Lev N. Tolstòj.
    GUERRA E PACE.


    LIBRO SECONDO.

    PARTE QUINTA.


    CAPITOLO 1.

    Dopo il fidanzamento del principe Andréj con Natascia,  Pierre sentì a
    un tratto, senza alcuna causa apparente, l'impossibilità di continuare
    a vivere come prima. Per quanto fosse fermamente convinto della verità
    rivelatagli dal suo benefattore,  per quanta gioia avesse provato  nei
    primi  tempi del suo interno travaglio di autoperfezionamento al quale
    si era dedicato con tanto ardore,  tuttavia dopo il  fidanzamento  del
    principe Andréj con Natascia e dopo la morte di Jussif Alekséevic', di
    cui aveva avuto notizia quasi nello stesso periodo di tempo, l'incanto
    di  quella  vita  svanì  per  lui  da  un giorno all'altro.  Della sua
    esistenza restava soltanto come lo scheletro: la casa con  una  moglie
    brillante che ora godeva i favori di un importante personaggio, le sue
    relazioni con tutta Pietroburgo, il servizio con tutte le conseguenti,
    noiose formalità.  E la sua esistenza di prima gli apparve a un tratto
    disgustosa.  Smise di  tenere  aggiornato  il  suo  diario,  evitò  la
    compagnia  dei fratelli massoni,  incominciò a frequentare il circolo,
    riprese a bere molto,  si riavvicinò alla compagnia degli scapoli e si
    diede a condurre una vita tale che la contessa Elen Vassìlevna ritenne
    necessario  fargli un severo ammonimento.  Pierre sentì che essa aveva
    ragione e, per non compromettere sua moglie, si recò a Mosca.
    A Mosca,  non appena rientrò nella sua immensa  casa,  dove  le  magre
    principessine  si  disseccavano  sempre  più  e  dove  i  servi  erano
    numerosissimi; non appena vide, attraversando la città, la cappella di
    Iversk con le innumerevoli fiammelle delle candele accese davanti agli
    ori delle immagini,  la piazza del Cremlino  con  la  sua  neve  quasi
    immacolata,  i  vetturini,  le casupole di Sivtzev Vrazëk;  non appena
    ebbe scorto i vecchi signori moscoviti,  che senza desiderare nulla  e
    senza fretta di arrivare chissà dove, finivano di vivere la loro vita,
    quando  ebbe  veduto  le  vecchiette e le vecchie signore di Mosca,  i
    balli della capitale, il circolo inglese della città, si sentì in casa
    propria, in un dolce, accogliente asilo. Provò, giungendo a Mosca, una
    sensazione di pace,  di tepore,  di abituale e  di  sudicio,  come  se
    avesse indossato una vecchia veste da camera.
    La  società  di  Mosca,  a  cominciare  dalle  vecchie signore sino ai
    bambini, accolse Pierre come un ospite lungamente atteso, il cui posto
    era sempre pronto e che nessuno aveva mai occupato.
    Per la società di Mosca, Pierre era sempre il più caro,  il più buono,
    il  più  intelligente  e generoso degli originali: un signore russo di
    vecchio stampo,  distratto e cordiale.  La sua borsa era sempre  vuota
    perché aperta a tutti.
    Le serate d'onore,  i brutti quadri,  le brutte statue,  le società di
    beneficenza,  gli zingari,  le scuole,  i grandi pranzi,  le  orge,  i
    massoni,  le chiese,  i libri: niente e nessuno riceveva mai da Pierre
    un rifiuto e se non ci fossero stati due  amici  che  si  erano  fatti
    prestare  da  lui  grosse  somme di denaro e lo tenevano sotto la loro
    tutela,  egli avrebbe distribuito tutto ciò che possedeva.  Al circolo
    non  si  organizzava  né  un pranzo né una serata senza la presenza di
    Pierre. Non appena egli, dopo due bottiglie di Margot,  si abbandonava
    al  suo  solito  posto  sul divano,  tutti gli si facevano attorno,  e
    allora avevano inizio le discussioni,  le conversazioni,  gli scherzi.
    Se  sorgeva  un  litigio,  egli  con il suo sorriso buono e una parola
    scherzosa detta a proposito ristabiliva la pace.  Le Logge  conviviali
    massoniche, senza di lui, diventavano monotone e noiose.
    Quando,  dopo  una  cena  tra  scapoli,  egli  con il suo dolce e buon
    sorriso cedeva alle insistenze dell'allegra compagnia e si alzava  per
    uscire  con  loro,  grida  gioiose ed entusiastiche si levavano tra la
    gioventù.  Se alle feste da ballo c'era scarsità di cavalieri,  Pierre
    ballava.  Le  giovani signore e le signorine gli volevano bene perché,
    senza far la corte  a  nessuna,  era  ugualmente  gentile  con  tutte,
    soprattutto dopo cena.  "Il est charmant,  il n'a pas de sexe" [1.  E'
    affascinante, non ha sesso!], dicevano di lui.
    Pierre  era  uno  di  quei  ciambellani  a  riposo  che  trascorrevano
    tranquillamente a Mosca il resto della propria vita.
    Quale  senso di orrore avrebbe provato,  sette anni prima,  quando era
    ritornato dall'estero,  se gli avessero detto che  non  avrebbe  avuto
    bisogno  di  cercare  né  di  escogitare  nulla,  che  la  sua via era
    tracciata da un pezzo, e che, a onta di ogni suo sforzo, sarebbe stato
    in tutto simile agli altri giovani della sua condizione. Non l'avrebbe
    certamente creduto!  Non era forse lui che aveva desiderato con  tutta
    l'anima,  ora  di  stabilire  la  repubblica in Russia,  ora di essere
    Napoleone,  ora di  essere  un  filosofo  oppure  un  condottiero  che
    vincesse  Napoleone?  Non  era  lui  che aveva veduto la possibilità e
    aveva desiderato ardentemente di rinnovare il genere umano corrotto  e
    di  elevare se stesso sino al massimo grado della perfezione?  Non era
    forse stato lui a fondare scuole e ospedali e a  dare  la  libertà  ai
    suoi contadini?
    E  invece di tutto questo,  egli era ora il ricco marito di una moglie
    infedele, un ciambellano a riposo al quale piaceva mangiare bene, bere
    bene e,  dopo essersi  sbottonato  un  poco  il  panciotto,  criticare
    benevolmente  il governo;  un socio del circolo inglese moscovita e un
    membro dell'alta società di Mosca,  benvoluto da tutti.  Per parecchio
    tempo  non  riuscì a rassegnarsi all'idea di essere proprio lui uno di
    quei ciambellani a  riposo,  di  cui  sette  anni  prima  aveva  tanto
    disprezzato il tipo!
    A  volte  si  consolava  pensando  che  soltanto  in  via  provvisoria
    conduceva quella vita,  ma poi un altro pensiero lo faceva inorridire:
    il  pensiero  che  così,  in via provvisoria,  già molti e molti altri
    erano entrati in quella vita e in quel circolo con tutti i loro  denti
    e il capo ben guarnito di capelli e ne erano usciti calvi e sdentati.
    Nei  momenti  di  orgoglio,  quando  pensava alla sua condizione,  gli
    pareva di essere un uomo diverso dagli altri e in particolare  diverso
    da  quei  ciambellani  a  riposo  che un tempo aveva disprezzato;  che
    quelli erano uomini volgari e stupidi,  contenti e  paghi  della  loro
    condizione sociale,  mentre "anche ora io sono sempre insoddisfatto, e
    vorrei sempre far qualcosa per il genere umano", diceva a se stesso in
    quei momenti di orgoglio.  "Ma forse anche quegli altri miei  colleghi
    si  sono  battuti  come  me,  hanno cercato come me nella vita una via
    nuova,  tutta loro  e,  come  me,  dalla  forza  dell'ambiente,  della
    società,  della razza quella forza della natura contro la quale l'uomo
    è impotente -  sono giunti là dove sono anch'io",  diceva a se  stesso
    nei  momenti  di  umiltà.  E,  dopo essere vissuto per qualche tempo a
    Mosca,  cessò di disprezzare e cominciò  ad  amare,  a  rispettare,  a
    compiangere,  come  compiangeva  se  stesso,  quei  suoi  compagni  di
    sventura.
    Pierre non era più assalito come prima da momenti di disperazione,  di
    ipocondria e di disgusto per la vita;  ma quella malattia che dapprima
    si era manifestata in lui con  accessi  violenti,  ricacciata  dentro,
    perdurava latente.
    "A  che scopo?  Perché?  Che si fa in questo mondo?",  si chiedeva con
    perplessità parecchie volte al  giorno,  cominciando  suo  malgrado  a
    meditare  sul  significato  dei  fenomeni  della vita;  ma sapendo per
    esperienza che  a  quelle  domande  non  c'era  risposta,  cercava  di
    scacciarle dalla sua mente, prendeva un libro o andava al circolo o da
    Apollòn Nikolàevic' a discorrere dei pettegolezzi della città.
    "Elen Vassìlevna,  che non ha mai amato nulla fuorché il proprio corpo
    e che è certo una delle donne più stupide del mondo",  pensava Pierre,
    "appare  alla  gente come un prodigio di intelligenza e di finezza,  e
    davanti a lei tutti si inchinano.
    Napoleone Bonaparte era disprezzato da tutti sino a che fu grande,  ma
    da  quando è diventato un volgare commediante,  l'imperatore Francesco
    fa di tutto per dargli sua figlia in moglie legittima.  Gli  Spagnuoli
    elevano  preghiere  a  Dio,   per  mezzo  del  clero  cattolico,   per
    ringraziarlo della vittoria ottenuta il 14 giugno sui  Francesi,  e  i
    Francesi   innalzano  preghiere  per  mezzo  di  quello  stesso  clero
    cattolico perché il 14 giugno hanno sconfitto gli  Spagnuoli.  I  miei
    fratelli   massoni   giurano  sul  loro  sangue  di  essere  pronti  a
    sacrificare ogni cosa per il prossimo,  ma non tirano fuori  un  rublo
    quando viene fatta la raccolta per i poveri,  aizzando Astrea contro i
    cercatori della Manna,  e brigano per ottenere il vero  Tappeto  della
    Loggia  scozzese e uno Statuto di cui neppure chi l'ha scritto conosce
    il significato, e che non è utile a nessuno.  Tutti noi professiamo la
    legge cristiana del perdono delle offese e dell'amore per il prossimo,
    la  legge  in seguito alla quale abbiamo eretto a Mosca quaranta volte
    quaranta chiese;  eppure ieri è stato frustato a morte un soldato  che
    era  fuggito  e  il  difensore di quella stessa legge dell'amore e del
    perdono,  il prete,  ha fatto baciare al soldato la  croce  prima  del
    supplizio".  Così pensava Pierre e tanta generale menzogna, ammessa da
    tutti, e alla quale egli era pure abituato, lo colpiva ogni volta come
    una cosa nuova.  "Capisco tale menzogna  e  tale  confusione"  pensava
    Pierre,  "ma  come posso esprimere agli altri tutto ciò che sento?  Ho
    tentato, ma ho dovuto sempre costatare che tutti,  in fondo all'anima,
    sentono come me, ma cercano di non vedere. E' chiaro, dunque, che così
    dev'essere!  Ma  che  posso  fare  io  di  me  stesso?",  si chiedeva.
    Sperimentava in se stesso  quella  disgraziata  attitudine  che  è  di
    molti,  specialmente russi,  l'attitudine di vedere e di credere nelle
    possibilità della giustizia e della verità ma di vedere anche,  e  sin
    troppo  chiaramente,  il  male e la menzogna della vita,  per avere la
    forza di partecipare seriamente ad essa.  A parer suo,  in ogni  campo
    d'azione regnavano il male e l'inganno.  Qualunque cosa egli tentasse,
    qualsiasi impresa iniziasse,  il male e la  menzogna  lo  ricacciavano
    indietro  e  gli  sbarravano  la  strada  a ogni attività.  Nondimeno,
    bisognava vivere e fare qualche cosa.  Era troppo  terribile  per  lui
    restare sotto il giogo di quegli insolubili problemi e perciò,  pur di
    dimenticarli, si abbandonava alle sue antiche passioni. Frequentava la
    società quanto più gli era possibile, beveva molto, acquistava quadri,
    costruiva e, soprattutto, leggeva.
    Leggeva,  leggeva tutto ciò che gli capitava sotto mano e  leggeva  in
    modo tale che,  tornato a casa e mentre ancora il cameriere lo aiutava
    a spogliarsi,  egli aveva già preso un libro in mano e leggeva:  dalla
    lettura passava al sonno, dal sonno alle chiacchiere nei salotti e nel
    circolo, dalle chiacchiere alle orge e alle donne, dalle orge di nuovo
    alle chiacchiere, alla lettura e al vino. Il bere diventava per lui un
    bisogno  fisico  e morale sempre più impellente.  Sebbene i medici gli
    dicessero che,  data la sua corpulenza,  il vino costituiva per lui un
    pericolo, beveva molto. Si sentiva completamente bene soltanto quando,
    senza  rendersene egli stesso conto,  dopo aver vuotato nella sua gran
    bocca parecchi bicchieri di vino,  un gradevole tepore  gli  circolava
    per tutto il corpo, e allora provava un senso di tenerezza per tutti i
    suoi  simili e una capacità di intelligenza a reagire superficialmente
    a ogni pensiero senza approfondirne la sostanza.  Soltanto  dopo  aver
    bevuto una bottiglia di vino seguita da un'altra,  concepiva vagamente
    che quell'intricato,  spaventoso grigiore della vita che per l'innanzi
    lo atterriva non era poi così terribile come gli era sembrato.  Con la
    testa che gli ronzava, chiacchierando,  ascoltando una conversazione o
    leggendo  dopo  il  pranzo  e dopo la cena,  egli vedeva continuamente
    dinanzi a sé quel groviglio ora da un lato ora dall'altro. Ma soltanto
    sotto l'effetto del vino  diceva  a  se  stesso:  "Non  è  niente.  Io
    scioglierò  questo  groviglio:  ho  già  dentro  di me una spiegazione
    pronta.  Ma adesso mi manca il tempo.  Rifletterò dopo su tutto!".  Ma
    questo "dopo" non arrivava mai!
    Ogni mattina, a digiuno, tutti i vecchi problemi gli si ripresentavano
    alla mente ancora terribili,  ancora insolubili, ed egli si affrettava
    a prendere un libro e si rallegrava quando qualcuno veniva a trovarlo.
    Talvolta Pierre si ricordava di aver sentito raccontare che i soldati,
    in guerra,  trovandosi sotto il fuoco nelle trincee,  quando non hanno
    nulla   da  fare,   cercano  con  cura  un'occupazione  qualsiasi  per
    sopportare con maggior  facilità  il  pericolo.  E  tutti  gli  uomini
    apparivano  a  Pierre  come  altrettanti soldati che cercassero scampo
    dalla vita: chi ricorrendo all'ambizione,  chi al gioco  delle  carte,
    chi  all'elaborazione  delle  leggi,  chi  alle  donne,  chi infine ai
    cavalli, alla politica,  alla caccia,  al vino,  agli affari di stato.
    "Non  c'è nulla di meschino,  né di importante: tutto si equivale.  Si
    tratta soltanto di sfuggire alla vita come si  può",  pensava  Pierre.
    "Si  tratta  soltanto di non vederla,  questa "lei",  questa terribile
    vita!".


    CAPITOLO 2.

    All'inizio dell'inverno,  il principe Nikolàj Andreic' Bolkonskij  era
    arrivato  a  Mosca  con  la  figlia.   Per  il  suo  passato,  la  sua
    intelligenza, la sua originalità ma,  soprattutto,  per la diminuzione
    di  entusiasmo che si verificava verso l'imperatore Aleksàndr e per la
    corrente antifrancese e patriottica da cui Mosca era allora invasa, il
    principe Nikolàj Andreic' divenne subito l'oggetto di  un  particolare
    rispetto da parte dei moscoviti e il centro dell'opposizione moscovita
    al governo.
    In quell'ultimo anno il principe era molto invecchiato.  Erano apparsi
    evidenti in lui gli indizi della vecchiaia,  la sonnolenza improvvisa,
    la  tendenza  a  dimenticare  gli avvenimenti più vicini nel tempo e a
    ricordare vivamente quelli più lontani,  la puerile ambizione con  cui
    accettava  la parte di capo dell'opposizione a Mosca.  Nonostante ciò,
    quando il vecchio principe, specialmente la sera, usciva per il tè con
    la sua pelliccetta e la parrucca incipriata e cominciava, provocato da
    qualcuno,  a narrare i suoi  frammentari  episodi  sul  passato  e  ad
    esporre  le  critiche  ancor  più frammentarie ma severe sul presente,
    suscitava in tutti i  suoi  ospiti  un  unanime  sentimento  di  stima
    rispettosa.  Per i visitatori,  tutta quella gran casa antica,  con le
    sue  enormi  specchiere,   i  mobili  del   periodo   antecedente   la
    rivoluzione,  i domestici in parrucca bianca, con quel vecchio burbero
    e intelligente superstite del secolo passato, la timida figliuola e la
    graziosa "mademoiselle" che  avevano  per  lui  una  vera  adorazione,
    costituiva  uno  spettacolo maestoso e attraente.  Ma i visitatori non
    pensavano che oltre a quelle due o tre  ore  nelle  quali  vedevano  i
    padroni  di  casa,  ve  ne  fossero  altre  ventidue per completare la
    giornata durante le quali trascorreva la  vita  intima  e  segreta  di
    quella famiglia.
    Negli  ultimi  tempi,  a  Mosca,  questa  vita  segreta  era  divenuta
    penosissima per la principessina Màrija. Nella capitale ella era priva
    delle  sue  gioie  migliori,  costituite  dalla  conversazione  con  i
    pellegrini e dalla solitudine,  cose che a Lissia-Gori le davano tanto
    conforto e alle quali non aveva trovato alcun compenso dalla  vita  di
    città.  Non frequentava la società: tutti sapevano che il padre non le
    permetteva di uscire senza di lui e,  dato che egli stesso non  poteva
    muoversi per la sua malferma salute,  la gente non la invitava neppure
    più ai pranzi e alle  serate.  Ormai  la  principessina  Màrija  aveva
    completamente  rinunziato alla speranza di maritarsi.  Ella vedeva con
    quale freddezza e ostilità il principe Nikolàj Andreic'  accoglieva  e
    allontanava  quei giovani che qualche volta venivano nella loro casa e
    che  avrebbero  potuto  aspirare  alla  mano  di   lei.   Amiche,   la
    principessina  Màrija  non  ne  aveva...  Ora,  durante il soggiorno a
    Mosca,  fu delusa sul conto delle due persone che più le erano intime:
    "mademoiselle"  Bourienne,  con  la  quale già prima non poteva essere
    completamente sincera,  ora le era divenuta  antipatica  e  per  certe
    ragioni si stava allontanando da lei;  Julie, che era a Mosca e con la
    quale la principessina Màrija era stata in corrispondenza  per  cinque
    anni  di seguito,  le parve,  dopo che l'ebbe riveduta,  assolutamente
    estranea alla sua vita. In quel periodo Julie, che a causa della morte
    del fratello era diventata  una  delle  più  ricche  ereditiere  della
    città,  si era lanciata nel turbine della piacevole vita mondana.  Era
    attorniata da una quantità  di  giovani  i  quali,  com'ella  credeva,
    avevano  imparato  tutto d'un tratto ad apprezzare le sue qualità,  ed
    era in quel periodo della vita in cui una ragazza della buona società,
    nel  timore  di  rimanere  zitella,   sente  che  è  giunta   l'ultima
    probabilità  di  maritarsi  e che la sua sorte deve decidersi subito o
    mai più.  La principessina Màrija ogni giovedì si  ricordava,  con  un
    triste sorriso,  che ormai non aveva più da scrivere a nessuno, perché
    Julie,  quella Julie la cui presenza non  le  dava  ormai  più  alcuna
    gioia,  era lì e la vedeva ogni settimana.  Come quel vecchio emigrato
    che aveva rifiutato di sposare la signora in casa della quale per anni
    di seguito aveva trascorso le sue serate,  ella si  doleva  che  Julie
    fosse  presente  e  che  lei non avesse più nessuno a cui scrivere.  A
    Mosca,  la principessina Màrija non sapeva  con  chi  parlare,  a  chi
    confidare  le  sue  pene,  alle  quali in quel tempo molte altre se ne
    erano aggiunte. Si avvicinava il ritorno del principe Andréj e insieme
    il momento delle nozze,  ma l'incarico che egli le aveva  affidato  di
    preparare all'avvenimento il padre, non solo non era stato assolto, ma
    appariva anzi diventare quasi impossibile, giacché ogni minimo accenno
    alla  contessina Rostòv faceva andare su tutte le furie il vecchio che
    era quasi continuamente di pessimo umore.  Una nuova pena,  che  negli
    ultimi   tempi   si  era  aggiunta  alle  altre  che  angustiavano  la
    principessina Màrija,  era costituita dalle lezioni che ella  dava  al
    suo  nipotino  di sei anni.  Nei suoi rapporti con il piccolo Nikolàj,
    ella si rendeva conto di essere irascibile come suo padre.  Per quanto
    dicesse  a  se  stessa che non doveva permettersi di andare in collera
    mentre insegnava al nipotino, quasi ogni volta che si sedeva al tavolo
    e prendeva in mano il sillabario francese,  era assalita a  tal  punto
    dal desiderio di trasmettere più in fretta e più facilmente le proprie
    cognizioni  al  bambino già timoroso di veder la zia andare in collera
    da un momento all'altro,  che,  alla minima disattenzione da parte del
    nipotino  ella trasaliva,  si agitava,  si irritava,  alzava la voce e
    qualche volta, scuotendolo per un braccio, lo metteva in castigo in un
    angolo.  Subito dopo questo gesto,  però,  la principessina Màrija  si
    metteva  a piangere sul proprio irascibile,  malvagio temperamento,  e
    Nikòluska,  imitandola  nei  singhiozzi,  abbandonava  l'angolo  senza
    permesso,  si  avvicinava  alla  zia  e,  scostandole dal viso le mani
    bagnate di lacrime, cercava di consolarla.
    Ma ciò che più affliggeva la principessina Màrija  era  l'irascibilità
    di  suo  padre,  sempre diretta contro di lei,  che negli ultimi tempi
    giungeva spesso alla crudeltà.  Se il  vecchio  l'avesse  costretta  a
    stare  tutta  la  notte  in ginocchio davanti alle immagini sacre,  se
    l'avesse picchiata,  obbligata a trasportare legna  e  acqua,  non  le
    sarebbe  neppure passato per la mente che la sua sorte fosse dolorosa;
    ma quel carnefice che le voleva bene  -   tanto  più  crudele  proprio
    perché  le  voleva  bene  e  che  perciò tormentava lei e se stesso  -
    sapeva non soltanto offenderla e umiliarla,  ma anche dimostrarle  che
    essa era sempre e in tutto colpevole.
    Negli  ultimi tempi nel carattere del vecchio si era rivelato un nuovo
    tratto che più di ogni altra cosa tormentava la principessina  Màrija:
    i  rapporti  sempre  più  intimi con "mademoiselle" Bourienne.  L'idea
    scherzosa che gli era  nata  di  colpo  quando  era  venuto  a  sapere
    dell'intenzione del figlio,  cioè di prendere in moglie "mademoiselle"
    Bourienne se Andréj si fosse sposato, gli era evidentemente piaciuta e
    ora con ostinazione e (come pareva alla principessina Màrija) soltanto
    per offendere lei,  mostrava una tenerezza speciale per "mademoiselle"
    Bourienne  e  dimostrava  il  suo  malcontento  verso  la  figlia  con
    manifestazioni di tenerezza verso la governante.
    Un giorno,  a Mosca,  in presenza della principessina Màrija (e a  lei
    parve  che il padre lo facesse a bella posta davanti a lei) il vecchio
    principe baciò la mano a "mademoiselle" Bourienne e,  trattala  a  sé,
    l'abbracciò  e  l'accarezzò.  La  principessina  arrossì e fuggì dalla
    stanza.  Dopo qualche  minuto  "mademoiselle"  Bourienne  entrò  nella
    camera della fanciulla e,  sorridendo,  le raccontò non so che cosa di
    allegro con la sua gradevole voce. La principessina Màrija si affrettò
    ad asciugarsi le lacrime,  si accostò a lei a passo  deciso  e,  senza
    evidentemente  rendersi conto di che cosa facesse,  in tono rabbioso e
    con la voce spezzata, prese a inveire contro la francese.
    -  Quale  viltà  abbietta  e  disumana  approfittare  così  della  sua
    debolezza...  -  Ma non poté finire la frase.  -  Uscite,  -  gridò  -
    uscite dalla mia stanza!  -  e scoppiò in singhiozzi.
    Il giorno successivo il principe non disse nulla alla figlia,  ma essa
    notò  che  a  tavola  ordinò  di  servire  i   cibi   cominciando   da
    "mademoiselle" Bourienne.  Alla fine del pranzo,  quando il domestico,
    secondo una vecchia abitudine, servì il caffè alla principessina prima
    che agli altri,  il vecchio andò su tutte  le  furie,  lanciò  il  suo
    bastone  verso  Filìpp  e  ordinò  immediatamente  che fosse arruolato
    soldato.
    - Non mi si ubbidisce...  l'ho  già  detto  due  volte...  Non  mi  si
    ascolta...  E'  lei  la  prima persona di questa casa...  lei,  la mia
    migliore amica...    -    gridava  il  principe.    -    E  se  tu  ti
    permetterai,-    urlò  furioso  rivolgendosi  per  la prima volta alla
    principessina Màrija  -  se ti permetterai ancora una volta,  come  ti
    sei permessa ieri sera...  di perdere davanti a lei il controllo di te
    stessa,  ti farò vedere chi è il padrone  in  questa  casa.  Via!  Non
    voglio più vederti! Vattene, ma prima devi chiederle perdono!
    La principessina Màrija chiese perdono ad Amélie Evgénevna, e al padre
    per sé e per Filìpp, che l'aveva pregata di intercedere in suo favore.
    In momenti come quelli,  nell'animo della principessina Màrija sorgeva
    un sentimento simile all'orgoglio del sacrificio. E accadeva che tutto
    a un tratto quel padre,  che ella biasimava,  si mettesse a cercare  a
    tastoni gli occhiali che aveva a portata di mano,  o che scordasse ciò
    che era appena accaduto,  o che con le gambe malferme facesse un passo
    falso  e  si  volgesse  a  guardare  se  qualcuno  aveva notato la sua
    debolezza o,  cosa ancora peggiore,  che durante  il  pranzo,  se  non
    c'erano  ancora  invitati  che  lo  eccitavano,  si addormentasse a un
    tratto,  lasciandosi sfuggire dalle mani il tovagliuolo mentre la  sua
    testa tremolante si inchinava sul piatto.  "E' vecchio e debole,  e io
    ho il coraggio di biasimarlo!",  pensava la  principessina  Màrija  in
    quei momenti, provando un profondo disgusto di sé.


    CAPITOLO 3.

    Nel 1811 viveva a Mosca un medico francese venuto rapidamente di moda.
    Era  alto,  bello  e  simpatico come sa esserlo un francese e,  come a
    Mosca  dicevano  tutti,  dotato  di  uno  straordinario  ingegno.  Era
    ricevuto  nelle  case della più eletta società non come un medico,  ma
    come un uguale.  Il principe Nikolàj Andreic',  che soleva farsi beffe
    della  medicina,  negli ultimi tempi,  per consiglio di "mademoiselle"
    Bourienne,  aveva finito per  ammetterlo  nella  sua  casa  e  si  era
    abituato a lui. Métivier si recava a visitare il principe due volte la
    settimana.
    Nel giorno di San Nikolàj, onomastico del principe, tutta Mosca affluì
    alla  porta  della  sua  abitazione,  ma  egli  aveva  ordinato di non
    ricevere nessuno e di invitare  a  pranzo  pochissime  persone,  delle
    quali aveva consegnato alla principessina Màrija l'elenco.
    Métivier,  venuto  in  mattinata  per  porgere i suoi auguri,  giudicò
    opportuno,  nella sua qualità di  medico,  "forcer  la  consigne"  [2.
    rompere  la  consegna] come disse alla principessina Màrija,  ed entrò
    nell'appartamento del principe.  Ma quella mattina,  proprio il giorno
    della  sua  festa,  il  vecchio  principe  si  trovava in uno dei suoi
    momenti  di  pessimo  umore.   Aveva  vagato  ore  e  ore  per   casa,
    rimbrottando  tutti coloro che incontrava,  fingendo di non capire ciò
    che gli dicevano e di  non  essere  capito.  La  principessina  Màrija
    conosceva  perfettamente  quello  stato  d'animo e quella tranquilla e
    chiusa tendenza a brontolare che,  di  solito,  si  risolveva  in  uno
    scoppio di furore, e aveva trascorso tutta la mattinata come davanti a
    un  fucile  carico  con il grilletto alzato in attesa dell'inevitabile
    scarica.  Sino all'arrivo del dottore le  ore  erano  trascorse  senza
    incidenti.  Dopo avere introdotto Métivier, la principessina Màrija si
    sedette in salotto con un libro tra le mani,  a  poca  distanza  dalla
    porta,  in  modo  da  potere  udire  ciò che avveniva nello studio del
    principe.
    Dapprima ella sentì soltanto la voce di Métivier, poi quella del padre
    e infine le due voci  contemporaneamente.  L'uscio  si  aprì  e  sulla
    soglia  comparvero  il  bel  Métivier  con  il viso stravolto e il suo
    ciuffo di capelli neri,  e il principe in berretto da notte e veste da
    camera, con la faccia alterata dalla collera e gli occhi bassi.
    - Non capisci?   -  gridava il principe.   -  Io invece capisco tutto!
    Spia francese!  Schiavo di Buonaparte,  spia,  fuori dalla  mia  casa!
    Fuori, dico!  -  e sbatté la porta.
    Métivier,  stringendosi  nelle  spalle,  si  avvicinò a "mademoiselle"
    Bourienne  che  all'udire  quell'alterco  era  accorsa  dalla   stanza
    attigua.
    -  Il  principe  non  sta  bene,  "la bile et le transport au cerveau.
    Tranquillisez-vous, je repasserai demain" [3.  La bile e un travaso di
    sangue al cervello.  Tranquillizzatevi, ripasserò domani]  -  le disse
    e, posto un dito sulle labbra, uscì rapidamente.
    Di là dall'uscio si udiva un frusciare di  passi  in  pantofole  e  le
    grida:
    - Spie!  Traditori!  Dappertutto traditori!  Neppure in casa mia posso
    avere un momento di pace!
    Quando Métivier se ne fu andato,  il vecchio principe chiamò la figlia
    e tutta la violenza della sua collera si scatenò contro di lei. Di lei
    era la colpa di aver introdotto nello studio quella spia,  poiché egli
    aveva detto, e proprio a lei,  di fare un elenco e di non ammettere in
    casa coloro il cui nome non figurava nell'elenco stesso. Perché dunque
    era stato introdotto quell'impostore? Era stata lei la causa di tutto!
    "Con  lei",  egli  diceva,  "non  poteva avere un minuto di pace,  non
    poteva morire tranquillo!".
    - E' inutile,  mia cara,  bisogna che ci  separiamo,  bisogna  che  ci
    separiamo! Sappilo, sappilo che non ne posso più!  -  esclamò, uscendo
    dalla stanza e,  quasi temendo che sua figlia potesse consolarsi in un
    modo qualunque,  tornò  verso  di  lei  e,  cercando  di  assumere  un
    atteggiamento calmo, aggiunse:
    - E non crediate che abbia detto questo in un momento di collera; sono
    calmo,  calmissimo  e  ho  riflettuto  a  quello che dico.  Così sarà.
    Dobbiamo separarci... Cercatevi un posto!
    Ma non riuscì a resistere oltre e,  con quella collera che  è  propria
    soltanto dell'uomo che ama,  soffrendo visibilmente egli stesso, agitò
    i pugni in aria e gridò:
    - Se almeno qualche imbecille se la sposasse!   -   Sbatté  la  porta,
    fece  chiamare  "mademoiselle"  Bourienne e si chiuse nello studio ove
    finalmente si calmò.
    Alle due giunsero le sei persone scelte per il pranzo.  Gli  invitati,
    il  noto  conte  Rastopcìn,  il  principe  Lopuchin  (4) con il nipote
    generale Ciatrov,  vecchio compagno d'armi  del  principe,  e,  tra  i
    giovani, Pierre e Borìs Drubetzkòj lo aspettavano in salotto.
    Giunto  da  poco  a  Mosca  in licenza,  Borìs aveva desiderato essere
    presentato  al  principe  Nikolàj  Andreic'   ed   era   riuscito   ad
    acquistarsene  a  tal  punto  le  simpatie che il principe aveva fatto
    un'eccezione per lui solo tra i giovani scapoli,  di cui non  riceveva
    nessuno in casa sua.
    La  casa del principe non era quel che si può definire "il bel mondo",
    era una ristretta cerchia di persone dalle quali,  sebbene non  se  ne
    sentisse  parlare  in  città,  era  tuttavia  assai lusinghiero essere
    ricevuti. Di questo si era reso conto Borìs una settimana prima quando
    Rastopcìn,  in sua presenza aveva risposto  al  generalissimo  che  lo
    invitava a pranzo per il giorno di San Nikolàj:
    -  Quel  giorno  andrò,  come  sempre,  a  ossequiare  le reliquie del
    principe Nikolàj Andreic'.
    - Ah, già,  già  -  aveva risposto il generalissimo.   -  A proposito,
    come sta?
    La  piccola  compagnia riunita prima di pranzo nell'antiquato salotto,
    somigliava al solenne  consesso  di  una  Corte  di  tribunale.  Tutti
    tacevano o,  se parlavano,  lo facevano sottovoce. Il principe Nikolàj
    Andreic' comparve silenzioso e grave.  La principessina Màrija  pareva
    ancora  più  mite  e più timida di quanto non lo fosse di solito.  Gli
    ospiti le rivolgevano malvolentieri la  parola  giacché  capivano  che
    aveva  ben altro per la testa che i loro discorsi.  Il conte Rastopcìn
    animava da solo la conversazione,  parlando ora  delle  ultime  novità
    cittadine ora delle ultime notizie politiche.
    Lopuchin e il vecchio generale solo di tanto in tanto prendevano parte
    alla  conversazione.  Il  principe  Nikolàj Andreic' ascoltava come un
    giudice supremo ascolta una relazione che gli venga fatta, dimostrando
    con il silenzio o con una breve parola di prender atto di  quanto  gli
    si dice.  Dal tono della conversazione si capiva che nessuno approvava
    ciò  che  allora  si  faceva  in  campo  politico.   Si   raccontavano
    avvenimenti  che  dimostravano  con evidenza come le cose andassero di
    male in peggio,  ma ciò che più colpiva  era  il  fatto  che  in  ogni
    narrazione  e in ogni discussione chi parlava si interrompeva o veniva
    interrotto ogni qualvolta toccava il limite oltre il quale il  biasimo
    avrebbe potuto riferirsi alla persona dell'imperatore.
    Durante  il  pranzo  la conversazione trattò della più recente notizia
    politica: l'occupazione,  da parte di Napoleone,  dei possedimenti del
    duca di Oldenburg (5) e la nota russa,  ostile a Napoleone,  inviata a
    tutte le Corti europee.
    - Buonaparte agisce verso l'Europa  come  un  pirata  verso  una  nave
    conquistata    -    disse il conte Rastopcìn,  ripetendo una frase già
    pronunziata parecchie altre volte.   -  Ciò  che  stupisce  di  più  è
    l'apatia  o  la  cecità dei sovrani.  Ora vien messo in gioco anche il
    papa: il Buonaparte, ormai,  senza alcun riguardo,  vuol rovesciare il
    capo della Chiesa cattolica (6),  e tutti tacciono! Soltanto il nostro
    imperatore ha protestato contro  l'occupazione  dei  possedimenti  del
    duca di Oldenburg.  E anche...  -  Il conte Rastopcìn tacque, sentendo
    a un tratto  di  essere  giunto  a  quel  limite  che  non  si  doveva
    oltrepassare.
    -  Gli  sono stati proposti altri territori in luogo del ducato  disse
    il principe Nikolàj Andreic';   -   come  se  io  trasferissi  i  miei
    contadini  da Lissia-Gori a Boguciàrovo e nelle terre di Rjazàn,  così
    egli fa con i duchi.
    - "Le duc d'Oldenburg supporte son malheur avec une force de caractère
    et une résignation admirables" [7.  Il duca di Oldenburg  sopporta  la
    sciagura con una forza di carattere e una rassegnazione ammirevoli]  -
    disse  Borìs,  intervenendo  rispettosamente nel discorso.  Egli aveva
    fatto quell'osservazione perché,  di passaggio per Pietroburgo,  aveva
    avuto  l'onore  di  essere  presentato  al  duca.  Il principe Nikolàj
    Andreic' guardò il giovane, come volesse rispondergli qualche cosa, ma
    ci rifletté su un momento e tacque,  giudicandolo troppo  giovane  per
    meritare un simile onore.
    -  Ho  letto  la  nostra  protesta per l'affare di Oldenburg e mi sono
    meravigliato del pessimo stile con cui era stata redatta   osservò  il
    conte  Rastopcìn  con  il  tono  noncurante  dell'uomo che giudica una
    faccenda che conosce a fondo.
    Pierre guardò Rastopcìn con ingenuo stupore,  non comprendendo  perché
    dovesse preoccuparsi del cattivo stile della nota.
    -  Non  è forse indifferente lo stile con cui è stata redatta la nota,
    conte, se il contenuto è forte?  -  domandò.
    - "Mon cher,  avec nos 500 mille hommes de troupe,  il  serait  facile
    d'avoir  un  beau  style" [8.  Mio caro,  con i nostri cinquecentomila
    uomini di truppa non sarebbe difficile  avere  un  bello  stile!]    -
    ribatté Rastopcìn.
    Pierre   comprese   perché  la  forma  in  cui  era  redatta  la  nota
    preoccupasse Rastopcìn.
    -  Eppure  pare  che  ora  si  abbia  un  numero  di  scribi  più  che
    sufficiente:  laggiù,  a  Pietroburgo,  tutti  scrivono  molto  e  non
    soltanto note diplomatiche, ma si scrivono anche nuove leggi.  Il "mio
    Andrjuscia"  ha  scritto  per  la Russia tutto un volume di leggi.  Al
    giorno d'oggi tutti scrivono!  -  E rise in modo innaturale.
    La conversazione cessò per un momento;  il vecchio generale tossì  per
    attirare a sé l'attenzione degli altri.
    -  Avete  sentito  parlare  dell'ultimo  avvenimento  alla  rivista di
    Pietroburgo? Sapete come si è comportato l'ambasciatore francese?
    - Come?  Sì,  ho sentito dire qualcosa in proposito:  pare  che  abbia
    commesso una mancanza di tatto verso l'imperatore.
    -  Sua  maestà  gli  faceva osservare la divisione dei granatieri e la
    marcia di parata  -    proseguì  il  generale    -    e  si  dice  che
    l'ambasciatore  non  abbia  prestato  la  minima  attenzione  e si sia
    permesso di obiettare che in Francia non si  dà  importanza  a  simili
    sciocchezze.  L'imperatore  non  gli ha risposto.  Ma si dice che alla
    rivista successiva non si sia degnato di rivolgergli la parola.
    Tutti  tacquero:  su   quel   fatto   che   riguardava   personalmente
    l'imperatore non era lecito esprimere alcuna opinione.
    -  Che  sfacciato!    -    scattò  il vecchio principe.   -  Conoscete
    Métivier? Oggi stesso l'ho cacciato da casa mia.  Era venuto e l'hanno
    fatto  passare  nel  mio  studio  sebbene  io  avessi  ordinato di non
    introdurre nessuno...   -    proseguì  il  principe,  rivolgendo  alla
    figliuola uno sguardo irritato.  E raccontò tutta la sua conversazione
    con il medico francese accennando ai motivi per cui  si  era  convinto
    che Métivier fosse una spia. Sebbene tali motivi fossero insufficienti
    e tutt'altro che chiari per giungere a una simile conclusione, nessuno
    fece obiezioni.
    Con  l'arrosto  fu  servito lo "champagne".  Gli ospiti si alzarono in
    piedi per fare gli auguri al vecchio principe. La principessina Màrija
    gli si avvicinò.
    Egli le rivolse uno sguardo freddo,  ostile  e  le  porse  la  guancia
    rugosa  e  rasata  da  baciare.  L'espressione  del  suo  viso  diceva
    chiaramente alla figlia che egli non aveva dimenticato quanto le aveva
    detto la mattina,  che  la  sua  decisione  rimaneva  immutata  e  che
    soltanto la presenza degli ospiti gli impediva di parlargliene ora.
    Quando tutti passarono nel salotto per prendere il caffè,  i vecchi si
    riunirono in disparte.
    Il principe Nikolàj Andreic' si animò ed espresse la propria  opinione
    sulla  guerra  imminente.  Disse che le nostre guerre contro Bonaparte
    non avrebbero avuto buon esito sino a quando i Russi avessero  cercato
    l'alleanza  tedesca  e  si fossero immischiati nelle questioni europee
    nelle quali ci aveva coinvolti la pace di Tilsit.
    - Noi non dobbiamo combattere né per l'Austria né contro l'Austria   -
    proseguì.    -    I  nostri  interessi politici sono tutti volti verso
    Oriente e,  per quanto riguarda il Buonaparte,  dobbiamo semplicemente
    tenere  truppe  armate  sul  confine e seguire una politica energica e
    risoluta.  Se avessimo agito così nel passato,  egli certo non avrebbe
    mai varcato il confine russo come nel 1807.
    - E come potremmo noi, principe, combattere contro i Francesi? esclamò
    il  conte  Rastopcìn.    -   Come possiamo noi prendere le armi contro
    coloro che noi veneriamo come divinità?  Guardate  un  po'  la  nostra
    gioventù,  guardate  le  nostre  signore.  Le  nostre  divinità sono i
    Francesi, il nostro Paradiso è Parigi!
    E cominciò ad alzare la voce, evidentemente perché tutti lo udissero.
    - Abiti francesi, idee francesi, sentimenti francesi! Ecco,  voi avete
    scacciato  Métivier perché è un francese e un mascalzone,  e le nostre
    signore si trascinano in ginocchio dietro di lui. Ieri mi trovavo a un
    ricevimento:  ebbene,   delle  cinque  signore  presenti,   tre  erano
    cattoliche e,  con il permesso del papa, ricamano anche la domenica...
    e intanto erano quasi nude,  come le figure dipinte sulle insegne  dei
    bagni pubblici,  con rispetto parlando. Eh, principe, quando guardo la
    nostra gioventù,  mi vien voglia di  prendere  dal  museo  il  vecchio
    randello di Pietro il Grande e di rompere loro le costole alla maniera
    russa...  Vedreste  che  allora tante bestialità scomparirebbero dalla
    loro testa!
    Tutti tacquero.  Il vecchio principe,  con il viso  illuminato  da  un
    sorriso, guardò Rastopcìn e scosse il capo in segno di approvazione.
    - Ebbene,  addio,  eccellenza!  Conservatevi in buona salute  -  disse
    Rastopcìn,   alzandosi  e  porgendo  la  mano  al  principe   con   la
    caratteristica rapidità di movimenti.
    - Addio, mio caro! Sei una "gussla" (9) che ascolto sempre volentieri!
    -    gli disse il vecchio principe,  trattenendo nelle sue la mano del
    conte e porgendogli una guancia da baciare.
    Insieme con Rastopcìn si alzarono anche gli altri.


    CAPITOLO 4.

    La principessina Màrija, seduta nel salotto, ascoltava questi discorsi
    e queste recriminazioni dei vecchi senza capirci  nulla;  si  chiedeva
    soltanto  se  gli ospiti si fossero accorti del modo ostile con cui il
    padre la trattava.  Non si era nemmeno resa conto delle  attenzioni  e
    delle  cortesie  che durante il pranzo aveva avuto per lei Drubetzkòj,
    il quale, ormai per la terza volta, veniva in casa sua.
    La principessina Màrija con uno sguardo distratto e  interrogativo  si
    rivolse a Pierre che, ultimo tra gli ospiti, con il cappello in mano e
    il  viso  sorridente,  le  si  era avvicinato dopo che il principe era
    uscito ed essi erano rimasti soli nel salotto.
    - Posso restare ancora un po'?   -  domandò,  lasciando cadere il  suo
    grosso corpo su una poltrona accanto alla principessina Màrija.
    - Oh,  sì!   -  gli rispose lei.  "E voi non avete notato nulla?", gli
    domandava intanto con lo sguardo.
    Pierre si trovava in ottima disposizione di spirito.  Guardava davanti
    a sé e sorrideva tranquillo.
    - Lo conoscete da molto tempo quel giovanotto, principessina?
    - Chi?
    - Drubetzkòj.
    - No, da poco...
    - Vi piace?
    -  Sì,  lo trovo un giovane simpatico...  Perché me lo chiedete?   gli
    domandò la principessina Màrija,  continuando a pensare a ciò  che  le
    aveva detto il padre la mattina.
    -  Perché  ho  fatto  un'osservazione:  spesso  i  giovani  vengono da
    Pietroburgo a  Mosca  in  licenza  solo  allo  scopo  di  trovare  una
    fidanzata ricca.
    - Avete fatto questa osservazione?  -  domandò la fanciulla.
    -  Sì,   -  proseguì Pierre sorridendo  -  e quel giovanotto ora fa in
    modo di trovarsi sempre là dove ci sia una ricca fanciulla da  marito.
    Leggo  in  lui  come  in  un  libro  aperto.  Ora  è incerto tra voi e
    "mademoiselle" Julie Karàgina. "Il est bien assidu auprès d'elle" [10.
    E' molto assiduo presso di lei].
    - Va spesso dai Karagin?
    - Sì,  molto spesso.  Lo conoscete il nuovo modo di far la corte  alle
    signorine?    -    chiese  con  un allegro sorriso Pierre,  sentendosi
    evidentemente in uno stato d'animo disposto alla canzonatura, cosa che
    spesso si rimproverava nel suo diario.
    - No  -  rispose la principessina Màrija.
    -  Ora,   per  interessare  le  signorine  a  Mosca,   "il  faut  être
    mélancolique.  Et  il  est  très  mélancolique  auprès de mademoiselle
    Karàgina"  [11.  ...bisogna  essere  malinconici.   Ed  egli  è  molto
    malinconico con la signorina Karàgina]  -  disse Pierre.
    - "Vraiment?" [12.  Veramente?]  -  chiese la principessina, guardando
    il viso buono di Pierre,  ma con il pensiero sempre fisso alla propria
    pena.  "Mi sentirei meglio se confidassi a qualcuno ciò che sento", si
    diceva. "Ed è proprio a Pierre che vorrei dire tutto. Egli ha un animo
    così buono e generoso...  Proverei un po' di sollievo e  forse  potrei
    avere da lui un consiglio...".
    - Lo vorreste per marito, voi?  -  domandò Pierre.
    - Ah, mio Dio, conte! Ci sono momenti in cui sposerei chiunque!rispose
    a un tratto,  in modo inatteso anche per se stessa,  la principessina,
    con le lacrime nella voce.  -  Sapeste com'è penoso, talora, amare una
    persona che ci è vicina e cara e sentire che... non puoi far nulla per
    lei,  se non procurarle dolore e renderti conto che  non  è  possibile
    mutare  una  tale  situazione.  Allora  non resta da fare che una sola
    cosa: andarsene... ma dove posso andarmene, io?   -  continuava a dire
    con la voce che le tremava.
    - Ma che avete, principessina, che avete?
    La fanciulla non rispose e si mise a piangere.
    - Non so che cosa mi succeda,  oggi. Non datemi retta, dimenticate ciò
    che vi ho detto.
    Tutta l'allegria di Pierre era scomparsa. Egli interrogava preoccupato
    la principessina,  la pregava di dirgli tutto,  di confidargli la  sua
    pena;  ma  essa  continuava a ripetergli che lo pregava di dimenticare
    quanto gli aveva detto,  che non se ne ricordava neppure più lei,  che
    non  aveva  altro dolore all'infuori di quello che egli già conosceva:
    il dolore che il matrimonio del principe  Andréj  potesse  mettere  il
    disaccordo tra padre e figlio.
    -  Avete  sentito  dir  nulla  dei  Rostòv?   -  domandò,  per cambiar
    discorso.   -  Mi è stato riferito che  saranno  qui  tra  non  molto.
    Anch'io  aspetto  Andréj  da  un  giorno  all'altro.   Vorrei  che  si
    incontrassero qui...
    - E ora "lui" come  considera  la  questione?    -    domandò  Pierre,
    intendendo   con   quel   "lui"  alludere  al  vecchio  principe.   La
    principessina scrollò il capo.
    - Che fare?  Mancano ormai pochi mesi al termine fissato:  l'anno  sta
    per  scadere.  E  questo non può essere.  Vorrei soltanto rendere meno
    amari a mio fratello i primi momenti...  Vorrei che  essi,  i  Rostòv,
    arrivassero  al più presto.  Spero che andrò d'accordo con lei...  Voi
    che li conoscete da molto tempo,   -  disse la principessina Màrija  -
    ditemi,  con  la  mano sulla coscienza,  tutta la verità: com'è quella
    ragazza? Come vi pare? Ma che sia tutta la verità,  vi prego,  perché,
    voi lo capite, Andréj corre un così gran rischio, sposandosi contro la
    volontà di nostro padre, che io vorrei sapere...
    Un   vago  istinto  avvertiva  Pierre  che  quelle  domande  e  quella
    insistenza nel chiedergli di  dire  tutta  la  verità  esprimevano  il
    malanimo  della  principessina  verso la futura cognata e il desiderio
    che egli,  Pierre,  non approvasse la scelta del principe  Andréj.  Ma
    Pierre rispose francamente ciò che sentiva piuttosto ciò che pensava.
    -  Non  so come rispondere alle vostre domande  -  disse,  arrossendo,
    senza sapere il perché.  -  Non so assolutamente che tipo di fanciulla
    sia e non posso in alcun modo analizzarla. E' adorabile...  ma perché?
    Non lo so. Ecco tutto ciò che posso dirvi di lei.
    La  principessina  Màrija  sospirò  mentre  l'espressione del suo viso
    diceva: "Era proprio questo che aspettavo e temevo di sentirmi dire".
    - E' intelligente?  -  domandò la principessina.
    Pierre rifletté.
    - Penso di no,  -  rispose  -  ma... forse sì.  Non si degna di essere
    intelligente: è adorabile e niente di più.
    Di nuovo la principessina Màrija scosse il capo, disapprovando.
    - Ah,  desidererei tanto di volerle bene!  Glielo direte,  vero, se la
    vedrete prima di me?
    - Mi è stato detto che arriveranno  tra  qualche  giorno    -    disse
    Pierre.
    La principessina espose a Pierre il suo progetto di stringere amicizia
    con  la futura cognata non appena i Rostòv fossero giunti a Mosca e di
    fare il possibile perché il vecchio principe si abituasse a lei.


    CAPITOLO 5.

    Borìs,  che non era  riuscito  a  combinare  a  Pietroburgo  il  ricco
    matrimonio cui aspirava, era venuto a Mosca con lo stesso proposito. E
    ora,  a  Mosca,  esitava tra le due più ricche ereditiere;  Julie e la
    principessina Màrija.  Sebbene brutta,  quest'ultima gli pareva  assai
    più simpatica di Julie ma, chissà perché, si sentiva imbarazzato a far
    la  corte  alla  Bolkònskaja.  Nell'ultimo  suo  incontro con lei,  in
    occasione dell'onomastico del vecchio principe, a tutti i tentativi di
    portare la conversazione sui sentimenti,  ella aveva risposto sempre a
    sproposito e, visibilmente, senza ascoltarlo.
    Julie,  invece,  anche se in un modo tutto suo particolare,  accettava
    volentieri la corte del giovane.
    Julie aveva ventisette anni.  Dopo la  morte  dei  suoi  fratelli  era
    diventata ricchissima.  Ormai si era fatta decisamente bruttina;  però
    non solo credeva di  essere  bella,  ma  anche  di  essere  molto  più
    attraente che nel passato. Persisteva in quell'illusione anzitutto per
    la  consapevolezza  di  essere  diventata  un ricchissimo partito,  in
    secondo luogo perché,  quanto più invecchiava e quanto meno  diventava
    pericolosa  per  gli  uomini,  tanto  più essi si comportavano con lei
    liberamente e, senza assumersi alcun obbligo, potevano godere dei suoi
    inviti a cena,  delle serate e della brillante e vivace società che si
    riuniva  in  casa di lei.  Lo stesso uomo che dieci anni fa si sarebbe
    fatto scrupolo di recarsi ogni giorno  in  una  casa  dove  c'era  una
    fanciulla diciassettenne nel timore di comprometterla o di impegnarsi,
    ora  si  recava tranquillamente a trovarla ogni giorno e si comportava
    con lei non già come con una signorina  da  marito  ma  come  con  una
    conoscente che non avesse sesso.
    In  quell'inverno la casa dei Karagin a Mosca era la più ospitale e la
    più accogliente della città.  Oltre che per le serate importanti e per
    i pranzi di gala,  si riuniva ogni giorno dai Karagin moltissima gente
    e in particolare uomini,  che si mettevano a cena a  mezzanotte  e  si
    trattenevano  anche  sino  alle  tre  del  mattino.  Non  c'era ballo,
    passeggiata,  spettacolo teatrale ai quali non partecipasse  Julie.  I
    suoi vestiti erano sempre all'ultima moda, ma, nonostante questo, ella
    pareva  delusa  di  tutto,   e  ripeteva  sempre  di  non  credere  né
    all'amicizia, né all'amore, né a qualsiasi altra gioia della vita,  ma
    di  attendere  la  pace soltanto nell'al di là.  Aveva assunto il tono
    della ragazza provata da gravi disillusioni,  della ragazza che  abbia
    perduto  l'uomo  amato  o  che sia stata da lui crudelmente ingannata.
    Benché nulla di simile le fosse accaduto, gli altri pensavano che essa
    aveva realmente sofferto, e lei stessa era convinta di avere avuto una
    vita piena di sofferenze e di dispiaceri. Questa malinconia che non le
    impediva di divertirsi,  non impediva neppure  ai  giovanotti  che  la
    frequentavano  di  passare  il  tempo molto piacevolmente in casa sua.
    Ogni ospite doveva  pagare  un  tributo  all'umore  malinconico  della
    padroncina di casa,  e poi poteva liberamente occuparsi di chiacchiere
    mondane,  di  balli,  di  giochi  spiritosi,  di  gare  poetiche,  che
    costituivano   una  particolarità  delle  riunioni  in  casa  Karagin.
    Soltanto pochi giovani,  tra i quali  Borìs,  favorivano  le  tendenze
    malinconiche  di  Julie  e con essi ella intrecciava colloqui lunghi e
    solitari sulla vanità delle cose mondane, e mostrava loro il suo album
    pieno d'immagini tristi, di massime e di versi.
    Julie era particolarmente amabile con  Borìs:  lo  compiangeva  per  i
    precoci  disinganni che la vita gli aveva riservato,  gli offriva quei
    conforti dell'amicizia che poteva offrirgli giacché essa stessa  aveva
    molto  sofferto  e  gli apriva il proprio album.  Borìs vi disegnò due
    alberi e vi scrisse: "Arbres rustiques,  vos sombres rameaux  secouent
    sur moi les ténèbres et la mélancolie" [13. "Rustici alberi, le vostre
    cupe fronde diffondono su di me le tenebre e la malinconia"].
    In un'altra pagina disegnò una bara e scrisse:

    "La  mort  est secourable et la morte est tranquille.  Ah!  Contre les
    douleurs,  il n'y a pas d'autre asile" [14.  "La morte è pietosa e  la
    morte è tranquilla. Ah, contro il dolore non vi è altro rifugio!"].

    Julie disse che erano versi incantevoli.
    -  "Il  y  a  quelque  chose  de  si  ravissant  dans le sourire de la
    mélancolie"  -  gli disse un giorno,  ripetendo parola per  parola  un
    brano  che aveva copiato da un libro francese.   -  "C'est un rayon de
    lumière dans l'ombre, une nuance entre la douleur et le désespoir, qui
    montre  la  consolation  possible"  [15.  C'è  qualche  cosa  di  così
    incantevole  nel sorriso della malinconia (...).  E' un raggio di luce
    nell'ombra,  una sfumatura tra il dolore e  la  disperazione,  che  fa
    sperare nella possibilità di un conforto].
    A ciò Borìs rispose scrivendo questi altri versi:

    "Aliment de poison d'une âme trop sensible,
    Toi, sans qui le bonheur me serait impossible,
    Tendre mélancolie, ah, viens me consoler,
    Viens calmer les tourments de ma sombre retraite
    Et mêle une douceur secrète
    A ces pleurs que je sens couler"
    [16.  "Alimento  venefico  di  un animo troppo sensibile,  tu,  tenera
    malinconia,  senza la quale non potrei  avere  la  felicità,  vieni  a
    consolarmi,  vieni  a  placare  i tormenti della mia cupa solitudine e
    mescola una dolcezza segreta a queste lacrime che sento cadere"].

    Julie sonava sull'arpa per Borìs  i  notturni  più  tristi.  Borìs  le
    leggeva   ad   alta  voce  "La  povera  Liza"  (17)  e  spesso  doveva
    interrompere la lettura per la commozione che  gli  serrava  la  gola.
    Quando Julie e Borìs si incontravano in società, si guardavano come se
    fossero  le  uniche  persone indifferenti alle cose del mondo e che si
    comprendessero a vicenda.
    Anna Michàjlovna,  che frequentava anch'essa il salotto  dei  Karagin,
    mentre   faceva  una  partita  a  carte  con  la  madre,   cercava  di
    raccogliere, tra un discorso e l'altro, informazioni sicure sulla dote
    di Julie (le davano  due  tenute  di  Penza  e  i  boschi  di  Niznij-
    Nòvgorod).  Anna  Michàjlovna,  docile  ai  voleri  della Provvidenza,
    guardava con commozione la raffinata malinconia che univa  suo  figlio
    alla ricca Julie.
    -  "Toujours charmante et mélancolique cette chère Julie" [18.  Sempre
    incantevole e malinconica questa cara Julie!]  -  diceva alla  figlia.
    -  Borìs mi dice che in casa vostra l'anima si riposa.  Ha avuto tante
    disillusioni ed è così sensibile!  -  diceva alla madre.
    E al figliuolo:
    - Ah,  mio caro,  come mi sono affezionata a Julie  in  questi  ultimi
    tempi!  Non  te  lo puoi immaginare!  E,  del resto,  chi potrebbe non
    volerle bene? E' una creatura così celestiale! Ah, Borìs, Borìs!  -  E
    taceva per un momento.  -  E come mi fa pena sua madre  -  riprendeva.
    -  Oggi mi ha fatto vedere i conti e le lettere da  Penza  dove  hanno
    una  tenuta  vastissima:  deve  fare  tutto  lei,  da sola.  E come la
    ingannano, povera donna!
    Borìs sorrideva impercettibilmente,  ascoltando  la  madre.  Sorrideva
    della  sua ingenua furberia,  ma l'ascoltava e talvolta la interrogava
    minuziosamente sulle proprietà di Penza e di Niznij-Nòvgorod.
    Da un pezzo Julie aspettava  una  dichiarazione  dal  suo  malinconico
    adoratore  ed  era  pronta  ad  accettarla.  Ma  un  senso  segreto di
    avversione verso la fanciulla,  verso il suo appassionato desiderio di
    sposarsi,  verso la sua mancanza di naturalezza, e insieme un senso di
    paura all'idea di dover rinunziare alla possibilità di un vero  amore,
    tratteneva  ancora  Borìs.  Il  periodo  della  sua  licenza stava per
    scadere: egli trascorreva giornate  intere  in  casa  Karagin  e  ogni
    giorno,  ragionando con se stesso,  si riprometteva di fare la domanda
    il giorno seguente.  Ma in presenza di  Julie,  guardando  quel  volto
    rosso,  quel mento quasi sempre coperto di cipria, quegli occhi sempre
    umidi e l'espressione del viso che la rivelava sempre pronta a passare
    immediatamente  dalla  malinconia   all'entusiasmo   eccessivo   della
    felicità  coniugale,  Borìs  non  riusciva  a  pronunziare  la  parola
    decisiva,  anche se con l'immaginazione si  vedeva  già  da  un  pezzo
    padrone  delle  terre  di  Penza e di Niznij-Nòvgorod e già pensava al
    modo di impiegarne le rendite.
    Julie vedeva l'indecisione di Borìs e talora pensava di non piacergli;
    ma subito dopo l'amor proprio femminile la consolava e la  induceva  a
    credere  che  soltanto  l'amore  fosse  la  causa  dell'imbarazzo  del
    giovane.  Ma  intanto  la  sua  malinconia  cominciava  a  mutarsi  in
    nervosismo  e,  poco  prima della partenza di Borìs,  ella escogitò un
    progetto decisivo.  Proprio nel periodo in cui stava  per  scadere  la
    licenza  di  lui,  comparve  a  Mosca,  e naturalmente nel salotto dei
    Karagin,  Anatolij  Kuragin,  e  Julie,   deposta  improvvisamente  la
    malinconia, divenne molto allegra e premurosa verso Anatolij.
    -  "Mon  cher",   -  diceva Anna Michàjlovna al figlio  -  "je sais de
    bonne source que le prince Basile envoie son fils à  Moscou  pour  lui
    faire épouser Julie" [19.  Mio caro, so da buona fonte che il principe
    Vassilij manda suo figlio a Mosca  per  fargli  sposare  Julie].  Sono
    tanto affezionata a Julie che mi dispiacerebbe per lei.  Che ne pensi,
    mio caro?
    Il pensiero di restare a bocca asciutta,  di avere inutilmente perduto
    tutto  quel  mese  di  faticosa  malinconia vicino a Julie e di vedere
    nelle mani di un altro,  e soprattutto di quell'imbecille di Anatolij,
    le  cospicue  rendite  dei  possedimenti  di  cui  già  disponeva  con
    l'immaginazione,  ferì profondamente Borìs.  Si recò senza indugio dai
    Karagin,  fermamente  deciso  a  domandare la mano di Julie.  Julie lo
    accolse  con  un'aria  allegra  e  spensierata,   gli  descrisse   con
    leggerezza  quanto si fosse divertita al ballo della sera avanti e gli
    chiese quando sarebbe partito.  Sebbene  Borìs  fosse  venuto  con  il
    proposito  di  dichiarare  il  suo  amore  e quindi con tutte le buone
    intenzioni  di  essere  affettuoso,   si  mise  tuttavia   a   parlare
    nervosamente della volubilità delle donne, della facilità con cui esse
    possono  passare  dalla  tristezza  alla  gioia,  e del loro umore che
    dipende soltanto da chi le corteggia.  Julie si offese e disse che era
    proprio così,  che alle donne piace un po' di varietà e che "il sempre
    lo stesso" viene a noia chiunque.
    - Perciò vi  consiglio...    -    cominciò  Borìs,  desiderando  dirle
    qualcosa  di  pungente;  ma  in  quel  momento  gli balenò il pensiero
    umiliante di poter partire da Mosca senza aver raggiunto il suo  scopo
    e dopo aver faticato inutilmente,  cosa che non gli succedeva mai.  Si
    interruppe a metà discorso,  abbassò gli occhi per non  vedere  quella
    faccia indecisa e irritata in modo così antipatico e disse:
    - Non sono venuto qui per bisticciare con voi. Anzi...  -  e la guardò
    per  accertarsi  se poteva continuare.  Tutta l'irritazione di lei era
    scomparsa di colpo e gli occhi inquieti e supplichevoli  lo  fissavano
    con avida attesa.
    "Potrò  sempre organizzarmi in modo da vederla di rado",  pensò Borìs.
    "Ma la faccenda è iniziata  e  deve  essere  conclusa!".  Arrossì,  la
    guardò risolutamente in viso e le disse:
    - Vi sono certamente noti i miei sentimenti verso di voi!
    Non   era  necessario  dire  altro:  il  viso  di  Julie  raggiava  di
    soddisfazione e di trionfo, ma ella lo costrinse a dirle tutto ciò che
    si dice in simili casi,  ossia che l'amava e che non aveva  mai  amato
    alcuna donna più di lei...  Sapeva che le tenute di Penza e di Niznij-
    Nòvgorod  le  permettevano  di  esigere  quelle  dichiarazioni,  e  le
    ottenne.
    I  fidanzati,  senza  più  ricordare  gli  alberi  che li coprivano di
    tenebra  e  di  malinconia,   cominciarono  subito  a   far   progetti
    sull'arredamento  della  casa  a Pietroburgo,  a recarsi in visita e a
    organizzare tutto il necessario per un fastoso matrimonio.


    CAPITOLO 6.

    Il conte Iljà Andreic' verso la fine di gennaio  giunse  a  Mosca  con
    Sònja e con Natascia. La contessa, sempre indisposta, non era stata in
    grado  di partire e,  d'altra parte,  era impossibile aspettare che si
    ristabilisse: il principe Andréj era  atteso  a  Mosca  da  un  giorno
    all'altro,  inoltre  si  doveva  acquistare  il  corredo per Natascia,
    vendere la villa vicino a Mosca ed era inoltre necessario approfittare
    del soggiorno a Mosca del vecchio principe per presentargli la  futura
    nuora.  La  casa  dei Rostòv a Mosca non era riscaldata,  il soggiorno
    sarebbe stato breve,  la contessa non  era  con  loro  e  perciò  Iljà
    Andreic'  aveva  deciso  di  alloggiare  in  casa  di Màrija Dmìtrevna
    Achrosìmova, che da tempo aveva offerto al conte ospitalità.
    A tarda sera,  le quattro vetture dei Rostòv si fermarono nel  cortile
    di  Màrija  Dmìtrevna,  sulla Stàraja Konjùscennaia.  Màrija Dmìtrevna
    viveva sola.  La  figliuola  era  sposata,  e  i  figli  maschi  erano
    militari.
    Ella si teneva sempre eretta sulla persona,  diceva sempre francamente
    a ognuno, a voce alta e decisa, la propria opinione e con tutto il suo
    essere sembrava rimproverare  agli  altri  le  loro  varie  debolezze,
    passioni e predilezioni di cui ella non ammetteva la possibilità.  Sin
    dalle prime ore del mattino,  in  vestaglia,  accudiva  alle  faccende
    domestiche, poi, nei giorni di festa si recava alla Messa e, terminata
    la funzione,  alla casa di pena e alle prigioni,  dove aveva affari di
    cui non parlava con nessuno.
    Nei giorni feriali,  invece,  dopo essersi vestita,  riceveva in  casa
    postulanti  di ogni ceto che venivano da lei quotidianamente,  dopo di
    che si metteva a tavola. Al pranzo, succulento e gustoso, aveva sempre
    tre o quattro invitati;  dopo il pranzo faceva una partita a "boston";
    di sera,  mentre lavorava a maglia,  si faceva leggere i giornali o le
    ultime novità in campo librario. Molto di rado faceva eccezione a tali
    regole per uscire e, se usciva, era soltanto per recarsi in visita dai
    personaggi più importanti della città.
    Quando arrivarono i Rostòv non si era ancora coricata e  udì  cigolare
    la porta dell'anticamera,  che si apriva per lasciare passare i Rostòv
    e i loro domestici che giungevano portando una ventata del  freddo  di
    fuori.  Màrija  Dmìtrevna,  con  gli  occhiali abbassati sul naso e la
    testa inclinata all'indietro, ritta sulla soglia del salotto, guardava
    con aria corrucciata e ostile coloro che entravano.  Si sarebbe potuto
    pensare  che  fosse  irritata  con  i  nuovi arrivati e che li avrebbe
    subito scacciati se, nello stesso tempo,  non avesse impartito precisi
    ordini  alla  servitù  per una conveniente sistemazione degli ospiti e
    dei loro bagagli.
    - Sono quelle del conte?  Portale qui    -    disse,  indicando  certe
    valigie, senza salutare nessuno.  -  La roba delle signorine da questa
    parte,  a  sinistra.  Cosa  fate  voialtre,  laggiù?    -   gridò alle
    cameriere.  -  Preparate il samovàr!  Ti sei ingrassata,  ti sei fatta
    più bella  -  disse poi tirando a sé,  per il cappuccio,  Natascia.  -
    Uh, come sei fredda! E tu, sbarazzati presto della pelliccia  -  gridò
    al conte che voleva avvicinarsi per baciarle la mano.   -  Sei gelato,
    mio  caro!  Qui ci vuole del rum con il tè...  Sonjuska "bonjour"!   -
    disse poi a Sònja, attenuando con quel saluto francese il suo contegno
    un po' sprezzante e nello stesso tempo affettuoso verso la fanciulla.
    Quando gli ospiti,  liberatisi dalle  pellicce,  si  furono  messi  in
    ordine  dopo  il  viaggio  e  rientrarono  per prendere il tè,  Màrija
    Dmìtrevna li baciò uno dopo l'altro.
    - Sono davvero contenta che siate venuti e che vi tratteniate da me  -
    disse.  -  Era ora...  -  soggiunse, guardando Natascia.- Il vecchio è
    già qui e  aspetta  il  figlio  da  un  giorno  all'altro.  Bisognerà,
    bisognerà conoscerlo.  Ma ne riparleremo  aggiunse,  lanciando a Sònja
    uno sguardo che diceva come non le garbasse toccare in presenza di lei
    quell'argomento.  -  E ora ascolta  -  disse, volgendosi al conte;   -
    per domani chi vuoi?  Chi manderai a chiamare?  Scinscin? uno...  -  e
    piegò un dito.  Quella piagnucolona di Anna Michàjlovna,  e due...  E'
    qui con suo figlio.  Suo figlio si sposa.  E poi,  Bezuchov, no? Anche
    lui è qui con la moglie.  Era scappato via da lei,  ma  quella  gli  è
    corsa dietro.  E' stato a pranzo da me mercoledì. Be', quanto a queste
    signorine,   -  e indicò le due fanciulle  -  domani le condurrò  alla
    chiesa  di Iversk e poi passeremo dalla Aubert-Chalmé (20)!  Credo che
    farete tutte cose alla moda, vero? Non prendere esempio da me: oggi le
    maniche si usano gonfie così...  L'altro giorno è venuta a trovarmi la
    principessina  Irina  Vassìlevna:  era  un  orrore!  Pareva che avesse
    infilato le braccia dentro due botticelle. Ormai si sa, la moda cambia
    ogni giorno! E tu, che cosa mi dici degli affari che ti hanno condotto
    qui   -  soggiunse, rivolgendosi al conte in tono severo.
    - Tante cose accumulate insieme  -  rispose il conte.   -    Anzitutto
    l'acquisto del corredo, poi si è presentato un acquirente per la villa
    e  per  la  casa.  Anzi,  se la vostra bontà me lo consentirà,  uno di
    questi giorni andrò a Marìnskoe e vi lascerò le mie ragazze.
    - Benissimo,  benissimo...  qui da  me  saranno  al  sicuro,  come  al
    Consiglio di tutela. Le condurrò dove si dovrà andare, le sgriderò, le
    vizierò  -  disse Màrija Dmìtrevna, accarezzando con la larga mano una
    guancia della prediletta Natascia, sua figlioccia.
    La  mattina  seguente  Màrija  Dmìtrevna condusse le due ragazze prima
    alla chiesa di Iversk e poi da "madame" Aubert-Chalmé,  la quale aveva
    una  tal  paura  di  Màrija  Dmìtrevna  da  cederle i vestiti anche in
    perdita pur di liberarsene al  più  presto.  Màrija  Dmìtrevna  ordinò
    quasi tutto il corredo. Quando furono rientrate a casa mandò via tutti
    quanti  dalla sua camera ad eccezione di Natascia.  La fece avvicinare
    alla sua poltrona e le disse:
    - E ora discorriamo un po' noi  due.  Mi  congratulo  con  te  per  il
    fidanzato.  Hai  trovato un gran bel giovane!  Ne sono molto lieta per
    te: lo conosco da quando era alto così...  -  e accennò a poco meno di
    un metro da terra. Natascia arrossì di gioia.   -  Voglio bene a lui e
    a tutta la sua famiglia. Ora ascoltami. Tu sai che il vecchio principe
    Nikolàj non voleva che il figlio si sposasse. E' un vecchio bisbetico!
    Certo  il  principe  Andréj non è più un ragazzo e può fare a meno del
    suo consenso,  ma non è bello  entrare  in  una  famiglia  per  forza.
    Bisogna entrare con la pace,  con l'amore. Tu sei intelligente, saprai
    comportarti come si deve. Usa bontà e comprensione, e vedrai che tutto
    andrà per il meglio.
    Natascia taceva non già per timidezza,  come pensava Màrija Dmìtrevna,
    ma,   in   realtà,   perché   le   dava  fastidio  che  altre  persone
    s'immischiassero nel suo amore per il principe Andréj,  amore  che  le
    pareva assai diverso da ogni altra cosa umana e che,  secondo lei, non
    poteva essere compreso da chicchessia.  Ella sola amava e conosceva il
    principe  Andréj,  il quale amava lei e doveva arrivare in quei giorni
    per sposarla. Questo le bastava.
    - Vedi,  io lo conosco da molto tempo e voglio bene anche a  Màscenka,
    la tua futura cognata. Le cognate, di solito, sono malevole, ma questa
    non  farebbe  male  a una mosca.  Mi ha chiesto di conoscerti.  Domani
    andrai da lei con tuo padre; cerca di entrare nelle sue grazie; sei tu
    la più giovane. Quando verrà il tuo fidanzato, avrai già conosciuto la
    sorella e il padre, ed essi ti vorranno già bene. D'accordo,  vero?  E
    tutto andrà magnificamente. Non ti pare che sia meglio così?
    - Sì, meglio  -  rispose Natascia, senza alcun entusiasmo.


    CAPITOLO 7.

    Il giorno successivo, per consiglio di Màrija Dmìtrevna, il conte Iljà
    Andreic'  si  recò  con  Natascia  a  far  visita  al principe Nikolàj
    Andréevic'. Il conte si preparava a quella visita con animo tutt'altro
    che sereno: in fondo al cuore aveva paura.  L'ultimo suo incontro  con
    il principe,  avvenuto al tempo dell'arruolamento quando,  in risposta
    al suo invito a pranzo,  aveva avuto un aspro rabbuffo per  lo  scarso
    numero  di  uomini raccolti,  era rimasto impresso profondamente nella
    sua memoria.  Natascia,  che aveva indossato il suo vestito più bello,
    era,  al  contrario,  di  ottimo  umore.  "E'  impossibile  che non mi
    vogliano bene", pensava. "Tutti mi hanno sempre voluto bene. E io sono
    così disposta a far per loro tutto ciò che desiderano,  così  disposta
    ad amare lui perché è suo padre e lei perché è sua sorella,  che non è
    possibile che non mi debbano voler bene!".
    Arrivarono alla vecchia,  cupa casa del principe in via Vozdvìzenka ed
    entrarono nel vestibolo.
    - E ora ci accompagni la benedizione di Dio  -  mormorò il conte,  tra
    il serio e lo scherzoso; ma Natascia notò che suo padre si affrettava,
    entrando nel vestibolo e che appariva molto timido nel chiedere se  il
    principe  e la principessina fossero in casa.  Dopo che il loro arrivo
    fu annunziato,  avvenne  una  certa  confusione  tra  la  servitù  del
    principe:  il  domestico  che  era andato ad annunziare la visita,  fu
    fermato nella sala da un altro domestico con il quale scambiò  qualche
    parola  a bassa voce.  Una cameriera accorse frattanto nella sala e in
    fretta  e  furia  disse   sottovoce   qualche   cosa,   nominando   la
    principessina.  Finalmente  comparve un vecchio domestico dalla faccia
    arcigna a riferire che il principe non poteva  riceverli,  ma  che  la
    principessina  li  pregava  di  favorire da lei.  La prima persona che
    venne loro incontro fu "mademoiselle" Bourienne. Salutò padre e figlia
    con  particolare  cortesia  e  li  accompagnò   nella   stanza   della
    principessina.  Questa,  con  il  viso agitato,  spaurito,  coperto di
    chiazze rosse, venne, a sua volta, con il suo passo pesante,  incontro
    agli ospiti sforzandosi inutilmente di apparire cordiale e disinvolta.
    Alla  prima occhiata,  Natascia non piacque affatto alla principessina
    Màrija: la fanciulla le sembrò troppo elegante, troppo frivola, gaia e
    vanitosa.  La principessina Màrija non si  rendeva  conto  che,  prima
    ancora di vedere la sua futura cognata,  era già mal disposta verso di
    lei, perché inconsapevolmente ne invidiava la bellezza e la gioventù e
    perché era gelosa dell'amore di suo fratello.  Oltre  che  per  questi
    invincibili  sentimenti di antipatia verso Natascia,  la principessina
    Màrija in quel momento era anche turbata perché,  sentendo  annunziare
    l'arrivo dei Rostòv, il principe si era messo a gridare che non voleva
    vederli,  ma che la principessina Màrija era padronissima di riceverli
    purché nessuno osasse introdurli nelle sue stanze. La principessina si
    era decisa a ricevere i Rostòv,  ma  temeva  a  ogni  istante  che  il
    vecchio  principe  uscisse  in una delle sue terribili trovate giacché
    appariva assai turbato e sconvolto dalla venuta dei Rostòv.
    - Ecco, cara principessina,  vi ho condotto la mia figliuola  -  disse
    il conte,  inchinandosi e guardandosi attorno inquieto come se temesse
    di vedere comparire il vecchio principe.   -  Sono molto contento  che
    vi  conosciate...  Peccato,  peccato che il principe sia indisposto  -
    e, dopo aver pronunziato qualche frase generica, si alzò.
    - Se permettete,  principessina,  vi lascio per un quarto d'ora la mia
    Natascia.  Io  vado  un  momento  qui  a  due  passi,  alla  Sobàciaja
    Ploscjadka da Anna Semënovna e poi passo a riprenderla.
    Iljà Andreic' aveva escogitato quella astuzia diplomatica per dar modo
    alla futura cognata di parlare  a  cuore  aperto  con  Natascia  (come
    spiegò  poi  alla  figlia)  e  anche  per evitare la possibilità di un
    incontro con il principe del quale aveva  tanta  paura.  Questo,  alla
    figlia  non  lo disse,  ma Natascia intuì la paura e l'inquietudine di
    suo padre e se ne sentì offesa.  Arrossì per lui,  si irritò ancor  di
    più per essere arrossita e volse alla principessina uno sguardo ardito
    e  provocante  che pareva voler significare che lei non aveva paura di
    nessuno.  La principessina disse al conte di essere molto lieta  e  lo
    pregò  di  trattenersi  un  po' a lungo presso Anna Semënovna;  e Iljà
    Andreic' se ne andò.
    "Mademoiselle" Bourienne,  nonostante gli  sguardi  inquieti  lanciati
    dalla  principessina  Màrija  che  desiderava rimanere a tu per tu con
    Natascia,  non usciva  dalla  stanza  e  insisteva  nel  mantenere  la
    conversazione  sui  divertimenti e sugli spettacoli teatrali che Mosca
    offriva.  Natascia si sentiva offesa per  la  confusione  che  si  era
    verificata  in anticamera,  per l'inquietudine del padre e per il tono
    forzato  della  principessina  che  sembrava  concederle  una  grazia,
    ricevendola.  Perciò si sentiva a disagio. La principessina Màrija non
    le piaceva: le pareva molto brutta, affettata e arida.  A un tratto si
    contrasse  spiritualmente  in se stessa e assunse,  senza volerlo,  un
    atteggiamento noncurante che allontanava  vieppiù  da  lei  la  futura
    cognata. Dopo cinque minuti di faticosa, forzata conversazione, si udì
    il  lieve  scalpiccio di qualcuno che camminava in pantofole.  Il viso
    della principessina Màrija assunse un'espressione  spaventata,  mentre
    la  porta  della stanza si apriva e sulla soglia compariva il principe
    in berretto da notte bianco e in veste da camera.
    - Ah,  signora,   -   cominciò  a  dire    -    signora  contessina...
    contessina Rostova,  se non mi sbaglio...  vi prego di scusarmi... Non
    sapevo, signorina,  non sapevo...  Dio mi è testimone che ignoravo che
    vi  foste  degnata  di onorarci di una visita...  E sono venuto da mia
    figlia in simile abbigliamento...  Vi prego ancora di scusarmi:  mi  è
    testimone  Dio  che  non sapevo  -  ripeté in modo così poco naturale,
    insistendo sulla parola  "Dio"  e  in  tono  così  antipatico  che  la
    principessina Màrija rimase ritta in piedi con gli occhi bassi,  senza
    osare guardare né il padre, né Natascia. Natascia, che si era alzata e
    poi rimessa a sedere,  non sapeva neanche lei che cosa fare.  Soltanto
    "mademoiselle" Bourienne sorrideva con grazia.
    -  Prego  di scusarmi!  Dio mi è testimone che non sapevo  -  borbottò
    ancora il vecchio e,  dopo aver  squadrato  Natascia  dalla  testa  ai
    piedi,  uscì  dalla  stanza.  "Mademoiselle"  Bourienne  fu la prima a
    riaversi dopo quell'apparizione e si mise  a  parlare  della  malferma
    salute del principe.  Natascia e la principessina Màrija si guardavano
    in silenzio e,  quanto più  si  guardavano  senza  esprimere  ciò  che
    avrebbero  voluto  dire,   tanto  più  si  giudicavano  con  antipatia
    reciproca.
    Quando il conte ritornò,  Natascia manifestò in modo scortese  la  sua
    gioia e si affrettò ad accomiatarsi;  in quel momento sentiva quasi di
    odiare quella vecchia,  arida principessina che aveva potuto  metterla
    in  una  situazione  così  imbarazzante  e  trascorrere con lei più di
    mezz'ora senza dirle una parola del principe Andréj.
    "Certo non potevo essere io la prima a parlare di lui davanti a quella
    francese", pensava Natascia. In quello stesso momento la principessina
    Màrija si tormentava per lo stesso motivo.  Sapeva quello che  avrebbe
    dovuto  dire  a  Natascia,  ma  non  aveva  potuto  farlo  perché  era
    imbarazzata dalla presenza di "mademoiselle" Bourienne  e  poi  perché
    neppure  lei  sapeva per quale motivo le riuscisse così penoso parlare
    di quel matrimonio. Quando il conte stava per uscire dalla stanza,  la
    principessina  Màrija  si accostò rapidamente a Natascia,  le prese la
    mano e, sospirando profondamente, le disse:
    - Aspettate... Devo dirvi...
    Natascia la guardò,  senza ella stessa  sapere  il  perché,  con  aria
    ironica.
    -  Cara Nathalie,   -  continuò la principessina Màrija  -  devo dirvi
    che sono molto contenta che mio fratello abbia trovato la  felicità...
    -    Si  interruppe,  sentendo  di  non essere sincera.  Natascia notò
    quell'esitazione e ne comprese la causa.
    - Mi pare, principessina,  che non sia il momento di parlare di queste
    cose   -  disse Natascia con apparente dignitosa freddezza,  ma con le
    lacrime che le facevano groppo alla gola.
    "Che cosa ho detto?  Che cosa ho fatto?",  pensò poi,  non  appena  fu
    uscita.
    Quel  giorno  Natascia  si  fece aspettare a lungo all'ora del pranzo.
    Chiusa in camera sua,  piangeva a dirotto come una bimba,  soffiandosi
    il  naso  e singhiozzando.  Sònja,  ritta accanto a lei,  le baciava i
    capelli.
    - Natascia,  che hai?   -  le chiedeva.   -  Che ti importa  di  loro?
    Passerà tutto, Natascia.
    - No, se tu sapessi com'è umiliante... come se io...
    -  Non  dir così,  Natascia,  tu non hai colpa alcuna,  che te ne deve
    importare?  -  disse Sònja.
    Natascia sollevò il capo e,  dopo aver baciato  sulle  labbra  la  sua
    amica, premette contro di lei il viso inondato di lacrime.
    - Non posso dirlo,  non lo so.  Nessuno ha colpa  -  rispose Natascia.
    -  Io sì, io sono colpevole! Ma tutto ciò è terribile. Perché egli non
    torna?
    Entrò in sala da pranzo con gli occhi rossi. Màrija Dmìtrevna, che era
    al corrente dell'accoglienza fatta dal principe ai  Rostòv,  finse  di
    non  accorgersi  del  viso  sconvolto  di Natascia e durante il pranzo
    chiacchierò e scherzò a voce alta con il conte e con gli altri ospiti.


    CAPITOLO 8.

    Quella sera i Rostòv  si  recarono  all'opera,  per  la  quale  Màrija
    Dmìtrevna aveva acquistato i biglietti.
    Natascia non voleva andare, ma non era possibile rifiutare la cortesia
    di Màrija Dmìtrevna, dedicata esclusivamente a lei. Quando, entrata in
    salotto,  già  vestita,  in  attesa  del  padre,  si guardò nel grande
    specchio, Natascia vide di essere bella, molto bella, e questo la rese
    ancora più triste, ma di una tristezza dolce e soffusa di tenerezza.
    "Mio Dio,  se egli fosse qui non mi accadrebbe più  di  sentirmi  così
    stupidamente  intimidita  come  mi  è  capitato,   ma  lo  abbraccerei
    semplicemente,  stringendomi forte a lui,  lo obbligherei a  guardarmi
    con quei suoi occhi scrutatori e curiosi,  con cui spesso mi guardava,
    e poi lo farei ridere come rideva allora... e i suoi occhi... oh, come
    li vedo i suoi occhi!",  pensava Natascia.  "E che  m'importa  di  suo
    padre  e di sua sorella...  io amo lui soltanto lui,  lui con quel suo
    viso e quei suoi occhi,  lui con quei suo sorriso virile e infantile a
    un tempo.  No,  meglio non pensare a lui, non pensare... e dimenticare
    tutto, tutto,  per ora!  Io non sopporterei quest'attesa,  mi metterei
    subito a singhiozzare...",  e si allontanò dallo specchio, facendo uno
    sforzo su se stessa per non piangere.  "E come riesce Sònja  ad  amare
    Nikòlinka  con  tanta  serenità e calma e ad aspettarlo così a lungo e
    così pazientemente?", pensò,  vedendo entrare Sònja,  già pronta anche
    lei  e  con  il  ventaglio in mano.  "Ma lei è diversa,  completamente
    diversa. Io non posso!".
    Natascia si sentiva in quel momento così commossa e piena di tenerezza
    che le pareva troppo poco amare ed essere amata: aveva  bisogno,  ora,
    di abbracciare subito l'uomo amato,  di parlargli e di udire dalle sue
    labbra le parole di amore di cui il suo cuore era  colmo.  Mentre,  in
    carrozza,  sedeva  accanto  al padre e guardava pensierosa la luce dei
    fanali che si riflettevano sui vetri coperti di gelo,  si sentì ancora
    più  innamorata  e più triste,  e dimenticò con chi era e dove andava.
    Nella fila delle altre carrozze,  quella  dei  Rostòv,  le  cui  ruote
    facevano  scricchiolare  la neve,  si avvicinava al teatro.  Quando si
    fermò, Natascia e Sònja balzarono a terra,  sollevando i loro vestiti,
    scese poi il conte sorretto dai servitori e tutti e tre, fra signore e
    cavalieri che entravano,  e venditori di programmi, si avviarono lungo
    il corridoio. Dietro gli usci semiaperti dei palchi già si udiva l'eco
    della musica.
    - "Nathalie,  vos cheveux" [21.  Nathalie,  i capelli!]   -    mormorò
    Sònja,   mentre  la  maschera,  scivolando  rapidamente  davanti  alle
    signorine,  apriva con garbo la porta del  palco.  La  musica  si  udì
    allora  più  distintamente,  balenarono le file dei palchi illuminati,
    pieni di signore con le spalle e le braccia nude, e la platea rumorosa
    e scintillante di uniformi.  La signora che entrava nel palco  attiguo
    ebbe  per  Natascia uno sguardo di donna invidiosa.  Il sipario non si
    era ancora alzato,  e  l'orchestra  eseguiva  il  preludio.  Natascia,
    riassettandosi il vestito, entrò insieme con Sònja e diede un'occhiata
    alle file illuminate dei palchi dirimpetto. La sensazione, da un pezzo
    non provata,  che centinaia di occhi guardassero il suo collo e le sue
    braccia nude,  s'impadronì a un tratto di lei,  gradevole e sgradevole
    insieme,  suscitando  nella  sua  mente  uno  sciame  di  ricordi e di
    desideri, collegati a quella sensazione.
    Le  due  fanciulle,  Natascia  e  Sònja,  notevolmente  graziose,   in
    compagnia  del  conte Iljà Andreic' che da molto tempo non era stato a
    Mosca, attiravano l'attenzione generale.  Inoltre tutti sapevano più o
    meno  vagamente  del  fidanzamento di Natascia con il principe Andréj,
    sapevano che da allora i Rostòv vivevano in campagna e osservavano con
    curiosità la fidanzata di uno dei migliori "partiti" di Mosca.
    Come tutti le dicevano, in campagna Natascia si era fatta più bella, e
    quella sera,  a cagione dello stato di eccitamento in cui si  trovava,
    era  particolarmente  attraente.  Colpiva la sua pienezza di vita e di
    bellezza  unita  alla  totale  indifferenza  verso  tutto  quanto   la
    circondava.  I  suoi  occhi  neri  guardavano  la  folla senza cercare
    nessuno in particolare,  e il suo braccio sottile,  nudo  sino  al  di
    sopra del gomito,  restava abbandonato sul davanzale di velluto mentre
    la mano ora si chiudeva ora si apriva inconsapevolmente  gualcendo  il
    programma.
    - Guarda,   -  disse Sònja  -  ecco l'Alènina: mi pare che sia con sua
    madre.
    - Santi benedetti, Michaìl Kirillyc' è ingrassato ancora!   -  osservò
    il vecchio conte.
    - Guardate la nostra Anna Michàjlovna, che tòcco ha in testa!
    -  I  Karagin,  Julie,  e  Borìs  è con loro.  Si vede subito che sono
    fidanzati!
    - Drubetzkòj ha già fatto la sua domanda...  E come  no?  L'ho  saputo
    oggi  -  disse Scinscin entrando nel palco dei Rostòv.
    Natascia guardò nella direzione in cui guardava suo padre e vide Julie
    con  una  collana  di  perle attorno al collo grasso e rosso (Natascia
    sapeva che era coperto di cipria),  seduta con aria beata accanto alla
    madre.
    Alle loro spalle,  sorridendo,  con l'orecchio chino verso la bocca di
    Julie, si vedeva la bella testa accuratamente pettinata di Borìs. Egli
    guardava di sottecchi i Rostòv e,  sorridendo,  diceva  qualcosa  alla
    fidanzata.
    "Sta  parlando  di  noi,  di  me",  pensò Natascia.  "E certamente sta
    cercando di placare la gelosia della sua  fidanzata  verso  di  me  Ha
    torto   di   preoccuparsi  tanto!   Se  sapesse  come  mi  sono  tutti
    indifferenti!".
    Dietro alla giovane coppia,  in fondo al palco,  con il tòcco verde in
    testa,  il  viso festoso,  felice,  ma rassegnato alla volontà di Dio,
    sedeva  Anna  Michàjlovna.   Nel  palco  regnava  quell'atmosfera  che
    circonda  due  fidanzati,  che  Natascia  conosceva così bene e che le
    piaceva tanto.  Ella si voltò e a un tratto  le  ritornò  al  pensiero
    tutto ciò che l'aveva umiliata durante la visita del mattino.
    "Che  diritto  ha  quel  vecchio  di  non volermi accogliere nella sua
    famiglia? Ah,  è meglio non pensarci,  non pensarci sino al ritorno di
    Andréj!",  disse  a  se  stessa,  e  cominciò a osservare in platea le
    persone note e  quelle  che  non  conosceva.  Davanti  alle  poltrone,
    proprio  a  metà  fila  con  le spalle appoggiate alla ribalta,  stava
    Dòlochov che indossava  un  costume  persiano,  con  la  folta  chioma
    ricciuta  piegata  all'indietro.  Ritto  nel  punto  più  in vista del
    teatro,  conscio di attirare su di sé l'attenzione  dell'intera  sala,
    aveva  un  contegno  perfettamente disinvolto,  come se si trovasse in
    camera sua.  Attorno a lui si affollava la gioventù più  brillante  di
    Mosca tra la quale egli, era evidente, primeggiava.
    Il  conte  Iljà  Andreic',  ridendo,  toccò  con  il  gomito Sònja che
    arrossiva e le indicò il suo adoratore di un tempo.
    - L'hai riconosciuto?   -  le domandò.    -    Di  dove  diavolo  sarà
    sbucato?   -  proseguì volgendosi a Scinscin.   -  Mi pareva che fosse
    scomparso...
    - Sì  -  rispose Scinscin.  -  E' stato nel Caucaso, di lì è scappato,
    e dicono che sia stato ministro di non so quale  principe  persiano  e
    che  abbia ucciso il fratello dello Scià.  Infatti tutte le signore di
    Mosca perdono la testa per lui!  "Dolochoff le Persien" [22.  Dòlochov
    il  persiano]  e basta.  Ora non si parla che di lui,  lo si vuole nei
    banchetti,  come uno storione  -  disse  Scinscin.    -    Dòlochov  e
    Anatolij Kuragin hanno fatto uscir di senno tutte le nostre signore!
    Nel  palco  attiguo entrò una dama alta e bella con una folta treccia,
    le spalle candide e piene molto scoperte e una doppia fila  di  grosse
    perle  attorno al collo.  Impiegò molto tempo per mettersi a posto nel
    palco,  facendo frusciare  l'ampia  veste  di  seta.  Natascia  guardò
    involontariamente  quel  collo,  quelle spalle,  quelle perle,  quella
    pettinatura, ammirando lo splendore delle spalle e delle perle. Mentre
    Natascia per la seconda volta la guardava,  la donna si volse  e,  non
    appena  i suoi occhi ebbero incontrato quelli del conte Iljà Andreic',
    chinò il capo in segno di saluto e sorrise. Era la contessa Bezùchova,
    la moglie di Pierre.  Iljà Andreic',  che  conosceva  tutti  nell'alta
    società, si sporse dal palco per discorrere con lei.
    - Siete qui da molto tempo, contessa?  -  le domandò.  -  Verrò, verrò
    a  baciarvi la mano.  Sono venuto a Mosca per affari e ho condotto con
    me le mie ragazze.  Si dice che la  Semënovna  canti  divinamente.  Il
    conte Pëtr Kirillyc' non ci ha mai dimenticati. E' qui?
    -  Sì,  aveva  intenzione  di  venire    -    rispose  Elen,  e guardò
    attentamente Natascia.
    Il conte Iljà Andreic' tornò a sedersi.
    - Bella, vero?  -  sussurrò a Natascia.
    - Una meraviglia!   -  esclamò la  fanciulla.    -    Impossibile  non
    innamorarsene!
    In  quel  momento  risonarono  gli  ultimi accordi del preludio,  e il
    direttore  d'orchestra  diede  un  colpo  secco  sul  leggio  con   la
    bacchetta.  In  platea  i  ritardatari  raggiunsero  i loro posti e il
    sipario si alzò.
    Allora nei palchi e in platea si fece  un  gran  silenzio;  tutti  gli
    uomini, vecchi o giovani, in divisa o in marsina, tutte le signore con
    il   corpo   seminudo  coperto  di  splendide  gemme,   fissarono  sul
    palcoscenico la loro attenzione. E anche Natascia si mise a guardare.


    CAPITOLO 9.

    La parte centrale della scena, fatta di un assito piano,  era limitata
    ai  lati da cartoni dipinti che rappresentavano alberi;  lo sfondo era
    costituito da una tela tesa  su  un  telaio.  Nel  mezzo  della  scena
    sedevano  alcune fanciulle in corpetto rosso e gonna bianca.  Un'altra
    ragazza, molto grassa,  che indossava un abito di seta bianca,  sedeva
    in disparte,  su una panchina bassa,  dietro la quale era incollato un
    cartone verde.  Cantavano tutte insieme.  Quando ebbero  terminata  la
    loro  canzone,  la  donna vestita di bianco si avviò verso la buca del
    suggeritore e,  mentre vi si stava avvicinando,  un uomo dalle  grosse
    gambe  coperte  da  un  paio  di  calzoni  di seta,  un pennacchio sul
    cappello e un pugnale alla cintura, incominciò a cantare allargando le
    braccia.
    Dapprima cantò l'uomo  in  calzoni  corti,  poi  la  donna,  e  infine
    tacquero  entrambi;  poi la musica riattaccò,  l'uomo prese tra le sue
    una mano della ragazza biancovestita, in evidente attesa della battuta
    per  riprendere  il  duetto.   Concluso  il  duetto,   gli  spettatori
    cominciarono ad applaudire e a gridare, mentre l'uomo e la donna sulla
    scena,  che raffiguravano due innamorati,  si inchinavano sorridendo e
    allargando le braccia.
    Tutto questo a Natascia,  dopo la vita trascorsa in campagna e il  non
    lieto   stato  d'animo  nel  quale  si  trovava,   appariva  strano  e
    stupefacente.  Ella non riusciva né a seguire la vicenda dell'opera né
    ad  ascoltare  la musica;  vedeva soltanto dei cartoni dipinti,  degli
    uomini e delle  donne  vestiti  in  modo  strano,  i  quali,  in  modo
    altrettanto  strano,  si  movevano,  parlavano e cantavano sulla scena
    sotto  una  luce  abbagliante;  sapeva  che  cosa  tutto  ciò  dovesse
    rappresentare,  ma era tutto talmente falso e privo di naturalezza che
    a tratti si vergognava per gli attori,  a tratti le veniva  voglia  di
    ridere.   Intanto  si  guardava  attorno,   osservando  i  visi  degli
    spettatori,  sui quali cercava l'espressione della perplessità e della
    canzonatura che erano dentro di lei,  ma tutti quei visi erano attenti
    a ciò che accadeva sulla scena ed  esprimevano  un'ammirazione  che  a
    Natascia pareva simulata.
    "Forse  dev'essere  proprio così!",  pensava la fanciulla.  E guardava
    alternativamente ora in platea le lunghe file delle teste  impomatate,
    ora  nei  palchi le signore scollate e specialmente la sua vicina Elen
    che, seminuda,  con un sorriso freddo e calmo,  fissava la scena senza
    mai  distoglierne  gli occhi,  avvertiva la luce che si diffondeva per
    tutta la sala e il tepore dell'aria riscaldata dalla folla.  A poco  a
    poco  si  sentiva  invadere  da  una specie di ebbrezza non provata da
    molto tempo.  Non si ricordava né chi fosse,  né dove si trovasse,  né
    che  cosa accadesse davanti a lei.  Guardava e pensava,  e le idee più
    strane e più inattese le balenavano alla mente,  sconnesse e  confuse.
    Ora  le  veniva  l'idea  di  fare  un salto sul proscenio e di cantare
    l'aria che eseguiva la prima donna,  ora di picchiare con il ventaglio
    un  vecchietto  seduto a breve distanza da lei,  ora di chinarsi verso
    Elen e di farle il solletico.
    In uno dei momenti in  cui  tutto  taceva  in  attesa  dell'inizio  di
    "un'aria", la porta della platea, dalla parte dove si trovava il palco
    dei  Rostòv,  cigolò  e si udirono i passi di qualcuno che giungeva in
    ritardo.
    - Ecco Kuragin!  -  sussurrò Scinscin.
    La contessa  Bezùchova  si  volse  sorridendo  a  colui  che  entrava.
    Natascia  seguì  la  direzione  di quello sguardo e vide un bellissimo
    aiutante di campo dall'aria spavalda, e in pari tempo cortese,  che si
    avvicinava  al  loro palco.  Era Anatolij Kuragin che ella aveva visto
    molto tempo addietro e notato al ballo di Pietroburgo.  Indossava  ora
    la  divisa  di aiutante di campo da mezza sera con una sola spallina e
    gli alamari.  Camminava con un'andatura lenta e spavalda  che  sarebbe
    stata ridicola se egli non fosse stato così bello e se il suo viso non
    avesse avuto quell'espressione di gioviale soddisfazione e di gaiezza.
    Quantunque la rappresentazione fosse cominciata,  egli camminava senza
    affrettarsi sul tappeto del corridoio  facendo  appena  tintinnare  la
    sciabola  e  gli  speroni  e  tenendo eretta la bella testa profumata.
    Guardando fissamente Natascia, si avvicinò alla sorella, pose una mano
    guantata sul parapetto del palco,  fece a Elen un cenno con il capo e,
    chinatosi, le domandò qualcosa indicando Natascia.
    -  "Mais  charmante!"  [23.  Ma  incantevole!]   -  disse,  certamente
    parlando della fanciulla, che non udì le parole ma che le indovinò dal
    movimento delle labbra di lui.
    Poi passò nella prima fila, si sedette accanto a Dòlochov,  e lo toccò
    con il gomito,  dando un leggero e amichevole colpetto a quel Dòlochov
    al quale gli altri usavano tanti riguardi.  Gli sorrise,  ammiccando e
    appoggiò un piede sulla ribalta.
    -  Come si assomigliano fratello e sorella!  E come sono belli tutti e
    due!  -  osservò il conte.
    Scinscin cominciò a raccontargli  sottovoce  la  storia  di  un  certo
    intrigo che Kuragin aveva a Mosca, e Natascia tese l'orecchio, proprio
    perché egli aveva detto di lei che era "charmante".
    Finì il primo atto.  Tutti gli spettatori della platea si alzarono, si
    confusero insieme e cominciarono a muoversi e a uscire.
    Borìs venne nel palco  dei  Rostòv.  Accolse  con  semplicità  i  loro
    rallegramenti  e,  con le sopracciglia alzate e le labbra atteggiate a
    un  sorriso  distratto,  pregò  Natascia  e  Sònja,   da  parte  della
    fidanzata,  di non mancare alle nozze, e uscì. Natascia con un sorriso
    gaio e civettuolo aveva conversato con lui e si era rallegrata per  il
    matrimonio   di  quello  stesso  Borìs  di  cui  un  tempo  era  stata
    innamorata.  Nello stato di ebbrezza in cui si trovava tutto le pareva
    semplice e naturale.
    Elen,  seminuda,  sedeva  presso  di lei e sorrideva indistintamente a
    tutti nello stesso modo con cui Natascia aveva sorriso a Borìs.
    Il palco di Elen si era riempito di gente e, dalla parte della platea,
    era affollato dagli uomini più illustri e più  noti  della  città  per
    nascita e talento,  i quali parevano voler ostentare di fronte a tutti
    di conoscere la bella donna.
    Per tutta la durata  dell'intervallo,  Kuragin  rimase  in  piedi  con
    Dòlochov  davanti  alla  ribalta  e non cessò di guardare il palco dei
    Rostòv.  Natascia sapeva che egli parlava di lei e ne provava piacere;
    anzi, si era voltata in modo che egli potesse guardarla di profilo, la
    posa che,  a suo parere,  le era più favorevole. Prima che cominciasse
    il secondo atto comparve in platea Pierre,  che i Rostòv dopo il  loro
    arrivo  non  avevano  ancora  incontrato.   Era  triste  in  viso,   e
    dall'ultima volta che Natascia lo aveva veduto, era ancora ingrassato.
    Senza badare a nessuno,  andò  a  prendere  posto  nella  prima  fila.
    Anatolij  gli  si  avvicinò  e  si  mise  a  parlargli,   guardando  e
    indicandogli con lo sguardo  il  palco  dei  Rostòv.  Pierre,  vedendo
    Natascia, si rianimò e si affrettò, attraverso le file delle poltrone,
    ad  avvicinarsi  al  suo  palco.  Giunto là sotto appoggiò i gomiti al
    parapetto, parlò a lungo con Natascia, sorridendo.
    Durante la conversazione con Pierre,  Natascia  udì  nel  palco  della
    contessa  Bezùchova  una  voce  di uomo,  e indovinò che era quella di
    Kuragin.  Si volse,  e il suo sguardo incontrò  quello  di  lui.  Egli
    sorridendo appena la guardava diritto negli occhi con uno sguardo così
    entusiasta  e  così  tenero  che  a lei parve strano di essergli tanto
    vicina,  di guardarlo in quel modo e di avere la certezza di piacergli
    e di non conoscerlo.
    Al secondo atto lo scenario rappresentava dei monumenti,  e nella tela
    di fondo era praticato un foro illuminato  che  raffigurava  la  luna.
    Furono tolti i paralumi dalla ribalta; tromba e contrabbasso presero a
    sonare  in  chiave  di  basso e da destra e da sinistra comparvero sul
    palcoscenico molti uomini avvolti in mantelli neri.  Costoro si misero
    a  gesticolare,  tenendo in mano qualcosa di simile a un pugnale;  poi
    altre persone accorsero,  trascinando fuori la giovane  donna  apparsa
    nel primo atto vestita di bianco e che ora indossava un abito celeste.
    Ma  non  la  trascinarono  fuori  subito:  cantarono a lungo con lei e
    infine la portarono via e dietro le quinte furono battuti  allora  tre
    colpi su qualcosa di metallico, mentre tutti si mettevano in ginocchio
    e  intonavano  una  preghiera.  Tutte  queste  scene furono interrotte
    parecchie volte dalle grida entusiaste degli spettatori.
    Durante questo atto,  ogni volta che  Natascia  si  voltava  verso  la
    platea,  vedeva Anatolij Kuragin che, con un braccio abbandonato sulla
    spalliera della poltrona, la guardava.  Le faceva piacere vederlo così
    pieno di ammirazione per lei e non la sfiorava neppure il pensiero che
    in ciò potesse esserci qualche cosa di male.
    Dopo la fine del secondo atto,  la contessa Bezùchova si alzò si volse
    verso il palco dei Rostòv (il suo petto era  completamente  scoperto),
    chiamò a sé con un cenno del dito inguantato il vecchio conte e, senza
    curarsi  di  coloro che entravano nel suo palco,  si mise a parlargli,
    sorridendo con grazia.
    - Fatemi dunque conoscere le vostre graziose figliuole  -    disse  al
    vecchio conte.  -  Tutta la città parla di loro, e io non le conosco.
    Natascia si alzò e fece una riverenza alla contessa. La lode di quella
    creatura  sfolgorante  di bellezza le giunse tanto gradita che arrossì
    di piacere.
    - Ora, voglio diventare anch'io moscovita!  -  disse Elen.   -  E voi,
    conte,  come  mai  non vi vergognate di tener nascoste in campagna due
    perle come queste?
    La  contessa  Bezùchova  era   giustamente   considerata   una   donna
    squisitamente   cortese.   Sapeva   dire   cose  che  non  pensava  e,
    soprattutto, sapeva adulare con semplicità e naturalezza.
    - No,  caro conte,  voi mi dovete permettere di occuparmi delle vostre
    figliuole,  sebbene,  come voi,  io non debba trattenermi qui a lungo.
    Cercherò di farle divertire.  Già a  Pietroburgo  ho  sentito  parlare
    molto  di  voi    -    disse  a Natascia con il suo bel sorriso sempre
    uguale.   -  Ho sentito parlare di voi  dal  mio  paggio,  Drubetzkòj,
    avete saputo che si sposa? e da un amico di mio marito, Bolkonskij, il
    principe  Andréj  Bolkonskij   -  e pronunziò quel nome con un accento
    particolare,  facendo così intendere di essere al corrente del  legame
    di  lui  con  Natascia.  Pregò  poi  il  conte,  per  fare  più  ampia
    conoscenza,  di permettere a una delle signorine di assistere al resto
    dello spettacolo nel suo palco, e Natascia passò da lei.
    La  scena  del  terzo  atto  rappresentava  la  sala  di  un  palazzo,
    illuminato da numerose candele,  le cui pareti erano ornate  da  molti
    ritratti  di cavalieri con la barbetta.  In mezzo alla sala stavano in
    piedi due attori,  probabilmente il re e la regina.  Il re agitava  la
    destra e,  visibilmente intimidito,  cantò male una strofa qualsiasi e
    andò a sedersi su un  trono  cremisi.  La  fanciulla,  che  prima  era
    apparsa  vestita  di  bianco,  poi  di  celeste,  e  che indossava ora
    soltanto la camicia e aveva i capelli sciolti,  stava presso il trono.
    Cantava con voce dolente,  rivolgendosi alla regina; ma il re agitò la
    mano con gesto severo e a quel gesto da destra e da sinistra  uscirono
    uomini  e  donne con gambe nude,  e si misero a ballare tutti insieme.
    Poi i violini attaccarono con molta finezza un motivo  allegro  e  una
    delle  ragazze  che aveva grosse le gambe nude e magre le braccia,  si
    staccò dalle altre, sparì dietro una quinta,  si aggiustò il corsetto,
    ritornò  in  mezzo  alla  scena  e  si  mise  a saltellare e a battere
    rapidamente un piede contro l'altro.
    In platea scoppiarono applausi e grida  di  "bravo!".  Poi  uno  degli
    uomini si ritirò in un angolo.  Nell'orchestra,  i timpani e le trombe
    sonarono più forte e quell'uomo con le gambe nude si mise a saltare da
    solo molto in alto battendo rapidamente le gambe l'una contro l'altra.
    (Quell'uomo era Duport che  percepiva,  per  quell'arte,  sessantamila
    rubli all'anno). In platea, nei palchi, nelle gallerie, gli spettatori
    si  diedero  ad applaudire e a gridare freneticamente,  mentre l'uomo,
    fermatosi, sorrideva e faceva inchini da tutte le parti. Poi ballarono
    altri uomini e altre donne,  tutti con le gambe nude;  poi di nuovo il
    re gridò qualcosa e tutti ripresero a cantare.  Ma a un tratto scoppiò
    un uragano: in orchestra si udirono  scale  cromatiche  e  accordi  di
    settima minore; tutti fuggirono, trascinarono dietro le quinte uno dei
    presenti  e  il sipario calò.  Tra gli spettatori si levarono di nuovo
    applausi fragorosi e formidabili grida di entusiasmo.
    - Duport! Duport! Duport!
    A Natascia tutto ciò non pareva più strano.  Sorrideva gioiosamente  e
    si guardava attorno, con piacere.
    -  "N'est-ce  pas  qu'il est admirable,  Duport?" [24.  Non è vero che
    Duport è ammirevole?]  -  disse Elen, volgendosi a lei.
    - "Oh, oui!"  -  rispose Natascia.


    CAPITOLO 10.

    Durante l'intervallo,  un soffio d'aria fredda penetrò  nel  palco  di
    Elen: la porta si aprì e Anatolij entrò,  curvandosi e cercando di non
    incomodare nessuno.
    - Permettetemi di presentarvi mio fratello  -   disse  Elen,  volgendo
    gli occhi inquieti da Natascia ad Anatolij.
    Natascia  girò sopra la spalla nuda la sua graziosa testolina verso il
    bel giovanotto e sorrise.  Anatolij,  non meno bello da vicino che  da
    lontano,  le  si  sedette accanto e le disse che desiderava avere quel
    piacere da molto tempo,  sin dalla sera del ballo  in  casa  Nariskin,
    durante  il  quale  egli  aveva  avuto  l'indimenticabile  fortuna  di
    incontrarla. Kuragin in compagnia delle donne era molto più semplice e
    più intelligente di quanto non lo fosse  in  compagnia  degli  uomini.
    Discorreva con disinvoltura e scioltezza,  e Natascia fu stranamente e
    piacevolmente colpita dal fatto che quell'uomo,  sul  quale  correvano
    tante  dicerie,  non  solo  non aveva nulla di terribile,  ma che anzi
    sorrideva nel modo più ingenuo,  più gaio e più mite  che  si  potesse
    immaginare.
    Egli  la interrogò sull'impressione che le aveva fatto lo spettacolo e
    le raccontò che, durante la rappresentazione antecedente, la Semënovna
    mentre cantava era caduta.
    - Sapete, contessina,  -  le disse a un tratto,  volgendosi a lei come
    a  una  vecchia  conoscenza    -   che stiamo organizzando un ballo in
    costume? Dovreste proprio parteciparvi, vi divertireste moltissimo. Ci
    riuniremo tutti a casa  Archarov.  Venite  anche  voi,  vi  prego.  Ci
    verrete, vero?  -  domandò.
    Mentre  diceva  queste cose,  non distoglieva gli occhi sorridenti dal
    collo e dalle braccia nude di  Natascia.  Ella  sentiva  con  assoluta
    certezza che egli l'ammirava; ciò le faceva piacere ma, chissà perché,
    la  presenza  di  quell'uomo  le  dava  un senso di disagio e di pena.
    Quando non lo guardava,  sapeva che  egli  fissava  le  sue  spalle  e
    involontariamente  era  attratta  a intercettarne lo sguardo affinché,
    piuttosto,  la guardasse negli  occhi;  ma,  fissandolo,  sentiva  con
    terrore  che  tra  loro due non esisteva quella barriera di pudore che
    sempre avvertiva tra sé e gli altri uomini.  Senza sapere  come,  dopo
    cinque minuti, si sentiva in intimità con lui. E quando si voltava era
    presa dalla paura che,  stando alle sue spalle,  egli le afferrasse il
    braccio  nudo  o  la  baciasse  sul  collo.   Discorrevano   di   cose
    semplicissime,  eppure ella sentiva di essere vicina a lui come non lo
    era mai stata a nessun altro.  Natascia guardava Elen e il padre  come
    se  volesse chieder loro che cosa significasse ciò che stava provando,
    ma Elen era intenta a conversare con un generale e non rispose al  suo
    sguardo, e gli occhi del padre le dissero soltanto ciò che le dicevano
    sempre: "Ti diverti, eh? Ne sono lieto!".
    In  un momento di silenzio imbarazzante,  durante il quale Anatolij la
    guardava tranquillamente e ostinatamente con i suoi  occhi  sporgenti,
    Natascia,  per  eliminare  quel  disagio,  gli domandò se gli piacesse
    Mosca.  Glielo domandò e arrossì.  Ogni volta  che  gli  rivolgeva  la
    parola  aveva  l'impressione  di  commettere qualcosa di sconveniente.
    Anatolij sorrise come per farle coraggio.
    - Da principio non mi piaceva molto: che cosa, infatti,  rende gradita
    una città? "Ce sont les jolies femmes", non è vero? Ora mi piace molto
    -  aggiunse.   -  Dunque,  contessina,  verrete al ballo?  Veniteci  -
    insisté e,  stendendo la mano al mazzo di fiori di lei e abbassando la
    voce,  continuò:  -  "Vous serez la plus jolie. Venez, chère comtesse,
    et comme gage donnez-moi cette fleur" [25. Sono le belle donne.  ( ..)
    Sarete la più bella!  Venite.  cara contessina e,  come pegno,  datemi
    questo fiore].
    Natascia non capiva bene ciò che egli dicesse, così come non lo capiva
    neppur lui,  ma sentiva in quelle incomprensibili parole un'intenzione
    sconveniente. Poiché non sapeva che cosa rispondere volse il capo come
    se  non  avesse udito,  ma non appena si fu voltata pensò che egli era
    lì, dietro di lei, così vicino.
    "Cosa fa ora? E' confuso?  Irritato?  Devo rimediare?",  si chiedeva e
    non  poté  fare  a  meno di voltarsi.  Lo guardò diritto negli occhi e
    quella vicinanza,  quella  sicurezza,  la  bonaria  dolcezza  di  quel
    sorriso  la  vinsero.  Continuando  a fissarlo negli occhi,  come lui,
    anch'essa sorrise. E di nuovo sentì con terrore che nessun ostacolo la
    separava dal giovane ufficiale.
    Il sipario si alzò ancora una volta.  Anatolij uscì dal palco calmo  e
    soddisfatto.  Natascia  ritornò  nel  palco  dov'era  suo  padre,  già
    completamente affiatata con l'ambiente in cui si trovava. Tutto quanto
    accadeva dinanzi ai suoi occhi le pareva ora  assolutamente  naturale;
    nessuno  dei  pensieri  di prima,  sul fidanzato,  sulla principessina
    Màrija,  sulla vita in campagna le  si  riaffacciò  alla  mente,  come
    fossero tutte cose già lontane nel tempo.
    Nel  quarto  atto,  un  diavolo  cantò  gesticolando sino a quando una
    tavola,  sulla quale stava ritto,  fu abbassata ed egli  precipitò  di
    sotto,  scomparendo dal palcoscenico.  Di quell'atto Natascia non vide
    altro: qualcosa  la  turbava  tormentosamente,  e  la  causa  del  suo
    turbamento era Kuragin,  che ella suo malgrado seguiva con lo sguardo.
    Mentre usciva dal teatro,  Anatolij le si  avvicinò,  chiamò  il  loro
    cocchiere  e,  aiutandola a salire in carrozza,  le strinse il braccio
    sopra il gomito.  Natascia,  emozionata e rossa,  lo guardò.  Egli  la
    fissava con gli occhi lucenti e con un tenero sorriso...
    Soltanto  quando  fu  di  ritorno a casa,  Natascia poté ripensare con
    calma a ciò che  le  era  accaduto  ed  un  tratto,  ricordandosi  del
    principe Andréj,  fu colta dal terrore: in presenza di tutti,  riuniti
    attorno  al  tavolo  per  bere  una  tazza  di  tè,  dopo  il  teatro,
    un'esclamazione le sfuggì di bocca e,  arrossendo,  ella uscì di corsa
    dalla stanza. "Dio mio!  Sono perduta!",  disse a se stessa.  "Come ho
    potuto permettere che le cose giungessero sino a questo punto?",
    di chiedeva.
    Rimase a lungo seduta, coprendosi il volto con le mani, sforzandosi di
    rendersi  chiaramente conto di ciò che era avvenuto;  e non riusciva a
    capire né quello che le era accaduto né quello che ora sentiva.  Tutto
    le  pareva  scuro,   indefinito,   terribile.  Là,  nell'immensa  sala
    illuminata,  sull'assito bagnato del palcoscenico  dove  saltellava  a
    gambe  nude Duport con il giubbetto scintillante di lustrini;  là dove
    le fanciulle e i vecchi e la seminuda Elen con il suo  calmo  e  fiero
    sorriso  gli  gridavano  entusiasticamente  "bravo!" là,  all'ombra di
    quella stessa Elen.  tutto era stato semplice e chiaro,  ma ora,  sola
    con se stessa,  le pareva incomprensibile.  "Che mi succede?  Che cosa
    significava la paura che provavo dinanzi a lui? E che cosa sono questi
    rimorsi di coscienza che ora mi tormentano?" si chiedeva.
    Soltanto alla vecchia contessa, Natascia avrebbe potuto,  nel silenzio
    della  notte,  rivelare i suoi pensieri.  Sapeva già che Sònja,  con i
    suoi principi severi ed il suo modo scrupoloso di considerare le cose,
    o non avrebbe capito nulla della sua confessione o  ne  sarebbe  stata
    sgomenta.  Natascia,  sola con se stessa,  cercava di spiegarsi il suo
    tormento.
    "Sono perduta o no per l'amore del principe Andréj?", si domandava,  e
    con  un  sorriso  noncurante  si  rispondeva:  "Come  sono  sciocca  a
    domandarmelo!  Che è accaduto,  dopo tutto?  Niente.  Io non ho  fatto
    nulla,  non ho provocato in alcun modo ciò che è stato!  Nessuno saprà
    mai niente,  e io quell'uomo non lo vedrò mai  più",  si  diceva.  "E'
    chiaro,  quindi,  che  non  è  accaduto  proprio  nulla,  che non devo
    pentirmi di nulla e che il principe Andréj può amarmi quale  sono.  Ma
    come sono? Ah, Dio, mio Dio! Perché egli non è qui?".
    Natascia si calmava per un momento,  ma subito dopo un vago istinto le
    diceva che,  sebbene tutto ciò che si diceva fosse vero  e  che  nulla
    fosse accaduto,  tutta la purezza del suo amore per il principe Andréj
    era perduta per sempre.  E di nuovo con il  pensiero  si  ripeteva  la
    conversazione  con  Kuragin,  rivedeva  il  viso,  i gesti,  il tenero
    sorriso di quell'uomo audace e bellissimo nel momento in cui le  aveva
    stretto il braccio.


    CAPITOLO 11.

    Anatolij  Kuragin viveva a Mosca perché suo padre lo aveva mandato via
    da Pietroburgo,  dove spendeva più di  ventimila  rubli  l'anno  e  si
    indebitava per altrettanti, che poi i creditori esigevano dal padre.
    Il  principe  aveva  dichiarato  al  figlio che per l'ultima volta gli
    avrebbe  pagato  metà  dei  suoi  debiti,  ma  solo  a  patto  che  si
    trasferisse  a  Mosca  come  aiutante del generalissimo  -  carica che
    egli stesso gli aveva ottenuto  -  e cercasse finalmente di concludere
    un buon matrimonio.  E gli aveva indicato,  come eventuali  fidanzate,
    Màrija Bolkònskaja e Julie Karàgina.
    Anatolij  aveva  acconsentito  ed  era  partito  per Mosca dove si era
    stabilito in  casa  di  Pierre.  Da  principio  Pierre  aveva  accolto
    malvolentieri  il  cognato,  ma poi si era abituato a lui,  a volte lo
    faceva partecipare alle sue baldorie e spesso,  a titolo di  prestito,
    gli dava del denaro.
    Anatolij,  come  giustamente  diceva Scinscin,  da quando era venuto a
    Mosca faceva girar la testa a tutte le signore soprattutto perché  non
    se ne curava e a loro preferiva le zingare e le attrici francesi,  con
    la più famosa delle quali,  "mademoiselle" George,  si  diceva  avesse
    intrecciato  una  relazione  intima.  Non mancava alle orge in casa di
    Danilov o degli altri gaudenti  di  Mosca,  beveva  sfrenatamente  per
    notti  intere  superando  ogni  altro  bevitore e frequentava tutte le
    feste da ballo e le serate del gran mondo.  Si raccontava  che  avesse
    alcuni  intrighi  amorosi  con certe signore moscovite,  e ai balli ne
    corteggiava parecchie.  Ma con le ragazze,  e in  particolare  con  le
    ricche signorine da marito,  quasi tutte brutte, non si spingeva molto
    avanti giacché Anatolij,  cosa che nessuno sapeva all'infuori dei suoi
    amici  più  intimi,  era  già  sposato.  Due  anni  prima,  durante un
    soggiorno del suo reggimento in Polonia,  un non ricco signore polacco
    lo aveva costretto a sposare la propria figlia.
    Anatolij abbandonò ben presto la moglie e,  alla condizione di mandare
    una certa somma di denaro al suocero,  si era riservato il diritto  di
    farsi passare per celibe.
    Anatolij era sempre soddisfatto della propria condizione, di se stesso
    e degli altri. Per istinto e con tutto il proprio essere, era convinto
    di  non  poter  vivere  diversamente  da come viveva e di non aver mai
    fatto del male a nessuno in vita sua.  Non era in grado di  riflettere
    sulle  conseguenze  che i suoi atti potevano avere per gli altri né su
    quelle che potevano derivare a lui. Era fermamente convinto che,  come
    l'anatra  è formata in modo da dover vivere nell'acqua,  così egli era
    stato creato da Dio per vivere  con  trentamila  rubli  l'anno  e  per
    occupare  sempre nella società una posizione preminente.  Ne era tanto
    convinto che guardandolo, anche gli altri ne erano persuasi, e nessuno
    gli negava né un'alta posizione sociale né il denaro che egli prendeva
    in prestito da chiunque gli capitasse a tiro,  senza  preoccuparsi  di
    restituirlo.
    Non  era giocatore o,  almeno,  non aveva mai desiderato di vincere al
    gioco.  Non era vanitoso,  giacché non si curava assolutamente di  ciò
    che  si  diceva  di  lui  e ancor meno lo si poteva accusare di essere
    ambizioso.  Parecchie volte aveva irritato suo padre compromettendo la
    propria  carriera  e  infischiandosi di ogni genere di onori.  Non era
    avaro e non diceva mai di no a chiunque si rivolgesse a lui.  Le  sole
    cose che amava erano l'allegria e le donne,  e poiché,  secondo il suo
    modo di vedere,  in tali gusti non vi era nulla di sconveniente e dato
    che  era  incapace  di  riflettere  sulle  conseguenze  che tali gusti
    potevano  avere  per  gli  altri,   si   considerava   irreprensibile,
    disprezzava  sinceramente  i  vili e i malvagi e marciava a testa alta
    con la coscienza pienamente tranquilla.
    Tutti i gaudenti, queste Maddalene di sesso maschile, hanno la segreta
    convinzione di essere innocenti,  tal quale come le Maddalene di sesso
    femminile,  convinzione  fondata  sulle  medesime speranze di perdono.
    "Molto le sarà  perdonato  perché  ha  molto  amato;  tutto  gli  sarà
    perdonato perché si è molto divertito".
    Dòlochov,  che  era ricomparso quell'anno a Mosca dopo il suo esilio e
    il suo avventuroso soggiorno  in  Persia  e  che  conduceva  una  vita
    lussuosa,  dedicandosi  senza  tregua al gioco e alla crapula,  si era
    riavvicinato al suo vecchio amico Kuragin e aveva approfittato di  lui
    per raggiungere i propri scopi.
    Anatolij voleva sinceramente bene a Dòlochov per la sua intelligenza e
    il  suo  coraggio;  Dòlochov,  il quale aveva bisogno del nome e delle
    relazioni di  Anatolij  Kuragin  per  attirare  nel  suo  ambiente  di
    giocatori  i giovani ricchi,  lo prendeva in giro senza che egli se ne
    accorgesse e si serviva di lui.  Oltre il calcolo,  secondo  il  quale
    Anatolij gli era necessario, il processo stesso di dirigere la volontà
    altrui  rappresentava  per  Dòlochov  un  piacere,  un'abitudine e una
    necessità.
    Natascia aveva profondamente colpito Kuragin. Durante la cena, dopo il
    teatro,  egli da vero  conoscitore,  in  presenza  di  Dòlochov  aveva
    analizzato i pregi delle braccia, delle spalle, dei piedi, dei capelli
    della  fanciulla  e  aveva  espresso  all'amico  la  sua  decisione di
    corteggiarla.   Quali  potessero  essere  le   conseguenze   di   quel
    corteggiamento, Anatolij non poteva né pensare né prevedere.
    - E' bella,  sì,  mio caro,   -  disse Dòlochov all'amico  -  ma non è
    per noi.
    - Pregherò mia sorella di invitarla a pranzo  -  disse Anatolij.-  Che
    te ne pare?
    - Aspetta che si sia maritata: è meglio...
    -  Tu  sai    -  obiettò Anatolij  -  che "j'adore les petites filles"
    [26. adoro le ragazzine]; vedrai che perderà subito la testa.
    - Sei già rimasto scottato  una  volta  per  "une  petite  fille"    -
    osservò Dòlochov, il quale era al corrente del matrimonio di Anatolij.
    -  Sta' attento!
    -  Ma restare scottati due volte non si può...   -  assicurò Anatolij,
    sorridendo bonariamente.


    CAPITOLO 12.

    Il giorno dopo essere stati a teatro,  i Rostòv non uscirono di casa e
    nessuno venne a trovarli.  Màrija Dmìtrevna,  di nascosto da Natascia,
    discorreva  a  bassa  voce  con  il  conte.  Natascia  indovinava  che
    parlavano  del vecchio principe e che stavano combinando qualche cosa,
    e ciò la inquietava e la offendeva.  Aspettava da un momento all'altro
    il principe Andréj e due volte nella giornata mandò il portiere in via
    Vozdvìzenka  per informarsi se il principe fosse arrivato.  Ma non era
    arrivato.  Sentiva ora più pena di quanta non ne  avesse  provata  nei
    giorni  che avevano seguito la partenza di lui.  All'impazienza e alla
    tristezza  si  aggiungevano  nell'animo  della  fanciulla  il  ricordo
    sgradevole  del colloquio con la principessina Màrija e con il vecchio
    principe,  un timore e  una  inquietudine  di  cui  non  conosceva  la
    ragione.  Aveva l'impressione che il principe non sarebbe più arrivato
    o che,  prima del ritorno di  lui,  dovesse  accaderle  qualcosa.  Non
    poteva,   come   prima,   sola  con  se  stessa,   pensare  ad  Andréj
    tranquillamente e a lungo: non appena cominciava  a  pensare,  a  quel
    ricordo si univano i ricordi del vecchio principe, della principessina
    Màrija,  dell'ultima  serata  a  teatro e di Kuragin.  E di nuovo ecco
    presentarsi il problema se non  fosse  colpevole,  se  non  fosse  già
    venuta  meno  alla  fedeltà  verso  il principe Andréj;  e di nuovo si
    sorprendeva a rammentare, sin nei minimi particolari, tutte le parole,
    tutti  i  gesti,  tutte  le  sfumature  di  espressione  sul  viso  di
    quell'uomo  che aveva suscitato in lei un sentimento incomprensibile e
    che la terrificava.  Agli occhi dei familiari  Natascia  appariva  più
    vivace del consueto,  ma essa era ben lontana dall'essere tranquilla e
    felice come prima.
    La domenica mattina Màrija Dmìtrevna invitò  i  suoi  ospiti  a  Messa
    nella sua parrocchia dell'Assunzione.
    -  Non  mi  piacciono queste chiese moderne  -  diceva,  evidentemente
    orgogliosa della sua libertà di pensiero.    -    Dio  è  uno  solo  e
    dovunque.   Abbiamo   un   ottimo   "pop"   che  celebra  le  funzioni
    dignitosamente,  e il diacono pure.  Forse che  dal  fatto  che  nella
    cantoria si eseguiscano cori la chiesa acquista santità? Non mi piace,
    non è che una posa...
    Màrija  Dmìtrevna amava le domeniche e sapeva festeggiarle.  Il sabato
    la casa veniva lavata e ripulita da cima a fondo;  la domenica né  lei
    né  la  servitù lavoravano;  tutti indossavano gli abiti della festa e
    tutti assistevano alle  sacre  funzioni.  Al  pranzo  dei  signori  si
    aggiungeva  qualche  portata e alla servitù veniva distribuita vodka e
    veniva servito un porcellino o un'oca arrosto.  Ma in  tutta  la  casa
    nessun  viso  esprimeva l'aria di festa quanto quello largo e serio di
    Màrija Dmìtrevna,  dal quale in quel giorno spirava un'immutabile aria
    di solennità.
    Quando,  dopo la Messa,  tutti ebbero bevuto il caffè nel salotto dove
    erano state  tolte  le  fodere  ai  mobili,  fu  annunziato  a  Màrija
    Dmìtrevna che la carrozza era pronta; ed ella con aria severa, avvolta
    nello  scialle  di  gala che usava soltanto per recarsi in visita,  si
    alzò e dichiarò di andare dal principe Nikolàj  Andréevic'  Bolkonskij
    per spiegarsi con lui relativamente a Natascia.
    Dopo che Màrija Dmìtrevna se ne fu andata,  venne dai Rostòv una sarta
    mandata da "madame" Chalmé,  e Natascia,  chiuso l'uscio della  stanza
    attigua  al  salotto,  molto soddisfatta di quel diversivo,  si occupò
    della prova dei nuovi abiti.  Mentre,  infilatosi un corpetto soltanto
    imbastito  e  ancora  senza  maniche,   si  guardava  nello  specchio,
    inclinando leggermente il capo, per vedere come le stesse dietro,  udì
    provenire dal salotto la voce di suo padre e un'altra,  di donna,  che
    la fece arrossire.  Era la voce di Elen.  Natascia non aveva fatto  in
    tempo a togliersi il corpetto che stava provando,  che già la porta si
    apriva e  la  contessa  Bezùchova  entrò  nella  stanza,  raggiante  e
    sorridente.  Indossava  un  abito di velluto lilla scuro con il bavero
    alto.
    - Ah,  "ma délicieuse"  -  esclamò rivolta a Natascia che si era fatta
    rossa.   -  "Charmante!" [27.  Ah,  mia deliziosa!  Incantevole!]. No,
    caro conte,  è inaudito  -  osservò al  conte  Iljà  Andreic'  che  la
    seguiva;  -  è inaudito vivere a Mosca senza mai uscire di casa. Ma io
    non ve lo permetterò. Questa sera in casa mia "mademoiselle" George ci
    offrirà una declamazione; vi saranno alcuni amici e se voi, conte, non
    mi   porterete   le  vostre  figliuole,   che  sono  assai  meglio  di
    "mademoiselle" George,  farò conto di non conoscervi più.  Mio  marito
    non c'è,  è andato a Tver, se no avrei mandato lui a prendervi. Venite
    senza fallo, vi aspetto alle nove.
    Salutò con un cenno del capo la sarta che conosceva  e  che  le  aveva
    fatto un inchino rispettoso e si mise a sedere su una poltrona accanto
    allo  specchio,  allargando  con  arte  le  pieghe  del suo vestito di
    velluto. Continuò a chiacchierare,  benevola e allegra,  ammirando con
    entusiasmo  la  bellezza di Natascia.  Esaminò intanto gli abiti della
    fanciulla e li lodò,  si fece vanto del proprio abito nuovo  "en  gaze
    métallique" [28.  di velo metallico], che aveva fatto venire da Parigi
    e consigliò a Natascia di farsene confezionare uno uguale.
    - Del resto, a voi, tutto sta bene, bellezza mia  -  le disse.
    Natascia continuava a sorridere di piacere.  Ella si sentiva felice  e
    le  pareva  di rifiorire alle lodi di quell'amabile contessa Bezùchova
    che prima le pareva una dama inaccessibile e importante e che  ora  le
    dimostrava  tanta  benevolenza.  Natascia  si  sentiva allegra e quasi
    innamorata di quella donna così bella e  così  affettuosa.  Elen,  dal
    canto   suo,   ammirava   sinceramente  Natascia  e  desiderava  farla
    divertire. Anatolij l'aveva pregata di procurargli il modo di trovarsi
    con la fanciulla e proprio per accontentare il fratello era venuta  in
    casa Rostòv. L'idea di avvicinare Anatolij a Natascia le piaceva.
    Sebbene  un tempo avesse nutrito una certa ostilità verso Natascia che
    a Pietroburgo le aveva portato via Borìs, ora non ci pensava più e con
    tutta l'anima  desiderava,  a  modo  suo,  il  bene  della  fanciulla.
    Accomiatandosi dai Rostòv chiamò in disparte la sua protetta.
    -  Ieri  mio fratello è stato a pranzo da me.  Abbiamo riso da morire!
    Non mangia più nulla e non fa che sospirare per voi, bellezza mia. "Il
    est fou,  mais fou amoureux de vous,  ma chère" [29.  E' pazzo,  pazzo
    d'amore per voi, mia cara].
    A queste parole Natascia arrossì violentemente.
    - Ma guarda come arrossisce, come arrossisce, questa piccola!  esclamò
    Elen.  -  Venite senza fallo. "Si vous aimez quelqu'un, ma délicieuse,
    ce  n'est pas une raison pour se cloîtrer.  Si même vous êtes promise,
    je suis sûre que votre promis aurait désiré que vous  alliez  dans  le
    monde  en  son  absence  plutôt que de dépérir d'ennui" [30.  Se amate
    qualcuno,  mia  deliziosa  fanciulla,  non  è  questo  un  motivo  per
    chiudersi  in  convento.  Anche se siete fidanzata,  sono certa che il
    vostro promesso sposo preferirebbe che anche in sua assenza andaste in
    società piuttosto di morire di noia].
    "Dunque sa che sono fidanzata",  pensò Natascia;  "dunque lei con  suo
    marito Pierre,  con Pierre che è tanto giusto, hanno parlato di questo
    e hanno riso.  Vuol dire quindi che non è niente".  E di nuovo,  sotto
    l'influenza  di  Elen,  ciò  che prima l'atterriva le parve semplice e
    naturale.  "Ed essa è così "grande dame",  così gentile,  e si capisce
    benissimo   che   mi  vuole  sinceramente  bene.   Perché  non  dovrei
    divertirmi?",   pensava  Natascia,   guardando  Elen  con  gli   occhi
    spalancati, colmi di meraviglia.
    Màrija  Dmìtrevna  rincasò  all'ora del pranzo,  seria e taciturna: si
    capiva che il vecchio principe l'aveva sconfitta.  Era troppo  turbata
    dopo ciò che le era accaduto per essere in grado di raccontarlo.  Alle
    domande del conte rispose che tutto andava bene e che il  giorno  dopo
    avrebbe  riferito  ogni  particolare.  Quando seppe della visita della
    contessa  Bezùchova  e  dell'invito  per  la  sera,  Màrija  Dmìtrevna
    dichiarò:
    -  Non  mi  piace  la  compagnia  della  signora  Bezùchova  e  non la
    consiglio...  Ma,  se l'hai promesso,  va'  pure:  ti  distrarrai    -
    aggiunse, rivolgendosi a Natascia.
    Il  conte  Iljà  Andreic'  condusse  le  sue  ragazze  dalla  contessa
    Bezùchova. Alla serata c'era molta gente, ma quasi tutta sconosciuta a
    Natascia.  Il  conte  Iljà  Andreic'  notò,  contrariato,  che  quella
    riunione  era  composta  principalmente  di uomini e di signore la cui
    libertà  di  comportamento  era  assai  nota.  "Mademoiselle"  George,
    attorniata  dai  giovanotti,  stava in un angolo del salotto.  C'erano
    alcuni francesi tra i quali Métivier che,  dal giorno  dell'arrivo  di
    Elen,  era  assiduo  frequentatore della casa.  Il conte Iljà Andreic'
    decise di non mettersi a  giocare,  per  non  allontanarsi  dalle  due
    fanciulle  e  di  andarsene non appena fosse finita la declamazione di
    "mademoiselle" George.
    Anatolij,  ritto presso l'uscio,  attendeva evidentemente l'arrivo dei
    Rostòv.  Dopo aver salutato il conte,  si avvicinò subito a Natascia e
    la seguì.  Non appena lo vide,  Natascia  provò,  come  a  teatro,  il
    sentimento  vanitoso di piacergli e un senso di sgomento per l'assenza
    di qualsiasi ostacolo morale che la separasse da lui.
    Elen  accolse  lietamente  la  fanciulla  e  ne  lodò  ad  alta   voce
    l'eleganza.  Quasi  subito dopo "mademoiselle" George si ritirò in una
    camera per vestirsi,  mentre in sala venivano disposte le sedie e  gli
    invitati  prendevano  posto.  Anatolij  avvicinò una sedia a quella di
    Natascia e fece per sedersi accanto  a  lei,  ma  il  conte,  che  non
    perdeva  d'occhio  la figliuola,  occupò il posto,  e Anatolij dovette
    accomodarsi dietro.
    "Mademoiselle" George, con le braccia grasse e nude piene di fossette,
    con uno scialle  rosso  gettato  su  una  spalla,  uscì  nello  spazio
    lasciato  libero  per  lei  dinanzi  alle  poltrone  e  si fermò in un
    atteggiamento   tutt'altro   che   naturale.   Si   udirono   mormorii
    entusiastici.
    "Mademoiselle" George,  dopo aver rivolto un'occhiata cupa e severa al
    pubblico,  cominciò a recitare certi versi francesi  che  avevano  per
    argomento  il  suo  delittuoso  amore per il proprio figlio.  In certi
    momenti alzava la voce,  in altri l'abbassava  sino  a  un  bisbiglio,
    sollevando  solennemente  la testa,  in altri ancora si interrompeva e
    rantolava, stralunando gli occhi.
    - "Adorable, divin, délicieux!" [31. Adorabile, divino, delizioso!]  -
    si udiva esclamare da tutte le  parti.  Natascia  guardava  la  grossa
    George ma non udiva,  non capiva e non vedeva nulla di quanto avveniva
    davanti a lei;  si sentiva di nuovo presa completamente da quel  mondo
    strano,  assurdo, tanto diverso da quello di prima, un mondo nel quale
    non era possibile sapere che cosa fosse bene e che  cosa  fosse  male,
    che cosa fosse ragionevole e che cosa fosse pazzesco.  Alle sue spalle
    era seduto Anatolij ed ella,  sentendolo tanto vicino,  aspettava  che
    accadesse qualche cosa, con un vago, indefinibile sgomento.
    Dopo   il   primo   monologo,   tutti   si   alzarono  e  attorniarono
    "mademoiselle" George esprimendole il loro entusiasmo.
    - Com'è bella!   -  esclamò Natascia  al  padre,  che  si  era  alzato
    insieme con gli altri e,  facendosi strada tra la folla, si avvicinava
    all'attrice.
    - Guardando voi non sono proprio di  questa  opinione-disse  Anatolij,
    seguendo  Natascia.  E  lo  disse in un momento in cui lei sola poteva
    sentire.  -  Siete incantevole... dal momento in cui vi ho veduta, non
    ho cessato...
    - Vieni,  vieni,  Natascia  -  la chiamò il conte che tornava verso la
    figlia.  -  E' proprio bella!
    Natascia,  senza dir nulla, si avvicinò al padre e lo guardò con occhi
    stupefatti e interrogativi.
    Dopo aver recitato qualche altro monologo, "mademoiselle" George se ne
    andò, e la contessa Bezùchova invitò gli ospiti a passare nel salone.
    Il conte voleva accomiatarsi,  ma Elen lo supplicò di non guastare  il
    ballo improvvisato.  E i Rostòv rimasero. Anatolij invitò Natascia per
    il valzer: durante la danza,  stringendole la vita e le mani le  disse
    che era "ravissante" [32.  incantevole] e le dichiarò di amarla.  Poi,
    durante una scozzese che ella danzò di nuovo con lui  quando  rimasero
    soli,  egli non le disse nulla,  ma si limitò a guardarla. Natascia si
    domandava se non fosse un sogno ciò che vedeva attorno a sé e  se  non
    avesse  udito in sogno le parole che egli le aveva rivolto poco prima.
    Al finire della figura,  egli le strinse ancora  una  volta  la  mano.
    Natascia  sollevò  su  di  lui  gli occhi pieni di sgomento,  ma nello
    sguardo dolce e nel sorriso di quell'uomo c'era una  tale  espressione
    di tenera sicurezza che,  guardandolo, ella non poté dirgli quello che
    voleva. E riabbassò gli occhi.
    - Non ditemi certe cose...  Sono fidanzata e amo un altro  -   mormorò
    in  fretta,  volgendogli  un  rapido  sguardo.  Anatolij  non  era  né
    imbarazzato né turbato da quanto lei gli aveva detto.
    - Non ditemi questo!  Che me ne importa?   -  rispose il giovane.-  Vi
    ripeto che sono pazzamente innamorato di voi.  E' colpa mia, forse, se
    siete così adorabile? Ora tocca a noi cominciare!
    Natascia,  eccitata e turbata,  si  guardava  attorno  con  gli  occhi
    spalancati  e  pieni  di  un  vago  spavento  e pareva più allegra del
    solito.  Non si rendeva quasi conto di  ciò  che  le  stava  accadendo
    quella sera.  Ballò la "scozzese",  poi il "grossvater".  Suo padre la
    invitò di nuovo ad andare,  ma  ella  lo  pregò  di  rimanere  ancora.
    Ovunque  fosse,  con  chiunque  parlasse,  ella sentiva sopra di sé lo
    sguardo di "lui".  In seguito ricordava che aveva chiesto al padre  il
    permesso  di  ritirarsi  nello spogliatoio per rassettarsi il vestito,
    che Elen l'aveva seguita e le aveva parlato,  ridendo,  dell'amore  di
    suo  fratello per lei;  che poi,  nel salottino dei divani,  si era di
    nuovo trovata con Anatolij,  che Elen era scomparsa,  e loro due erano
    rimasti  soli,  e  che  allora  Anatolij prendendole una mano le aveva
    detto con voce carezzevole: "Io non posso venire in casa vostra,  ma è
    possibile  che non debba vedervi più?  Vi amo pazzamente...  Non potrò
    dunque mai..." e, sbarrandole il passo, aveva avvicinato il suo viso a
    quello di lei.
    I grandi,  lucenti occhi di quell'uomo erano tanto vicini ai suoi  che
    ella null'altro vedeva al di fuori di quegli occhi.
    -  "Nathalie!"  -  sussurrò con voce supplichevole il giovane,  mentre
    qualcuno le stringeva la mano così forte da farle male. "Nathalie!"
    "Io non capisco nulla, non ho nulla da dire", rispondeva lo sguardo di
    lei.
    Una bocca ardente premette le sue labbra;  in  quell'istante  ella  si
    sentì  di  nuovo  libera e si udì nella stanza un rumore di passi e il
    fruscio dell'abito di Elen.  Natascia  guardò  Elen  e  poi,  rossa  e
    tremante,  rivolse  ad Anatolij due occhi interroganti e spauriti e si
    avviò verso l'uscio.
    - "Un mot, un seul, au nom de Dieu!" [33. Una parola, una parola sola,
    in nome di Dio!]  -  pregò Anatolij.
    Natascia si fermò.  Aveva bisogno che egli dicesse la  parola  che  le
    spiegasse ciò che era accaduto e alla quale avrebbe risposto.
    - "Nathalie, un mot, un seul!"  -  continuava a ripetere Anatolij, non
    sapendo  che altro dire,  e ripeté la frase sino a quando Elen non gli
    si avvicinò.
    Insieme con Natascia,  Elen rientrò in sala.  I Rostòv se ne andarono,
    senza trattenersi a cena.
    Tornata  a  casa,  Natascia  non  chiuse  occhio  per  tutta la notte,
    tormentata da un problema che non sapeva risolvere: chi  amava?  Amava
    Anatolij  o  il  principe  Andréj ?  Certo,  amava il principe Andréj,
    ricordava chiaramente con  quanta  forza  lo  amava.  Ma  amava  anche
    Anatolij,  non  c'era  dubbio.  "Altrimenti",  pensava,  "come sarebbe
    potuto accadere ciò che è accaduto?  Se dopo quello che  è  stato,  ho
    potuto,  salutandolo,  rispondere con un sorriso al sorriso di lui, se
    sono potuta giungere a questo,  vuol dire che l'ho amato sin dal primo
    momento,  vuol  dire  che  egli  è  buono,  nobile e bello e che non è
    possibile non amarlo.  Che devo fare,  ora,  se amo lui  e  amo  anche
    l'altro?",  chiedeva  a  se  stessa,  e non sapeva rispondere a queste
    terribili domande.


    CAPITOLO 14.

    Venne la mattina con le consuete occupazioni e  le  faccende  di  ogni
    giorno. Tutti si alzarono, si misero in movimento, parlarono; di nuovo
    tornarono  le  sarte,  di  nuovo  comparve Màrija Dmìtrevna e di nuovo
    chiamarono per il tè.  Natascia,  con gli occhi  spalancati,  come  se
    volesse afferrare ogni sguardo puntato su di lei,  si guardava attorno
    inquieta, cercando di apparire quale era sempre.
    Dopo la colazione,  Màrija Dmìtrevna (era questo per  lei  il  momento
    migliore della giornata) si sedette nella sua poltrona e chiamò presso
    di sé Natascia e il vecchio conte.
    - Dunque,  miei cari,  ora che ho riflettuto su tutta la faccenda,  vi
    dirò il mio pensiero  -  cominciò.   -  Ieri,  come sapete sono andata
    dal principe Nikolàj e ho parlato con lui... Gli è saltato in mente di
    alzare un po' la voce,  ma non è facile gridare più forte di me. E gli
    ho detto ben chiaro tutto il mio pensiero.
    - E lui?  -  domandò il conte.
    - Lui? E' matto da legare... non vuole ascoltare nulla...  A che serve
    parlarne  e  continuare  a  tormentare  questa  povera bambina?- disse
    Màrija Dmìtrevna.   -  Ora io vi consiglio di sbrigare al più presto i
    vostri affari, di tornare a casa, a Otràdnoe... e là aspettare...
    - Ah, no!   -  gridò Natascia.
    -  Sì,  invece:  bisogna  partire  -  insisté Màrija Dmìtrevna.   -  E
    aspettare là.  Se  il  fidanzato  arrivasse  a  Mosca  adesso  sarebbe
    inevitabile  un  litigio.  Invece potrà parlarne da solo a solo con il
    vecchio e poi venire da voi.
    Iljà Andreic' approvò la proposta,  della quale comprese subito  tutta
    la  saggezza.  Se  il vecchio fosse venuto a più miti consigli,  tanto
    meglio: sarebbero potuti venire da lui, dopo, a Mosca o a Lissia-Gori:
    in caso contrario,  il matrimonio poteva essere celebrato  soltanto  a
    Otràdnoe.
    -  Giustissimo!    -  approvò il vecchio.   -  Sono davvero pentito di
    essere andato da lui e di averci condotto mia figlia.
    - No, perché essere pentito? Poiché eravate qui, non era possibile non
    far loro un atto di cortesia.  Ma se insisterà nel  non  concedere  il
    consenso,  affari  suoi!    -    concluse  Màrija Dmìtrevna,  cercando
    qualcosa nella sua borsetta.   -   Il  corredo  è  quasi  pronto,  che
    aspettate  ancora?   Quello  che  manca,  ve  lo  manderò.  Benché  mi
    dispiaccia separarmi da voi,  è meglio che  andiate  e  che  Iddio  vi
    accompagni!   -  Poiché aveva trovato nella borsa ciò che cercava,  lo
    diede a Natascia: era una  lettera  della  principessina  Màrija.    -
    Scrive  a  te.  Come si tormenta,  quella poverina!  Teme che tu abbia
    pensato che non ti voglia bene.
    - E infatti non me ne vuole!  -  disse Natascia.
    - Non dire sciocchezze!  -  esclamò Màrija Dmìtrevna.
    - Non credo a  nessuno:  so  che  non  mi  vuol  bene!    -    insisté
    arditamente Natascia prendendo la lettera, mentre il suo viso assumeva
    un'espressione dura e decisamente cattiva che obbligò Màrija Dmìtrevna
    a fissarla e ad aggrottare le sopracciglia.
    - Tu,  mia cara,  non rispondere così  -  le disse.   -  Quello che ti
    dico è la verità. Scrivi la risposta.
    Natascia tacque e corse nella sua camera a leggere  la  lettera  della
    principessina Màrija.
    La  principessina  diceva di essere dispiaciuta per il malinteso sorto
    tra di loro.  Pregava Natascia di  credere  che  qualunque  fossero  i
    sentimenti  di  suo padre,  per parte sua non poteva non volerle bene,
    come a colei che era stata scelta da suo fratello, per la felicità del
    quale era pronta a qualunque sacrificio.
    "Del resto",  scriveva,  "non dovete pensare che  mio  padre  sia  mal
    disposto verso di voi.  E' un uomo vecchio e malato: bisogna scusarlo;
    ma è buono e generoso e amerà certamente colei che farà la felicità di
    suo figlio".  La principessina  Màrija  pregava  inoltre  Natascia  di
    fissare il giorno in cui avrebbe potuto di nuovo incontrarsi con lei.
    Dopo aver letto la lettera,  Natascia si mise a tavolino per preparare
    la risposta.  "Chère princesse",  scrisse meccanicamente con rapidità;
    poi  si fermò.  Che cosa poteva mai scrivere dopo ciò che era accaduto
    il giorno  innanzi?  "Sì,  sì,  tutto  questo  è  stato,  ma  ormai  è
    tutt'altra  cosa",  pensava,  seduta  davanti  allo scrittoio.  "Debbo
    rifiutarlo?  Ma debbo proprio farlo?  E' una cosa terribile!".  E  per
    scacciare  quei  tormentosi pensieri andò da Sònja e con lei si mise a
    esaminare il disegno di certi ricami.
    Dopo pranzo,  Natascia si ritirò nella sua camera e riprese la lettera
    della  principessina  Màrija.   "Possibile  che  sia  tutto  finito?",
    pensava. "Possibile che tutto sia accaduto in così breve tempo e abbia
    annientato definitivamente il  passato?".  Ricordava  l'amore  per  il
    principe  Andréj  in  tutta  l'intensità di prima e nello stesso tempo
    sentiva di amare Kuragin. Si raffigurò con vivezza di essere la moglie
    del  principe  Andréj,  si  rappresentò  il  quadro  già  tante  volte
    immaginato della sua felicità con lui e nello stesso tempo, ardendo di
    emozione, riviveva i particolari del suo incontro del giorno prima con
    Anatolij.
    "E  perché  le  due  cose non possono sussistere insieme?",  pensava a
    momenti,  del  tutto  smarrita.  "Soltanto  così  sarei  completamente
    felice.  Eppure ora devo scegliere e non posso essere felice senza uno
    dei  due.  Dire  al  principe  Andréj  tutto  ciò  che  è  accaduto  è
    impossibile   quanto   tenerglielo   nascosto",   pensava;   "ma   con
    "quest'altro" non c'è nulla di rovinato.  E' possibile  che  io  debba
    rinunziare per sempre alla felicità dell'amore del principe Andréj, di
    cui ho vissuto così a lungo?".
    - Signorina  -  le sussurrò una cameriera entrando nella stanza con un
    fare  misterioso.    -    Un uomo mi ha ordinato di consegnarvi questa
    lettera  -  e la ragazza gliela porse.   -    Soltanto,  per  amor  di
    Cristo...   -  aggiunse la cameriera quando Natascia,  senza pensarci,
    dissuggellava con gesto meccanico e leggeva  una  lettera  d'amore  di
    Anatolij:  l'unica cosa che capiva in quel momento era che si trattava
    di una lettera scritta da lui, dall'uomo che amava.
    Sì,  lo amava,  se no,  sarebbe forse accaduto ciò che  era  accaduto?
    Avrebbe potuto avere tra le mani una lettera d'amore di lui?
    Natascia  teneva  tra  le  dita  tremanti  quella  appassionata pagina
    d'amore, composta per Anatolij da Dòlochov e,  leggendola,  vi trovava
    l'eco di tutti i sentimenti che le pareva di provare dentro di sé.
    "Da ieri sera la mia sorte è decisa: essere amato da voi o morire. Non
    esiste per me altra soluzione".  Anatolij proseguiva dicendo di essere
    sicuro che i genitori di lei non l'avrebbero mai concessa in  sposa  a
    lui,  Anatolij,  per  certi  motivi  segreti  che  egli avrebbe potuto
    rivelare a lei sola; ma che, se essa lo amava,  bastava che dicesse la
    parola  "sì" e nessuna forza al mondo sarebbe stata capace di impedire
    la loro felicità. L'amore avrebbe vinto tutto. Egli l'avrebbe rapita e
    condotta in capo al mondo.
    "Sì, sì, lo amo!", pensava Natascia, rileggendo per la ventesima volta
    quelle  parole  e  cercando  in  ognuna   di   esse   un   significato
    particolarmente profondo.
    Quella sera,  Màrija Dmìtrevna,  che si recava dagli Archarov, propose
    alle ragazze di accompagnarla.  Ma Natascia,  adducendo il pretesto di
    un forte mal di capo, volle rimanere a casa.


    CAPITOLO 15.

    Quando Sònja,  rincasata a sera tardi, entrò nella camera di Natascia,
    con sua grande sorpresa  la  trovò  addormentata  sul  divano,  ancora
    vestita.  Sul  tavolino  accanto a lei era posata la lettera aperta di
    Anatolij. Sònja la prese e cominciò a leggerla.
    Leggeva e guardava Natascia addormentata,  cercando sul volto  di  lei
    una  spiegazione  che  non riusciva a trovare.  Quel volto era sereno,
    dolce,  soffuso di un'espressione di felicità.  Premendosi al petto le
    mani  per  non soffocare,  Sònja,  pallida e tremante di sgomento e di
    emozione, si abbandonò su una poltrona e scoppiò in pianto.
    "Come mai non mi sono accorta di nulla?  Com'è possibile che una  cosa
    del  genere  sia giunta a tal punto?  Com'è possibile che Natascia non
    ami più il principe Andréj e abbia permesso a Kuragin un passo simile?
    Costui, è chiaro, è un malvagio, un ingannatore.  Che sarà di Nikolàj,
    di  quel  caro,  nobile Nikolàj quando saprà ciò che accade?  Ecco che
    cosa significava il viso di Natascia sconvolto,  deciso  e  così  poco
    naturale che ho notato sin dall'altro giorno!", pensava Sònja. "Eppure
    è  impossibile  che  ella  ami  Kuragin!  Probabilmente avrà aperto la
    lettera senza sapere di chi fosse.  Forse ne è rimasta  offesa...  Non
    può essere capace di una cosa simile!".
    Sònja  si  asciugò  le lacrime e si avvicinò a Natascia,  osservandola
    attentamente.
    - Natascia!  -  esclamò in un sussurro.
    La fanciulla si svegliò e la vide.
    - Oh, sei tornata?
    E con lo  slancio  e  la  tenerezza  che  si  hanno  talora  al  primo
    risveglio, abbracciò l'amica. Ma notò subito il turbamento di Sònja, e
    il suo viso espresse imbarazzo e indifferenza.
    - Sònja, hai letto la lettera?  -  domandò.
    - Sì  -  rispose piano Sònja.
    Natascia ebbe un sorriso di trionfo.
    - No,  Sònja,  non posso più... non posso più nascondertelo  -  disse.
    -  Noi, Sònja, ci amiamo! Mi ha scritto... Sònja!
    Sònja,  come se non credesse alle proprie orecchie,  guardava  l'amica
    con gli occhi sbarrati.
    - E Bolkonskij?  -  domandò.
    -  Ah,  Sònja,  se tu potessi sapere come sono felice!  Tu non sai che
    cosa sia l'amore...
    - Ma, Natascia... possibile che "l'altro" sia finito?
    Natascia guardava Sònja con gli occhi sbarrati, come se non capisse la
    sua domanda.
    - Dunque non vuoi più il principe Andréj?  -  domandò Sònja.
    - Ah, tu non capisci!  Non dire sciocchezze,  ascoltami!    -  esclamò
    Natascia in un improvviso scatto di stizza.
    -  No,  non  ci posso credere  -  ripeté Sònja.   -  Non posso credere
    come tu,  dopo aver amato un uomo per  un  anno  intero,  tutto  a  un
    tratto... Ma, infine, l'hai veduto soltanto tre volte, Natascia, e non
    è possibile... tu scherzi... In tre giorni dimenticare tutto così...
    - Tre giorni?   -  esclamò Natascia.  -  Mi pare di non aver mai amato
    nessuno prima di lui. Questo, tu non lo puoi capire.  Sònja,  aspetta,
    siedi  qui...    -   E Natascia baciava e abbracciava l'amica.   -  Mi
    avevano detto che  succedono  cose  del  genere,  senza  dubbio  l'hai
    sentito  dire anche tu,  ma soltanto ora ho conosciuto l'amore.  Non è
    quello che conoscevo prima.  Non appena l'ho veduto,  ho  sentito  che
    egli  era  il mio padrone e io la sua schiava e che mi era impossibile
    non amarlo. Sì, la sua schiava! Ciò che mi ordinerà di fare,  io farò.
    Ma tu,  questo non lo capisci.  Cosa devo fare, Sònja, cosa devo fare?
    -  domandò Natascia,  il cui viso esprimeva  a  un  tempo  felicità  e
    sgomento.
    -  Ma  rifletti  bene  a quello che fai  -  rispose Sònja.   -  Io non
    posso lasciarti  così.  Queste  lettere  segrete...  Come  hai  potuto
    permettergli di giungere a tanto?  -  esclamò Sònja con un orrore e un
    disgusto che a stento riusciva a nascondere.
    -  Ti  ho  detto,   -  replicò Natascia  -  che io non ho più volontà;
    come puoi non capire che lo amo?
    - Ah,  non permetterò che tu giunga a tanto: dirò tutto!    -    gridò
    Sònja con la voce spezzata dalle lacrime.
    - Per amor di Dio,  Sònja! Se parli, mi sei nemica  -  disse Natascia.
    -  Tu vuoi la mia infelicità, tu vuoi che ci separino...
    Nel rendersi conto della paura di Natascia,  Sònja  versò  lacrime  di
    vergogna e di pietà per l'amica.
    - Ma che cosa c'è stato tra di voi?    -  domandò.   -  Che cosa ti ha
    detto? Perché non viene in casa?
    Natascia non rispose a queste domande.
    - Per amor di Dio, Sònja, non dir niente a nessuno, non tormentarmi  -
    supplicò Natascia.   -  Ricordati  che  non  bisogna  immischiarsi  in
    affari del genere. Ti ho confidato...
    -  Ma  perché  questi misteri?  Perché non viene in casa?   -  insisté
    Sònja.   -  Perché non domanda la tua mano?  Lo sai  che  il  principe
    Andréj  ti  ha  lasciato pienamente libera,  se le cose stanno proprio
    così. Ma io non ci credo.  Natascia,  hai pensato quali possono essere
    questi "segreti motivi"?
    Natascia  la guardava con stupore.  Evidentemente quella domanda le si
    affacciava per la prima volta e non sapeva che cosa rispondere.
    - Di quali motivi si tratti, non so. Ma certamente ci sono!
    Sònja sospirò e scosse il capo, incredula.
    - Se ci fossero dei motivi...  -  riprese, ma Natascia,  indovinando i
    suoi dubbi, la interruppe spaventata.
    -  Sònja,  non  si  può dubitare di lui!  Non si può,  non si può!   -
    gridò.
    - Ti ama?
    - Se mi ama?  -  ripeté Natascia con un sorriso di compatimento per la
    sua amica.  -  Hai letto la lettera, no?
    - E se non fosse un gentiluomo?
    - "Lui!" Come puoi dire questo?  Se tu lo conoscessi...   -    rispose
    Natascia.
    -  Se  è un gentiluomo deve dichiarare le sue intenzioni o smettere di
    vederti, e se tu non vuoi farlo,  lo farò io per te: gli scriverò,  lo
    dirò al babbo...  -  dichiarò decisamente Sònja.
    - Ma io non posso vivere senza di lui!  -  gridò Natascia.
    - Natascia,  davvero non ti capisco.  Che cosa stai dicendo?  Pensa al
    babbo, pensa a Nikolàj.
    - Io non ho bisogno di nessuno, non amo nessuno fuorché lui.  Come osi
    dire che non è un gentiluomo? Non sai forse che io lo amo?  -  gridava
    Natascia.    -   Sònja,  vattene,  io non voglio litigare con te.  Per
    l'amor di Dio,  vattene!  Non vedi come mi tormento?   -  gridò ancora
    Natascia con una voce aspra che rivelava la sua irritata disperazione.
    Sònja scoppiò in singhiozzi e fuggì dalla camera.
    Natascia si avvicinò al tavolo e,  senza riflettere un minuto, scrisse
    alla principessina Màrija la risposta che non aveva saputo redigere in
    tutta  la  mattina.   In  quella  lettera  diceva  semplicemente  alla
    principessina  che  ogni  malinteso  tra  di  loro  era  finito;  che,
    approfittando della generosità del principe Andréj il quale, partendo,
    l'aveva lasciata completamente libera,  la pregava di dimenticare ogni
    cosa e di perdonarla se era in qualche modo colpevole verso di lei, ma
    che  non  poteva diventare la moglie di suo fratello.  In quel momento
    tutto ciò le pareva straordinariamente facile, semplice e chiaro.

    Il venerdì, i Rostòv dovevano ritornare alla loro casa di campagna; il
    mercoledì il conte partì con un compratore  per  il  suo  possedimento
    vicino a Mosca.
    Il giorno della partenza del conte, Sònja e Natascia furono invitate a
    un  gran pranzo in casa Kuragin,  e Màrija Dmìtrevna le accompagnò.  A
    quel pranzo Natascia incontrò di nuovo Anatolij,  e Sònja notò che  la
    fanciulla  gli  parlava  cercando di non essere udita da nessuno e che
    durante il pranzo apparve più turbata ed emozionata  che  mai.  Quando
    furono  rincasate,  Natascia fu la prima a parlare e cominciò a dare a
    Sònja le spiegazioni che l'amica aspettava da lei.
    - Vedi,  Sònja,  tu hai detto parecchie sciocchezze  nei  riguardi  di
    Anatolij  -  cominciò con quella voce timida e dolce che usano i bimbi
    quando vogliono essere lodati.  -  Oggi abbiamo messo tutto in chiaro.
    - Ebbene,  che cosa ha detto?  Natascia, come sono contenta che tu non
    sia in collera con me!  Dimmi tutto,  tutta la verità.  Che cosa ti ha
    detto?
    Natascia si fece pensierosa.
    - Ah, Sònja, se tu lo conoscessi come lo conosco io! Ha detto... Mi ha
    domandato quale promessa ho fatto a Bolkonskij e si è molto rallegrato
    quando ha saputo che dipende soltanto da me riprendere la mia libertà.
    Sònja sospirò con tristezza.
    -  Ma  tu  non  hai  ritirato  la parola data a Bolkonskij,  vero?   -
    domandò.
    - Forse... forse l'ho già fatto!  Probabilmente con Bolkonskij è tutto
    finito. Perché pensi così male di me?
    - Io non penso niente, soltanto non capisco...
    - Aspetta,  Sònja, e capirai tutto. Vedrai che uomo è. Non devi pensar
    male né di me né di lui.
    - Non penso male di nessuno: amo tutti e compatisco tutti. Ma che devo
    fare?
    Sònja non cedeva al tono  affettuoso  con  cui  le  parlava  Natascia.
    Quanto  più  tenero e insinuante si faceva il viso di Natascia,  tanto
    più serio e severo diventava quello di Sònja.
    - Natascia,  -  le disse  -  tu mi hai pregata di non parlartene, e io
    ho parlato.  Sei stata tu,  ora,  a cominciare.  Natascia,  io non  ho
    fiducia in lui. Perché tutti quei misteri?
    - Da capo, Sònja, da capo?  -  la interruppe Natascia.
    - Natascia, ho paura per te...
    - Paura di che cosa?
    -  Ho  paura  che  tu  ti  rovini    -  dichiarò Sònja in tono deciso,
    spaventata ella stessa delle sue parole.
    Il viso di Natascia assunse di nuovo un'espressione di collera.
    - Mi rovinerò, sì, mi rovinerò quanto più presto mi è possibile.  Sono
    cose  che  non vi riguardano.  Peggio per me,  non per voi.  Lasciami,
    lasciami... ti odio!
    - Natascia!  -  esclamò Sònja, sgomenta.
    - Ti odio, ti odio! Ormai sarai la mia nemica per sempre!   -  E fuggì
    dalla camera.

    Natascia  non  parlava più con Sònja e la evitava.  Con il viso sempre
    atteggiato a un'espressione di stupore e di colpevolezza,  ella vagava
    per le camere; si accingeva ora a fare una cosa ora l'altra, ma subito
    abbandonava  qualsiasi occupazione.  Per quanto le fosse assai penoso,
    Sònja, senza perdere d'occhio la sua amica, vigilava su di lei.
    La vigilia del giorno in cui il conte sarebbe  dovuto  tornare,  Sònja
    notò  che Natascia aveva trascorso l'intera mattinata seduta presso la
    finestra,  come in attesa di qualcuno;  infine la vide fare un cenno a
    un ufficiale che passava e che Sònja prese per Anatolij.
    Allora  la  fanciulla  si  diede a osservare con maggior attenzione di
    prima l'amica e notò che Natascia,  durante tutto il pranzo e  poi  la
    sera,  si  trovava  in  uno  stato  d'animo  strano  e innaturale (non
    rispondeva a tono alle domande che le venivano  rivolte,  incominciava
    una frase e non la finiva, rideva di tutto).
    Dopo  il tè,  Sònja vide una cameriera che,  tutta agitata,  aspettava
    Natascia presso l'uscio.  La lasciò passare e,  origliando alla porta,
    venne a sapere che veniva consegnata un'altra lettera.
    E  a  un  tratto intuì che Natascia aveva un suo terribile piano,  per
    quella stessa sera. Bussò all'uscio, Natascia non la fece entrare.
    "Fuggirà con lui!",  pensava Sònja.  "E' capace di tutto!  Oggi il suo
    viso  aveva  un'espressione  particolarmente  triste e risoluta.  E ha
    pianto, nel salutare lo zio" ricordò Sònja. "Sì, è certo,  fuggirà con
    lui...  Ma  che  cosa devo fare?",  si chiedeva,  ricordando tutti gli
    indizi che stavano a dimostrare che Natascia aveva  in  mente  qualche
    terribile  progetto.  "E il conte non c'è!  Che devo fare?  Scrivere a
    Kuragin,  esigendo da  lui  una  spiegazione?  Ma  chi  lo  obbliga  a
    rispondermi?  Scrivere  a Pierre,  come ha pregato di fare il principe
    Andréj in caso di una disgrazia?  Ma forse  Natascia  ha  già  davvero
    ripreso  la  parola  data a Bolkonskij...  Ieri infatti ha mandato una
    lettera alla principessina Màrija... E lo zio non c'è!".
    Parlarne a Màrija Dmìtrevna,  che aveva  tanta  fiducia  in  Natascia,
    pareva a Sònja una cosa orribile.
    "Ma  così  o  in  qualsiasi altro modo...",  pensava Sònja,  ferma nel
    corridoio buio.  "Adesso o mai più è venuto il momento  di  dimostrare
    che ricordo i benefizi della loro famiglia e che amo Nicolas.  No, non
    dormirò, se sarà necessario, anche per tre notti di seguito, ma non me
    ne andrò da questo corridoio e,  sia pure usando la forza,  impedirò a
    Natascia di disonorare la sua famiglia!".


    CAPITOLO 16.

    Da  qualche  tempo  Anatolij si era stabilito in casa di Dòlochov.  Il
    piano del rapimento della Rostova,  organizzato  da  Dòlochov,  doveva
    essere  realizzato  proprio la sera in cui Sònja,  dopo aver origliato
    alla porta di Natascia,  aveva deciso di sorvegliarla.  Natascia aveva
    promesso  a Kuragin di venirgli incontro verso le dieci di sera per la
    scala di servizio.  Kuragin doveva farla salire su una  "tròjka",  già
    preparata a questo scopo,  e condurla a sessanta miglia da Mosca,  nel
    villaggio  di  Kàmenka,  dove  un  prete  spretato  li  aspettava  per
    celebrare il matrimonio.  A Kàmenka una carrozza avrebbe portato i due
    giovani  sulla  strada  di  Varsavia,  donde,  in  vetture  da  posta,
    avrebbero varcato il confine.
    Anatolij  era munito del passaporto,  del foglio di via,  di diecimila
    rubli che si era fatto dare dalla sorella e di altri  diecimila  avuti
    in prestito per mezzo di Dòlochov.
    I  due  testimoni,  Chvòstikov,  un  ex-scrivano di cancelleria di cui
    Dòlochov si serviva per il gioco,  e Makarin,  un ussaro  in  congedo,
    uomo  ingenuo  e  debole  che  nutriva  una devozione senza limiti per
    Kuragin, stavano seduti nella prima stanza e prendevano il tè.
    Nel vasto studio dalle pareti coperte  sino  al  soffitto  di  tappeti
    persiani,  di pelli d'orso e di fucili,  Dòlochov,  in "besmet" (34) e
    stivali,  stava seduto davanti allo scrittoio aperto,  sul quale erano
    sparsi  conti  e  pacchetti  di  denaro.   Anatolij,   con  la  giubba
    sbottonata,  andava e veniva attraverso lo studio dalla stanza in  cui
    si  trovavano i testimoni alla camera in fondo,  dove il suo cameriere
    francese, con l'aiuto di altri,  era occupato a riporre le ultime cose
    in un baule. Dòlochov contava il denaro e pigliava alcuni appunti.
    - Be',  -  disse  -  a Chvòstikov bisogna darne duemila.
    - E tu dàglieli  -  rispose Anatolij.
    -  Quanto a Makarka (così chiamavano Makarin)  -  quello si butterebbe
    nel fuoco per te,  anche senza guadagnarci nulla.  Sicché con questo i
    conti sono finiti  -  disse Dòlochov, mostrandogli gli appunti.  -  Va
    bene così?
    -  Certamente    -    approvò Anatolij che,  si capiva,  non ascoltava
    Dòlochov e stava guardando davanti a sé senza cessare di sorridere.
    Dòlochov chiuse la scrivania e si rivolse ad Anatolij con  un  sorriso
    beffardo.
    - Sai che ti dico? Lascia perdere tutto! Sei ancora in tempo.
    -  Imbecille!    -    gli  rispose  Anatolij.    -    Smettila di dire
    sciocchezze. Se tu sapessi... Eh, lo sa il diavolo che cosa è questo!
    - Davvero,  lascia perdere    -    ripeté  Dòlochov.    -    Ti  parlo
    seriamente.  Credi  che  sia  una  cosa  da  niente  quella  che  stai
    combinando?
    - Smettila una buona volta di irritarmi e va' al diavolo!   -    gridò
    Anatolij  con  una  smorfia.   -  Davvero non ho voglia di ascoltare i
    tuoi stupidi scherzi!  -  E uscì dalla stanza.
    Dòlochov lo guardò con un sorriso di compatimento sprezzante.
    - Aspetta!  -  gli gridò poi alle spalle.   -  Io non scherzo affatto,
    parlo seriamente, vieni qui!
    Anatolij  tornò  indietro  e,   cercando  di  concentrare  la  propria
    attenzione,  fissò l'amico,  pronto a sottomettersi,  suo malgrado,  a
    lui.
    -  Ascoltami,  te lo dico per l'ultima volta.  Perché dovrei scherzare
    con te? Mi sono forse rifiutato di aiutarti? Chi ha organizzato tutto?
    Chi ti ha trovato il prete,  chi ha procurato il  passaporto?  Chi  ha
    trovato il denaro? Io, tutto io.
    - Lo so,  e ti ringrazio. Credi forse che non ti sia riconoscente ?  -
    Anatolij sospirò e abbracciò Dòlochov.
    - Ti ho aiutato,  ma  devo  dirti  tutta  la  verità:  la  faccenda  è
    pericolosa  e,  se  ci  si  pensa bene,  anche stupida.  Tu rapirai la
    ragazza, d'accordo.  Ma pensi che tutto finisca lì?  Si verrà a sapere
    che sei sposato e dovrai comparire davanti a un tribunale...
    - Ma va'!  Sciocchezze... sciocchezze!  -  esclamò Anatolij facendo di
    nuovo una smorfia.   -  Ti ho già spiegato  tutto,  no?-  E  con  quel
    particolare  entusiasmo che è proprio degli uomini ottusi nel ripetere
    le conclusioni alle quali li ha portati la loro intelligenza, Anatolij
    ripeté ciò che almeno cento volte aveva già detto a Dòlochov.   -   Te
    l'ho  già  spiegato  e  te  lo  ripeto:  se questo matrimonio non sarà
    valido,  -  disse piegando un dito  -  non sarò io a risponderne;  se,
    invece, sarà valido, fa lo stesso. All'estero nessuno saprà la verità.
    Non è così? E ora basta: non dirmi altro, non dirmi altro!
    - Lascia perdere, ti ripeto. Non fai che cacciarti in un ginepraio...
    -  Va'  al  diavolo    -  esclamò Anatolij e,  cacciandosi le mani nei
    capelli, uscì di corsa dalla stanza, per rientrarvi però, subito dopo.
    Si accoccolò su una poltrona,  proprio davanti a Dòlochov.- Lo  sa  il
    diavolo quello che mi accade, eh? Senti come mi batte il cuore!  -  E,
    presa  la  mano di Dòlochov,  se l'appoggiò sul cuore.   -  Ah,  "quel
    pied, mon cher, quel regard! Une déesse!" [35.  Ah,  che piedino,  mio
    caro, che sguardo! Una dea!].
    Dòlochov  lo  guardava  con  il suo sorriso freddo e con i begli occhi
    sfrontati e scintillanti; si capiva che voleva ancora burlarsi di lui.
    - E quando i denari saranno finiti, che farai?
    - Che farò?   -    ripeté  Anatolij,  con  un'espressione  di  sincera
    perplessità di fronte al pensiero del futuro.  -  Che farò? Questo non
    lo so... Ma a che serve dire sciocchezze?  -  E, guardando l'orologio,
    aggiunse:  -  E' ora.
    Si alzò e, passato nell'altra stanza, gridò ai domestici:
    - Non siete ancora pronti? Che fate lì?
    Dòlochov  intanto  ripose  il  denaro  e  ordinò  al  domestico di far
    preparare da mangiare e da bere per il viaggio: poi passò nella stanza
    dove si trovavano Chvòstikov e Makarin.
    Anatolij, sdraiato sul divano dello studio,  con il capo appoggiato su
    una  mano  sorrideva  pensoso  e  mormorava  tra sé e sé qualche dolce
    parola.
    - Vieni a mangiare qualche cosa...  Su,  vieni a bere!   -  gli  gridò
    Dòlochov dall'altra stanza.
    - Non ne ho voglia!  -  rispose Anatolij, continuando a sorridere.
    - Vieni! E' arrivato Balaga.
    Anatolij  si  alzò  ed  entrò  nella  sala  da  pranzo.  Balaga era un
    cocchiere da "tròjka",  molto noto,  che già  da  sei  anni  conosceva
    Dòlochov  e  Anatolij.  Spesse volte,  quando Anatolij era di stanza a
    Tver,  Balaga era andato a prenderlo alla  sera,  l'aveva  condotto  a
    Mosca sul far del giorno e riportato a Tver la notte seguente.  Più di
    una volta aveva portato in salvo Dòlochov da chi lo inseguiva,  più di
    una  volta  aveva  fatto  scorrazzare  i  due  amici per la città,  in
    compagnia di zingari e di damigelle,  come Balaga le definiva.  Più di
    una volta, al loro servizio, aveva travolto persone e vetturini per le
    vie  di  Mosca  e sempre i "suoi signori",  come egli li chiamava,  lo
    avevano tirato fuori  dai  pasticci.  Per  loro  aveva  fatto  crepare
    parecchi  cavalli  e  più  di  una  volta  era  stato percosso e fatto
    ubriacare di "champagne" o di Madera, vino di cui andava pazzo. Sapeva
    sul conto dei due amici cose  tali  che  avrebbero  fatto  spedire  in
    Siberia chiunque altro.  Spesso essi invitavano Balaga alle loro orge,
    lo facevano bere e ballare con gli zingari e parecchio denaro loro era
    passato per le sue mani.  Per servirli,  Balaga rischiava  la  propria
    vita venti volte all'anno e,  lavorando per loro,  erano più i cavalli
    che aveva sfiancato che i soldi  presi.  Ma  era  affezionato  ai  due
    amici,  gli  piacevano  le  pazze  corse a diciotto miglia l'ora;  gli
    piaceva travolgere vetture di piazza e pedoni volando  come  un  pazzo
    per  le  vie  di  Mosca.  E gli piaceva udire alle sue spalle il grido
    selvaggio  di  voci  ubriache:  "Forza!  Forza!",   quando  ormai  era
    impossibile  accelerare  la  corsa;  gli piaceva rifilare una frustata
    sulle spalle di un contadino che,  già più  morto  che  vivo,  si  era
    scansato per lasciarlo passare. "Veri signori!", pensava.
    Anatolij  e  Dòlochov  volevano  anch'essi  bene  a  Balaga per la sua
    bravura nell'esercitare il mestiere di cocchiere  e  perché  amava  le
    stesse  cose  che piacevano a loro.  Con gli altri Balaga contrattava,
    pretendeva venticinque rubli per due ore di corsa, con gli altri assai
    di rado guidava lui stesso ma mandava i  suoi  garzoni.  Con  i  "suoi
    signori" come egli li chiamava,  andava invece di persona e non voleva
    mai alcuna ricompensa per il  suo  lavoro.  Dalla  servitù,  tuttavia,
    veniva  sempre  a  sapere quando i due erano provvisti di denaro e una
    volta ogni due o tre mesi  si  presentava  di  mattina,  perfettamente
    sobrio e,  inchinandosi profondamente,  pregava che lo togliessero dai
    guai. E i signori lo invitavano sempre a sedersi.
    - Voi mi dovete  aiutare,  Fëdor  Ivànovic',  o  voi,  eccellenza    -
    diceva.   -  Sono rimasto senza cavalli;  prestatemi quello che potete
    perché possa andare alla fiera...
    E Anatolij e Dòlochov,  quando  avevano  soldi,  gli  davano  mille  o
    duemila rubli.
    Balaga  era  un  contadino  di ventisette anni dal viso colorito e dal
    grosso collo sempre rosso; robusto,  tarchiato,  aveva il naso camuso,
    gli occhi piccoli e lustri e una barbetta a punta. Portava un pastrano
    blu  di  panno  molto  fine,  foderato di seta,  che infilava sopra il
    pellicciotto.
    Si fece il segno della croce nell'angolo delle icone e si  avvicinò  a
    Dòlochov, tendendogli una mano piccola e nera.
    -  Fëdor Ivànovic'!  -  disse, inchinandosi.
    - Salute, fratello, ecco qui anche lui.
    - Ossequi,  eccellenza  -  proferì,  avvicinandosi e tendendo anche ad
    Anatolij la mano.
    - Voglio sapere una cosa,  Balaga   -    disse  Anatolij  dandogli  un
    colpetto  sulla  spalla:    -  mi vuoi bene sì o no?  Ho bisogno di un
    servizio. Con che cavalli sei venuto?
    - Con quelli che il messaggero  mi  ha  ordinato:  con  i  vostri    -
    rispose Balaga.
    - Be', ascoltami, Balaga: a costo di farli crepare tutti e tre, in tre
    ore dobbiamo arrivare; d'accordo?
    - E quando li avrò fatti crepare,  come potremo arrivarci?  -  domandò
    Balaga, ammiccando.
    - Non scherzare,  sai,  se non vuoi che ti rompa il muso!   -    gridò
    Anatolij, stralunando gli occhi.
    - Ma chi vuole scherzare?   -  riprese il cocchiere dopo una risatina.
    -  C'è forse qualcosa che non farei per i miei signori?  Correremo con
    tutta la forza che ci potranno dare i cavalli.
    - Ah!  -  disse Anatolij.  -  Siediti!
    - E siediti, dunque!  -  ripeté Dòlochov.
    - Posso restare in piedi, Fëdor Ivànovic'.
    -  Su,  su,  non  fare  tante  storie  e  bevi!    -  ordinò Anatolij,
    mettendogli  davanti  un  bel  bicchiere  di  Madera.  Gli  occhi  del
    cocchiere,  alla vista del vino,  luccicarono. Dopo aver rifiutato per
    convenienza,  bevette e si asciugò la bocca con un fazzoletto di  seta
    rossa che aveva nel fondo del berretto.
    - Allora, eccellenza, quando si deve partire?
    - Ma... ecco...  -  (Anatolij guardò l'orologio).  -  Direi di partire
    subito. Bada, eh, Balaga! Farai in tempo?
    -  Dipende da come avverrà la partenza: se sarà fortunata,  perché non
    dovrei fare in tempo?   -  rispose Balaga.   -    Una  volta,  non  vi
    ricordate,  eccellenza?  siamo venuti a prendervi sino a Tver in sette
    ore.
    - Sai,  una volta sono venuto da Tver per Natale  -    disse  Anatolij
    sorridendo  al  ricordo,  rivolgendosi a Makarin che guardava commosso
    Kuragin a occhi spalancati.  -  Ci credi,  Makarka,  che ci mancava il
    respiro tanta era la velocità con cui correvamo?
    -  E che cavalli erano quelli!   -  proseguì Balaga.   -  Avevo allora
    attaccati due puledri come bilancini al sauro  -    disse,  rivolto  a
    Dòlochov.    -   Lo crederesti,  Fëdor Ivànovic'?  Quelle bestie hanno
    volato per sessanta miglia;  non riuscivo più a tenere le  redini,  le
    mani  mi  si  erano  intorpidite  dal  gelo.  A un certo momento le ho
    buttate. "Tienile tu, eccellenza",  dissi,  e caddi nella slitta.  Non
    soltanto non era necessario spronarli,  quegli animali, ma non era più
    possibile frenarli... In tre ore ci portarono,  quei satanassi!  Crepò
    soltanto quello di sinistra.


    CAPITOLO 17.

    Anatolij uscì dalla stanza e dopo qualche minuto tornò con indosso una
    pelliccia  nera  stretta  ai  fianchi  da  una  cintura d'argento e un
    berretto di zibellino messo sulle ventitré che si  addiceva  assai  al
    suo  bel  viso.   Si  guardò  nello  specchio  e  poi,   nello  stesso
    atteggiamento che aveva assunto davanti allo specchio,  si presentò  a
    Dòlochov e prese un bicchiere di vino.
    - Ebbene,  Fédja,  ti saluto! Grazie di tutto, e addio!  -  gli disse.
    -  Addio anche a voi,  compagni e amici  -  rifletté  un  momento    -
    della mia giovinezza...  Addio!   -  ripeté,  rivolgendosi a Makarin e
    agli altri.
    Benché tutti partissero con lui, Anatolij voleva evidentemente rendere
    quell'addio commovente e solenne.  Parlava adagio  con  voce  alta  e,
    protendendo il petto, dondolava una gamba.
    -  Ognuno  di  voi  prenda  un bicchiere e anche tu,  Balaga.  Ebbene,
    compagni,  amici della mia giovinezza,  ci  siamo  divertiti,  abbiamo
    vissuto,  ci  siamo  dati  alla  pazza  gioia,  non è vero?  Quando ci
    rivedremo?  Io vado all'estero.  Addio,  ragazzi!  Alla vostra salute.
    Urrà!  -  esclamò, vuotando il bicchiere che poi scagliò a terra.
    -  Salute!    -    rispose  Balaga e anch'egli vuotò il bicchiere e si
    asciugò la bocca con il  fazzoletto.  Makarin,  con  le  lacrime  agli
    occhi, abbracciò Anatolij.
    - Ah, principe! Come mi rattrista dovermi separare da te!  -  esclamò.
    - Partiamo, partiamo!  -  gridò Anatolij.
    Balaga fece per uscire dalla stanza.
    - No,  aspetta!   -  lo trattenne Anatolij.   -  Chiudete la porta: ci
    dobbiamo mettere tutti a sedere...  così (36)...   -  Gli usci  furono
    chiusi, e tutti si sedettero.
    - E ora, ragazzi, marsch!  -  esclamò Anatolij, alzandosi.
    Il domestico Joseph gli porse la borsa e la sciabola, e tutti uscirono
    nell'anticamera.
    - E la pelliccia dov'è?   -  domandò Dòlochov.  -  Eh, Ignatka! Va' da
    Matrëna Matvéevna e fatti dare la pelliccia, il mantello di zibellino.
    Ho sentito dire come si rapiscono le donne  -  continuò strizzando  un
    occhio.    -    La ragazza uscirà più morta che viva,  vestita come in
    casa;   se  ti  tratterrai  appena  un  minuto,   saranno  lacrime   e
    invocazioni: papà di qui, mamma di là... Sentirà subito un gran freddo
    e vorrà tornare indietro!  Tu, invece, avvolgila immediatamente in una
    calda pelliccia e portala di corsa nella slitta.
    Il domestico recò un mantello da donna foderato di pelli di volpe.
    - Imbecille!  Ti  ho  detto  di  portare  quello  di  zibellino.  Ehi,
    Matrëska,  quello  di zibellino!   -  gridò così forte che la sua voce
    risonò in tutte le stanze.
    Una bella zingara, pallida e magra,  con gli occhi neri e splendenti e
    i  capelli  ricciuti  dai  riflessi  turchini,  avvolta in uno scialle
    rosso, accorse portando sulle braccia la pelliccia di zibellino.
    - Be', non mi dispiace, prendila!  -  disse,  evidentemente intimidita
    davanti al padrone e guardando con rimpianto la pelliccia.
    Dòlochov,  senza risponderle,  prese la pelliccia,  gliela gettò sulle
    spalle e gliela avvolse attorno alla persona.
    - Ecco, si fa così, e poi così  -  spiegò Dòlochov, sollevando attorno
    alla testa della donna il bavero e  lasciando  scoperta  soltanto  una
    parte del viso.   -  Poi così, vedi?  -  e spinse la testa di Anatolij
    verso l'apertura del bavero dalla quale appariva il sorriso radioso di
    Matrëscia.
    - Suvvia, addio,  Matrëscia!   -  disse Anatolij,  baciandola.   -  E'
    finita la baldoria,  qui!  Salutami Stëpka... Addio! Addio, Matrëscia,
    augurami buona fortuna!
    - Dio vi conceda, principe, ogni felicità  -  rispose Matrëscia con il
    suo accento di zingara.
    Due "tròjke" erano ferme davanti alla  scalinata,  trattenute  da  due
    garzoni.  Balaga  si sedette nella prima e alzando i gomiti sistemò le
    redini,  senza affrettarsi.  Anatolij e Dòlochov presero  posto  nella
    stessa  sua  slitta,  Makarin,  Chvòstikov  e  il  cameriere  salirono
    sull'altra.
    - Siamo pronti?   -  domandò  Balaga.    -    Via!    -    gridò  poi,
    avvolgendosi  le  redini  attorno alla manica.  E la "tròjka" partì al
    galoppo verso il viale Nikitzikij.
    - Forza! Ohè, ohè!  -  risonavano nel silenzio le voci di Balaga e del
    garzone che gli sedeva accanto a cassetta.  Sulla piazza dell'Arbàt la
    "tròjka"  urtò  una carrozza;  si udì uno schianto,  un grido...  e la
    "tròjka" continuò la sua corsa veloce.
    Dopo essere andato su e giù per via Podnovìnskaja,  Balaga cominciò  a
    moderare l'andatura dei cavalli e poi,  tornato indietro,  li fermò al
    crocicchio della Stàraja Konjùscennaja.
    Il garzone balzò giù per tenere i  cavalli.  Anatolij  e  Dòlochov  si
    avviarono  lungo  il  marciapiede.  Mentre si avvicinavano al portone,
    Dòlochov fece un fischio.  Gli rispose un altro fischio e subito  dopo
    arrivò di corsa una cameriera.
    - Entrate nel cortile... vi potrebbero vedere. Verrà subito  -  disse.
    Dòlochov  rimase  presso  il portone.  Anatolij seguì la cameriera nel
    cortile, svoltò l'angolo e corse su per la scala.
    Gavrila, il gigantesco lacché di Màrija Dmìtrevna, si fece incontro ad
    Anatolij.
    - Favorite dalla signora  -  gli disse con  profonda  voce  di  basso,
    sbarrandogli il passo verso la porta.
    - Da quale signora? E tu chi sei?  -  domandò Anatolij ansimando.
    - Favorite: ho l'onore di farvi passare.
    - Kuragin! Torna indietro!  -  gridava Dòlochov.  -  Tradimento! Torna
    indietro !
    Presso il portone dove si era fermato,  Dòlochov stava lottando con il
    portiere che cercava di chiudere il portone alle spalle  di  Anatolij.
    Radunando  tutte  le  sue  forze,  Dòlochov  riuscì  a  respingerlo e,
    afferrato per un braccio Anatolij che usciva  di  corsa,  lo  trascinò
    fuori dal portone e insieme con lui si precipitò verso la "tròjka".


    CAPITOLO 18.

    Màrija  Dmìtrevna,  sorpresa  Sònja in lacrime nel corridoio,  l'aveva
    costretta a rivelare tutto.  Dopo aver letto il biglietto di Natascia,
    era entrata nella camera della fanciulla.
    - Svergognata!  Sfacciata!   -  le aveva detto.  -  Non voglio sentire
    nulla!  -  Respinta Natascia che la guardava con occhi stupefatti,  ma
    completamente asciutti,  l'aveva chiusa a chiave nella stanza e,  dopo
    aver ordinato al portiere di lasciar entrare nel  cortile  le  persone
    che sarebbero venute quella sera ma di non lasciarle più uscire,  e al
    domestico di far salire quelle persone da lei,  si sedette in salotto,
    in attesa dei rapitori.
    Quando Gavrila annunziò a Màrija Dmìtrevna che le persone attese erano
    fuggite,  essa, con le sopracciglia corrugate, si alzò e, intrecciando
    le mani dietro la schiena,  per un pezzo  camminò  su  e  giù  per  la
    stanza,  pensando  al da farsi.  A mezzanotte,  tastando la chiave che
    aveva in tasca,  entrò nella camera di  Natascia.  Sònja,  seduta  nel
    corridoio, singhiozzava.
    -  Màrija  Dmìtrevna,  lasciatemi  andare  da  lui,  per  amor di Dio!
    supplicò Natascia.  Màrija Dmìtrevna non le rispose,  aprì l'uscio  ed
    entrò.   "Che  turpitudine,   che  vigliaccheria!  Nella  mia  casa...
    ragazzaccia svergognata!  Mi fa tanta pena suo padre!" pensava  Màrija
    Dmìtrevna, sforzandosi di contenere il suo sdegno. "Per quanto la cosa
    sia difficile, ordinerò a tutti di tacere e di nascondere ogni cosa al
    conte".  Ed entrò a passo deciso. Natascia era distesa sul divano, con
    la testa tra le mani,  e immobile.  Era rimasta nella stessa posizione
    in cui Màrija Dmìtrevna l'aveva lasciata.
    - Brava,  brava davvero!   -  disse Màrija Dmìtrevna.   -  In casa mia
    dare appuntamenti agli amanti !  Inutile  fingere.  E  ascolta  quando
    parlo con te  -  disse,  toccandole un braccio.   -  Ti sei coperta di
    vergogna come l'ultima delle sgualdrine.  So ben io quale  lezione  ti
    darei, ma mi fa troppa pena tuo padre... Gli nasconderò ogni cosa...
    Natascia non mutò posizione, ma tutto il suo corpo cominciava a essere
    scosso  da  singhiozzi sordi e convulsi,  che le mozzavano il respiro.
    Màrija Dmìtrevna guardò Sònja  e  si  sedette  sul  divano  accanto  a
    Natascia.
    -  E'  stata  una  fortuna  per lui essere riuscito a scappare,  ma lo
    ritroverò  -  rispose con la sua voce rude.   -  Senti o no quello che
    dico?    -  Passò la larga mano sotto il viso di Natascia,  voltandolo
    verso di sé.  Màrija Dmìtrevna e Sònja rimasero stupite alla vista  di
    quel volto: gli occhi asciutti scintillavano, le labbra erano serrate,
    le guance incavate.
    - Lasciate...mi ...  stare ...  cosa mi ... io morirò!  -  balbettò la
    fanciulla,  liberandosi con uno sforzo  iroso  dalle  mani  di  Màrija
    Dmìtrevna e riprendendo la posizione di prima.
    - Natàlja  -  esclamò Màrija Dmìtrevna.   -   Io desidero il tuo bene.
    Tu resta pure così, non ti tocco... ma mi devi ascoltare...  Non starò
    a  dirti sino a che punto tu sia colpevole,  giacché lo devi sapere da
    te.  Ti ricorderò soltanto che tuo padre arriverà domani...  Che  cosa
    devo dirgli, eh?
    Di nuovo il corpo di Natascia fu scosso da violenti singhiozzi.
    -  Tuo padre,  tuo fratello e anche il tuo fidanzato verranno a sapere
    tutto!
    - Non ho più fidanzato:  ho  ripreso  la  mia  parola!    -    rispose
    Natascia.
    - Non importa  -  continuò Màrija Dmìtrevna.   -  Lo verranno a sapere
    ugualmente. E credi che resteranno indifferenti?  Ma se tuo padre,  io
    lo conosco, sfiderà a duello quel giovane, ti pare una bella cosa, eh?
    - Lasciatemi stare!  Perché avete impedito tutto?  Perché? Perché? Chi
    ve l'ha chiesto?   -  gridava  Natascia,  sollevandosi  sul  divano  e
    guardando Màrija Dmìtrevna con occhi sfavillanti di collera.
    - Ma che cosa volevi fare?  -  riprese Màrija Dmìtrevna accalorandosi.
    -  Ti tenevamo forse prigioniera?  Chi gli impediva di venire in casa?
    Perché voleva rapirti come una zingara? E quand'anche fosse riuscito a
    rapirti, credi che non l'avrebbero trovato?  Tuo padre,  tuo fratello,
    il tuo fidanzato? Quell'uomo è un furfante, un vile: ecco che cos'è!
    - Vale più di tutti voi  -  esclamò Natascia, sollevandosi.  -  Se voi
    non vi foste messa in mezzo...  Ah,  mio Dio!  Perché?  Perché? Sònja,
    perché?  Andate via!   -  E singhiozzava con la  disperazione  di  chi
    piange  per  un dolore di cui si sente colpevole.  Màrija Dmìtrevna si
    rimise a parlare, ma Natascia esclamò:
    - Andate via, andate via!  Voi tutti mi odiate...  mi disprezzate!-  E
    si buttò di nuovo sul divano.
    Màrija  Dmìtrevna  cercò  ancora  per  un  poco  di  calmare Natascia,
    facendole capire che bisognava nascondere  ogni  cosa  al  conte,  che
    nessuno  avrebbe  dovuto  sapere  nulla  purché lei stessa,  Natascia,
    volesse dimenticare tutto e non  lasciasse  mai  trapelare  dinanzi  a
    chicchessia nulla di quanto era accaduto. Natascia non rispondeva, non
    singhiozzava  più,  ma  era scossa come da brividi di febbre e tremava
    tutta. Màrija Dmìtrevna le mise un guanciale sotto la testa,  la coprì
    con  due  coperte  e  le  portò un decotto di tiglio;  ma la fanciulla
    continuava a tacere.
    - Be',  lasciamola riposare  -  disse Màrija Dmìtrevna,  uscendo dalla
    stanza  e  credendo che Natascia fosse assopita.  Ma essa non dormiva;
    con gli occhi spalancati e immobili nel  viso  pallidissimo,  guardava
    diritto davanti a sé. Per tutta la notte non chiuse occhio, non pianse
    e non rivolse la parola a Sònja che parecchie volte si era alzata e le
    si era avvicinata.
    Il  giorno  successivo,  all'ora di colazione,  il conte Iljà Andreic'
    tornò, come aveva promesso,  dal suo possedimento vicino a Mosca.  Era
    molto allegro;  le trattative con il compratore erano state concluse e
    nulla più lo tratteneva  in  città,  lontano  dalla  contessa  di  cui
    sentiva nostalgia.  Màrija Dmìtrevna gli andò incontro e gli disse che
    il giorno prima Natascia si era sentita poco bene, che si era chiamato
    il medico, ma che ora stava assai meglio.  Quella mattina Natascia non
    uscì  dalla  camera.  Con  le  labbra  strette,  con gli occhi aridi e
    immobili,  stava seduta presso la finestra,  fissava ansiosa la  gente
    che  passava  per  la  strada  e  si  voltava in fretta a guardare chi
    entrava nella stanza.  Evidentemente ella aspettava ancora notizie  da
    lui, aspettava che egli venisse di persona o le scrivesse.
    Quando entrò il conte,  si voltò inquieta al rumore dei passi maschili
    di lui, e il suo viso riprese l'espressione fredda e cattiva di prima.
    Non si alzò nemmeno per andare incontro al padre.
    - Che hai, angelo mio? Sei malata?  -  domandò il conte.
    Natascia non rispose subito.
    - Sì,  sono malata  -  rispose infine.  Alle domande ansiose del conte
    che  le chiedeva come mai fosse così abbattuta e se non fosse accaduto
    qualcosa al fidanzato,  ella rispose che non era successo nulla  e  lo
    pregò  di  non  preoccuparsi.  Màrija  Dmìtrevna  confermò al conte le
    parole di Natascia.  Il conte,  sia dal turbamento  e  dalla  supposta
    malattia della figlia,  sia dalle facce sconvolte di Sònja e di Màrija
    Dmìtrevna intuì che durante la sua assenza era accaduto  senza  dubbio
    qualche  cosa;  ma  gli  era  tanto  penoso  pensare che una qualsiasi
    eventualità spiacevole avesse turbato la sua figliuola prediletta, gli
    stava tanto  a  cuore  la  propria  serena  tranquillità  che  preferì
    astenersi dall'insistere nelle domande e, cercando di convincersi che,
    in realtà,  non era accaduto nulla di particolare,  si doleva soltanto
    che l'indisposizione di Natascia gli facesse rimandare la partenza per
    la campagna.


    CAPITOLO 19.

    Dal giorno dell'arrivo di sua moglie a Mosca,  Pierre si  preparava  a
    partire per un luogo qualsiasi, pur di non doversi trovare con lei.
    Poco dopo l'arrivo dei Rostòv, l'impressione che Natascia produceva su
    di  lui lo costrinse ad affrettare la realizzazione dei suoi progetti.
    Si recò a Tven dalla vedova di Jussif Alekséevic',  la quale da  molto
    tempo gli aveva promesso di consegnargli le carte del defunto.
    Quando ritornò a Mosca vi trovò una lettera di Màrija Dmìtrevna che lo
    invitava a casa sua per una faccenda molto importante,  che riguardava
    Andréj Bolkonskij e la sua fidanzata.  Pierre  evitava  Natascia.  Gli
    pareva  di  nutrire  per  lei un sentimento più forte di quello che un
    uomo ammogliato deve avere per la fidanzata di un amico.  E uno strano
    destino si ostinava a fargliela incontrare.
    "Che  cosa  sarà  accaduto?  E come posso io entrare nella faccenda?",
    pensava Pierre, vestendosi per recarsi da Màrija Dmìtrevna. "Se almeno
    tornasse presto il principe Andréj e la sposasse!",  si diceva durante
    il tragitto verso casa Achrosimov.
    Sul viale di Tver si sentì chiamare.
    - Pierre! Sei arrivato da molto tempo?  -  gli gridò una voce nota.
    Pierre alzò la testa. In una slitta tirata da due trottatori grigi che
    con  gli  zoccoli  sollevavano la neve che sprizzava sino a coprire la
    parte anteriore della slitta, balenò la figura di Anatolij,  che aveva
    accanto  il  suo inseparabile compagno Makarin.  Anatolij stava seduto
    col busto eretto, nel classico atteggiamento degli eleganti ufficiali,
    con la testa leggermente inclinata  e  la  parte  inferiore  del  viso
    coperta  dal colletto di martora del cappotto.  Era fresco e colorito;
    il cappello con il pennacchio bianco messo sulle ventitré,  scopriva i
    capelli ricciuti, impomatati e cosparsi di piccoli fiocchi di neve.
    "Ecco un uomo veramente saggio",  pensò Pierre.  "Non vede nulla al di
    là del piacere presente e nulla riesce a turbarlo. Per questo è sempre
    allegro, soddisfatto e tranquillo.  Che cosa non darei per essere come
    lui!", concluse con invidia.
    Nell'anticamera  di casa Achrosimov,  un servitore,  aiutando Pierre a
    togliersi la pelliccia,  gli disse che Màrija Dmìtrevna lo pregava  di
    favorire nella sua camera da letto.
    Aprendo  l'uscio  della sala,  Pierre scorse Natascia seduta presso la
    finestra e notò sul viso magro e pallidissimo  di  lei  un'espressione
    cattiva.  Ella  si  volse  a  guardarlo,  aggrottò  le sopracciglia e,
    dignitosa e fredda, uscì dalla stanza.
    - Che è successo?  -  domandò Pierre,  entrando nella camera di Màrija
    Dmìtrevna.
    - Belle cose!   -  rispose Màrija Dmìtrevna.   -  Da cinquantotto anni
    sono al mondo, ma non ho mai veduto una vergogna simile.   E,  fattasi
    dare  da  Pierre  la  parola  d'onore di serbare il segreto su ciò che
    avrebbe saputo,  Màrija Dmìtrevna  lo  informò  che  Natascia  si  era
    svincolata dalla promessa che la legava al principe Andréj senza che i
    genitori  lo  sapessero  e che la causa di tale decisione era Anatolij
    Kuragin,  con il quale la moglie di Pierre l'aveva fatta incontrare  e
    con  il  quale la fanciulla aveva tentato di fuggire durante l'assenza
    del padre, per sposarlo segretamente.
    Pierre,  con le spalle alzate,  ascoltava  Màrija  Dmìtrevna  a  bocca
    aperta,  incapace  di credere alle proprie orecchie.  La fidanzata del
    principe Andréj,  da  lui  amata  con  tanta  passione,  quella  dolce
    Natascia   Rostova   di   un  tempo,   aveva  preferito  a  Bolkonskij
    quell'imbecille di Anatolij,  già ammogliato (Pierre era  al  corrente
    del  segreto  del matrimonio del cognato) e se ne era innamorata a tal
    punto da acconsentire a fuggire con lui?  Queste erano cose che Pierre
    non riusciva a capire e neppure a immaginare.
    La dolce, affascinante immagine di Natascia, che egli conosceva sin da
    bambina, non poteva conciliarsi, nel suo animo, con l'inatteso aspetto
    della  sua  stupida  crudeltà.  Si ricordò di sua moglie.  "Sono tutte
    uguali!", si disse,  pensando che non a lui solo era toccata la triste
    sorte  di  essere  legato  a una donna perversa.  Tuttavia provava una
    pietà,  dolorosa sino  alle  lacrime,  per  il  principe  Andréj,  per
    l'orgoglio ferito di lui e,  quanto più compiangeva l'amico, con tanto
    maggiore disprezzo e disgusto pensava a quella Natascia che poco prima
    gli era passata davanti così fredda e  dignitosa.  Egli  ignorava  che
    l'anima  di  Natascia  era  colma  di  disperazione,  di vergogna,  di
    umiliazione e che non le si poteva fare colpa se,  senza  volerlo,  il
    suo volto aveva quell'espressione dignitosa e severa.
    - Sposarsi?   -  esclamò Pierre alle parole di Màrija Dmìtrevna.- Egli
    non poteva sposarsi: è già ammogliato.
    - Di bene in meglio!   -  disse  Màrija  Dmìtrevna.    -    Che  bravo
    ragazzo! Bella razza di farabutto! E lei lo aspetta, lo aspetta da due
    giorni. Bisognerà dirle tutto: per lo meno, smetterà di aspettare.
    Messa al corrente da Pierre dei particolari del matrimonio di Kuragin,
    e dopo aver sfogato la propria collera con ingiurie e minacce,  Màrija
    Dmìtrevna gli spiegò perché lo avesse mandato a chiamare.  Temendo che
    il  conte  e  Bolkonskij,  il  quale  poteva  arrivare  da  un momento
    all'altro,  venissero a sapere la cosa che essa intendeva  tener  loro
    nascosta  e  potessero  sfidare  a  duello Kuragin,  pregava Pierre di
    intimare  -  a suo nome  -   al  cognato  di  lasciare  immediatamente
    Mosca e di non comparirvi mai più.  Pierre le promise di soddisfare il
    suo desiderio, comprendendo soltanto ora il pericolo che minacciava il
    vecchio conte, Nikolàj e il principe Andréj. Dopo avergli espresso con
    chiarezza le sue ingiunzioni,  Màrija Dmìtrevna gli permise di passare
    in salotto.   -  Bada,  eh, che il conte non sa nulla! Fa' conto anche
    tu di ignorare ogni cosa  -  aggiunse.  -  Intanto io vado a dirle che
    è inutile aspettare!  Se vuoi resta qui a pranzo    -    gridò  Màrija
    Dmìtrevna alle spalle di Pierre.
    Pierre incontrò il vecchio conte che trovò turbato e sconvolto. Quella
    mattina  Natascia  gli  aveva  detto che si era sciolta dalla promessa
    fatta a Bolkonskij.
    - Che guaio, che guaio,  "mon cher",   -  disse a Pierre  -  che guaio
    aver da fare con queste ragazze,  quando la madre non c'è;  davvero mi
    pento di essere venuto qui.  Con voi  sarò  sincero.  L'avete  saputo?
    Natascia  ha  reso  la  parola  al  fidanzato  senza chiedere niente a
    nessuno.  Diciamo pure che io non mi sono  mai  tanto  rallegrato  per
    questo matrimonio. Il principe Andréj, d'accordo, è un ottimo giovane,
    ma che volete?  Sposandosi contro la volontà del padre,  non sarebbero
    stati felici, e Natascia non resterà certo senza pretendenti. Tuttavia
    era una cosa che durava ormai da tempo,  ma si può compiere  un  passo
    simile  senza  parlarne  al padre o alla madre?  Ora è ammalata,  e sa
    Iddio che cosa ha...  Brutto affare,  conte,  le ragazze lontane dalla
    madre!-   Pierre,  vedendo che il conte era molto sconvolto,  cercò di
    parlar  d'altro,   ma  Iljà  Andreic'  ritornava  di  nuovo  alle  sue
    preoccupazioni.
    Sònja, tutta agitata, entrò nel salotto.
    -  Natascia non sta affatto bene  -  disse a Pierre.   -  E' nella sua
    camera e desidera vedervi. Anche Màrija Dmìtrevna,  che è con lei,  vi
    prega di venire.
    - Già,  voi siete grande amico di Bolkonskij e certamente vorrà fargli
    sapere qualcosa per mezzo vostro  -  disse il conte.  -  Ah,  mio Dio,
    mio  Dio!  Andava tutto così bene...   -  E,  mettendosi le mani tra i
    radi capelli grigi, uscì dalla stanza.
    Màrija  Dmìtrevna  aveva  informato  Natascia  che  Anatolij  era  già
    sposato.  La  fanciulla  non  ci  voleva  credere  ed  esigeva di udir
    confermare la cosa da  Pierre.  Sònja  ne  informò  Pierre  mentre  lo
    accompagnava lungo il corridoio, verso la camera di Natascia.
    Natascia,  pallida  e severa,  sedeva accanto a Màrija Dmìtrevna e non
    appena  scorse  Pierre  lo  accolse  con  uno   sguardo   febbrile   e
    interrogativo. Non gli sorrise, non gli fece un cenno di saluto con il
    capo;  si limitò a guardarlo fissamente,  ostinatamente,  e con quello
    sguardo pareva domandargli una sola cosa: se fosse un  amico  o,  come
    tutti gli altri,  un nemico per Anatolij.  Pierre, in sé e per sé, non
    esisteva per lei; era evidente.
    - Egli sa tutto   -    disse  Màrija  Dmìtrevna,  indicando  Pierre  e
    volgendosi  a  Natascia.    -    E potrà confermarti se ti ho detto la
    verità.
    Come una bestia ferita guarda i cani e i cacciatori che la inseguono e
    si avvicinano, Natascia guardava ora Pierre, ora Màrija Dmìtrevna.
    - Natàlja Ilìnisna,   -   cominciò  Pierre,  abbassando  gli  occhi  e
    provando  un  sentimento  di  pietà per ciò che doveva fare  -  che la
    cosa sia vera o falsa deve esservi indifferente, perché...
    - Non è vero, dunque, che è già ammogliato?
    - Sì, è vero.
    - E' ammogliato da molto tempo? Parola d'onore?  -  domandò lei.
    Pierre le diede la sua parola d'onore.
    - E' ancora qui?  -  volle sapere la fanciulla.
    - Sì, l'ho veduto poco fa.
    Natascia, evidentemente non più in grado di parlare, fece cenno con la
    mano che la lasciassero sola.


    CAPITOLO 20.

    Pierre non rimase a pranzo e,  appena uscito dalla camera di Natascia,
    se ne andò. Girò per la città in cerca di Anatolij Kuragin. Pensando a
    lui,  tutto  il  sangue gli affluiva al cuore e sentiva di respirare a
    fatica.  Sulla collina,  presso gli zingari,  da Comoneno,  non c'era.
    Pierre andò allora al circolo,  dove tutto procedeva come sempre.  Gli
    ospiti,  venuti per pranzare,  stavano  seduti  a  gruppi,  salutavano
    Pierre e parlavano delle novità cittadine.  Il cameriere,  dopo averlo
    salutato, sapendo quali erano i suoi conoscenti e le sue abitudini, lo
    informò che il suo posto era come sempre preparato nel salottino,  che
    il  principe  Michaìl  Zacharyc'  si trovava in biblioteca e che Pavel
    Timofeic' non si era ancora visto.
    Uno dei conoscenti di Pierre gli domandò,  tra una parola e l'altra di
    un discorso sulle condizioni del tempo,  se avesse sentito parlare del
    rapimento della Rostova da parte di Kuragin,  di cui si vociferava  in
    città:  era  vero?  Pierre,  sorridendo,  disse che si trattava di una
    invenzione,  giacché egli stava venendo proprio allora dalla casa  dei
    Rostòv.  Domandò  a tutti se avessero visto Anatolij,  uno gli rispose
    che non lo si era ancora visto,  un  altro  lo  assicurò  che  sarebbe
    senz'altro  venuto  a  pranzo.  A Pierre pareva strano guardare quella
    folla di persone tranquille e  indifferenti  che  ignoravano  ciò  che
    avveniva nel suo animo. Passeggiò per le sale, aspettò che tutti se ne
    fossero  andati  e,  dopo  aver  atteso  inutilmente  Anatolij,  senza
    fermarsi a pranzare, tornò a casa.
    Anatolij,  che egli aveva  tanto  cercato,  pranzava  quel  giorno  da
    Dòlochov,  discutendo  con  lui  sul  modo  di  rimediare  all'impresa
    fallita. Gli pareva indispensabile avere un colloquio con Natascia. La
    sera si recò in casa della sorella per trovare con  lei  i  mezzi  più
    adatti a combinare un incontro con la fanciulla.
    Quando  Pierre,  dopo aver invano fatto il giro di tutta Mosca,  fu di
    ritorno a casa,  un cameriere lo informò che il principe  Anatolij  si
    trovava dalla contessa. Il salotto era pieno di ospiti.
    Pierre,  senza salutare la moglie, che non aveva ancora veduto dopo il
    suo arrivo,  e che in quel momento gli era più odiosa che  mai,  entrò
    nel salotto e, veduto Anatolij, andò diritto verso di lui.
    - Ah,  Pierre,   -  esclamò la contessa,  avvicinandosi al marito.- Tu
    non sai in che  situazione  si  trova  il  nostro  Anatolij...  ma  si
    interruppe  vedendo  nella  testa profondamente abbassata di lui,  nei
    suoi occhi  scintillanti,  nel  suo  passo  deciso,  quella  terribile
    espressione  di  furore  e  di  forza  che  ella  aveva  conosciuta  e
    sperimentata dal giorno del duello con Dòlochov.
    - Dove siete voi,  là sono la corruzione e il male  -    disse  Pierre
    alla moglie.  -  Anatolij, venite, devo parlarvi  -  disse in francese
    al cognato.
    Anatolij  guardò  la  sorella  e si alzò docilmente,  pronto a seguire
    Pierre.
    Questi, presolo per un braccio, lo tirò a sé e uscì dalla stanza.
    - "Si vous vous permettez dans mon salon..." [37.  Se  vi  permettete,
    nel mio salotto...]  -  bisbigliò Elen,  ma Pierre, senza risponderle,
    uscì.
    Anatolij lo seguiva con la sua consueta andatura disinvolta. Ma il suo
    viso esprimeva una grande inquietudine.
    Entrato nello studio,  Pierre  chiuse  la  porta  e  si  si  volse  ad
    Anatolij, senza alzar gli occhi su di lui.
    -  Voi  avete  promesso alla contessina Rostova di sposarla?  Volevate
    rapirla?
    - Mio caro,  -  rispose Anatolij in francese,  lingua in cui si svolge
    tutto il colloquio  -  non mi ritengo obbligato a rispondere a domande
    fatte su questo tono.
    Il  viso  di  Pierre,  che già era pallido,  assunse un'espressione di
    furore.  Con la sua mano poderosa afferrò Anatolij per il bavero della
    giubba  e prese a scrollarlo di qua e di là sino a che il volto di lui
    non ebbe assunto una sufficiente espressione di terrore.
    - Quando dico che "devo" parlare con voi...  -  ripeté Pierre.
    - Ma, insomma, questo è sciocco, no?  -  disse Anatolij, tastandosi il
    colletto dal quale un pezzo di panno si era staccato  insieme  con  il
    bottone.
    -  Siete  un vile,  un mascalzone,  e non so che cosa mi trattenga dal
    procurarmi il piacere di spaccarvi la  testa  con  questo  arnese    -
    proferì  Pierre,  esprimendosi in modo così artificioso perché parlava
    in francese,  e,  preso un pesante fermacarte,  lo sollevò  con  gesto
    minaccioso, ma lo depose immediatamente al suo posto.
    - Le avete promesso di sposarla, non è vero?
    - Io...  io non ci ho pensato...  Del resto, non ho mai promesso nulla
    perché...
    Pierre lo interruppe.
    - Avete lettere sue? Avete delle lettere?   -  insisté,  avvicinandosi
    ad Anatolij.
    Anatolij  lo guardò e subito,  messa una mano in tasca,  cavò fuori il
    portafogli.
    Pierre prese una lettera che il cognato gli tendeva e, respingendo una
    tavola che gli impediva di passare, si lasciò cadere sul divano.
    - "Je ne serai pas violent, ne craignez rien" [33.  Non sarò violento,
    non  abbiate  paura]    -   disse,  rispondendo al gesto spaventato di
    Anatolij.  -  Prima cosa, le lettere  -  rispose come se ripetesse una
    lezione a se stesso;   -  seconda  -    continuò  dopo  un  minuto  di
    silenzio,  alzandosi  di  nuovo    -   dovete partire domani stesso da
    Mosca...
    - Ma come posso...
    - Terza,   -  continuò Pierre senza dargli ascolto  -  non dovrete mai
    dire  una parola su quanto è avvenuto tra voi e la contessina.  So che
    non posso impedirvi di parlare,  ma se avete un minimo di coscienza...
    -   Pierre andò parecchie volte avanti e indietro per la stanza mentre
    Anatolij sedeva,  scuro in faccia,  presso la tavola,  e si mordeva le
    labbra.
    -  Voi non potete non comprendere che,  in fin dei conti,  al di fuori
    del vostro piacere,  hanno valore la pace e la  felicità  di  un'altra
    creatura,  che voi non esitate a rovinare per divertirvi. Spassatevela
    con le donne simili a mia moglie,  con le quali siete in pieno diritto
    di farlo;  esse sanno ciò che volete da loro.  Sono armate,  contro di
    voi,  di una esperienza del vizio uguale alla vostra.  Ma promettere a
    una fanciulla di sposarla...  ingannarla...  rapirla.  Come non capite
    che questa è un'azione vigliacca,  come il percuotere un vecchio o  un
    bambino?
    Pierre  tacque  e  guardò Anatolij,  con un'espressione più calma,  ma
    interrogativa.
    - Questo non lo so.  Eh?   -  disse Anatolij che ripigliava audacia  a
    mano  a  mano  che  Pierre riusciva a dominare la propria collera.   -
    Questo non lo so,  né lo voglio sapere   -    ripeté,  senza  guardare
    Pierre,  con un leggero tremito della mascella;  ma voi mi avete detto
    parole come mascalzone e simili...  che io,  comme  "homme  d'honneur"
    [39. come gentiluomo], non accetto da nessuno.
    Pierre lo fissò stupito, senza riuscire a capire che cosa volesse.
    -  No,   -  proseguì Anatolij  -  non posso permettere che mi si parli
    così, sia pure a quattr'occhi.
    - Ah, volete dunque soddisfazione?  -  concluse Pierre con ironia.
    - Potreste almeno ritirare la vostre parole ingiuriose. Eh?  Se volete
    che io compia i vostri desideri. Eh?
    - Le ritiro, le ritiro  -  consentì Pierre  -  e vi prego di scusarmi.
    -    E,  senza  volerlo,  guardò  il  bottone strappato.   -  Se avete
    bisogno, vi darò del denaro per il viaggio...
    Anatolij sorrise.
    Quel sorriso timido e vile che aveva notato tante volte  sul  viso  di
    sua moglie, esasperò Pierre.
    - Ah, razza vigliacca e senza cuore!  -  esclamò, e uscì in fretta.
    Il giorno seguente Anatolij partiva per Pietroburgo.


    CAPITOLO 21.

    Pierre si recò da Màrija Dmìtrevna per informarla che il suo desiderio
    relativo all'allontanamento di Kuragin da Mosca era stato appagato.
    Nella casa regnava inquietudine e paura.  Natascia stava molto male e,
    come Màrija Dmìtrevna disse a Pierre sotto  il  vincolo  del  segreto,
    nella  notte  stessa  in  cui  le  era stato rivelato che Anatolij era
    sposato, aveva tentato di avvelenarsi con dell'arsenico procuratosi di
    nascosto. Dopo averne inghiottito un po',  si era tanto spaventata che
    aveva  svegliato  Sònja  e  le aveva confessato il gesto compiuto.  Le
    misure necessarie contro il veleno erano state prese in tempo,  e  ora
    la  fanciulla  era fuori pericolo,  ma tuttavia ancora così debole che
    non era possibile pensare di portarla in campagna,  motivo per cui  si
    era  deciso  di  mandare a prendere la contessa.  Pierre vide il conte
    assai turbato e Sònja con il viso disfatto dalle lacrime,  ma non poté
    vedere Natascia.
    Quel giorno Pierre pranzò al circolo.  Da tutte le parti udiva parlare
    del tentativo di ratto della Rostova, ma smentiva ostinatamente quella
    notizia,  assicurando tutti che nulla era  accaduto  se  non  che  suo
    cognato  aveva  chiesto  la  mano  della  contessina  e aveva avuto un
    rifiuto.  Pierre giudicava suo dovere tener nascosta quella  storia  e
    cercar così di ristabilire la buona riputazione di Natascia Rostova.
    Attendeva con terrore il ritorno del principe Andréj, e ogni giorno si
    recava dal vecchio principe per avere notizie.
    Il  principe  Nikolàj  Andreic'  era stato informato da "mademoiselle"
    Bourienne delle voci che circolavano per la città  e  aveva  letto  il
    biglietto scritto alla principessina Màrija da Natascia,  con il quale
    dichiarava di voler rompere il  suo  fidanzamento.  Egli  appariva  di
    umore  più  lieto del solito e aspettava il figlio con sempre maggiore
    impazienza.
    Alcuni giorni dopo  la  partenza  di  Anatolij,  Pierre  ricevette  un
    biglietto  dal principe Andréj,  che gli comunicava il suo arrivo e lo
    pregava di recarsi da lui.
    Il principe Andréj, appena giunto a Mosca,  nel momento stesso del suo
    arrivo, aveva avuto da suo padre il biglietto scritto da Natascia alla
    principessina  Màrija nel quale rendeva la propria parola al fidanzato
    (il biglietto era stato sottratto alla principessina e  consegnato  al
    principe  da  "mademoiselle"  Bourienne)  e  aveva  udito dal padre il
    racconto,  con aggiunte e commenti,  del  tentativo  di  rapimento  di
    Natascia.
    Il principe Andréj era arrivato la sera avanti.  Pierre andò da lui il
    mattino successivo. Pensava di trovarlo in condizioni quasi analoghe a
    quelle di Natascia e perciò rimase assai sorpreso  allorché,  entrando
    in  salotto,  udì  giungere  dallo  studio la voce sonora del principe
    Andréj che stava raccontando con vivacità un fatto scandaloso accaduto
    a Pietroburgo.  Il  vecchio  principe  e  un  altro  interlocutore  lo
    interrompevano  di  tanto  in tanto.  La principessina Màrija venne in
    salotto per ricevere Pierre.  Ella sospirò indicando con lo sguardo la
    porta  dello  studio  dove  il fratello stava discutendo,  desiderando
    manifestare così la propria partecipazione al dolore di lui. Ma Pierre
    leggeva nel suo viso che ella era contenta di quanto  era  avvenuto  e
    del  modo  con cui il fratello aveva accolto la notizia del tradimento
    della fidanzata.
    - Ha assicurato che se l'aspettava  -  disse;   -  io so  che  il  suo
    orgoglio  gli impedirà di esprimere i suoi sentimenti,  ma tuttavia ha
    sopportato  questo  colpo  meglio,  molto  meglio  di  quanto  non  mi
    aspettassi. Si vede che così doveva essere...
    - Ma è possibile che tutto sia veramente finito?  -  domandò Pierre.
    La  principessina Màrija lo guardò stupita.  Non capiva neppure che si
    potesse fare  una  domanda  simile.  Pierre  entrò  nello  studio.  Il
    principe Andréj, in abito civile, appariva molto mutato e visibilmente
    in  buona  salute,  ma  una  nuova  ruga gli divideva la fronte tra le
    sopracciglia;  stava in piedi  davanti  a  suo  padre  e  al  principe
    Mescierskij e discuteva con calore, facendo gesti energici.
    Parlavano di Speranskij: era appena giunta da Mosca la notizia del suo
    tradimento e del suo improvviso esilio.
    -  Ora  lo condannano e lo accusano quegli stessi che un mese addietro
    lo portavano ai sette cieli  -  diceva il principe Andréj  -  e  anche
    quelli  che non erano in grado di capire i suoi fini.  E' molto facile
    accusare un uomo caduto in disgrazia  e  addossare  a  lui  tutti  gli
    errori degli altri,  ma io dico che se qualcosa di buono è stato fatto
    durante il regno attuale è stato proprio fatto da lui, da lui solo!  -
    Si fermò alla vista di Pierre.  Il suo viso trasalì e  assunse  subito
    un'espressione  cattiva.    -  E i posteri gli renderanno giustizia  -
    concluse; poi si rivolse a Pierre.
    - Be', come stai? Continui a ingrassare  -  disse animatamente,  ma la
    ruga  recente  parve  più profonda sulla fronte.   -  Sì,  sto bene  -
    rispose alla domanda di Pierre che si informava sulla  sua  salute,  e
    sorrise.  Pierre  capiva  benissimo che quel sorriso voleva dire: "Sto
    bene, ma a nessuno importa niente della mia salute!".
    Scambiata qualche parola con l'amico sulle pessime strade dal  confine
    polacco  sino  a  Mosca e su alcuni conoscenti di Pierre incontrati in
    Svizzera,  e dopo aver parlato del signor Desalles,  che aveva portato
    dall'estero come precettore del figlio,  il principe Andréj intervenne
    di nuovo con calore nel discorso su Speranskij che  continuava  tra  i
    due vecchi.
    -  Se  avesse  tradito  e  ci  fossero state le prove dei suoi segreti
    rapporti con Napoleone,  le avrebbero rese pubbliche   -    disse  con
    slancio  e  in fretta.   -  Personalmente non ho e non ho avuto alcuna
    simpatia per Speranskij,  ma amo la giustizia.    -  Pierre  costatava
    adesso  nell'amico  quel bisogno,  che gli era noto,  di agitarsi e di
    discutere su un argomento  estraneo,  al  solo  fine  di  soffocare  i
    pensieri troppo penosi che lo angustiavano.
    Quando  il  principe  Mescierskij se ne fu andato,  il principe Andréj
    prese sottobraccio Pierre e lo condusse nella  camera  che  era  stata
    preparata per lui. Il letto era disfatto e qua e là erano posati bauli
    e valigie aperte.  Il principe Andréj si avvicinò a una di queste e ne
    trasse una cassettina,  dalla quale tolse un pacco di lettere  avvolte
    in un foglio di carta.  Fece tutto in fretta e in silenzio. Si sollevò
    e tossì. Aveva il viso aggrottato e le labbra serrate.
    - Perdonami se ti do un disturbo...   -  Pierre capì che  il  principe
    Andréj  voleva  parlare  di  Natascia,  e  sul  suo viso largo apparve
    un'espressione di compatimento e di  simpatia.  Quell'espressione  del
    viso  di  Pierre  irritò  il  principe  Andréj che,  con voce decisa e
    sgradevole,  riprese:  -   Ho  ricevuto  un  rifiuto  da  parte  della
    contessina  Rostova  e  mi sono giunte voci secondo cui tuo cognato ha
    chiesto la sua mano... o qualcosa del genere. E' vero?
    - E' vero e non è vero  -  prese a dire Pierre,  ma il principe Andréj
    lo interruppe subito.
    -  Ecco  le  sue lettere e il suo ritratto.   -  Prese dalla tavola il
    fascio di carte e lo consegnò a Pierre.   -   Restituisci  tutto  alla
    contessina... se la vedi.
    - Essa è molto malata  -  rispose Pierre.
    -  E'  dunque  ancora  qui?   -  domandò il principe Andréj.   -  E il
    principe Kuragin?  -  s'informò poi in fretta.
    - E' partito da parecchio tempo. Lei è stata in punto di morte...
    - Mi duole molto che sia malata  -  disse il principe Andréj.  Ed ebbe
    un sorriso freddo, cattivo e antipatico, simile a quello del padre.  -
    Ma  il  signor  Kuragin    -  soggiunse  -  non si è dunque degnato di
    offrire la sua mano alla contessina Rostova? domandò ancora.  E aspirò
    più volte l'aria con il naso.
    - Non poteva sposarsi perché è già ammogliato  -  disse Pierre.
    Il  principe  Andréj rise di nuovo in modo antipatico,  ricordando più
    che mai suo padre.
    - E posso sapere dove si trova ora vostro cognato?  -  chiese.
    - E' andato a Pietr... del resto, non so altro.
    - Be',  ma questo non ha importanza  -  riprese il principe Andréj.  -
    Riferisci  alla  contessina  Rostova  che  ella era ed è assolutamente
    libera e che io le auguro ogni bene.
    Pierre prese il fascio di lettere e il principe Andréj,  come cercando
    di rammentare se avesse ancora da dirgli qualcosa, lo guardava con gli
    occhi fissi.
    - Sentite, vi ricordate di quella nostra discussione a Pietroburgo? Vi
    ricordate di...  -  fece Pierre.
    - Mi ricordo,  sì  -  rispose in fretta il principe Andréj.  -  Dicevo
    che bisogna perdonare a una donna che cade,  ma non ho  detto  che  io
    l'avrei potuto fare. E non posso.
    - Ma sono forse cose che si possono paragonare?
    Il  principe  Andréj  interruppe  di  nuovo l'amico e dichiarò in tono
    brusco:
    - Già,  chiedere di nuovo la sua  mano,  essere  magnanimo,  eccetera.
    Certo sarebbe un gesto nobilissimo, ma io non sono capace di camminare
    "sur les brisées de monsieur" [40.  rivaleggiare con quel signore]. Se
    tu mi vuoi essere amico non parlarmi mai più di tutto questo... E ora,
    arrivederci. Consegnerai le lettere?
    Pierre uscì e andò dalla principessina Màrija.
    Il vecchio appariva più vivace del solito. La principessina Màrija era
    quella di sempre,  ma al di là della simpatia di lei per il  fratello,
    Pierre  scorgeva  anche  la  gioia  che quel matrimonio fosse andato a
    monte.   Guardandola,   Pierre  si  rese   conto   del   disprezzo   e
    dell'avversione che padre e figlia nutrivano per i Rostòv; capì che in
    loro presenza non sarebbe stato possibile pronunziare il nome di colei
    che aveva potuto preferire al principe Andréj un altro.
    Durante il pranzo si parlò della guerra che pareva ormai imminente. Il
    principe  Andréj  non  cessò  mai di parlare e di discutere ora con il
    padre ora con Desalles,  il precettore svizzero,  e pareva più animato
    del  solito;  ma  era un'animazione di cui Pierre conosceva molto bene
    l'intima causa.


    CAPITOLO 22.

    Quella stessa sera Pierre si recò dai Rostòv per  eseguire  l'incarico
    avuto.  Natascia era a letto, il conte al circolo e Pierre, consegnate
    le lettere a Sònja,  andò da Màrija Dmìtrevna che desiderava vivamente
    sapere come il principe Andréj avesse accolto la notizia. Dieci minuti
    dopo, Sònja entrò da Màrija Dmìtrevna.
    -  Natascia vuole assolutamente vedere il conte Pëtr Kirìllovic'.-  Ma
    come è possibile introdurlo da  lei?  La  camera  è  ancora  tutta  in
    disordine  -  obiettò Màrija Dmìtrevna.
    -  No,  no,  Natascia si è vestita ed è andata nel salotto  -  rispose
    Sònja.
    Màrija Dmìtrevna si limitò a stringersi nelle spalle.
    - Ah, quando arriverà la contessa? Sono proprio stremata. E tu bada  -
    e si rivolse a Pierre  -  di non dirle tutto. Mi manca il coraggio per
    sgridarla: mi fa tanta pena.
    Natascia,  smagrita,  con il  viso  pallido  e  serio  (ma  per  nulla
    vergognoso come Pierre si aspettava di vedere ),  stava ritta in mezzo
    al salotto.  Quando Pierre  comparve  sulla  soglia,  ella  si  turbò,
    visibilmente incerta se dovesse andargli incontro o aspettarlo.
    Pierre  le si avvicinò rapidamente.  Pensava che ella gli avrebbe teso
    la mano,  come sempre;  ma la fanciulla,  quando  gli  fu  vicina,  si
    arrestò,  respirando faticosamente, con le braccia abbandonate lungo i
    fianchi,  l'atteggiamento che era solita prendere  quando  cantava  in
    mezzo al salone, ma con una espressione molto diversa.
    -  Pëtr  Kirìllyc',    -    prese  a  dire  in  fretta  -  il principe
    Bolkonskij era vostro amico...  è ancora vostro amico  -  si  corresse
    (le pareva che ogni cosa fosse passata e che ora fosse tutto diverso).
    -  Mi diceva allora di rivolgermi a voi...
    Pierre la guardava in silenzio,  respirando forte. Sino a quel momento
    l'aveva in cuor suo biasimata,  aveva cercato di disprezzarla;  ma ora
    sentiva  una  così profonda pena per lei che nella sua anima non c'era
    più posto per alcun rimprovero.
    - Lui è qui,  adesso...  ditegli che mi per...  che mi perdoni.   -  E
    s'interruppe, mentre il respiro le si faceva sempre più affannoso.
    - Sì... glielo dirò  -  promise Pierre;  -  ma...
    Egli non sapeva che cosa dire.
    Natascia   parve   spaventata   all'idea  dei  pensieri  che  potevano
    affacciarsi alla mente di Pierre.
    - So che tutto è finito,   -  disse  -  che tutto è finito per sempre.
    Mi  tormenta  soltanto il pensiero del male che gli ho fatto.  Ditegli
    soltanto che lo prego di perdonarmi, di perdonarmi di tutto...
    Fu presa da un tremito violento e dovette sedersi.
    Un senso di pietà,  non ancora mai  provato,  si  era  impadronito  di
    Pierre.
    -  Glielo  dirò,  gli  dirò tutto ancora una volta,   -  disse Pierre-
    ma... ma vorrei sapere una cosa...
    "Che cosa?", domandò lo sguardo di Natascia.
    - Vorrei sapere se voi avete amato...   -    Pierre  non  sapeva  come
    chiamare  Anatolij  e  arrossì al pensiero di lui.   -  Se avete amato
    quel cattivo uomo.
    - Non chiamatelo cattivo,   -  rispose Natascia  -  ma io non so,  non
    so nulla, nulla...  -  E prese a piangere.
    Un sentimento ancora più forte di compassione, di tenerezza e di amore
    si impadronì di Pierre.  Sentiva che sotto gli occhiali gli scorrevano
    le lacrime e sperava che Natascia non se ne accorgesse.
    - Non parliamone più, amica mia  -  disse.
    Tutt'a un tratto quella voce dolce,  tenera e gentile parve  strana  a
    Natascia.   -  Non parliamone più, amica mia; io gli dirò tutto, ma di
    una cosa sola vi prego: consideratemi un amico e se avete  bisogno  di
    un  aiuto,  di  un consiglio o semplicemente di sfogarvi con qualcuno,
    non  dico  adesso,   ma  quando  tutto  sarà  chiaro  dentro  di  voi,
    ricordatevi  di  me.    -   Le prese la mano e gliela baciò.   -  Sarò
    felice se potrò...  -  Ma si confuse.
    - Non parlatemi così,  non ne sono degna  -  esclamò Natascia  e  fece
    l'atto  di  uscire  dalla  camera,  ma Pierre la trattenne.  Sapeva di
    doverle dire ancora qualcosa,  ma quando ebbe  parlato  si  meravigliò
    delle sue stesse parole.
    - Smettete, smettete di tormentarvi: avete tutta la vita davanti a voi
    -  le disse.
    - Davanti a me?  No! Per me tutto è ormai finito  -  ribatté Natascia,
    vergognosa e umiliata.
    - Tutto finito?   -  ripeté Pierre.   -  Se io non fossi io,  se fossi
    l'uomo  più  bello,  più intelligente,  l'uomo migliore del mondo,  se
    fossi libero, chiederei subito in ginocchio la vostra mano e il vostro
    amore.
    Natascia,  per la prima volta dopo tanti  giorni,  pianse  lacrime  di
    gratitudine  e  di commozione e,  dopo aver rivolto a Pierre un'ultima
    occhiata, lasciò la camera.
    Anche  Pierre,  dopo  di  lei,  uscì  quasi  di  corsa  in  anticamera
    trattenendo le lacrime di tenerezza e di felicità che gli serravano la
    gola.  Si  gettò  sulle  spalle la pelliccia senza neppure infilare le
    maniche e montò in slitta.
    - Dove comandate di andare?  -  chiese il cocchiere.
    "Dove?",  domandò a se stesso Pierre.  "Dove posso andare adesso?  Non
    certo  al  circolo,  né a fare delle visite...".  Tutti gli uomini gli
    apparivano così miserevoli e meschini a paragone di quel sentimento di
    tenerezza e di amore che egli provava,  a paragone di  quello  sguardo
    dolce e riconoscente che essa gli aveva rivolto attraverso le lacrime.
    - A casa!  -  ordinò Pierre e, nonostante i dieci gradi sotto zero, si
    aprì   la   pelliccia   d'orso  sull'ampio  petto  che  respirava  ora
    gioiosamente.
    Era una notte gelida e serena.  Sopra le vie fangose e male illuminate
    e  sui  tetti  neri  si stendeva un cielo scuro disseminato di stelle.
    Pierre,  al solo guardare quel cielo,  non  sentiva  più  la  bassezza
    offensiva  delle  cose  terrene,  in confronto con l'altezza a cui era
    salita l'anima sua.  All'entrare nella piazza  dell'Arbàt,  una  vasta
    distesa  di  cielo  cupo  cosparso di stelle gli si aprì allo sguardo.
    Quasi in mezzo a quel cielo, sopra il corso Precìstenskij,  circondata
    da  ogni  parte di stelle ma distinguendosi da tutte per la sua minore
    distanza dalla terra per la candida,  luminosa e  lunga  coda  rivolta
    verso l'alto,  pendeva l'enorme,  splendente cometa del 1812,  proprio
    quella che,  come si diceva,  preannunziava una serie di sventure e la
    fine  del  mondo.  Ma in Pierre quella stella radiosa dalla lunga coda
    lucente non suscitava alcun sentimento di timore. Tutt'altro!  Con gli
    occhi umidi di pianto,  egli guardava l'astro luminoso che,  dopo aver
    percorso con vertiginosa rapidità spazi incommensurabili seguendo  una
    linea  parabolica,  a un tratto,  come una freccia che si conficca nel
    terreno,  pareva essere rimasto  immobile  lassù,  nel  punto  scelto,
    drizzando  la coda verso l'alto,  scintillando e scherzando con la sua
    luce bianca tra le altre fulgide,  palpitanti stelle.  Pareva a Pierre
    che  quella  stella  corrispondesse a ciò che ora colmava la sua anima
    commossa e riconfortata, pronta a rifiorire in una nuova vita.









    NOTE.

    N. 4. Pëtr Vasil'evic' Lopuchin (1744-1827), principe,  governatore di
    Jaroslavl'  e  di  Vologda  sotto Caterina Seconda;  dal 1803 al 1810,
    sotto Alessandro Primo,  presidente  del  consiglio  di  stato  e  del
    consiglio dei ministri.
    N.  5.  Peter Friedrich Georg Oldenburg (1783-1812),  figlio di P.  F.
    Ludwig Oldenburg (morto nel 1829); cognato dello zar Alessandro Primo.
    Il 22 gennaio 1811 Napoleone  ne  annetté  il  granducato  al  dominio
    francese ricavato da territori della Confederazione del Reno.
    N.  6.  Il 17 maggio 1809 Napoleone emanò un decreto con cui Roma e lo
    Stato Pontificio entravano a far parte dell'impero francese. Roma, che
    era stata occupata da un corpo di spedizione il 2 febbraio 1808  e  da
    cui  venne  portato  via prigioniero il 4 luglio 1809 papa Pio Settimo
    (Gregorio Chiaramonti,  1740-1823;  papa dal 1800),  divenne  così  la
    seconda  capitale  dell'impero  napoleonico  e  il figlio di Napoleone
    ricevette il titolo di "Re di Roma".
    N. 9. Strumento musicale a una sola corda.
    N.  17.  Celebre romanzo sentimentale di Nikolài Michàjlovic' Karamzin
    (1766-1826),  scrittore  e  storico russo.  Subì nelle prime sue opere
    l'influenza di Rousseau, come risulta soprattutto dalle "Lettere di un
    viaggiatore  russo"  e  da  "La  povera  Liza".   Nominato  nel   1803
    storiografo  dello  zar,  scrisse sino alla morte la colossale "Storia
    dello stato russo" in 12 volumi,  la prima opera del genere pubblicata
    in  Russia,  notevole  più  per  lo  stile  colorito che per il rigore
    scientifico.  Fu il primo scrittore  professionista  della  Russia  ed
    esercitò  un'influenza  considerevole  sullo  sviluppo  della lingua e
    sull'evoluzione degli ambienti letterari.
    N.  20.  Madame Aubert-Chalmé,  proprietaria di un negozio di  mode  a
    Mosca.  Collaborò  con  i Francesi durante l'occupazione della vecchia
    capitale russa e la sua opera venne apprezzata dallo stesso Napoleone.
    Seguì i Francesi nella loro disastrosa ritirata e morì a Vilna.
    N. 34. Corto mantello alla tartara, trapuntato.
    N. 36.  Usanza russa.  Prima di intraprendere un viaggio,  ci si siede
    per un momento in una stanza chiusa, attorno a un tavolo.