Lev N. Tolstòj.
    GUERRA E PACE.


    LIBRO SECONDO.

    PARTE QUARTA.


    CAPITOLO 1.

    Una tradizione biblica ci insegna che la mancanza di  lavoro,  l'ozio,
    era  la  condizione  necessaria alla beatitudine dell'uomo prima della
    sua caduta.  L'amore per l'ozio è rimasto tal  quale  anche  nell'uomo
    caduto, ma la maledizione continua a gravare sugli uomini non soltanto
    per  il  fatto che essi devono guadagnarsi il pane con il sudore della
    fronte, ma perché, date le nostre qualità morali,  non possiamo essere
    felici  rimanendo  in  ozio.  Una voce segreta ci dice che ci dobbiamo
    sentire in colpa quando ci abbandoniamo all'ozio.  Se  l'uomo  potesse
    trovare uno stato nel quale,  pur essendo in ozio,  sentisse di essere
    utile e di compiere il proprio dovere, ritroverebbe almeno in parte la
    beatitudine primordiale.  Ma di tale condizione di ozio obbligatorio e
    incensurabile gode una classe intera: la classe militare. E appunto in
    tale  ozio  obbligatorio  e incensurabile consiste e consisterà sempre
    l'attrattiva principale della carriera militare.
    Nikolàj Rostòv provava in pieno tale beatitudine continuando,  dopo il
    1807,  a prestar servizio nel reggimento di Pàvlograd,  dove comandava
    lo squadrone lasciato da Denissov.
    Rostòv era diventato un bravo giovane, dai modi un po' rudi che i suoi
    conoscenti di Mosca avrebbero trovato piuttosto  "mauvais  genre"  [1.
    maleducato], ma che era amato e stimato dai compagni, dai subalterni e
    dai superiori e che era interamente soddisfatto della propria vita.
    Negli  ultimi  tempi,  nel  1809,  nelle lettere che riceveva da casa,
    trovava sempre più spesso lamentele da parte di sua madre a  proposito
    degli  affari che andavano sempre peggio;  essa gli diceva che era ora
    che tornasse a casa a confortare e a dare un po'  di  tranquillità  ai
    suoi vecchi genitori.
    Leggendo quelle parole, Nikolàj era preso dal timore che lo si volesse
    strappare a quell'ambiente nel quale, libero da tutte le complicazioni
    della  vita,  si sentiva così tranquillo e così sereno.  Prevedeva che
    presto o tardi sarebbe dovuto rientrare nel turbine  della  vita,  tra
    gli  affari  disorganizzati  e  dissestati,  in  mezzo  ai  conti  con
    l'amministratore,  alle discussioni,  agli intrighi,  alle conoscenze,
    all'amore di Sònja e alle promesse che egli le aveva fatto.  Tutto ciò
    era terribilmente difficile e complicato,  cosicché agli scritti della
    madre egli rispondeva con lettere classiche e fredde, che cominciavano
    "Ma  chère  maman"  e  finivano  "votre obéissant fils" [2.  "Mia cara
    mamma...  il vostro figlio obbediente"],  nelle quali non  manifestava
    mai  l'intenzione  di  tornare.  Nel  1810  gli giunse una lettera dei
    genitori  che  gli  annunziavano  il  fidanzamento  di  Natascia   con
    Bolkonskij  e  gli  dicevano che il matrimonio sarebbe stato celebrato
    soltanto l'anno successivo perché il  vecchio  principe  non  dava  il
    consenso.  Quella lettera rattristò e offese Nikolàj.  In primo luogo,
    gli rincresceva che se ne andasse da casa Natascia,  alla quale voleva
    bene  più  che  a  tutti  gli altri membri della famiglia;  in secondo
    luogo, dal suo punto di vista di ussaro, si doleva di non essere stato
    a casa per far capire a quel Bolkonskij che non considerava un  grande
    onore  imparentarsi  con lui e che,  se amava Natascia,  avrebbe anche
    potuto fare a meno del consenso di quel pazzo di  suo  padre.  Per  un
    momento  rimase  in  dubbio  se  richiedere  una  licenza per andare a
    trovare  Natascia,  ma  proprio  in  quel  periodo  sopraggiunsero  le
    manovre, poi pensò a Sònja, agli affari che andavano male e rimandò la
    decisione.  Ma  nella  primavera  ricevette  una lettera di sua madre,
    scritta a insaputa del conte,  e quella lettera lo decise  a  partire.
    Ella  scriveva  che se Nikolàj non fosse tornato e non avesse preso in
    mano  le  redini  degli  affari,  l'intera  proprietà  sarebbe  andata
    all'asta e la famiglia sarebbe caduta in miseria. Il conte era debole,
    aveva  riposto  un'eccessiva fiducia in Mìtenka,  era troppo buono,  e
    tutti lo ingannavano a tal punto che ormai le cose rotolavano di  male
    in peggio.  "Ti supplico,  in nome di Dio, di venire immediatamente se
    non vuoi rendere infelice me e tutta la  tua  famiglia",  scriveva  la
    contessa.
    Quella  lettera scosse profondamente Nikolàj: egli era dotato del buon
    senso dei mediocri, che gli indicò in che modo doveva comportarsi.
    Bisognava assolutamente partire, se non dimettendosi, ottenendo almeno
    una licenza. Perché fosse proprio necessario non lo sapeva,  ma,  dopo
    il  sonnellino  pomeridiano,  ordinò  che gli sellassero il suo grigio
    Marte, uno stallone assai focoso che non usciva da un pezzo e,  giunto
    al suo alloggio,  su quella cavalcatura coperta di schiuma, dichiarò a
    Lavruska (il domestico di Denissov era rimasto con lui) e ai colleghi,
    che la sera erano venuti a trovarlo, che chiedeva una licenza e andava
    a casa.  Per quanto gli fosse difficile e gli sembrasse strano pensare
    di  partire  senza  aver  saputo  dallo  stato  maggiore  (cosa che lo
    interessava in modo particolare) se sarebbe stato promosso capitano  o
    se  avrebbe  avuto  la  croce di Sant'Anna per le ultime manovre;  per
    quanto gli paresse strano pensare  che  sarebbe  partito  senza  avere
    venduto al conte Goluchovskij la "tròjka" (3) roana,  per cui il conte
    polacco mercanteggiava con lui e che egli aveva scommesso di  cedergli
    per duemila rubli;  per quanto gli paresse incomprensibile che potesse
    avere luogo,  senza di lui,  il ballo che gli  ussari  offrivano  alla
    "pana"  (4) Psàzdetkaja per far dispetto agli ulani che ne organizzano
    uno in onore della loro "pana" Borzozòvskaja,  egli si  rendeva  conto
    che  bisognava  uscire da quel mondo sereno e buono per andare là dove
    tutto era assurdo  e  complicato.  Dopo  una  settimana  ricevette  la
    licenza. Gli ussari, e non solo i suoi compagni di reggimento ma anche
    i compagni di brigata, gli offrirono un pranzo che costò loro quindici
    rubli a testa, durante il quale sonavano due orchestre e cantavano due
    cori di soldati.  Rostòv ballò il "trepàk" (5) con il maggiore Bassòv;
    gli ufficiali, ubriachi, sollevarono, fecero dondolare,  lanciarono in
    alto  e  lasciarono ricadere Rostòv,  i soldati del terzo squadrone lo
    sollevarono  ancora  una  volta  sulle  braccia  gridando  "Urrà!"   a
    squarciagola.  Infine  fu fatto salire su una slitta e fu accompagnato
    sino alla prima stazione di posta.
    Sino a metà strada, come sempre accade, da Kremenciùg a Kiev,  tutti i
    pensieri  di  Rostòv  erano  ancora  legati  al  suo  squadrone;   ma,
    oltrepassata la metà del  cammino,  egli  cominciò  a  dimenticare  la
    "tròjka"  di  roani,  il  suo  maresciallo  d'alloggio  Dozovéjko  e a
    chiedersi,  con una certa inquietudine,  che cosa  avrebbe  trovato  a
    Otràdnoe.  Quanto  più  si avvicinava alla meta,  tanto più fortemente
    (come se anche  il  sentimento  obbedisse  alla  legge  di  attrazione
    inversamente  proporzionale al quadrato della distanza) egli pensava a
    casa sua;  all'ultima tappa,  prima di Otràdnoe,  diede al postiglione
    tre rubli di mancia e,  come un ragazzo,  salì di corsa, ansimando, la
    scala d'entrata.
    Dopo l'entusiasmo del primo incontro e dopo  quello  strano  senso  di
    delusione in confronto a ciò che si era aspettato,   -  è sempre tutto
    uguale, perché dunque mi sono tanto affrettato?  -  Nikolàj continuò a
    riabituarsi al suo vecchio mondo di casa.  Suo padre e sua madre erano
    gli stessi, solamente un po' invecchiati; in essi nulla c'era di nuovo
    all'infuori  di una certa inquietudine e talora qualche disaccordo mai
    esistiti prima e che,  come presto Nikolàj venne a sapere,  derivavano
    dalle  cattive  condizioni degli affari.  Sònja,  che aveva già più di
    diciannove anni,  aveva cessato di farsi  più  bella,  non  prometteva
    nulla di più,  ma,  così com'era, poteva bastare. Da quando era giunto
    Nikolàj,  spiravano da  lei  felicità  e  tenerezza,  e  il  costante,
    irremovibile amore di quella fanciulla procurava a Nikolàj un senso di
    gioia. Pétja e Natascia, più di tutti gli altri membri della famiglia,
    stupirono Nikolàj.  Pétja era ormai un ragazzo di tredici anni, bello,
    intelligente,  vivacissimo,  e la sua  voce  di  fanciullo  già  stava
    assumendo  toni  nuovi.  Di  Natascia,  Nikolàj si meravigliò e rise a
    lungo guardandola.
    - Sei diventata un'altra  -  le disse.
    - Come, più brutta?
    - Al contrario, ma con una cert'aria di importanza... una principessa!
    -  le mormorava.
    - Sì, sì, sì!  -  confermava Natascia gioiosamente.
    La fanciulla gli raccontò il suo romanzo con il  principe  Andréj,  la
    visita di lui a Otràdnoe e gli mostrò l'ultima lettera ricevuta.
    - Ebbene,  contento?  -  chiese Natascia al fratello.  -  Ora mi sento
    così felice, così tranquilla...
    - Felicissimo anch'io  -    rispondeva  Nikolàj.    -    E'  un'ottima
    persona. Ma tu, sei davvero molto innamorata?
    - Come dirti?  Io sono stata innamorata di Borìs,  del precettore,  di
    Denissov, ma ora è una cosa diversa. Mi sento tranquilla e serena.  So
    che  non  esiste un uomo migliore di lui e per questo sono così calma,
    così felice. Una sensazione completamente diversa da prima...
    Nikolàj espresse a Natascia il suo malcontento  perché  il  matrimonio
    era  stato  rimandato  di  un  anno;  ma  Natascia assalì il fratello,
    dimostrandogli che  non  era  possibile  fare  diversamente,  che  non
    sarebbe  stato  bello  entrare  a  far parte di una famiglia contro la
    volontà del padre e che era stata lei stessa a volere così.
    - Tu non puoi capire,  non puoi capire  -    diceva.  Nikolàj  tacque,
    accettando il modo di vedere di lei. Spesso, osservando la sorella, il
    giovane  provava  un  senso  di  stupore.  Ella non pareva affatto una
    fidanzata innamorata,  costretta a vivere lontano dal promesso  sposo.
    Era  sempre  la  stessa,  di  umore  calmo,  allegro,  uguale.  E  ciò
    meravigliava Nikolàj,  il quale  non  riusciva  a  vincere  una  certa
    diffidenza verso Bolkonskij e quel fidanzamento.  Egli non credeva che
    la sorte di Natascia fosse già decisa,  tanto più che  non  aveva  mai
    visto  il  principe  Andréj  con la sorella.  Gli sembrava che in quel
    futuro matrimonio ci fosse qualcosa che non andava.
    "Perché questo rinvio?  Perché  non  è  stato  fatto  il  fidanzamento
    ufficiale?",  si chiedeva.  E una volta, parlando della sorella con la
    madre, con suo grande stupore ma insieme con un certo piacere, costatò
    che la contessa in cuor suo considerava quel matrimonio con una  certa
    sfiducia.
    - Ecco,  egli scrive...  -  disse, mostrando al figlio una lettera del
    principe Andréj, con quel malcelato rancore che una madre nutre sempre
    contro la futura felicità coniugale della figlia  scrive che non verrà
    prima di dicembre.  Da  quali  affari  può  essere  trattenuto?  Senza
    dubbio, una malattia. Ha una salute molto fragile. Non parlarne però a
    Natascia...  E  non dar peso al fatto di vederla allegra: essa vive il
    suo ultimo periodo di fanciulla, e io so che cosa prova ogni volta che
    arriva una lettera di lui.  Del resto,  se Dio lo vuole,  andrà  tutto
    bene    -   concludeva la contessa ogni volta che parlava del principe
    Andréj.  -  Si tratta di un'ottima persona.


    CAPITOLO 2.

    Durante il primo periodo dopo il suo arrivo,  Nikolàj  apparve  serio,
    persino  triste.  Lo  tormentava la necessità assoluta di occuparsi di
    quegli stupidi affari amministrativi,  a causa dei quali la  madre  lo
    aveva chiamato.  Per liberarsi al più presto da quel peso,  tre giorni
    dopo il suo ritorno a casa, accigliato e senza rispondere alla domanda
    dove andasse, si diresse verso la casetta abitata da Mìtenka e pretese
    che gli fossero consegnati "i conti di tutto".  Che cosa fossero  quei
    "conti di tutto" Nikolàj ne sapeva anche meno di Mìtenka, spaventato e
    sorpreso.  Il  colloquio  e  il  rendiconto  di Mìtenka non durarono a
    lungo.  Gli  "stàrosta",  quello  elettivo  e  quello  comunale,   che
    aspettavano nell'anticamera della casetta,  dapprima con terrore e poi
    con soddisfazione udirono la voce del  giovane  conte  che  si  levava
    sempre  più  alta,   pronunziando  ingiurie  e  parole  terribili  che
    piovevano una dopo l'altra.
    - Brigante! Ingrato animale! Ti ammazzo come un cane...  Non hai più a
    che  fare  con  un uomo come mio padre...  Hai rubato...   -  e via di
    questo passo.
    Poi i due uomini,  con non minore soddisfazione e spavento,  videro il
    giovane  conte,  rosso  in  viso  e con gli occhi iniettati di sangue,
    trascinare fuori Mìtenka per il bavero e con  molta  abilità,  tra  un
    insulto  e  l'altro,  assestargli  pedate  e  ginocchiate nel deretano
    gridando:
    - Vattene via!  E che qui dentro non resti  neppure  traccia  del  tuo
    odore, farabutto!
    Mìtenka  ruzzolò  a  capo  fitto  giù  per  sei  gradini  e  fuggì nel
    boschetto,  un ben noto rifugio per i criminali di  Otràdnoe.  Mìtenka
    stesso,  tornando  ubriaco  dalla  città  vi si era nascosto parecchie
    volte e numerosi abitanti di Otràdnoe,  che si nascondevano a Mìtenka,
    apprezzavano l'impenetrabilità di quell'asilo.
    La   moglie  e  le  cognate  di  Mìtenka  si  affacciarono  spaventate
    dall'uscio di una stanza dove bolliva un  lucido  samovàr  e  dove  si
    levava l'alto letto dell'amministratore,  su cui era stesa una coperta
    trapunta, composta da minuti pezzetti di stoffa.
    Il giovane conte,  ansimante,  senza  badare  alle  donne,  passò  con
    andatura decisa davanti a loro e tornò a casa.
    La  contessa,  già  informata  dalle cameriere di ciò che era avvenuto
    nella casetta,  da un lato si sentì tranquilla,  pensando che  ora  il
    patrimonio  della famiglia sarebbe stato riorganizzato,  ma dall'altro
    si preoccupò per l'effetto che l'accaduto poteva  produrre  sull'animo
    del  figlio.  Parecchie  volte si avvicinò in punta di piedi all'uscio
    della camera di Nikolàj,  tendendo l'orecchio e lo  sentì  fumare  una
    pipa dopo l'altra.
    Il  giorno  successivo,  il vecchio conte chiamò suo figlio e,  con un
    timido sorriso, gli disse:
    - Lo sai, anima mia,  che la tua sfuriata è stata inutile?  Mìtenka mi
    ha raccontato tutto.
    "Lo sapevo", pensò Nikolàj, "che in un ambiente di stupidi come questo
    non avrei capito nulla!".
    -  Sei  andato  in  collera  perché  non  aveva  messo a registro quei
    settecento rubli...  Ma,  vedi,  la somma è segnata a  riporto,  nella
    pagina seguente, che tu non hai neppure guardato.
    - Papà, so benissimo che Mìtenka è una canaglia e un ladro. E quel che
    è fatto, è fatto... Però, se non volete, non gli dirò più niente.
    -  No,  anima  mia...   -  (Il conte era imbarazzato perché si rendeva
    conto di essere un cattivo amministratore  dei  beni  della  moglie  e
    colpevole dinanzi ai figli, ma non sapeva come rimediare ).  -  No, ti
    prego di occuparti degli affari, io sono vecchio, ormai.
    - No, papà, perdonatemi se ho fatto qualcosa che vi dispiace: io ne so
    meno di voi.
    "Vadano  al diavolo i contadini,  il denaro,  e i riporti sulla pagina
    seguente",  pensava  Nikolàj.   "Una  volta  capivo  almeno  che  cosa
    significa far posta doppia su sei giocate,  ma di riporti, proprio non
    capisco un bel niente!",  si diceva,  e da allora non si occupò più di
    affari.  Una volta soltanto la contessa chiamò il figlio, gli disse di
    avere una cambiale per duemila rubli di Anna Michàjlovna e gli  chiese
    che cosa dovesse fare.
    - Ecco  -  rispose Nikolàj.   -  Voi mi avete detto che questo dipende
    da me. Io non ho simpatia per Anna Michàjlovna né per Borìs,  ma erano
    nostri  amici e sono poveri.  Ecco quindi ciò che faccio  -  e strappò
    la cambiale.  Con quel gesto  fece  piangere  lacrime  di  gioia  alla
    contessa.  Dopo di che il giovane Rostòv non si immischiò più in alcun
    affare e si dedicò invece,  con passione,  a un'occupazione nuova  per
    lui: la caccia con i cani che, nei possedimenti del vecchio conte, era
    sempre stata organizzata con molta efficienza.


    CAPITOLO 3.

    Cominciavano  i  primi  freddi,  le gelate mattutine imprigionavano la
    terra inzuppata dalle piogge d'autunno,  il grano  invernale  spuntava
    già  con  i  suoi  ciuffetti verde tenero dalle strisce di terra bruna
    calpestate dal bestiame,  dalle stoppie di un pallido giallo del grano
    primaverile e dalle strisce rosse del grano saraceno.
    Le  colline  e  i  boschi,  che  ancora  alla  fine di agosto parevano
    isolette verdi tra i neri campi arati e tra le  stoppie,  avevano  ora
    assunto  l'aspetto  di isole color dell'oro o di un bel rosso vivo tra
    le verdi semine autunnali.  La lepre aveva già  mutato  metà  del  suo
    pelo;  le  giovani  volpi  cominciavano a disperdersi e i lupacchiotti
    erano ormai più grossi dei cani.  Era  la  stagione  migliore  per  la
    caccia.  I  cani dell'ardente e giovane cacciatore Rostòv non soltanto
    erano fisicamente pronti alla caccia,  ma si trovavano  in  uno  stato
    tale di eccitazione che,  per consiglio dei cacciatori più esperti, fu
    deciso di concedere loro tre giorni di riposo e di mettersi in cammino
    per una battuta il 16 settembre,  cominciando  da  Dubrava,  dove  era
    stata segnalata una covata intatta di lupacchiotti.
    Ecco come stavano le cose il 14 settembre.
    Per  tutta  la  giornata  i  cacciatori restarono in casa: gelava,  il
    freddo era pungente,  ma verso sera  il  tempo  si  fece  più  mite  e
    sopravvenne il disgelo.
    La  mattina  del 15 settembre,  quando il giovane Rostòv,  in veste da
    camera,  guardò dalla finestra,  vide che il tempo era  quale  non  si
    poteva  sperare  migliore  per  la  caccia:  sembrava  che il cielo si
    sciogliesse e,  senza  vento,  scendesse  sulla  terra.  L'unico  moto
    nell'aria  era  un  lento cadere di microscopiche gocce di vapore o di
    nebbia.  Ai rami spogli del giardino erano sospese  gocce  trasparenti
    che a quando a quando cadevano sulle foglie sparse a terra.  Nell'orto
    la terra nereggiava,  bagnata e lucida come i semi di  papavero  e,  a
    breve  distanza,  si  fondeva  con  l'opaco,  umido velo della nebbia.
    Nikolàj uscì  sulla  scala  umida  e  coperta  di  fango;  l'aria  era
    impregnata  di odore di bosco infracidito e di cani.  Milka,  la cagna
    nera dalla larga groppa a chiazze fulve e dagli occhi neri  sporgenti,
    alla  vista del padrone si alzò,  si stiracchiò,  si appiattì al suolo
    come una lepre,  poi diede un balzo improvviso e gli leccò il naso e i
    baffi.  Un altro cane, un levriero, vedendo il padrone, si slanciò con
    impeto da un vialetto fiorito  verso  il  terrazzino  e,  curvando  la
    schiena e alzando la coda, prese a strofinarsi alle gambe di Nikolàj.
    -  Ooòi!    -    risonò  in  quel  momento il richiamo inimitabile dei
    cacciatori,  che riunisce in sé le note del basso più profondo  e  del
    tenore  più acuto,  e da dietro l'angolo della casa spuntò Danilo,  il
    bracchiere, un cacciatore dai capelli tosati in tondo all'uso ucraino,
    canuto e rugoso, che teneva in mano uno staffile ricurvo.  Il suo viso
    aveva  un'espressione di indifferenza e di disprezzo per tutte le cose
    del mondo,  espressione  propria  soltanto  ai  cacciatori.  Si  tolse
    davanti al padrone il berretto circasso, e lo guardò con disprezzo. Ma
    quel  disprezzo  non  era offensivo per il signore: Nikolàj sapeva che
    quel Danilo,  che tutto sprezzava e che tutti  guardava  dall'alto  in
    basso, era pur sempre un uomo su cui contare, e un cacciatore.
    - Danilo!  -  disse Nikolàj, timidamente, già sentendo che di fronte a
    quel  tempo  così  adatto  per  la  caccia  e a quei cani anche il suo
    bracchiere era preso dall'invincibile sentimento del cacciatore,  quel
    sentimento  che  fa  dimenticare  a  un uomo,  come a un innamorato in
    presenza dell'amata, tutte le sue precedenti intenzioni.
    -  Cosa  comandate,  signoria?     -    disse  una  voce  profonda  da
    protodiacono,  fatta  rauca  dal  continuo aizzare i cani,  e due neri
    occhi lucenti guardarono  di  sotto  in  su  il  padrone  che  taceva.
    "Possibile che tu resista?", parevano chiedere quegli occhi.
    - Bella giornata!  Che inseguimento e che galoppate,  eh?   -  esclamò
    Nikolàj, grattando Milka dietro le orecchie.
    Danilo non rispose, ma strizzò un occhio.
    - All'alba ho mandato Uvarka all'ascolto  -  riprese la voce di  basso
    dopo  un  minuto  di  silenzio  -  e mi ha detto che "è passata" nelle
    riserve di Otràdnoe:  gli  ululati  venivano  di  là.-  ("E'  passata"
    significava che la lupa,  di cui entrambi conoscevano l'esistenza,  si
    era spostata con i lupacchiotti nel bosco di  Otràdnoe,  il  quale  si
    trovava a due miglia dalla casa ed era una piccola riserva di caccia).
    -  Bisogna  dunque  andare?   -  domandò Nikolàj.   -  Vieni da me con
    Uvarka.
    - Come comandate, signoria.
    - Aspetta allora a dar da mangiare ai cani.
    - Sì, signore.
    Dopo cinque minuti Danilo e Uvarka si trovavano nell'ampio  studio  di
    Rostòv.  Benché  Danilo  non fosse di alta statura,  il vederlo in una
    stanza dava la stessa impressione che avrebbe prodotto un cavallo o un
    orso ritti sul pavimento, in mezzo ai mobili,  e in condizioni di vita
    umane.  Anche Danilo lo sentiva e,  come al solito,  rimaneva in piedi
    accanto all'uscio,  cercando di parlare a voce bassa,  di non muoversi
    per  non rompere qualche cosa in casa dei padroni e sforzandosi di dir
    tutto al più presto per poter uscire all'aria aperta e avere sopra  la
    testa, invece del soffitto, la volta del cielo.
    Finite  le  domande  e  avuta  da  Danilo la conferma che i cani erano
    pronti (anche Danilo aveva voglia di andare a caccia),  Nikolàj ordinò
    di sellare i cavalli. Ma mentre Danilo stava per uscire, entrò a passi
    rapidi nella stanza Natascia,  non ancora né vestita né pettinata,  ma
    semplicemente avvolta nell'ampio scialle  della  bambinaia.  Pétja  la
    seguiva correndo.
    - Vai a caccia?   -  domandò Natascia.   -  Io lo sapevo! Sònja diceva
    che non sareste andati. Ma io ero sicura che con una giornata simile è
    impossibile non andare.
    - Andiamo,  sì...   -  rispose di malavoglia Nikolàj che,  avendo quel
    giorno intenzione di fare una caccia seria, non voleva prendere con sé
    Natascia  e  Pétja.    -    Andiamo...  ma  solo  a caccia di lupi: ti
    annoierai!
    - Tu sai che per me la caccia è il  piacere  più  grande    -    disse
    Natascia.  -  Non è bello, sai, da parte tua: ti prepari ad andartene,
    fai sellare i cavalli e a noi non dici niente.
    -  Per  i  Russi  non  esistono  ostacoli,  andiamo!   -  gridò Pétja,
    intonando il primo verso della cantata popolare in onore di Bagratiòn.
    - Ma tu no,  tu non puoi venire: la mamma ha detto di no    -    disse
    Nikolàj, volgendosi a Natascia.
    - No,  io verrò, verrò assolutamente!  -  esclamò la fanciulla in tono
    deciso.   -  Danilo,  fa' sellare anche per noi e ordina a Michaìl  di
    far uscire la mia muta  -  aggiunse, rivolta al cacciatore.
    Se  a  Danilo pareva di essere goffo e impacciato quando si trovava in
    una stanza,  era addirittura sconvolto quando aveva  a  che  fare  con
    Natascia. Abbassò gli occhi e si affrettò a uscire come se la cosa non
    lo  riguardasse,  badando di non fare distrattamente male,  in qualche
    modo, alla padroncina.


    CAPITOLO 4.

    Il vecchio conte,  che aveva sempre tenuto un efficiente  apparato  di
    caccia,  del  quale  aveva ora trasmesso al figlio la direzione,  quel
    giorno,  15 settembre,  era di ottimo umore e si preparava anch'egli a
    partire.
    Un'ora  dopo,  tutti i partecipanti alla battuta erano riuniti davanti
    alla sala del terrazzino coperto. Nikolàj, con aria grave e seria, che
    dimostrava come non avesse tempo di occuparsi di  cose  futili,  passò
    accanto  a  Natascia  e  a  Pétja che volevano dirgli qualcosa,  senza
    badare a loro.  Esaminò tutta l'adunata,  mandò avanti in esplorazione
    una muta di cani con alcuni battitori, montò in sella al suo rossiccio
    cavallo del Don e, fischiando ai cani della sua muta, attraversò l'aia
    e  si  diresse per i campi che portavano alla riserva di Otràdnoe.  Il
    cavallo  del  vecchio  conte,  un  piccolo  castrato  sauro,  chiamato
    Vifljanka,  era  condotto per le briglie da un palafreniere;  il conte
    doveva poi recarsi in calessino direttamente nel posto assegnatogli.
    Cinquantaquattro cani da caccia guidati  da  sei  uomini  erano  stati
    portati fuori. Oltre ai padroni, uscirono otto venatori seguiti da più
    di  quaranta  levrieri,  cosicché,  insieme  con  le mute dei padroni,
    correvano nei campi più di  centotrenta  cani  e  venti  cacciatori  a
    cavallo.
    Ogni  cane  conosceva  il  suo  padrone e il suo nome: ogni cacciatore
    conosceva il suo mestiere,  il suo posto e il suo compito.  Non appena
    ebbero  oltrepassato  il recinto,  senza far rumore e in silenzio,  si
    avviarono in fila regolare per la strada e per i campi che conducevano
    al bosco di Otràdnoe.
    I cavalli avanzavano per i campi come su morbidi tappeti,  diguazzando
    di tanto in tanto, nell'attraversare una strada, nelle pozzanghere. Il
    cielo   nebbioso   continuava   ad   abbassarsi,   insensibilmente   e
    regolarmente,  sulla  terra;  l'aria  era  dolce,  calda  e  calma.  A
    intervalli  si udivano il fischio di un cacciatore,  lo sbuffare di un
    cavallo,  lo schioccare di qualche staffilata o il guaito di  un  cane
    che non stava al suo posto.
    Allorché  si  furono  allontanati  di  un miglio,  i partecipanti alla
    caccia scorsero profilarsi  in  mezzo  alla  nebbia  cinque  cavalieri
    seguiti  dai loro cani.  Li precedeva un bel vecchio,  ancora arzillo,
    con due grandi baffi bianchi.
    - Buongiorno,  zio!   -  esclamò Nikolàj,  allorché il vecchio gli  fu
    vicino.
    - Benissimo,  ecco, lo sapevo che ti avrei incontrato  -  prese a dire
    lo zio (che era un lontano parente e un non ricco proprietario, vicino
    dei Rostòv).   -  Lo sapevo che non avresti  saputo  resistere,  ed  è
    un'ottima  cosa  che tu vada.  Benissimo,  marsch!   -  (Era questo il
    prediletto intercalare del vecchio).- Prendi subito per il  bosco;  il
    mio Gircik mi ha riferito che gli Ilagin,  con le loro mute,  sono già
    appostati dalle parti di Kòrniki: e quelli, marsch,  ti porteranno via
    il branco di sotto il naso...
    -  Vado  proprio  là.  Che ne dite,  devo riunire le mute?   -  chiese
    Nikolàj.  -  Pensate che sia meglio riunirle?
    I  cani  furono  riuniti  in  una  sola  muta,  e  lo  zio  e  Nikolàj
    procedettero  affiancati.  Natascia,  avvolta  negli scialli dai quali
    spuntava il viso animato dagli occhi scintillanti,  si avvicinò a loro
    seguita da Pétja,  che non si staccava un minuto dalla sorella,  e dal
    cacciatore e staffiere Michaìl, al quale era stato affidato l'incarico
    di sorvegliarla come una bambinaia.  Pétja rideva per chissà che cosa,
    batteva  il  suo  cavallo  e  tirava  le briglie.  Natascia sedeva con
    disinvolta eleganza in sella al suo cavallo nero Arabcik  e  lo  fermò
    senza sforzo, con mano sicura.
    Lo  zio  guardò  Natascia e Pétja con un'occhiata che non era certo di
    approvazione.  Non gli piaceva mescolare le ragazzate a una cosa seria
    come la caccia.
    - Buongiorno, zio, veniamo anche noi  -  gridò Pétja.
    -  Buongiorno,  buongiorno  sì,  ma  badate  a non schiacciare i cani-
    rispose in tono severo lo zio.
    - Nikòlenka,  che magnifico cane è Trunila!  Mi ha riconosciuta  disse
    Natascia, parlando del suo prediletto cane da corsa.
    "Trunila,  innanzi  tutto,  non  è un cane qualsiasi,  ma un bracco da
    punta",  pensò Nikolàj,  e guardò severamente la sorella  cercando  di
    farle  capire  quale  distanza  doveva  separarli  in quel momento.  E
    Natascia lo capì.
    - Quanto a voi,  zio,  non dovete  pensare  che  saremo  d'impaccio  a
    chicchessia   -  disse Natascia.   -  Staremo al nostro posto e non ci
    muoveremo.
    - E sarà un'ottima cosa,  contessina  -  rispose lo zio.   -    Badate
    soltanto  a  non cadere da cavallo,   -  aggiunse  -  altrimenti ecco,
    benone, marsch! non c'è dove aggrapparsi.
    Il bosco riservato di Otràdnoe appariva già a circa duecento  metri  e
    già  i  battitori  vi  si  avvicinavano.   Rostòv,  dopo  aver  deciso
    definitivamente con lo zio da che parte si dovessero lanciare i cani e
    dopo aver indicato a Natascia il luogo in cui doveva  restar  ferma  e
    dove certo nessun animale sarebbe passato, si diresse lungo il burrone
    a esplorare.
    -  Ehi,  nipotino,  sei  sulla  pista di una lupa  -  avvertì lo zio.-
    Attento a non lasciartela sfuggire.
    - Speriamo bene!  Qui,  Karàj!   -  gridò il giovane,  rispondendo con
    questo  richiamo alle parole dello zio.  Karàj era un vecchio e brutto
    cane,  dal pelo fulvo,  famoso perché era il solo capace di affrontare
    un grosso lupo.
    Il vecchio conte,  conoscendo la passione del figlio per la caccia, si
    era affrettato per non essere in ritardo,  e i canettieri non  avevano
    ancora raggiunto il loro posto allorché Iljà Andreic',  allegro, rosso
    in viso,  con le guance tremolanti,  giungeva attraverso i  prati  sul
    calessino  tirato  dai  suoi  morelli,  al  posto  che  gli  era stato
    assegnato.  Sistematasi bene la pelliccia e indossati  gli  arnesi  da
    caccia,  montò  sulla  sua  buona,  mansueta  e ben nutrita Vifljanka,
    lucida,  strigliata e ormai canuta come il padrone.  I morelli  furono
    rimandati indietro con il calessino.  Il conte Iljà Andreic' che,  pur
    non essendo cacciatore appassionato,  conosceva bene  le  leggi  della
    caccia,  giunto  al  limite  della  boscaglia,  dove era il suo posto,
    raccolse le redini, si drizzò in sella e sentendosi pronto,  si guardò
    attorno sorridendo.
    Gli  stava  accanto  il suo cameriere,  Semën Cekmàr,  vecchio e fatto
    pesante dagli anni,  che teneva al  guinzaglio  tre  robusti  mastini,
    anch'essi,  però, un po' ingrassati, come il padrone e il cavallo. Due
    altri  cani,   vecchi  e  intelligenti,   stavano   accucciati   senza
    guinzaglio. A cento passi di distanza, verso il bosco, stava Mitka, un
    altro   staffiere  del  conte,   cavalcatore  esperto  e  appassionato
    cacciatore.  Il  conte,  seguendo  un'antica  usanza,   bevette  prima
    dell'inizio della battuta,  in un bicchierino d'argento,  alcuni sorsi
    di "zapekanka" (6) di quella da cacciatori,  mangiò un  boccone  e  lo
    annaffiò con mezza bottiglia del suo prediletto Bordeaux.
    Iljà Andreic' appariva un po' arrossato in viso per effetto del vino e
    della corsa;  i suoi occhi, di solito velati e umidi, scintillavano in
    modo particolare; in sella,  avvolto nella pelliccia,  aveva l'aria di
    un ragazzino che avessero condotto a fare una passeggiata.
    Il  magro  Cekmàr,  dalle  guance  scavate,  compiuto  che ebbe le sue
    incombenze, si mise a guardare il padrone con il quale era vissuto per
    trent'anni  in  perfetta  armonia  e,  vedendolo  di  buon  umore,  si
    disponeva a una piacevole conversazione.  Una terza persona, uscendo a
    cavallo dal bosco,  si avvicinò cautamente (si capiva che sapeva  come
    comportarsi) al conte e si fermò alle sue spalle. Era un vecchio dalla
    barba grigia, avvolto in un mantello da donna e con il capo coperto da
    un alto berretto. Era il buffone Nastàssja Ivànovna.
    - Senti,  Nastàssja Ivànovna,   -  gli mormorò il conte, ammiccando  -
    se fai tanto di far scappar la bestia, te la dovrai vedere con Danilo.
    - Eh, me ne intendo anch'io!  -  rispose Nastàssja Ivànovna.
    - Sst!   -  bisbigliò il conte,  e si rivolse a Semën.   -  Hai  visto
    Natàlja Ilìnicna?  -  chiese a Semën.  -  Dov'è?
    -  E' con Pëtr Ilìc',  presso il macchione di Zarov  -  rispose Semën,
    con un sorriso.   -  Benché sia una signorina,  ha una grande passione
    per la caccia.
    -  E  tu  ti  meravigli,  Semën,  di come sa stare a cavallo,  eh?   -
    domandò il conte.  -  Come un uomo, né più né meno.
    - Come non meravigliarsi? Così ardita e agile...
    - E Nikolaska, dov'è? Sull'altura di Ljàdovo, eh?   -  chiese il conte
    a voce sommessa.
    - Proprio là.  Lo sa, quello, dove mettersi... Sa stare a cavallo così
    bene che spesso Danilo e io lo guardiamo stupefatti  -  rispose Semën,
    sapendo di far piacere al padrone.
    - Monta bene, eh? E sta in sella che è una meraviglia!
    - Pare dipinto.  Giorni or sono,  nel macchione  di  Zavàrzino  mentre
    stava  stanando  la  volpe,  si è messo a un galoppo da non dirsi!  Il
    cavallo vale mille rubli, ma il cavaliere non ha prezzo! Dove trovarlo
    un giovanotto in gamba come lui?
    -  Già,   dove  trovarlo...     -    ripeté  il  conte,   rimpiangendo
    evidentemente  che  il  discorso  di  Semën fosse così presto finito.-
    Dove trovarlo?   -  ripeté ancora una volta,  scostando le falde della
    pelliccia e tirando fuori la tabacchiera.
    - E l'altro giorno,  mentre usciva in gran tenuta dalla Messa, Michaìl
    Sidoryc'...   -  Semën non completò la frase,  avendo  udito  risonare
    chiaramente  nell'aria calma un rumore di inseguimento e il latrato di
    due o tre cani.  Chinò la testa e rimase in ascolto,  facendo cenno al
    padrone di tacere.  -  Sì, li hanno scovati  -  sussurrò:  -  li hanno
    spinti diritti su Ljàdovo.
    Il  conte,  dimenticando  di  cancellare  il  sorriso  dal  suo volto,
    guardava in lontananza, davanti a sé e, senza fiatare,  teneva in mano
    la  tabacchiera  aperta.  Subito  dopo il latrare dei cani,  risonò il
    corno di Danilo che, in tono di basso, avvertiva la presenza dei lupi;
    il branco si unì ai primi tre cani e ora si udiva la voce  dei  segugi
    che  abbaiavano con quell'ululato lungo e particolare che è il segnale
    per inseguire i lupi.  Già i battitori avevano smesso  di  eccitare  i
    cani,  e  gridavano:  "Dài!  Dài!",  mentre tra tutte le voci spiccava
    quella di Danilo, ora bassa e profonda, ora acuta e penetrante. Quella
    voce pareva riempire di sé tutto il  bosco;  usciva  dal  folto  e  si
    spandeva  lontano  nella  campagna.   Il  conte  e  il  suo  staffiere
    ascoltarono,  muti,  per alcuni minuti e si convinsero che i  cani  si
    erano divisi in due mute: una,  molto numerosa che urlava con insolito
    furore, pareva allontanarsi, mentre l'altra, correndo lungo il margine
    del  bosco,  passò  davanti  al  conte  accompagnata  dalle  grida  di
    incitamento  di  Danilo.  I  latrati  delle due mute si fondevano e si
    allontanavano contemporaneamente. Semën sospirò e si chinò per mettere
    a posto il guinzaglio,  nel quale un giovane cane si  era  impigliato;
    sospirò  anche  il conte e,  accortosi di avere in mano la tabacchiera
    aperta, ne cavò una presa e l'annusò.
    - Indietro!   -  gridò Semën a un cane che  si  era  spinto  oltre  il
    margine  del bosco.  Il conte sussultò e si lasciò sfuggire di mano la
    tabacchiera.  Nastàssja Ivànovna scese  da  cavallo  e  si  chinò  per
    raccoglierla.
    Il conte e Semën lo guardavano. A un tratto, come spesso avviene nelle
    battute  di  caccia,  i  rumori dell'inseguimento si riavvicinarono di
    colpo come se le gole latranti dei cani fossero lì a pochi passi e  da
    quel punto provenissero le grida di incitamento di Danilo.
    Il conte si guardò attorno e vide alla sua destra Mitka che lo fissava
    con gli occhi sbarrati e con il cappello gli indicava un punto davanti
    a sé, dalla parte opposta.
    -  In  guardia!    -   gridò Mitka con una voce come se quella parola,
    trattenuta a stento, volesse da un pezzo uscirgli dalle labbra e, dopo
    aver sciolto i cani, galoppò alla volta del conte.
    Il conte e Semën lanciarono i cavalli fuori  del  folto  e  alla  loro
    sinistra  scorsero  il  lupo  che dondolandosi mollemente,  avanzava a
    piccoli saltelli più a sinistra,  verso il margine del bosco dove essi
    si trovavano. I cani urlarono infuriati e, strappandosi dai guinzagli,
    si scagliarono verso il lupo, passando davanti alle gambe dei cavalli.
    Il  lupo  si fermò;  faticosamente come se fosse sofferente di angina,
    volse la  testa  dalla  grossa  fronte  verso  i  cani  e,  dondolando
    mollemente,  spiccò un salto,  poi un altro, agitò la coda e scomparve
    nel bosco.  In quel momento,  dal margine opposto,  con un guaito  che
    pareva  un lamento,  balzò fuori prima un cane,  poi un altro,  poi un
    terzo e infine tutta la muta si slanciò compatta lungo il campo  sulla
    stessa striscia di terreno per cui era passato il lupo in fuga. Dietro
    ai cani, gli arbusti dei noccioli si divisero e spuntò il cavallo baio
    di Danilo,  lucido di sudore. Raggomitolato sull'ampia groppa, proteso
    in avanti,  sedeva Danilo,  a capo scoperto,  con  i  bianchi  capelli
    scompigliati ricadenti sulla faccia arrossata e coperta di sudore.
    - Dagli, dagli!  -  gridava. Quando vide il conte, un lampo brillò nei
    suoi occhi.
    - Malediz...!   -  gridò,  alzando con aria furiosa lo scudiscio verso
    il conte.   -  Lasciarsi sfuggire il lupo così...  Bei cacciatori!   -
    E,  come  se  non  si  degnasse  di  parlare  oltre al conte confuso e
    sgomento, con tutta la rabbia che aveva in corpo,  colpì con la frusta
    i fianchi umidi e incavati del suo baio e si slanciò dietro i cani. Il
    conte, immobile, come un bambino punito, si guardava attorno, cercando
    di  ottenere  da  Semën un sorriso di compassione per la situazione in
    cui si trovava.  Ma Semën non era più lì:  egli,  girando  attorno  al
    macchione,  correva incontro al lupo.  I levrieri inseguivano la belva
    da due parti.  Ma il lupo si cacciò  tra  i  cespugli  e  nessuno  dei
    cacciatori riuscì a raggiungerlo.


    CAPITOLO 5.

    Frattanto Nikolàj Rostòv rimaneva al suo posto, in attesa della fiera.
    Dall'avvicinarsi e dall'allontanarsi dello strepito dell'inseguimento,
    dai latrati dei cani che ben conosceva, dall'avvicinarsi, allontanarsi
    o  sollevarsi  delle  voci  degli  uomini,  egli  capiva tutto ciò che
    accadeva nel bosco.  Sapeva  che  vi  erano  dei  lupi  vecchi  e  dei
    lupacchiotti,  sapeva  che  i  cani  erano divisi in due mute,  che un
    animale era inseguito da vicino e che doveva essere  accaduto  qualche
    incidente  spiacevole.  A ogni istante si aspettava di veder comparire
    il lupo dalla sua parte.  Faceva mille supposizioni diverse su come  e
    di  dove  sarebbe apparsa la fiera,  e in che modo egli avrebbe potuto
    inseguirla.  La speranza si alternava in lui  allo  scoraggiamento.  A
    parecchie riprese pregò Iddio di mandargli a tiro il lupo; pregava con
    quell'ardore  appassionato  e  insieme  vergognoso con cui pregano gli
    uomini nei momenti di intensa agitazione,  dipendente da cause di poca
    importanza.  "Che cosa ti costa", diceva a Dio, "di far questo per me?
    Lo so che Tu sei grande e che  è  peccato  supplicarti  per  una  cosa
    simile: ma fa' in modo, ti prego, che il vecchio lupo sbuchi nella mia
    direzione e che Karàj,  sotto gli occhi dello zio che guarda da questa
    parte, lo afferri alla gola con una stretta mortale". Mille volte,  in
    quella  mezz'ora,  Rostòv  percorse  con  lo sguardo teso,  ostinato e
    inquieto, il margine del bosco dove si ergevano due querce rade tra il
    folto di tremule e si apriva il burrone, con l'orlo roso dall'acqua, e
    spiccava il berrettone dello zio che spuntava appena da un  cespuglio,
    a destra.
    "No,  non avrò questa felicità",  pensava Rostòv,  "eppure che cosa ti
    costerebbe,  mio Dio?  Io sono sfortunato  sempre:  alle  carte,  alla
    guerra,   in  ogni  cosa".   Austerlitz  e  Dòlochov,  avvicendandosi,
    balenarono chiaramente al suo pensiero.  "Una volta  sola  nella  vita
    poter  prendere  un  lupo  e non desidero altro!",  pensava,  tendendo
    l'orecchio,  volgendo lo sguardo a sinistra e poi di nuovo a destra  e
    prestando attenzione alle minime sfumature dei latrati. Girò gli occhi
    di  nuovo  a destra e a un tratto vide qualche cosa corrergli incontro
    attraverso il campo deserto.  "Non può  essere,  no!",  pensò  Rostòv,
    sospirando  profondamente  come  sospira  chi  vede  accadere una cosa
    lungamente attesa.  Si stava realizzando la più  grande  e  desiderata
    fortuna,  con  la  massima  semplicità,  senza  rumori,  senza  indizi
    speciali,  Rostòv non credeva ai suoi occhi,  e il suo dubbio non durò
    più  di  un  secondo.  Il  lupo,  che  veniva  avanti correndo,  saltò
    pesantemente il fossato che attraversava la sua strada. Era un vecchio
    bestione dal dorso grigio e dal  ventre  largo  e  rossiccio.  Correva
    senza  affannarsi,  convinto  evidentemente  di  non  essere  visto da
    nessuno.  Rostòv,  che tratteneva il respiro,  guardò i cani i  quali,
    senza  vedere  il lupo e senza nulla capire,  se ne stavano in piedi o
    accovacciati.  Il vecchio Karàj con la testa  voltata  all'indietro  e
    digrignando  i  denti  giallastri,  si cercava rabbiosamente una pulce
    sulla coscia posteriore.
    - Dài! Dài!   -  bisbigliò Rostov,  movendo appena le labbra.  I cani,
    facendo  risonare  i  collari  di  ferro,  drizzarono  le  orecchie  e
    balzarono su. Karàj finì di grattarsi la coscia e si alzò, tendendo le
    orecchie e agitando leggermente la coda,  dalla quale pendevano  fitti
    ciuffi di pelo.
    "Devo  lanciare  i  cani  oppure no?",  si domandava Nikolàj mentre il
    lupo, allontanandosi sempre più dal bosco,  veniva verso di lui.  A un
    tratto  l'aspetto della belva mutò: essa trasalì vedendo fissati su di
    sé due occhi d'uomo,  probabilmente  mai  sino  allora  incontrati  e,
    volgendo  leggermente la testa in direzione del cacciatore,  si fermò.
    "Indietro o avanti?  Be',  è lo stesso;  avanti!",  parve  chiedere  e
    rispondere  a  se  stessa e,  senza più guardarsi attorno,  si slanciò
    avanti a un trotto morbido, elastico, misurato, ma deciso.
    - Dài!  Dài!   -  gridò Nikolàj con una voce irriconoscibile e il  suo
    buon  cavallo  si slanciò a precipizio,  saltando i borri,  giù per il
    pendio, per tagliare la strada al lupo; intanto i cani,  eccitati,  lo
    sorpassarono accelerando la corsa. Nikolàj non udiva le proprie grida,
    non  si accorgeva di galoppare,  non vedeva né i cani né il terreno su
    cui  galoppava,  ma  soltanto  il  lupo  che,  accelerando  la  corsa,
    procedeva  a  sbalzi,  senza  mutare direzione,  lungo l'avvallamento.
    Milka,  la nera cagna pezzata  dalla  larga  groppa,  fu  la  prima  a
    comparire vicino alla fiera,  accostandosi sempre di più... La toccava
    quasi...  stava per raggiungerla...  Ma non appena il  lupo  le  gettò
    un'occhiata  in  tralice,  essa,  invece  di  accelerare la corsa come
    soleva fare in momenti simili,  alzò a un tratto la coda e  si  fermò,
    puntando sulle zampe anteriori.
    - Dài! Dài!  -  gridava Nikolàj.
    Il fulvo Ljubim sorpassò Milka con un balzo, si slanciò sul lupo e gli
    addentò  una coscia,  ma in quello stesso momento,  spaventato,  balzò
    indietro.  Il lupo si accosciò,  digrignando i denti,  si rialzò e  si
    mise  a correre inseguito da vicino da tutti i cani,  che non ardivano
    avvicinarglisi.
    "Mi sfuggirà! No,  non è possibile!",  pensava Nikolàj,  continuando a
    eccitare i cani con grida rauche.
    - Karàj!  Dàgli,  Karàj  -  urlava,  cercando con gli occhi il vecchio
    cane,  unica sua speranza.  Karàj,  con tutte le  sue  vecchie  forze,
    allungandosi quanto più poteva,  senza distogliere gli occhi dal lupo,
    correva pesantemente a fianco della belva per tagliarle la strada.  Ma
    dalla  velocità  della  corsa  del lupo e dalla lentezza di quella del
    cane,  era evidente che Karàj aveva sbagliato i suoi calcoli.  Nikolàj
    vedeva  già  prossimo  davanti  a  sé  il bosco nel quale il lupo,  se
    l'avesse  raggiunto,  sarebbe  certamente  riuscito  a  sfuggire  alla
    caccia.  Ma  un  cacciatore,  attorniato  da  altri  cani gli comparve
    galoppando quasi davanti. C'era ancora una speranza... Un giovane cane
    lungo e quasi nero,  sconosciuto a  Nikolàj,  staccatosi  da  un'altra
    muta, si scagliò con impeto davanti al lupo e quasi l'atterrò. Il lupo
    con  una  sveltezza  incredibile  si  rialzò  e,  digrignando i denti,
    addentò il cane bruniccio il quale con un fianco squarciato e perdendo
    sangue diede un urlo acuto e stramazzò con la testa verso terra.
    - Karàjuska!  -  esclamò Nikolàj, quasi piangendo.
    Il vecchio cane,  con i ciuffi di pelo penzolanti sulle cosce,  grazie
    al breve arresto,  nel tagliare la strada al lupo,  si trovava ormai a
    cinque passi dalla belva. Come presentisse il pericolo, il lupo guardò
    Karàj di traverso,  ritirò la coda tra le  gambe  e  accelerò  la  sua
    corsa.  A  questo  punto  Nikolàj  vide  soltanto  che  qualcosa stava
    accadendo a Karàj: il cane in un attimo  piombò  sul  lupo,  e  i  due
    animali avvinghiati rotolarono nel pantano che era davanti a loro.
    Il  momento  in  cui Nikolàj vide i cani che si dibattevano nell'acqua
    con il lupo,  e sotto di essi scorse il pelo grigio della  belva,  una
    sua  zampa  posteriore  protesa  e le orecchie tese all'indietro sulla
    testa ansimante e spaurita mentre Karàj lo  addentava  alla  gola,  il
    momento  in cui Nikolàj vide tutto ciò fu uno dei più felici della sua
    vita.  Già stava afferrando il pomo della sella per scendere e dare il
    colpo  di  grazia  al  lupo,  quando  a un tratto dalla massa dei cani
    emerse la testa della belva,  poi le sue zampe anteriori si  puntarono
    sul  ciglio del borro.  Il lupo digrignò i denti (Karàj non lo serrava
    più alla gola),  balzò fuori dall'acqua melmosa  facendo  forza  sulle
    zampe posteriori,  abbassò la coda e, allontanatosi di nuovo dai cani,
    riprese la corsa.  Karàj,  con il pelo arruffato,  certamente ferito o
    contuso, faceva grandi sforzi per uscire dal borro.
    - Mio Dio! Perché?  -  gridò disperato Nikolàj.
    Dall'altra  parte,  un  cacciatore  dello zio,  galoppando,  tagliò la
    strada al lupo e i suoi cani accerchiarono di nuovo la belva.
    Nikolàj con il suo staffiere,  e lo zio con il suo cacciatore giravano
    attorno al lupo incitando i cani, gridando, pronti a scendere di sella
    quando  il  lupo  si accucciava sulle zampe posteriori,  e lanciandosi
    veloci ogni volta che la belva si avvicinava al margine del bosco dove
    poteva trovar rifugio.
    Sin dall'inizio di questo inseguimento, Danilo,  avendo udito le grida
    dei cacciatori,  era uscito sul limitare del bosco. Aveva veduto Karàj
    addentare il lupo e, supponendo già finita l'impresa, aveva fermato il
    cavallo. Ma quando vide che i cacciatori non smontavano di sella e che
    il lupo liberatosi dalla stretta dei cani aveva ripreso la  fuga,  non
    lanciò  il suo cavallo incontro alla belva,  ma lo spinse direttamente
    verso il bosco, per tagliargli la strada,  come già aveva fatto Karàj.
    Grazie  alla  direzione  scelta,  egli  si trovò vicino alla belva nel
    momento in cui i cani dello zio la fermavano per la seconda volta.
    Danilo galoppava in  silenzio,  tenendo  il  pugnale  sguainato  nella
    sinistra e percuotendo con la lunga frusta,  come un correggiato sulle
    biade, i fianchi del sauro.
    Nikolàj non vide e non udì Danilo  sino  a  che  il  sauro,  sbuffando
    rumorosamente,  non gli passò davanti,  sino a che non udì il tonfo di
    un corpo che cade e vide Danilo in mezzo ai cani,  seduto sulla groppa
    del lupo, che cercava di afferrare per le orecchie.
    Era  evidente ai cani come ai cacciatori e come allo stesso lupo,  che
    tutto  era  ormai  finito.  La  belva  spaventata,   con  le  orecchie
    appiattite all'indietro, cercava di sollevarsi, ma i cani la serravano
    da tutte le parti.  Danilo si rizzò,  fece un passo barcollando e poi,
    con tutto il suo peso,  come se si coricasse per riposare,  si  lasciò
    cadere  sulla  belva,  afferrandola  per  le orecchie.  Nikolàj voleva
    dargli il colpo di grazia, ma Danilo sussurrò:
    - No, no, lo prenderemo vivo!  -  e, mutando posizione,  pose il piede
    sul  collo  del  lupo  nelle  cui fauci venne cacciato un bastone.  Lo
    imbrigliarono con un guinzaglio, gli legarono le zampe e infine Danilo
    lo voltò e rivoltò da un fianco all'altro.
    Raggianti ed esausti, i cacciatori gettarono il lupo vivo sulla groppa
    di un cavallo che sbuffava e si agitava e,  accompagnati dai cani  che
    continuavano  a  latrare  furiosamente,  lo  portarono là dove avevano
    deciso di riunirsi tutti.  Due lupicini  erano  già  stati  presi  dai
    segugi  e  tre dai levrieri.  I cacciatori si avvicinavano con le loro
    prede e con il racconto delle loro avventure,  e tutti  si  spingevano
    per  vedere  l'animale  che,  con  la grossa testa ciondoloni e con il
    bastone conficcato nella gola,  guardava con  i  grandi  occhi  vitrei
    tutta  quella folla di uomini e di cani che gli stava attorno.  Quando
    qualcuno lo toccava contraeva le zampe legate e guardava tutti con uno
    sguardo selvaggio e semplice insieme.  Anche il conte Iljà Andreic' si
    accostò per toccare il lupo.
    -  Uh,  che  grosso  bestione!    -  esclamò.   -  E' un vecchio lupo,
    nevvero?  -  domandò a Danilo che gli stava accanto.
    - Sì,  eccellenza,  un grosso,  vecchio  lupo    -    rispose  Danilo,
    affrettandosi a togliersi il berretto.
    Il conte ripensò a come si era lasciata sfuggire la belva e ricordò di
    essere stato redarguito da Danilo.
    - Però,  fratello, come sei irascibile!  -  disse. Danilo non rispose.
    Si limitò a sorridere di un sorriso mite, infantile e simpatico.


    CAPITOLO 6.

    Il vecchio conte si diresse verso casa. Natascia e Pétja gli promisero
    di raggiungerlo quanto prima.  Poiché era  ancora  presto,  la  caccia
    continuò.  Verso mezzogiorno i cani da corsa furono lasciati liberi in
    un burrone coperto di giovani, folti cespugli. Nikolàj,  rimasto sulle
    stoppie, vedeva tutti i suoi cacciatori.
    Di  fronte  a  lui  si stendeva il verde tenerello dei campi invernali
    dopo le semine, e là stava in agguato, entro una buca, solo, al riparo
    di un cespuglio di noccioli,  il suo capocaccia.  Non  appena  i  cani
    furono  sguinzagliati,  Nikolàj  udì a intervalli l'abbaiare di uno di
    essi,  Voltorn,  che conosceva bene: altri latrati vi si udirono,  ora
    chetandosi, ora riprendendo. Un minuto dopo si levò dal bosco il suono
    del  corno  per  la  caccia  alla volpe,  e tutta la muta si slanciò a
    precipizio, giù per il pendio, in direzione dei campi,  allontanandosi
    da Nikolàj.
    Egli  vedeva  galoppare  lungo  il ciglio della forra i bracchieri dal
    berretto rosso,  vedeva la muta dei cani e aspettava,  da  un  momento
    all'altro,  di  vedere  comparire,  dall'altra  parte tra il verde dei
    campi, anche la volpe.
    Il cacciatore, in agguato dentro la buca, si mosse,  sciolse il cane e
    Nikolàj  vide una volpe rossiccia,  dalle zampe stranamente corte che,
    gonfiando la coda,  correva a precipizio  tra  il  verde  novello  dei
    campi. I cani si lanciarono all'inseguimento. Ecco, si avvicinavano...
    ecco  la  volpe  girare  in mezzo a loro percorrendo cerchi sempre più
    stretti e girare su se stessa attorno alla morbida coda;  ed  ecco  un
    cane bianco piombarle addosso,  seguito da uno nero,  sino a che tutto
    si confuse, e i cani le si disposero attorno a forma di stella, con le
    zampe posteriori allargate,  ondeggiando  lievemente.  Due  cacciatori
    accorsero al galoppo verso i cani: uno in berretto rosso, l'altro, uno
    sconosciuto, vestito di un caffettano verde.
    "Che  succede?",  pensò Nikolàj.  "Di dove è sbucato quello?  Non è un
    cacciatore dello zio".
    I due presero la volpe e rimasero  a  lungo  fermi,  in  piedi,  senza
    legarla.  Accanto a loro stavano i cavalli sellati e i cani accucciati
    a terra. Gli uomini agitavano le mani, facevano qualcosa con la volpe.
    Poi da quella stessa parte un corno  diffuse  un  lungo  suono,  segno
    convenzionale di una contesa.
    -  E'  un cacciatore di Ilagin che sta litigando con il nostro Ivàn  -
    disse lo staffiere di Nikolàj.
    Nikolàj mandò a richiamare Natascia e Pétja e mosse al passo verso  il
    luogo  dove  il  capocaccia  si affaccendava a riunire i cani.  Alcuni
    cacciatori erano accorsi attorno ai due litiganti.
    Nikolàj smontò da cavallo,  si fermò vicino ai  cani  con  Natascia  e
    Pétja  e insieme con loro attese la fine del litigio.  Dal margine del
    bosco uscì, con la volpe agganciata all'arcione,  il cacciatore che si
    era  azzuffato e venne verso il giovane padrone.  Levatosi il berretto
    già da  lontano,  cercava  ora  di  parlare  rispettosamente;  ma  era
    pallido,  ansimante,  e  il  suo  viso esprimeva una collera violenta.
    Aveva un occhio contuso, ma probabilmente non se ne accorgeva neppure.
    - Che c'è stato laggiù tra voi?  -  domandò Nikolàj.
    - Quel bel tipo pretende di cacciare sulle tracce dei nostri cani!  La
    volpe è stata presa dalla mia cagna, quella color grigio topo... e lui
    se  n'è impadronito!  Va' dal giudice,  va'...  E io l'ho picchiato di
    santa ragione con la volpe stessa... Eccola qui, dietro la sella!... E
    questo lo vuoi provare?   -  diceva il cacciatore  immaginando,  senza
    dubbio, di parlare ancora con il suo rivale.
    Nikolàj,  senza rispondergli, pregò la sorella e Pétja di aspettarlo e
    andò dov'era radunata la caccia avversaria, quella di Ilagin.
    Il  cacciatore  vittorioso  si  mescolò  agli  altri  compagni  e  là,
    circondato dai curiosi simpatizzanti, narrò la sua impresa.
    Ecco come erano accadute le cose.  Ilagin, con il quale i Rostòv erano
    in discordia e avevano in corso un processo, cacciava su terre che per
    diritto di consuetudine appartenevano ai Rostòv e ora,  quasi a  farlo
    apposta,  aveva  ordinato  ai  suoi  battitori di avvicinarsi al luogo
    riservato dove stavano cacciando i Rostòv e aveva permesso a  uno  dei
    suoi  uomini  di lanciare i cani verso la bestia inseguita da una muta
    che non era la sua.
    Nikolàj non aveva  mai  visto  Ilagin  ma,  incapace  come  sempre  di
    mantenere il giusto mezzo nei suoi giudizi e nei suoi sentimenti,  per
    le  voci  che  correvano  circa  le  violenze  e  i  soprusi  di  quel
    possidente,  lo  odiava  con  tutta  l'anima  e  lo considerava il suo
    peggiore  nemico.  Cavalcava  adesso  alla  sua  volta,  accigliato  e
    furioso,  stringendo con forza il manico dello scudiscio,  pronto agli
    atti più decisivi e più pericolosi contro il suo avversario.
    Non appena ebbe  aggirato  una  sporgenza  del  bosco,  vide  venirgli
    incontro  un  grosso signore in berretto di lontra,  in sella a un bel
    cavallo nero, seguito da due staffieri.  Invece di un nemico,  Nikolàj
    trovò   in  Ilagin  un  cortesissimo  e  assai  rispettabile  signore,
    desideroso di fare conoscenza con il giovane  conte.  Avanzando  verso
    Rostòv,  Ilagin sollevò il suo berretto di lontra,  disse di deplorare
    vivamente l'accaduto e di essere deciso a punire il battitore  che  si
    era  permesso  di cacciare un animale inseguito da cani altrui;  pregò
    infine il conte di voler diventare suo buon conoscente e gli offrì  di
    cacciare nelle sue terre.
    Natascia,   temendo  che  il  fratello  trascendesse  a  qualche  atto
    deplorevole, lo seguiva inquieta a breve distanza,  ma,  vedendo che i
    due si salutavano amichevolmente,  li raggiunse. Ilagin sollevò ancora
    più alto il suo berretto di lontra e sorridendo affabilmente disse che
    la giovane contessa faceva pensare a Diana,  sia per la  sua  passione
    per  la  caccia,  sia  per  la sua bellezza di cui aveva sentito molto
    parlare.
    Ilagin,  per farsi  perdonare  la  colpa  del  suo  cacciatore,  pregò
    insistentemente  Rostòv di passare nella sua riserva che distava di lì
    appena un miglio e dove,  a suo dire,  le lepri  pullulavano.  Nikolàj
    acconsentì e il gruppo dei cacciatori, raddoppiato, si spinse oltre.
    Per raggiungere la riserva di Ilagin,  bisognava attraversare i campi.
    I signori marciavano insieme.  Lo  zio,  Rostòv  e  Ilagin  guardavano
    furtivamente  i cani altrui,  badando di non farsi scorgere e cercando
    con inquietudine tra quegli animali i possibili rivali dei propri.
    Rostòv  fu  specialmente  colpito  dalla  bellezza  di  una  cagnetta,
    piccolina,  sottile,  ma  dai muscoli d'acciaio,  il muso aguzzo,  gli
    occhi neri sporgenti,  pezzata di rosso,  che apparteneva alla muta di
    Ilagin.  Aveva  sentito parlare dell'abilità della muta di Ilagin e in
    quella bellissima cagna scorgeva una rivale della sua Milka.
    Durante una sua conversazione sul raccolto  dell'annata,  iniziato  da
    Ilagin, Rostòv gli indicò la cagna pezzata di rosso.
    - Bella bestia,  quella vostra cagna!  E' veloce?   -  chiese con aria
    indifferente.
    - Quella? Sì, è un ottimo animale...  una brava puntatrice  -  rispose
    Ilagin con lo stesso tono indifferente,  accennando alla sua Erza, per
    la quale l'anno precedente aveva ceduto a un suo vicino  tre  famiglie
    di cervi.   -  Dunque neppure voi,  conte, siete molto soddisfatto del
    raccolto di  quest'anno?    -    soggiunse,  riprendendo  il  discorso
    iniziato.  Poi,  giudicando  che  fosse  cortese occuparsi dei cani di
    Rostòv come questi  si  era  occupato  dei  suoi,  Ilagin  li  osservò
    attentamente  e  indicò Milka,  che lo aveva colpito per la sua taglia
    larga e vigorosa.
    - E quella vostra cagna pezzata di nero è buona?  -  domandò.
    - Sì, abbastanza... corre bene  -  rispose Nikolàj. "Se adesso,  ecco,
    passasse  di corsa una lepre adulta nel campo,  ti farei vedere io che
    razza di cane è la mia Milka!",  pensava intanto e voltandosi verso il
    suo  staffiere,  promise  un  rublo  a  chi avesse avvistato una lepre
    acquattata.
    - Io non capisco  -  continuò Ilagin  -  come i cacciatori siano tanto
    gelosi della selvaggina e dei cani altrui. Per conto mio, conte,  dirò
    che  mi  diverto a fare una cavalcata: così può capitare di imbattersi
    in una compagnia come questa... che c'è di meglio?  -  (E riprendeva a
    levarsi il berretto di castoro davanti a Natascia).   -  Ma il contare
    quante pelli si sono prese proprio non mi interessa!
    - Giustissimo.
    -  O che mi offenda,  o quasi,  se il cane di un altro e non il mio ha
    raggiunto la preda...  A me,  per  divertirmi,  basta  assistere  alla
    caccia. Che ne dite, conte? Ritengo inoltre che...
    -  Aa-tù!    -   risonò in quel momento il grido prolungato di uno dei
    canettieri che si erano fermati. Immobile su di una piccola altura, in
    mezzo alle stoppie,  con la frusta in mano,  ripeté ancora  una  volta
    quel  grido  prolungato:  "Aa-tù!".  (Il  grido prolungato e la frusta
    sollevata  significava  che  egli  vedeva  davanti  a  sé  una   lepre
    acquattata).
    -  Pare  che  l'abbia  scovata,  eh?   - disse con noncuranza Ilagin.-
    Vogliamo inseguirla, conte?
    - Sì, bisogna andare...  e andiamo insieme,  eh?   -  rispose Nikolàj,
    guardando Erza e il fulvo Rugàj dello zio, i due rivali contro i quali
    non  gli  era mai capitato di mettere alla prova i propri cani.  "E se
    poi fanno fare una  figuraccia  alla  mia  Milka?",  pensava,  mentre,
    insieme con lo zio e con Ilagin, si avvicinava alla lepre.
    - E' adulta?   -  domandò Ilagin, accostandosi al cacciatore che aveva
    scovato la lepre e,  guardandosi attorno non senza una certa emozione,
    mandò un fischio di richiamo alla sua Erza...
    -E voi, Michaìl Nikànoric'?  -  chiese, rivolgendosi allo zio.
    Lo zio cavalcava cupo e accigliato.
    -  A  che  scopo  mi  ci dovrei immischiare?  I vostri cani sono stati
    pagati quanto costa un  villaggio,  valgono  migliaia  di  rubli.  Voi
    lanciate i vostri all'inseguimento, io starò a guardare. Su, su, Rugàj
    -     gridò.     -    Su,   Rugàjuska!     -    aggiunse,   esprimendo
    involontariamente con  quel  diminutivo  la  propria  tenerezza  e  la
    speranza che poneva in quel cane rossiccio.
    Natascia  vedeva e intuiva l'emozione nascosta di quei due vecchi e di
    suo fratello e si sentiva anch'essa agitata.
    Il cacciatore stava sempre ritto sul  piccolo  poggio  con  la  frusta
    sollevata; i signori gli si avvicinano con il cavallo al passo. I cani
    da  punta  che procedevano sulla linea dell'orizzonte si allontanavano
    sempre più dalla lepre; gli altri cacciatori,  meno i padroni,  fecero
    lo stesso. Tutti si muovevano lentamente e con cautela.
    -  Da  che  parte  ha voltato la testa?   -  domandò Nikolàj quando si
    trovò a circa cento passi dal cacciatore che aveva stanato  la  lepre.
    Ma  questi  non  fece  in  tempo  a rispondere che la lepre,  fiutando
    nell'aria la gelata del mattino successivo,  balzò via.  Una  muta  di
    cani, appaiati sui guinzagli, si slanciò ululando all'inseguimento giù
    per  il  pendio;  i  levrieri  si  gettarono sui cani da punta e sulla
    lepre. Tutti quei cacciatori,  che si erano mossi lentamente,  presero
    il  galoppo  attraverso  i  campi;  i  bracchieri  gridando:  "Fermo!"
    disorientavano i cani,  mentre i guidatori dei levrieri li  incitavano
    al grido di: "Aa-tù!".
    Il  tranquillo  Ilagin,  Nikolàj,  Natascia  e lo zio andavano come il
    vento senza sapere né dove né come,  non vedendo altro all'infuori dei
    cani e della lepre e temendo soltanto di perdere di vista,  anche solo
    per un attimo,  le tracce dell'animale.  La lepre era vecchia e agile.
    Dopo  aver  fatto  il primo balzo,  non si diede subito alla fuga,  ma
    agitò  le  orecchie  per  ascoltare  le  grida  e  il  calpestio   che
    all'improvviso  le risonarono attorno.  Fece,  senza affrettarsi,  una
    diecina di salti lasciando che i cani si avvicinassero e  poi,  scelta
    la propria direzione e conscia del pericolo,  abbassò le orecchie e si
    mise a correre. Si era appiattita in mezzo alle stoppie, ma dinanzi le
    si stendevano i campi già verdi dove il terreno era molle.  I due cani
    del  cacciatore che l'aveva avvistata,  essendo i più vicini di tutti,
    furono i primi a vederla e  a  lanciarsi  all'inseguimento:  ma  erano
    ancora  lontani  dal  raggiungerla  quando li sorpassò a volo la fulva
    Erza di Ilagin: si avvicinò sino alla distanza  di  una  lunghezza  di
    cane,  accelerò  la corsa con incredibile velocità,  mirando alla coda
    della lepre e, credendo di averla afferrata, cadde ruzzoloni. La lepre
    inarcò la schiena e accelerò ancora la corsa.  Dietro a Erza  comparve
    Milka dal largo dorso pezzato di nero,  e rapidamente si avvicinò alla
    lepre.
    - Mìluska cara!   -  risonò il grido trionfante di Nikolàj. Pareva che
    Milka fosse lì lì per raggiungere e agguantare la  preda:  invece  non
    solo  la raggiunse ma,  nell'impeto della corsa,  la superò.  La lepre
    fece un balzo laterale.  Di nuovo la bella Erza le fu da presso  e  si
    protese  proprio sulla coda dell'animale,  come se prendesse la misura
    per non sbagliare di nuovo e afferrarlo alla coscia posteriore.
    - Erzinka, cara!   -  si udì la voce piagnucolosa e diversa dal solito
    di Ilagin.
    Ma Erzinka non ascoltò la sua preghiera. Nel preciso momento in cui ci
    si  aspettava  che  essa afferrasse la lepre,  questa fece un balzo di
    lato e riprese a correre tra il verde dei campi e le stoppie. Di nuovo
    Erza e Milka, come due cavalli al timone,  si appaiarono e inseguirono
    la  lepre  la quale,  giunta al tratto intermedio tra campo e stoppie,
    poté correre più facilmente mentre i cani perdevano terreno.
    - Rugàj ! Rugàjuska! Così va bene, marsch!  -  gridò nel frattempo una
    terza voce e Rugàj,  il cane rossiccio e gobbo dello zio,  tendendo il
    più  possibile il corpo e inarcando la schiena,  già raggiungeva i due
    primi cani, li sorpassava e,  spingendosi con appassionato oblio di se
    stesso  sin  sopra  la  lepre,  la spinse dal terreno aperto sul campo
    seminato,  la rincorse con maggior rabbia sul  verde  molle  di  fango
    affondando sino alle ginocchia, cosicché lo si vide soltanto rotolare,
    insieme  con la preda,  con il dorso coperto di fango.  Attorno gli si
    disposero a stella i cani.  Dopo un minuto tutti stavano attorno  alla
    massa dei cani.  Lo zio,  l'unico felice, smontò da cavallo. Afferrata
    la lepre,  prese a scuoterla per farne colare il sangue e  intanto  si
    guardava  attorno  con  gli occhi sfuggenti,  senza sapere in che modo
    atteggiare le braccia e le gambe  e  parlava  senza  sapere  che  cosa
    dicesse né a chi parlasse.   -  Ecco,  benissimo,  marsch... questo sì
    che è un cane...  li ha battuti tutti,  anche quelli  da  mille  e  un
    rublo...    -   diceva,  ansimando e guardandosi rabbiosamente attorno
    come se imprecasse contro qualcuno,  come se tutti fossero suoi nemici
    e lo avessero offeso, e soltanto ora potesse finalmente giustificarsi.
    -    Eccoli  i  vostri  cani  da  mille e un rublo...  Corpo di bacco,
    benissimo, marsch!
    - Rugàj,  prendi!   -  esclamò gettando al cane la zampetta  tagliata,
    tutta inzaccherata di fango.  -  Te la sei meritata, corpo di bacco!
    - E' sfinito!  Per ben tre volte si è buttato da solo all'inseguimento
    -  diceva Nikolàj, anch'egli senza ascoltare nessuno e senza badare se
    gli altri gli prestavano attenzione o no.
    - Però l'ha presa di fianco!  -  osservò lo staffiere di Ilagin.
    - Già,  dopo aver fatto cilecca,  qualunque cane da guardia  l'avrebbe
    acchiappata    -    diceva intanto Ilagin rosso in viso,  respirando a
    fatica per la galoppata e l'emozione. Intanto Natascia,  senza prender
    fiato,   lanciava  strilli  gioiosi  ed  entusiastici  così  acuti  da
    stordire.  Con quel suo strillare ella esprimeva ciò che i  cacciatori
    esprimevano  parlando tutti in una volta.  E quegli strilli erano così
    strani e selvaggi che certo ella se ne sarebbe vergognata, in un altro
    momento, e tutti se ne sarebbero meravigliati.  Lo zio in persona legò
    la  lepre  e con un gesto abile e svelto la gettò attraverso la groppa
    del cavallo;  poi,  con l'aria di rimproverare tutti,  e di non  voler
    parlare con nessuno, inforcò il suo sauro e si allontanò.
    Tutti gli altri erano tristi e mortificati;  si divisero in silenzio e
    soltanto dopo un bel pezzo  riuscirono  a  fingere  l'indifferenza  di
    prima.  Ancora  a lungo guardarono il fulvo Rugàj che,  con la schiena
    gobba tutta coperta di fango, scuoteva il collare di ferro e procedeva
    calmo e tranquillo,  con l'aspetto del vincitore,  dietro  il  cavallo
    dello zio.
    "Io  sono  un  cane  come  tutti  gli  altri  quando  non si tratta di
    inseguire. Ma allora,  attenti!".  Questo pareva a Nikolàj che dicesse
    il cane, con quella sua aria da trionfatore.
    Quando,  molto  tempo  più  tardi,  lo zio si avvicinò a Nikolàj e gli
    rivolse la parola, il giovane fu lusingato che lo zio, dopo quanto era
    avvenuto, si degnasse ancora di parlargli.


    CAPITOLO 7.

    Quando,  verso sera,  Ilagin salutò Nikolàj,  questi si trovava a  una
    tale distanza da casa, che accettò volentieri la proposta dello zio di
    trascorrere la notte da lui nella sua proprietà di Michailovka .
    - E se veniste da me? Ecco, benone, marsch!  -  aveva detto lo zio.  -
    Sarebbe la cosa migliore.  Vedete,  il tempo è umido  -  proseguì,   -
    potreste riposare e la contessina la potremmo riaccompagnare a casa in
    calesse.
    L'invito fu accolto, e fu mandato a Otràdnoe un domestico per prendere
    il calesse mentre Nikolàj, Pétja e Natascia andarono dallo zio.
    Cinque o sei domestici, tra adulti e ragazzi, andarono a incontrare il
    padrone  all'ingresso  principale.  Una  diecina  di  donne,  vecchie,
    giovani  e  ragazzine,  spuntarono  da quello di servizio per vedere i
    cacciatori che tornavano. La presenza di Natascia,  di una signorina a
    cavallo,  eccitò  la curiosità delle donne di servizio dello zio a tal
    punto che  molte,  senza  alcun  imbarazzo,  le  si  avvicinavano,  la
    fissavano  negli occhi e facevano ad alta voce i loro commenti sul suo
    conto, come se si trattasse di un fenomeno in mostra che,  non essendo
    una creatura umana, non può né capire né udire ciò che si dice di lui.
    -  Arinka,  guarda,  è  seduta  di  fianco!  Lei  è  seduta e la gonna
    svolazza... Vedi, ha anche il corno!
    - Santi benedetti, e persino il coltello!
    - Ve', una tartara!
    - Come hai fatto  a  non  cadere?    -    chiedevano  le  più  ardite,
    rivolgendosi direttamente a Natascia.
    Lo  zio  scese  da  cavallo  davanti all'ingresso della sua casetta di
    legno circondata da un giardino e,  data  un'occhiata  alla  gente  di
    casa,  in  tono  imperioso,  gridò  che  chi non era necessario poteva
    andarsene e ordinò che fosse fatto tutto quanto occorreva per ricevere
    gli ospiti e i cacciatori.
    Tutti se la squagliarono.
    Lo zio fece scendere  da  cavallo  Natascia  e,  tenendola  per  mano,
    l'aiutò  a salire i malfermi scalini dell'entrata.  Nella casa,  dalle
    pareti di legno non intonacate,  non regnava molta pulizia: si  vedeva
    che  i suoi abitanti non si preoccupavano di lasciare qualche macchia,
    ma neppure vi si notava la trascuratezza.  Il  vestibolo,  dove  erano
    appese pelli di lupi e di volpi, era impregnato di un intenso odore di
    mele fresche.
    Attraverso l'anticamera,  lo zio condusse i suoi ospiti in una piccola
    sala, arredata con una tavola pieghevole e alcune sedie di mogano, poi
    in un salotto dove si  trovavano  un  tavolino  rotondo  di  legno  di
    betulla  e un divano,  e infine in uno studio con un divano sfiancato,
    un tappeto logoro, i ritratti di Suvorov,  del padre e della madre del
    padrone di casa e il ritratto di lui stesso in divisa militare.  Nello
    studio si sentiva un forte odore di tabacco e  di  cane.  Qui  lo  zio
    invitò i suoi ospiti a sedersi, li pregò di considerarsi in casa loro,
    e  uscì.  Rugàj,  con la schiena ancora coperta di fango,  entrò nello
    studio,  si sdraiò sul divano e cominciò a ripulirsi con la  lingua  e
    con i denti.  Dallo studio si partiva un corridoio in cui si vedeva un
    paravento con la stoffa lacerata.  Dietro al  paravento  si  sentivano
    risate e sussurri femminili. Natascia, Nikolàj e Pétja si sbarazzarono
    dei cappotti e si misero a sedere sul divano.  Pétja appoggiò la testa
    su un braccio e cadde immediatamente addormentato.  Natascia e Nikolàj
    tacevano;  avevano il volto acceso, erano affamati e molto allegri. Si
    scambiarono una occhiata (dopo la caccia, tra le quattro pareti di una
    stanza,  Nikolàj non riteneva necessario ostentare la sua  superiorità
    di  uomo  in  presenza  della sorella): Natascia ammiccò al fratello e
    tutti e due, incapaci ormai di trattenersi,  scoppiarono in una sonora
    risata, prima ancora di aver inventato un qualsiasi pretesto alla loro
    allegria.
    Poco dopo entrò lo zio, in casacca, calzoni turchini e scarpe basse, e
    Natascia  sentì che quell'abbigliamento,  che veduto già a Otràdnoe le
    aveva suscitato stupore e irrisione,  era un vero vestito,  per  nulla
    peggiore delle giubbe e delle marsine. Anche lo zio era allegro; e non
    solo  non  si  offese per l'ilarità dei giovani Rostòv (non gli poteva
    neppure passare per l'anticamera del cervello che  si  potesse  ridere
    della sua vita), ma si unì anch'egli alle loro risate senza motivo.
    - E brava la contessina!  Ecco, benone, marsch! Non ne avevo mai vista
    una che le possa stare alla pari!   -  esclamò,  porgendo una pipa dal
    lungo bocchino a Nikolàj e riempiendone per sé una corta,  dalla canna
    lavorata, che egli reggeva con gesto abituale, fra tre dita.  -  Tutta
    la giornata a cavallo, come un uomo, come se niente fosse!
    Poco dopo l'ingresso dello zio aprì l'uscio una ragazza che, si capiva
    dal rumore dei passi,  camminava scalza,  ed  entrò  una  bella  donna
    robusta e colorita,  sulla quarantina, con il doppio mento e le labbra
    tumide e rosse,  che reggeva  tra  le  mani  un  grande  vassoio.  Con
    un'espressione  di  affabile  ospitalità  negli occhi e in ogni gesto,
    guardò  gli  invitati   e   con   un   sorriso   gentile   li   salutò
    rispettosamente.  Nonostante un'obesità poco comune che la costringeva
    a spingere in fuori il petto e il ventre e a tirare indietro la testa,
    quella donna,  che era la governante di casa dello zio,  camminava con
    straordinaria leggerezza.  Si avvicinò al tavolo, vi posò il vassoio e
    con le abili,  bianche  mani  grassocce,  ne  tolse,  disponendole  in
    bell'ordine sulla tavola,  le bottiglie,  gli antipasti e vari tipi di
    leccornie. Fatto ciò, si diresse verso l'uscio e si fermò sulla soglia
    con le labbra atteggiate al sorriso. "Eccomi qui,  vedete chi sono.  E
    adesso puoi capire lo zio?",  pareva dire a Rostòv la sua apparizione.
    Come non capire? Non solo Rostòv,  ma persino Natascia capiva lo zio e
    il  significato  delle  sopracciglia  aggrottate e del sorriso lieto e
    soddisfatto che gli aveva  appena  increspato  le  labbra  quando  era
    entrata Anìssja Fëdorovna. Sul vassoio c'erano infusi di erbe, bevande
    diverse,  funghi, gallettine di grano nero, miele di favo, miele cotto
    e spumoso,  mele,  noci fresche e abbrustolite e noci  di  miele.  Poi
    Anìssja  Fëdorovna  portò ancora varie conserve di frutta fatte con il
    miele e lo zucchero, del prosciutto e un pollo appena arrostito.
    Tutte quelle ghiottonerie erano state scelte e  preparate  da  Anìssja
    Fëdorovna  e  tutte  facevano  pensare  alla sua freschezza,  alla sua
    pulizia, al suo candore e al suo simpatico sorriso.
    - Mangiate,  signorina contessina  -  diceva,  offrendo a Natascia  un
    piatto dopo l'altro.
    Natascia  mangiava  di  tutto  e  le  pareva di non aver mai veduto né
    assaggiato in alcun altro luogo simili  frittelle,  né  conserve  così
    profumate,  né noci al miele,  né pollastrelli così fragranti. Anìssja
    Fëdorovna uscì.  Rostòv e lo zio,  bevendo durante la cena rosolio  di
    ciliegie,  discorrevano  della  caccia passata e di quelle future,  di
    Rugàj e dei cani di Ilagin.  Natascia,  seduta sul divano,  eretta sul
    busto,  li ascoltava con gli occhi scintillanti. Parecchie volte tentò
    di svegliare Pétja,  per  fargli  mangiare  qualcosa,  ma  il  ragazzo
    borbottava nel sonno parole incomprensibili,  senza destarsi. Natascia
    sentiva  in  sé  una  tale  gaiezza,   si  trovava   tanto   bene   in
    quell'ambiente  per  lei  nuovo,  che  temeva  soltanto che il calesse
    arrivasse troppo presto a prenderla. Dopo uno di quei brevi improvvisi
    silenzi,  che capitano spesso quando si ricevono per la prima volta in
    casa propria dei conoscenti,  lo zio,  quasi rispondendo a un pensiero
    dei suoi ospiti, disse:
    - Ecco,  così vado verso la fine della mia vita.  Poi morirò...  ecco,
    benone,  marsch...  e  di  me non resterà più nulla.  Perché,  dunque,
    peccare?
    Il viso dello zio,  mentre diceva queste cose,  era molto espressivo e
    quasi  bello.  Rostòv,  ascoltandolo,  ricordò tutto il bene che aveva
    sentito dire di quell'uomo da suo padre e  dai  vicini.  In  tutto  il
    distretto egli godeva fama di essere un originale,  pieno di nobiltà e
    assolutamente disinteressato.  Spesso lo chiamavano come arbitro nelle
    questioni  di  famiglia,  lo  nominavano esecutore testamentario,  gli
    confidavano segreti,  lo eleggevano giudice  o  gli  affidavano  altre
    incombenze;  ma  egli  aveva  sempre rifiutato ostinatamente qualsiasi
    carriera pubblica; trascorreva l'autunno e la primavera nei campi, sul
    suo cavallo sauro;  d'inverno se ne stava in casa e  d'estate  dormiva
    nel suo ombroso, incolto giardino.
    - Perché non prendete servizio, zio?
    - Ho incominciato, ma ho piantato lì. Non è cosa per me. Ecco, benone,
    marsch! E' roba per voi, io non ho abbastanza intelligenza. Per quanto
    riguarda la caccia è un altro affare!  Aprite, dunque, quell'uscio!  -
    gridò.  -  Perché l'avete chiuso?
    L'uscio  in  fondo  al  corridoio  (che  lo  zio  chiamava  collidoio)
    conduceva  nella  camera  degli  scapoli,  come era chiamata la camera
    riservata ai cacciatori. Si sentì un rapido stropiccio di piedi nudi e
    una mano invisibile aprì l'uscio. Dal corridoio giunsero distintamente
    le note di una "balalàjka" (7) sonata  certamente  dalla  mano  di  un
    artista. Natascia già da un pezzo porgeva l'orecchio a quella musica e
    ora, per meglio udirla, uscì nel corridoio.
    -  E'  il  mio  Mitka,  il  cocchiere...  Gli  ho  comperato una buona
    "balalàjka"  -  disse lo zio;   -  mi piace tanto sentirla suonare   -
    spiegò.
    In  casa dello zio c'era la consuetudine che quando egli tornava dalla
    caccia Mitka sonasse la "balalàjka" nella stanza  dei  cacciatori.  Al
    vecchio piaceva ascoltare quella musica.
    -  Com'è bello!  Davvero molto bello!   -  disse Nikolàj con una certa
    involontaria noncuranza,  come se si vergognasse di ammettere  che  il
    suono di quella musica piaceva molto anche a lui.
    - Come,  molto bello?  -  domandò Natascia che aveva avvertito il tono
    con cui aveva parlato il fratello.   -  Non solo molto bello...  è una
    vera meraviglia!
    Come i funghetti,  il miele e il liquore dello zio le erano sembrati i
    migliori del mondo, così quella musica le pareva, in quel momento,  un
    insuperabile godimento.
    -  Ancora,  ancora,  vi  prego!    -    disse  Natascia  in  direzione
    dell'uscio,  non  appena  la  "balalàjka"  tacque.  Mitka  accordò  lo
    strumento  e riprese a sonare con bravura e con slancio la canzone "La
    signora",  ornandola di variazioni e di  ghirigori.  Lo  zio,  seduto,
    ascoltava attento,  con la testa piegata da un lato e con un sorriso a
    filo di labbra.  Il motivo di "La signora" fu ripetuto un centinaio di
    volte.  A  parecchie  riprese  il  sonatore  accordò  lo strumento,  e
    tremolarono gli stessi suoni di cui  gli  ascoltatori  non  erano  mai
    sazi,  ma  che  volevano  sentire  ripetere  ancora e ancora.  Anìssja
    Fëdorovna rientrò e appoggiò contro lo stipite il suo grosso corpo.
    - Vi degnate di ascoltare?   -  domandò  a  Natascia  con  un  sorriso
    straordinariamente simile a quello dello zio.   -  Mitka suona davvero
    bene!  -  aggiunse.
    - Ecco,  a questo punto non suona come dovrebbe  -  intervenne lo zio,
    con  un  gesto  energico.    -  Qui ci vuole una cascatella di note...
    ecco, benone, marsch... sì, una cascatella...
    - Sapete sonare, voi?  -  domandò Natascia. Lo zio,  senza rispondere,
    sorrise.
    -  Guarda un po',  Anìssjuska,  se le corde della mia chitarra sono in
    ordine.  Da un bel pezzo non l'ho più  presa  in  mano  ecco,  benone,
    marsch! L'ho proprio trascurata.
    Anìssja  Fëdorovna  si  avviò  premurosamente,  con  la  sua  andatura
    leggera,  a eseguire l'ordine del padrone e tornò poco dopo,  portando
    la chitarra.
    Lo  zio,  senza guardare nessuno,  soffiò via la polvere,  con le dita
    ossute batté sulla cassa dello strumento,  lo accordò e si sedette più
    comodamente  sulla  poltrona.  Con  un gesto un po' teatrale,  tenendo
    sollevato il gomito sinistro,  prese la chitarra  per  il  manico,  e,
    strizzando un occhio ad Anìssja Fëdorovna, non intonò "La signora", ma
    trasse dallo strumento un accordo sonoro e preciso;  poi, lentamente e
    con calma,  ma con vigore,  cominciò a modulare su un ritmo  dolce  la
    canzone allora assai nota. "Sulla strada selciata...". All'unisono con
    quella misurata gaiezza (quella stessa che emanava da tutta la persona
    di Anìssja Fëdorovna), il motivo della canzone fece vibrare l'animo di
    Nikolàj e di Natascia.  Anìssja Fëdorovna arrossì e, copertasi il viso
    con lo scialletto,  uscì dalla stanza.  Lo zio continuò a  sonare  con
    precisione  in  un tono limpido,  sicuro e rigoroso,  fissando con uno
    sguardo mutato e ispirato il punto da cui si era  allontanata  Anìssja
    Fëdorovna.   Qualcosa  sorrideva  appena  sul  suo  viso,  un  sorriso
    impenetrabile a un angolo della bocca, sotto il baffo grigio; e questo
    specialmente quando il ritmo della canzone si accentuava,  si sfrenava
    e si spezzava bruscamente.
    - Che meraviglia,  zio!  Che meraviglia!  Ancora,  ancora!  -  esclamò
    Natascia,  non appena egli ebbe finito.  E,  balzando dal  suo  posto,
    corse ad abbracciare e a baciare lo zio.
    -  Nikòlinka,  Nikòlinka!   -  disse rivolgendosi al fratello come per
    chiedergli: "ma che è mai questo?".
    Anche Nikolàj gustava molto la musica  dello  zio.  Questi  ripeté  la
    canzone. Il viso sorridente di Anìssja Fëdorovna comparve di nuovo nel
    rettangolo della porta e altri visi comparvero dietro di lei... Lo zio
    sonò: "Laggiù mentre attinge acqua alla fresca sorgente, una fanciulla
    grida:  aspetta!"  e  poi  fece  una variazione abilissima,  lanciò un
    accordo e si mise ad agitare le spalle.
    - Su,  su,  zietto caro,  ancora!   -    supplicò  Natascia  con  voce
    implorante, come se fosse in gioco la sua vita.
    Lo  zio si alzò e parve che in lui ci fossero due uomini: l'uomo serio
    sorrise gravemente del buontempone e il  buontempone  mosse  un  passo
    ingenuo e preciso prima di iniziare la danza.
    - Su, nipotina!  -  gridò, facendo un cenno d'invito a Natascia con la
    mano che aveva spezzato l'accordo.
    Natascia  si sbarazzò dello scialletto che l'avvolgeva,  corse davanti
    allo zio,  e con le mani sui fianchi fece un grazioso movimento con le
    spalle e si fermò.
    Dove,  quando e come quella contessina educata da un'emigrata francese
    aveva assorbito,  dall'aria russa  che  respirava,  quello  spirito  e
    quegli  atteggiamenti  che  le  danze francesi da gran tempo avrebbero
    dovuto cancellare?  Ma  la  sua  sensibilità  e  i  suoi  gesti  erano
    precisamente quelli istintivi,  non imparati,  che lo zio si aspettava
    da lei.  Non appena ella si alzò e rimase ferma davanti allo zio,  con
    le  labbra atteggiate a un sorriso trionfante,  fiero e divertito,  la
    prima paura che per un  attimo  aveva  afferrato  Nikolàj  e  tutti  i
    presenti,  la paura cioè che non riuscisse a cavarsela,  svanì e tutti
    già erano in ammirazione davanti a lei.
    Ella faceva proprio ciò che doveva,  e lo  faceva  con  tale  perfetta
    precisione che Anìssja Fëdorovna,  che si era affrettata a porgerle il
    fazzoletto indispensabile alla  sua  danza,  rise  sino  alle  lacrime
    guardando  quella sottile,  graziosa contessina,  così diversa da lei,
    vestita di seta e di velluto, che sapeva intendere tutto ciò che c'era
    in Anìssja, nel padre di Anìssja,  nella zia e nella madre di lei e in
    ogni anima russa.
    -  Brava  contessina!  Ecco,  benone,  marsch...    -  esclamò lo zio,
    ridendo gioiosamente,  non appena ebbe finito la danza.   -   Ah,  che
    nipotina!  Ormai  non  ti  resta che sceglierti un buon marito!  Ecco,
    benone, marsch!
    - L'ha già scelto  -  intervenne Nikolàj, sorridendo.
    - Ah!   -  esclamò lo zio con  stupore,  guardando  interrogativamente
    Natascia che, con un sorriso felice, annuì con un cenno del capo.
    -  E  che marito!   -  esclamò.  Ma non appena ebbe pronunziato queste
    parole, un nuovo, diverso ordine di idee e di sentimenti sorse in lei.
    "Che significava  il  sorriso  di  Nikolàj  mentre  diceva  "L'ha  già
    scelto"?  Era  contento  o  non  lo  era?  Pareva  pensare  che il mio
    Bolkonskij non avrebbe approvato e capito questa nostra  allegria.  Ma
    no,  l'avrebbe capita benissimo. E adesso, dove sarà?", pensò Natascia
    e, di colpo,  il suo viso assunse un'espressione di tristezza.  Ma non
    durò  che  un  secondo.  "Non  devi  pensarci,  non devi assolutamente
    pensarci!", si disse e, sorridendo, tornò a sedersi accanto allo zio e
    lo pregò di sonare ancora qualcosa.
    Lo zio eseguì una canzone e un valzer;  poi,  dopo un po' di silenzio,
    tossì e intonò la sua prediletta canzone di caccia:

    "Come era bella la prima neve
    che quella sera cadeva, cadeva...".

    Lo  zio  cantava come canta il popolo,  con la convinzione spontanea e
    assoluta che tutto il significato di una canzone  sia  soltanto  nelle
    parole  e  che  la  melodia  venga  da sé,  che non esista una melodia
    isolata,  ma che essa serva soltanto  per  l'armonia.  Perciò  appunto
    quella  melodia,   inconsapevole  come  il  canto  dell'usignolo,  era
    straordinariamente bella,  anche in bocca allo zio.  Natascia  ne  era
    entusiasta. Decise di non continuare a studiare l'arpa, ma di imparare
    soltanto  la  chitarra.  Pregò  lo  zio di darle lo strumento e subito
    seppe trarne gli accordi di una canzone.
    Verso le dieci giunsero una "linéjka" (8), un calessino e tre uomini a
    cavallo,  mandati a prendere Natascia e Pétja.  Il conte e la contessa
    non  sapevano  dove fossero e,  come disse il messaggero,  erano molto
    inquieti.
    Pétja fu preso in braccio,  portato giù e deposto nella "linéjka" come
    un corpo morto;  Natascia e Nikolàj presero posto nel calesse.  Lo zio
    avvolse  Natascia  nello  scialle  e  la  salutò  con  una   tenerezza
    affettuosa,  tutta  nuova.  Li  accompagnò  a  piedi sino al ponte che
    bisognava aggirare per passare a guado,  e  diede  ordine  che  alcuni
    cacciatori, muniti di lanterne, precedessero i veicoli.
    - Arrivederci,  cara nipote!   -  risonò dal buio la sua voce, che non
    era più la voce che Natascia conosceva,  ma quella che aveva  cantato:
    "Com'era bella la prima neve!".
    Nel villaggio che attraversarono,  brillavano qua e là alcuni lumicini
    rossi e si diffondeva un odore di fumo che dava allegria.
    - Che delizia, quello zio!   -  esclamò Natascia quando uscirono sulla
    strada maestra.
    - Sì  -  rispose Nikolàj.  -  Non hai freddo?
    -  No,  sto  bene,  sto  benissimo.  Mi sento a meraviglia  -  rispose
    Natascia quasi con un certo stupore. Rimasero a lungo silenziosi.
    La notte era umida e  buia.  Non  si  vedevano  i  cavalli,  si  udiva
    soltanto il diguazzare delle loro zampe nel fango invisibile.
    Che  accadeva  nell'animo  infantile  e sensibile di Natascia che così
    avidamente accoglieva e assimilava tutte le  più  diverse  impressioni
    della  vita?  Come  si  fondevano  in  lei?  Certo quella sera ella si
    sentiva profondamente felice. Quando fu vicina a casa, si mise tutto a
    un tratto a canterellare il motivo della canzone:  "Com'era  bella  la
    prima  neve",  motivo  che  aveva  inutilmente  cercato lungo tutta la
    strada e che infine le era ritornato alla memoria.
    - L'hai ritrovato?  -  le domandò Nikolàj.
    - A che cosa pensavi, ora, Nikòlinka?  -  chiese Natascia.
    Essi amavano farsi questa domanda.
    - Io?  -  rispose Nikolàj, ricordando.  -  Ecco,  dapprima pensavo che
    Rugàj,  quel  cane rossiccio,  assomiglia allo zio e che,  se fosse un
    uomo, terrebbe sempre lo zio con sé, se non per la caccia,  almeno per
    il  suo buon carattere,  ma lo terrebbe.  Com'è buono,  lo zio!  Non è
    vero? E tu, dimmi, a che cosa pensavi?
    - Io? Aspetta, aspetta...  Prima pensavo che noi siamo qui in carrozza
    e  andiamo  o  crediamo  di  andare a casa e invece Iddio solo sa dove
    andiamo in questo buio e potrebbe darsi che,  arrivati,  ci trovassimo
    non  a Otràdnoe,  ma in un regno incantato!  E poi ho pensato anche...
    No, non ho pensato a niente altro.
    - Lo so,  pensavi certamente a "lui"  -   disse  Nikolàj,  sorridendo,
    come Natascia indovinò dal suono della sua voce.
    -  No    -   rispose la fanciulla,  benché nello stesso momento avesse
    realmente pensato al  principe  Andréj,  chiedendosi  se  lo  zio  gli
    sarebbe  piaciuto.    -   E mi ripeto ancora e me lo sono ripetuto per
    tutta la strada: come camminava bene Anìssjuska,  proprio bene...    -
    aggiunse.  E  Nikolàj  udì nel buio la risata felice,  allegra e senza
    motivo della fanciulla.
    - Sai?  -  disse ella a un tratto.  -  Sono certa che non sarò mai più
    così felice e così serena come adesso.
    - Sciocchezze, assurdità, stupidaggini  -  le rispose Nikolàj e pensò:
    "Che incantevole creatura questa mia Natascia.  Non avrò mai  un'amica
    come lei. Perché si sposa? Andremmo sempre in giro insieme...".
    "Com'è caro questo Nikolàj", pensava nello stesso momento Natascia.
    - Ah!  c'è ancora il lume acceso nel salotto!  -  osservò indicando le
    finestre della casa che brillavano  nell'oscurità  umida  e  vellutata
    della notte.


    CAPITOLO 8.

    Il  conte  Iljà Andréevic' aveva rinunziato alla carica di maresciallo
    della nobiltà,  perché quell'ufficio era causa di troppe spese.  Ma  i
    suoi  affari andavano ugualmente di male in peggio.  Spesso Natascia e
    Nikolàj sorprendevano misteriosi e agitati colloqui tra i  genitori  e
    sentivano  discutere sulla vendita della ricca casa avita dei Rostòv e
    della loro proprietà presso Mosca.  Non essendo più maresciallo  della
    nobiltà,  il conte non aveva più l'obbligo di dare grandi ricevimenti,
    e  a  Otràdnoe  la  vita  scorreva  più  tranquilla  che  negli   anni
    precedenti; la casa grande e le dipendenze erano tuttavia sempre piene
    di  gente  e  più  di venti persone sedevano ogni giorno a tavola.  Si
    trattava o di persone intime che venivano da molto  tempo  nella  casa
    come  membri  della  famiglia  o di persone la cui presenza nella casa
    pareva essere  indispensabile.  Tali  erano  Dimmler,  il  maestro  di
    musica,  e  la moglie,  Vogel il maestro di ballo,  e la famiglia;  la
    vecchia signorina Bélova che abitava in casa,  e molti altri ancora: i
    precettori   di   Pétja,   l'ex-governante  delle  signorine  e  anche
    semplicemente persone per le quali era più conveniente vivere in  casa
    del  conte  che in casa propria.  Non c'erano più i grandi ricevimenti
    dei bei tempi  passati,  ma  l'andamento  della  vita  era  sempre  il
    medesimo,  poiché  il  conte  e  la  contessa  non  potevano concepire
    diversamente l'esistenza.  Identica era ancora l'organizzazione  della
    caccia,  ampliata,  anzi,  da Nikolàj; nelle scuderie c'erano sempre i
    soliti cinquanta cavalli e quindici cocchieri;  si facevano gli stessi
    regali  assai  costosi  in  occasione  delle  feste di onomastico e si
    organizzavano ancora i pranzi solenni ai quali  partecipava  tutto  il
    distretto; le stesse partite di "whist" e di "boston" durante le quali
    il  conte,  lasciando  vedere a tutti le proprie carte,  permetteva ai
    vicini  di  vincergli  centinaia  di  rubli,   a   quei   vicini   che
    consideravano  il  diritto  di  fare  una  partita  con  il conte Iljà
    Andréevic' come la loro rendita più vantaggiosa.
    Il conte si dibatteva nelle sue difficoltà  finanziarie  come  in  una
    immensa  rete,  sforzandosi  di non credere di esservi impigliato e di
    impigliarvisi ogni giorno di più, e sentendosi incapace sia di rompere
    le maglie sia di scioglierle con paziente prudenza.  La  contessa,  il
    cui  cuore  era  pieno  di  tenerezza  per  i figli,  sentiva che essi
    andavano verso la rovina, che il conte non era colpevole, che egli non
    poteva essere diverso  da  quello  che  era,  che  anch'egli  soffriva
    (sebbene   cercasse   di  nasconderlo)  per  la  consapevolezza  della
    disastrosa condizione sua e dei figliuoli, e cercava i mezzi per porvi
    riparo.  Dal suo punto di vista femminile,  la contessa non vedeva che
    un  mezzo: il matrimonio di Nikolàj con una ricca ereditiera.  Sentiva
    che questa era l'ultima speranza e che, se Nikolàj avesse rifiutato il
    partito che essa gli aveva trovato,  sarebbe  svanita  per  sempre  la
    possibilità  di rimettere in sesto gli affari.  Il "partito" era Julie
    Karàgina,  figlia di eccellenti e  virtuosi  genitori,  che  i  Rostòv
    conoscevano  sin  da bambina e che ora,  quando era morto l'ultimo dei
    suoi fratelli, era diventata una ricca ereditiera.
    La contessa aveva scritto direttamente alla  madre  della  Karàgina  a
    Mosca,  proponendole il matrimonio della figlia con Nikolàj e ne aveva
    avuta una risposta favorevole. La Karàgina dichiarava che da parte sua
    acconsentiva,  ma che tutto sarebbe dipeso  dalle  inclinazioni  della
    figlia e che intanto invitava Nikolàj a recarsi a Mosca.
    Spesse  volte,  con  le lacrime agli occhi,  la contessa aveva detto a
    Nikolàj che il suo unico desiderio,  dopo aver accasato le  figliuole,
    era di vedere lui ammogliato;  assicurava che sarebbe scesa tranquilla
    nella tomba se questo desiderio si fosse avverato,  e  gli  confessava
    inoltre di aver in vista per lui una graziosissima fanciulla, cercando
    di conoscere l'opinione del figlio sul matrimonio, in generale.
    In  altri  colloqui con Nikolàj tesseva le lodi di Julie e consigliava
    il figlio di andare a Mosca per divertirsi un po'.  Nikolàj indovinava
    lo scopo dei discorsi di sua madre e, durante uno di essi, ottenne che
    ella  gli  parlasse con assoluta franchezza.  La contessa gli confessò
    che  l'unica  speranza  per  la  famiglia  minacciata   dalla   rovina
    consisteva nel suo matrimonio con la Karàgina.
    -  Ma  come?  Se  io  amassi  una  ragazza povera,  esigereste dunque,
    "maman",  che io sacrificassi il mio amore  e  il  mio  onore  per  il
    denaro?   -  le domandò Nikolàj senza rendersi conto della crudeltà di
    quella domanda e desiderando soltanto di  dimostrare  la  sua  nobiltà
    d'animo.
    -  No,  tu  non  mi hai capita  -  rispose la madre,  non sapendo come
    giustificarsi.  -  Tu non mi hai capita, Nikòlinka. Io desidero la tua
    felicità  -  aggiunse e,  sentendo di non dire la verità e  di  essere
    sul punto di imbrogliarsi, si mise a piangere.
    -  Mamma,  non  piangete;  ditemi  soltanto ciò che volete da me;  voi
    sapete che darei  qualsiasi  cosa,  anche  la  vita,  pur  di  sapervi
    tranquilla  -  disse Nikolàj.   -  Sono pronto a sacrificare tutto per
    voi... sì, anche i miei sentimenti!
    Ma la contessa non voleva che  la  questione  fosse  posta  così.  Non
    voleva  sacrificare  suo  figlio,  proprio  lei,  che  avrebbe  invece
    desiderato sacrificarsi per lui.
    - No,  tu non mi  hai  capita,  non  parliamone  più    -    concluse,
    asciugandosi le lacrime.
    "Sì,  forse  è  vero,  io amo una ragazza povera",  si diceva Nikolàj;
    "dovrei sacrificare il mio sentimento e il mio  onore  al  denaro?  Mi
    meraviglia  che  la  mamma  abbia potuto dirmi questo.  Perché Sònja è
    povera, io non posso amarla", pensava, "non posso corrispondere al suo
    fedele,  devoto amore?  Certo sarei più felice con  lei  che  con  una
    bambola qualunque come Julie.  Io non so comandare ai miei sentimenti.
    Se amo Sònja,  il mio amore è più alto e più forte di qualsiasi  altra
    cosa".
    Nikolàj  non  partì  per  Mosca,  la  contessa non ritornò più con lui
    sull'argomento del matrimonio,  ma,  con tristezza e talora anche  con
    dispetto,  notava  i  segni  di  una sempre crescente intimità tra suo
    figlio e Sònja che non aveva dote.  Rimproverava  se  stessa,  ma  non
    poteva  fare a meno di brontolare e di cercar pretesti per prendersela
    con  la  fanciulla,   spesso  la  redarguiva   senza   alcun   motivo,
    interpellandola  con  il  "voi"  e  chiamandola  "mia  cara".  Ciò che
    soprattutto irritava la buona contessa era il fatto che Sònja,  quella
    nipote  povera  dagli occhi neri,  fosse così mite,  così dolce,  così
    devotamente grata ai suoi benefattori e così costante e fedele nel suo
    amore  per  Nikolàj,   che  non  le  riusciva  di  trovar   nulla   da
    rimproverarle.
    Nikolàj  trascorreva  in  casa dei genitori l'ultimo periodo della sua
    licenza.  Intanto era giunta una quarta lettera del fidanzato principe
    Andréj, da Roma, nella quale diceva che già da parecchio tempo sarebbe
    stato sulla via del ritorno in Russia se, per effetto del clima caldo,
    la  sua  ferita  non  si  fosse  inaspettatamente riaperta,  il che lo
    costringeva a differire la partenza sino all'inizio del prossimo anno.
    Natascia era sempre ugualmente innamorata del  suo  fidanzato,  sempre
    ugualmente  serena  nel suo amore e più che mai accessibile a tutte le
    gioie della vita;  ma verso la fine del quarto  mese  di  separazione,
    cominciò  ad  avere  qualche  accesso di tristezza contro la quale non
    riusciva a reagire.  Aveva pietà di se stessa,  rimpiangeva di perdere
    tutto  quel  tempo  per niente e per nessuno,  mentre si sentiva tanto
    disposta ad amare e ad essere amata.
    In casa dei Rostòv non regnava certo l'allegria.


    CAPITOLO 9.

    Venne il Natale  e,  tranne  gli  auguri  solenni  dei  vicini  e  dei
    domestici,  tranne gli abiti nuovi indossati da tutti, non ci fu nulla
    di particolare a distinguere le giornate festive;  eppure  nel  freddo
    senza vento,  a venti gradi sotto zero,  nel sole luminoso e accecante
    del giorno e nel chiarore stellato della notte invernale,  si  sentiva
    la necessità di solennizzare in qualche modo quel momento dell'anno.
    Al  terzo  giorno di festa,  dopo il pranzo,  tutte le persone di casa
    avevano raggiunto le proprie camere.  Era il momento più noioso  della
    giornata. Nikolàj, che durante la mattinata si era recato in visita da
    certi  vicini,  si era addormentato nella sala dei divani.  Il vecchio
    conte riposava nel suo studio.  Sònja,  seduta alla tavola rotonda del
    salotto,  ricopiava un disegno.  La contessa stava disponendo le carte
    per un solitario.  Nastàssja  Ivànovna,  il  buffone,  con  la  faccia
    triste, sedeva presso la finestra vicino a due vecchie. Natascia entrò
    nel  salotto,  si avvicinò a Sònja,  guardò che cosa faceva la cugina,
    poi andò dalla madre e le si fermò accanto, in silenzio.
    - Che cos'hai da girare come un'anima senza  pace?    -    domandò  la
    contessa.  -  Vuoi qualche cosa?
    -  Voglio  "lui"...  subito;  ho  bisogno  di  "lui" immediatamente  -
    rispose Natascia con  gli  occhi  scintillanti,  senza  sorridere.  La
    contessa alzò il capo e fissò la figliuola.  -  Non guardatemi, mamma,
    non guardatemi, se no mi metto a piangere.
    - Siediti qui, vicino a me  -  disse la contessa.
    -  Mamma,  ho bisogno di "lui".  Perché devo tormentarmi così?   -  La
    voce le si spezzò,  le lacrime le sgorgarono dagli occhi ed ella,  per
    nasconderle,  si  voltò  rapidamente e uscì dalla stanza.  Entrò nella
    sala dei divani, vi si fermò, rifletté per un momento,  poi andò nella
    stanza  delle cameriere,  dove la vecchia governante stava brontolando
    contro  una  servetta  la  quale,   ansimando,   era   entrata   tutta
    infreddolita dal cortile.
    -  Avete  voglia  di divertirvi,  voialtre,  ma ogni cosa a suo tempo-
    diceva la vecchia.
    - Lasciala fare,  Kondràtevna  -    intervenne  Natascia.    -    Va',
    Mavruscia va'...
    Lasciata   libera   Mavruscia,   Natascia  attraverso  la  sala  passò
    nell'anticamera. Tre domestici, un vecchio e due giovani,  giocavano a
    carte.  Interruppero  il gioco e si alzarono non appena videro entrare
    la signorina. "Che devo fare di loro?", pensò Natascia.
    - Tu, Nikita, va' per favore...  -  (dove devo mandarlo?)  -  sì,  va'
    giù in cortile e portami per favore un gallo; e tu, Miscia, portami un
    po' di avena.
    -  Ordinate di portarvi dell'avena?   -  domandò Miscia allegramente e
    pieno di zelo.
    - Va', va' presto...  -  ordinò il vecchio.
    - Quanto a te, Fëdor, devi procurarmi un po' di gesso.
    Passando davanti  alla  dispensa,  Natascia  ordinò  di  preparare  il
    samovàr, benché non fosse affatto l'ora del tè.
    Il  dispensiere  Fokà  era  l'uomo  più  irritabile  di tutta la casa:
    Natascia si divertiva a provare il  proprio  potere  su  di  lui.  Non
    credette a quell'ordine e andò di là a informarsi se dovesse veramente
    preparare il samovàr.
    - Ah,  questa signorina!   -  esclamò Fokà,  fingendo di aggrottare il
    viso e guardando Natascia.
    Nessuno nella casa disturbava tanta gente né  dava  tanto  da  fare  a
    tutti  quanti  come  Natascia.  Non poteva vedere con indifferenza una
    persona di servizio senza mandarla subito  da  qualche  parte.  Pareva
    voler  provare  se  c'era  qualcuno  tra  loro che osasse ribellarsi o
    tenerle il broncio.  Eppure nessun ordine veniva  eseguito  con  tanta
    sollecitudine quanto quelli impartiti da Natascia.  "Cosa potrei fare?
    Dove potrei andare?", pensava la fanciulla,  camminando lentamente per
    il corridoio.
    - Nastàssja Ivànovna,  cosa nascerà da me?   -  domandò al buffone che
    le veniva incontro, con addosso il suo giubbetto da donna.
    - Da te nasceranno pulci, grilli e cavallette  -  rispose il buffone.
    "Mio Dio!  Mio  Dio!  Sempre  le  stesse  cose!  Dove  devo  andare  a
    nascondermi?  Che farò di me?",  e rapidamente, battendo i piedi, salì
    la scala e andò da Vogel che con la moglie abitava al piano superiore.
    Da Vogel trovò due governanti; sulla tavola erano posati alcuni piatti
    con uva secca, noci e mandorle.  Le donne discutevano se la vita fosse
    più  cara  a  Mosca  o  a Odessa.  Natascia si sedette ascoltò la loro
    conversazione con un viso serio e pensoso; poi si alzò e disse:
    - L'isola di Madagascar!  Ma-da-ga-scar!   -  ripeté,  scandendo  ogni
    sillaba e,  senza rispondere alle domande di madame Schoss a proposito
    di quanto aveva detto, uscì dalla stanza.
    Anche suo fratello Pétja era di sopra,  dal  suo  precettore,  con  il
    quale stava fabbricando dei fuochi d'artificio che aveva intenzione di
    accendere quella notte.
    - Pétja, Pétja!  -  gli gridò.  -  Portami giù!
    Pétja accorse e si piegò.  Essa gli saltò sulla schiena,  gli cinse il
    collo con le braccia e, saltellando,  si mise a correre.-  No,  lascia
    stare...  l'isola  di  Madagascar   -  ripeté e,  scivolando giù dalla
    schiena di Pétja, scese a piedi le scale.
    Come se avesse percorso il suo regno mettendo alla  prova  il  proprio
    potere  e  si  fosse convinta che sebbene tutti le fossero sottomessi,
    ella si annoiava ugualmente,  Natascia  entrò  nel  salone,  prese  la
    chitarra, si sedette in un angolo buio dietro un armadietto e cominciò
    a pizzicare le corde nei toni bassi, traendo un motivo di un'opera che
    aveva  ascoltato  a  Pietroburgo  insieme con il principe Andréj.  Per
    ascoltatori  estranei,   i  suoni  che  uscivano  dalla  chitarra  non
    avrebbero  avuto alcun significato,  ma nell'immaginazione di Natascia
    essi erano accompagnati da un susseguirsi di  ricordi.  Seduta  dietro
    l'armadietto,  con  lo  sguardo  fisso  su  una  striscia  di luce che
    filtrava  dalla  porta  della  dispensa,  ascoltava  se  stessa  e  si
    abbandonava  ai  ricordi.  Si  trovava  in  uno  stato  d'animo che la
    trascinava a riandare indietro con il pensiero.
    Sònja,  con un bicchiere in mano,  attraversò la sala per andare nella
    dispensa.  Natascia  la  guardò,  guardò  la  fessura nell'uscio della
    dispensa e le parve di ricordarsi di avere già  visto  un'altra  volta
    Sònja  con un bicchiere in mano nella luce che usciva da quella stessa
    porta. "Sì, era proprio come adesso!", pensò Natascia
    - Sònja, che motivo è questo?  -  gridò Natascia,  traendo alcune note
    dalla corda più grossa.
    - Ah,  sei qui?  -  esclamò Sònja, trasalendo; si avvicinò e rimase in
    ascolto.   -  Non so: "La Tempesta",  forse?   -   disse  timidamente,
    temendo di sbagliare.
    "Sì, era proprio così: essa ha trasalito allo stesso modo, allo stesso
    modo  si è avvicinata e ha avuto lo stesso timido sorriso quando ciò è
    accaduto", pensò Natascia.  "E proprio allo stesso modo ho pensato che
    le manca qualcosa".
    -  No,  questo è il coro di "Il portatore d'acqua" (9),  senti?   -  E
    Natascia finì di cantare il motivo perché Sònja lo  riconoscesse.    -
    Dove andavi?  -  le domandò poi.
    - A cambiare l'acqua nel bicchiere. Sto per finire il disegno.
    -  Tu  sei  sempre  occupata,  io invece non posso far nulla  -  disse
    Natascia.  -  Nikòlinka dov'è?
    - Credo che dorma.
    - Sònja, va' a svegliarlo  -  disse Natascia.   -  Digli che l'aspetto
    per cantare.
    Rimase  ancora  seduta  riflettendo al significato che poteva avere il
    ricordarsi di quella scena di un giorno lontano e,  senza aver risolto
    il   problema   e   senza   affatto   rammaricarsene,    ritornò   con
    l'immaginazione al tempo trascorso con il principe Andréj  quando  lui
    la guardava con occhi innamorati.
    "Ah,  se almeno tornasse presto! Ho tanta paura che ciò non avvenga. E
    intanto, cosa più importante,  io mi faccio vecchia ecco!  Non ci sarà
    più  in  me  quello  che  c'è  adesso.  Ma forse arriverà oggi,  forse
    arriverà subito.  Chissà che non  sia  già  arrivato  e  sia  già  nel
    salotto! Forse è arrivato ieri, e io me ne sono dimenticata". Si alzò,
    posò la chitarra e andò in salotto.  Tutti i familiari,  i precettori,
    le governanti e  gli  ospiti  erano  seduti  alla  tavola  del  tè.  I
    domestici erano in piedi attorno al tavolo,  ma il principe Andréj non
    c'era, e la vita era sempre la stessa.
    - Ah,  eccola!   -  esclamò Iljà  Andreic'  nel  vedere  Natascia  che
    entrava.  -  Su, vieni a sederti vicino a me.  -  Ma Natascia si fermò
    accanto alla madre e si guardò attorno, come cercando qualcuno.
    -  Mamma!    -    proruppe.    -   Datemelo,  datemelo,  mamma presto,
    presto...-  e a fatica si trattenne dal mettersi a singhiozzare.
    Sedette alla tavola,  ascoltò la conversazione delle persone attempate
    e di Nikolàj che finalmente era sceso e si era unito agli altri.  "Mio
    Dio, mio Dio! Sempre gli stessi visi, le stesse conversazioni,  e papà
    che  tiene  in  mano  la  tazza  e  ci soffia sopra sempre allo stesso
    modo!",  si diceva Natascia,  sentendo con orrore un senso di disgusto
    che  sorgeva  dentro  di lei verso tutte le persone di famiglia perché
    erano sempre le stesse.
    Dopo il te Nikolàj,  Sònja e Natascia andarono nel salotto dei divani,
    nel  loro  cantuccio  preferito,  dove  avevano  sempre inizio le loro
    conversazioni più intime.


    CAPITOLO 10.

    - Non ti accade qualche volta  -  domandò Natascia al fratello  quando
    furono seduti nella sala dei divani  -  non ti accade qualche volta di
    aver l'impressione che non avverrà mai più nulla,  nulla...  che tutto
    quanto vi era di buono è già avvenuto? E che ti rimanga una sensazione
    non di noia, ma di tristezza?
    - E come!   -  egli rispose.   -  Mi capita talvolta  che  tutto  vada
    bene, che tutti siano allegri, e io sono afferrato da un senso di noia
    per tutto e penso che tutti debbano morire.  Una volta, al reggimento,
    non ero andato alla passeggiata, e là sonava la musica... e tutto a un
    tratto ero stato preso dalla tristezza...
    - Oh sì, lo so che succede così  -  lo interruppe Natascia.  -  Questo
    mi accadeva quando ero ancora piccina.  Ricordi?  Una volta sono stata
    messa in castigo per le prugne: voi tutti ballavate e io, seduta nella
    stanza  da  studio,  singhiozzavo.  Non  me  ne  dimenticherò mai: ero
    oppressa dalla tristezza,  e mi facevano pena tutti,  tutti: io,  voi,
    gli altri. E pensavo che non ero colpevole, te ne ricordi?
    - Mi ricordo  -  rispose Nikolàj.  -  Mi ricordo che poi venni da te e
    avrei   voluto   consolarti   ma,    sai,   mi   vergognavo.   Eravamo
    incredibilmente buffi. Io avevo allora un giocattolo,  un pupazzetto e
    te lo volevo regalare. Te ne ricordi?
    -  E tu ti ricordi  -  continuò Natascia con un sorriso pensoso tanto,
    tanto tempo fa,  quando eravamo ancora proprio piccini,  che lo zio ci
    chiamò  nel suo studio,  ancora nella vecchia casa,  ed era buio,  noi
    andammo e tutt'a un tratto vedemmo la...
    - Un moro  -  concluse Nikolàj con un  gioioso  sorriso.    -    Com'è
    possibile  non ricordarsene?  Ancora adesso non so se era veramente un
    moro o se lo abbiamo visto in sogno,  oppure se è una  storia  che  ci
    hanno raccontato.
    - Era grigio,  ti ricordi, e aveva i denti bianchi... stava in piedi e
    ci guardava...
    - Ve ne ricordate, Sònja?  -  domandò Nikolàj.
    - Sì,  sì,  ricordo anch'io  qualcosa    -    rispose  timidamente  la
    fanciulla...
    -  Ho  domandato  di  questo  moro  al babbo e a a mamma,   -  riprese
    Natascia  -  ma mi hanno risposto che non c'è mai stato  nessun  moro.
    Eppure te ne ricordi anche tu!
    - E come! Vedo i suoi denti come se fosse ora...
    - Che strano! E' come se fosse accaduto in sogno. E questo mi piace.
    -  E ti ricordi di quando facevamo rotolare le uova nel salone e tutto
    a un tratto apparvero due vecchie che si misero a girare in tondo  sul
    tappeto? E' accaduto davvero o no? Ti ricordi com'era divertente?
    - Sì. E ti ricordi quando il babbo, vestito con la pelliccia turchina,
    sparò con il fucile dal terrazzino della casa?
    Essi   rievocavano  sorridendo,   non  con  la  tristezza  senile  del
    ricordare,  ma con il poetico giovanile piacere  del  richiamare  alla
    mente i ricordi del più lontano passato, dove le visioni si confondono
    con  la realtà...  e ridevano dolcemente,  immersi in una indefinibile
    gioia...
    Sònja,  come sempre,  sebbene i ricordi fossero  comuni,  era  rimasta
    fuori dai loro discorsi.
    Si  ricordava  poco di ciò che i due fratelli venivano rievocando e le
    poche cose che ricordava non destavano in lei  il  sentimento  poetico
    che  provavano  gli  altri  due.  Ella si limitava a gioire della loro
    gioia e cercava di condividerla.
    Essa prese parte alla conversazione solo  quando  Nikolàj  e  Natascia
    rievocarono il suo primo arrivo nella casa. Disse che Nikolàj le aveva
    fatto paura, quel giorno, per certi cordoncini che aveva sulla blusa e
    perché  la  governante le aveva detto che avrebbe legato anche lei con
    quei cordoncini.
    - E io mi ricordo che mi  hanno  detto  che  eri  nata  in  un  cavolo
    intervenne  Natascia    -    e  ricordo  anche  che  allora  non osavo
    dubitarne,  pur  sapendo  che  non  era  vero,   e  mi  sentivo  molto
    imbarazzata.
    Durante  questa  conversazione,  sull'uscio  di  fondo  della  saletta
    comparve una cameriera.
    - Signorina, hanno portato il gallo  -  sussurrò la ragazza.
    - Non mi occorre più, Pòlja;  di' che lo riportino indietro  -  ordinò
    Natascia.
    Nel  corso  della  conversazione che si stava svolgendo nella sala dei
    divani,  Dimmler entrò e si avvicinò all'arpa che era  in  un  angolo.
    Tolse il panno che la ricopriva e l'arpa mandò una nota falsa.
    -  Eduard Karlic',  sonate il mio notturno preferito,  quello di Field
    (10),  ve ne prego  -  si  udì  dal  salotto  la  voce  della  vecchia
    contessa.
    Dimmler  trasse  un  accordo  dallo  strumento e,  rivolgendosi ai tre
    ragazzi, esclamò:
    - Come sta tranquilla la gioventù!
    - Sì,  stiamo filosofeggiando  -    rispose  Natascia,  volgendosi  un
    momento a guardarlo;  poi riprese la conversazione.  Ora parlavano dei
    sogni.
    Dimmler cominciò a sonare.  Natascia,  in punta di piedi,  senza  fare
    rumore,  si  accostò al tavolo,  prese la candela,  la portò via,  poi
    ritornò in silenzio a sedersi al  suo  posto.  La  sala,  specialmente
    dalla parte del divano dove si trovavano i tre giovani,  era buia,  ma
    dalla grande finestra la luce argentea della luna  piena  si  stendeva
    sul pavimento.
    - Sapete a che cosa penso?  -  disse sottovoce Natascia, avvicinandosi
    a Nikolàj e a Sònja mentre Dimmler,  finito il notturno,  continuava a
    sfiorare debolmente  le  corde  dell'arpa,  evidentemente  incerto  se
    dovesse smettere o eseguire qualche altro pezzo.   -  Penso che quando
    uno ricorda così e ricordando va a ritroso nel  tempo,  si  arriva  al
    punto  di  ricordare anche cose che furono prima ancora che si venisse
    al mondo...
    - Questa è la metempsicosi  -  disse Sònja,  che aveva sempre studiato
    con  zelo  e non dimenticava nulla.   -  Gli Egiziani credevano che le
    nostre anime fossero vissute prima in corpi  di  animali  e  che  agli
    animali tornassero dopo la nostra morte.
    -  No,  no...  io  non  credo affatto che prima eravamo degli animali-
    disse Natascia,  sempre a voce molto bassa,  sebbene la  musica  fosse
    cessata.   -  Io so con certezza che siamo stati angeli,  lassù chissà
    dove,  e che siamo stati anche qui in terra e perciò ci ricordiamo  di
    tutto.
    - Posso unirmi a voi?   -  domandò Dimmler, che si era silenziosamente
    avvicinato e si era seduto accanto ai ragazzi.
    - Se fossimo stati angeli, perché allora siamo caduti più in basso?  -
    osservò Nikolàj.  -  No, questo è impossibile.
    - Non più in basso; chi ti ha detto più in basso?  So io forse cos'ero
    prima  di  venire al mondo?   -  ribatté con convinzione Natascia.   -
    L'anima è immortale... dunque,  se io vivrò per sempre,  vuol dire che
    sono vissuta anche prima, per tutta l'eternità...
    -  Sì,  ma è difficile per noi immaginare l'eternità  -  disse Dimmler
    che si era  avvicinato  ai  giovani  con  un  timido  sorriso  un  po'
    sprezzante,  ma  che parlava ora in tono calmo e serio come quello dei
    giovani.
    - Perché è difficile immaginarsi l'eternità?   - domandò Natascia.   -
    "Oggi" è, "domani" sarà; "ieri" era, "l'altro ieri" era...
    - Natascia,  ora tocca a te! Cantami qualcosa  -  risonò la voce della
    contessa.   -  Cosa fate seduti in  quell'angolo  buio?  Sembrate  dei
    cospiratori!
    -  Mamma!  Non  ne  ho  proprio voglia  -  rispose Natascia,  ma nello
    stesso tempo si alzò.
    Spiaceva  a  tutti  e  tre,   e  anche  a  Dimmler,   interrompere  la
    conversazione e lasciare il cantuccio del divano, ma Natascia obbedì e
    Nikolàj  andò  a sedersi al pianoforte.  Come sempre,  la fanciulla si
    fermò in mezzo alla sala e,  scelto il  punto  dove  la  sonorità  era
    migliore, cominciò a cantare il pezzo preferito della madre.
    Aveva  detto  di  non aver voglia di cantare eppure da molto tempo non
    aveva cantato e per un pezzo non cantò più come quella sera.  Il conte
    Iljà Andreic' dal suo studio,  dove stava parlando con Mìtenka,  udiva
    quel canto e,  come uno scolaro che  termina  in  fretta  e  furia  di
    studiare la lezione per correre a divertirsi,  si confuse talmente nel
    dare gli ordini  all'amministratore  che,  alla  fine,  tacque.  Anche
    Mìtenka  ascoltava in silenzio,  ritto di fronte al conte e sorrideva.
    Nikolàj non distoglieva gli occhi dalla sorella  e  respirava  insieme
    con  lei.  Sònja,  ascoltandola,  pensava  all'enorme  differenza  che
    passava tra lei e la sua amica e  come  le  fosse  impossibile  essere
    anche  in  minima parte seducente come la cugina.  La vecchia contessa
    ascoltava con un sorriso beato e con le lacrime agli occhi e di  tanto
    in  tanto  scuoteva  la testa.  Ella pensava a Natascia,  alla propria
    giovinezza,  al  matrimonio  della  figlia  con  il  principe  Andréj,
    matrimonio nel quale ella sentiva qualche cosa di poco naturale che le
    metteva paura.
    Dimmler,  che era andato a sedersi accanto alla contessa,  ascoltava a
    occhi chiusi.
    - Davvero, contessa,  -  disse infine  -  questo è un ingegno europeo.
    Non ha nulla da imparare: ha una dolcezza, un'agilità, una forma...
    - Ah,  quanti timori per lei,  quanti timori!   -  esclamò la contessa
    senza pensare con chi parlava. Il suo istinto materno le diceva che in
    Natascia  vi  era qualcosa di eccessivo che non le avrebbe permesso di
    essere felice.  Natascia non aveva ancora finito  di  cantare,  quando
    entrò  correndo  nella  stanza  il  quattordicenne  Pétja,   pieno  di
    entusiasmo perché erano arrivate le maschere.
    Natascia si interruppe di colpo.
    - Stupido!  -  gridò al fratello; corse a una sedia, vi si abbandonò e
    si mise a singhiozzare così forte da non riuscire più a smettere.    -
    Non è nulla,  mamma,  proprio nulla: Pétja mi ha spaventata  -  diceva
    cercando di sorridere,  ma le lacrime continuavano a  scenderle  dagli
    occhi, e i singhiozzi le facevano nodo alla gola.
    I domestici della casa,  travestiti da orsi, da Turchi, da tavernieri,
    da signori,  spaventosi e buffi,  portando  nella  casa  il  freddo  e
    l'allegria,   si   erano  dapprima  accalcati  nell'anticamera;   poi,
    nascondendosi l'uno dietro l'altro, comparvero nella sala dove,  sulle
    prime  un  po'  imbarazzati e poi via via con sempre maggior allegria,
    presero a cantare, a ballare,  a fare i loro girotondi e i loro giochi
    natalizi.  La contessa, dopo aver riconosciuto i volti e aver riso dei
    vari travestimenti,  si ritirò nel salotto.  Il  conte  Iljà  Andreic'
    restò seduto,  seguendo con un raggiante e benevolo sorriso coloro che
    giocavano. I giovani erano scomparsi.
    Mezz'ora dopo,  tra le maschere,  ecco entrare nella sala una  vecchia
    signora  in crinolina,  che era Nikolàj,  una turca che era Pétja,  un
    pagliaccio che era Dimmler,  un ussaro che era Natascia e un  circasso
    che  era  Sònja,  con  le  sopracciglia  e  i  baffi  disegnati con un
    turacciolo affumicato.
    Dopo il compiacente stupore,  il mancato riconoscimento e gli elogi da
    parte dei non travestiti,  i giovani trovarono i costumi così belli da
    sentire il bisogno di farli ammirare anche da altri.
    Nikolàj,  che aveva voglia di far fare a tutti una corsa  con  la  sua
    "tròjka" sulla bella strada maestra,  propose di prendersi una diecina
    di domestici mascherati e di recarsi dallo zio.
    - No,  perché andare a mettere lo scompiglio da quel buon vecchio?   -
    osservò  la  contessa.    -    E  poi  in  casa  sua non c'è posto per
    rigirarsi. Se proprio volete, andate piuttosto dai Meljukov.
    La signora Meljukov era una vedova con figliuoli di varia età, i quali
    avevano anch'essi precettori e governanti,  e abitava a quattro miglia
    dai Rostòv.
    - Ottima idea, mia cara  -  intervenne il vecchio conte animandosi.  -
    Vado  subito  a  travestirmi  e vengo con voi.  Vedrete come sveglierò
    Pachette... (11).
    Ma la contessa non fu d'accordo che il marito uscisse di casa, giacché
    da qualche giorno gli doleva una gamba.  Fu deciso che Iljà Andréevic'
    non  poteva  muoversi  ma che,  se Luiza Ivànovna ("madame" Schoss) le
    avesse accompagnate, anche le signorine si sarebbero potute recare dai
    Meljukov.  Sònja,  sempre timida e imbarazzata,  fu quella che più  di
    tutti insisté presso "madame" Schoss perché acconsentisse.
    Il  costume  di  Sònja era il più bello.  I baffi e le sopracciglia le
    stavano a meraviglia.  Tutti la ammiravano e perciò essa era di ottimo
    umore,  piena di energia e di animazione, il che per lei era piuttosto
    inconsueto.  Una voce interna le diceva che quel giorno o mai  più  si
    sarebbe  deciso  il  suo  destino,  e con il suo abito maschile pareva
    veramente un'altra persona.  Luiza Ivànovna acconsentì e mezz'ora  più
    tardi quattro "tròjke" con bubboli e sonagliere, facendo scricchiolare
    e stridere con i pattini la neve ghiacciata, si fermarono davanti alla
    scalinata d'ingresso.
    Natascia  fu  la  prima  a  dare  il  tono dell'allegria natalizia,  e
    quell'allegria, trasmessa dall'uno all'altro, andò via via crescendo e
    raggiunse il colmo nel momento in cui tutti uscirono  all'aperto,  nel
    gelo, e chiamandosi, ridendo e gridando, presero posto nelle slitte.
    Due di quelle "tròjke" erano cavalli da viaggio;  la terza, quella del
    vecchio,  aveva come cavallo di stanga un ottimo trottatore di  Olròv;
    la  quarta,  infine,  di  proprietà  personale di Nikolàj,  aveva alla
    stanga il suo piccolo morello dal pelo fitto.  Nikolàj nel suo costume
    da  vecchia signora,  sul quale aveva indossato il cappotto da ussaro,
    stava al centro della slitta e teneva le redini.
    La serata era così chiara che egli vedeva risplendere alla luce  della
    luna  le  borchie  dei  finimenti  e  gli  occhi  dei cavalli i quali,
    impauriti,  volgevano il capo a guardare i viaggiatori vocianti  sotto
    la buia tettoia dell'ingresso.
    Nella slitta di Nikolàj presero posto Natascia, Sònja, "madame" Schoss
    e  due cameriere;  in quella del vecchio conte salirono Dimmler con la
    moglie e Pétja; nelle altre i domestici mascherati.
    - Va' avanti tu, Zachàr!  -  gridò Nikolàj al cocchiere del padre, per
    avere il piacere di oltrepassarlo lungo la strada.
    La "tròjka" del vecchio conte,  nella quale sedevano Dimmler  e  altre
    persone  in  maschera,  stridendo  con  i pattini sulla neve,  come se
    questi fossero stretti nella morsa del gelo, si mosse per prima con un
    suono di sonagliere.  I due bilancini si  stringevano  alla  stanga  e
    affondavano,  sollevando  con  le  zampe la neve,  dura,  lucente come
    zucchero.
    Nikolàj si mosse subito,  seguito dalle altre slitte che cigolavano  e
    stridevano.  Dapprima  si avviarono al piccolo trotto lungo una strada
    stretta.  Mentre passavano lungo il giardino,  le ombre  degli  alberi
    nudi  si stendevano attraverso la strada e coprivano con le loro ombre
    la chiara luce della luna,  ma non appena ebbero oltrepassato il  muro
    di cinta,  si aprì dinanzi ai viaggiatori la pianura immobile, immersa
    nella neve candida e splendente come diamante,  percorsa  da  riflessi
    azzurrognoli.  Una volta,  due, la prima slitta urtò contro un tronco;
    nello stesso modo sobbalzarono la  seconda  e  la  terza  e,  rompendo
    bruscamente  quel  silenzio  immobile,  le  slitte  si disposero l'una
    dietro l'altra.
    - La traccia di una lepre! Quante tracce!  -  si levò nell'aria gelida
    e immobile la voce di Natascia.
    - Come si vede bene, Nicolas!  -  esclamò Sònja.
    Nikolàj si volse verso la fanciulla e si chinò per guardarla  in  viso
    più  da  vicino.  Un  viso  del  tutto  nuovo,  grazioso,  con baffi e
    sopracciglia nere,  emergeva nel chiarore lunare  dalla  pelliccia  di
    zibellino, vicino e insieme lontano.
    "Una volta questa era Sònja",  pensò Nikolàj.  La guardò ancora più da
    vicino e sorrise.
    - Che avete, Nicolas?
    - Nulla  -  rispose il giovane e tornò a volgersi verso i cavalli.
    Usciti sulla grande strada battuta,  lubrificata dai pattini  e  tutta
    segnata  dalle  impronte  dei ferri da ghiaccio ben visibili alla luce
    della luna,  i cavalli spontaneamente tesero le redini e  accelerarono
    la  loro  andatura.  Il  bilancino  di  sinistra,  inarcando il collo,
    tendeva a sbalzi  le  tirelle.  Il  cavallo  di  stanga  si  dondolava
    rizzando  le  orecchie  come  se  domandasse:  "Posso incominciare o è
    ancora presto?". Davanti, già distaccata dalle altre, con un tintinnio
    cupo di sonagliere che si allontanavano,  spiccava sul  candore  della
    neve  la  scura  "tròjka"  di  Zachàr.  Da  quella  slitta  si udivano
    provenire le grida e le risate delle maschere che la occupavano.
    - A voi,  amici!   -  gridò Nikolàj,  tendendo da un lato le redini  e
    alzando  il  braccio  con  la  frusta.  E soltanto dal vento che parve
    soffiare contro più forte di prima e  dagli  strattoni  dei  bilancini
    che, tendendo le tirelle, acceleravano vieppiù la corsa, si sentiva la
    rapidità con cui procedeva la slitta.  Nikolàj si voltò indietro.  Con
    grida e urli, agitando la frusta per far galoppare i cavalli, le altre
    slitte lo inseguivano.  Il  cavallo  di  stanga  di  Nikolàj  trottava
    tranquillo  sotto la "dugà" (12) senza alcuna intenzione di rallentare
    e promettendo anzi di andare più forte quando fosse stato necessario.
    Nikolàj raggiunse la prima slitta. Scesero un pendio e si trovarono su
    una strada larga, che, attraversando un prato, correva lungo un fiume.
    "Per dove passiamo?", pensò Nikolàj.  "Questo dovrebbe essere il prato
    Kossòj...  eppure no, è un posto nuovo che non ho mai veduto. Non è né
    il prato Kossòj, né la collina di Demkino... Sa Iddio che cos'è. E' un
    luogo nuovo e  incantato.  Be',  vedremo!".  E,  incitati  i  cavalli,
    cominciò a sorpassare la prima slitta.
    Zachàr  trattenne la sua "tròjka" e volse il viso coperto di nevischio
    sino alle sopracciglia.
    Nikolàj lanciò la sua; Zachàr, con le braccia tese, fece schioccare la
    lingua e mise al galoppo la sua.
    - Attento, padrone!  -  gridò. Una a fianco dell'altra volavano sempre
    più veloci le due slitte,  e le zampe dei cavalli si incrociavano  con
    crescente  frequenza.  Nikolàj  cominciò a guadagnar terreno.  Zachàr,
    senza mutare la posizione delle braccia tese,  alzò la mano che teneva
    le redini.
    - Sbagli,  padrone!   -  gridò a Nikolàj.  Ma questi, eccitando sempre
    più i suoi cavalli, superò Zachàr. La neve minuta e asciutta sollevata
    dalle zampe degli animali in corsa,  batteva sul viso dei viaggiatori;
    attorno a essi, da tutte le parti, si udivano lo stridere delle slitte
    sulla neve e le grida delle donne.
    Fermati  di  nuovo  i  cavalli,  Nikolàj volse un'occhiata in giro: la
    stessa magica  pianura  che,  inondata  dal  chiarore  lunare,  pareva
    disseminata di stelle.
    "Zachàr mi grida di pigliare a sinistra: chi sa perché" pensò Nikolàj.
    "Non  andiamo  dai Meljukov?  E' forse questo il villaggio Meljùkovka?
    Dio sa dove andremo a finire...  Ma ciò che ci sta accadendo  è  molto
    strano e molto bello...". Si voltò verso la slitta.
    - Guarda, ha le sopracciglia bianche, i baffi bianchi, è tutto bianco!
    -   disse una di quelle strane,  graziosissime personcine che sedevano
    nella slitta e che gli apparivano estranee.
    "Mi pare che quella sia Natascia",  pensò Nikolàj  e  quell'altra  sia
    "madame" Schoss... ma forse no... E questo circasso con i baffi non so
    proprio chi sia, però mi piace molto".
    - Non avete freddo?  -  domandò. Le maschere non risposero e si misero
    a  ridere.  Dimmler,  dalla  slitta  che  li seguiva,  gridò qualcosa,
    probabilmente qualcosa di buffo, ma era impossibile capirlo.
    - Sì, sì...  -  rispondevano alcune voci, ridendo.
    "Eppure,  ecco una  foresta  incantata  con  ombre  nere  e  mutevoli,
    luccichii di diamanti,  una fuga di gradini di marmo,  tetti d'argento
    su magici edifici e il grido acuto di chi  sa  quali  animali.  Ma  se
    questa è veramente Meljùkovka è ancora più strano che noi, andando Dio
    sa dove, ci siamo arrivati...", pensava Nikolàj .
    Quella era infatti Meljùkovka;  sulla scalinata d'ingresso accorrevano
    domestici e camerieri dalle facce allegre che che portavano i lumi.
    - Chi sarà mai?  -  domandava qualcuno, dalla scalinata.
    - Sono le maschere della casa  del  conte,  riconosco  i  cavalli    -
    rispondevano altre voci.


    CAPITOLO 11.

    Pelagéja Danìlovna Meljukova,  una donna robusta ed energica,  con gli
    occhiali e la vestaglia sbottonata, era seduta in salotto,  attorniata
    dalle  figliuole  che  cercava  di divertire.  Erano intente a fondere
    adagio adagio della cera osservando attentamente le ombre delle figure
    che ne nascevano (13),  quando il rumore dei passi e  delle  voci  dei
    nuovi arrivati risonarono nell'anticamera.
    Ussari,  dame,  pagliacci,  streghe,  orsi, tossendo e asciugandosi le
    facce coperte di nevischio, entrarono nella sala dove furono accese in
    fretta e furia molte  candele.  Dimmler,  il  pagliaccio,  e  Nikolàj,
    vestito  da  signora,  aprirono  le danze.  Attorniate dai bambini che
    ridevano,  le maschere,  coprendosi la faccia e cambiando la voce,  si
    inchinavano  davanti alla padrona di casa e si sedevano qua e là nella
    sala.
    - Ah! non è possibile riconoscerli! E' Natascia,  quella!  Guardate un
    po' a chi somiglia...  davvero mi ricorda qualcuno.  Ed Eduard Karlyc'
    come sta bene!  Non l'avrei proprio riconosciuto.  E come  balla!  Ah,
    santi  benedetti,  c'è  anche  un circasso: davvero questo costume sta
    molto bene a Sònjuska. E quello chi è?  Ci avete fatto un gran piacere
    a venire! Nikita, Vànja, portate via le tavole. E dire che eravamo qui
    quieti quieti...
    - Ah, ah, ah! Sembra davvero un ragazzo, quell'ussaro. E che gambe!...
    Io non riesco a vederlo  -  protestava una voce.
    Natascia, la prediletta dalle ragazze Meljukov, era scomparsa con loro
    in   una  camera  lontana,   dove  si  fecero  portare  un  turacciolo
    bruciacchiato, delle vesti da camera,  qualche abito maschile,  che le
    braccia   nude  delle  signorine  ritiravano  dalle  mani  dei  servi,
    tendendole attraverso l'uscio socchiuso.  Dieci minuti dopo,  tutta la
    gioventù della famiglia Meljukov si unì alle maschere.
    Pelagéja Danìlovna,  dopo aver fatto sgombrare il salone per dar posto
    agli ospiti e ordinato di preparare la cena per i signori e le persone
    di servizio,  senza togliersi gli occhiali dal naso,  passava  tra  le
    maschere  con  un  sorriso  trattenuto  e  guardava  tutte le facce da
    vicino, senza riconoscerne alcuna. Non solo non riconosceva i Rostòv e
    Dimmler,  ma neppure riusciva a riconoscere le proprie  figlie  né  le
    vesti da camera e le uniformi che esse indossavano.
    -  Ma  questa  chi  è?   -  domandava,  rivolgendosi alla governante e
    fissando la propria figlia, trasformata in un tartaro di Kazàn.- Direi
    che è uno dei Rostòv.  E  voi,  signor  ussaro,  in  quale  reggimento
    prestate servizio?  -  chiedeva a Natascia.  -  Offri della marmellata
    a  quella  turca    -    ordinò  al dispensiere che portava in giro un
    vassoio.  -  La loro legge non lo vieta...
    Di tanto in tanto,  osservando i passi strani e  buffi  dei  ballerini
    che,  convinti  una  volta  per tutte di non poter essere riconosciuti
    dato che erano mascherati,  non avevano  alcuna  soggezione,  Pelagéja
    Danìlovna  si  copriva  la  faccia  con il fazzoletto,  e tutto il suo
    grosso corpo era scosso da un incontenibile, benevolo riso di vecchi.
    - La mia Sascinette, la mia Sascinette (14)  -  esclamava.
    Dopo le danze caratteristiche russe e il girotondo, Pelagéja Danìlovna
    riunì tutti quanti,  padroni e servitori,  in un unico grande circolo.
    Si  fece  portare  un  anello,  una cordicella e un rublo e cominciò a
    organizzare giochi di società.
    Un'ora dopo tutti i costumi erano sgualciti e in disordine.  I baffi e
    le sopracciglia,  disegnati con il turacciolo affumicato, colavano giù
    sulle facce sudate,  rosse e allegre.  Pelagéja Danìlovna cominciava a
    riconoscere  le maschere entusiasmandosi per la perfezione dei costumi
    e per il bell'effetto che facevano addosso alle signorine, e ringraziò
    tutti per il divertimento che le avevano procurato.  Gli ospiti furono
    invitati  a  passare  nel  salotto  per  la  cena mentre nella sala si
    preparavano cibi e bevande per i domestici.
    - Ah,  è proprio una cosa che fa paura andare a interrogare  la  sorte
    nella stanza da bagno!  -  disse a cena una vecchia zitella che viveva
    in casa dei Meljukov.
    -  E perché?   -  domandò la maggiore delle figliuole della padrona di
    casa.
    - Voi non ci andreste... ci vuole del coraggio...
    - Io ci andrò  -  disse Sònja.
    - Raccontate che cosa accadrà a quella signorina...   -  intervenne la
    secondogenita delle Meljukov.
    -  Ecco:  una  volta  una  signorina  ci  andò  -  proseguì la vecchia
    zitella;   -  prese un gallo,  due posate,  com'è d'uso,  e si mise  a
    sedere.  A un tratto,  dopo un po' di attesa,  sente che sta arrivando
    una slitta con bubboli e  sonagliere;  tende  l'orecchio:  sì,  giunge
    qualcuno.  E infatti qualcuno entra: una forma umana, che le sembrò un
    ufficiale,  entra e si siede di fronte  a  lei,  davanti  alla  tavola
    apparecchiata.
    -  Ah!  Ah!    -  si mise a gridare Natascia,  sbarrando gli occhi dal
    terrore.
    - E poi? Parlava anche?
    - Sì, come un uomo vero, tutto come dev'essere.  Cominciò a pregarla e
    a esortarla, e lei avrebbe dovuto conversare con lui sino al canto del
    gallo;  ma  ebbe  paura  e  si  coperse  il  viso  con  le  mani.  Lui
    l'afferrò...   Per  fortuna  che  accorsero  intanto  le  persone   di
    servizio...
    - Suvvia, perché volete spaventarle?  -  domandò Pelagéja Danìlovna.
    - Ma anche voi,  mamma, vi siete fatta predire la sorte...  -  osservò
    una delle figlie.
    - E come si fa a interrogare la sorte nel granaio?  -  domandò Sònja.
    - E' semplicissimo: si va adesso in  un  granaio  e  ci  si  mette  in
    ascolto.  Sentite martellare o battere?  Brutto segno.  Sentite cadere
    del grano dall'alto? E' un buon presagio. Accade talvolta...
    - Mamma, raccontateci che cosa udiste nel granaio.
    Pelagéja Danìlovna sorrise.
    - Eh, ormai me ne sono dimenticata...  -  rispose.   -  Nessuno di voi
    ci andrà, dunque?
    -  Io  ci andrò.  Se voi me lo permettete,  Pelagéja Danìlovna,  io ci
    andrò  -  disse Sònja.
    - Se non hai paura, va' pure...
    - Luiza Ivànovna, posso?  -  domandò Sònja.
    Sia che facessero il gioco dell'anello,  della cordicella o del rublo,
    sia che conversassero come adesso, Nikolàj non si allontanava da Sònja
    e  la  guardava  con  occhi del tutto nuovi.  Gli pareva di conoscerla
    pienamente adesso per la prima volta,  grazie a quei baffi e a  quelle
    sopracciglia  disegnate  con il turacciolo bruciato.  Quella sera,  in
    realtà, Sònja era allegra,  bella,  piena di animazione,  come Nikolàj
    non l'aveva mai veduta.
    "Ecco  com'è,  e io sono uno stupido!",  pensava,  guardando gli occhi
    scintillanti della fanciulla e il suo felice, entusiasta sorriso, quel
    sorriso che le faceva due fossette sulle guance,  di sotto  ai  baffi,
    che egli non aveva mai notato.
    - Io non ho paura di nulla!  -  disse Sònja.  -  Posso andarci subito?
    -  chiese e si alzò.
    Le  spiegarono dov'era il granaio,  le dissero come dovesse restare in
    piedi, in silenzio, ad ascoltare,  e le diedero la pelliccia.  Essa se
    la gettò sul capo e guardò Nikolàj.
    "Com'è  deliziosa  questa  fanciulla!" si disse il giovane.  "Ma a che
    cosa ho pensato, sinora?"
    Sònja uscì nel corridoio per  andare  nel  granaio.  Nikolàj  uscì  in
    fretta  sulla  scalinata  dicendo di aver caldo.  In realtà in casa si
    soffocava a cagione del gran numero di persone che vi erano radunate.
    Fuori era ancora quello stesso freddo immobile,  la  stessa  luna,  ma
    tutto  pareva  più  luminoso.  La  luce  era  tanto  viva e sulla neve
    luccicava un tale scintillio di stelle che non si aveva  il  desiderio
    di guardare il cielo, e le stelle vere quasi non si vedevano. Il cielo
    era oscuro e triste, la terra gaia e piena di luce:
    "Imbecille!  Imbecille  che  sono!  Che  cosa  ho  aspettato sinora?",
    pensava Nikolàj e, scese le scale a precipizio, girò attorno alla casa
    percorrendo il sentiero che conduceva all'entrata di servizio.  Sapeva
    che  Sònja sarebbe passata da quella parte.  A metà del sentiero,  una
    catasta di legna coperta di neve gettava una lunga ombra;  al di là  e
    ai  lati  di  quella,  si intrecciavano le ombre proiettate dai vecchi
    tigli ischeletriti sulla strada e sulla neve. Il sentiero conduceva al
    granaio.  La parete di tronchi del granaio e il tetto coperto di  neve
    brillavano  alla  luce  lunare  come  se  fossero tempestati di pietre
    preziose.  Nel giardino un albero  scricchiolò,  poi  di  nuovo  tutto
    sprofondò nel silenzio.  Si aveva l'impressione di non respirare aria,
    ma una forza eterna giovanile e gioiosa.
    Dall'ingresso di servizio si udì un rumore di passi che scendevano  di
    gradino in gradino e che sull'ultimo, dove si era ammucchiata la neve,
    scricchiolarono  più  forte,  mentre  la  voce di un'anziana cameriera
    diceva:
    - Sempre diritto, sempre diritto per il sentiero, signorina. Ma badate
    di non voltarvi indietro!
    - Io non ho paura  -  rispose la voce di Sònja,  e  sul  sentiero  che
    portava  verso  Nikolàj  scricchiolarono  e  stridettero sulla neve le
    scarpette di Sònja.
    La fanciulla camminava, avvolta nella pelliccia.  Era a soli due passi
    da  lui  allorché  lo  vide;  anche  lei lo vide diverso da quello che
    conosceva e del quale aveva  sempre  avuto  un  po'  di  timore.  Egli
    indossava  un abito femminile,  aveva i capelli arruffati e un sorriso
    felice, a lei ignoto. Sònja gli corse incontro.
    "Diversissima, eppure sempre la stessa",  pensò Nikolàj,  guardando il
    suo viso illuminato in pieno dalla luce della luna.
    Egli  infilò  le  mani  sotto  la  pelliccia  che le copriva la testa,
    l'abbracciò,  la strinse a sé e la baciò sulle labbra sopra  le  quali
    erano disegnati i baffi che mandavano odore di sughero bruciato. Sònja
    lo  baciò proprio in mezzo alle labbra e,  liberate dalla pelliccia le
    piccole mani, lo prese per le guance.
    - Sònja!... Nikolas!...  -  dissero soltanto.
    Corsero sino al granaio e tornarono  indietro,  ciascuno  dal  proprio
    ingresso.


    CAPITOLO 12.

    Quando lasciarono la casa di Pelagéja Danìlovna,  Natascia, che vedeva
    sempre tutto e di tutto si  accorgeva,  armeggiò  in  modo  che  Luiza
    Ivànovna  e  lei  stessa salirono sulla slitta insieme con Dimmler,  e
    Sònja rimase con Nikolàj e le cameriere.
    Nikolàj, che non cercava più di passare davanti agli altri,  procedeva
    ad  andatura  costante  sulla  via  del  ritorno  e  di tanto in tanto
    guardava fissamente Sònja illuminata da  quella  strana  luce  lunare,
    cercando  in  lei,  a  quel  chiarore che mutava l'aspetto di tutte le
    cose,  sotto le sopracciglia e i baffi,  la Sònja di prima e quella di
    adesso, dalla quale aveva deciso di non separarsi mai più. La guardava
    fissamente  e quando la riconosceva,  sempre la stessa eppure diversa,
    si ricordava dell'odore di sughero bruciato commisto  alla  sensazione
    del  bacio,  respirava a pieni polmoni l'aria gelida,  guardava ora la
    terra che fuggiva sotto alla slitta,  ora il cielo scintillante,  e si
    sentiva di nuovo in un regno incantato.
    - Sònja, "stai" bene?  -  le domandava di tanto in tanto.
    - Sì,  -  rispondeva la fanciulla  -  e "tu"?
    A  metà strada,  Nikolàj ordinò al cocchiere di trattenere i cavalli e
    corse alla slitta di Natascia per  un  momento,  rimanendo  ritto  sul
    predellino.
    - Natascia,  -  le disse a voce bassa, in francese  -  sai? riguardo a
    Sònja ho deciso.
    - Le hai parlato?   -   domandò Natascia, illuminandosi di gioia.
    -  Ah come sei strana con quei baffi e quelle sopracciglia,  Natascia!
    Sei contenta?
    - Sono tanto, tanto contenta! Ero già un po' in collera con te. Non te
    lo dicevo,  ma tu agivi male verso di lei.  Sònja ha  un  gran  cuore,
    Nicolas...  sono  tanto  contenta!  Qualche volta sono cattiva,  ma mi
    vergognavo di essere felice,  senza Sònja  -  proseguì  Natascia.    -
    Ora sono veramente contenta! Su, corri da lei.
    - No,  aspetta...  Ma quanto sei buffa!  -  esclamò Nikolàj, guardando
    sempre la sorella e trovando anche in lei qualche cosa  di  nuovo,  di
    insolito,  un'espressione  di  dolce  tenerezza  che  non le aveva mai
    veduto.  -  Natascia, è un incanto, no?
    - Sì  -  rispose la fanciulla.  -  Hai fatto benissimo.
    "Se prima di oggi l'avessi vista come la vedo ora",  pensava  Nikolàj,
    "da  un  pezzo  le avrei domandato che cosa dovessi fare,  avrei fatto
    qualsiasi cosa avesse voluto lei e tutto sarebbe andato bene".
    - Sicché sei contenta; ho fatto bene?
    - Altro che,  hai fatto benissimo!  Pochi giorni fa ho discusso con la
    mamma  per questo.  La mamma diceva che Sònja voleva "accalappiarti" a
    ogni costo.  Come poteva parlare così?  Per poco non ho litigato.  Non
    permetterò  mai  a nessuno di parlare o di pensar male di Sònja perché
    non ha che buone qualità.
    - Così,  allora,  va bene?   -  domandò Nikolàj,  guardando ancora una
    volta  il  viso  della  sorella  per  capire  dalla sua espressione se
    dicesse la verità;  poi,  con uno scricchiolio di  stivali  saltò  giù
    dalla  slitta  e  corse verso la sua.  Il medesimo felice,  sorridente
    circasso  dai  baffetti  neri  e  dagli  occhi  scintillanti  che   lo
    guardavano di sotto il cappuccio di zibellino, era là, e quel circasso
    era  Sònja,  e quella Sònja era ormai senza alcun dubbio la sua futura
    felice e innamorata sposa.
    Giunti a casa,  dopo aver raccontato alla madre come avevano trascorso
    il  tempo  in  casa  Meljukov,  le  signorine si ritirarono nella loro
    camera.  Si spogliarono e,  senza neppur lavarsi i baffi disegnati con
    il  turacciolo,  si  trattennero  a  lungo  a  discorrere  della  loro
    felicità.  Parlavano di come sarebbero vissute da sposate,  di come  i
    loro  mariti  sarebbero  stati  amici  e  della felicità che avrebbero
    goduto entrambe.  Sulla tavola di Natascia erano  posati  gli  specchi
    preparati da Dunjascia sin dal giorno precedente.
    - Ma quando avverrà tutto questo?  Temo che non accadrà mai... Sarebbe
    troppo bello!   -  disse  Natascia,  alzandosi  e  avvicinandosi  agli
    specchi.
    -  Siediti,  Natascia,  forse lo vedrai  -  la esortò Sònja.  Natascia
    accese la candela e si sedette.
    - Vedo qualcuno con i baffi  -  disse Natascia, che vedeva riflessa la
    propria faccia.
    - Non si deve scherzare, signorine  -  osservò Dunjascia.
    Natascia,  con l'aiuto di Sònja  e  della  cameriera,  trovò  per  gli
    specchi   delle   posizioni   favorevoli,   il   suo   volto   assunse
    un'espressione seria ed ella tacque. Rimase a lungo seduta,  guardando
    muta  la  serie delle fiammelle che si riflettevano all'infinito negli
    specchi supponendo,  secondo i racconti uditi,  ora che avrebbe  visto
    una bara,  ora che avrebbe visto "lui",  il principe Andréj,  riflesso
    nell'ultimo quadrato, confuso e torbido.  Ma per quanto fosse disposta
    a scambiare la più piccola macchia per un viso di uomo o per una bara,
    non  vide nulla.  Cominciò a sbattere le palpebre e si allontanò dagli
    specchi.
    - Perché gli altri vedono e io non  vedo  nulla?    -    domandò.    -
    Suvvia,  Sònja, adesso siediti tu; oggi lo devi fare, assolutamente  -
    le disse.  -  Però fallo per me; io ho terribilmente paura!
    Sònja sedette davanti allo  specchio,  trovò  la  posizione  adatta  e
    cominciò a guardare.
    - Ecco, Sònja Aleksàndrovna vedrà certamente  -  mormorò Dunjascia.  -
    Voi, invece, ridete sempre!
    Sònja udì le parole di Dunjascia e udì anche Natascia rispondere in un
    bisbiglio.
    - Sì, lo so che lei vedrà: ha veduto anche l'anno scorso.
    Per due o tre minuti rimasero tutt'e tre in silenzio.
    - Certamente...  -  mormorò Natascia, ma non finì la frase.
    A un tratto Sònja depose lo specchio e si coprì il viso con le mani.
    - Ah, Natascia!  -  esclamò.
    -  Hai  visto?  Hai  visto?  Che  cosa hai visto?   -  gridò Natascia,
    sostenendo lo specchio.
    Sònja non aveva veduto nulla: le era soltanto venuto all'improvviso il
    desiderio di sbattere gli occhi e  di  alzarsi,  quando  aveva  veduto
    Natascia  che  diceva:  "Certamente...".  Non aveva alcun desiderio di
    ingannare né Dunjascia né Natascia, ed era stanca di star seduta.  Non
    sapeva neppur lei come e per quale motivo le fosse sfuggito quel grido
    allorché aveva nascosto il viso tra le mani.
    - L'hai veduto?   -  domandò Natascia, afferrandola per un braccio.
    -  Sì,  aspetta...  io...  l'ho veduto  -  rispose suo malgrado Sònja,
    senza sapere se Natascia con quel "lui" volesse alludere a  Nikolàj  o
    ad Andréj.
    "Ma perché non dovrei dire che ho veduto?  Non vedono forse gli altri?
    E chi può smentirmi,  se io dico che ho veduto o no?",  le  balenò  il
    pensiero.
    - Sì, l'ho veduto  -  ripeté.
    - E come? Come? Era in piedi o coricato?
    -  No,  io ho veduto...  prima non c'era niente,  poi a un tratto l'ho
    visto coricato.
    - Andréj coricato?  Malato,  forse?   -   domandò  Natascia,  fissando
    l'amica.
    -  No,  al  contrario,  al  contrario:  il suo viso era allegro,  si è
    voltato verso di me...  -  Mentre così diceva,  aveva l'impressione di
    aver veramente veduto ciò che stava descrivendo.
    - E poi, Sònja?
    - Poi... poi non l'ho più visto bene... C'era qualcosa di azzurro e di
    rosso...
    - Sònja! Quando ritornerà, quando lo rivedrò? Mio Dio, quanta paura ho
    per lui, per me, per tutto...  -  esclamò Natascia e, senza rispondere
    alle  parole  di conforto di Sònja.  si mise a letto e rimase a lungo,
    dopo che la candela fu spenta,  con gli occhi spalancati,  fissando il
    freddo  chiarore  della luna attraverso i vetri della finestra coperta
    di ghiaccio.


    CAPITOLO 13.

    Poco dopo Natale,  Nikolàj parlò alla madre del suo amore per Sònja  e
    della  ferma  intenzione  di sposarla.  La contessa,  che già da tempo
    aveva notato ciò che avveniva tra Sònja e Nikolàj e che  si  aspettava
    quella  dichiarazione,  ascoltò in silenzio le parole del figlio e gli
    rispose che era padronissimo di sposare chi volesse,  ma che né lei né
    suo  padre  gli  avrebbero mai dato la loro benedizione.  Per la prima
    volta Nikolàj sentì  che  sua  madre  era  scontenta  di  lui  e  che,
    nonostante  tutto  l'affetto  che  gli  portava,  non  avrebbe ceduto.
    Freddamente, e senza guardare il figlio,  la contessa mandò a chiamare
    il marito; e, quando questi fu entrato ella, con fredda concisione, lo
    mise  al  corrente  della  cosa  in presenza di Nikolàj,  ma non seppe
    trattenersi: scoppiò in lacrime di stizza  e  uscì  dalla  stanza.  Il
    vecchio  conte,  in  tono  conciso,  cercò di convincere Nikolàj e gli
    chiese di rinunziare al suo progetto.  Nikolàj rispose che non  poteva
    mancare  alla  parola  data  e  il  padre,  sospirando  e visibilmente
    turbato,  troncò il colloquio e andò dalla contessa.  In tutte le  sue
    divergenze   con   il   figlio  si  rendeva  sempre  conto  della  sua
    colpevolezza verso di lui  per  aver  lasciato  andare  in  rovina  il
    patrimonio  della famiglia,  e perciò non poteva andare in collera con
    Nikolàj se questi rifiutava di sposare una ricca  ereditiera  e  aveva
    invece  scelto  Sònja,  una  fanciulla  senza dote.  In quel caso egli
    pensava più vivamente del solito al fatto che,  se le sue sostanze non
    fossero andate in rovina, non si sarebbe potuto desiderare per Nikolàj
    una  moglie  migliore  di  Sònja e che delle precarie condizioni della
    famiglia doveva attribuire la colpa soltanto a se stesso,  con il  suo
    Mìtenka e con le sue incorreggibili abitudini.
    Né  il  padre né la madre parlarono più a Nikolàj della faccenda;  ma,
    trascorso qualche giorno,  la contessa fece chiamare Sònja e  con  una
    crudeltà  che  né  lei,  né  la  fanciulla si sarebbero mai aspettata,
    rimproverò la  nipote  di  aver  adescato  suo  figlio  e  di  essersi
    dimostrata un'ingrata.  Sònja, muta, con gli occhi bassi, ascoltava le
    crudeli parole della contessa, senza capire che cosa si pretendesse da
    lei.  Ella era pronta a sacrificare  tutto  per  i  suoi  benefattori.
    L'idea del sacrificio era il suo pensiero dominante, ma in questo caso
    non  riusciva a capire né perché,  né come dovesse sacrificarsi.  Ella
    non poteva non amare la contessa e tutta la famiglia  Rostòv,  ma  non
    poteva  neppure  non  amare  Nikolàj  e  ignorare  che la sua felicità
    dipendeva da quell'amore. Se ne stava lì,  silenziosa e triste,  e non
    rispondeva.  Nikolàj,  non potendo oltre sopportare quella situazione,
    volle avere una spiegazione con la madre,  durante la quale un po'  la
    supplicava  di  perdonare  lui  e  Sònja  e  di  acconsentire  al loro
    matrimonio,  un po' la minacciava,  se Sònja fosse stata perseguitata,
    di sposarla immediatamente, in segreto.
    La  contessa,  con  una  freddezza  che  il  figlio  non  le aveva mai
    conosciuto,  gli rispose che egli era  maggiorenne,  che  il  principe
    Andréj  si  sposava  senza  il consenso paterno e che egli poteva fare
    altrettanto,  ma che lei non  avrebbe  mai  riconosciuto  come  figlia
    quell'"intrigante".
    Esasperato  dalla  parola  "intrigante",  Nikolàj,  alzando  la  voce,
    ribatté che non avrebbe mai creduto che sua madre l'avrebbe  costretto
    a  vendere  i propri sentimenti e che,  stando così le cose,  egli per
    l'ultima volta diceva...
    Ma non fece in tempo  a  pronunziare  la  parola  definitiva,  che,  a
    giudicare dall'espressione del viso, la contessa aspettava con terrore
    e  che sarebbe rimasta forse per sempre un crudele ricordo tra madre e
    figlio.  Non fece in tempo a pronunziarla perché Natascia,  pallida  e
    con il viso triste, entrò nella stanza, dall'uscio dietro il quale era
    stata ad ascoltare.
    - Nikòlinka, dici delle sciocchezze! Taci, taci! Ti dico di tacere!  -
    esclamò, quasi gridando per soffocare la voce di lui.
    - Mamma cara,  non è così... povera cara, anima mia  -  disse poi alla
    contessa che,  sentendosi vicina alla rottura col figlio,  lo guardava
    terrorizzata ma,  per ostinazione e per spirito di lotta, non voleva e
    non poteva cedere.
    -  Nikòlinka,  vattene,  ti  spiegherò  poi...  E  voi,   mamma  cara,
    ascoltatemi.
    Le sue parole erano prive di senso, ma ottennero il risultato al quale
    essa mirava.
    La  contessa,  singhiozzando  penosamente,  nascose  il viso sul petto
    della figlia.  Nikolàj si alzò,  si strinse il capo tra le mani e uscì
    dalla stanza.
    Natascia  si assunse il compito di riportare la pace e lo raggiunse al
    punto che Nikolàj riuscì a ottenere dalla madre la promessa che  Sònja
    non  sarebbe  stata  perseguitata  e  dal  canto  suo assicurò che non
    avrebbe fatto cosa alcuna di nascosto dai genitori.
    Con il fermo proposito di sistemare i propri affari al reggimento,  di
    dare le dimissioni, di tornare a casa e sposare Sònja, Nikolàj, triste
    e  serio,  in  disaccordo  con  i  genitori  ma,  come  a  lui pareva,
    profondamente innamorato, partì ai primi di gennaio per il reggimento.
    Dopo la partenza di Nikolàj, la vita in casa Rostòv diventò più triste
    che mai. La contessa, a causa delle emozioni provate, si ammalò.
    Sònja era molto malinconica per la partenza del  giovane  ufficiale  e
    ancora  più  lo  era per il contegno ostile che la contessa non poteva
    evitare di avere con lei.  Il conte,  sempre più  preoccupato  per  la
    pessima  condizione  dei suoi affari,  si rendeva conto che ormai essi
    esigevano dei  provvedimenti  radicali.  Era  inevitabile,  purtroppo,
    vendere la casa di Mosca e la villa alla periferia della città; ma per
    vendere  la  casa  occorreva  andare  a  Mosca  mentre la salute della
    contessa faceva ritardare di giorno in giorno la partenza.
    Natascia,  che da principio aveva sopportato con  facilità  e  persino
    lietamente  la  lontananza  del  fidanzato,  diventava ogni giorno più
    inquieta e impaziente.  Il pensiero di trascorrere così inutilmente il
    suo tempo migliore,  quel tempo che ella avrebbe usato per amarlo,  la
    tormentava senza posa.  Le lettere  del  fidanzato,  per  lo  più,  la
    irritavano.  La offendeva il pensiero che, mentre ella viveva soltanto
    del ricordo di lui,  egli vivesse una vera vita,  vedesse nuovi paesi,
    nuove persone che lo interessavano. Quanto più le lettere del principe
    erano interessanti,  tanto più le facevano dispetto,  e le lettere che
    lei gli scriveva non solo non le procuravano  alcun  conforto,  ma  le
    apparivano come un dovere noioso e falso.
    Natascia  non  sapeva  scrivere  perché  non  poteva capire come fosse
    possibile esprimere in una lettera sia pure la millesima parte di  ciò
    che ella soleva esprimere con la voce, con lo sguardo, con il sorriso.
    E  scriveva al principe Andréj lettere aride,  classicamente monotone,
    alle quali ella stessa non attribuiva alcuna importanza e  di  cui  la
    contessa correggeva, nella brutta copia, gli errori di ortografia.
    La  salute  della  contessa  non migliorava,  ma non era più possibile
    differire la partenza per Mosca.  Bisognava  ordinare  il  corredo  di
    Natascia  e  vendere  la  casa;  inoltre il principe Andréj era atteso
    prima  a  Mosca,   dove  quell'anno  il  principe  Nikolàj  Andréevic'
    trascorreva l'inverno, e dove Natascia era convinta che egli fosse già
    arrivato.
    La  contessa  rimase in campagna,  e il conte partì per Mosca verso la
    fine di gennaio, accompagnato da Sònja e da Natascia.





    NOTE.

    N. 3. Tiro di tre cavalli.
    N. 4. Signora, in polacco.
    N. 5. Vivacissima danza popolare.
    N. 6. Sorta di liquore di acquavite drogata.
    N. 7. Specie di chitarra a tre corde, di forma triangolare.
    N.  8.  Carrozza a quattro ruote,  con due sedili di fronte,  disposti
    perpendicolarmente al sedile del cocchiere.
    N. 9. "Il portatore d'acqua" o più esattamente "Le due giornate ovvero
    Il  portatore  d'acqua"  è  un  opera comica di Luigi Cherubini (1760-
    1842): rappresentata per la prima volta nel  1800,  quest'opera  viene
    considerata  "uno  dei  primi  esempi  italiani  di  sinfonismo  messo
    mozartianamente a servizio del teatro".  "La tempesta" di cui si parla
    qualche riga sopra è probabilmente una delle tante riduzioni in musica
    della celebre commedia omonima di William Shakespeare (1564-1616), che
    è considerata l'ultimo capolavoro del grande drammaturgo inglese.
    N.  10.  John  Field  (1782-1837),  pianista  e compositore irlandese.
    Allievo di Clementi,  si stabilì nel 1803 a  Pietroburgo,  dedicandosi
    con successo alla carriera concertistica e all'insegnamento.  A lui va
    il merito di aver creato un genere pianistico originale: fu infatti il
    primo compositore di notturni.  Per l'intimismo espressivo  delle  sue
    composizioni  può  venire considerato un anticipatore di Chopin (1810-
    1849).
    N. 11. Diminutivo alla francese di Pelagéja.
    N. 12. Arco di legno che unisce le stanghe sopra il cavallo.
    N.  13.  Gioco natalizio.  Dai contorni assunti dalle ombre proiettate
    dai pezzi di cera si traeva la buona ventura.
    N. 14. Il diminutivo francesizzato di Sascia, Alessandra.