero?  -  domandò.
    - Sì,  sì...  e di chi altri mai?  Non l'avrei mai creduto,  ma questo
    sentimento è più forte di me.  Ieri mi sono tormentato e ho  sofferto,
    ma  per  nulla al mondo vorrei rinunziare a questa sofferenza.  Prima,
    non vivevo. Soltanto ora sento di vivere, ma non posso vivere senza di
    lei. Ma potrà quella fanciulla amarmi? Io sono vecchio, per lei.... Tu
    che ne dici?
    - Io? Io? Che cosa vi dicevo?  -  esclamò Pierre,  alzandosi di scatto
    e  mettendosi  a  camminare  su  e giù per la stanza.   -  L'ho sempre
    pensato. Quella ragazza è un tale tesoro che...  E' una ragazza unica!
    Mio  caro  amico,  ve  ne  prego,  non  cavillate  tanto,  non abbiate
    incertezze.... sposatevi,  sposatevi !  Io sono sicuro che non ci sarà
    uomo più felice di voi.
    - Ma lei?
    - Lei vi ama.
    -  Non  dire  sciocchezze...    -   esclamò il principe,  sorridendo e
    guardando Pierre negli occhi.
    - Vi ama, lo so  -  gridò Pierre quasi con ira.
    - No,  senti...   -  disse il principe Andréj,  trattenendolo  per  un
    braccio.   -  Tu sai in che stato d'animo mi trovo: ho bisogno di dire
    tutto a qualcuno.
    - Suvvia, parlate: sono felice di ascoltarvi  -  rispose Pierre e,  in
    realtà,  la  sua  faccia  era  mutata,  le rughe della fronte si erano
    spianate e con gioia ascoltava le parole del principe  Andréj.  Questi
    pareva un altr'uomo e lo era veramente. Dov'erano il suo tedio, il suo
    disprezzo  per la vita,  le sue disillusioni?  Pierre era l'unico uomo
    dinanzi al quale osava rivelarsi,  e ora gli rivelava tutto quello che
    era chiuso nel cuore. Con facilità e con audacia faceva progetti di un
    lungo  avvenire,  dicendo  come  non  potesse  sacrificare  la propria
    felicità ai capricci di suo  padre,  come  gli  avrebbe  strappato  il
    consenso  a  quelle  nozze  e  lo avrebbe costretto ad amarla;  oppure
    avrebbe anche fatto a meno  del  consenso;  ora  si  stupiva  di  quel
    sentimento  che  si  era  impadronito  del  suo animo come di una cosa
    strana indipendente dalla sua volontà .
    - Non avrei certo creduto a chi mi avesse detto che sarei stato capace
    di amare così  -  continuava il principe Andréj.  -  Il sentimento che
    provo ora è tutt'altra cosa da quello provato una volta.  Per me tutto
    il  mondo  è  diviso in due metà: una è lei e là non c'è che felicità,
    speranza, luce; l'altra metà è tutto il resto, dove lei non c'è e dove
    tutto è triste e buio...
    - Tenebra e buio...  -  ripeté Pierre.  -  Sì, sì, lo capisco.
    - Io non posso non amare  la  luce:  non  è  colpa  mia.  E  mi  sento
    straordinariamente felice.  Mi capisci,  vero? So che condividi la mia
    gioia...
    - Sì,  sì  -  confermò Pierre,  fissando l'amico con  occhi  tristi  e
    commossi.  E  quanto  più  gli appariva luminosa la sorte del principe
    Andréj, tanto più buia gli appariva la propria.


    CAPITOLO 23.

    Per celebrare il matrimonio occorreva il consenso del padre  e  perciò
    il giorno seguente il principe Andréj partì per recarsi da lui.
    Il vecchio accolse la comunicazione del figlio con calma apparente, ma
    con  un  intimo  corruccio.  Egli  non riusciva a capire come qualcuno
    volesse cambiare la sua vita, introdurvi qualche cosa di nuovo, quando
    per lui la vita volgeva ormai al termine. "Me la lascino almeno finire
    come voglio,  e poi padronissimi di  fare  ciò  che  desiderano!",  si
    diceva  il vecchio.  Tuttavia,  con il figlio usò quella diplomazia di
    cui si serviva nei casi  importanti  e  con  tono  di  perfetta  calma
    discusse la cosa.
    Anzitutto  quel matrimonio non era brillante né dal punto di vista del
    parentado, né da quello della ricchezza e della posizione sociale.  In
    secondo luogo, il principe Andréj, non più nella prima giovinezza, era
    di  salute  piuttosto delicata (il principe insisté particolarmente su
    questo  punto),  mentre  la  fanciulla  era  giovanissima.  Infine  il
    principe Andréj aveva un figlio al quale era penoso dare una matrigna.
    -  E per ultimo,- disse il padre,  guardando ironicamente il figlio  -
    ti prego di rimandare la decisione; fa' un viaggio all'estero, cùrati,
    trova, come desideri,  un precettore tedesco per il principe Nikolàj e
    poi, se l'amore, la passione, l'ostinazione saranno ancora così forti,
    spòsala.  Questa  è la mia ultima parola,  ricòrdalo,  l'ultima...   -
    concluse con un tono che denotava chiaramente che nulla avrebbe  fatto
    mutare la sua decisione.
    Il  principe  Andréj capiva molto bene che il padre sperava che i suoi
    sentimenti o quelli della futura fidanzata non  avrebbero  retto  alla
    prova di un anno o che lui stesso,  il vecchio principe, sarebbe morto
    in quel periodo,  e decise di obbedire alla volontà paterna:  fare  la
    domanda di matrimonio e rimandare le nozze all'anno successivo.
    Tre  settimane  dopo  l'ultima  serata  trascorsa  in casa Rostòv,  il
    principe Andréj partì per Pietroburgo.

    Il giorno successivo a quello della confessione  fatta  a  sua  madre,
    Natascia attese Bolkonskij per tutta la giornata, ma egli non venne, e
    non venne l'indomani e neppure il terzo giorno.  Non compariva neppure
    Pierre,  e Natascia,  ignorando che il principe Andréj era partito per
    recarsi dal padre, non riusciva a spiegarsi quell'assenza.
    Così  trascorsero tre settimane.  Natascia non voleva andare in nessun
    posto e, abbattuta e triste,  si aggirava per le stanze come un'ombra.
    Di  sera,  di nascosto da tutti,  piangeva e non andava neppure più da
    sua madre. A ogni momento arrossiva e si irritava. Le pareva che tutti
    fossero al corrente del suo disinganno,  che ridessero  di  lei  o  ne
    avessero compassione.  Aggiunto al suo intenso,  intimo dolore, l'amor
    proprio ferito accresceva la sua sofferenza.
    Un giorno ella entrò dalla contessa: voleva dirle qualcosa  ma,  a  un
    tratto,  scoppiò in lacrime. Era il pianto di un bambino umiliato, che
    ignora il perché di una punizione.
    La contessa cercò di calmare Natascia.  La fanciulla che da  principio
    aveva ascoltato le parole della madre, a un tratto la interruppe:
    - Basta, mamma; io non ci penso e non ci voglio pensare! E così: prima
    è  venuto,  poi  ha  smesso...   -  La voce le tremò,  fu sul punto di
    piangere,  ma si contenne e proseguì con calma:  -  E poi  non  voglio
    assolutamente  sposarmi.  Quell'uomo  mi  fa paura...  Ora sono calma,
    proprio calma...
    Il giorno che seguì questo  colloquio,  Natascia  indossò  un  vecchio
    abito  che  le  era  caro perché le dava una particolare allegria e da
    quel mattino riprese  il  suo  consueto  modo  di  vivere,  che  aveva
    abbandonato dopo la sera del ballo. Dopo aver bevuto il tè, andò nella
    sala  che prediligeva per la sua notevole acustica e cominciò a fare i
    solfeggi. Terminato il primo esercizio,  si sedette in mezzo alla sala
    e  ripeté una frase musicale che le piaceva in modo particolare.  Tese
    gioiosamente l'orecchio al fascino (come se le giungesse inatteso)  di
    cui  quei  suoni,  diffondendosi,  riempivano  la  vasta  sala per poi
    spegnersi lentamente,  e tutto a un tratto si sentì  allegra.  "A  che
    serve pensarci tanto?  Sto bene anche così",  si disse,  e cominciò ad
    andare su e giù per la sala,  camminando sul sonoro piancito di  legno
    non  con  andatura normale,  ma scivolando a ogni passo dal tacco alla
    punta  delle  scarpette  nuove  che  tanto  le  piacevano  e  tendendo
    gioiosamente l'orecchio;  come già al suono della propria voce, a quel
    ritmico battito del tacco,  allo scricchiolio  delle  punte.  Passando
    davanti alla specchiera si guardò.  "Ecco,  sono io!",  pareva dicesse
    l'espressione del suo viso, mentre si osservava. "Ma sì, va benissimo.
    E non ho bisogno di nessuno!".
    Un domestico volle entrare per riordinare qualche cosa nella sala,  ma
    ella non glielo permise e,  rinchiusa la porta dietro di lui, proseguì
    la sua passeggiata.  Quel mattino le aveva riportato lo stato  d'animo
    che  le  era  caro,  costituito  dall'amore  e dall'ammirazione per se
    stessa. "Com'è deliziosa questa Natascia!",  diceva a proposito di sé,
    come  se  ripetesse  le parole di una terza persona di sesso maschile.
    "Ha una bella voce, è giovane e non fa del male a nessuno.  Lasciatela
    soltanto in pace!".  Ma,  per quanto la lasciassero in pace,  essa non
    riusciva ad essere tranquilla,  e se ne accorgeva.  In  anticamera  fu
    aperta la porta di ingresso; qualcuno, nel vestibolo, chiese: "Sono in
    casa?" e si udirono alcuni passi. Natascia si guardava nello specchio,
    ma non si vedeva...  Ascoltava i rumori dell'anticamera. Quando poi si
    vide,  si accorse di essere pallidissima.  Era "lui"!  Ne  era  certa,
    sebbene  avesse sentito a mala pena il suono della sua voce attraverso
    la porta chiusa.
    Bianca in viso e sgomenta, corse in salotto.
    - Mamma,  è venuto Bolkonskij   -  esclamò.   -   Mamma,  è  una  cosa
    terribile, insopportabile! Io non voglio... non voglio più torturarmi!
    Che devo fare?
    La  contessa non fece in tempo a rispondere che già il principe Andréj
    entrava, serio e visibilmente turbato. Non appena scorse Natascia,  il
    suo volto si illuminò.  Baciò la mano alla contessa e alla fanciulla e
    sedette accanto al divano...
    - Da un pezzo non abbiamo avuto il piacere...   -   prese  a  dire  la
    contessa,  ma  il principe Andréj la interruppe,  rispondendo alla sua
    domanda e affrettandosi evidentemente a dire ciò che doveva.
    - Non sono più venuto da voi in questo periodo,  perché sono stato  da
    mio  padre:  avevo  bisogno di parlargli di una cosa molto importante.
    Sono tornato soltanto ieri  notte    -    disse,  dopo  aver  guardato
    Natascia.   -  E ora,  contessa, dovrei parlarvi  -  aggiunse, dopo un
    minuto di silenzio.
    La contessa trasse un profondo sospiro e abbassò gli occhi.
    - A vostra disposizione  -  rispose.
    Natascia sapeva di dover andar via,  ma non poteva muoversi:  qualcosa
    le serrava la gola ed ella guardava fissamente,  in modo scortese,  il
    principe Andréj con gli occhi spalancati.
    "Ora? Subito, subito! No, è impossibile!", pensava.
    Egli la guardò di nuovo,  e quello sguardo  la  convinse  che  non  si
    ingannava. Sì, in quel momento stava per decidersi il suo destino.
    - Va', Natascia, ti farò chiamare  -  le sussurrò la contessa.
    Natascia,  sbigottita,  volse  alla  madre  e  al principe uno sguardo
    implorante e uscì.
    - Sono venuto, contessa, per chiedervi la mano di vostra figlia- disse
    il principe Andréj.
    Il viso della contessa si fece di fiamma, ma ella non rispose subito.
    - La vostra domanda...  -  cominciò poi in tono grave,  mentre egli la
    fissava.    -   La vostra domanda  -  ripeté con un certo imbarazzo  -
    ci riesce gradita e... io,  per conto mio,  l'accolgo e ne sono lieta.
    Anche mio marito... spero... ma tutto dipende da lei...
    -  Glielo  chiederò  io quando avrò avuto il vostro consenso...  Me la
    volete dare?  -  chiese il principe Andréj.
    - Sì  -  rispose la contessa.  Gli tese la  mano  e,  mentre  egli  si
    chinava  a  baciargliela,  ella gli pose le labbra sulla fronte con un
    sentimento misto di tenerezza e di timore.  Desiderava amarlo come  un
    figlio,  ma  sentiva  che per lei egli era come un estraneo,  e questo
    pensiero le faceva paura.
    - Sono certa che mio marito acconsentirà,   -  disse la  contessa-  ma
    vostro padre?
    - Mio padre,  al quale ho comunicato le mie intenzioni,  ha posto come
    condizione assoluta al suo consenso che il matrimonio non abbia  luogo
    se non tra un anno.  Ecco quanto volevo dirvi  -  concluse il principe
    Andréj.
    - E' vero che Natascia è ancora tanto giovane,  ma una dilazione  così
    lunga...
    -  E'  impossibile  fare  diversamente  -  rispose il principe Andréj,
    sospirando.
    - Ora ve la mando  -  disse la contessa, e uscì dalla stanza.
    - Signore,  abbi pietà di noi  -  ripeteva mentre cercava  la  figlia.
    Sònja le disse che Natascia era nella sua camera.  La trovò seduta sul
    letto, pallida, con gli occhi aridi;  si faceva rapidi segni di croce,
    mentre, fissando le immagini sacre, mormorava qualche cosa. Alla vista
    della madre, balzò in piedi e si precipitò verso di lei.
    - Che c'è, mamma, che c'è?
    -  Va',  va',  da  lui.  Egli  ha  chiesto la tua mano  -  le disse la
    contessa in tono che a Natascia parve  freddo.    -    Va'...  va'...-
    ripeté  la madre con tristezza e con accento di rimprovero,  guardando
    la figlia che si allontanava correndo. Poi trasse un profondo sospiro.
    Natascia non ricordò mai come fosse entrata  nel  salotto.  Aperta  la
    porta  e veduto il principe,  si fermò.  "E' possibile",  pensò,  "che
    questo uomo estraneo sia diventato "tutto"  per  me?",  domandò  a  se
    stessa.  "Sì,  tutto! Lui solo, ormai, mi è più caro di qualsiasi cosa
    al mondo!". Il principe Andréj le si avvicinò con gli occhi bassi.
    - Vi ho amata sin dal  primo  momento  in  cui  vi  ho  veduta.  Posso
    sperare?
    La  guardò,  e  l'espressione  grave e appassionata del viso di lei lo
    colpì. Quel viso diceva: "Perché chiederlo? Perché dubitare di ciò che
    non è possibile ignorare? Perché parlare,  quando non si può esprimere
    a parole ciò che si sente?".
    Natascia gli si avvicinò e si fermò. Egli le prese una mano la baciò.
    - Mi amate?
    - Sì, sì!  -  rispose quasi con stizza Natascia; sospirò profondamente
    una volta, due, poi sempre più spesso sino a che scoppiò in pianto.
    - Perché? Che cosa avete?
    - Ah! sono tanto felice...  -  rispose la fanciulla, sorridendo tra le
    lacrime;  si  chinò verso di lui,  esitò un attimo come chiedendosi se
    potesse farlo e lo baciò.
    Il principe Andréj le teneva la mano,  la guardava negli occhi  e  non
    ritrovava più nella propria anima l'amore di prima.  Tutto a un tratto
    era avvenuto dentro di lui un mutamento: scomparso l'incanto poetico e
    misterioso del desiderio,  era rimasta la compassione per la debolezza
    della donna e della bambina, un senso di timore davanti alla dedizione
    e  alla fiducia di lei,  e la coscienza,  penosa e insieme lieta,  del
    dovere che ormai lo legava alla fanciulla per  sempre.  Il  sentimento
    attuale,  quantunque  non fosse più poetico e luminoso come prima,  si
    era fatto più serio e più forte.
    - Vi ha detto "maman" che...  la cosa non potrà avvenire prima  di  un
    anno?    -  domandò il principe Andréj,  continuando a guardarla negli
    occhi.
    "Possibile che io,  la fanciulla-bambina,  come  tutti  mi  chiamano",
    pensava Natascia,  "possibile che io, d'ora innanzi, sia "una moglie",
    l'eguale  di  quest'uomo  estraneo,  caro,  intelligente,   rispettato
    persino  da  mio  padre?  Possibile che sia vero?  Vero che adesso non
    posso più scherzare con la vita,  che adesso sono una persona  grande,
    responsabile delle mie parole e delle mie azioni?  Già, ma che cosa mi
    ha domandato?".
    - No  -  rispose, senza aver capito ciò che egli le aveva chiesto.
    - Perdonatemi,   -  disse il principe Andréj  -   ma  voi  siete  così
    giovane,  e  io ho già tanta esperienza della vita.  Ho paura per voi.
    Voi non mi conoscete.
    Natascia ascoltava attentamente,  cercando di capire il significato di
    quelle parole, ma non vi riusciva.
    -  Per quanto mi sia penosa questa attesa,   -  riprese il principe  -
    che allontana di  un  anno  la  mia  felicità,  voi  in  questo  tempo
    guarderete bene dentro di voi.  Fra un anno vi chiederò se mi vorreste
    dare la felicità;  ma voi siete libera.  La  nostra  promessa  resterà
    segreta e,  se vi persuadeste di non amarmi o di amare un altro...   -
    proseguì il principe Andréj con un sorriso innaturale.
    - Perché mi parlate così?   -  lo interruppe  Natascia.    -    Sapete
    benissimo  che  vi  amo  sin  dal  giorno  in  cui  veniste a Otràdnoe
    continuò, fermamente convinta di dire la verità.
    - In un anno vi conoscerete meglio...
    - Un anno!  -  esclamò a un tratto Natascia,  la quale soltanto allora
    aveva capito che il matrimonio veniva rinviato di un anno.   -  Perché
    un anno,  un lungo anno?   -  Il principe Andréj prese  a  spiegare  i
    motivi di tale rinvio. Ma Natascia non lo ascoltava.
    - Non è possibile fare diversamente?  -  chiese.
    Il  principe  Andréj  non  rispose,  ma  il  suo  viso  diceva che era
    impossibile mutare tale decisione.
    - Che cosa terribile!  No,  è troppo terribile,  troppo!   -   esclamò
    Natascia,  e  di nuovo si mise a singhiozzare.   -  Io morirò se dovrò
    aspettare un anno: non è possibile,  no...  è  troppo  terribile!    -
    Fissò  il  suo  fidanzato  e  scorse sul viso di lui un'espressione di
    stupore e di pietà.
    - No, no... Farò tutto!   -  disse,  trattenendo le lacrime.   -  Sono
    così felice!
    Il  padre  e  la madre entrarono nel salotto e diedero ai fidanzati la
    loro benedizione.
    Da quel giorno il principe Andréj prese a frequentare  come  fidanzato
    la casa dei Rostòv.


    CAPITOLO 24.

    Non  vi  fu  fidanzamento  ufficiale  e  non  si  disse  a nessuno che
    Bolkonskij e Natascia si erano scambiati promessa  di  matrimonio.  Su
    questo  punto il principe Andréj insisté molto.  Diceva che,  dato che
    egli era la causa del ritardo delle nozze,  doveva sopportarne da solo
    il peso.  Diceva che con la parola data egli si era legato per sempre,
    ma che non voleva legare allo stesso  momento  Natascia  e  desiderava
    lasciarle assoluta libertà.  Se essa, dopo sei mesi, avesse sentito di
    non amarlo,  sarebbe stata in pieno diritto di riprendersi la parola e
    di  rifiutargli  la  sua  mano.  E' inutile dire che Natascia e i suoi
    genitori non volevano sentirlo parlare a quel  modo,  ma  il  principe
    Andréj  insisteva.  Si  recava  ogni giorno in casa Rostòv,  ma non si
    comportava con Natascia come un fidanzato: le  dava  del  "voi"  e  si
    limitava a baciarle la mano.  Tra il principe Andréj e Natascia,  dopo
    la domanda di matrimonio,  si stabilirono rapporti  assai  diversi  da
    quelli  di  prima:  rapporti  semplici  e amichevoli.  Pareva che sino
    allora non si fossero conosciuti.  Entrambi amavano ricordare come  si
    considerassero  a  vicenda  quando non erano ancora "niente" l'uno per
    l'altra;  ora si sentivano entrambi due persone completamente diverse:
    allora prive di naturalezza,  adesso semplici e sincere.  In famiglia,
    da principio,  tutti provavano un certo imbarazzo nei rapporti con  il
    principe  Andréj;  egli  appariva  un  uomo  di  un altro ambiente,  e
    Natascia per parecchio tempo dovette darsi da fare per  familiarizzare
    i  suoi  con  il  principe  Andréj,  affermando  con orgoglio che egli
    pareva, sì,  un uomo diverso dagli altri ma che,  in realtà,  era come
    tutti,  che  essa  non  aveva alcun timore di lui e che nessuno doveva
    averne.  Dopo un po' di tempo tutti,  in famiglia,  si  abituarono  al
    principe  e  senza alcuna soggezione ripresero la vita di prima,  alla
    quale anch'egli prendeva  ora  parte.  Sapeva  parlare  con  il  conte
    dell'amministrazione  dei  poderi,  di  vestiti  con la contessa e con
    Natascia,  dell'album e dei lavori  al  telaio  con  Sònja.  Spesso  i
    Rostòv,  discorrendo  tra  di  loro  o  anche in presenza del principe
    Andréj, si meravigliavano di come tutto ciò fosse accaduto,  e come di
    tutto  ci  fossero  stati  presagi  evidenti:  l'arrivo del principe a
    Otràdnoe, la loro venuta a Pietroburgo, la somiglianza tra il principe
    Andréj e Natascia, somiglianza che la bambinaia aveva notato sin dalla
    prima visita del principe,  l'alterco nel 1805 tra Andréj e Nikolàj  e
    molti altri segni di quanto in seguito era accaduto.
    In casa regnava quella noia poetica e silenziosa che sempre circonda i
    fidanzati.  Spesso,  riuniti nel salotto, tutti tacevano. Talvolta gli
    altri si alzavano e se ne  andavano  lasciando  sola  la  coppia  che,
    tuttavia,  continuava  a  tacere.  Di rado i fidanzati parlavano della
    loro esistenza futura,  alla quale il principe Andréj aveva  timore  e
    vergogna  di accennare.  Natascia condivideva questo sentimento,  come
    tutti gli altri di lui, che sempre indovinava.  Un giorno ella fece al
    principe alcune domande a proposito del suo figliuoletto.  Il principe
    arrossì,  cosa che ora gli accadeva spesso e che  a  Natascia  piaceva
    molto, e rispose che il piccolo non sarebbe vissuto con loro.
    - Perché?  -  chiese Natascia, stupita.
    - Non posso portarlo via al nonno e poi...
    -   Come  gli  vorrei  bene!     -    esclamò  Natascia,   indovinando
    immediatamente il pensiero di lui.   -  Ma capisco: voi non volete che
    sorga alcun motivo di accusa contro di noi.
    Il  vecchio conte si avvicinava qualche volta al giovane principe,  lo
    baciava e gli chiedeva  consigli  sull'educazione  di  Pétja  o  sulla
    carriera  di  Nikolàj.  La  vecchia  contessa sospirava,  guardandoli.
    Sònja,  timorosa di essere di troppo,  cercava sempre qualche pretesto
    per lasciare soli i fidanzati, mentre essi non ne sentivano affatto il
    bisogno.  Quando  il  principe  Andréj parlava (egli sapeva raccontare
    molto bene),  Natascia lo ascoltava con orgoglio;  quando parlava lei,
    notava   con   timore   e  insieme  con  gioia  che  egli  la  fissava
    attentamente,  come scrutandola.  E allora,  perplessa,  si domandava:
    "Che cosa cerca in me?  Che cosa vuole scoprire con il suo sguardo?  E
    se in me non ci fosse nulla di ciò che il suo sguardo cerca?". Qualche
    volta  le  accadeva  di  trovarsi  in  uno  di  quegli  stati  d'animo
    pazzamente  gioiosi  che le erano propri,  e allora amava molto sentir
    ridere il principe e guardare come egli rideva.  Egli rideva di  rado,
    ma, quando ciò accadeva si abbandonava tutto al suo riso e ogni volta,
    dopo quelle risate, Natascia si sentiva più vicina a lui. La fanciulla
    sarebbe  stata  completamente  felice  se  il  pensiero della prossima
    separazione, ormai vicina, non l'avesse atterrita.
    Alla vigilia della sua partenza da  Pietroburgo,  il  principe  Andréj
    condusse  con  sé  Pierre  il quale,  dalla sera del ballo non era più
    stato dai Rostòv. Pierre sembrava smarrito e confuso.  Conversò con la
    contessa, mentre Natascia e Sònja andarono a sedersi al tavolino degli
    scacchi,  invitando  così il principe Andréj ad avvicinarsi,  cosa che
    egli fece subito.
    - Conoscete Bezuchov già da parecchio tempo, non è vero?  domandò.   -
    Vi piace?
    - Sì, è molto simpatico, ma tanto buffo!
    E, come sempre quando parlava di Pierre, Natascia si mise a raccontare
    degli  aneddoti sulla sua distrazione,  parecchi dei quali,  tuttavia,
    erano inventati.
    - Sappiate che gli ho confidato il nostro  segreto    -    disse  alla
    fanciulla il principe Andréj.   -  Lo conosco sin dall'infanzia: ha un
    cuore d'oro,  perciò vi prego di una cosa,  Natascia  -   disse  a  un
    tratto  assumendo un'aria seria.   -  Io parto e sa Iddio che cosa può
    accadere. Voi potreste cessare di am... Sì, lo so che non devo parlare
    di questo... Ma qualsiasi cosa possa accadere,  quando io non sarò più
    qui...
    - Che cosa potrebbe accadermi?
    -  Qualsiasi  disgrazia possa accadere,   -  ripeté il principe  -  vi
    prego,  "mademoiselle"  Sophie,  di  rivolgervi  soltanto  a  lui  per
    consiglio e per aiuto.  E' l'uomo più distratto e più buffo del mondo,
    ma ha un cuore d'oro.
    Né il padre,  né la madre,  né Sònja,  né lo  stesso  principe  Andréj
    avrebbero   potuto   prevedere  l'effetto  che  ebbe  su  Natascia  la
    lontananza del fidanzato. Rossa e agitata, con gli occhi asciutti,  si
    aggirava  tutto  il  giorno  per  la casa,  occupandosi delle cose più
    insignificanti,  come se non capisse che cosa le  stava  dinanzi.  Non
    pianse  neppure  nel  momento  in  cui egli,  salutandola per l'ultima
    volta, le baciò la mano.
    - Non partite!   -  seppe dire soltanto,  ma  con  una  voce  tale  da
    indurlo  a  pensare  se in realtà non dovesse rimanere,  e che da quel
    momento gli rimase a lungo impressa nella memoria.  Non pianse neppure
    quando  egli  fu  partito,  ma parecchi giorni rimase chiusa in camera
    sua,  senza  piangere,  senza  interessarsi  di  nulla  e  limitandosi
    soltanto a dire di tanto in tanto:
    - Mio Dio, perché è partito?
    Ma due settimane dopo la partenza di lui, con molta sorpresa di quelli
    che le stavano attorno,  si riscosse dalla sua malattia morale e tornò
    qual era stata prima,  ma soltanto con una diversa fisionomia  morale,
    così come i fanciulli si alzano dal letto con un altro viso,  dopo una
    lunga malattia.


    CAPITOLO 25.

    Durante quell'ultimo anno, dopo la partenza del figlio, la salute e il
    carattere del principe Nikolàj Andréevic' Bolkonskij  si  erano  assai
    indeboliti.  Egli era diventato ancora più irritabile di prima e tutti
    i  suoi  sfoghi  di  collera  senza  motivo   si   riversavano   sulla
    principessina Màrija.  Pareva che egli cercasse con cura tutti i punti
    più sensibili e dolenti di lei per tormentarla nel modo  più  crudele.
    La  principessina Màrija aveva due grandi passioni e perciò due gioie:
    il nipotino Nikòluska e la religione,  queste  due  passioni  erano  i
    prediletti  argomenti  del  principe  per  le  sue  invettive e le sue
    canzonature.  Di qualsiasi  cosa  si  parlasse,  immancabilmente  egli
    riusciva  a  portare  il  discorso  sulle  superstizioni delle vecchie
    zitelle o sulle moine con le quali si viziavano i bambini.
    "Tu vorresti fare di lui,  di Nikòluska,  una vecchia zitella come te,
    ma  hai torto: il principe Andréj ha bisogno di un figlio e non di una
    zitelluccia",  le  diceva.   Oppure,   rivolgendosi  a  "mademoiselle"
    Bourienne,  le  chiedeva  che  cosa  pensasse dei nostri "pop" e delle
    nostre icone e ci scherzava sopra...
    Di continuo offendeva  crudelmente  la  principessina  Màrija,  ma  la
    figlia lo perdonava senza sforzo. Poteva mai suo padre essere in torto
    verso di lei? Poteva egli che, nonostante tutto  -  e lei lo sapeva  -
    le voleva molto bene,  essere ingiusto? E poi, cos'era la giustizia? A
    questa superba parola, giustizia,  la principessina Màrija non pensava
    mai. Tutte le complesse leggi degli uomini si riducevano per lei a una
    sola,  chiarissima:  la  legge  dell'amore  e del sacrificio dataci da
    Colui che, pur essendo Dio,  soffrì con amore per l'umanità.  Che cosa
    poteva  importare  a  lei della giustizia o della iniquità degli altri
    uomini? A lei bastava soffrire e amare, e questo appunto faceva.
    Durante  l'inverno  giunse  a  Lissia-Gori  il  principe  Andréj.  Era
    allegro,  buono,  affettuoso  come la principessina Màrija non l'aveva
    visto da molto tempo.  Ella intuì che qualcosa doveva essere  accaduto
    al  fratello  il  quale,  però,  non le parlò del suo amore.  Prima di
    partire,  ebbe un lungo colloquio con il  padre,  e  la  principessina
    Màrija  notò,  prima  che il fratello andasse via,  che padre e figlio
    erano scontenti l'uno dell'altro.
    Poco dopo la partenza del fratello, la principessina Màrija scrisse da
    Lissia-Gori a Pietroburgo,  alla sua  amica  Julie  Karàgina,  che  la
    principessina  sognava  (come  sempre sognano le fanciulle) di dare in
    moglie a suo fratello Andréj,  e che in quel tempo era in lutto per la
    morte di un fratello, caduto in Turchia.
    "Mia cara,  dolce amica Julie, si vede che il dolore è la nostra sorte
    comune;   la  vostra  perdita  è  così  terribile  che  io  non  posso
    spiegarmela se non come un segno della grazia di Dio che vuole mettere
    alla prova,  poiché vi ama, voi e vostra madre. Ah, mia cara amica, la
    religione,  soltanto la religione,  ci può,  non  dico  consolare,  ma
    salvare  dalla  disperazione;  essa  sola  ci  può spiegare quello che
    all'uomo,  senza il suo aiuto,  riesce  incomprensibile:  perché,  per
    quale scopo,  persone buone,  di animo nobile, che sanno trovare nella
    vita la felicità, che non solo non hanno mai fatto del male a nessuno,
    ma sono anzi indispensabili alla felicità degli altri,  siano chiamate
    a Dio mentre altre cattive,  inutili,  nocive o tali da essere un peso
    per sé e per il prossimo,  restino in vita.  La prima morte,  a cui ho
    assistito,  e  che  non dimenticherò mai più,  la morte della mia cara
    cognata, ha lasciato in me tale impressione. Proprio come voi chiedete
    al destino perché doveva morire il vostro ottimo fratello,  così io ho
    domandato perché sia morta quell'angelica Liza, la quale, non solo non
    aveva mai fatto nulla di male ad alcuno,  ma non aveva mai nutrito nel
    suo cuore sentimenti che non fossero di bontà. Ebbene, amica mia, sono
    trascorsi da  quel  giorno  cinque  anni  e  io,  con  la  mia  povera
    intelligenza,  incomincio già a capire perché sia dovuta morire e come
    quella morte sia stata  soltanto  un  segno  dell'infinita  bontà  del
    Creatore,   i   cui  disegni,   che  noi  per  la  maggior  parte  non
    comprendiamo,  altro non sono se non manifestazioni del  Suo  infinito
    amore  verso  le proprie creature.  Io penso spesso che ella era forse
    troppo angelicamente innocente per avere la forza di adempiere ai suoi
    doveri di madre.  Era impeccabile come giovane moglie,  non so  se  lo
    sarebbe stata altrettanto come madre.  E ora non solamente ha lasciato
    a noi e in particolar modo al principe Andréj il più puro ricordo e il
    più dolce rimpianto,  ma lassù avrà avuto quel posto che  io  non  oso
    sperare  per  me.  Ma,  per non parlare di lei soltanto,  quella morte
    prematura e tremenda ha esercitato su me e  su  mio  fratello  il  più
    benefico  influsso.  Allora,  al  momento della perdita,  non potevano
    venirmi questi pensieri che avrei  scacciato  con  orrore,  ma  adesso
    tutto  mi  è  chiaro  e  indubbio.  Vi scrivo queste cose,  amica mia,
    soltanto per convincervi della verità del Vangelo, che costituisce per
    me una norma  di  vita:  non  cade  neppure  un  capello  dalla  testa
    dell'uomo  senza la volontà di Dio.  E poiché la Sua volontà è guidata
    soltanto da un immenso amore verso di noi,  tutto ciò  che  ci  accade
    avviene sempre per il nostro bene.
    "Voi  mi  domandate  se passeremo a Mosca il prossimo inverno.  Non lo
    credo e non lo desidero,  nonostante la grande gioia che proverei  nel
    rivedervi. Vi stupirete se vi dico che non torneremo a Mosca per causa
    del Buonaparte?  Ed ecco perché: la salute di mio padre va peggiorando
    a vista d'occhio;  egli non può sopportare di essere contraddetto,  si
    irrita  con  molta  facilità e la sua irritabilità,  voi lo sapete,  è
    suscitata  soprattutto  dalle  questioni  politiche.   Egli  non   può
    ammettere  che  Napoleone  tratti  da  pari a pari con tutti i sovrani
    d'Europa e in special modo con  il  nostro  imperatore,  nipote  della
    grande  Caterina!  Sapete  già  che io sono assolutamente indifferente
    alle questioni politiche,  ma dalle parole di mio  padre  e  dai  suoi
    discorsi  con Michaìl Ivànovic' sono al corrente di ciò che accade nel
    mondo e in special modo degli onori accordati al Buonaparte,  il quale
    soltanto  a  Lissia-Gori,  su  tutto il globo terrestre,  pare non sia
    ancora riconosciuto come un grand'uomo né tanto meno  come  imperatore
    dei  Francesi.  Tutto questo mio padre non lo può tollerare e pertanto
    mi pare che,  innanzi tutto,  a causa delle sue vedute  politiche,  ma
    anche in previsione delle discussioni incresciose che sorgerebbero per
    la  sua  abitudine  di  esprimerle con franchezza con chiunque,  parli
    malvolentieri di un viaggio a Mosca.  I vantaggi  che  la  sua  salute
    potrebbe  trarre  dalle  cure  sarebbero  annullati dalle discussioni,
    inevitabili,  sul Buonaparte.  In ogni caso,  la decisione verrà presa
    tra non molto.  La nostra vita domestica procede come al solito, se si
    eccettua la presenza tra noi di mio fratello Andréj. Egli, come già vi
    ho detto,  è molto mutato in questi ultimi tempi.  Dopo il gran dolore
    provato,  soltanto  quest'anno si è ripreso moralmente ed è ridivenuto
    quale lo conoscevo da bambino: buono,  affettuoso,  con un cuore d'oro
    impareggiabile.  A  quanto  pare,  ha capito che per lui la vita non è
    finita.   Ma  il  mutamento  morale  è  accompagnato  da  un  notevole
    indebolimento fisico.  Si è fatto più magro ed è più nervoso di prima.
    Ho paura per lui e sono contenta  che  abbia  deciso  di  fare  questo
    viaggio  all'estero,   che  i  dottori  gli  avevano  da  molto  tempo
    consigliato.  Spero che si ristabilirà.  Mi scrivete che a Pietroburgo
    si  parla di lui come di uno dei più attivi,  più colti e intelligenti
    giovani della città.  Perdonate il  mio  orgoglio  di  sorella  ma  in
    proposito  non  ho  mai avuto dubbi.  Non è possibile dire quanto bene
    egli abbia fatto qui a tutti,  a cominciare dai suoi contadini sino ai
    nobili.  A  Pietroburgo  ha  trovato  soltanto  ciò  che meritava.  Mi
    meraviglia invece del modo con cui le dicerie giungono da  Pietroburgo
    a  Mosca  e  soprattutto  così  infondate  come  quella  alla quale mi
    accennate relativa al suo prossimo matrimonio con la giovane  Rostova.
    Non credo che Andréj si risposi più e,  tanto meno, che si proponga di
    sposare quella ragazza.  E vi dico il  motivo:  prima  di  tutto  che,
    sebbene  parli  assai di rado della moglie morta,  il dolore di quella
    perdita è ancora troppo profondamente radicato nel suo cuore perché si
    decida a sostituirla e a dare una matrigna al nostro  piccolo  angelo;
    in  secondo  luogo  perché,  a  quanto  ne  so io,  quella ragazza non
    appartiene al genere dl donne che possano piacere al principe  Andréj.
    Non credo che mio fratello l'abbia scelta per moglie e, a voler essere
    sincera,  non lo desidero. Ma ho chiacchierato già troppo: ho riempito
    un secondo foglio. Addio, mia cara amica,  che Iddio vi tenga sotto la
    Sua santa e potente protezione. La mia amica "mademoiselle" Bourienne,
    vi manda un bacio
    Marie".


    CAPITOLO 26.

    Verso  la  metà  dell'estate,  la principessina Màrija ricevette dalla
    Svizzera un'inattesa lettera  del  fratello,  con  la  quale  egli  le
    comunicava  una  strana,  inaspettata  notizia.  Il principe Andréj le
    annunziava il suo fidanzamento  con  Natascia  Rostova.  Da  tutta  la
    lettera  spirava  un  amoroso entusiasmo per la fidanzata e una tenera
    fiduciosa amicizia per la sorella.  Le scriveva di non aver mai  amato
    come  allora  e  di  comprendere  e conoscere la vita soltanto allora;
    pregava la sorella di perdonarlo  se,  durante  la  sua  permanenza  a
    Lissia-Gori,  non le aveva detto nulla della sua decisione, sebbene ne
    avesse parlato con il padre. Non le aveva detto nulla perché era certo
    che ella avrebbe interceduto presso il padre  affinché  desse  il  suo
    consenso  e,  senza  raggiungere  lo  scopo,  lo avrebbe irritato e di
    conseguenza le sarebbe toccato  sopportare  il  peso  del  malcontento
    paterno.   "Del  resto",  egli  scriveva,  "la  cosa  allora  non  era
    definitivamente  decisa  come  adesso.  Nostro  padre,  quando  gliene
    parlai,  mi fissò il termine di un anno ed ecco,  sono ormai trascorsi
    sei mesi e io sono più che mai fermo nel mio proposito.  Se  i  medici
    non  mi  trattenessero  qui  per le cure delle acque,  io sarei già in
    Russia, ma il mio ritorno deve essere prorogato di altri tre mesi.  Tu
    mi conosci e sai quali siano i miei rapporti con nostro padre.  Io non
    ho bisogno di nulla da lui, sono stato e sarò sempre indipendente,  ma
    agire  contro  la  sua volontà,  suscitare la sua ira mentre ormai gli
    resta forse poco tempo da rimanere con  noi,  distruggerebbe  in  gran
    parte la mia felicità. Scriverò ora una lettera anche a lui e prego te
    di  scegliere  il momento opportuno per consegnargliela e di farmi poi
    sapere come egli consideri attualmente la cosa e se io  possa  sperare
    che acconsenta ad abbreviare di tre mesi il termine fissato".
    Dopo   lunghe   esitazioni,   molti   dubbi  e  molte  preghiere,   la
    principessina  Màrija  consegnò  la  lettera  al  padre.   Il   giorno
    successivo, il vecchio principe le disse tranquillamente:
    -  Scrivi  a  tuo  fratello che aspetti che io sia morto...  Non dovrà
    attendere a lungo: presto sarà libero.
    La principessina avrebbe voluto ribattere,  ma  il  padre  non  glielo
    permise e, alzando sempre di più la voce, aggiunse:
    - Sposati,  sposati, caro... La parentela è buona! Gente intelligente,
    eh? Gente ricca, eh? Sì, una buona matrigna per Nikòluska... Scrivigli
    che si sposi anche domani... Lei diventerà la matrigna di Nikòluska, e
    io diventerò il marito della Bourienne! Ah,  ah,  ah!  Così neppur lui
    resterà senza matrigna! Una cosa sola, però: non voglio altre donne in
    casa  mia.  La sposi pure,  ma se ne vada a vivere altrove,  per conto
    suo... E chi sa che non te ne vada anche tu a vivere con lui,  eh?   -
    seguitò,  rivolgendosi  alla  principessina  Màrija.   -  Va' con Dio,
    buona fortuna, buona fortuna!
    Dopo quella sfuriata il principe non parlò più della faccenda,  ma  la
    collera  repressa  per  la debolezza d'animo del figlio si manifestava
    nei suoi rapporti con la principessina Màrija.  Agli antichi  pretesti
    di  canzonatura ne aggiunse uno nuovo: il discorso sulla matrigna e le
    cortesie a "mademoiselle" Bourienne.
    - E perché non dovrei sposarla?   -  diceva alla figlia.   -   Sarebbe
    una bella principessa!
    E  negli  ultimi  tempi,  con perplessità e stupore,  la principessina
    Màrija notò che  il  padre  cominciava  realmente  a  permettere  alla
    francese una maggiore familiarità.  La principessina Màrija scrisse al
    fratello,  descrivendogli il modo con cui era  stata  accolta  la  sua
    lettera  dal  padre,  ma  nello  stesso  tempo  lo confortò facendogli
    sperare che sarebbe riuscita a fargli accettare quell'idea.
    Nikòluska e  la  sua  educazione,  Andréj  e  la  religione  erano  la
    consolazione e la gioia della principessina Màrija; ma oltre a questo,
    poiché  ogni  creatura  umana  ha bisogno di speranze sue proprie,  in
    fondo all'anima della fanciulla si celavano un sogno  e  una  speranza
    che  costituivano il conforto principale della sua vita.  Quel sogno e
    quella speranza consolatori le venivano dalla sua "gente di Dio",  dai
    pellegrini  che la visitavano di nascosto dal principe.  Quanto più la
    principessina Màrija viveva,  quanto più sperimentava e  osservava  la
    vita, tanto più si stupiva della cecità di coloro che cercano quaggiù,
    sulla terra, il piacere e la felicità, che lavorano, soffrono, lottano
    e  si  fanno  del  male  a  vicenda  per  raggiungere  questa felicità
    impossibile,  immaginaria peccaminosa.  "Il principe Andréj  amava  la
    moglie,  ella è morta;  non gli basta, ed ecco che cerca di trovare la
    felicità con un'altra donna.  Il padre non vuole perché  desidera  per
    lui  un  matrimonio  più  brillante,  più  ricco...  E  tutti lottano,
    soffrono,  tormentano gli altri,  rovinano la loro anima immortale per
    raggiungere un bene effimero.  E non ci basta saperlo,  ma Cristo,  il
    figliuolo di Dio,  è sceso sulla terra per dire che questa nostra vita
    è la vita di un istante,  è una prova...  eppure noi siamo attaccati a
    questa vita, nella quale ci illudiamo di trovare la felicità. Come mai
    nessuno lo ha capito?",  pensava la  principessina  Màrija.  "Nessuno,
    all'infuori  di  questi  disprezzati poverelli di Dio che con il sacco
    sulle spalle,  vengono da  me  passando  per  la  scala  di  servizio,
    terrorizzati al pensiero di capitare sotto gli occhi del principe, non
    già  per il timore di essere maltrattati,  ma per evitare di indurlo a
    peccare.  Lasciare la famiglia,  la patria,  tutte  le  preoccupazioni
    derivanti  dai  beni  terreni  per  non  attaccarsi a nessuno di essi,
    andare raminghi e vestiti di cenci,  sotto un altro nome,  da un luogo
    all'altro, senza far male al prossimo, e pregando per i propri simili,
    sia  per  coloro  che  li scacciano sia per coloro che pietosamente li
    accolgono;  al di sopra di questa verità e di questa vita  non  esiste
    altra verità, non esiste altra vita!"
    C'era,  tra  quelle  pellegrine,  una certa Fedòssjuska,  una piccola,
    tranquilla vecchietta cinquantenne, butterata dal vaiolo, che da oltre
    trent'anni  andava  in  giro   scalza,   portando   il   cilicio.   La
    principessina Màrija le voleva particolarmente bene. Un giorno, mentre
    nella  stanza  quasi buia rischiarata soltanto da una piccola lampada,
    Fedòssjuska raccontava la propria vita,  la  principessina  Màrija  fu
    folgorata  dal pensiero che soltanto Fedòssjuska aveva trovato il vero
    cammino della vita, e si sentì presa dal desiderio di andare anch'ella
    a pellegrinare.  Quando la vecchietta si fu ritirata per  dormire,  la
    principessina Màrija rifletté lungamente e concluse che, per quanto la
    cosa fosse strana,  doveva anch'ella farsi pellegrina.  Confidò la sua
    intenzione soltanto al suo confessore,  il monaco Akimfi,  e il monaco
    la  approvò.  Sotto  il pretesto di un dono da fare ai pellegrini,  la
    principessina Màrija si  preparò  un  abito  completo  da  pellegrina:
    camicia,  calzature di scorza di tiglio,  caffettano, scialletto nero.
    Spesso, avvicinandosi allo stipo che conteneva le sue cose segrete, la
    principessina si fermava dubbiosa,  chiedendosi  se  non  fosse  ormai
    venuto i momento di realizzare il proprio desiderio.
    Spesso,  ascoltando  i pellegrini,  ella si infiammava a quei discorsi
    semplici,  per loro quasi meccanici,  ma densi  per  lei  di  profondo
    significato, tanto che molte volte fu sul punto dl abbandonare tutto e
    di  fuggire  da  casa.  Con  il pensiero già si vedeva in compagnia di
    Fedòssjuska,  coperta da una rozza e povera veste,  con il bordone tra
    le  mani  e la bisaccia,  camminare lungo una strada polverosa,  senza
    invidia,  senza  amore  terreno,  senza  desideri,   da  un  santuario
    all'altro  e  giungere  infine  là  dove non vi sono né tristezze,  né
    sospiri, ma eterna gioia e beatitudine eterna.
    "Arriverò in un luogo,  pregherò e prima ancora di a abituarmi a  quel
    luogo e di amarlo,  me ne andrò altrove, più lontano, sino a quando le
    gambe mi reggeranno;  poi mi stenderò a terra e  morirò  in  un  posto
    qualsiasi  per  giungere  finalmente  a quel porto eterno e tranquillo
    dove  non  esistono  né   tristezze   né   sospiri...",   pensava   la
    principessina Màrija.
    Ma poi,  vedendo suo padre e,  soprattutto,  il piccolo Koko,  sentiva
    venir meno la forza del suo proposito,  piangeva di nascosto e sentiva
    di  essere  una  peccatrice:  amava,  più  di Dio,  suo padre e il suo
    nipotino.



    NOTE.

    N.  1.  Michaìl Michàjlovic' Speranskij (1772-1839),  uomo politico di
    tendenze  liberali;  ebbe  notevole  importanza  durante il periodo di
    riavvicinamento tra Russia e Francia.
    N.  2.  Viktor Pàvlovic' Kociubéj (1768-1834),  uomo  politico  russo.
    Ambasciatore a Costantinopoli,  fu nominato vice cancelliere dallo zar
    Paolo Primo nel 1798.  Amico intimo del futuro zar  Alessandro  Primo,
    diventò, sotto il regno di quest'ultimo, membro del Comitato di salute
    pubblica,  specie  di  consiglio segreto in cui dominarono le tendenze
    liberali.  Si sforzò,  nel  corso  della  sua  attività  politica,  di
    mantenere forme di liberalismo, benché in regime dispotico.
    N. 4. Il soprannome Forza Andreic'.
    N.   7.   Michaìl  Leontevic'  Magnitzkij  (1778-1855),   studioso  di
    letteratura, fu uno dei principali consiglieri di Speranskij. Allorché
    questi cadde in disgrazia, fu esiliato.  In seguito venne richiamato a
    dirigere l'università di Kazàn, ma la sua sistematica opposizione alla
    libertà di stampa e di parola, lo rese tristemente famoso.
    N.  8.  Charles Louis de Secondat,  barone di Montesquieu (1689-1755),
    letterato,  filosofo e pubblicista francese,  fu  uno  dei  precursori
    della  rivoluzione.  Lo  resero famoso "Les lettres persanes",  vivace
    satira contro la licenza dei costumi del tempo.
    N.  11.   Gustav  Andréevic'  Rosenkampf  (1762-1832)  si  occupò  del
    rinnovamento delle istituzioni russe.
    N.  13.  Giustiniano  (482-565),  imperatore romano d'Oriente dal 528,
    successore dello zio materno Giustino (450-527),  dal quale era  stato
    adottato. Cercò di ricostituire la compagine dell'impero; pubblicò nel
    534  il  "Corpus  iuris  civilis" o codice delle leggi romane,  la cui
    compilazione affidò al suo ministro Triboniano.  Al pari di tutti  gli
    imperatori  bizantini,  volle immischiarsi nelle questioni religiose e
    prender parte alle dispute teologiche. Fece erigere la chiesa di Santa
    Sofia. Dante ne celebrò la grandezza nel quinto canto del Paradiso.
    N.  14.  L'Ordine degli Illuminati di Baviera era una società  segreta
    razionalista  avviata  ad  Ingolstadt  (Baviera)  da  Adam  Weishaupt,
    professore di diritto nella locale università,  nel 1776.  Fu  sciolta
    nel  1785  dal governo bavarese,  perché dietro lo scopo dichiarato di
    voler educare gli uomini secondo i principi della ragione e indurli ad
    aiutarsi reciprocamente senza distinzioni di religione  si  celava  la
    volontà di distruggere il cristianesimo;  essa aveva inoltre lo scopo,
    inaccettabile allora,  di promuovere la forma di governo  repubblicana
    anziché monarchica.
    N.  15.  Armand  de  Caulaincourt  (1772-1827),  marchese  di Vicenza,
    generale  e  diplomatico  francese.  Allo  scoppio  della  rivoluzione
    francese,  degradato,  come nobile, dal grado di capitano nel 1793, lo
    riottenne nel 1795;  nel 1801 assolse missioni in Russia e nel 1802 fu
    promosso   generale   e  nominato  aiutante  di  campo  di  Bonaparte.
    Ambasciatore  in  Russia  dal  1807  al  1811,  fu  affascinato  dalla
    personalità  dello  zar  Alessandro  Primo che lo tenne a sua volta in
    grande stima.  Creato duca di Vicenza nel 1808,  senatore  e  ministro
    delle  relazioni  con  l'estero  nel  1813,  rappresentò  Napoleone al
    congresso di Châtillon,  nome dato ai colloqui che  Caulaincourt  ebbe
    con i rappresentanti degli alleati durante la campagna di Francia.  Di
    nuovo ministro nel periodo dei Cento giorni,  scampò all'esilio grazie
    all'intervento  di  Alessandro Primo.  Lasciò "Memorie" pubblicate nel
    1934.
    N. 17. Charles-Joseph principe di Ligne (1735-1814), maresciallo belga
    al  servizio  dell'Austria,   godette  dell'amicizia   dell'imperatore
    Giuseppe  Secondo,  di  cui fu consigliere e che rappresentò presso la
    zarina Caterina Seconda (1782).  Nel  1789,  nel  corso  della  guerra
    contro  i  Turchi,  si  distinse alla presa di Belgrado.  Nello stesso
    anno, per lealtà verso l'imperatore,  rifiutò di mettersi a capo della
    ribellione  dei  Paesi  Bassi.  I  suoi  viaggi  in  diversi  paesi e,
    soprattutto in Francia, la sua vasta cultura, la sua vita avventurosa,
    fecero di lui uno dei più insigni esponenti dello spirito  cosmopolita
    del diciottesimo secolo.  Divenuto maresciallo dell'esercito austriaco
    nel 1808,  visse  da  allora  a  Vienna;  lasciò  parecchie  opere  in
    francese, tra le quali sono particolarmente importanti "Le lettere".
    N. 23. Vangelo di san Giovanni 1, 4 s.
    N. 24. Situata tra i due "colossi" svedese e russo, la Finlandia passò
    volta  a  volta sotto la denominazione dell'uno o dell'altro.  Dopo la
    dominazione svedese iniziata nel 1150,  proprio con  la  campagna  del
    1808-1809  Alessandro  Primo  completò la conquista,  suggeritagli sia
    dall'invito di Napoleone (che vedeva danneggiati  così  gli  interessi
    della  Svezia,  alleata  dell'Inghilterra)  e  sia  dalla necessità di
    distrarre la pressione interna dei possidenti russi,  in agitazione  a
    causa  del  blocco continentale proclamato da Napoleone e sostenuto da
    Alessandro Primo.  La campagna di Finlandia si concluse con la pace di
    Hamina  (1809);  nella  successiva dieta di Porvoo Alessandro prese il
    titolo  di  granduca  di  Finlandia,  ma  s'impegnò  a  rispettare  le
    istituzioni proprie del paese.  Poiché sulla fine del secolo scorso il
    processo di russificazione divenne evidente ed eccessivo,  si avviò un
    movimento   indipendentista,   che  raccolse  i  suoi  frutti  con  la
    dichiarazione di indipendenza del 6 dicembre 1917.
    N. 27. Luigi Cherubini (1760-1842), celebre compositore italiano, nato
    a Firenze e morto a Parigi.  Ci lasciò molte opere  teatrali  e  molta
    musica  sacra,  tra  cui un "Requiem" e "La Messa dell'incoronazione".
    Dal 1821  divenne  direttore  del  Conservatorio  di  Parigi.  Il  suo
    monumento funebre è a Firenze, in Santa Croce.
    N. 28. Cenone della vigilia di Natale o dell'ultimo giorno dell'anno.
    N.   31.  Màrja  Antònovna  Naryskina  (1779-1854),  nata  principessa
    Cetvertinskaja, fu per molto tempo favorita di Alessandro Primo.
    N. 35. Andréj Andréevic' Gervais (1773-1832), diplomatico russo, amico
    e informatore di Speranskij circa  la  politica  estera,  di  cui  era
    allora ministro Rumjanzòv.
    N.  36. Arkadij Alekséevic' Stolypin (1778-1825), senatore e scrittore
    russo.
    N. 37.  Persona eletta o nominata per la direzione degli affari di una
    piccola collettività.  Lo "stàrosta" di un villaggio era una specie di
    sindaco con funzioni amministrative e di polizia.
    N. 39. Giri del gioco.