Lev N. Tolstòj.
    GUERRA e PACE.


    LIBRO TERZO.


    PARTE PRIMA.


    CAPITOLO 1.


    Verso la fine del 1811  cominciarono  gli  armamenti  intensivi  e  il
    concentramento delle forze dell'Europa occidentale,  e nel 1812 queste
    forze,  milioni e milioni di uomini (calcolando anche gli  addetti  ai
    servizi logistici),  mossero da ovest a est, verso le frontiere russe,
    in direzione delle quali, allo stesso modo, andavano avanzando sin dal
    1811  gli  eserciti  russi.   Il  12  giugno,   le  forze  dell'Europa
    occidentale  varcarono  le  frontiere  e cominciò la guerra,  ossia si
    compì un avvenimento contrario  alla  ragione  e  alla  natura  umana.
    Milioni  di  uomini  commisero  gli  uni contro gli altri una quantità
    indescrivibile di malvagità, di soprusi, di tradimenti,  di saccheggi,
    di falsificazioni,  di incendi e di assassinii, delitti che gli annali
    di tutti tribunali del mondo non raccoglierebbero in parecchi secoli e
    che,  in quel periodo di  tempo,  gli  uomini  che  li  commisero  non
    considerarono tali.
    Che cosa aveva provocato quello straordinario evento?  Quali ne furono
    le cause? Gli storici, con ingenua sicurezza, asseriscono che le cause
    dell'avvenimento  furono:  l'offesa  fatta  al  duca   di   Oldenburg,
    l'inosservanza del blocco continentale,  l'ambizione di Napoleone,  la
    fermezza di Aleksàndr, gli errori dei diplomatici e così via.
    Di  conseguenza  sarebbe  bastato  che  Metternich  (1),  Rumjanzòv  e
    Talleyrand (2),  fra un ricevimento a Corte e una caccia a cavallo, si
    fossero applicati a redigere più abilmente un qualsiasi  patto  o  che
    Napoleone avesse scritto ad Aleksàndr: "Monsieur mon frère, je consens
    à rendre le duché au duc d'Oldenburg" [3. "Signor fratello, acconsento
    a rendere il ducato al duca di Oldenburg"] perché la guerra non avesse
    luogo.
    Si  può  comprendere che così dovesse parere ai contemporanei;  si può
    comprendere che Napoleone ritenesse causa della  guerra  gli  intrighi
    dell'Inghilterra  (come  ebbe  poi  a scrivere da Sant'Elena);  si può
    comprendere che i  membri  del  parlamento  inglese  attribuissero  la
    guerra all'ambizione di Napoleone; che il duca di Oldenburg ne vedesse
    la  causa nella violenza esercitata contro di lui,  i commercianti nel
    blocco continentale che rovinava l'Europa;  che ai  vecchi  soldati  e
    generali  la  causa principale sembrasse la necessità di impiegarli in
    un'azione;  ai legittimisti del tempo quella di restaurare  "les  bons
    principes"  [4.  i  buoni  princìpi];  ai diplomatici di quel medesimo
    tempo il fatto che l'alleanza del 1809 tra Russia e  Austria  non  era
    stata sufficientemente tenuta nascosta a Napoleone e dall'essere stato
    redatto  con scarsa abilità il memorandum n.  178.  Si può comprendere
    che questi e altri innumerevoli motivi,  la  cui  quantità  variava  a
    seconda  dei  diversi punti di vista,  si presentassero alla mente dei
    contemporanei;  ma a noi posteri che  consideriamo  in  tutto  il  suo
    insieme  la  vastità  dell'evento  che  si verificò e ne penetriamo il
    senso semplice e tremendo,  queste cause appaiono  insufficienti.  Noi
    non  possiamo  capire  che  milioni di cristiani si siano massacrati e
    torturati a vicenda soltanto perché Napoleone  idolatrava  il  potere,
    perché Aleksàndr era caparbio, la politica inglese astuta e il duca di
    Oldenburg offeso.
    Non ci si può spiegare quali relazioni abbiano tali circostanze con il
    fatto  in  sé dell'assassinio e della violenza;  non si capisce perché
    l'offesa inferta al duca abbia fatto  accorrere  dall'altra  estremità
    dell'Europa  migliaia  di  uomini per uccidere e rovinare gli abitanti
    delle province di Smolènsk e di Mosca e per essere a loro volta uccisi
    da costoro.
    Secondo noi posteri,  che non siamo  né  storici  né  affascinati  dal
    processo  delle  indagini,  e  che  quindi  possiamo  considerare  gli
    avvenimenti con il semplice buon senso non offuscato in alcun modo,  i
    motivi di questa guerra ci appaiono in numero incalcolabile.  A mano a
    mano che ci addentriamo nella ricerca delle cause,  tanto più numerose
    esse ci appaiono; ogni causa presa isolatamente od ogni serie di cause
    ci si presentano tutte ugualmente giuste se considerate in sé e per sé
    oppure  tutte ugualmente false,  perché insignificanti,  se paragonate
    all'enormità dell'avvenimento; ugualmente false perché insufficienti a
    produrre,   senza  la  partecipazione  di   tutte   le   altre   cause
    concomitanti,  quanto è accaduto. Per esempio, il rifiuto di Napoleone
    di fare indietreggiare  le  sue  truppe  al  di  là  della  Vistola  e
    restituire  il  ducato  di Oldenburg,  ha per noi lo stesso valore del
    desiderio o del non desiderio di rinnovare la propria ferma  da  parte
    di un qualsiasi caporale francese;  perché se quel caporale non avesse
    voluto riprendere servizio e migliaia di altri caporali e  soldati  lo
    avessero  imitato,  l'esercito  di Napoleone avrebbe avuto altrettanti
    uomini in meno e la guerra non ci sarebbe stata.
    Se Napoleone non si fosse offeso perché  gli  era  stato  ingiunto  di
    ritirarsi  oltre  la Vistola e non avesse ordinato l'avanzata alle sue
    truppe, la guerra non avrebbe avuto luogo;  e sarebbe stata ugualmente
    impossibile  se tutti i sergenti si fossero rifiutati di riprendere le
    armi.  Così pure non ci sarebbe stata la guerra se  l'Inghilterra  non
    avesse brigato, se il duca di Oldenburg non fosse esistito e Aleksàndr
    non avesse avuto un carattere suscettibile,  se l'autocrazia russa non
    avesse esercitato la sua azione e se la Francia non  avesse  avuto  la
    rivoluzione,  la dittatura e l'Impero che la seguirono né tutto ciò da
    cui quella rivoluzione fu prodotta,  e così via.  Se fosse mancata una
    di queste cause niente sarebbe accaduto.  Tutte queste cause,  dunque,
    miliardi  di  cause,   concorsero  a  determinare  ciò  che   fu.   Di
    conseguenza,  l'avvenimento  non  ebbe  alcuna  causa esclusiva,  e si
    realizzò semplicemente perché doveva realizzarsi. Milioni e milioni di
    uomini,  rinnegando i loro sentimenti umani e la loro ragione dovevano
    marciare  dall'occidente  all'oriente  e uccidere i loro simili,  come
    già,  alcuni secoli prima,  ingenti masse si erano mosse  dall'oriente
    all'occidente uccidendo ugualmente i loro simili.
    Con i loro atti Napoleone e Aleksàndr,  da una parola dei quali pareva
    dipendesse la realizzazione o la non  realizzazione  dell'avvenimento,
    non  erano arbitri dell'azione più di quanto non lo fosse un qualsiasi
    soldato che andava alla guerra perché era stato  estratto  a  sorte  o
    perché era stato reclutato. Né poteva accadere altrimenti giacché, per
    adempiere  la  volontà di Napoleone o di Aleksàndr (gli uomini,  cioè,
    dai quali parevano dipendere gli avvenimenti)  era  indispensabile  la
    concomitanza  di innumerevoli circostanze,  mancando una delle quali i
    fatti non si sarebbero  potuti  avverare.  Era  indispensabile  che  i
    milioni  di  uomini  nelle mani dei quali stava la forza effettiva,  i
    soldati che sparavano i fucili e che trasportavano le  munizioni  e  i
    cannoni,  acconsentissero  a  compiere  la volontà di singoli,  deboli
    individui e a ciò fossero spinti  da  una  quantità  enorme  di  cause
    complicate e diverse.
    Il fatalismo è indispensabile nella scienza storica per spiegare certi
    avvenimenti  privi  di  senso;  dei quali,  cioè,  non comprendiamo la
    ragionevolezza.  Quanto più cerchiamo di spiegare  razionalmente  tali
    fenomeni   storici,   tanto  più  essi  ci  sembrano  irragionevoli  e
    incomprensibili.
    Ciascun uomo vive per se stesso,  usa della libertà per raggiungere  i
    suoi  scopi  personali  e  sente,   con  tutto  se  stesso,  di  poter
    immediatamente compiere una data azione; ma, non appena l'ha compiuta,
    quest'azione, effettuata in un determinato momento del tempo,  diventa
    irrevocabile,  la storia se ne impadronisce e le dà un significato non
    più libero, ma predestinato.
    Nella vita di ciascun uomo esistono due aspetti:  la  vita  personale,
    che è tanto più libera quanto più astratti sono i suoi interessi, e la
    vita naturale,  sociale,  in cui l'uomo obbedisce inevitabilmente alle
    leggi che gli sono prescritte.
    L'uomo ha la coscienza di vivere per se stesso,  ma serve da strumento
    incosciente  al  conseguimento  delle  finalità storiche dell'umanità.
    L'atto compiuto è irreparabile e, concordando nel tempo con milioni di
    atti compiuti da altri uomini,  assume un significato storico.  Quanto
    più  in  alto sta un uomo sulla scala sociale,  quanto più è grande il
    numero delle persone alle quali è legato,  tanto maggiore è il  potere
    che  ha  sugli altri e tanto più sono evidenti la predestinazione e la
    fatalità di ciascuno dei suoi atti.

    "Il cuore del re è nelle mani di Dio" (5).
    Il re è lo schiavo della storia.

    La storia,  la vita incosciente e collettiva,  la  vita  degli  sciami
    umani  approfitta  per sé,  a ogni istante,  della vita dei re come di
    un'arma per raggiungere i propri fini.

    Sebbene nel 1812 sembrasse a Napoleone, più che in ogni altro periodo,
    che dipendesse da lui solo "verser" o non "verser le sang des peuples"
    [6.  versare il  sangue  dei  popoli]  (come  gli  scriveva  Aleksàndr
    nell'ultima  lettera),  mai  come  allora egli era stato soggetto alle
    leggi ineluttabili che lo costringevano (agendo, come egli credeva, di
    sua volontà) a fare per l'opera comune, per la storia,  ciò che doveva
    ineluttabilmente compiersi.
    Gli  uomini  dell'occidente avanzavano verso l'oriente per uccidersi a
    vicenda.   Secondo  la  legge  della  coincidenza  delle   cause,   si
    svilupparono  e  coincisero con questo avvenimento migliaia di piccole
    cause che produssero quel movimento e le guerre: le recriminazioni per
    l'inosservanza  del  blocco  continentale,  il  duca  di  Oldenburg  e
    l'avanzata  dell'esercito  prussiano mirante (come pareva a Napoleone)
    soltanto a raggiungere una pace armata,  l'amore  e  l'abitudine  alla
    guerra dell'imperatore francese,  che coincidevano con la tendenza del
    suo popolo,  l'entusiasmo prodotto dalla grandiosità dei  preparativi,
    le  spese che tali preparativi comportavano e la necessità di ottenere
    vantaggi atti a compensarle,  l'ebbrezza degli  onori  di  Dresda,  le
    trattative  diplomatiche  che,  agli  occhi  dei contemporanei,  erano
    condotte con un sincero desiderio di giungere alla pace e  che  invece
    non  fecero  che  inasprire l'amor proprio sia dell'una sia dell'altra
    parte,   e  milioni  e  milioni  di   altri   motivi   che,   inerenti
    all'avvenimento che stava per verificarsi, coincisero con esso.
    Quando la mela è matura cade; perché cade? Per l'attrazione di gravità
    della  terra,   perché  il  picciuolo  si  dissecca,  perché  il  sole
    l'avvizzisce, perché è ormai diventata troppo pesante, perché il vento
    la scrolla o perché il ragazzo che sta sotto vuole mangiarla?
    Per nessuna di queste cause.  La caduta  della  mela  avviene  per  il
    concorso di tutte quelle condizioni in cui si compì ogni fatto vitale,
    organico,  naturale.  E il botanico, il quale ritiene che la mela cade
    per la decomposizione del tessuto cellulare, avrà tanta ragione quanta
    ne ha il ragazzo che, stando sotto l'albero, dice che la mela è caduta
    perché egli aveva voglia di  mangiarla  e  aveva  pregato  perché  ciò
    avvenisse. Allo stesso modo sarà dalla parte del torto e della ragione
    chi  dirà  che  Napoleone  è andato a Mosca perché l'ha voluto e che è
    stato annientato perché così ha voluto Aleksàndr; come pure sarà dalla
    parte del torto e della ragione chi affermerà che una montagna pesante
    milioni di tonnellate, scalzata alla base, è caduta per l'ultimo colpo
    di piccone datole dall'ultimo operaio.  Negli  avvenimenti  storici  i
    cosiddetti  grandi  uomini  sono  le  etichette che danno il nome agli
    avvenimenti e,  come le etichette,  hanno  meno  di  ogni  altra  cosa
    rapporto con l'avvenimento stesso.
    Ogni azione,  che essi ritengono compiuta dalla loro volontà nel senso
    storico, non dipende dalla loro volontà ma è legata con tutto il corso
    della storia ed è prestabilita da sempre.


    CAPITOLO 2.

    Il 29  maggio  Napoleone  lasciò  Dresda,  dove  aveva  trascorso  tre
    settimane attorniato da una Corte composta di prìncipi,  di duchi,  di
    re e persino  di  imperatori.  Prima  di  partire,  egli  ringraziò  i
    prìncipi,  i re e l'imperatore,  che meritavano di essere ringraziati,
    rimproverò i re e i prìncipi dei quali era malcontento, regalò perle e
    diamanti di  sua  proprietà--suoi,  cioè  portati  via  ad  altri    -
    all'imperatrice    d'Austria    (7)   e,    abbracciando   teneramente
    l'imperatrice Maria Luisa (8),  la lasciò,  dice  uno  storico,  molto
    triste per una separazione che ella  -  questa Maria Luisa considerata
    come  moglie sebbene a Parigi ne fosse rimasta un'altra  -  pareva non
    aver la forza di sopportare.
    Benché  i  diplomatici  fossero  ancora  fermamente   convinti   della
    possibilità  della pace e lavorassero con zelo a questo scopo,  benché
    Napoleone  stesso  avesse   scritto   di   suo   pugno   una   lettera
    all'imperatore   di   Russia,   chiamandolo   "monsieur   mon  frère",
    assicurandogli sinceramente di non volere la guerra e dichiarando  che
    lo avrebbe sempre amato e stimato,  Napoleone partì per raggiungere le
    proprie truppe e,  a ogni tappa  diede  nuovi  ordini  allo  scopo  di
    accelerare il movimento dell'esercito dall'ovest verso l'est. Partì in
    una  carrozza  da  viaggio  a  sei  cavalli,  circondato da paggi,  da
    aiutanti di campo e da guardie per la  via  Pozen,  Thorn,  Danzica  e
    Königsberg.  In ciascuna di queste città gli mossero incontro migliaia
    di persone trepidanti e acclamanti.
    L'esercito marciava da occidente verso oriente e i  sei  cavalli,  che
    venivano   spesso   cambiati,   portavano  l'imperatore  nella  stessa
    direzione.  Il 10 giugno raggiunse l'esercito e passò la  notte  nella
    foresta di Vilkovisk dove,  nel possedimento di un conte polacco,  gli
    era stato preparato un alloggio.
    Il  giorno  seguente,  sorpassato  l'esercito,   Napoleone  arrivò  in
    carrozza sino al Niemen e, per ispezionare il guado del fiume, rivestì
    un'uniforme polacca e scese sulla riva. Vedendo sulla sponda opposta i
    cosacchi  ("les cosaques") e le steppe ("les steppes"),  in mezzo alle
    quali sorgeva "Moscou la ville sainte" [9.  Mosca,  la  città  santa],
    capitale  di  uno  stato simile al regno degli Sciti,  dove era andato
    Alessandro il Macedone  (10),  Napoleone,  con  sorpresa  di  tutti  e
    contrariamente a ogni considerazione e diplomazia, ordinò l'invasione,
    e il giorno dopo le sue truppe cominciarono a passare il Niemen.
    Il 12, nelle prime ore del mattino, egli uscì dalla tenda piantata per
    lui  sin  dal  giorno innanzi sulla scoscesa riva sinistra del fiume e
    con un cannocchiale guardò  sfilare  le  sue  truppe  che  uscivano  a
    torrenti  dalla  foresta  di  Vilkovisk  e  attraversavano i tre ponti
    gettati  sul  Niemen.   I  soldati,   che  sapevano   della   presenza
    dell'imperatore,  lo  cercavano  con lo sguardo e quando scorgevano su
    una piccola  altura,  davanti  alla  tenda,  la  figura  ben  nota  in
    soprabito  e  cappello,  staccata  dal  séguito,  lanciavano in aria i
    berretti e gridavano: "Vive l'empereur!" [11.  "Viva l'imperatore!"] e
    gli uni dopo gli altri continuavano a uscire dall'immensa foresta dove
    sino  allora  erano  rimasti  nascosti  e,  dividendosi sui tre ponti,
    raggiungevano la riva opposta.
    "On fera du chemin, cette fois-ci! Oh, quand il s'en mêle lui-même, ca
    chauffe... Nom de Dieu... Le voilà! Vive l'empereur!... Les voilà donc
    les steppes de l'Asie!...  Vilain pays  tout  de  même...  Au  revoir,
    Beauché; je te réserve le plus beau palais de Moscou. Au revoir, bonne
    chance...  L'as-tu  vu l'empereur?  Vive l'empereur!...  Si on me fait
    gouverneur aux Indes, Gérard,  je te fais ministre du Cachemir,  c'est
    arrêté.  Vive l'empereur!  Vive!  Vive! Vive! Les gredins de cosaques,
    comme ils filent! Vive l'empereur!  Le voilà!  Le vois-tu?  Je l'ai vu
    deux fois comme je te vois.  Le petit caporal...  Je l'ai vu donner la
    croix à l'un des vieux..." [12.  "Se ne farà di strada,  questa volta!
    Oh,  quando ci si mette lui,  la faccenda si scalda!  per Dio!  Eccolo
    là!... Viva l'imperatore! Eccole dunque le steppe dell'Asia! Un brutto
    paese, però... Arrivederci, Beauché,  ti riservo il più bel palazzo di
    Mosca.  Arrivederci e buona fortuna...  L'hai visto l'imperatore? Viva
    l'imperatore! Se mi fanno governatore delle Indie,  Gérard,  ti nomino
    ministro  del Cachemir,  sta' certo.  Viva l'imperatore!  Viva!  Viva!
    Viva! Guarda come filano quei bricconi di cosacchi! Viva l'imperatore!
    Eccolo...  lo vedi?  Io l'ho visto due volte,  così come vedo  te.  Il
    piccolo  caporale!  L'ho  visto  dare  la  croce a uno del veterani"],
    dicevano le voci di uomini vecchi e giovani,  diversi per carattere  e
    posizione  sociale.  I visi di tutti avevano una comune espressione di
    gioia per l'inizio della campagna lungamente attesa,  di entusiasmo  e
    di  devozione  per  l'uomo vestito di grigio che stava ritto in cima a
    quella collina.
    Il 13  giugno  fu  condotto  a  Napoleone  un  piccolo  cavallo  arabo
    purosangue  ed egli,  montato in sella,  attraversò al galoppo uno dei
    ponti sul Niemen,  stordito da  incessanti,  entusiastiche  grida  che
    riusciva  a  sopportare  soltanto  perché,  evidentemente,  non poteva
    proibire ai soldati di esprimere a quel modo il loro amore per lui; ma
    quelle grida,  che lo accompagnavano ovunque,  lo infastidivano  e  lo
    distoglievano  dalle preoccupazioni militari dalle quali era assillato
    sin dal momento in cui aveva raggiunto l'esercito.  Attraverso uno dei
    ponti formati da barche oscillanti,  giunse sulla riva opposta,  voltò
    bruscamente a sinistra e al galoppo si avviò in  direzione  di  Kovna,
    preceduto  da una compagnia di cacciatori a cavallo della Guardia che,
    pieni di felicità ed ebbri di entusiasmo, gli aprivano un varco tra le
    truppe. Giunto che fu presso il grande fiume Vistola, si fermò accanto
    a un reggimento di ulani polacchi che si era fermato presso la riva.
    - Evviva!   -  gridarono i Polacchi entusiasti,  rompendo  le  file  e
    affollandosi  per  vederlo.  Napoleone  osservò attentamente il fiume,
    scese da cavallo e si mise a sedere su un tronco d'albero che  giaceva
    lì  accanto.  A  un  suo  cenno  gli  fu portato un cannocchiale: egli
    l'appoggiò sulle spalle  di  un  paggio  che,  raggiante,  era  subito
    accorso  e  si  diede e guardare oltre il fiume.  Poi si immerse nello
    studio  di  una  carta  militare  distesa  su  alcuni  tronchi.  Senza
    sollevare  la  testa,  disse  qualche  cosa e due dei suoi aiutanti di
    campo partirono al galoppo verso gli ulani polacchi.
    - Che c'è?  Che cosa ha detto?   -  si udì domandare tra le loro  file
    all'arrivo del primo aiutante.
    Napoleone  aveva  dato  l'ordine  di  cercare  un  guado  e di passare
    dall'altra parte del fiume.  Il colonnello polacco,  comandante  degli
    ulani,  un bell'uomo anziano,  facendosi tutto rosso e balbettando per
    l'emozione,  domandò all'aiutante se gli  sarebbe  stato  permesso  di
    attraversare il fiume a nuoto con i suoi ulani senza cercare il guado.
    Con  il  visibile timore di un rifiuto,  come un ragazzo che chieda il
    permesso di montare un cavallo, egli pregava che gli fosse concesso di
    attraversare il fiume sotto gli occhi dell'imperatore.  L'aiutante  di
    campo rispose che, con tutta probabilità, sua maestà non sarebbe stato
    malcontento di quella dimostrazione di zelo.
    Non  appena  l'aiutante  ebbe  pronunziato  quelle parole,  il vecchio
    ufficiale baffuto,  con il viso che sprizzava  felicità  e  gli  occhi
    scintillanti,  levando  alta la sciabola,  gridò:  -  Evviva!-  e dopo
    aver comandato agli ulani di seguirlo,  spronò il  cavallo  e  galoppò
    verso  il  fiume.  Spinse  con  furia  l'animale che recalcitrava e si
    lanciò nell'acqua,  dirigendosi  dove  essa  era  più  profonda  e  la
    corrente  più  rapida.  Centinaia  di  ulani  lo seguirono al galoppo.
    Faceva freddo,  e la rapidità  della  corrente  rendeva  difficile  la
    traversata.  Gli  ulani  si aggrappavano l'uno all'altro e cadevano di
    sella.  Alcuni cavalli affondarono e affondarono anche alcuni  uomini,
    mentre  gli  altri cercavano faticosamente di raggiungere la riva;  e,
    sebbene a mezzo miglio di distanza ci fosse un guado, erano orgogliosi
    di nuotare e di annegare in quel fiume sotto lo sguardo dell'uomo che,
    seduto sopra un tronco, non guardava neppure ciò che essi facevano.
    Quando l'aiutante  di  campo  fu  di  ritorno  e,  scelto  un  momento
    opportuno, si permise di richiamare l'attenzione dell'imperatore sulla
    devozione dei polacchi alla di lui persona, il piccolo uomo vestito di
    grigio  si  alzò e chiamato a sé Berthier (13),  si mise a passeggiare
    con lui avanti e  indietro  lungo  la  riva,  impartendogli  ordini  e
    volgendo  di  tanto  in  tanto  uno sguardo malcontento agli ulani che
    annegavano e distraevano la sua attenzione.
    Non era una novità per lui la  convinzione  che  la  sua  presenza  in
    qualsiasi  parte  del  mondo,  anche  la più remota,  dall'Africa alle
    steppe  della  Moscovia,   inebriasse  gli  uomini   e   li   rendesse
    completamente  dimentichi  di  se  stessi.  Diede ordine che gli fosse
    condotto il suo cavallo e tornò all'accampamento.
    Una quarantina di ulani perdettero la vita nel  fiume,  nonostante  le
    barche  mandate  in  loro  soccorso.  La  maggior  parte  fu  respinta
    indietro.  Il colonnello e alcuni uomini  compirono  la  traversata  a
    nuoto  e faticosamente risalirono sulla sponda opposta.  Ma non appena
    ebbero posto piede a terra,  con le uniformi da cui l'acqua scorreva a
    ruscelli,  gridarono: "Evviva!",  guardando entusiasticamente il posto
    dove prima stava ritto Napoleone ma dove ormai non  c'era  più,  e  in
    quell'istante si sentirono felici.
    A  sera  Napoleone,  tra  due  ordini    -  l'uno di provvedere il più
    rapidamente  possibile  a  fabbricare  biglietti  di  banca  falsi  da
    introdurre  in Russia e l'altro di fucilare un sassone,  acciuffato in
    possesso di una lettera  contenente  informazioni  sulle  disposizioni
    impartite  all'esercito  francese    -    ne diede un terzo: quello di
    iscrivere il nome del colonnello polacco,  che senza necessità si  era
    gettato nel fiume,  nell'ordine della Legion d'onore, di cui Napoleone
    stesso era il capo.
    "Quos vult perdere, dementat!" (14).


    CAPITOLO 3.

    Frattanto l'imperatore di Russia era a Vilna,  dove da più di un  mese
    assisteva  a riviste e a manovre.  Niente era pronto per la guerra che
    tutti aspettavano e per la cui preparazione l'imperatore era giunto da
    Pietroburgo.  Non  esisteva  un  piano  generale  della  campagna.  Le
    esitazioni  per  la  scelta del piano da adottare tra i vari proposti,
    erano aumentate  dopo  un  mese  dacché  l'imperatore  era  venuto  al
    quartier  generale.  Ciascuno  dei tre eserciti aveva un comandante in
    capo,  ma non c'era  un  generalissimo  che  li  comandasse  tutti,  e
    l'imperatore non voleva assumere quell'incarico.
    Quanto  più  egli stava a Vilna,  tanto meno si pensava a preparare la
    guerra, mentre l'attesa era causa di stanchezza.  Tutte le aspirazioni
    delle  persone che attorniavano l'imperatore sembravano volte soltanto
    a  spingerlo  a  trascorrere  piacevolmente  il  tempo  e   a   fargli
    dimenticare così la guerra imminente.
    Dopo  molti  balli e molte feste nelle case dei magnati polacchi,  dei
    cortigiani e dell'imperatore stesso, nel mese di giugno venne in mente
    a uno degli aiutanti generali polacchi dell'imperatore di offrirgli un
    pranzo seguito da un ballo in onore dei suoi aiutanti generali. L'idea
    fu accolta favorevolmente da tutti.  L'imperatore accettò l'invito,  e
    gli aiutanti generali raccolsero per mezzo di sottoscrizioni il denaro
    occorrente.  La  dama  che  più  delle  altre  poteva  essere  gradita
    all'imperatore fu invitata a far la parte di padrona di casa.
    Il conte Bennigsen,  proprietario terriero della provincia  di  Vilna,
    offrì per quella festa la propria villa in campagna e per il 13 giugno
    furono fissati il ballo, il pranzo, la passeggiata in barca e i fuochi
    d'artificio  precisamente  a  Zachret,  la  villa  suburbana del conte
    Bennigsen.
    Nello stesso giorno in cui  Napoleone  dava  l'ordine  di  passare  il
    Niemen  e  le sue guardie,  respingendo i cosacchi,  attraversavano il
    confine russo,  l'imperatore  Aleksàndr  partecipava  a  quella  festa
    offertagli dai suoi generali aiutanti, trascorrendovi la serata.
    La  festa era allegra,  brillantissima;  gli intenditori ebbero a dire
    che raramente si erano viste tante belle donne riunite  a  una  serata
    danzante. Anche la contessa Bezùchova, venuta con altre dame russe con
    l'imperatore  da  Pietroburgo  a  Vilna,  partecipava  alla  serata ed
    eclissava con la sua prepotente bellezza  quella  più  delicata  delle
    polacche.  Fu  molto  notata  e  l'imperatore  si degnò di invitarla a
    ballare.
    Anche Borìs Drubetzkòj,  "en garcon",  ossia  da  scapolo,  come  egli
    diceva da quando aveva lasciato sua moglie a Mosca,  era presente alle
    feste e,  benché non fosse aiutante generale,  aveva partecipato  alle
    spese versando una somma considerevole. Ricco e ormai avanti sulla via
    degli  onori,  non cercava più protezioni,  ma trattava su un piede di
    parità i più alti in grado tra i suoi coetanei.
    A mezzanotte si ballava ancora. Elen, che non aveva cavalieri degni di
    lei,  invitò ella stessa Borìs per una  mazurca.  Formarono  la  terza
    coppia.  Borìs  guardava  con indifferenza le splendide spalle nude di
    Elen che emergevano dall'abito di  velo  scuro  ricamato  in  oro,  le
    parlava  delle  comuni  conoscenze  di  un  tempo  e  intanto,   senza
    accorgersene e senza che altri se ne accorgesse,  non cessava un  solo
    momento  di  osservare  l'imperatore che si trovava in quella medesima
    sala.  L'imperatore  non  ballava:  stava  ritto  presso  la  porta  e
    rivolgeva  ora  all'uno  ora  all'altro quelle frasi affabili che egli
    solo sapeva dire.
    Al principio della mazurca notò che l'aiutante generale Balascëv (15),
    uno dei personaggi intimi dell'imperatore,  gli si era  avvicinato  e,
    contro  le  regole dell'etichetta di Corte,  si era fermato accanto al
    sovrano che  stava  discorrendo  con  una  signora.  Interrompendo  il
    colloquio,  l'imperatore  lo  guardò  con  aria interrogativa e avendo
    immediatamente intuito che il modo di procedere di Balascëv non poteva
    essere dettato che da un motivo grave,  fece un cenno di  saluto  alla
    signora  e si volse a Balascëv.  Non appena questi ebbe dette le prime
    parole,  il viso del  sovrano  espresse  un  profondo  stupore.  Preso
    sottobraccio il generale,  attraversò con lui la sala, senza notare la
    folla degli invitati che scostandosi  dalle  due  parti  gli  facevano
    largo.  Borìs  notò  anche  l'emozione  sul viso di Arakceev mentre il
    sovrano attraversava la sala  con  Balascëv.  Arakceev,  guardando  di
    sottecchi l'imperatore e soffiando con il naso rosso, uscì dalla folla
    come se si aspettasse di essere interpellato. (Borìs capì che Arakceev
    era  invidioso  di Balascëv e deplorava che una notizia,  senza dubbio
    importantissima, non fosse stata data all'imperatore per suo mezzo).
    Ma Aleksàndr passò con Balascëv senza neppure notare Arakceev e  tutti
    e  due  uscirono  nel  giardino  illuminato.  Arakceev,  con  la  mano
    sull'elsa della sciabola e lanciando attorno a sé  occhiate  piene  di
    collera, li seguì a una ventina di passi di distanza.
    Borìs,  mentre  continuava  a  disegnare le figure della mazurca,  era
    tormentato dal pensiero di sapere  quale  potesse  essere  la  notizia
    portata  da  Balascëv e pensava al modo di riuscire a conoscerla prima
    degli altri.
    Quando,  in una figura,  toccò a lui  scegliere  la  dama,  dopo  aver
    sussurrato  a  Elen di voler invitare la contessa Potòtzkaja uscita in
    quell'istante  sulla  terrazza,  egli,  scivolando  con  i  piedi  sul
    pavimento  di legno,  corse alla porta che si apriva sul giardino,  ma
    scorgendo l'imperatore e Balascëv che risalivano  sulla  terrazza,  si
    fermò.  L'imperatore  e Balascëv si dirigevano verso la porta.  Borìs,
    come  se  non  fosse  riuscito  a  scostarsi  in  tempo,   si  strinse
    rispettosamente contro uno stipite e chinò il capo.
    L'imperatore,  con il viso agitato dell'uomo che è stato personalmente
    offeso, stava dicendo le seguenti parole:
    - Entrare in Russia senza dichiarazione di guerra!  Non vorrò  sentire
    parlare  di  pace sino a quando un solo nemico armato rimarrà in terra
    russa!
    Parve a Borìs che l'imperatore pronunziasse con piacere quelle parole;
    era soddisfatto della forma data al suo pensiero, ma evidentemente gli
    dispiaceva che Borìs lo avesse udito.
    - Che nessuno lo sappia!  -  aggiunse, aggrottando le sopracciglia.
    Borìs comprese che quell'ingiunzione era diretta a  lui  e,  chiudendo
    gli occhi,  chinò leggermente il capo. L'imperatore rientrò nella sala
    dove si trattenne per un'altra mezz'ora.
    Borìs fu così il primo a sapere che le truppe francesi avevano passato
    il Niemen e grazie a ciò ebbe l'occasione di mostrare a  certi  grandi
    personaggi  di  sapere  cose  importanti  ancora  ignote  agli  altri,
    riuscendo in tal modo a ispirare una sempre più alta opinione di sé.
    L'inattesa notizia del passaggio del  Niemen  da  parte  dei  Francesi
    piombò  particolarmente  inaspettata dopo un mese di attesa,  in piena
    festa di ballo. Al primo momento l'imperatore,  turbato e sdegnato nel
    ricevere  tale  notizia,  aveva  trovato  quelle  parole  destinate  a
    divenire celebri e che,  anche a lui  stesso,  erano  piaciute  perché
    esprimevano in pieno i suoi sentimenti.  Alle due di notte,  rientrato
    dal ballo,  mandò a chiamare il suo  segretario  Sciskòv  (16)  e  gli
    ordinò   di   scrivere  il  proclama  alle  truppe  e  il  decreto  al
    feldmaresciallo principe  Saltikòv  (17),  proclama  nel  quale  volle
    assolutamente  che  fossero  incluse  le parole: "Che egli non avrebbe
    voluto sentir parlare di pace sino a  quando  un  solo  nemico  armato
    fosse  rimasto  in  terra  russa".  Il  giorno successivo fu inviata a
    Napoleone la lettera seguente:

    "Monsieur mon frère!  J'ai appris hier  que  malgré  la  loyauté  avec
    laquelle  j'ai  maintenu  mes  engagements  envers Votre Majesté,  ses
    troupes ont franchi les frontières  de  la  Russie,  et  je  recois  à
    l'instant  de  Pétersbourg  une  note par laquelle le comte Lauriston,
    pour cause  de  cette  agression,  annonce  que  Votre  Majesté  s'est
    considérée comme en état de guerre avec moi dès le moment où le prince
    Kourakine a fait la demande de ses passeports. Les motifs sur lesquels
    le  duc  de  Bassano  fondait son refus de les lui livrer,  n'auraient
    jamais pu me faire supposer que cette  démarche  servirait  jamais  de
    prétexte  à  l'agression.  En effet,  cet ambassadeur n'y a jamais été
    autorisé,  comme il l'a déclaré lui-même,  et aussitôt  que  j'en  fus
    informé  je lui ai fait connaître combien je le désapprouvais,  en lui
    donnant l'ordre de rester à son poste.  Si  Votre  Majesté  n'est  pas
    intentionnée de verser le sang de nos peuples pour un malentendu de ce
    genre et qu'elle consent à retirer ses troupes du territoire russe, je
    regarderai  ce  qui s'est passé comme non advenu,  et un accommodement
    entre nous sera possible. Dans le cas contraire, Votre Majesté,  je me
    verrai  forcé  de  repousser  une  attaque que rien na provoquée de ma
    part.  Il dépend encore de Votre Majesté  d'eviter  à  l'humanité  les
    calamités d'une nouvelle guerre.
    "Je suis, etc.
    ( signé) Alexandre".
    [18. "Signor fratello! Ho saputo ieri che, nonostante la lealtà con la
    quale ho tenuto fede ai miei impegni verso la Maestà Vostra, le Vostre
    truppe  hanno varcato le frontiere della Russia,  e proprio ora ricevo
    da Pietroburgo una nota con cui il conte Lauriston (19) mi informa,  a
    proposito di questa aggressione, che Vostra Maestà si è considerata in
    stato  di guerra con me sin dal giorno in cui il principe Kurakin (20)
    ha richiesto i suoi passaporti.  I motivi sui quali il duca di Bassano
    (21) fondava il suo rifiuto a concederglieli, non avrebbero mai potuto
    farmi  supporre  che  questo  passo  sarebbe  mai  servito di pretesto
    all'aggressione. E infatti il mio ambasciatore,  come egli stesso ebbe
    a dichiarare, non fu mai autorizzato a compierlo; non appena io ne fui
    informato, gli ho fatto pervenire la mia disapprovazione, ordinandogli
    di  rimanere  al proprio posto.  Se Vostra Maestà non ha intenzione di
    far versare il sangue dei nostri popoli per un malinteso del genere  e
    acconsente a ritirare le sue truppe dal territorio russo,  considererò
    non avvenuto ciò che è stato,  e sarà possibile un'intesa tra di  noi.
    In caso contrario, Maestà, mi vedrei costretto a respingere un attacco
    che, da parte mia, non è stato in alcun modo provocato. Dipende ancora
    dalla  Maestà  vostra  l'evitare  all'umanità  gli orrori di una nuova
    guerra.  -  Sono, eccetera  -  (firmato) Aleksàndr"].


    CAPITOLO 4.

    Il 13 giugno,  alle due di notte,  l'imperatore fece chiamare Balascëv
    e,  dopo  avergli  letto  la  sua  lettera a Napoleone,  gli ordinò di
    portarla e di  consegnarla  personalmente  al  sovrano  francese.  Nel
    congedarsi  da  Balascëv,  l'imperatore  Aleksàndr gli ripeté di nuovo
    "che non avrebbe voluto sentir parlare di pace sino a quando  un  solo
    nemico armato fosse rimasto in terra russa",  e gli ordinò di riferire
    esattamente quelle parole a Napoleone.  Non le  aveva  inserite  nella
    lettera perché si rendeva conto, con il suo tatto, che esse erano fuor
    di  luogo  in  un  messaggio  nel  momento in cui si faceva un estremo
    tentativo per mantener la pace;  ma nel modo  più  assoluto  ordinò  a
    Balascëv  di riferirle di persona all'imperatore.  Partito nella notte
    dal 13 al 14 giugno,  Balascëv,  accompagnato da un trombettiere e  da
    due cosacchi,  giunse sul far dell'alba al villaggio di Rikonty,  dove
    erano gli avamposti francesi,  di qua dal  Niemen.  Fu  fermato  dalle
    sentinelle della cavalleria francese.  Un sottufficiale francese degli
    ussari,  in uniforme color  cremisi  e  berretto  di  pelo,  intimò  a
    Balascëv,  che  si  avvicinava,  di  fermarsi.  Balascëv  non si fermò
    subito,   ma  continuò  ad  avanzare  al  passo.   Il   sottufficiale,
    accigliandosi  e  brontolando un'ingiuria,  si spinse con il petto del
    suo cavallo contro Balascëv,  impugnò la sciabola e  investì  in  modo
    grossolano il generale russo,  chiedendogli se fosse sordo giacché non
    udiva  ciò  che  gli  veniva  detto.   Balascëv  declinò  le   proprie
    generalità. Il sottufficiale mandò un soldato a informare l'ufficiale.
    Senza  più  badare a Balascëv,  il sottufficiale prese a parlare con i
    compagni di cose riguardanti il suo  reggimento,  e  non  guardava  il
    generale  russo.  A Balascëv,  data la sua vicinanza all'autorità e al
    potere supremo,  dopo il colloquio di tre ore prima con l'imperatore e
    abituato com'era, dal suo grado e dalla sua posizione, agli onori e al
    rispetto,  pareva  strano  e  insolito  trovare  ora,  in terra russa,
    quell'atteggiamento ostile e soprattutto  irriverente  e  brutale  nei
    suoi riguardi.
    Il  sole  cominciava appena a fare capolino tra le nuvole;  l'aria era
    fresca e umida di rugiada.  Lungo la strada del villaggio una  mandria
    era avviata al pascolo.  Dai campi,  una dopo l'altra,  come bollicine
    d'aria sull'acqua, si alzavano stridendo le allodole.
    Balascëv  si  guardava  attorno,   mentre  aspettava  che  l'ufficiale
    arrivasse  dal  villaggio.  I  cosacchi,  il trombettiere e gli ussari
    francesi si scambiavano di tanto in tanto un'occhiata, senza parlare.
    Un colonnello degli ussari francesi,  che evidentemente  aveva  appena
    lasciato  il  letto,  uscì  dal villaggio su un bel cavallo grigio ben
    pasciuto,  accompagnato da due uomini.  Dall'ufficiale,  dai soldati e
    dalle loro cavalcature spirava un'aria di elegante disinvoltura.
    Si  era  in  quel  primo  periodo della guerra,  quando le truppe sono
    ancora nell'ordine normale,  proprio di quello delle riviste  e  della
    loro  attività  del  tempo  di  pace,  con  una  sfumatura,  però,  di
    quell'eleganza  bellicosa  nell'uniforme  e  di   gaiezza   e   quella
    spavalderia che sempre caratterizzano l'inizio di una campagna.
    Il  colonnello  francese  faceva  sforzi  per non sbadigliare,  ma era
    cortese, comprendendo evidentemente tutta l'importanza di Balascëv. Lo
    guidò lungo le file dei suoi  soldati  oltre  le  prime  linee  e  gli
    comunicò  che  il  suo  desiderio  di  essere  condotto  alla presenza
    dell'imperatore  sarebbe  probabilmente  stato   soddisfatto   subito,
    giacché,  per  quanto  egli ne sapeva,  il quartiere imperiale non era
    lontano.
    Attraversarono il villaggio di Rikonty,  passarono davanti ai pali per
    attaccare  i  cavalli,  davanti  alle  sentinelle  e  ai  soldati  che
    salutavano militarmente il  loro  comandante  e  che  osservavano  con
    curiosità  le  uniformi  russe;  poi  uscirono dalla parte opposta del
    paese.  Secondo quanto diceva il colonnello a due chilometri da lì  si
    trovava  il comandante della divisione che avrebbe ricevuto Balascëv e
    lo avrebbe condotto a destinazione.
    Il sole si era ormai levato e splendeva allegramente sul vivido  verde
    dei campi.
    Non appena ebbero oltrepassato un'osteria sulla collina,  ai piedi del
    pendio apparve un drappello di cavalieri che veniva loro incontro e in
    testa al quale,  su di un cavallo nero con i finimenti  luccicanti  al
    sole,  si vedeva un uomo di alta statura,  con un cappello piumato, la
    chioma nera e  inanellata  che  gli  giungeva  sino  alle  spalle,  un
    mantello rosso e le lunghe gambe tese in avanti,  come usano cavalcare
    i Francesi. Costui avanzò al galoppo verso Balascëv, con le piume,  le
    gemme e i galloni d'oro di cui era adorno scintillanti al radioso sole
    di giugno.
    Balascëv  si  trovava  ormai  a  due  sole  lunghezze  di  cavallo dal
    cavaliere che veniva verso di lui con un viso solenne e teatrale con i
    suoi braccialetti,  i suoi pennacchi,  la sua collana e  i  suoi  ori,
    quando Ulner, il colonnello francese, mormorò con rispetto: "Le roi de
    Naples!" [22.  Il re di Napoli!]. Era infatti Murat, che allora veniva
    chiamato "re di Napoli".  Sebbene non si potesse assolutamente  capire
    perché  fosse re di Napoli,  veniva chiamato così e ne era egli stesso
    convinto; perciò assumeva un'aria più solenne e più imponente che mai.
    Era talmente convinto di essere effettivamente il re di Napoli che  il
    giorno antecedente a quello in cui era partito da quella città, mentre
    passeggiava  con  la  moglie  per  le  vie  partenopee,  avendo alcuni
    italiani gridato: "Viva il re!", egli si era voltato verso la moglie e
    con un sorriso triste le aveva detto: "Les malheureux,  ils ne  savent
    pas que je les quitte demain!" [23. Poveretti, non sanno che domani li
    lascio!].
    Ma,  nonostante  fosse fermamente convinto di essere il re di Napoli e
    si dolesse per la tristezza dei sudditi che lasciava, in quegli ultimi
    tempi,   dopo  aver  ricevuto  l'ordine  di  rientrare   in   servizio
    nell'esercito  francese  e  specialmente  dopo  il  colloquio  avuto a
    Danzica con Napoleone,  dove il suo augusto cognato gli  aveva  detto:
    "Je  vous  ai fait roi pour régner à ma manière,  mais pas à la vôtre"
    [24.  Vi ho fatto re perché regniate a modo mio e non a modo  vostro],
    si era messo lietamente al lavoro.  Come un cavallo ben nutrito ma non
    troppo grasso che, fiutando l'allenamento, gioca tra le stanghe, egli,
    indossando abiti variopinti e costosi, se ne andava galoppando,  senza
    sapere né dove né perché, per le strade della Polonia.
    Non  appena  ebbe  visto il generale russo,  con un movimento regale e
    solenne, gettò indietro la testa dai lunghi capelli ricciuti e rivolse
    al  colonnello  francese  uno  sguardo  interrogativo.  Il  colonnello
    informò rispettosamente sua maestà dei titoli di Balascëv,  di cui non
    riusciva a pronunciare il cognome.
    - De Bal-Machève!  -  disse il re,  sfidando con la solita risolutezza
    la  difficoltà  con la quale lottava il colonnello.   "Charmé de faire
    votre  connaissance,   général"  [25.   Molto  lieto  di   conoscervi,
    generale!]   -  aggiunse con un gesto graziosamente regale.  Appena si
    mise a parlare a voce alta e frettolosa,  tutta la regale  dignità  lo
    abbandonò  di  colpo  ed egli,  senza rendersene conto,  passò al tono
    bonario e familiare che gli era proprio. Portò una mano sul ciuffo del
    cavallo di Balascëv.
    - "Eh bien, général, tout à la guerre, à ce qu'il paraît" [26. Ebbene,
    generale,  tutto per la guerra,  a quanto pare!]  -   disse,  come  se
    deplorasse circostanze delle quali non poteva essere giudice.
    - "Sire,  l'empereur mon maître ne désire point la guerre, comme Votre
    Majesté le voit" [27.  Sire,  l'imperatore mio sovrano non desidera la
    guerra,  come Vostra Maestà può vedere]  -  disse Balascëv, adoperando
    quel termine di "majesté" con l'affettazione inevitabile  nell'uso  di
    un titolo, quando ci si rivolge a una persona per la quale quel titolo
    è ancora una novità.
    Il  viso  di  Murat  era  raggiante  di  ridicola soddisfazione mentre
    ascoltava "monsieur de Balachoff", ma poiché "royauté oblige" [28.  la
    regalità  ha  i  suoi  obblighi],  egli  sentì la necessità di parlare
    dell'ambasciatore del sovrano russo, degli affari di stato, in qualità
    di re e di alleato. Scese da cavallo e, preso a braccetto Balascëv, si
    allontanò di qualche passo dal séguito che aspettava rispettosamente e
    cominciò a camminare  con  lui  in  lungo  e  in  largo,  cercando  di
    esprimersi   con   significativa   gravità.   Ricordò   il  fatto  che
    l'imperatore Napoleone era rimasto offeso dall'intimazione di ritirare
    le sue truppe dalla Prussia,  soprattutto quando tale intimazione  era
    divenuta  nota  a  tutti  e  perciò tale da offendere la dignità della
    Francia.  Balascëv rispose che in quell'esigenza non vi era  nulla  di
    offensivo, giacché...
    Murat lo interruppe:
    -  Cosicché  voi  ritenete  che  il  provocatore  non sia l'imperatore
    Aleksàndr?   -  disse inaspettatamente,  con un  sorriso  bonariamente
    sciocco.
    Balascëv  spiegò perché egli pensasse che a cominciare la guerra fosse
    stato invece Napoleone.
    - "Eh,  mon cher général",   -  lo interruppe di nuovo Murat  -    "je
    désire  de tout mon coeur que les empereurs s'arrangent entre eux,  et
    que la guerre commencée malgré moi se termine le plutôt possible" [29.
    Eh, mio caro generale, io desidero con tutto il cuore che i due impera
    tori si mettano d'accordo e che  la  guerra  cominciata  mio  malgrado
    finisca  il  più presto possibile]  -  interruppe nuovamente Murat con
    il tono dei domestici che vogliono rimanere buoni amici  nonostante  i
    litigi dei loro padroni.  E passò a informarsi del granduca, della sua
    salute e a ricordare il tempo che aveva trascorso allegramente con lui
    a Napoli. Poi,  come rammentando a un tratto la propria dignità di re,
    Murat  si  raddrizzò,  solenne,  prese la posa che aveva avuto durante
    l'incoronazione e, agitando la destra, disse gravemente:-  "Je ne vous
    retiens plus,  général;  je souhaite le succès de votre mission"  [30.
    Non  vi  trattengo  oltre,   generale;  auguro  successo  alla  vostra
    missione]  -  e,  facendo ondeggiare il rosso mantello gallonato d'oro
    e le piume in uno scintillio di pietre preziose, andò a raggiungere il
    suo séguito che rispettosamente lo attendeva.
    Balascëv proseguì,  supponendo, secondo ciò che Murat gli aveva detto,
    di poter essere subito  introdotto  alla  presenza  di  Napoleone.  Ma
    anziché un pronto incontro con l'imperatore,  al prossimo villaggio fu
    ancora fermato dalle sentinelle del corpo di fanteria di Davoust (31),
    come già gli era accaduto in prima linea, e un aiutante del comandante
    del corpo,  mandato a chiamare,  lo  accompagnò  nel  villaggio,  alla
    presenza del maresciallo Davoust.
    Davoust  era  l'Arakceev  dell'imperatore  Napoleone,  un Arakceev non
    vile,  ma altrettanto diligente,  crudele e incapace di manifestare la
    propria devozione se non con la crudeltà.
    Nel  meccanismo  dello  stato simili uomini sono necessari,  come sono
    necessari i lupi nell'organismo della natura;  essi ci sono  sempre  e
    sempre  si manifestano e sussistono,  per quanto la loro presenza e la
    loro vicinanza al capo dello  stato  possano  apparire  assurde.  Solo
    questa  necessità  può  spiegare  come  Arakceev,  crudele al punto di
    strappare con le proprie mani i baffi ai granatieri  e  incapace,  per
    debolezza  di  nervi,  di  rimanere  esposto al pericolo,  ignorante e
    volgare,  potesse avere tanto ascendente su Aleksàndr,  dal  carattere
    mite e cavallerescamente nobile.
    Balascëv  trovò  il maresciallo Davoust nella rimessa di una "izbà" di
    contadini, seduto sopra una botte, intento a verificare dei conti.  Un
    aiutante  di  campo  gli  stava vicino.  Sarebbe certo stato possibile
    procurare al maresciallo un'abitazione migliore, ma Davoust era uno di
    quegli uomini che a bella posta si mettono nelle più  dure  condizioni
    di  vita  per avere il diritto di essere tetri.  Per la stessa ragione
    hanno sempre ostinatamente  fretta.  "Come  si  può  pensare  al  lato
    piacevole  dell'esistenza quando,  lo vedete,  io sto qui seduto sopra
    una botte in una sudicia rimessa a  lavorare?",  diceva  l'espressione
    del suo volto.  Il più grande piacere e la maggiore esigenza di uomini
    simili,  quando si imbattono nell'animazione della vita,  consiste nel
    gettare in faccia a tale animazione la loro cupa, ostinata attività. E
    tale  piacere  si procurò Davoust quando Balascëv fu condotto alla sua
    presenza.  Allorché il generale entrò,  si sprofondò più  intensamente
    nel suo lavoro e, lanciato al di sopra degli occhiali uno sguardo alla
    faccia  di  Balascëv  che  appariva  animato  per  effetto del mattino
    radioso e della conversazione con Murat,  non si alzò,  non  si  mosse
    neppure,  ma  aggrottò  ancora  di  più le sopracciglia,  e un sorriso
    cattivo sfiorò le sue labbra.
    Avendo poi  notato  sul  viso  di  Balascëv  l'impressione  spiacevole
    prodotta  dalla  sua  accoglienza,  Davoust alzò il capo e gli domandò
    freddamente che cosa volesse.
    Balascëv,  supponendo che tale accoglienza fosse  dovuta  soltanto  al
    fatto  che  Davoust  ignorava  che  egli  fosse  un  generale aiutante
    dell'imperatore  di  Russia  e  persino  suo   rappresentante   presso
    Napoleone, si affrettò a informarlo del proprio grado e della missione
    che  lo aveva condotto lì.  Ma,  contrariamente a quanto si aspettava,
    Davoust, dopo aver ascoltato le sue parole,  divenne ancora più rude e
    più severo.
    -  Dov'è  il  vostro  plico?    -    domandò.   -  "Donnez-le-moi,  je
    l'enverrai à l'empereur" [32. Datemelo, lo manderò all'imperatore].
    Balascëv rispose che aveva ordine  di  consegnarlo  all'imperatore  in
    persona.
    -  Gli  ordini  del  vostro  imperatore  vengono  eseguiti  nel vostro
    esercito, ma qui dovete fare ciò che vi si dice  -  ribatté Davoust.
    E,  come per far sentire ancora di più al generale russo la  brutalità
    della  forza  cui  doveva  sottomettersi,  Davoust mandò l'aiutante di
    campo a chiamare l'ufficiale di servizio.
    Balascëv estrasse il plico che conteneva la lettera del suo sovrano  e
    lo  posò  sulla  tavola  (che  consisteva nel battente di un uscio dal
    quale spuntavano ancora i cardini spezzati,  posto orizzontalmente  su
    due botti ). Davoust prese il plico e lesse l'indirizzo.
    -  Voi  avete  perfettamente  diritto  di  mostrarmi  o  non mostrarmi
    rispetto,   -  disse Balascëv  -  ma permettetemi di  farvi  osservare
    che  ho  l'onore  di  portare  il  titolo  di generale-aiutante di sua
    maestà.
    Davoust guardò in silenzio il generale russo,  e il turbamento  e  una
    certa   agitazione   che  erano  apparsi  sul  viso  di  Balascëv  gli
    procurarono un evidente piacere.
    - Vi sarà reso ciò che vi è dovuto  -  rispose e,  messosi in tasca il
    plico, uscì dalla rimessa.
    Un  momento  dopo,  l'aiutante  di  campo  del maresciallo,  signor de
    Castres, ritornò e accompagnò Balascëv nell'alloggio che gli era stato
    preparato.
    Quel giorno Balascëv pranzò con il maresciallo nella rimessa,  su quel
    battente di uscio poggiato su due botti.
    Il  giorno  seguente  Davoust partì di buon mattino e,  fatto chiamare
    Balascëv,  lo invitò con fare autorevole a rimanere in quel villaggio,
    ad avanzare con i bagagli se questi fossero stati gli ordini,  e a non
    parlare con nessuno se non con il signor de Castres.
    Dopo quattro giorni di noiosa solitudine,  con la consapevolezza della
    propria  condizione  di  subordinazione e di nullità,  particolarmente
    sentita per il fatto di essersi  trovato,  poco  tempo  prima,  in  un
    ambiente  autorevole  e  potente,  dopo  aver fatto alcune marce con i
    bagagli del maresciallo e con le truppe francesi che stavano occupando
    le località, Balascëv fu condotto a Vilna,  ora occupata dai Francesi,
    passando  per  la  stessa  porta  dalla  quale era uscito pochi giorni
    prima.
    Il giorno successivo,  un ciambellano  dell'imperatore,  "monsieur  de
    Turenne",   si  presentò  a  Balascëv  e  gli  trasmise  il  desiderio
    dell'imperatore Napoleone di concedergli un'udienza.
    Quattro giorni innanzi,  sulla soglia di quella stessa casa in cui  fu
    condotto  Balascëv,  stavano  di  guardia le sentinelle del reggimento
    Preobrazenskij;  ora le sostituivano due granatieri francesi in divisa
    turchina  sbottonata  sul  petto e in berretto di pelo;  una scorta di
    ussari e di ulani e il brillante séguito degli aiutanti,  dei paggi  e
    dei  generali,  in  attesa  dell'uscita  di  Napoleone,  erano riuniti
    davanti allo scalone,  attorno al  suo  cavallo  da  sella  e  al  suo
    mamelucco Rustàn (33).
    Napoleone  ricevette  Balascëv  in  quella  stessa casa di Vilna dalla
    quale Aleksàndr lo aveva fatto partire.


    CAPITOLO 6.

    Benché assuefatto alla solennità di una Corte, Balascëv fu colpito dal
    fasto lussuoso di quella di Napoleone.
    Il conte di Turenne lo introdusse nel grande salone  dei  ricevimenti,
    dove erano in attesa generali,  ciambellani e magnati polacchi,  molti
    dei quali Balascëv aveva già  veduto  alla  corte  dell'imperatore  di
    Russia.  Duroc (34) informò che Napoleone avrebbe ricevuto il generale
    russo prima della passeggiata.
    Dopo alcuni minuti il ciambellano di servizio entrò nella grande  sala
    d'attesa  e,   inchinandosi  cortesemente  a  Balascëv,  lo  invitò  a
    seguirlo.
    Balascëv entrò in una piccola anticamera,  un uscio della  quale  dava
    nello  studio,  quello  stesso  studio  in cui egli si era accomiatato
    dall'imperatore russo.  Balascëv rimase un paio di minuti in piedi  in
    attesa. Dietro l'uscio si udirono dei passi frettolosi, la porta a due
    battenti  fu  spalancata,  si  fece  un  gran  silenzio e dallo studio
    provenne il rumore di altri passi,  fermi  e  decisi.  Era  Napoleone.
    Aveva  finito allora di vestirsi per la consueta cavalcata.  Indossava
    una divisa turchina,  aperta su un panciotto bianco che  scendeva  sul
    ventre  sporgente;  un  paio  di calzoni bianchi,  aderenti alle cosce
    grasse delle gambe corte, infilati in alti stivaloni.  Si vedeva che i
    capelli corti e lisci erano stati pettinati da poco, ma una ciocca gli
    scendeva  nel mezzo dell'ampia fronte.  La bianchezza del collo grasso
    spiccava al di sopra del colletto nero della giubba; un odore di acqua
    di colonia emanava dalla persona dell'imperatore.  Il suo viso tondo e
    giovanile, dal mento sporgente, aveva l'espressione di una benevolenza
    cortese, imperialmente maestosa.
    Entrò, sobbalzando nervosamente a ogni passo, con la testa leggermente
    piegata all'indietro. Tutta la sua persona corta e obesa, dalle spalle
    larghe  e  grosse,  il  petto e il ventre involontariamente protesi in
    avanti,  aveva quell'aria di importanza che  caratterizza  gli  uomini
    sulla quarantina,  vissuti sempre nell'agiatezza.  Si capiva, inoltre,
    che quel giorno l'imperatore era di ottimo umore.
    Fece  un  cenno  con  il  capo  in  risposta  all'inchino  profondo  e
    rispettoso di Balascëv e,  avvicinatosi a lui, prese subito a parlare,
    da uomo che considera ogni minuto prezioso  e  che  non  si  degna  di
    preparare i suoi discorsi, convinto com'è che dirà sempre bene ciò che
    deve dire.
    -  Buon  giorno,  generale!    -  esclamò.   -  Ho ricevuto la lettera
    dell'imperatore Aleksàndr, che mi avete portata, e sono felicissimo di
    vedervi.
    Fissò i suoi grandi occhi in viso a Balascëv, ma subito il suo sguardo
    passò oltre quel viso.  Si capiva che  Napoleone  non  si  interessava
    affatto  della persona del generale che gli stava davanti;  era chiaro
    che per lui aveva importanza  soltanto  ciò  che  avveniva  nella  sua
    anima.  Tutto  quanto  era  al  di fuori di lui non aveva significato,
    giacché gli pareva che tutto,  al mondo,  dipendesse unicamente  dalla
    sua volontà.
    -  Io non desidero e non ho mai desiderato la guerra,   -  disse ma vi
    sono stato costretto. Anche adesso  -  (e accentuò la parola)  -  sono
    pronto ad ascoltare tutte le spiegazioni che potrete darmi.   -  E con
    concisa  chiarezza  cominciò  a  esporre  le cause del suo malcontento
    contro il governo russo.
    A giudicare dal tono calmo, misurato e amichevole con cui l'imperatore
    parlava, Balascëv si sentì fermamente convinto che egli desiderasse la
    pace e avesse intenzione di iniziare trattative.
    - "Sire!  L'empereur,  mon  maître..."  [35.  Sire,  l'imperatore  mio
    signore...]    -    L'ambasciatore  russo  cominciò  il  discorso  già
    preparato da un pezzo,  quando Napoleone,  finito che ebbe di parlare,
    gli rivolse uno sguardo interrogativo;  ma lo sguardo dell'imperatore,
    fisso su di lui, lo turbò.  "Siete confuso,  cercate di riprendervi!",
    sembrava dire Napoleone,  guardando con un sorriso appena percettibile
    l'uniforme e la sciabola di Balascëv.  Questi si riebbe  e  riprese  a
    parlare.  Disse  che l'imperatore Aleksàndr non giudicava sufficiente,
    come causa di guerra, la richiesta dei passaporti avanzata da Kurakin,
    che Kurakin aveva agito di propria  iniziativa  e  senza  il  consenso
    dell'imperatore, che l'imperatore Aleksàndr non desiderava la guerra e
    che non esistevano intese con l'Inghilterra.
    - Non ne esistono ancora  -  ribatté Napoleone, inserendo la frase nel
    discorso  di  Balascëv  e,  come  se  temesse  di  abbandonarsi al suo
    sentimento,  si accigliò e chinò leggermente  il  capo,  facendo  così
    capire a Balascëv che poteva continuare.
    Dopo  aver  detto  tutto  ciò  che  gli  era stato ordinato,  Balascëv
    aggiunse che l'imperatore Aleksàndr desiderava la  pace,  ma  che  non
    avrebbe iniziato trattative se non a condizione che...  A questo punto
    Balascëv si ricordò delle parole che  il  sovrano  non  aveva  scritto
    nella  lettera ma che voleva fossero inserite nel rescritto a Saltikòv
    e che gli aveva ingiunto di riferire a Napoleone.  Balascëv ricordò le
    parole  precise:  "Sino  a  che un solo nemico armato fosse rimasto in
    terra russa",  ma un sentimento complesso lo trattenne dal  ripeterle.
    Non riuscì a pronunziarle,  sebbene lo desiderasse. Tacque un momento,
    esitante,  e poi disse : "A  condizione  che  le  truppe  francesi  si
    ritirino al di là del Niemen".
    Napoleone  notò il turbamento di Balascëv mentre pronunziava le ultime
    parole; il suo viso ebbe un sussulto, il polpaccio sinistro cominciò a
    tremare.  Senza muoversi dal suo posto e con  voce  più  ferma  e  più
    rapida di prima,  riprese a parlare.  Mentre Balascëv,  abbassando gli
    occhi a parecchie riprese,  osservò involontariamente il  tremito  del
    polpaccio sinistro di Napoleone, che si faceva più forte a mano a mano
    che egli alzava la voce.
    -  Io desidero la pace non meno dell'imperatore Aleksàndr  -  cominciò
    Napoleone.  -  Non faccio, forse, da diciotto mesi, tutto il possibile
    per ottenerla?  Da diciotto mesi aspetto una spiegazione: ma che  cosa
    si  pretende  da  me  per  iniziare  le  trattative?    -    aggiunse,
    aggrottando le sopracciglia e facendo un gesto energico con la piccola
    mano bianca e grassoccia.
    - Il ritiro delle vostre truppe oltre il Niemen,  sire    -    rispose
    Balascëv.
    - Oltre il Niemen?   -  ripeté Napoleone.   -  Cosicché ora volete che
    ci si ritiri al di là del Niemen,  solo al di là del  Niemen?-  ripeté
    Napoleone guardando Balascëv diritto negli occhi.
    Balascëv chinò rispettosamente il capo, affermando.
    Anziché  chiedere,  come  quattro  mesi prima,  il ritiro delle truppe
    dalla Pomerania,  ora si esigeva soltanto il ritiro di esse  oltre  il
    Niemen.  Napoleone  si  girò  di  scatto  e si mise a camminare per la
    stanza.
    - Voi dite che mi si chiede,  per iniziare le  trattative,  il  ritiro
    delle  mie truppe al di là del Niemen;  ma due mesi or sono si esigeva
    che mi ritirassi oltre l'Oder e la  Vistola  e,  ciò  nonostante,  voi
    acconsentite ora a intavolare trattative!
    In  silenzio egli camminò da un angolo all'altro della stanza e poi si
    fermò di nuovo davanti a Balascëv.  Il suo viso pareva pietrificato in
    un'espressione  severa,  e  la sua gamba sinistra tremava più forte di
    prima.  Napoleone conosceva quel tremito del suo  polpaccio  sinistro.
    "La  vibration  de mon mollet gauche est un grand signe chez moi" [36.
    Il tremito del mio polpaccio sinistro è in me un sintomo serio],  ebbe
    a dire più tardi.
    -  Una  proposta  come  quella  di abbandonare l'Oder e la Vistola può
    essere fatta al principe di Baden,  non a me  -  disse Napoleone quasi
    gridando  in  modo  a  lui  stesso  inatteso.    -   Se anche mi deste
    Pietroburgo o Mosca,  non accetterei queste condizioni.  E dite che la
    guerra  l'ho cominciata io?  Ma chi per primo ha raggiunto l'esercito?
    L'imperatore Aleksàndr, non io.  E ora mi proponete di negoziare,  ora
    che ho speso milioni,  ora che vi siete alleati con l'Inghilterra e vi
    trovate in condizioni sfavorevoli! Mi proponete di negoziare!  Ma qual
    è  lo  scopo  della vostra alleanza con l'Inghilterra?  Che cosa vi ha
    dato?  -  diceva rapidamente,  parlando in modo da non porre ormai più
    in evidenza i vantaggi della conclusione della pace né da discutere la
    possibilità, ma soltanto per dimostrare il proprio diritto, la propria
    potenza, il torto e gli errori di Aleksàndr.
    L'esordio  del  suo discorso aveva evidentemente avuto lo scopo di far
    notare la  superiorità  della  sua  posizione  e  di  far  vedere  che
    accettava  tuttavia che si iniziassero le trattative.  Ma ormai si era
    messo a parlare e,  quanto più parlava,  tanto meno era  in  grado  di
    controllare le proprie parole.
    Ora  l'unico  scopo  di ciò che diceva era,  evidentemente,  quello di
    esaltare se stesso e di umiliare Aleksàndr, di fare, insomma,  ciò che
    all'inizio del colloquio non avrebbe voluto fare.
    - Si dice che abbiate concluso la pace con i Turchi...
    Balascëv chinò il capo in segno di conferma.
    - La pace è conclusa... (37)  -  cominciò.
    Ma Napoleone non lo lasciò continuare.  Si capiva che aveva bisogno di
    parlare lui,  lui solo,  e continuò con quell'eloquenza e  con  quella
    incapacità  a frenare la propria irritazione,  a cui sono così inclini
    gli uomini favoriti dalla sorte.
    - Sì,  lo so: avete concluso la pace con i Turchi senza aver  ottenuto
    la Moldavia e la Valacchia.  Ma io avrei dato al vostro sovrano queste
    province,  così come gli ho dato la Finlandia.  Sì,-     proseguì    -
    l'avevo promesso,  e avrei dato all'imperatore Aleksàndr la Moldavia e
    la Valacchia,  ma ora egli non avrà più queste belle province.  Eppure
    avrebbe  potuto  annetterle  al proprio impero e,  nel tempo di un sol
    regno, avrebbe ingrandito la Russia dal golfo di Botnia sino alle foci
    del Danubio.  La grande Caterina non avrebbe potuto  fare  di  più!  -
    continuava Napoleone,  sempre più accalorandosi,  andando su e giù per
    la camera e ripetendo a Balascëv quasi le medesime  parole  che  aveva
    detto  ad  Aleksàndr  a  Tilsit.    -  "Tout cela il l'aurait dû à mon
    amitié.  Ah,  quel beau  règne,  quel  beau  règne!"  [38.  Tutto  ciò
    l'avrebbe dovuto alla mia amicizia. Ah, che bel regno! Che bel regno!]
    -    ripeté  parecchie  volte;  poi  si  fermò,  trasse dalla tasca la
    tabacchiera d'oro e avidamente respirò il tabacco con il naso.
    - "Quel beau règne aurail pu être celui de l'empereur Alexandre!" [39.
    Che magnifico regno poteva essere quello dell'imperatore Aleksàndr!].
    Guardò con aria di compassione Balascëv ma,  non appena  questi  volle
    osservare qualche cosa, si affrettò a troncargli la parola.
    -  Che  cosa  mai  può  desiderare o ricercare che non avrebbe trovato
    nella mia amicizia?  -  chiese Napoleone, stringendosi perplesso nelle
    spalle.   -  Ma egli ha preferito circondarsi dei miei  nemici,  e  di
    chi,  poi?  Ha  chiamato presso di sé uomini come Stein (40),  Armfeld
    (41), Bennigsen,  Wintzingerode.  Stein,  un traditore scacciato dalla
    sua  patria;  Armfeld,  un  intrigante  libertino;  Wintzingerode,  un
    suddito francese fuggito dalla sua terra;  Bennigsen,  un po' più uomo
    di  guerra  degli altri,  tuttavia un incapace che non seppe far nulla
    nel  1807  e  che  dovrebbe  rievocare  nella  mente   dell'imperatore
    Aleksàndr dei terribili ricordi...  Se, poniamo, fossero almeno capaci
    di fare  qualcosa,  si  sarebbero  potuti  utilizzare    -    proseguì
    Napoleone,  seguendo a stento, con le parole, le considerazioni che si
    affacciavano senza posa  nel  suo  cervello  e  che  gli  servivano  a
    dimostrare  il  proprio diritto e la propria potenza (due cose che per
    lui erano identiche).   -  Ma no: costoro non possono servire a nulla,
    né  per  la  guerra  né per la pace.  Si dice che Barclay (42) sia più
    abile degli altri, ma,  se devo giudicarlo dai suoi primi atti,  direi
    proprio  di  no.  Ma  che  cosa  fanno,  che  cosa  fanno  tutti  quei
    cortigiani? Pfuhl (43) propone,  Armfeld discute,  Bennigsen giudica e
    Barclay, chiamato ad agire, non sa che cosa decidere; intanto il tempo
    passa.  Il solo Bagratiòn è un soldato.  E' stupido, ma ha esperienza,
    perspicacia,  risolutezza...  E quale parte sostiene il vostro giovane
    imperatore in mezzo a questa folla di nullità?  Tutti lo compromettono
    e attribuiscono a lui la responsabilità  di  quello  che  accade.  "Un
    souverain  ne  doit  être à l'armée que quand il est général" [44.  Un
    sovrano deve stare con l'esercito soltanto quando sa fare il generale]
    -    concluse,  considerando  queste  ultime  parole  come  una  sfida
    all'imperatore.  Napoleone  sapeva  quanto  questi  desiderasse essere
    considerato un gran condottiero.   -  Già da una settimana la campagna
    è cominciata,  e voi non avete saputo difendere Vilna.  Siete tagliati
    in due  e  scacciati  dalle  province  polacche.  Il  vostro  esercito
    mormora...
    -  Al  contrario,  maestà  -  obiettò Balascëv che a stento riusciva a
    ricordare ciò che gli veniva detto e a fatica seguiva quel diluvio  di
    parole.    -    Al  contrario,  le  truppe  ardono  dal  desiderio  di
    combattere...
    - So tutto,   -  lo interruppe Napoleone  -  so tutto,  e  conosco  il
    numero  dei  vostri  battaglioni  con  l'esattezza  con cui conosco il
    numero dei miei.  Voi avete meno di duecentomila uomini e io ne ho tre
    volte  tanti;  vi  do  "ma  parole d'honneur que j'ai cinq cent trente
    mille hommes de ce côté de la Vistule" [45.  La mia parola d'onore che
    ho cinquecentotrentamila uomini al di qua della Vistola]. I Turchi non
    vi  sono di aiuto: non valgono nulla,  e l'hanno dimostrato facendo la
    pace con voi. Gli Svedesi...  be',  è loro destino essere governati da
    sovrani pazzi. Il loro re era pazzo; l'hanno cambiato e ne hanno preso
    un altro,  Bernadotte (46), il quale è uscito subito di senno, giacché
    soltanto un pazzo può, essendo svedese,  concludere un'alleanza con la
    Russia!
    Napoleone  sorrise  malignamente  e  portò  di nuovo la tabacchiera al
    naso.
    A ogni frase di Napoleone, Balascëv avrebbe voluto e saputo ribattere;
    faceva continuamente il  gesto  di  chi  desidera  dire  qualcosa,  ma
    l'imperatore  gli impediva di aprir bocca.  Alla pazzia degli Svedesi,
    Balascëv voleva dire che la  Svezia  diventa  un'isola  quando  ha  la
    Russia  alle  spalle,  ma Napoleone gridava irritato per soffocarne la
    voce.  Egli si trovava in quello stato d'eccitazione nel quale  si  ha
    bisogno  di  parlare,  con l'unico scopo di dimostrare di essere dalla
    parte della ragione.  La condizione di Balascëv cominciava a diventare
    penosa: come ambasciatore,  temeva di perdere la sua dignità e sentiva
    la necessità di fare delle obiezioni ma, come uomo,  cedeva moralmente
    a  quell'ondata  di  collera  che  pur non aveva alcuna ragione.  Egli
    sapeva che  tutte  le  parole  dette  ora  da  Napoleone  non  avevano
    importanza  e  che Napoleone stesso se ne sarebbe vergognato quando si
    fosse riavuto. Ritto, con gli occhi bassi, guardava le grosse gambe in
    moto di Napoleone, del quale cercava di evitare lo sguardo.
    - Ma cosa m'importa di questi vostri alleati? Anch'io ne ho  -  diceva
    Napoleone.  -  Sono i Polacchi: ottantamila uomini che si battono come
    leoni e che diventeranno duecentomila.
    E probabilmente ancora più irritato per il fatto  di  aver  detto  una
    menzogna  tanto  evidente e di vedere Balascëv rassegnato alla propria
    sorte,  muto e immobile,  egli si girò bruscamente  su  se  stesso  e,
    facendo  un  rapido  ed  energico gesto con la sua mano bianca,  quasi
    gridò:
    - Sappiate  che  se  trascinerete  la  Russia  contro  di  me,  io  la
    cancellerò  dalla carta d'Europa.  Sappiatelo!   -  ripeté con il viso
    pallido,  stravolto dalla collera e battendo  con  gesto  energico  la
    piccola mano una contro l'altra.  -  Sì, vi respingerò oltre la Dvina,
    oltre  il  Dnieper  e ristabilirò contro di voi quella barriera di cui
    l'Europa permise la distruzione, dando prova di una delittuosa cecità!
    Sì,  ecco quello che vi succederà,  ecco quello che avrete guadagnato,
    allontanandovi  da  me  -  concluse,  e in silenzio fece ancora alcuni
    passi per la camera mentre le sue larghe spalle  sussultavano.  Rimise
    la tabacchiera nella tasca del panciotto,  poi la cavò di nuovo fuori,
    se l'accostò parecchie volte al naso e si fermò di fronte a  Balascëv.
    Per  un po' rimase in silenzio,  lo guardò beffardamente negli occhi e
    disse a mezza voce:  -  "Et cependant quel beau règne aurait pu  avoir
    votre  maître!" [47.  E tuttavia che bel regno avrebbe potuto avere il
    vostro sovrano!].
    Balascëv,  sentendo più che mai la necessità di ribattere,  disse  che
    alla  Russia  la  situazione  non  si  presentava  in  condizioni così
    disastrose.  Napoleone  taceva,   continuando  a  guardarlo  con  aria
    canzonatoria e,  evidentemente,  senza ascoltarlo.  Balascëv soggiunse
    che la Russia si attendeva  molti  vantaggi  dalla  guerra.  Napoleone
    scosse  il capo con aria di condiscendenza,  come per dire: "Lo so: il
    vostro dovere è di parlare così, ma voi non credete a ciò che dite".
    Quando Balascëv ebbe finito di parlare,  Napoleone estrasse ancora una
    volta la tabacchiera,  fiutò un'altra presa di tabacco e, come facendo
    un segnale,  batté due volte con il piede sul pavimento.  La porta  si
    aprì:    un   ciambellano,    inchinandosi   rispettosamente,    porse
    all'imperatore  il  cappello  e  i  guanti;  un  altro  gli  diede  un
    fazzoletto da naso. Napoleone, senza guardarli, si volse a Balascëv.
    - Assicurate a nome mio l'imperatore Aleksàndr  -  disse, prendendo il
    cappello  -  che io gli sono devoto come nel passato; lo conosco assai
    bene e apprezzo moltissimo le sue grandi qualità.  "Je ne vous retiens
    plus,  général,  vous recevrez ma lettre  à  l'empereur"  [48  Non  vi
    trattengo   più,   generale.   Vi   farò  avere  la  mia  lettera  per
    l'imperatore].   -  E si diresse rapidamente  verso  la  porta.  Dalla
    saletta di ricevimento tutti si precipitarono giù per le scale.


    CAPITOLO 7.

    Dopo  tutto ciò che Napoleone gli aveva detto,  dopo quegli accessi di
    collera,  e dopo quelle ultime parole pronunziate seccamente:  "Je  ne
    vous  retiens plus,  général,  vous recevrez ma lettre",  Balascëv era
    convinto che non soltanto Napoleone non desiderava più vederlo, ma che
    avrebbe evitato di incontrarsi con  lui,  un  ambasciatore  offeso  e,
    soprattutto,  un testimone dei suoi inopportuni scatti di collera.  Ma
    con suo grande stupore ricevette,  per mezzo di Davoust,  l'invito  di
    partecipare quel giorno alla tavola imperiale.
    Prendevano parte al pranzo Bessières (49), Caulaincourt e Berthier.
    Napoleone  salutò Balascëv con aria affabile e cortese.  Non solo egli
    non appariva imbarazzato né rammaricato per la sfuriata della mattina,
    ma cercava di far animo a Balascëv. Si capiva che già da un pezzo egli
    non ammetteva di poter sbagliare e che, a suo giudizio,  tutto ciò che
    egli faceva era ben fatto,  non perché i suoi atti corrispondessero al
    concetto del buono e del cattivo, ma perché era "lui" che li compiva.
    L'imperatore era molto allegro dopo la  sua  cavalcata  a  Vilna  dove
    moltissima  gente  gli  era  venuta  incontro  e lo aveva accompagnato
    entusiasticamente.  Tutte le finestre  delle  vie  per  le  quali  era
    passato  erano  state ornate di tappeti,  di bandiere,  di stemmi e le
    signore polacche lo salutavano agitando i fazzoletti.
    A pranzo, fatto sedere Balascëv accanto a sé,  gli si volgeva non solo
    affabilmente,  ma  lo  trattava come se considerasse anche lui uno dei
    suoi cortigiani, ossia uno di coloro che approvavano i suoi progetti e
    che dovevano rallegrarsi dei suoi successi.  Tra un discorso e l'altro
    venne  a  parlare  di Mosca e interrogò Balascëv sulla capitale russa,
    non solo come può farlo un viaggiatore curioso che chieda informazioni
    su una località da visitare,  ma come se fosse convinto che  Balascëv,
    nella  sua  qualità di russo,  doveva senza dubbio essere lusingato da
    quel suo vivo interesse.
    - Quanti abitanti ha Mosca?  E  quante  case?  E'  vero  che  Mosca  è
    chiamata "Moscou la Sainte"? E quante chiese ci sono?  -  domandava.
    Alla risposta di Balascëv che le chiese erano più di duecento ribatté:
    - A che scopo una tale quantità di chiese?
    - I Russi, maestà, sono molto devoti  -  gli rispose Balascëv.
    -  Tuttavia  un  gran  numero  di conventi e di chiese è sempre indice
    dell'arretratezza  di  un  popolo    -    osservò   Napoleone,   dando
    un'occhiata  a  Caulaincourt  per  ottenere l'approvazione di quel suo
    giudizio.
    Balascëv si  permise  rispettosamente  di  dire  che  non  condivideva
    l'opinione dell'imperatore francese.
    - Ogni paese ha i suoi costumi.
    - Ma in nessun'altra parte d'Europa esiste ormai nulla di simile.
    - Chiedo scusa a vostra maestà,  -  ribatté Balascëv  -  ma oltre alla
    Russia c'è la Spagna, molto ricca di conventi e di chiese.
    Questa   risposta  di  Balascëv  che  era  un'allusione  alla  recente
    sconfitta dei Francesi in Spagna,  fu  in  seguito  molto  apprezzata,
    secondo   quanto   raccontava   lo   stesso   Balascëv,   alla   Corte
    dell'imperatore Aleksàndr, ma molto meno allora,  durante il pranzo di
    Napoleone, dove passò sotto silenzio.
    Dai  visi indifferenti e stupiti dei signori marescialli si vedeva che
    essi non avevano capito affatto  in  che  cosa  consistesse  l'arguzia
    della risposta,  sebbene fosse accentuata dall'intonazione della voce.
    "Se pur c'è,  noi non l'abbiamo capita e  non  è  affatto  spiritosa",
    diceva  l'espressione  di  quei  visi.  Così poco fu apprezzata quella
    risposta che non la notò  neppure  Napoleone,  che  con  aria  ingenua
    domandò a Balascëv quali città toccasse la strada più diretta da Vilna
    a Mosca.  Balascëv,  il quale per tutta la durata del pranzo era stato
    sul chi vive, rispose che "comme tout chemin mène à Rome,  tout chemin
    mène à Moscou" [50.  Come tutte le strade conducono a Roma, così tutte
    le strade conducono a Mosca],  che le strade erano numerose e che  tra
    queste  vi  era quella di Poltava (51),  che era stata scelta da Carlo
    Dodicesimo.  Balascëv,  così dicendo,  arrossì suo malgrado di piacere
    per l'azzeccata risposta. Ma non aveva ancora finito di pronunziare la
    parola  Poltava,  che  già  Caulaincourt  si era messo a parlare delle
    cattive condizioni della strada da Pietroburgo a Mosca  e  dei  propri
    ricordi pietroburghesi.
    Dopo  il  pranzo  passarono  tutti a prendere il caffè nello studio di
    Napoleone,  quello studio che sino a quattro giorni  prima  era  stato
    dell'imperatore di Russia.  Napoleone sedette e, agitando il cucchiaio
    in una tazza di Sèvres, indicò a Balascëv il posto accanto al suo.
    Dopo il pranzo,  si  avverte  di  solito  nell'uomo  una  disposizione
    d'animo, più forte di qualsiasi ragionamento, che lo induce a sentirsi
    soddisfatto  di  sé  e  a  considerare tutti suoi amici.  Napoleone si
    trovava precisamente in tale  stato  d'animo.  Gli  pareva  di  essere
    attorniato  da persone che lo adorassero ed era convinto che dopo quel
    pranzo Balascëv fosse suo amico e ammiratore.  Gli si rivolse  con  un
    sorriso benevolo e leggermente canzonatorio.
    - Questa è la stanza,  mi è stato detto, nella quale quattro giorni or
    sono abitava il vostro imperatore. E' strano, non è vero, generale?  -
    disse senza pensare,  evidentemente,  che quel modo di rivolgergli  la
    parola  potesse  non  riuscire  gradito  al suo interlocutore,  poiché
    costituiva la prova della superiorità di lui, Napoleone, su Aleksàndr.
    Balascëv non poteva rispondere nulla e chinò il capo in silenzio.
    - Sì, proprio in questa stanza quattro giorni or sono, Wintzingerode e
    Stein discutevano  -  proseguì Napoleone, sempre con lo stesso sorriso
    ironico e  sicuro.    -    Ciò  che  non  riesco  a  capire  è  perché
    l'imperatore Aleksàndr abbia chiamato presso di sé tutti i miei nemici
    personali. Proprio non lo capisco... Non ha pensato che io potrei fare
    altrettanto?    -    domandò  a  Balascëv,  e quel ricordo gli rinnovò
    l'ondata di collera del mattino,  tuttora fresca in lui.   -  E sappia
    che  lo farò  -  esclamò,  alzandosi e allontanando da sé la tazza con
    la  mano.    Scaccerò  dalla  Germania  tutti  i  suoi  parenti,   del
    Württemberg,  del Baden,  di Weimar.. sì, li scaccerò. Che prepari per
    loro un rifugio in Russia!
    Balascëv chinò di nuovo il capo e dimostrò  con  il  suo  aspetto  che
    avrebbe  desiderato accomiatarsi e che ascoltava ciò che gli si diceva
    soltanto perché non poteva fare  diversamente.  Napoleone  non  notava
    quell'atteggiamento: si rivolgeva a Balascëv non come all'ambasciatore
    del  suo  nemico,  ma  come a una persona che ora gli fosse totalmente
    devota e che dovesse rallegrarsi dell'umiliazione inflitta al suo  ex-
    signore.
    -  E perché l'imperatore Aleksàndr ha assunto il comando delle truppe?
    A che scopo? La guerra è il mio mestiere,  il suo è quello di regnare,
    non  di  comandare  degli  eserciti.  Perché  si  è assunta una simile
    responsabilità?
    Napoleone tirò di nuovo fuori la sua tabacchiera, fece alcuni passi in
    silenzio e poi,  a un tratto,  si avvicinò a Balascëv;  con un sorriso
    appena  accennato,  con  la  disinvoltura  e la semplicità che avrebbe
    avuto nel fare una cosa non solo seria, ma gradita al suo ospite, alzò
    una mano verso il viso del quarantenne generale  russo  e,  sorridendo
    con le sole labbra, gli diede una tiratina d'orecchi.
    "Avoir  l'oreille  tirée  par  l'empereur"  [52.  Avere  una  tiratina
    d'orecchi dall'imperatore] era considerato,  alla Corte  francese,  un
    grande onore e un favore considerevole.
    - Et bien,  vous ne dites rien,  admirateur et courtisan de l'empereur
    Alexandre?" [53. Ebbene, non dite nulla, voi,  ammiratore e cortigiano
    dell'imperatore Aleksàndr?]  -  disse come se,  in sua presenza, fosse
    una cosa buffa essere ammiratore e cortigiano di qualcun altro che non
    fosse lui,  Napoleone.   -  Sono pronti i cavalli per il generale?   -
    aggiunse,  abbassando  brevemente  il  capo in risposta all'inchino di
    Balascëv.  -  Dategliene dei miei, deve "andare lontano"...
    La lettera che Balascëv portò con  sé  fu  l'ultima  di  Napoleone  ad
    Aleksàndr.   Tutti   i   particolari  del  colloquio  furono  riferiti
    all'imperatore russo, e la guerra ebbe inizio.


    CAPITOLO 8.

    Dopo il suo incontro a Mosca con Pierre,  il principe Andréj si recò a
    Pietroburgo per affari,  -  così disse ai parenti  -  ma in realtà per
    vedere   il   principe   Anatolij   Kuragin   con  il  quale  riteneva
    indispensabile incontrarsi. Venne a sapere che Kuragin era stato,  sì,
    a  Pietroburgo,  ma  ne  era già ripartito.  Pierre aveva informato il
    cognato che il principe Andréj  lo  cercava.  Anatolij  Kuragin  aveva
    subito  ricevuto  una  destinazione  dal  ministro della guerra ed era
    andato a raggiungere l'esercito di Moldavia.  Nello  stesso  tempo,  a
    Pietroburgo,  il  principe  Andréj  incontrò  Kutuzòv,  il  suo antico
    generale che, sempre ben disposto verso di lui, gli propose di partire
    insieme per l'esercito di Moldavia di  cui  il  vecchio  generale  era
    stato  nominato  comandante.  Il  principe Andréj,  ricevuta la nomina
    presso lo stato maggiore del quartier generale, partì per la Turchia.
    Non ritenne opportuno scrivere a Kuragin per sfidarlo, giacché pensava
    che una sfida da parte sua,  senza dare un nuovo pretesto  al  duello,
    avrebbe  compromesso la contessina Rostova;  per questo egli voleva un
    incontro personale con Kuragin,  durante il quale avrebbe  trovato  un
    nuovo  pretesto per la sfida.  Ma nemmeno nell'esercito di Turchia gli
    capitò di  incontrare  Kuragin  il  quale,  subito  dopo  l'arrivo  di
    Bolkonskij,  era  rientrato  in  Russia.  In un paese nuovo e in nuove
    condizioni di vita,  l'esistenza per il principe Andréj  diventò  meno
    difficile.  Dopo il tradimento della fidanzata,  che l'aveva tanto più
    dolorosamente colpito quanto più si sforzava di  nasconderne  a  tutti
    gli  effetti,  le  condizioni  di  vita nelle quali un tempo era stato
    felice gli riuscivano penose e anche più penose gli erano la libertà e
    l'indipendenza che nel passato aveva considerato tanto  preziose.  Ora
    non  gli  si  affacciavano  più  quei pensieri che gli si erano per la
    prima volta affacciati contemplando il cielo sul campo di battaglia di
    Austerlitz,  quei pensieri che egli amava discutere con Pierre  e  che
    avevano  colmato la sua solitudine a Boguciàrovo e poi in Svizzera e a
    Roma; ma temeva proprio quei pensieri che gli avevano svelato luminosi
    e sconfinati orizzonti.  Ora gli  occupavano  la  mente  soltanto  gli
    interessi immediati,  pratici,  senza legami con il passato, e ad essi
    si afferrava con tanta maggiore avidità quanto più quelli lontani  gli
    erano  preclusi.  Era come se quella infinita volta del cielo,  che un
    tempo si alzava sopra di lui,  si fosse a un tratto trasformata in una
    volta  bassa  e limitata che lo soffocava,  sotto la quale tutto aveva
    contorni precisi,  ma dove non vi era alcunché di eterno,  alcunché di
    misterioso.
    Fra le attività che gli si offrivano,  il servizio militare costituiva
    per lui la più semplice e la più nota.  Nell'esercizio delle  funzioni
    di  generale  presso  lo  stato maggiore di Kutuzòv,  egli si occupava
    degli affari con perseveranza e fervore e stupiva Kutuzòv per  il  suo
    zelo e la sua puntualità.
    Non avendo trovato Kuragin in Turchia,  il principe Andréj non ritenne
    necessario corrergli dietro in Russia; tuttavia sapeva che, per quanto
    il tempo passasse,  nonostante il disprezzo  che  sentiva  per  lui  e
    nonostante  tutte  le ragioni con le quali provava a se stesso che non
    valeva la pena di abbassarsi a un duello con un uomo di quella  fatta,
    sapeva  che  in  qualsiasi luogo avesse incontrato Kuragin non avrebbe
    potuto trattenersi dal  provocarlo  come  un  uomo  affamato  non  può
    trattenersi  dal  precipitarsi  sul  cibo.   E  questa  consapevolezza
    dell'offesa ancora invendicata, dello sdegno non ancora sbollito,  gli
    pesava sul cuore,  avvelenava quella tranquillità fittizia che,  sotto
    l'apparenza di un'attività tra febbrile  e  preoccupata,  e  mista  di
    ambizione  e di vanità,  il principe Andréj era riuscito a raggiungere
    in Turchia.
    Nel 1812,  quando la notizia della guerra contro  Napoleone  giunse  a
    Bucarest  (dove  Kutuzòv si trovava da due mesi vivendo giorno e notte
    con la sua valacca),  il principe Andréj chiese a  Kutuzòv  di  essere
    trasferito  nell'esercito  occidentale.  Kutuzòv  che  già era seccato
    dell'attività di Bolkonskij che costituiva un perenne rimprovero  alla
    sua  inerzia,  lo  lasciò  andare  molto  volentieri  e  gli affidò un
    incarico per Barclay de Tolly.
    Prima di raggiungere l'esercito,  che nel mese di maggio si trovava  a
    Drissa,  il  principe  Andréj si fermò a Lissia-Gori che era sulla sua
    strada, a tre miglia dalla via maestra per Smolènsk.  Negli ultimi tre
    anni  della  sua  esistenza  il  principe  Andréj aveva ricevuto tante
    scosse,  aveva  tanto  pensato,   meditato,   veduto  (aveva  percorso
    l'Oriente  e  l'Occidente)  che  al  suo primo arrivo a Lissia-Gori il
    medesimo tenore di vita, identico sino ai minimi particolari, lo colpì
    in modo strano e inatteso.  Entrò nel viale,  poi varcò il portone  di
    pietra  della  sua  casa  come  se entrasse in un castello incantato e
    addormentato. La stessa gravità, la stessa pulizia, lo stesso silenzio
    regnavano in quella casa;  gli stessi mobili,  le stesse  pareti,  gli
    stessi  suoni,  gli stessi odori,  gli stessi timidi visi di un tempo,
    sia pure un po' invecchiati.  La principessina Màrija  era  sempre  la
    medesima ragazza timida e brutta che invecchiava trascorrendo gli anni
    migliori della sua vita senza scopo e senza gioia,  tra continue paure
    e sofferenze morali.  La Bourienne era sempre la stessa ragazza un po'
    civetta,  che  sapeva  profittare  allegramente  di  ogni minuto della
    propria vita,  contenta di se stessa e con il cuore  colmo  delle  più
    liete speranze; era soltanto diventata, come parve al principe Andréj,
    più sicura di sé.  Il precettore Desalles, che egli aveva condotto con
    sé dalla Svizzera,  indossava una giacca di foggia russa,  parlava  in
    russo  molto male,  con i domestici,  ma continuava a essere lo stesso
    educatore,  dall'intelligenza limitata,  istruito,  buono  e  pedante.
    L'unico mutamento fisico del vecchio principe consisteva nel fatto che
    a un angolo della bocca si notava la mancanza di un dente;  moralmente
    era tal quale come prima,  ma più collerico e più diffidente di fronte
    alla  realtà  di  ciò  che avveniva nel mondo.  Soltanto Nikòluska era
    cresciuto, cambiato,  si era fatto un bel bambino colorito,  dai folti
    capelli  neri  ricciuti  e,  senza saperne il perché,  quando rideva e
    giocava,  alzava il labbro superiore della sua bella boccuccia proprio
    come  faceva la defunta piccola principessa.  Egli era il solo che non
    seguiva  la  legge  di  immutabilità  di  quel  castello  incantato  e
    dormente.  Ma  sebbene  apparentemente  tutto  fosse  rimasto come nel
    passato,  i rapporti tra le persone di casa,  da  quando  il  principe
    Andréj non le aveva più vedute,  erano mutati. I membri della famiglia
    erano divisi in due campi estranei e ostili fra loro, che ora soltanto
    la sua presenza riuniva e che davanti a lui cambiavano il loro modo di
    vivere. Il vecchio principe,  la Bourienne e l'architetto formavano un
    campo;   all'altro   campo   appartenevano  la  principessina  Màrija,
    Desalles, Nikòluska e tutte le bambinaie e governanti.
    Durante il soggiorno del principe Andréj a Lissia-Gori, i membri della
    famiglia pranzavano insieme,  ma tutti si sentivano imbarazzati,  e il
    principe  Andréj  avvertì  di  essere un ospite per il quale si faceva
    un'eccezione, un ospite che con la sua presenza imbarazzava tutti.
    Il primo giorno,  durante il pranzo,  il principe  Andréj,  rendendosi
    istintivamente  conto  di  tutto  ciò,  diventò taciturno e il vecchio
    principe, notato quell'atteggiamento poco naturale del figlio, si fece
    cupo e silenzioso e,  subito dopo il pranzo,  si ritirò nelle  proprie
    stanze.  Quando  verso sera il principe Andréj andò a trovarlo e,  nel
    tentativo di rasserenarlo, si mise a raccontargli qualcosa a proposito
    della campagna  del  giovane  conte  Kamenskij,  il  vecchio  principe
    cominciò   inaspettatamente  a  parlare  della  principessina  Màrija,
    biasimandola per le sue superstizioni e per la  sua  avversione  verso
    "mademoiselle" Bourienne che, secondo lui, era l'unica persona che gli
    fosse devota.
    Il vecchio principe diceva che,  se era malato, lo era per colpa della
    principessina Màrija;  diceva che essa lo  tormentava  e  lo  irritava
    continuamente,  che  viziava  e  faceva  del  male al piccolo principe
    Nikolàj con la sua debolezza di carattere e con le stupide storie  che
    gli  raccontava.  Il  vecchio  principe  era  perfettamente conscio di
    essere lui a tormentare la figlia, che conduceva una vita penosissima,
    ma sapeva anche di non riuscire a comportarsi diversamente e che  ella
    non  lo meritava.  "Perché il principe Andréj,  che vede tutto questo,
    non mi dice nulla della sorella?",  si  chiedeva  il  vecchio.  "Crede
    dunque che io,  come un malfattore o un vecchio rimbecillito,  mi sia,
    senza motivo alcuno,  allontanato  da  mia  figlia  e  legato  con  la
    francese?  Egli  non  lo  capisce  e  perciò  devo  spiegarglielo ed è
    necessario che mi ascolti",  decise il vecchio principe.  E cominciò a
    enumerargli  le  ragioni  per  cui  non poteva sopportare il carattere
    insensato della figlia.
    - Se voi mi interrogate...    -    disse  il  principe  Andréj,  senza
    guardare in viso il padre,  che biasimava per la prima volta nella sua
    vita.   -  Io non volevo parlare,  ma giacché mi interrogate  vi  dirò
    francamente  quello  che  penso  in proposito.  Se ci sono malintesi e
    disaccordi tra voi  e  Mascia,  non  posso  assolutamente  incolparla,
    giacché  so  quanto essa vi ami e vi rispetti.  Se mi interrogate,   -
    ripeté il principe Andréj,  irritandosi giacché da  qualche  tempo  si
    alterava  facilmente    -    vi  posso  dire solo questo: se esiste un
    malinteso,  la causa è di quella donna insignificante che non  avrebbe
    mai dovuto essere l'amica di mia sorella.
    Il vecchio sulle prime fissava il figlio e,  in un sorriso innaturale,
    mostrava il vuoto del dente  mancante,  cui  il  principe  Andréj  non
    riusciva ad abituarsi.
    - Ma quale amica, mio caro? Ti sei già messo d'accordo con lei, eh?
    - Papà,  io non volevo essere giudice,   -  riprese il principe Andréj
    in tono duro e irritato  -  ma voi mi avete costretto,  e io ho detto,
    come  sempre dirò,  che la principessina Màrija non ha nessuna colpa e
    che la sola colpevole è... quella francese!
    - Ah,  tu mi condanni,  tu mi condanni!   -  esclamò il vecchio a voce
    bassa ma decisa e, come parve al principe Andréj, turbata; poi tutto a
    un tratto scattò in piedi e gridò:  -  Fuori fuori! Che qui dentro non
    resti neppure più la tua traccia!
    Il principe Andréj voleva partire subito, ma la sorella lo supplicò di
    rimanere ancora un giorno. Quel giorno il principe Andréj non vide suo
    padre, che non uscì e non ammise nessuno nelle sue stanze ad eccezione
    di "mademoiselle" Bourienne e di Tichòn, e che domandò parecchie volte
    se il figlio fosse partito. Il giorno seguente, prima di andarsene, il
    principe Andréj entrò nella camera del figliuolo.  Il bambino, robusto
    e riccioluto come  la  madre,  gli  si  sedette  sulle  ginocchia.  Il
    principe cominciò a raccontargli la favola di Barbablù, ma non la finì
    e rimase muto e pensoso.  Egli non pensava a quel bel ragazzino, a suo
    figlio che teneva sulle ginocchia,  ma a se stesso.  Con una specie di
    orrore  cercava e non trovava in sé né il rimorso per aver irritato il
    padre,  né il rammarico di lasciarlo,  per la  prima  volta,  dopo  un
    litigio.  E,  cosa  più  grave  ancora,  cercava  e non trovava più la
    tenerezza di un tempo per il figlio,  tenerezza che aveva  tentato  di
    ridestare dentro di sé accarezzandolo e tenendolo sulle ginocchia.
    - Su, racconta, racconta ancora!  -  diceva il bimbo.
    Senza  rispondergli,   il  principe  Andréj  lo  fece  scendere  dalle
    ginocchia e uscì dalla stanza.
    Non appena aveva lasciato le occupazioni quotidiane,  e non appena era
    ritornato  alle  consuetudini  del tempo in cui era felice,  era stato
    riafferrato dal tedio della vita con l'intensità di prima e perciò  si
    affrettava  a  lasciare quei ricordi e a trovare al più presto qualche
    occupazione.
    - Hai proprio deciso di partire, Andréj?  -  gli domandò la sorella.
    - Grazie a Dio posso andarmene  -  le rispose il principe  Andréj.  Mi
    dispiace solo che tu non possa fare altrettanto.
    - Perché mi dici questo?   -  domandò la principessina.   -  Perché mi
    dici questo proprio adesso che stai  per  andare  a  questa  terribile
    guerra e lui è così vecchio!  "Mademoiselle" Bourienne mi ha detto che
    ha domandato di te...
    Non appena cominciò a dire queste parole, le labbra presero a tremarle
    e le lacrime a scorrerle lungo le guance.  Il principe Andréj si voltò
    dall'altra parte e si mise a passeggiare su e giù per la stanza.
    - Ah,  mio Dio, mio Dio!  -  esclamò.  -  Quando si pensa quali cose e
    quali persone,  vere nullità,  possono  essere  causa  dell'infelicità
    della  gente!    -    esclamò con un'ira che spaventò la principessina
    Màrija.
    Ella comprese che,  parlando delle persone che definiva nullità,  egli
    non intendeva soltanto la Bourienne che rendeva infelice lei, ma anche
    l'uomo che aveva distrutto la felicità a lui.
    -  Andréj,  di  una  cosa  ti  prego,  anzi  ti  supplico  -  disse la
    fanciulla toccandogli un braccio e fissandolo in viso  con  gli  occhi
    pieni  di lacrime...   -  Ti capisco  -  (la principessina abbassò gli
    occhi)  -  ma non devi pensare che la sventura ci venga dagli  uomini.
    Gli  uomini sono strumento di "Lui".   -  Fissò gli occhi un po' sopra
    la testa del fratello,  con lo sguardo sicuro e abituale  con  cui  si
    guarda  al posto ben noto di un ritratto.   -  Il dolore viene da Lui,
    non dagli uomini.  Gli uomini sono Suoi strumenti e non  hanno  alcuna
    colpa.  E  se  ti  pare  che  qualcuno  sia  colpevole di fronte a te,
    dimentica e perdona.  Noi non abbiamo  il  diritto  di  punire.  E  tu
    capirai la gioia di perdonare.
    - Se io fossi una donna,  lo farei,  Màrija.  Quella del perdono è una
    virtù femminile,  ma l'uomo non deve e non può dimenticare e perdonare
    -  disse,  e sebbene sino a quel momento non avesse pensato a Kuragin,
    sentì a un  tratto  sollevarglisi  nel  cuore  un'ondata  di  ira  non
    sfogata. "Se la principessina Màrija tenta di persuadermi a perdonare,
    significa che già da un pezzo avrei dovuto punire",  pensò.  E,  senza
    più  rispondere  alla  sorella,  si  mise  a  pensare  al  momento  di
    soddisfazione e di collera in cui avrebbe incontrato Kuragin che, egli
    lo sapeva, si trovava nell'esercito.
    La  principessina  Màrija  supplicò il fratello di aspettare ancora un
    giorno;  gli disse di essere certa che il padre  si  sarebbe  afflitto
    molto  se  egli  fosse  partito  senza  riconciliarsi  con lui,  ma il
    principe Andréj rispose che sarebbe ritornato presto,  che avrebbe  ad
    ogni  modo  scritto  al  padre e soggiunse che,  se fosse rimasto,  il
    dissidio si sarebbe inasprito.
    - "Adieu, André!  Rappelez-vous que les malheurs viennent de Dieu,  et
    que  les  hommes  ne  sont  jamais  coupables!"  [54.  Addio,  Andréj,
    ricordatevi che le sventure ci vengono da Dio e che gli uomini non  ne
    hanno  mai  colpa!]    -    furono le ultime parole che egli udì dalla
    sorella quando la salutò.
    "Così doveva essere!", pensò il principe Andréj,  uscendo dal viale di
    Lissia-Gori. "Ella, povera creatura innocente, rimane alla mercé di un
    vecchio  ormai  quasi privo della ragione.  Il vecchio sente di essere
    colpevole,  ma non può cambiare.  Mio figlio intanto cresce e  sorride
    alla vita nella quale, come tutti, dovrà ingannare o essere ingannato.
    Io  parto  per  la  guerra: perché?  Non lo so neppur io,  ma desidero
    incontrare l'uomo che disprezzo per dargli  modo  di  uccidermi  e  di
    ridere poi di me!".
    Anche  prima  le  condizioni della sua vita erano le stesse,  senonché
    prima erano collegate tra di loro mentre ora tutto si era  disgregato.
    Soltanto  eventi  insensati,   senza  alcun  nesso  tra  di  loro,  si
    presentavano uno dopo l'altro alla mente del principe Andréj.


    CAPITOLO 9.

    Il principe Andréj arrivò al  quartiere  generale  dell'esercito  alla
    fine  di  giugno.  Le  truppe  della prima armata,  presso la quale si
    trovava l'imperatore,  erano  accampate  in  un  campo  fortificato  a
    Drissa;  le  truppe  della seconda armata indietreggiavano cercando di
    unirsi a quelle della prima,  dalla quale,  a quanto si diceva,  erano
    separate  da  ingenti forze francesi.  Nell'esercito russo tutti erano
    scontenti dell'andamento  generale  delle  operazioni  di  guerra,  ma
    nessuno pensava al pericolo di un'invasione delle terre russe; nessuno
    supponeva  che  la guerra potesse essere portata oltre i governatorati
    della Polonia occidentale.
    Il principe Andréj trovò Barclay de Tolly,  presso il quale era  stato
    destinato,  sulle rive della Drissa.  Poiché nelle vicinanze del campo
    fortificato non esistevano né borgate né villaggi, i numerosi generali
    e cortigiani che si trovavano presso l'esercito erano  sistemati,  per
    dieci miglia all'intorno, nelle migliori case dei villaggi di qua e di
    là dal fiume.  Barclay de Tolly accolse Bolkonskij molto freddamente e
    gli disse,  con il suo marcato accento tedesco,  che avrebbe fatto  un
    rapporto  sul suo arrivo all'imperatore per fissargli una destinazione
    e intanto lo pregava di rimanere  nel  suo  stato  maggiore.  Anatolij
    Kuragin,  che  il principe Andréj sperava di trovare nell'armata,  non
    c'era; era a Pietroburgo,  e questa notizia fece piacere a Bolkonskij.
    L'interesse  per  il  centro  di  quella  guerra  titanica occupava il
    principe Andréj, che fu lieto di essere per qualche tempo libero dalla
    distrazione che gli  procurava  il  pensiero  di  Kuragin.  Nei  primi
    quattro giorni, durante i quali non gli fu assegnato alcun posto, egli
    percorse  tutto  il  campo  fortificato  e  con  l'aiuto delle proprie
    cognizioni e delle conversazioni con le persone bene informate,  cercò
    di farsene un'idea esatta.  Non rimase per lui insoluto il problema se
    il campo fosse o no vantaggioso.  Il  principe  Andréj  dalla  propria
    esperienza  militare  aveva  tratto  il  convincimento che in guerra i
    piani più profondamente ponderati non hanno  alcun  valore  (lo  aveva
    visto  durante la campagna di Austerlitz),  che tutto dipende dal come
    si reagisce alle mosse impreviste e imprevedibili del nemico,  da  chi
    conduce l'azione, e da come la conduce.
    Per  chiarire  a se stesso quest'ultimo problema,  il principe Andréj,
    approfittando della sua situazione e delle sue  conoscenze,  cercò  di
    studiare  il  carattere  della  direzione  generale  dell'armata,  dei
    personaggi e  dei  partiti  che  vi  partecipavano,  e  trasse  alfine
    l'opinione seguente sulla situazione delle cose.
    Quando l'imperatore era ancora a Vilna, l'esercito era stato diviso in
    tre  parti:  la prima armata era sotto il comando di Barclay de Tolly;
    la seconda di Bagratiòn;  la terza di Tormassov (55).  L'imperatore si
    trovava  presso  la prima armata,  ma non in qualità di generalissimo.
    Negli ordini del giorno era detto che il sovrano non  avrebbe  assunto
    il  comando  dell'armata,  ma che l'avrebbe soltanto seguita.  Inoltre
    l'imperatore non aveva uno stato maggiore da  generalissimo,  ma  solo
    quello  del  quartier generale imperiale.  C'erano il capo dello stato
    maggiore  imperiale,   generale  quartiermastro  principe  Volkonskij,
    generali,  aiutanti di campo, funzionari, diplomatici e un gran numero
    di stranieri,  ma lo stato maggiore dell'esercito non c'era.  Inoltre,
    senza alcuna carica si trovavano presso l'imperatore: Arakceev,  l'ex-
    ministro della guerra; il conte Bennigsen, il più anziano in grado tra
    i  generali:  il  granduca   ereditario   Konstantin   Pàvlovic';   il
    cancelliere  conte  Rumjanzòv;   l'ex-ministro  prussiano  Stein;   il
    generale svedese Armfeld;  Pfuhl,  il principale ideatore del piano di
    guerra;   l'aiutante   generale  e  fuoruscito  sardo  Paolucci  (56),
    Wohlzogen  (57)  e  molti  altri.   Quantunque  questi  personaggi  si
    trovassero nell'esercito senza alcuna attribuzione militare, tuttavia,
    grazie  al  loro  grado,  esercitavano una certa influenza e spesso un
    comandante di corpo d'armata e  persino  il  comandante  in  capo  non
    sapeva in nome di quale autorità Bennigsen, il granduca, Arakceev o il
    principe  Volkonskij chiedessero o consigliassero questa o quell'altra
    cosa,  e non sapeva se un certo ordine dato sotto forma  di  consiglio
    provenisse da uno di quei personaggi o dall'imperatore stesso, e se si
    dovesse  eseguirlo  o  no.  Questo  non  era  tuttavia  che l'ambiente
    esteriore; il vero motivo della presenza del sovrano e di tutti questi
    personaggi,  dal punto di vista della  Corte  (e  in  presenza  di  un
    sovrano  tutti  diventano cortigiani),  era chiaro a tutti.  Ecco qual
    era: l'imperatore non assumeva il titolo  di  generalissimo,  ma  dava
    ordini a tutte le armate;  le persone che lo circondavano erano i suoi
    consiglieri e collaboratori.  Arakceev  era  un  fedele  esecutore  di
    ordini   e   guardia  del  corpo  dell'imperatore;   Bennigsen,   gran
    proprietario nella provincia di Vilna, che pareva occupato a fare "les
    honneurs" della regione,  era in realtà un ottimo generale,  utile per
    dare  un  consiglio  e  per  essere  sempre  pronto  per una eventuale
    sostituzione di Barclay;  il granduca era lì perché gli faceva comodo;
    l'ex-ministro  Stein,  perché  era  utile con i suoi consigli e perché
    l'imperatore Aleksàndr lo apprezzava per  le  sue  qualità  personali;
    Armfeld, perché odiava Napoleone, era un generale sicuro di sé e aveva
    sempre  molta  influenza su Aleksàndr;  Paolucci,  perché era audace e
    deciso nei suoi discorsi. Quanto ai generali aiutanti, si trovavano lì
    perché lì si trovava il sovrano e infine  -  ed era la cosa principale
    -  Pfuhl era presente perché aveva ideato il piano  di  guerra  contro
    Napoleone  e,  avendo  persuaso  Aleksàndr dell'assoluta efficienza di
    quel piano,  dirigeva tutto l'andamento della guerra.  Accanto a Pfuhl
    era  Wohlzogen  che  traduceva  le  idee  di  Pfuhl  in  una forma più
    accessibile di quella di  Pfuhl  stesso,  duro  teorico  da  tavolino,
    sicuro di sé al punto di disprezzare tutti gli altri.
    Oltre   ai  suddetti  personaggi,   russi  e  stranieri  (specialmente
    stranieri,  i quali con l'audacia propria agli uomini che svolgono  la
    loro attività in un ambiente straniero,  ogni giorno proponevano nuove
    e inaspettate idee), vi erano ancora molti altri personaggi di secondo
    piano che si trovavano presso l'esercito perché là si trovavano i loro
    superiori.
    Tra tutte le opinioni e le  voci  di  quel  vasto  mondo  senza  pace,
    brillante  e orgoglioso,  il principe Andréj avvertiva le seguenti più
    nette suddivisioni di tendenze e di partiti.
    Un primo partito era costituito da Pfuhl e dai suoi  seguaci,  teorici
    della  guerra,  convinti  che esistesse una scienza bellica e che tale
    scienza fosse regolata da leggi immutabili,  le  leggi  del  movimento
    obliquo,  dell'accerchiamento  e  così  via.  Pfuhl  e  i suoi seguaci
    esigevano che si indietreggiasse sino nell'interno del  paese  secondo
    le  precise  leggi  di  quella immaginaria scienza bellica,  e in ogni
    infrazione a quella teoria vedevano  soltanto  barbarie,  ignoranza  e
    malevolenza.
    A  questo  partito  appartenevano  i  principi  tedeschi,   Wohlzogen,
    Wintzingerode e altri, per lo più tedeschi.
    Il secondo partito era in netta  opposizione  al  primo.  Come  sempre
    accade,  davanti a un estremo si trovano i rappresentanti dell'estremo
    opposto. Gli uomini di questo partito erano quelli che da Vilna in poi
    esigevano l'invasione della Polonia e l'assoluta libertà da  qualsiasi
    piano  programmato.  Inoltre  i  sostenitori di questo partito erano i
    promotori di imprese  audacissime  e,  nello  stesso  tempo,  anche  i
    rappresentanti  del  nazionalismo;   in  seguito  a  ciò,  ancora  più
    unilaterali nelle discussioni. Erano i russi Bagratiòn,  Ermolov (58),
    che cominciava allora la sua ascesa,  e altri. In quel tempo era molto
    diffuso un noto scherzo di Ermolov che pareva avesse chiesto una  sola
    grazia  all'imperatore: quella di essere promosso tedesco.  Gli uomini
    di questo partito affermavano,  ricordando Suvorov,  che non bisognava
    pensare,  non puntare spilli sulla carta,  ma battersi,  annientare il
    nemico,  non lasciarlo metter piede in Russia e  non  permettere  alle
    truppe di perdere la fiducia.
    Al   terzo   partito,   che  più  degli  altri  godeva  della  fiducia
    dell'imperatore, appartenevano i cortigiani, fautori di un accordo tra
    le altre due tendenze.  Gli appartenenti a questo partito,  per lo più
    non  militari e del quale faceva parte Arakceev,  pensavano e dicevano
    ciò che per lo  più  dicono  le  persone  che  non  hanno  convinzioni
    proprie, ma che desiderano far credere di averne. Essi affermavano che
    senza  dubbio  la  guerra e in special modo una guerra contro un genio
    come Bonaparte  (lo  chiamavano  di  nuovo  Bonaparte)  esigeva  piani
    profondamente meditati,  una sicura conoscenza dell'arte bellica, e in
    ciò Pfuhl era geniale  ma  nello  stesso  tempo  era  impossibile  non
    ammettere  che  i  teorici  sono  spesso  unilaterali e che perciò non
    possono godere di  una  completa  fiducia;  occorreva  quindi  porgere
    ascolto  anche a ciò che dicevano gli avversari di Pfuhl e gli esperti
    di affari militari e prendere la via di mezzo.  Gli uomini  di  questo
    partito insistevano sul fatto che era necessario mantenere, secondo il
    piano  di Pfuhl,  il campo di Drissa,  ma modificare i movimenti delle
    altre armate.  Anche se con quel sistema non era possibile raggiungere
    né  l'uno  né  l'altro  dei  due  scopi,  gli uomini di questo partito
    ritenevano che ciò fosse meglio.
    La quarta corrente era quella che aveva il suo rappresentante  più  in
    vista  nel  granduca  ereditario,  che  non  riusciva a dimenticare il
    disinganno di Austerlitz dove egli, come per una rivista, era comparso
    in testa alla Guardia in casco e colletto,  contando di sgominare,  da
    valoroso, i Francesi e dove, capitato inaspettatamente in prima linea,
    era riuscito a fatica a salvarsi nella confusione generale. Gli uomini
    di  questo  partito  avevano  nei  loro  giudizi  tutte le qualità e i
    difetti della sincerità.  Essi temevano Napoleone,  vedevano in lui la
    forza  e  in  se  stessi la debolezza,  e lo dichiaravano apertamente.
    Dicevano: "Da tutto ciò  non  deriveranno  che  sventure,  vergogna  e
    rovina!  Abbiamo  abbandonato  Vilna,  abbiamo  abbandonato  Vitebsk e
    abbandoneremo anche la Drissa.  La sola cosa sensata che ci  resti  da
    fare  è  di  concludere la pace al più presto possibile,  prima che ci
    scaccino da Pietroburgo!".
    Questa opinione, molto diffusa nelle alte sfere dell'esercito, trovava
    sostenitori anche a Pietroburgo  e  nella  cancelleria  di  Rumjanzòv,
    favorevole anch'egli, per altre ragioni di stato, alla pace.
    Della  quinta  corrente  facevano parte i seguaci di Barclay de Tolly,
    non tanto come uomo quanto come ministro della guerra e generalissimo.
    Essi dicevano: "Comunque egli sia",  cominciavano sempre così,  "è  un
    uomo onesto e attivo, non c'è nessuno migliore di lui. Dategli un vero
    potere,  giacché  la  guerra non può avere esito felice senza unità di
    comando,  ed egli mostrerà ciò che è capace di  fare,  come  già  l'ha
    dimostrato  in  Finlandia.  Se  il  nostro  esercito  è  forte  e bene
    organizzato,  se ha potuto indietreggiare sino a Drissa  senza  subire
    sconfitte,   lo  dobbiamo  soltanto  a  Barclay.  Se  ora  egli  verrà
    sostituito da Bennigsen,  tutto sarà perduto perché Bennigsen  ha  già
    dimostrato la propria incapacità nel 1807".
    I   sostenitori  di  Bennigsen,   che  formavano  la  sesta  corrente,
    affermavano naturalmente il contrario,  ossia che non c'era alcuno più
    esperto e più attivo di Bennigsen e che,  in qualsiasi modo si girasse
    la faccenda, bisognava pur sempre tornare a lui.  Gli uomini di questa
    corrente  dimostravano  che  la  nostra ritirata sino a Drissa era una
    disonorante sconfitta e una serie ininterrotta di errori.  "Quanti più
    errori  commetteranno",  dicevano,  "tanto  meglio  sarà:  per lo meno
    capiranno più presto che così non può andare.  Non abbiamo bisogno  di
    un  Barclay qualunque,  ma di un uomo come Bennigsen,  il quale ha già
    dimostrato con i fatti, nel 1807,  che tempra di uomo sia,  e al quale
    ha  reso  giustizia  Napoleone  stesso;  un  uomo  cui  si affiderebbe
    volentieri il potere. Di uomini simili non c'è che Bennigsen".
    La settima corrente era formata da  uomini  quali  si  trovano  sempre
    accanto ai sovrani,  specialmente se giovani, particolarmente numerosi
    accanto ad Aleksàndr: generali e aiutanti  di  campo,  che  gli  erano
    appassionatamente devoti non come imperatore, ma che lo adoravano come
    uomo,  con  sincerità  e  disinteresse,  come  Rostòv nel 1805,  e che
    vedevano in lui non solo tutte le virtù,  ma anche tutte le  possibili
    buone qualità umane.  Tutti questi personaggi,  sebbene ammirassero la
    modestia  dell'imperatore  che  rifiutava  il  comando  supremo  delle
    truppe, ne condannavano tuttavia l'eccesso e desideravano soltanto una
    sola cosa, sulla quale insistevano, ossia che il loro adorato sovrano,
    deposta la fiducia in se stesso, dichiarasse apertamente che si poneva
    a capo dell'esercito,  che costituisse attorno a sé uno stato maggiore
    da generalissimo, e con il consiglio, in caso di necessità,  di uomini
    esperti,  sia  in  pratica  sia  in teoria,  guidasse personalmente il
    proprio esercito che sarebbe stato acceso, per questo solo fatto,  dal
    più vivo entusiasmo.
    L'ottavo  gruppo,  il  più  numeroso,  che  per  l'enorme  quantità di
    aderenti stava agli altri nella proporzione di 99  a  1,  era  formato
    dagli  uomini  che  non  desideravano  né  la pace,  né la guerra,  né
    movimenti offensivi, né campi trincerati a Drissa o in qualsiasi altro
    posto, né Barclay,  né l'imperatore,  né Pfuhl,  né Bennigsen,  ma una
    cosa  sola,  la  più  importante di tutte: il maggior vantaggio per se
    stessi.  In quell'acqua torbida di intrighi che si incrociavano  e  si
    ingarbugliavano,  brulicando attorno al quartier generale del sovrano,
    era possibile ottenere molte cose impensabili in altri momenti.  C'era
    chi,  pur  di  non perdere la propria vantaggiosa posizione,  oggi era
    d'accordo con Pfuhl, domani con un suo avversario e pronto, posdomani,
    a dichiarare di non avere opinione alcuna su  un  dato  argomento,  al
    solo  scopo di scaricarsi di ogni responsabilità e di far cosa gradita
    al sovrano. Un altro, avido di raggiungere qualche vantaggio, attirava
    su di sé l'attenzione dell'imperatore gridando forte  le  stesse  cose
    alle  quali  quello  aveva  accennato  il giorno innanzi,  discuteva e
    urlava in consiglio picchiandosi il petto e sfidava a duello  chi  non
    era  della  sua opinione,  dimostrandosi in tal modo pronto a offrirsi
    come vittima per l'utilità  comune.  Un  terzo,  tra  un  consiglio  e
    l'altro,  e  in  assenza  dei  suoi  avversari,  sollecitava per sé un
    sussidio straordinario in ricompensa della sua  fedeltà  al  servizio,
    ben sapendo che non c'era il tempo per negarglielo. Un quarto capitava
    come per caso sotto gli occhi dell'imperatore, sovraccarico di lavoro.
    Un quinto,  per raggiungere una meta da lungo tempo desiderata, quella
    di essere invitato a pranzo dal sovrano, si accaniva nel dimostrare la
    verità e la falsità di un'opinione nuova e a questo scopo  si  serviva
    di esempi più o meno validi e giusti.
    Tutti gli appartenenti a questo partito andavano a caccia di rubli, di
    decorazioni,  di  gradi,  e  in  questa  caccia  seguivano soltanto la
    direzione della banderuola della benevolenza imperiale;  non appena si
    accorgevano  che la banderuola era volta in una data direzione,  tutto
    questo esercito di parassiti seguiva il vento che soffiava  da  quella
    parte,  cosicché  all'imperatore  riusciva  più  difficile  mutarne la
    direzione.  Nell'incertezza della situazione,  di fronte a un pericolo
    serio   e   minaccioso   che   conferiva  a  ogni  cosa  un  carattere
    particolarmente  allarmante,   in  questo  vortice  di  intrighi,   di
    ambizioni,  di discrepanze di opinioni, di contrastanti punti di vista
    e di sentimenti, di diverse nazionalità degli aderenti, quell'ottavo e
    più  numeroso  gruppo  di  persone,  occupate  unicamente  dai  propri
    interessi,   rendeva  più  ingarbugliato  e  più  torbido  l'andamento
    generale delle cose.  Qualsiasi questione fosse  sollevata,  ecco  che
    quello  sciame  di parassiti,  senza avere ancora finito di rimbeccare
    sul tema precedente,  si buttava su quello nuovo e con il  suo  ronzio
    soffocava e confondeva le voci sincere che discutevano.
    Da tutti questi partiti, proprio nel periodo in cui il principe Andréj
    raggiunse  l'esercito,  ne  stava  sbocciando un altro,  il nono,  che
    cominciava a far sentire la sua voce.  Era il partito  degli  anziani,
    degli  uomini  di  buon senso,  esperti di cose di governo che,  senza
    condividere nessuna delle opinioni contrastanti,  sapevano considerare
    obiettivamente tutto ciò che avveniva allo stato maggiore del quartier
    generale e trovare i mezzi per uscire da quella incertezza e da quella
    confusa indecisione.
    Gli  uomini  di  questo  partito dichiaravano e pensavano che tutto il
    male derivava principalmente dalla presenza  dell'imperatore  e  della
    sua  Corte  militare;  che  nell'esercito  era  penetrata quella vaga,
    convenzionale e oscillante  incostanza  di  rapporti,  comoda  in  una
    Corte,  ma  dannosa in un esercito;  che l'imperatore doveva regnare e
    non comandare un  esercito;  che  l'unico  modo  per  uscire  da  tale
    situazione  era  l'allontanamento  del  sovrano  e dei suoi cortigiani
    dall'esercito;   che  la  sola  presenza  dell'imperatore  paralizzava
    cinquantamila  uomini necessari per la salvaguardia della sua persona,
    che il peggiore dei generali in capo, ma indipendente,  sarebbe sempre
    stato  migliore dei generali impacciati dalla presenza e dall'autorità
    dell'imperatore.
    Mentre il principe  Andréj  stava  a  Drissa  senza  alcuna  mansione,
    Sciskòv,  segretario  di  stato  e  uno  dei più autorevoli aderenti a
    questo partito,  scrisse una lettera all'imperatore,  che  Balascëv  e
    Arakceev consentirono a firmare.  In quella lettera, approfittando del
    permesso avuto dal sovrano di discutere sull'andamento generale  delle
    cose  militari,  Sciskòv  rispettosamente  e  con  il  pretesto  della
    necessità  per  l'imperatore  di  suscitare  nella  popolazione  della
    capitale  l'entusiasmo  per  la  guerra,  gli  proponeva  di  lasciare
    l'esercito.
    E proprio l'entusiasmo per la  guerra,  suscitato  nel  popolo  da  un
    appello  del  sovrano  in  difesa della patria,   -  in quanto causato
    dalla sua presenza a Mosca    -    proprio  questo  che  fu  la  causa
    principale del trionfo finale della Russia,  venne presentato e da lui
    accettato come un pretesto offertogli per lasciare l'esercito.


    CAPITOLO 10.

    La lettera  non  era  stata  ancora  trasmessa  all'imperatore  quando
    Barclay,  durante  il  pranzo,  comunicò  a  Bolkonskij che il sovrano
    desiderava vederlo personalmente per interrogarlo  a  proposito  della
    Turchia e che lo invitava a trovarsi la sera alle sei nell'alloggio di
    Bennigsen.
    In   quello   stesso   giorno   era   giunta  nel  quartiere  generale
    dell'imperatore la notizia di un  nuovo  movimento  di  Napoleone  che
    poteva  essere  pericoloso  per  l'esercito.   Notizia  risultata,  in
    seguito,  inesatta.   Nella  mattinata  di  quel  giorno  stesso,   il
    colonnello   Michaud   (59)   aveva   percorso   con  l'imperatore  le
    fortificazioni sulla Drissa  e  gli  aveva  dimostrato  che  il  campo
    trincerato  fatto  costruire da Pfuhl e ritenuto sino allora il "chef-
    d'oeuvre" di tattica che doveva rovinare Napoleone, era un'assurdità e
    sarebbe stato la rovina dell'esercito russo.
    Il principe Andréj si recò all'abitazione del generale  Bennigsen  che
    occupava  una piccola casa padronale situata proprio in riva al fiume.
    Non vi trovò né Bennigsen né l'imperatore, ma Cernyscëv (60), aiutante
    di campo dell'imperatore, che accolse Bolkonskij e gli comunicò che il
    sovrano era andato con il generale Bennigsen e il marchese Paolucci  a
    visitare  per  la seconda volta le fortificazioni del campo di Drissa,
    delle quali si cominciava a mettere in dubbio l'efficacia.
    Cernyscëv stava seduto presso la finestra intento alla lettura  di  un
    romanzo  francese.  Con  tutta probabilità quella stanza doveva essere
    stata,  in passato,  un salone;  vi erano ancora un organo,  sul quale
    erano  stati  ammassati  alcuni  tappeti,  e  in  un  angolo  il letto
    dell'aiutante di Bennigsen.  Quell'aiutante,  evidentemente stanco per
    una  festa e per il lavoro,  rannicchiato sulla branda,  dormiva.  Due
    usci che si aprivano nel salone portavano,  l'uno direttamente  in  un
    antico  salotto,  l'altro  nello  studio.  Al di là del primo uscio si
    udivano alcune voci che parlavano in tedesco e, a tratti, in francese.
    Là nel salotto di un tempo era riunito, per desiderio del sovrano, non
    un Consiglio di guerra (al giovane zar piacevano le cose un po' vaghe)
    ma un gruppo di persone la cui  opinione,  nelle  attuali  difficoltà,
    egli  desiderava conoscere.  Non si trattava dunque di un Consiglio di
    guerra vero e proprio,  ma  di  una  riunione  di  uomini  scelti  per
    chiarire  personalmente  all'imperatore alcuni problemi.  Questo semi-
    consiglio era costituito dallo svedese generale Armfeld,  dal generale
    aiutante  Wohlzogen,  da  Wintzingerode,  che  Napoleone  chiamava  un
    fuoriuscito francese, da Michaud, da Toll, dal conte Stein che non era
    per nulla uomo di guerra e, infine, dallo stesso Pfuhl il quale,  come
    il principe Andréj aveva sentito dire, era la "cheville ouvrière" [61.
    molla principale] di tutta la campagna.
    Il  principe  Andréj ebbe occasione di osservarlo bene,  giacché Pfuhl
    giunse poco dopo di lui e passò in salotto, dopo essersi trattenuto un
    momento a scambiare qualche parola con Cernyscëv.
    Alla prima occhiata,  nella sua uniforme malfatta di  generale  russo,
    che  egli  portava  goffamente  come  se  fosse  mascherato,  parve al
    principe Andréj  -  benché non lo avesse mai veduto  -    una  persona
    nota.  Vi era in lui qualcosa di Veirother,  di Mack,  di Schmidt e di
    molti altri generalissimi teorici  tedeschi  che  il  principe  Andréj
    aveva avuto occasione di vedere nel 1805; ma questo era il più tipico:
    un  teorico  tedesco  che riuniva in sé tutto ciò che era negli altri,
    quale il principe Andréj non aveva mai veduto.
    Pfuhl era un uomo  non  alto,  molto  magro,  di  ossatura  larga,  di
    costituzione  grossolana  e robusta,  dal bacino ampio e dalle costole
    sporgenti.  Il viso era  coperto  di  rughe,  gli  occhi  erano  molto
    infossati, i capelli, evidentemente lisciati con la spazzola in fretta
    e furia sul davanti,  si drizzavano dietro in ciuffetti dall'apparenza
    ingenua. Entrò guardandosi attorno con aria inquieta e irritata,  come
    se  in  quella  grande  stanza  tutto gli destasse un senso di timore.
    Reggendo goffamente la sciabola,  si volse a Cernyscëv e gli  domandò,
    in tedesco, dove fosse l'imperatore. Si capiva che desiderava lasciare
    al  più  presto  la  stanza,  finirla  con  i saluti e i convenevoli e
    sedersi al lavoro davanti a una carta militare,  là  dove  si  sentiva
    veramente al suo posto. Alle parole di Cernyscëv rispondeva con rapidi
    cenni   del   capo  e  sorrideva  ironicamente  nel  sentir  dire  che
    l'imperatore era andato a visitare le fortificazioni che  lui  stesso,
    Pfuhl,  aveva  fatto  costruire  secondo  le proprie teorie.  Brontolò
    qualcosa tra sé e sé con voce brusca da basso, come sogliono parlare i
    Tedeschi sicuri del fatto loro: "Dummkopf..." oppure  "zu  Grunde  die
    ganze  Geschichte...  oppure  s'wird  was Gescheites d'raus werden..."
    [62.  Stupido...   Andrà  tutto  male...   Ne  risulterà  qualcosa  di
    sensato...].  Il  principe  Andréj  non  sentì  chiaramente e fece per
    uscire,   ma  Cernyscëv  lo  presentò  a  Pfuhl,   facendo  notare   a
    quest'ultimo  che il principe Andréj era arrivato dalla Turchia,  dove
    la guerra aveva avuto una felice conclusione.  Pfuhl sfiorò appena con
    gli  occhi il principe Andréj e,  guardando oltre,  disse ridendo: "De
    muss ein schöner taktischer Krieg gewesen sein!" [63. Dev'essere stata
    una magnifica guerra tattica!]. Poi, con un sorriso sprezzante,  passò
    nella stanza da cui provenivano le voci.
    Evidentemente  Pfuhl,  già  sempre incline a un'ironia irritata,  quel
    giorno era particolarmente eccitato per il fatto  che  avessero  osato
    visitare  senza di lui il suo campo e criticarlo.  Il principe Andréj,
    da quel breve incontro e con l'aiuto dei ricordi di Austerlitz, riuscì
    a farsi una chiara opinione di quell'uomo.  Pfuhl era  una  di  quelle
    persone irrimediabilmente, ostinatamente presuntuose sino al martirio,
    come soltanto possono esserlo i Tedeschi,  proprio perché soltanto nei
    Tedeschi la presunzione si basa su un'idea astratta, quale la scienza,
    cioè sulla presunta conoscenza della verità.  Il francese è sicuro  di
    sé  perché  si  ritiene  irresistibile  tanto nello spirito quanto nel
    corpo,  così per gli uomini come per  le  donne;  l'inglese  fonda  la
    propria  sicurezza  sul  fatto  di essere cittadino dello stato meglio
    organizzato del mondo e  pertanto,  nella  sua  qualità  di  cittadino
    inglese, sa sempre quello che deve fare e sa che tutto quello che fa è
    sempre  indubbiamente  ben  fatto.  L'italiano è presuntuoso perché si
    agita,  si commuove e dimentica facilmente sé e gli altri.  Il russo è
    sicuro  di  se  stesso proprio perché non sa e non vuol sapere niente,
    perché è convinto che non sia possibile sapere compiutamente qualsiasi
    cosa. Il tedesco presuntuoso è il peggiore di tutti, il più ostinato e
    il più antipatico perché crede di conoscere  la  verità,  una  scienza
    cioè  che  egli  stesso  ha  inventato,  ma  che  per  lui è la verità
    assoluta.
    Un uomo di tal genere era evidentemente Pfuhl.  Possedeva una scienza,
    la teoria del movimento obliquo, che aveva ricavato dalla storia delle
    guerre  di Federico il Grande;  tutto ciò che veniva a conoscere nella
    storia  militare  recente  gli  pareva  un  nonsenso,   una  barbarie,
    un'assurdità  nella  quale entrambe le parti in lotta avevano commesso
    errori siffatti da rendere quelle guerre indegne di  tale  nome:  esse
    non seguivano la teoria, e quindi non potevano servire da argomento di
    scienza.
    Nell'anno  1806  Pfuhl era stato uno degli organizzatori del piano che
    si concluse con Jena e Auerstadt;  ma nell'esito  infelice  di  quella
    guerra egli non vedeva la benché minima dimostrazione dell'inesattezza
    della  sua  teoria.  Al  contrario,  lo scostarsi dalle sue teorie era
    stato secondo lui la vera causa dell'insuccesso,  e con quella allegra
    ironia  che gli era caratteristica,  soleva dire: "Ich sagte ja,  dass
    die ganze Geschichte zum Teufel gehen werde!" [64.  L'avevo pur  detto
    io  che  tutto  sarebbe  andato  al  diavolo!].  Pfuhl era uno di quei
    teorici che amano le loro teorie tanto da dimenticare lo scopo,  ossia
    l'applicazione  pratica;  appunto  per amore della teoria odiava tutto
    ciò che era pratica e non voleva occuparsene. Si rallegrava persino di
    un insuccesso, perché un insuccesso derivato dall'allontanamento della
    teoria dalla pratica non faceva che dimostrargli  la  giustezza  della
    sua teoria.
    Egli  scambiò  alcune  parole con il principe Andréj e Cernyscëv sulle
    guerre in atto con l'espressione di chi sa già che tutto andrà male  e
    che  non  ne  è neppure scontento.  I ciuffetti di capelli ritti sulla
    nuca e le tempie pettinate in fretta  e  furia  lo  dicevano  con  una
    particolare eloquenza.
    Egli  passò nella stanza attigua e subito giunsero di là le note basse
    e brontolanti della sua voce.


    CAPITOLO 11.

    Il principe Andréj stava ancora seguendo con lo sguardo  Pfuhl  quando
    entrò frettolosamente nella stanza Bennigsen che, fatto con il capo un
    cenno di saluto a Bolkonskij,  passò senza fermarsi nello studio, dopo
    aver dato alcuni  ordini  al  suo  aiutante.  L'imperatore  stava  per
    raggiungerlo,  e  Bennigsen  lo  aveva preceduto per preparare qualche
    cosa ed essere pronto a ricevere il sovrano.  Cernyscëv e il  principe
    Andréj  uscirono  sulla  scalinata.  L'imperatore scendeva da cavallo,
    visibilmente stanco.  Il marchese Paolucci gli stava  dicendo  qualche
    cosa.  Con  il  capo  leggermente  piegato verso sinistra e con l'aria
    scontenta,  il sovrano ascoltava le parole che  il  suo  interlocutore
    pronunziava  con  un  particolare calore.  L'imperatore avanzò qualche
    passo,  desiderando evidentemente abbreviare quella conversazione,  ma
    il Paolucci,  rosso in viso e agitato, dimentico delle convenienze, lo
    seguiva, continuando a parlare.
    - "Quant à celui qui a conseillé le camp,  le  camp  de  Drissa"  [65.
    Quanto a colui che ha consigliato questo campo, il campo di Drissa]  -
    diceva mentre l'imperatore,  che stava salendo i gradini, avendo visto
    il  principe  Andréj  ne  fissava  il  viso  che  non   gli   riusciva
    sconosciuto.    -   "Quant à celui,  Sire,"  -  proseguiva con accento
    disperato Paolucci come se gli fosse impossibile trattenersi  -   "qui
    a conseillé le camp de Drissa,  je ne vois pas d'autre alternative que
    la maison jaune ou le  gibet"  [66.  Quanto  a  colui,  sire,  che  ha
    consigliato  il  campo  di  Drissa,  non  vedo  altra  alternativa: il
    manicomio o la forca!].  Senza più ascoltarlo  e  con  l'aria  di  non
    sentire  neppure  le parole dell'italiano,  l'imperatore che aveva ora
    riconosciuto Bolkonskij gli rivolse la parola con molta benevolenza:
    - Felicissimo di vederti!  Va' pure dove sono  riuniti  i  generali  e
    aspettami!
    L'imperatore,  seguito dal principe Pëtr Michàjlovic' Volkonskij e dal
    barone Stein,  entrò nello studio,  e  l'uscio  fu  chiuso  alle  loro
    spalle.    Il    principe    Andréj,    approfittando   del   permesso
    dell'imperatore, passò con Paolucci,  che aveva conosciuto in Turchia,
    nel salotto dove si era riunito il Consiglio.
    Il  principe  Pëtr  Michàjlovic'  Volkonskij aveva funzioni analoghe a
    quelle di capo di stato  maggiore  dell'imperatore.  Egli  uscì  dallo
    studio  portando  delle  carte  in  salotto;  spiegatele sulla tavola,
    espose le questioni sulle quali desiderava  conoscere  l'opinione  dei
    personaggi riuniti a consiglio. Si trattava della notizia giunta nella
    notte e risultata poi falsa,  di un movimento di Francesi per aggirare
    il campo di Drissa.
    Prese per primo la parola il generale Armfeld il quale,  per  sfuggire
    alle  difficoltà  che  si  presentavano,  propose inaspettatamente una
    posizione affatto nuova (che nulla giustificava  all'infuori  del  suo
    desiderio  di  dimostrare  che  anch'egli  era  in  grado di esprimere
    un'opinione),  lontana dalle strade di Pietroburgo e  di  Mosca  dove,
    secondo lui, l'esercito doveva concentrarsi e aspettare il nemico. Era
    chiaro  che  Armfeld già da un pezzo aveva escogitato quel piano e che
    lo esponeva adesso,  non tanto allo scopo di rispondere alle questioni
    proposte,   alle   quali   quel  piano  non  rispondeva,   quanto  per
    approfittare dell'occasione per esporlo.  Era una proposta che  poteva
    esser  fatta  con  lo  stesso fondamento di milioni di altre e che non
    aveva neppure la più vaga idea dei caratteri che  avrebbe  assunto  la
    guerra.  Alcuni  criticarono,  altri  sostennero  la sua opinione.  Il
    giovane colonnello Toll confutò con calore la  proposta  del  generale
    svedese  e  durante  la  discussione estrasse da una tasca laterale un
    quaderno coperto di caratteri fitti fitti  e  chiese  il  permesso  di
    leggerlo.  Nella sua nota prolissa, Toll proponeva un diverso piano di
    guerra,  assolutamente contrario a  quelli  di  Armfeld  e  di  Pfuhl.
    Paolucci,  rispondendo  a  Toll,  propose  un  piano  di avanzata e di
    attacco,  il solo che,  secondo le  sue  parole,  ci  poteva  liberare
    dall'incertezza  e  dalla  trappola  (così  egli  chiamava il campo di
    Drissa) nella  quale  l'esercito  russo  era  caduto.  Durante  queste
    discussioni  Pfuhl  e  il suo interprete Wohlzogen (che gli serviva da
    ponte nei rapporti  con  la  Corte)  tacevano.  Pfuhl  si  limitava  a
    bofonchiare sprezzantemente e a voltarsi dall'altra parte, dimostrando
    così  che  non  si sarebbe mai abbassato a occuparsi delle sciocchezze
    che sentiva dire in quel momento.  Ma quando il  principe  Volkonskij,
    che  presiedeva  alla  discussione,  lo  invitò  a  esprimere  la  sua
    opinione, egli disse soltanto:
    - A che scopo  interrogarmi?  Il  generale  Armfeld  ha  proposto  una
    posizione  ottima,  scoperta  alle  spalle.  O  l'attacco  "von diesem
    italienischen Herrn, sehr schön",  oppure la ritirata: "auch gut" [67.
    ...di questo signore italiano, molto buono (...) va anche bene]. A che
    pro interrogarmi?   -  ripeté.   -  Sapete queste cose assai meglio di
    me.
    Ma quando Volkonskij, aggrottandosi,  gli dichiarò che chiedeva la sua
    opinione  a  nome  dell'imperatore,   Pfuhl  si  alzò  e,   animandosi
    all'improvviso, prese a parlare.
    - Hanno rovinato e imbrogliato tutto,  hanno preteso di sapere più  di
    me ed ecco che ora si rivolgono proprio a me.  Come rimediare? Non c'è
    niente da rimediare.  Bisogna eseguire con il massimo  scrupolo  e  la
    massima precisione le basi che ho dato  -  disse,  battendo sul tavolo
    le dita ossute.  -  Dove sono le difficoltà? Sciocchezze, Kinderspiel!
    [68.  Giochi da bimbo!].   Si avvicinò alla carta e si mise a  parlare
    rapidamente,  puntandovi sopra il dito magro e dimostrando che nessuna
    eventualità poteva alterare l'opportunità di  infirmare  il  campo  di
    Drissa,  che  tutto  era stato previsto,  e che,  se i nemici avessero
    realmente tentato l'aggiramento, sarebbe stato senz'altro annientato.
    Paolucci,  che non conosceva il tedesco,  cominciò a  interrogarlo  in
    francese.  Wohlzogen  venne  in  aiuto al suo principale,  che parlava
    malamente il francese, e si mise a tradurre,  seguendo a fatica Pfuhl,
    il quale dimostrava rapidamente che tutto, tutto, non solo ciò che era
    accaduto,  ma  anche ciò che sarebbe potuto accadere,  tutto era stato
    previsto nel suo piano e che, se ora erano sorte difficoltà,  la causa
    era  da  attribuirsi  al  fatto  che non tutto era stato perfettamente
    eseguito.  Continuava  a  sorridere  ironicamente  e  a  dare  le  sue
    dimostrazioni;   poi,   di   colpo,   interruppe   sprezzantemente  di
    dimostrare, come un matematico smette di verificare con metodi diversi
    l'esattezza di un teorema ormai  dimostrato.  Wohlzogen  lo  sostituì,
    continuando a esporre le idee in francese, e dicendo di tanto in tanto
    a Pfuhl: "Nicht wahr, Exzellenz?" [69. Non è vero, eccellenza?].
    Pfuhl,  come un uomo che,  acceso dal furore della battaglia, colpisce
    persino i suoi, gridava irritato anche contro Wohlzogen:
    - "Num ja, was soll denn da noch evpliziert werden?" [70.  Ma sì,  che
    cosa si deve ancora spiegare?].
    Paolucci  e  Michaud  assalivano a due voci,  in francese,  Wohlzogen;
    Armfeld si rivolgeva a Pfuhl  in  tedesco;  Toll  dava  spiegazioni  a
    Volkonskij parlando russo. Il principe Andréj ascoltava e osservava in
    silenzio.
    Tra tutti questi personaggi,  l'uomo che gli ispirava maggior simpatia
    era Pfuhl, irritato, risoluto,  sicuro di se stesso.  Pfuhl solo,  fra
    tutti  i  presenti,  evidentemente  non  desiderava nulla per sé,  non
    nutriva  inimicizie  per  nessuno,   aspirava  unicamente   a   vedere
    realizzato  quel suo piano,  derivato dalla teoria,  frutto di anni di
    lavoro. Egli era ridicolo, urtante per la sua ironia,  ma nello stesso
    tempo  ispirava un involontario rispetto per la sua infinita dedizione
    a un'idea. Inoltre,  in tutti i discorsi di coloro che interloquivano,
    eccezion fatta per quelli di Pfuhl, c'era un tratto comune che mancava
    nel  Consiglio di guerra del 1805: era un timor panico,  inconfessato,
    dinanzi al  genio  di  Napoleone,  timore  che  si  rivelava  in  ogni
    obiezione.  Supponevano  che  tutto  fosse  possibile a Napoleone,  lo
    aspettavano da tutte le parti,  con il  suo  terribile  nome  ciascuno
    distruggeva   le   supposizioni  dell'altro.   Pfuhl  soltanto  pareva
    considerare Napoleone un barbaro quanto tutti coloro che si opponevano
    alle sue  teorie.  Ma,  oltre  a  un  sentimento  di  rispetto,  Pfuhl
    suscitava nel principe Andréj un sentimento di pietà.  Dal tono stesso
    con il quale gli altri cortigiani gli si rivolgevano,  da  quello  che
    Paolucci  si era permesso di dire all'imperatore ma,  soprattutto,  da
    alcune disperate espressioni di Pfuhl stesso,  era  evidente  che  gli
    altri sapevano, ed egli stesso sentiva, essere prossima la sua caduta.
    E,  nonostante  la fiducia in se stesso e quella sua ironia brontolona
    tedesca, egli faceva pena,  con quei capelli lisci sulle tempie che si
    rizzavano a ciuffi sulla nuca.  Era chiaro che, sebbene si nascondesse
    sotto l'irritazione e il disprezzo,  egli si sentiva disperato  perché
    l'unica  occasione  per  dimostrare a tutto il mondo con un gigantesco
    esperimento la veridicità delle sue teorie, gli sfuggiva dalle mani.
    La discussione durò a lungo: quanto più  si  protraeva  tanto  più  si
    faceva accesa e animata, sino a raggiungere alte tonalità e tanto meno
    era  possibile  trarre una qualsiasi conclusione generale da tutto ciò
    che  era  stato  detto.   Il  principe   Andréj,   ascoltando   quella
    conversazione in lingue diverse,  quelle proposte,  quei piani, quelle
    contraddizioni,  quegli scoppi di voce,  si meravigliava soltanto  che
    tutta  quella gente continuasse a parlare.  L'idea che già da un pezzo
    gli si era tante volte affacciata alla mente durante il  suo  servizio
    militare,  che  cioè  non  esiste  e non può esistere una vera scienza
    della guerra e che  quindi  non  possono  esservi  i  cosiddetti  geni
    militari,  acquistava  ora  per  lui l'assoluta evidenza della verità.
    "Quale teoria, quale scienza ci può essere in un genere di attività le
    cui condizioni e circostanze sono ignote? Nessuno ha mai potuto né può
    determinare in quali condizioni si troveranno  il  nostro  esercito  e
    quello del nemico da un giorno all'altro; nessuno può sapere quale sia
    la  forza  d'azione  di  questo o di quel reparto di truppe.  A volte,
    quando in prima fila non  capiti  un  pusillanime  che  gridi:  "Siamo
    tagliati  fuori!"  e  che  scappi,  ma vi sia invece un uomo allegro e
    coraggioso che urli: "Urrà!"  un  reparto  di  cinquemila  uomini  può
    valere  quanto  uno di trentamila,  come accadde sotto Schöngraben;  e
    tal'altra volta cinquantamila uomini fuggono davanti a  ottomila  come
    ad  Austerlitz.  Quale scienza può esistere per un'attività pratica in
    cui nulla può essere definito,  in cui  tutto  dipende  da  condizioni
    innumerevoli  che  assumono  un  senso  preciso in un dato momento che
    nessuno conosce in anticipo?  Armfeld dice che il  nostro  esercito  è
    tagliato fuori;  Paolucci sostiene invece che abbiamo messo l'esercito
    francese tra due fuochi;  Michaud afferma che il campo della Drissa  è
    uno  sbaglio perché ha un fiume alle spalle,  mentre Pfuhl insiste nel
    dire che proprio in questo sta la sua forza;  Toll propone  un  piano,
    Armfeld ne propone un altro. Tutti sono buoni e tutti sono cattivi, ma
    i vantaggi di ciascuna proposta non possono essere evidenti se non nel
    momento  in  cui  un avvenimento si svolge.  E perché tutti dicono: un
    genio militare? E' forse un genio chi a tempo opportuno sa ordinare di
    portare viveri e sa ordinare a un reparto di andare a destra  e  a  un
    altro  di  andare  a  sinistra?  Solo perché gli uomini di guerra sono
    circondati dal prestigio del potere e la folla dei  pusillanimi  sente
    il  bisogno di adulare il potere,  attribuendogli le qualità del genio
    che non ha, essi sono chiamati geni. Al contrario, i migliori generali
    che io ho conosciuto erano  uomini  stupidi  o  distratti.  Fra  tutti
    eccelle  Bagratiòn:  l'ha  riconosciuto anche Napoleone.  Ma lo stesso
    Bonaparte!  Ricordo il suo viso soddisfatto e mediocre  sul  campo  di
    Austerlitz...  Non  solo a un buon condottiero non occorre il genio né
    alcun'altra qualità  particolare,  ma  direi  addirittura  che  gli  è
    necessaria  la  mancanza delle più nobili e alte qualità umane: amore,
    poesia, tenerezza,  dubbio filosofico.  Un buon capitano dev'essere di
    mentalità limitata, fermamente convinto che ciò che fa è della massima
    importanza  (altrimenti  gli  verrebbe  meno la pazienza),  e soltanto
    allora  sarà  un  valoroso  condottiero.   Dio  guardi  un  tale  uomo
    dall'avere  sentimenti umani!  Guai a lui se sente amore o compassione
    per qualcuno,  se medita su ciò che è giusto o  ingiusto!  Si  capisce
    come sin dai tempi antichi si sia creata per loro la teoria del genio,
    perché  essi  rappresentano  il  potere.  Il  merito  del  successo di
    un'azione militare non dipende da loro, ma da quell'uomo qualunque che
    nelle file grida: "Siamo perduti!" oppure: "Urrà!". E soltanto lì,  in
    quelle file, si può servire con la certezza di essere utili!".
    Così   pensava  il  principe  Andréj  mentre  ascoltava  tutte  quelle
    discussioni;  si riscosse soltanto quando Paolucci lo chiamò  e  tutti
    già si separavano.
    Il  giorno  seguente,  durante  la  rivista,  l'imperatore  domandò al
    principe Andréj dove  desiderasse  prender  servizio,  e  il  principe
    Andréj  si perdette per sempre nella stima dei cortigiani per non aver
    chiesto di rimanere addetto alla persona dell'imperatore,  ma di poter
    prestare servizio nell'esercito operante.


    CAPITOLO 12.

    Prima  dell'inizio  della  campagna,  Rostòv ricevette una lettera dai
    suoi genitori,  nella quale  gli  si  dava  brevemente  notizia  della
    malattia  di Natascia e della rottura del fidanzamento con il principe
    Andréj (rottura che gli spiegavano causata dal rifiuto di lei),  e  lo
    si  pregava  nuovamente  di  dare  le  dimissioni e di tornare a casa.
    Nikolàj, dopo aver letto la lettera, non tentò neppure di ottenere una
    licenza o di dare le dimissioni, ma scrisse ai genitori che gli doleva
    assai della malattia di Natascia e della rottura con  il  fidanzato  e
    che avrebbe fatto tutto il possibile per realizzare il loro desiderio.
    A Sònja scrisse a parte.
    "Amica  adorata  dell'anima  mia",  scriveva,  "nulla  se  non l'onore
    potrebbe trattenermi dal tornare in campagna.  Ma ora,  mentre  stanno
    per aprirsi le ostilità,  mi riterrei disonorato non solo di fronte ai
    miei compagni,  ma anche di fronte a me stesso se anteponessi  la  mia
    felicità  al  dovere  e all'amore di patria.  Ma questa sarà la nostra
    ultima separazione. Credimi che, non appena finita la guerra,  se sarò
    vivo  e  tu  mi  amerai  ancora,  lascerò  tutto  e  volerò  da te per
    stringerti per sempre al mio petto ardente d'amore".
    In realtà era stato soltanto l'inizio della guerra a trattenere Rostòv
    e a impedirgli di tornare  -  come aveva promesso    -    per  sposare
    Sònja.  L'autunno a Otràdnoe con le cacce,  e l'inverno,  con le feste
    natalizie,  e l'amore di Sònja gli avevano aperto una  prospettiva  di
    quiete gioie domestiche e di una tranquillità che prima aveva ignorato
    e che lo attraevano.  "Una brava moglie,  dei bimbi, una buona muta di
    cani, dieci o dodici coppie di levrieri,  l'amministrazione domestica,
    i vicini, un ufficio elettivo!" pensava. Ma adesso la guerra stava per
    avere inizio e bisognava rimanere al reggimento.  E poiché così doveva
    essere, Nikolàj Rostòv,  dato il suo carattere,  era soddisfatto della
    vita che conduceva al reggimento e sapeva rendersela piacevole.
    Ritornato dalla licenza e accolto lietamente dai colleghi, Nikolàj era
    stato  mandato  in  servizio  di  rimonta  ed era tornato dall'Ucraina
    portando con sé ottimi cavalli che gli avevano  procurato  una  grande
    gioia  e  molti  elogi da parte dei superiori.  Durante la sua assenza
    egli era stato promosso capitano e quando il reggimento  fu  messo  in
    assetto  di  guerra,  aumentando gli effettivi,  ebbe il comando dello
    squadrone che aveva lasciato.
    Cominciò la guerra, il reggimento fu mandato in Polonia,  gli stipendi
    furono raddoppiati;  arrivarono nuovi ufficiali,  nuovi soldati, altri
    cavalli e, soprattutto,  si formò quell'atmosfera eccitante e gaia che
    caratterizza  l'inizio  di  ogni  guerra: e Rostòv,  consapevole della
    posizione vantaggiosa che aveva nel reggimento, si dedicava totalmente
    agli interessi e ai piaceri del servizio militare, sebbene sapesse che
    presto o tardi avrebbe dovuto lasciarlo.
    Le truppe si erano ritirate da Vilna, per varie e complesse ragioni di
    stato,   di  politica  e  di  tattica.   Ogni  indietreggiamento   era
    accompagnato  da un gioco assai complicato di interessi,  di progetti,
    di passioni.  Ma per gli ussari del  reggimento  di  Pàvlograd  quella
    ritirata,  nel  miglior periodo dell'estate,  con sufficienti viveri e
    munizioni,  fu la cosa più semplice e più allegra.  Lo scoraggiamento,
    l'inquietudine,  le  critiche  non  potevano  esistere che al quartier
    generale,  ma tra le file dell'armata  nessuno  si  domandava  neppure
    perché si indietreggiasse né sin dove.  C'era,  sì,  chi deplorava, ma
    soltanto per il rammarico di dover lasciare un comodo alloggio, cui si
    era abituato,  o una bella ragazza polacca.  E se pur qualcuno pensava
    che  le  cose si mettevano male,  cercava,  come si conviene a un buon
    militare,   di  essere  allegro  ugualmente   e   di   non   occuparsi
    dell'andamento  generale  della guerra,  ma soltanto dei propri doveri
    immediati.  Da principio la massima  letizia  regnava  tra  i  soldati
    acquartierati  nelle vicinanze di Vilna;  si facevano conoscenze con i
    proprietari   polacchi,    si   aspettavano   le    riviste    passate
    dall'imperatore  e  dagli  altri  comandanti  superiori.   Poi  giunse
    l'ordine di ritirarsi verso Swentziany e di distruggere tutti i viveri
    che  non  si  potevano  trasportare.   Di  Swentziany  gli  ussari  si
    ricordavano  soltanto  perché quello era il "campo delle ubriacature",
    come tutto l'esercito l'aveva soprannominato,  e perché  lì  si  erano
    avute   molte  proteste  contro  i  soldati  i  quali,   approfittando
    dell'ordine di requisire i viveri,  si  erano  impadroniti  anche  dei
    cavalli,  delle carrozze e dei tappeti dei signori polacchi. Rostòv si
    ricordava di Swentziany perché proprio il giorno in cui era entrato in
    quel villaggio aveva fatto sostituire il maresciallo d'alloggio e  non
    era  riuscito  a  tenere  a  freno i soldati del suo squadrone,  tutti
    ubriachi,  giacché,  a  sua  insaputa,   avevano  portato  via  cinque
    barilotti di birra vecchia. Da Swentziany le truppe avevano continuato
    a  indietreggiare sino a Drissa e poi di là,  continuando a ripiegare,
    stavano avvicinandosi alla frontiera russa.
    Il 13 luglio,  per la prima volta gli ussari di Pàvlograd si trovarono
    impegnati in un'azione importante.
    Durante  la notte del 12,  vigilia dello scontro,  si era scatenato un
    violento temporale con grandine e pioggia.  L'estate del  1812  fu  in
    complesso caratterizzata da molte burrasche.
    Due  squadroni  del reggimento di Pàvlograd bivaccavano in un campo di
    segala già in spiga, calpestata e completamente devastata dal bestiame
    e dai cavalli.  Pioveva a dirotto,  e Rostòv con un giovane  ufficiale
    suo protetto,  un certo Iliìn,  stava seduto sotto un riparo costruito
    alla bell'e meglio. Un ufficiale del loro reggimento, dai lunghi baffi
    che scendevano oltre le guance,  sorpreso dalla pioggia mentre tornava
    dallo stato maggiore, si avvicinò a Rostòv.
    - Conte,  vengo dal comando. Avete sentito parlare dell'atto eroico di
    Raevskij?  (71)   -    E  l'ufficiale  raccontò  i  particolari  della
    battaglia  di  Saltànovka,  che  aveva  sentito  descrivere allo stato
    maggiore.
    Rostòv, torcendo il collo per l'acqua che vi scorreva, fumando la pipa
    e,  senza molto curarsi di ciò che ascoltava,  guardava  di  tanto  in
    tanto  il  giovane ufficiale Iliìn che gli stava accanto.  Questi,  un
    ragazzo di sedici anni giunto da poco al reggimento,  era con  Nikolàj
    negli  stessi rapporti che Nikolàj aveva avuto con Denissov sette anni
    prima.  Iliìn cercava in  tutti  i  modi  di  imitare  Rostòv  ed  era
    innamorato di lui come una donna.
    L'ufficiale  dai  grandi baffi,  Zdrzinskij,  raccontava con enfasi il
    motivo per cui quella diga  di  Saltànovka  era  stata  una  Termopili
    russa,  e  come  su quella diga il generale Raevskij aveva compiuto un
    gesto degno dell'antichità. Zdrzinskij raccontava che Raevskij,  sotto
    un  nutrito fuoco di fucileria,  aveva condotto i suoi due figli sulla
    diga e con essi si era slanciato all'attacco.  Rostòv ascoltava e  non
    solo  non  diceva nulla che sostenesse l'entusiasmo del narratore,  ma
    aveva anzi il contegno di un uomo che provasse vergogna per quello che
    udiva,  pur non avendo alcuna intenzione di fare  obiezioni.  Dopo  la
    campagna di Austerlitz e quella del 1807, Rostòv sapeva per esperienza
    propria,  che nel raccontare le avventure di guerra si inventa sempre,
    come egli stesso aveva mentito raccontando le sue;  in  secondo  luogo
    aveva  abbastanza  esperienza  per  sapere che in guerra nulla avviene
    come noi possiamo immaginare e come ci accade di ascoltare.  E  perciò
    non  gli piaceva il racconto di Zdrzinskij il quale,  con i suoi baffi
    più lunghi delle guance,  aveva l'abitudine di avvicinarsi  troppo  al
    viso  della  persona con cui stava parlando e ora lo serrava da presso
    nell'angusta  capannuccia.  "In  primo  luogo,   sulla  diga  assalita
    l'agitazione e la confusione dovevano essere state tali che,  se anche
    Raevskij vi avesse condotto i suoi  figli,  soltanto  dieci  o  dodici
    uomini  che  gli  stavano  proprio  accanto  se ne sarebbero accorti",
    pensava Rostòv.  "Gli altri non potevano certo distinguere come e  con
    chi Raevskij avanzasse sulla diga. Ma anche quelli che l'avranno visto
    non   potevano  entusiasmarsi  molto  giacché  che  cosa  doveva  loro
    importare dei teneri sentimenti paterni di Raevskij in un  momento  in
    cui ognuno aveva da pensare alla propria pelle?  E poi,  dal fatto che
    fosse conquistata o no la diga di Saltànovka non dipendeva affatto  il
    destino  della  patria,  come  invece,  ci dicono,  fu alle Termopili.
    Perché, dunque, compiere un simile sacrificio? E poi, perché mescolare
    alla guerra i propri figli?  Io,  non  solo  non  avrei  condotto  mio
    fratello  Pétja,  ma neppure Iliìn che per me è un estraneo,  ma che è
    tanto buono e che avrei invece cercato di mettere in qualsiasi modo al
    riparo  dal  pericolo",   continuava  a  pensare   Rostòv   ascoltando
    Zdrzinskij.  Ma  non  espresse  i  propri  pensieri: la sua esperienza
    glielo impediva. Egli sapeva che quel racconto contribuiva alla gloria
    dell'esercito russo e perciò bisognava  far  mostra  di  non  dubitare
    affatto. E così fece.
    - Ma ora non ne posso più  -  interloquì Iliìn,  il quale aveva notato
    che il racconto di Zdrzinskij infastidiva Rostòv.  -  Ho le calze e la
    camicia bagnate fradicie e sotto di me scorre l'acqua.  Vado a cercare
    un riparo migliore.  Mi pare che la pioggia non sia più così forte.  -
    Uscì e Zdrzinskij andò oltre.
    Cinque minuti dopo, Iliìn, diguazzando nel fango,  tornò di corsa alla
    capannuccia.
    - Urrà!  Rostòv,  corriamo...  Ho trovato! A duecento passi da noi c'è
    un'osteria dove si sono già riuniti tutti  i  nostri.  Potremo  almeno
    asciugarci e c'è anche Màrija Genrìchovna.
    Màrija  Genrìchovna  era  la  moglie  del  medico del reggimento,  una
    giovane, graziosa tedesca che il dottore aveva sposato in Polonia.  Il
    dottore, forse perché non aveva mezzi, forse perché non voleva durante
    i  primi tempi del matrimonio separarsi dalla sposa,  la conduceva con
    sé ovunque il reggimento si spostasse e la sua gelosia era divenuta un
    consueto argomento di scherzo tra gli ufficiali.
    Rostòv si gettò sulle spalle un mantello, chiamò Lavruska,  gli ordinò
    di  seguirlo  portando la sua roba e si avviò con Iliìn ora ruzzolando
    nel fango,  ora diguazzando sotto la pioggia  che  andava  calmandosi,
    nell'oscurità  della  sera  squarciata  di  tanto  in  tanto  da lampi
    lontani.
    - Rostòv, dove sei?
    - Sono qui. Che lampi!  -  si dicevano i due ufficiali.


    CAPITOLO 13.

    Nell'osteria, davanti alla quale era ferma la vettura del dottore,  si
    erano già riuniti cinque ufficiali. Màrija Genrìchovna, una tedeschina
    bionda e grassoccia,  in camicetta e cuffia da notte era seduta su una
    larga panca,  nell'angolo  anteriore  della  stanza.  Suo  marito,  il
    dottore,  dormiva sulla panca dietro di lei.  Rostòv e Iliìn entrarono
    nella stanza salutati da risate e da allegre esclamazioni.
    - Ehi, si sta allegri qui!  -  disse Rostòv, ridendo.
    - E voi perché ve ne state a sbadigliare?
    - Guardateli! Sembrano due ruscelli...  Non bagnate il nostro salotto,
    eh?
    -  E  non  insudiciate il vestito di Màrija Genrìchovna  -  aggiunsero
    alcune voci.
    Rostòv e Iliìn si affrettarono  a  cercare  un  cantuccio  dove  senza
    offendere  il  pudore  di  Màrija Genrìchovna,  potessero togliersi di
    dosso gli abiti inzuppati.  Vollero passare  dietro  un  tramezzo  per
    svestirsi,  ma  in  quel piccolo ripostiglio,  occupandolo tutto,  tre
    ufficiali stavano giocando a carte alla luce di una  candela  piantata
    su una cassa vuota, e a nessun costo intendevano cedere il loro posto.
    Màrija  Genrìchovna  offrì una sua sottana perché la usassero come una
    tenda dietro alla quale i due amici, con l'aiuto di Lavruska che aveva
    portato la roba, si tolsero gli indumenti fradici e indossarono quelli
    asciutti.
    In una stufa mezzo fracassata accesero il fuoco. Tirata fuori un'asse,
    l'appoggiarono su  due  sedie  e  la  coprirono  con  una  gualdrappa;
    trovarono  anche un piccolo samovàr,  una cassetta di vini e una mezza
    bottiglia di rum e,  invitata Màrija Genrìchovna a fare da padrona  di
    casa,  si  raggrupparono  tutti  attorno  a  lei.  Chi  le  offriva un
    fazzoletto pulito per asciugarsi le belle manine,  chi le stendeva  la
    propria  giubba  sotto  i piedi per preservarglieli dall'umidità,  chi
    copriva con il mantello la finestra perché  il  vento  non  penetrasse
    attraverso le fessure e chi,  infine, scacciava le mosche dal viso del
    marito perché non si svegliasse.
    - Lasciatelo stare!  -  diceva Màrija Genrìchovna, sorridendo timida e
    felice.  -  Dorme bene lo stesso, dopo una notte insonne!
    - Impossibile,  Màrija Genrìchovna  -  rispose l'ufficiale.   -   Devo
    rendere  un  servigio al dottore...  Tutto può succedere e forse anche
    lui avrà compassione di me quando dovesse,  un giorno,  tagliarmi  una
    gamba o un braccio...
    C'erano  soltanto  tre bicchieri,  l'acqua era così sudicia che non si
    poteva capire se il tè fosse o non  fosse  forte,  e  il  samovàr  non
    conteneva  più  di  sei bicchieri d'acqua,  ma era tanto più piacevole
    ricevere a turno, seguendo l'ordine di anzianità, il proprio bicchiere
    dalle mani grassocce con le unghie corte e non troppo pulite di Màrija
    Genrìchovna.  Quella sera tutti gli ufficiali parevano  innamorati  di
    Màrija  Genrìchovna.  Anche  quelli  che  giocavano  a carte dietro il
    tramezzo,  smisero la partita  e  si  strinsero  attorno  al  samovàr,
    cedendo  alla comune inclinazione di corteggiare la giovane donna,  la
    quale,  vedendosi attorniata  da  quella  gioventù  così  brillante  e
    cortese, raggiava di felicità, per quanto cercasse di nasconderlo e si
    spaventasse a ogni lieve movimento del marito addormentato.
    Non c'era che un solo cucchiaino mentre abbondava lo zucchero,  ma non
    si aveva tempo di farlo sciogliere e perciò fu deciso che ella avrebbe
    rimescolato a turno lo zucchero a ciascuno. Rostòv,  ricevuto che ebbe
    il  suo bicchiere e versatovi un po' di rum,  pregò Màrija Genrìchovna
    di mescolarglielo.
    - Ma  voi  non  prendete  lo  zucchero?    -    domandò  ella,  sempre
    sorridendo,  come se tutto ciò che diceva e ciò che dicevano gli altri
    fosse molto buffo e avesse anche un significato diverso.
    - Non mi interessa lo zucchero,  mi basta soltanto che mescoliate  con
    la vostra manina...
    Màrija  Genrìchovna  acconsentì e si mise a cercare il cucchiaino,  di
    cui qualcuno si era già impadronito.
    - Con il ditino,  Màrija Genrìchovna,  sarà ancora più buono  -  disse
    Rostòv.
    - Ma scotta!  -  rispose la donna, arrossendo di piacere.
    Iliìn prese la brocca dell'acqua,  vi versò un po' di rum e si accostò
    a lei, pregandola di mescolare con il suo ditino.
    - Questa è la mia tazza  -  disse;   -   se  vi  immergete  il  vostro
    ditino, la vuoto di colpo.
    Quando il samovàr fu vuoto, Rostòv prese le carte e propose di giocare
    al re con Màrija Genrìchovna.  Tirarono a sorte per sapere chi dovesse
    far coppia con lei.  Secondo le regole del gioco proposto  da  Rostòv,
    chi  fosse  diventato re avrebbe avuto il diritto di baciare la mano a
    Màrija Genrìchovna e chi avesse perso sarebbe stato  obbligato  a  far
    bollire  un'altra  volta  il samovàr per il dottore,  quando questi si
    fosse svegliato.
    - E se diventerà regina Màrija Genrìchovna?  -  chiese Iliìn.
    - Ma essa è già regina! Ogni suo ordine è legge.
    Il gioco era appena incominciato quando, a un tratto, dietro le spalle
    di Màrija Genrìchovna spuntò la testa arruffata  del  dottore.  Da  un
    pezzo  era  sveglio  e  ascoltava  ciò  che gli altri dicevano,  senza
    trovare evidentemente nulla di buffo,  di allegro e di  divertente  in
    tutto ciò che si faceva e si diceva.  Aveva una faccia tetra e triste.
    Non salutò gli ufficiali,  si grattò la testa e domandò il permesso di
    uscire,  giacché  il  passaggio era sbarrato.  Appena fu fuori,  tutti
    scoppiarono a ridere sonoramente,  e Màrija Genrìchovna  arrossì  sino
    alle lacrime,  apparendo così ancora più attraente agli occhi di tutti
    gli ufficiali.  Quando rientrò,  il dottore disse a  sua  moglie  (che
    aveva  già  smesso  di  sorridere allegramente e che,  aspettandosi un
    rimprovero,  lo guardava spaventata) che la pioggia era cessata e  che
    bisognava  andare  a  passare  la notte nella carrozza per evitare che
    qualcuno portasse via tutto ciò che vi era dentro.
    - Ma se volete manderò un piantone e anche due!  -  propose Rostòv.  -
    Suvvia, dottore!
    - Andrò io a fare la sentinella  -  interloquì Iliìn.
    - No,  signori miei,  voi avete dormito,  mentre io da due  notti  non
    chiudo  occhio  -  ribatté il dottore e con aria accigliata si sedette
    accanto alla moglie, in attesa che la partita terminasse.
    Guardando la faccia scura del dottore che  osservava  la  moglie,  gli
    ufficiali  diventarono  ancora  più  allegri  e molti non riuscirono a
    trattenere il riso,  al quale si sforzavano  di  trovare  un  pretesto
    plausibile.  Quando  il dottore uscì con la moglie e si ritirò con lei
    nella vettura,  gli ufficiali si sistemarono alla meglio nell'osteria,
    coprendosi con i mantelli bagnati; per un bel pezzo, però, non presero
    sonno,  ora  chiacchierando  e  rievocando  la  paura  del  dottore  e
    l'allegria di sua moglie,  ora uscendo fuori per spiare e riferire ciò
    che accadeva nella carrozza.  Parecchie volte Rostòv si coprì la testa
    per addormentarsi,  ma ogni volta l'osservazione  di  un  compagno  lo
    distraeva,  si ricominciava a discorrere e di nuovo risonavano allegre
    e infantili risate senza motivo.


    CAPITOLO 14.

    Alle tre del mattino nessuno  ancora  dormiva,  allorché  comparve  il
    maresciallo  d'alloggio  con  l'ordine  di  mettersi  in marcia per il
    villaggio di Ostrovno.
    Continuando a ciarlare e a ridere,  gli ufficiali  si  affrettarono  a
    fare  i  preparativi;  fu  di  nuovo  messa a bollire acqua sporca nel
    samovàr, ma Rostòv, senza aspettare che il tè fosse pronto,  raggiunse
    lo squadrone.  Albeggiava; la pioggia era cessata, le nubi si andavano
    diradando.  Era umido e faceva freddo,  specialmente per chi indossava
    abiti  non  perfettamente asciutti.  Uscendo dall'osteria,  nella luce
    incerta dell'alba,  Rostòv e Iliìn diedero un'occhiata  alla  carrozza
    del dottore dalla copertura di cuoio tutta lucida di pioggia, sotto la
    quale videro sbucare i piedi del dottore e nel mezzo,  posata sopra un
    guanciale,  la cuffia della moglie e udirono il respiro  regolare  dei
    due che dormivano.
    -  E'  veramente  molto  carina!    -    disse  Rostòv a Iliìn che gli
    camminava a fianco.
    - Una donna deliziosa!   -  rispose Iliìn,  con la  serietà  dei  suoi
    sedici anni.
    Mezz'ora  dopo,  lo squadrone era già sulla strada in perfetto ordine.
    Risonò il comando: "In sella!".  I soldati si fecero  il  segno  della
    croce e montarono a cavallo. Rostòv, passando in testa a tutti, gridò:
    "March!" e gli ussari,  per quattro, tra un gran rumore di zoccoli sul
    terreno bagnato, un tintinnar di sciabole e un parlottare sommesso, si
    misero in moto lungo l'ampia strada fiancheggiata da  betulle,  dietro
    la fanteria e una batteria che li precedeva.
    Brandelli di nuvole violacee, che a oriente assumevano il colore della
    porpora, erano spinti via dal vento. Di momento in momento la luce del
    giorno  aumentava.  Si  distinguevano  nettamente,  ancora  lucide  di
    pioggia,   le  erbette  ricciute  che  spuntano  sempre  sulle  strade
    vicinali;  i  rami  pendenti  delle  betulle,  anch'essi umidi,  erano
    agitati dal vento e lasciavano cadere luccicanti  goccioloni.  I  visi
    dei soldati si delineavano sempre più nettamente.  Rostòv e Iliìn, che
    non si distaccava da lui,  procedevano al passo tra il duplice  filare
    delle betulle.
    In  tempo  di  guerra Rostòv si concedeva la libertà di montare non un
    cavallo di ordinanza, ma un animale di pura razza cosacca.  Da esperto
    e da appassionato qual era, aveva acquistato da poco un focoso cavallo
    del  Don,  un  solido e buon corridore,  in sella al quale nessuno mai
    l'aveva superato nella corsa.  Cavalcare quell'animale era per  Rostòv
    un  vero  godimento.  Pensava al cavallo,  alla bella mattinata,  alla
    moglie del dottore e non una sola volta gli  si  affacciò  l'idea  del
    pericolo imminente. Nei primi tempi, movendo all'attacco, Rostòv aveva
    paura,  ora non provava il benché minimo senso di timore.  E non aveva
    paura non già perché fosse  abituato  al  fuoco  (al  pericolo  non  è
    possibile abituarsi), ma perché aveva imparato a dominare il suo animo
    davanti al pericolo,  si era abituato,  andando al fuoco,  a pensare a
    tutto fuorché a ciò che doveva sembrare  la  cosa  più  importante  di
    tutte:   l'imminenza   del   pericolo.   Per   quanto   facesse  e  si
    rimproverasse,  nei primi periodi del servizio non vi era riuscito ma,
    con il passare del tempo, la cosa era avvenuta naturalmente. Cavalcava
    a  fianco  di  Iliìn  tra  le  betulle,  ora strappando una foglia dai
    ramoscelli che gli capitavano a portata di mano,  ora sfiorando con il
    piede  la pancia del cavallo,  ora tendendo,  senza voltarsi,  la pipa
    all'ussaro che lo seguiva,  con l'aria tranquilla e spensierata di chi
    va a fare una passeggiata. Gli faceva pena osservare il viso sconvolto
    di Iliìn che parlava molto e in tono agitato, conosceva per esperienza
    lo  stato  tormentoso  di  attesa  e di paura della morte nel quale si
    trovava il giovane cornetta,  e  sapeva  che  nulla,  all'infuori  del
    tempo, avrebbe potuto aiutarlo.
    Non appena il sole comparve in una fascia serena di cielo, da sotto le
    nubi,  il vento si calmò, come se non ardisse più turbare quel mattino
    estivo, così bello dopo il temporale; di tanto in tanto cadeva qualche
    goccia,  ma ormai perpendicolarmente,  e  tutto  era  calmo.  Il  sole
    apparve  in  tutto il suo splendore sull'orizzonte,  ma fu nascosto da
    una nuvola stretta e lunga;  poco dopo,  però,  riapparve alto  e  più
    radioso,  lacerando  gli  orli  sbrindellati  della nuvola.  Tutto era
    luminoso e lucente e ad un tratto,  come per salutare la  grande  luce
    mattutina, echeggiarono più innanzi i colpi di un cannone.
    Rostòv  non  ebbe  tempo di riflettere né di calcolare da che distanza
    essi provenissero, quando arrivò al galoppo da Vitebsk un aiutante del
    conte Osterman-Tolstòj,  con l'ordine di proseguire al  trotto  sempre
    lungo la strada.
    Lo  squadrone  sorpassò  la  fanteria  e  la batteria che accelerarono
    anch'esse la marcia,  discese un pendio e,  attraversato un  villaggio
    vuoto,  privo  di  abitanti,  risalì  di  nuovo la collina.  I cavalli
    cominciarono a coprirsi di sudore,  gli uomini a  diventare  rossi  in
    viso.
    - Alt!  In riga!  -  risonò davanti a loro l'ordine del comandante del
    gruppo.
    - Fianco sinistr!  Al passo.  Avanti,  march!    -    comandarono  gli
    ufficiali.
    Gli  ussari,  seguendo  la  linea  delle  truppe,  passarono al fianco
    sinistro della posizione e si disposero dietro  i  nostri  ulani,  che
    erano  in  prima linea.  Una folta colonna di fanteria stava a destra:
    era la riserva. Più in alto, sopra un poggio,  nell'aria limpidissima,
    illuminati  dalla  luce obliqua e vivida del mattino,  scintillavano i
    cannoni russi, proprio sulla linea dell'orizzonte. Di fronte, al di là
    di un avvallamento, si scorgevano le colonne e le batterie nemiche. Si
    sentiva nell'avvallamento la nostra prima linea sparare, già impegnata
    nel combattimento, scambiando allegramente fucilate con il nemico.
    Quei suoni,  da lungo tempo non più uditi,  colmarono  di  letizia  il
    cuore di Rostòv,  come se fossero le note di una musica allegra. Trap-
    tà-tà-tap!  scoppiettavano le  fucilate  da  ogni  parte,  ora  molte,
    simultaneamente,  ora  rade,  una dopo l'altra.  Poi di nuovo tutto fu
    silenzio e poi ancora risonarono colpi  secchi  come  di  petardi  che
    qualcuno, camminandovi sopra, avesse fatto scoppiare.
    Gli  ussari  rimasero  per  quasi  un'ora allo stesso posto.  Il fuoco
    d'artiglieria cominciava.  Il conte Osterman-Tolstòj passò con il  suo
    séguito  dietro  lo  squadrone;  si  fermò,  parlò  al  comandante del
    reggimento e si avviò verso la collina dove si trovavano i cannoni.
    Dopo che Osterman si fu allontanato, tuonò per gli ulani il comando:
    - In colonna! All'assalto!
    La fanteria si divise per lasciar passare la cavalleria.  Gli ulani si
    mossero, mentre ondeggiavano le banderuole sulle lance, e discesero al
    trotto  dall'altura  contro  la cavalleria francese che era comparsa a
    sinistra, ai piedi dell'erta.
    Non appena  gli  ulani  furono  in  fondo  alla  discesa,  gli  ussari
    ricevettero  l'ordine  di  avvicinarsi  alla  collina  per  coprire la
    batteria.  Mentre si disponevano a occupare il  posto  lasciato  dagli
    ulani,  tra  stridii e sibili le pallottole volarono dalla prima linea
    lontana, senza raggiungerli.
    Questo rumore,  che da tanto tempo non aveva più  udito,  produsse  su
    Rostòv  un'impressione  ancora  più  piacevole  ed entusiasmante delle
    fucilate udite poco prima. Egli, rizzandosi sulle staffe, osservava il
    campo di battaglia su cui lo sguardo spaziava dall'alto del poggio,  e
    con  tutta  l'anima  partecipava  al movimento degli ulani.  Questi si
    precipitarono sui dragoni francesi: seguì una  mischia,  in  mezzo  al
    fumo,  e  cinque  minuti  dopo gli ulani tornavano indietro al galoppo
    verso la posizione che avevano occupato prima, ma più a sinistra.  Fra
    gli  ulani  color  arancione sui cavalli sauri e,  dietro di loro,  si
    vedevano in dense masse i dragoni francesi dalle divise  turchine,  su
    cavalli grigi.


    CAPITOLO 15.

    Rostòv,  con  il  suo sguardo acuto di cacciatore,  fu uno dei primi a
    scorgere quegli azzurri dragoni francesi  che  inseguivano  gli  ulani
    russi.  Vicine,  sempre  più  vicine  si facevano le torme disordinate
    degli ulani e i dragoni francesi che li inseguivano.  Ormai si  poteva
    vedere  come  quegli  uomini  che  apparivano  piccolissimi  ai  piedi
    dell'altura si  urtavano,  si  assalivano  l'un  l'altro  agitando  le
    braccia e le sciabole.
    Rostòv  guardava  quello spettacolo come se si trattasse delle vicende
    di una caccia che  si  svolgeva  sotto  i  suoi  occhi.  Egli  sentiva
    d'istinto  che  i  dragoni  francesi non avrebbero resistito,  in quel
    momento, a una carica di ussari;  ma occorreva che questa carica,  per
    non riuscire inutile,  avesse luogo immediatamente. Si guardò attorno.
    Un capitano che gli stava a lato non distoglieva, come lui,  gli occhi
    dalla cavalleria giù, in basso.
    -  Andréj Sevastjanyc',   -  disse Rostòv  -  noi potremmo schiacciare
    il nemico.
    - Sarebbe un magnifico scherzo  -    rispose  il  capitano.    -    In
    realtà...
    Rostòv,  senza  ascoltare  altro,  incitò il suo cavallo,  galoppò sul
    fronte dello squadrone e,  prima di avere avuto il tempo  di  dare  il
    comando,  tutto lo squadrone, che provava i suoi stessi sentimenti, si
    mise in moto e lo seguì.  Rostòv non sapeva come e perché avesse agito
    così.  Agiva come a caccia,  senza pensare e senza riflettere.  Vedeva
    che i dragoni erano vicini, che galoppavano disorganizzati; sapeva che
    non  avrebbero  resistito,  sapeva  che  quell'attimo,  a  lasciarselo
    sfuggire,   non  sarebbe  più  ritornato.  I  proiettili  ronzavano  e
    fischiavano attorno a lui; il suo cavallo si spingeva avanti con tanta
    foga che egli non riusciva a trattenerlo.  Lo  aveva  spronato,  aveva
    lanciato il comando e,  nello stesso momento, sentendo alle sue spalle
    lo scalpitio del suo squadrone che trottava veloce, si era precipitato
    contro i dragoni scendendo le falde della collina.  Appena gli  ussari
    si  trovarono  ai  piedi dell'altura,  passarono,  loro malgrado,  dal
    trotto a un galoppo che si faceva più rapido e serrato via via che  si
    avvicinavano    agli    ulani   e   ai   dragoni   francesi   lanciati
    all'inseguimento.  I dragoni erano vicini.  Le prime file,  alla vista
    degli  ussari,  fecero  dietro  front,  quelli  che  li  seguivano  si
    fermarono.  Con lo stesso sentimento con cui  galoppando  tagliava  la
    strada al lupo, Rostòv lanciò a briglia sciolta il suo cavallo del Don
    per  tagliare la strada alle schiere sbaragliate dei dragoni francesi.
    Un ulano  si  fermò,  un  fante  si  buttò  a  terra  per  non  essere
    schiacciato,  un  cavallo  senza  cavaliere si mescolò tra gli ussari.
    Quasi tutti i dragoni francesi erano in fuga.  Rostòv ne  scelse  uno,
    montato su un cavallo grigio e si diede a inseguirlo. Nella corsa urtò
    un  cespuglio,  ma  il  suo  bravo cavallo lo saltò con impeto e,  non
    appena si fu drizzato sulla sella,  Nikolàj si rese  conto  che  entro
    pochi  istanti  avrebbe  raggiunto  il  nemico  che  aveva scelto come
    bersaglio. Quel giovane francese che,  a giudicare dall'uniforme,  era
    un  ufficiale,  galoppava  curvo  sul suo cavallo grigio,  spingendolo
    avanti con la sciabola.  Un attimo dopo,  il cavallo di Rostòv  urtava
    con  il petto la groppa dell'altro e poco mancò non lo facesse cadere,
    mentre, in quello stesso momento, senza sapere perché,  Rostòv alzò la
    sciabola e colpì il francese.
    Ma   proprio   nell'istante   in   cui   compiva  quel  gesto,   sentì
    improvvisamente svanire tutto l'ardore.  L'ufficiale francese cadde di
    sella  non  tanto  per effetto della sciabolata che gli aveva soltanto
    ferito leggermente il braccio, quanto per l'urto delle due cavalcature
    e per la paura. Rostòv, trattenendo il cavallo,  cercava con gli occhi
    il  suo  nemico  per  vedere  chi  fosse  colui  che  aveva atterrato.
    L'ufficiale francese saltellava con un solo piede sul terreno; l'altro
    gli si era impigliato nella staffa.  Socchiudeva spaventato gli occhi,
    aspettando  da  un  minuto  all'altro  una nuova sciabolata e,  con la
    faccia contratta dall'orrore,  guardava Rostòv di sotto in su.  Il suo
    viso  pallido,  giovanile  e imbrattato di fango,  con una fossetta in
    mezzo al mento,  con gli occhi azzurri e luminosi non sembrava il viso
    adatto  a  un  campo  di  battaglia,  il viso di un nemico,  ma la più
    semplice e familiare delle facce. Ancor prima che Rostòv decidesse che
    cosa fare di lui, l'ufficiale gridò: "Je me rends!" [72. Mi arrendo!].
    Egli voleva liberare il piede impigliato nella staffa,  ma  la  fretta
    con  cui  cercava  di  farlo  gli  impediva  di  riuscirci  e,   senza
    distogliere gli occhi azzurri dal viso di Rostòv,  lo  fissava  sempre
    più  sgomento.  Alcuni  ussari  accorsi  gli  liberarono il piede e lo
    issarono in sella.  In vari  punti  gli  ussari  si  battevano  con  i
    dragoni:  uno di essi era ferito ma,  pur avendo il viso insanguinato,
    non cedeva il suo cavallo;  un altro,  arrampicatosi sulla groppa  del
    cavallo  di  un  ussaro,  lo  teneva  abbracciato;  un  altro  ancora,
    sostenuto da un ussaro,  si rimetteva in sella.  La fanteria francese,
    sparando,  veniva  avanti  di  corsa.  Gli  ussari  si  affrettarono a
    ritirarsi con i loro prigionieri. Rostòv galoppava con gli altri e una
    vaga,  sgradevole sensazione gli serrava il cuore.  Un non so  che  di
    indefinito,  di  confuso  che non riusciva in nessun modo a spiegarsi,
    gli si era rivelato per la cattura di quell'ufficiale e per quel colpo
    di sciabola con cui lo aveva ferito
    Il conte Osterman-Tolstòj incontrò gli ussari che ritornavano.  Chiamò
    Rostòv,   lo   ringraziò  e  gli  disse  che  avrebbe  fatto  presente
    all'imperatore il suo gesto coraggioso e avrebbe chiesto  per  lui  la
    croce di San Giorgio.  Quando Rostòv era stato chiamato per andare dal
    conte Osterman, ricordandosi di avere agito senza ordini, era convinto
    che il comandante l'avesse chiamato per  infliggergli  una  punizione.
    Perciò  le  parole  lusinghiere  di  Osterman  e  la  promessa  di una
    ricompensa avrebbero dovuto rallegrarlo,  ma quel vago  sentimento  di
    pena indefinibile lo tormentava sempre.  "Ma cos'è che mi tortura?" si
    chiedeva nel lasciare il generale.  "Iliìn forse?  No,  egli è sano  e
    salvo.  Ho  forse  commesso  qualche  atto  disonorevole?  No,  non  è
    questo!". C'era qualcos'altro che lo tormentava come un rimorso.  "Sì,
    sì...  è quell'ufficiale francese con la fossetta nel mento. E ricordo
    anche che il mio braccio ha esitato quando lo alzavo per colpire...".
    Rostòv vide i prigionieri che venivano portati via e galoppò dietro di
    loro per rivedere il suo ufficiale francese con la fossetta nel mento.
    Nella sua strana uniforme,  egli montava un  cavallo  degli  ussari  e
    guardava  tranquillamente  attorno  a  sé.  La  ferita del braccio era
    insignificante.  Rivolse a Rostòv un sorriso forzato e gli fece con la
    mano  un cenno di saluto.  Rostòv continuava a sentirsi a disagio e un
    senso di rimorso gli pesava sul cuore.
    Per tutta quella giornata e la successiva,  gli  amici  e  i  compagni
    notarono  non che egli fosse contrariato,  non che fosse irritato,  ma
    taciturno,   pensieroso  e  concentrato  in  se  stesso.   Beveva   di
    malavoglia, cercava di restar solo e pareva preoccupato.
    Rostòv pensava sempre a quella sua brillante azione di guerra che, con
    suo stupore,  gli avrebbe fruttato la croce di San Giorgio,  e che gli
    aveva già procurato la reputazione di  ufficiale  valoroso,  ma  c'era
    qualcosa che assolutamente non riusciva a capire.
    "Vuol  dire,  dunque,  che  quelli là hanno ancora più paura di noi!",
    pensava.  "Allora è soltanto questo che viene definito eroismo?  E  io
    l'ho  forse  fatto  per  la  patria?  E che colpa ne ha lui con la sua
    fossetta in mezzo al mento e i suoi occhi azzurri? Com'era spaventato!
    Credeva che io lo avrei ucciso.  Ma perché avrei dovuto ucciderlo?  La
    mano  mi  tremava.  Eppure  mi  daranno  la croce di San Giorgio.  No,
    proprio non ci capisco nulla!".
    Ma mentre Nikolàj rivolgeva a se stesso tutte quelle domande e  ancora
    non  riusciva  a  rendersi  chiaramente  conto  delle  cause  del  suo
    turbamento, la ruota della fortuna, per quanto riguardava la carriera,
    girava,  come spesso accade,  in suo favore.  Dopo il combattimento di
    Ostrovno ebbe una promozione, gli fu dato il comando di un battaglione
    di ussari e, quando occorreva affidare qualche missione a un ufficiale
    coraggioso, era a lui che i superiori si rivolgevano.


    CAPITOLO 16.

    Avuta  la  notizia  della malattia di Natascia,  la contessa,  tuttora
    malaticcia e debole,  partì per Mosca con Pétja e tutta la servitù,  e
    la   famiglia   Rostòv   al   completo   si  trasferì  definitivamente
    dall'alloggio di Màrija Dmìtrevna nella propria casa di Mosca.
    La malattia di Natascia era talmente seria che,  per fortuna di lei  e
    dei  genitori,  il  pensiero di ciò che l'aveva causata  -  la rottura
    del fidanzamento con il principe  -  passò in secondo piano.  Natascia
    era  tanto  ammalata che non si poteva pensare a quanta parte di colpa
    avesse in ciò che era accaduto ora  che  non  mangiava,  non  dormiva,
    dimagriva a vista d'occhio, tossiva e, come il medico lasciava capire,
    era  veramente  in  pericolo.  Bisognava pensare unicamente al modo di
    poterla  aiutare.   I  medici  venivano  a   visitare   la   fanciulla
    isolatamente o in frequenti consulti,  parlavano molto in francese, in
    tedesco e in latino,  si criticavano a vicenda,  prescrivevano le  più
    svariate medicine per tutte le malattie che conoscevano,  ma a nessuno
    di essi veniva in mente il semplicissimo pensiero che era  impossibile
    a qualsiasi medico diagnosticare la malattia di cui Natascia soffriva,
    così  come  non  può essere conosciuta malattia alcuna che colpisca un
    essere umano,  giacché ogni  essere  vivente  ha  le  sue  particolari
    caratteristiche  ed  ha  sempre  una  malattia  sua  propria,   nuova,
    complessa, sconosciuta alla medicina,  non una malattia di petto,  del
    fegato,  dei polmoni,  della pelle,  del cuore,  dei nervi e così via,
    catalogata nei trattati di medicina,  ma una malattia che  risulta  da
    una quantità di componenti delle alterazioni di questi organi.  Questo
    semplice pensiero non poteva venire in mente ai dottori (come non  può
    venire  in  mente  a uno stregone l'idea di non poter far stregonerie)
    per il fatto che il loro mestiere nella vita  consisteva  nel  curare,
    perché  esercitandolo  guadagnavano  denaro  e  perché  a questo scopo
    avevano  speso  gli  anni  migliori  della  loro  vita.   Una  simile,
    semplicissima   idea,   non   poteva   essere  concepita  dai  dottori
    principalmente perché  si  rendevano  conto  di  essere,  e  lo  erano
    veramente,  utili  a tutta la famiglia Rostòv.  Ed erano utili non già
    perché obbligassero l'ammalata a inghiottire sostanze per  la  maggior
    parte  nocive  (il  danno  era  poco  sensibile perché quelle sostanze
    venivano somministrate in piccole dosi)  ma  erano  utili,  necessari,
    indispensabili  (ragione  per  cui  ci  sono  sempre stati e sempre ci
    saranno  guaritori,   ciarlatani,   omeopatici  e  allopatici)  perché
    soddisfacevano  un bisogno morale dell'ammalata e delle persone che le
    volevano bene,  quel bisogno eterno,  umano,  di sperare il  sollievo,
    quel  bisogno  di  simpatia e di cure che prova sempre un essere umano
    mentre soffre.  Soddisfacevano  quel  bisogno  eterno,  umano  che  si
    osserva nella sua forma primitiva nel bambino,  il quale vuole che gli
    si frizioni la parte del corpo che gli duole.  Se il bimbo si fa male,
    subito  corre  tra  le braccia della madre o della bambinaia per farsi
    baciare e fregare il punto dolente e,  non appena ha ottenuto  questo,
    si  sente subito meglio.  Il bimbo non può credere che coloro che sono
    più forti e assennati di lui non abbiano  modo  di  alleviare  il  suo
    male.  E  la  speranza  di un sollievo,  l'espressione compassionevole
    della madre che gli stropiccia il bernoccolo,  lo consolano.  I medici
    erano  utili  a  Natascia  perché  baciavano  e  stropicciavano il suo
    "bubù",  affermando che esso sarebbe scomparso non appena il cocchiere
    fosse  andato  nella  farmacia sull'Arbàt e ne fosse tornato dopo aver
    acquistato un rublo e settanta copechi di polveri e di pillole in  una
    graziosa  scatoletta  e se l'ammalata avesse preso regolarmente,  ogni
    due ore, quelle polverine sciolte in acqua calda.
    Come avrebbero fatto Sònja,  il conte e la contessa a restarsene li  a
    guardare  senza  far  nulla,  se  non avessero avuto quelle pillole da
    somministrare ogni due ore,  quelle bevande tiepide da far  sorbire  e
    quelle cotolette di pollo, e tutti quei particolari del modo di vivere
    prescritti   dal   medico,   che  costituivano  per  loro  altrettante
    occupazioni e un  po'  di  conforto?  Come  avrebbe  potuto  il  conte
    sopportare  la  malattia  della sua figliuola prediletta se non avesse
    saputo che il male di Natascia gli costava migliaia di rubli e che, se
    fosse stato necessario, non avrebbe rimpianto di spenderne altrettanti
    pur di recarle  giovamento,  e  che  sarebbe  stato  disposto,  se  la
    fanciulla non si fosse rimessa, a portarla all'estero per un consulto?
    Se   non  avesse  avuto  la  possibilità  di  raccontare  in  tutti  i
    particolari come Métivier e Feller non avevano capito la malattia  che
    Frise  aveva  invece intuita e Mudròv ancor meglio definita?  Che cosa
    avrebbe fatto la contessa se non avesse potuto,  di  tanto  in  tanto,
    bisticciare  con  Natascia  ammalata che non voleva seguire appieno le
    prescrizioni mediche?
    - Continuando cosi, non guarirai mai,  -  diceva, dimenticando,  nella
    stizza,  il  suo  dolore   -  se non dài retta al dottore e non prendi
    alle ore giuste le medicine! Non devi scherzare quando c'è il pericolo
    che ti possa venire una pneumonia!   -   continuava  la  contessa  che
    provava  già  grande  conforto nel pronunziare quella strana parola di
    cui non era la sola a non comprendere il significato.
    Che avrebbe fatto Sònja se non avesse avuto la  confortante  coscienza
    di aver passato, agli inizi della malattia, tre notti di seguito senza
    spogliarsi  per  essere pronta a seguire con esattezza le prescrizioni
    del dottore e di non dormire anche adesso per  notti  intere  per  non
    lasciar trascorrere l'ora in cui bisognava somministrare a Natascia le
    pillole  innocue  della  scatoletta  dorata?  Natascia stessa,  benché
    dicesse che nessuna medicina l'avrebbe guarita e che tutti quei rimedi
    non erano che sciocchezze,  provava un senso di gioia nel  vedere  che
    per  lei  tutti  erano pronti a sacrificarsi e nell'essere obbligata a
    prendere medicine ad ore fisse.  Ed era inoltre un piacere per lei  il
    poter  mostrare,  trascurando di seguire le prescrizioni mediche,  che
    non credeva nella guarigione e che non aveva cara la propria vita.
    Il medico veniva ogni giorno,  le tastava il polso,  le  osservava  la
    lingua e, senza badare alla faccia abbattuta dell'inferma, celiava con
    lei.  Ma poi, quando passava nell'altra stanza seguito dalla contessa,
    egli assumeva un'aria molto  seria,  scuoteva  gravemente  il  capo  e
    diceva che,  sebbene il pericolo non fosse ancora scongiurato, sperava
    tuttavia  nell'azione  dell'ultimo  farmaco  prescritto  e  concludeva
    dicendo  che  bisognava  aspettare  e  vigilare,  che  la malattia era
    soprattutto morale, ma che...
    La contessa poi,  cercando di nascondere quel gesto a se stessa  e  al
    dottore,  gli  metteva in mano una moneta d'oro e ogni volta ritornava
    presso l'ammalata con il cuore più tranquillo.
    I sintomi principali  della  malattia  di  Natascia  consistevano  nel
    mangiare  e  nel  dormire  poco,  nel  tossire  e  nell'essere  sempre
    depressa.  I dottori dicevano che non si  poteva  lasciare  l'ammalata
    senza  l'aiuto  delle  medicine  e  perciò continuavano a farla vivere
    nell'atmosfera soffocante della  città.  Nel  1812  i  Rostòv  non  si
    recarono in campagna.
    Nonostante  la  grande quantità di pillole inghiottite,  di gocce e di
    polverine in boccette  e  scatolette,  delle  quali  "madame"  Schoss,
    amantissima di tali cosette,  aveva fatto collezione,  e nonostante la
    mancanza del solito periodo di villeggiatura,  la  gioventù  fini  con
    l'avere  il  sopravvento:  il  dolore  di  Natascia cominciò ad essere
    offuscato dalle nuove impressioni della vita di ogni giorno,  cessò di
    pesarle tormentosamente sul cuore, cominciò a diventare il passato, ed
    ebbe finalmente inizio il miglioramento fisico di Natascia.


    CAPITOLO 17.

    Natascia era più calma,  ma non più allegra. Non solo evitava tutte le
    occasioni di svago quali balli, gite, concerti, teatri,  ma non rideva
    mai  senza che dietro il suo riso si sentisse il pianto.  Non riusciva
    più a cantare.  Non appena cominciava a ridere e provava a cantare per
    sé sola,  le lacrime la soffocavano: lacrime di pentimento, lacrime di
    nostalgia per un tempo innocente che non sarebbe più tornato,  lacrime
    di  dispetto  per  aver  rovinato  inutilmente la sua giovane vita che
    avrebbe potuto essere felice.  Il riso e  il  canto,  soprattutto,  le
    parevano  un  sacrilegio  verso  il  suo  dolore.  Alle civetterie non
    pensava più e perciò  non  aveva  neppure  bisogno  di  sforzarsi  per
    rinunziarvi. Diceva e sentiva che ormai tutti gli uomini erano uguali,
    per  lei,  al buffone Nastàssja Ivànovna.  Una sentinella interiore le
    vietava ormai qualsiasi gioia.  Né provava più alcun interesse per ciò
    che  un tempo occupava la sua vita di fanciulla spensierata e piena di
    speranze.  Spesso,   e  con  pena  più  profonda,   ricordava  i  mesi
    dell'autunno la caccia,  lo zio e il Natale, festeggiato con Nikolàj a
    Otràdnoe.  Che cosa non avrebbe dato per  ritornare  a  quel  passato,
    fosse  anche solo per un giorno!  Ma quel tempo era finito per sempre.
    Non l'avevano ingannata i presentimenti di allora, che quello stato di
    libertà e quella facilità ad accogliere tutte le gioie  non  sarebbero
    tornati mai più. Eppure bisognava vivere!
    Le  faceva  piacere pensare che non era migliore,  come un tempo aveva
    creduto,  ma peggiore,  molto peggiore di qualsiasi altra  persona  al
    mondo.  Ma era poco.  Lo sapeva,  e si domandava: "E poi?".  E poi non
    c'era nulla.  Nessuna gioia nella vita,  e intanto la vita  passava...
    Natascia evidentemente si sforzava di non essere di peso e di non dare
    fastidio  a nessuno,  ma per sé non aveva bisogno di nulla.  Si teneva
    lontana da tutte le persone di casa e soltanto con il  fratello  Pétja
    si  sentiva più serena.  Preferiva stare con lui più che con qualsiasi
    altro e solo quando si trovava a tu per tu con Pétja, talvolta rideva.
    Non usciva quasi mai di casa e, tra le persone che venivano in visita,
    una sola le piaceva: Pierre. Nessuno avrebbe saputo avere verso di lei
    un contegno più affettuoso,  più delicato e  nello  stesso  tempo  più
    serio di quello del conte Bezuchov. Natascia sentiva inconsciamente la
    tenerezza  delicata  di  quel  comportamento  e perciò provava un gran
    piacere nello stare in compagnia del giovane.  Ma non gli era  neppure
    riconoscente  per  tanta delicatezza: nulla di ciò che di buono veniva
    da Pierre le  pareva  risultare  da  uno  sforzo.  Le  sembrava  tanto
    naturale la bontà di Pierre verso tutti, che non trovava in essa alcun
    merito.  Talora  Natascia notava il turbamento e l'imbarazzo di Pierre
    in sua presenza,  specialmente quando egli voleva farle cosa gradita o
    quando temeva che qualche accenno nel discorrere le suscitasse ricordi
    penosi.  Ella  se  ne  accorgeva  e attribuiva tutto ciò alla naturale
    bontà e timidezza di lui che,  a parer  suo,  dovevano  essere  uguali
    verso  tutti.  Dopo quelle parole pronunziate senza riflettere,  in un
    momento di grande agitazione per lei,  che se fosse  stato  libero  le
    avrebbe  chiesto  in ginocchio la sua mano e il suo amore,  Pierre non
    aveva mai più  accennato  ai  suoi  sentimenti  per  Natascia  ed  era
    evidente che quelle parole,  che allora l'avevano tanto confortata, le
    pareva ora fossero state dette così, come si dicono a volte cose senza
    senso per consolare un bambino che piange.  Non perché Pierre  era  un
    uomo ammogliato,  ma perché Natascia sentiva tra loro due,  al massimo
    grado,  la potenza di quella barriera morale che non  aveva  avvertito
    affatto nei suoi rapporti con Kuragin,  mai le veniva in mente che dai
    rapporti con Pierre potesse fiorire un amore da parte sua e ancor meno
    da parte di lui,  e neppure quella specie di  consapevole,  affettuosa
    amicizia  tra  un  uomo  e  una  donna,  di cui essa conosceva qualche
    esempio.
    Verso la fine del digiuno di San Pietro, Agrafena Ivànovna Bélova, una
    vicina di campagna dei Rostòv,  venne a Mosca  per  venerare  i  santi
    moscoviti.  Propose a Natascia di fare insieme le devozioni di rito, e
    Natascia accettò subito con gioia l'idea.  Nonostante  la  proibizione
    dei  dottori  di uscire nelle prime ore del mattino,  Natascia insisté
    per fare le sue devozioni non come si usava in casa Rostòv, assistendo
    cioè a tre funzioni religiose officiate in casa,  ma  come  le  faceva
    Agrafena Ivànovna, cioè per una intera settimana, senza perdere né una
    Messa, né un Vespro, né una benedizione.
    La  contessa  fu lieta di tanto zelo da parte di Natascia: in cuor suo
    sperava che,  dopo le  cure  infruttuose  dei  dottori,  la  preghiera
    servisse  a  dar  sollievo alla fanciulla più di qualsiasi medicina e,
    per quanto con spavento e di nascosto dai medici,  aderì al  desiderio
    di  Natascia  e  l'affidò  alla  Bélova.  Agrafena  Ivànovna svegliava
    Natascia alle tre del mattino ma,  per lo più,  la trovava già  desta,
    perché  la  fanciulla  temeva di non svegliarsi in tempo per l'ora del
    mattutino.  Si lavava in  fretta  e  furia,  si  vestiva  modestamente
    indossando  un  vecchio  abito  e  un vecchio mantello e,  tremando di
    freddo, usciva per le vie deserte, appena rischiarate dalla prima luce
    dell'alba.
    Secondo il consiglio di Agrafena Ivànovna,  Natascia non faceva le sue
    devozioni  nella  parrocchia  in  cui abitava,  ma in una chiesa dove,
    secondo le parole della  religiosissima  Bélova,  officiava  un  prete
    dalla vita severa e santa. In chiesa c'era sempre poca gente. Natascia
    e  la  Bélova  si  mettevano al solito posto,  davanti all'icona della
    Vergine,  situata nella parte posteriore  dell'altare  di  sinistra  e
    Natascia  si sentiva presa da un sentimento nuovo di umiltà davanti al
    grande  e  all'incomprensibile  quando,   in  quell'ora  insolita  del
    mattino,  guardando  il volto nero della Madre di Dio,  illuminato dai
    ceri che gli ardevano davanti e  dalla  luce  dell'alba  che  scendeva
    dalle finestre, ascoltava le parole dell'uffizio e cercava di seguirle
    e di comprenderle.  Quando ne afferrava il significato,  il sentimento
    personale di lei  con  tutte  le  sue  sfumature  si  aggiungeva  alla
    preghiera;  quando non capiva,  le era ancora più dolce pensare che il
    desiderio di comprendere non è altro che orgoglio e che,  non  potendo
    capire  tutto,  bisogna soltanto aver fede e abbandonarsi a Dio che in
    quei momenti  -  essa lo sentiva  -  dominava la sua anima.  Si faceva
    il segno della croce,  si prosternava e, quando non riusciva a capire,
    aveva coscienza della propria indegnità e pregava  Dio  di  perdonarle
    tutto,  tutto,  e di aver misericordia. Le preghiere a cui si dedicava
    più spesso erano preghiere di pentimento.  Tornando a casa nelle prime
    ore  del  mattino,  quando  si  incontravano  soltanto  i muratori che
    andavano al lavoro e i portieri che spazzavano la strada, e nella casa
    tutti dormivano ancora,  Natascia provava il sentimento per lei  nuovo
    della  possibilità  di  correggere  i  propri  difetti  e  di iniziare
    un'esistenza nuova, pura e felice.
    Per tutta la settimana,  durante  la  quale  fece  questa  vita,  tali
    sentimenti divennero di giorno in giorno più profondi.  La felicità di
    comunicarsi e di comunicare, come le diceva Agrafena Ivànovna giocando
    lietamente con questa parola,  le appariva tanto grande che temeva  di
    non poter giungere a quella benedetta domenica.
    Ma  il  giorno  felice arrivò e quando Natascia,  in quella memorabile
    giornata,  tornò nel suo abitino di mussola bianca dall'aver fatto  la
    comunione  per  la prima volta dopo tanti mesi,  si sentì serena e non
    più oppressa dalla vita che aveva dinanzi a sé.
    Il dottore, che venne anche quel giorno a visitare Natascia, le ordinò
    di  continuare  a  prendere  le  ultime  polverine  prescrittele   due
    settimane addietro.
    -  Seguitare  assolutamente  a  prenderle,  mattina  e sera  -  disse,
    evidentemente in buona fede, soddisfatto del proprio successo. Con più
    regolarità,  però  mi  raccomando.  State  tranquilla,   contessa    -
    soggiunse  poi  in  tono  scherzoso  il  dottore,   facendo  abilmente
    scomparire nella mano la moneta d'oro che la contessa gli aveva  dato.
    -    Tornerà presto a cantare e ad essere allegra e vivace come prima.
    L'ultima medicina le ha veramente giovato. Si è molto ripresa.
    La contessa, tornando in salotto, si guardò le unghie e sputò (73) con
    il volto soffuso di letizia.

    CAPITOLO 18.

    Verso il principio di luglio si diffusero voci sempre  più  allarmanti
    sull'andamento della guerra: si parlava di un proclama dell'imperatore
    al  popolo,   del  prossimo  arrivo  di  lui  in  città,   proveniente
    dall'esercito.  E poiché sino all'11 luglio non erano ancora  arrivati
    il  manifesto  e  il  proclama,  correvano  voci  esagerate  sul  loro
    contenuto e sulle condizioni generali  della  Russia.  Si  diceva  che
    l'imperatore ritornava perché l'esercito era in pericolo, che Smolènsk
    si era arresa,  che Napoleone disponeva di un milione di soldati e che
    soltanto un miracolo poteva salvare la Russia.
    L'11 luglio, un sabato, arrivò copia del manifesto,  ma non era ancora
    stampato;  e Pierre,  che era dai Rostòv,  promise che il giorno dopo,
    domenica, sarebbe tornato da loro a pranzo e avrebbe portato con sé il
    manifesto e il proclama che si sarebbe procurato dal conte Rastopcìn.
    Quella domenica i Rostòv,  secondo la loro abitudine,  si  recarono  a
    sentir Messa nella cappella dei Razumovskij. Era una calda giornata di
    luglio. Già alle dieci, quando i Rostòv scesero dalla carrozza davanti
    alla chiesa, nell'aria infuocata, nelle grida dei venditori ambulanti,
    nei  chiari  abiti  estivi  della gente,  nelle foglie polverose degli
    alberi del viale, nelle note della musica,  e nei pantaloni bianchi di
    un battaglione di soldati che passava per il cambio della guardia, nel
    rimbombo del selciato e nello scintillio del sole cocente,  erano quel
    languore dell'estate, quella sensazione piacevole e fastidiosa insieme
    del presente che si sente in città in modo un po'  irritante,  durante
    una  giornata  limpida  e  calda.  Nella  chiesa dei Razumovskij erano
    riuniti  la  nobiltà  di  Mosca,   tutte  le  conoscenze  dei   Rostòv
    (quell'anno,  come  nell'attesa  di  qualche  avvenimento,  moltissime
    famiglie ricche, che di solito si recavano in campagna,  erano rimaste
    in  città).  Passando  accanto  alla  madre e seguendo il domestico in
    livrea che faceva largo tra la folla,  Natascia  udì  la  voce  di  un
    giovane dire in tono un po' troppo alto:
    - Vedi la Rostova, quella che...
    - Com'è dimagrita! Eppure è sempre bella!
    Udì,  o  le  sembrò  di  udire  pronunziare  i  nomi  di  Kuragin e di
    Bolkonskij.  Del resto,  aveva sempre questa  impressione.  Le  pareva
    sempre  che  tutti,  guardandola,  pensassero  soltanto  a ciò che era
    accaduto.  Soffrendo e con il cuore  che  pareva  venirle  meno,  come
    sempre  le  accadeva  quando si trovava in mezzo alla folla,  Natascia
    camminava con il suo vestito di seta viola e pizzi  neri,  come  sanno
    camminare  le  donne:  tanto  più  calma e dignitosa quanto più la sua
    anima era colma di dolore e di vergogna.  Sapeva,  e non si ingannava,
    di  essere  bella,  ma ora se ne rallegrava meno di prima.  Da qualche
    tempo, anzi, e specialmente in quelle limpide, calde giornate d'estate
    in città, se ne rallegrava meno che mai. "Ancora una domenica,  ancora
    una  settimana"  si  diceva,  ricordandosi  come era stata la domenica
    precedente, "e sempre la stessa vita che non è vita,  sempre le stesse
    condizioni nelle quali un tempo l'esistenza appariva così facile! Sono
    giovane,  sono bella e so che adesso sono anche buona; prima no, prima
    ero cattiva ma adesso sono buona, lo so", pensava,  "e intanto passano
    inutilmente,  per nessuno, gli anni migliori, gli anni più belli della
    mia vita".  Si mise accanto alla madre e scambiò con  cenni  del  capo
    saluti  ai conoscenti che le erano più vicini.  Per forza d'abitudine,
    Natascia osservava gli abiti delle signore,  criticava la "tenue" [74.
    il  comportamento]  e  il  modo sconveniente di segnarsi rapido di una
    vecchia dama che le stava accanto e di nuovo pensava,  con disappunto,
    che le altre criticavano senza dubbio lei come lei criticava loro e ad
    un tratto,  udendo i suoni delle funzioni, si sgomentava della propria
    cattiveria, si sgomentava d'aver perduto di nuovo la sua purezza.
    Un lindo vecchietto,  d'aspetto  nobile,  officiava  con  quella  mite
    solennità  che agisce in modo così consolante sull'anima di chi prega.
    I sacri  sportelli  dell'iconostasi  si  chiusero,  la  tendina  cadde
    lentamente;  una voce dolce e misteriosa pronunziò di là dietro alcune
    parole.  Natascia si sentì  il  cuore  oppresso  da  lacrime  per  lei
    incomprensibili e una sensazione lieta e snervante la agitò.
    "Insegnami che cosa devo fare, come devo considerare la mia vita, come
    posso emendarmi per sempre, per sempre!", pensava.
    Il diacono uscì sull'ambone,  liberò, scostando largamente il pollice,
    i lunghi capelli di sotto la dalmatica e,  postasi sul petto la croce,
    cominciò a recitare a voce alta le parole della preghiera:
    - Preghiamo tutti insieme il Signore!
    "Preghiamo   tutti  insieme,   senza  distinzioni  di  classi,   senza
    inimicizia, uniti da un amore fraterno", pensò Natascia.
    - Preghiamo per la pace celeste e per la salvezza delle nostre anime!
    "Per la pace degli angeli e di tutti gli esseri incorporei che  vivono
    sopra di noi", pregava Natascia.
    Quando fu recitata la preghiera per l'esercito, ella si ricordò di suo
    fratello e di Denissov. Quando si pregò per i marinai e i viaggiatori,
    si ricordò del principe Andréj e pregò per lui,  pregò perché Iddio le
    perdonasse il male che gli aveva fatto. Quando si pregò per coloro che
    ci amano,  ella pregò per il padre,  per la madre,  per Sònja e per la
    prima  volta  comprese  la  sua colpa di fronte a loro e sentì insieme
    tutta la forza dell'amore che nutriva per loro.  Quando si  pregò  per
    coloro  che  ci  odiano,  essa  immaginò  di  avere dei nemici e delle
    persone che le volessero male per poter pregare per loro. Considerava,
    tra i nemici,  i creditori e tutti coloro che avevano affari  con  suo
    padre e ogni volta,  al pensiero dei nemici e di coloro che ci odiano,
    si ricordava di Anatolij che le aveva fatto tanto male e, sebbene egli
    non la odiasse,  pregava con gioia per lui come per  un  nemico.  Solo
    pregando,  Natascia  si  sentiva  capace  di ricordare con chiarezza e
    tranquillità il principe Andréj e  Anatolij,  come  persone  verso  le
    quali  provava  sentimenti che si annullavano davanti al sentimento di
    amore e di adorazione verso Dio.  Quando  si  pregò  per  la  famiglia
    imperiale  e per il Santo Sinodo,  ella si prosternò a terra e si fece
    il segno della croce, dicendosi che,  se anche non capiva,  non doveva
    dubitare, ma amare il Santo Sinodo e pregare per esso.
    Terminata  la  preghiera,  il  diacono  incrociò  la stola sul petto e
    disse:
    - Affidiamo noi stessi e la nostra vita a Gesù Cristo, nostro Dio!
    "Affidiamoci a Dio",  ripeté entro di sé  Natascia.  "Signore,  io  mi
    abbandono  alla  Tua  volontà.  Non  voglio  nulla,  non chiedo nulla;
    insegnami Tu quello che devo fare,  come devo usare  la  mia  volontà!
    Prendimi,  prendimi!",  diceva  entro  di  sé  Natascia  con  commossa
    impazienza,  senza segnarsi,  lasciando cadere le braccia esili,  come
    aspettando che una forza invisibile l'afferrasse e la liberasse da lei
    stessa,  dai suoi desideri, dai suoi rimorsi, dalle sue speranze e dai
    suoi errori.
    Parecchie volte,  durante la funzione,  la contessa aveva guardato  il
    viso  commosso  e gli occhi lucenti della figlia e aveva pregato Iddio
    affinché l'aiutasse.
    Improvvisamente,  a metà della funzione e non secondo il  procedimento
    consueto  che  Natascia ben conosceva,  il suddiacono portò un piccolo
    inginocchiatoio,  quello su cui si recitavano le preghiere nel  giorno
    della Pentecoste e lo pose davanti alle porte sante. Uscì il prete con
    la  calotta  di  velluto  viola,  si  lisciò  I  capelli  e  a  fatica
    s'inginocchiò. Tutti lo imitarono e si guardarono a vicenda,  stupiti.
    Si  trattava  della  preghiera  appena  ricevuta dal Santo Sinodo,  la
    preghiera  per  invocare  la  salvezza  della  Russia   dall'invasione
    straniera.
    "Signore,  Dio degli eserciti,  Dio della nostra salvezza" cominciò il
    sacerdote con quella voce chiara e dolce che nel recitare le preghiere
    hanno soltanto i predicatori slavi e che agisce con tanta potenza  sui
    cuori russi.  "Signore, Dio degli eserciti, Dio della nostra salvezza!
    Concedi la Tua misericordia a noi che a Te umilmente ci rivolgiamo,  e
    porgi  ascolto alle nostre preghiere,  aiutaci e concedi la grazia che
    Ti chiediamo. Il nemico, che sconvolge la Tua terra e vuol trasformare
    il mondo in un deserto,  si è levato contro di noi;  uomini malvagi si
    sono  riuniti  per  distruggere  il  Tuo regno,  per annientare la Tua
    Gerusalemme fedele,  la Tua  diletta  Russia;  per  profanare  i  Tuoi
    templi, abbattere gli altari, contaminare i santuari. Sino a quando, o
    Signore,  i  peccatori  trionferanno?  Sino a quando potranno usare il
    loro sacrilego potere?
    "Signore Iddio, ascolta! Ascolta noi che Ti supplichiamo, sorreggi con
    la Tua forza il nostro pio e  grande  sovrano,  il  nostro  imperatore
    Aleksàndr Pàvlovic'; ricorda la sua lealtà, la sua bontà, premialo per
    le virtù con le quali difende la tua Israele diletta.  Benedici le sue
    decisioni,  le sue imprese  e  le  sue  opere;  rafforza  con  la  Tua
    onnipotente  mano  il  suo  regno e concedigli la vittoria sul nemico,
    come la concedesti a Mosè contro Amalech,  a Gedeone contro Madian e a
    Davide  contro  Golia.  Proteggi  i suoi eserciti,  sostieni l'arco di
    bronzo sulle braccia di coloro che hanno preso le armi nel Tuo nome  e
    rendili  forti  nel  combattimento.  Prendi  le  armi  e  lo scudo per
    aiutarci,  e fa' che siano confusi  e  coperti  d'infamia  coloro  che
    meditano  il  nostro  male,  che  al cospetto delle Tue schiere fedeli
    siano come polvere al cospetto del vento,  che il Tuo angelo  possente
    li colpisca e li scacci,  che siano avvolti dalle loro reti, preda dei
    loro  inganni,  che  cadano  ai  piedi  dei  Tuoi  servi  e  ne  siano
    annientati.  Signore!  Tu puoi salvare piccoli e grandi, perché Tu sei
    Dio e nulla può l'uomo contro di Te!
    "Dio dei nostri padri!  ricorda che  eterna  è  la  Tua  misericordia,
    eterna la Tua magnificenza; non distogliere da noi il Tuo sguardo, non
    sdegnarti per le nostre iniquità ma, nella infinita Tua misericordia e
    nella  Tua  generosità,  dimentica le nostre colpe e i nostri peccati.
    Crea in noi un cuore puro,  rinnovella nel nostro animo lo spirito  di
    giustizia; rafforza la nostra fede in Te, alimenta la nostra speranza,
    ispira un sincero,  vicendevole amore,  armaci dell'unanime volontà di
    difendere ciò che hai dato a noi e ai  padri  nostri,  e  fa'  che  la
    scelta  dei  malvagi  non  domini  il  destino  di  coloro  che Tu hai
    benedetto.
    "Signore Iddio nostro, nel quale crediamo e nel quale confidiamo,  non
    toglierci  la  speranza  nella  Tua  misericordia e compi il miracolo,
    affinché lo vedano coloro che odiano noi e la nostra fede;  siano essi
    coperti  d'infamia  e  annientati;  e vedano tutti i popoli che il Tuo
    nome è il nome del Signore e che noi  siamo  i  Tuoi  servi.  Rivelaci
    oggi,  o Signore,  la Tua misericordia e la salvezza che attendiamo da
    Te;  rallegra il cuore dei Tuoi schiavi con la Tua grazia;  annienta i
    nostri nemici sotto i piedi dei Tuoi fedeli.  Poiché Tu sei la difesa,
    l'aiuto, la vittoria di coloro che credono in Te, sia gloria a Te,  al
    Padre,  al Figlio e allo Spirito Santo,  ora e sempre,  nei secoli dei
    secoli. Cosi sia!".
    Nello stato di sincerità d'animo in cui si  trovava  Natascia,  questa
    preghiera  agì  con forza su di lei.  Ella ascoltava ogni parola sulla
    vittoria di Mosè su Amalech, di Gedeone su Madian,  di David su Golia,
    sulla  distruzione  di Gerusalemme,  e pregava Dio con quella commossa
    tenerezza di cui era colmo il  suo  cuore;  ma  non  capiva  che  cosa
    chiedesse  a  Dio con quelle preghiere.  Partecipava con tutta l'anima
    alla supplica per ottenere la purezza dello spirito e perché la  fede,
    la  speranza  e  la  carità rendessero più saldo il suo cuore.  Ma non
    poteva pregare perché i suoi nemici fossero annientati giacché,  pochi
    minuti  prima,  aveva  desiderato  che  essi  fossero più numerosi per
    amarli e per pregare per loro.  Ma non poteva neppure  dubitare  della
    validità di quella preghiera recitata in ginocchio. Sentiva nell'anima
    orrore  al  pensiero  del  castigo  che  attende gli uomini per i loro
    peccati; pregava Dio di perdonare a tutti, come a lei, e pregava che a
    lei come a tutti gli altri concedesse una vita felice e tranquilla.  E
    le pareva che Dio ascoltasse le sue preghiere.


    CAPITOLO 19.

    Dal  giorno in cui Pierre,  lasciando i Rostòv e ricordando lo sguardo
    riconoscente di Natascia aveva contemplato la cometa alta  nel  cielo,
    aveva  sentito  che  iniziava  per  lui  qualche  cosa  di  nuovo.  Il
    torturante problema sulla vanità e sulla follia di ogni  cosa  terrena
    cessò  di  presentarsi  alla  sua  mente.  Quella  terribile  domanda:
    "Perché?  A che scopo?" che prima gli si affacciava nel bel  mezzo  di
    qualsiasi occupazione era ora sostituita non da un'altra domanda,  non
    da una risposta alla prima, ma dall'immagine di lei. Sia che dicesse o
    ascoltasse le cose più  indifferenti,  sia  che  leggesse  o  sentisse
    parlare della follia o della bassezza umana, non si sgomentava come un
    tempo,  non  si  domandava  perché  gli uomini si agitassero tanto dal
    momento che tutto è così breve e ignoto,  ma  ripensava  a  lei  quale
    l'aveva  vista  l'ultima  volta,  e tutti i suoi dubbi svanivano,  non
    perché ella rispondesse alle domande  che  lo  assalivano,  ma  perché
    l'immagine  di  lei  lo  trasportava immediatamente in un'altra sfera,
    nelle  sfere  radiose  dell'attività  spirituale  dove  non   potevano
    esistere  né  il peccatore né il giusto,  nella sfera della bellezza e
    dell'amore per la quale metteva conto di  vivere.  Qualsiasi  bassezza
    umana gli si affacciasse al pensiero, egli si diceva:
    "E sia pure che il tale derubi lo stato e lo zar, mentre lo stato e lo
    zar lo colmano di onori;  ma lei ieri mi ha sorriso e mi ha invitato a
    tornare, ed io l'amo e nessuno lo saprà mai".
    Pierre continuava a frequentare la società,  a bere molto,  a condurre
    una vita oziosa e distratta giacché, oltre alle ore che trascorreva in
    casa  Rostòv,  bisognava  pure  impiegare  in  qualche modo quelle che
    rimanevano e poi,  perché le abitudini e le  conoscenze  che  aveva  a
    Mosca  lo  trascinavano  invincibilmente a condurre quella vita da cui
    era ormai stato afferrato.  Ma negli ultimi tempi,  quando  giungevano
    dal  teatro della guerra voci sempre più inquietanti,  quando Natascia
    cominciò a riconquistare la salute,  cessando di destare in  lui  quel
    senso  di  interessamento  e  di  sollecitudine,   egli  fu  preso  da
    un'inquietudine sempre maggiore e più incomprensibile.  Sentiva che la
    situazione  nella quale si trovava non poteva durare più a lungo,  che
    una catastrofe imminente stava per mutare il corso della sua  vita,  e
    cercava  con  impazienza  in  ogni  cosa  segni  premonitori.  Uno dei
    fratelli   massoni   gli   aveva   rivelato   una   profezia,   tratta
    dall'Apocalisse dell'apostolo Giovanni, che si riferiva a Napoleone.
    Nell'Apocalisse,  al  capitolo tredicesimo,  versetto decimottavo,  si
    legge: "Qui sta la sapienza;  chi è dotato di  intelligenza  conti  il
    numero  della  bestia,  poiché  è  numero  di uomo,  e il suo numero è
    seicentosessantasei".
    E nello stesso capitolo,  al versetto quinto: "E le fu data una  bocca
    che pronunziava parole piene di orgoglio e di bestemmie;  e le fu dato
    il potere di fare la guerra per quarantadue mesi".
    Le lettere dell'alfabeto francese,  secondo il computo ebraico per  il
    quale  alle  prime  dieci  si dà il valore di unità e alle seguenti di
    diecine, hanno il significato seguente:

    a 1, b 2, c 3, d 4, e 5, f 6, g 7, h 8, i 9, k 10, l 20, m 30, n 40, o
    50, p 60, q 70, r 80, s 90, t 100, u 110, v 120, w 130, x 140,  y 150,
    z 160.

    Scrivendo con questo alfabeto cifrato le parole "l'empereur Napoléon",
    risulta  che  la  somma  dei  numeri  è  uguale a seicentosessantasei;
    pertanto Napoleone è la bestia profetizzata dall'Apocalisse.  Inoltre,
    scrivendo  con  lo stesso alfabeto le parole "quarante-deux",  cioè il
    limite assegnato alla bestia di pronunziare parole di  orgoglio  e  di
    bestemmie,   la   somma   delle   cifre   corrispondenti  è  di  nuovo
    seicentosessantasei,  dal che risulta che il potere  di  Napoleone  ha
    fine  con  l'anno  1812,   quando  l'imperatore  dei  Francesi  compie
    quarantadue anni.
    Tale profezia aveva colpito Pierre,  e spesso si domandava chi avrebbe
    messo fine al potere della bestia,  cioè di Napoleone e, basandosi sul
    sistema di configurare le lettere con  i  numeri  e  di  addizionarli,
    cercava  di  trovare  una  risposta  alla  domanda  che lo inquietava.
    "L'empereur Aleksàndr?  La nation russe?".  Ma la somma delle  lettere
    risultava  o  molto  superiore  o  molto inferiore al 666.  Una volta,
    immerso in questi calcoli,  scrisse  anche  il  proprio  nome,  "comte
    Pierre  Besouhoff",  ma  di nuovo la somma delle cifre non corrispose.
    Mutando l'ortografia,  sostituì una "z" alla "s",  aggiunse  un  "de",
    aggiunse  pure  "l'article",   ma  non  ottenne  ancora  il  risultato
    desiderato.  Allora gli venne in mente che,  se  la  risposta  cercata
    doveva  corrispondere  al  suo  nome,  in  essa  era  necessaria anche
    l'indicazione della sua nazionalità. Scrisse allora "le russe Besuhof"
    e,  sommando le cifre,  trovò 671.  C'erano cinque unità di troppo: il
    cinque  corrispondeva  alla  "e",  quella  "e"  che  era  stata  tolta
    dall'articolo dinanzi alla parola "empereur".  Eliminata,  sia pure in
    modo  scorretto,  quella  "e",  Pierre  ottenne  la  risposta cercata:
    "l'russe Besuhof",  uguale a 666.  Questa scoperta lo  turbò.  In  che
    modo,  da  quale  legame  egli  potesse  essere unito al grande evento
    predetto nell'Apocalisse,  non sapeva: ma neppure per un attimo dubitò
    dell'esistenza   di  quel  legame.   Il  suo  amore  per  la  Rostova,
    l'Anticristo,  l'invasione di Napoleone,  la cometa,  il  numero  666,
    "l'empereur  Napoléon" e "l'russe Besuhof" erano,  secondo lui,  tutte
    cose che dovevano maturare  insieme,  esplodere  e  farlo  uscire  dal
    cerchio  delle  sue  meschine  abitudini  moscovite  di cui si sentiva
    prigioniero, e guidarlo a un grande gesto e a una grande felicità.
    La vigilia di quella domenica in cui venne letta la preghiera,  Pierre
    aveva  promesso  ai Rostòv di portar loro il proclama alla Russia e le
    ultime notizie sulla guerra che avrebbe avuto dal Conte Rastopcìn, con
    il quale era in cordiali rapporti.  La mattina,  recatosi in casa  del
    conte   Rastopcìn,   Pierre   vi   trovò  un  corriere  appena  giunto
    dall'esercito.  Era costui un conoscente  di  Pierre,  uno  dei  tanti
    frequentatori delle feste da ballo di Pietroburgo.
    - Per amor di Dio,  non mi vorreste aiutare?   -  domandò il corriere.
    -  Ho la borsa piena di lettere di ufficiali dirette ai loro genitori.
    Tra queste ve n'era una di Nikolàj Rostòv a suo  padre,  e  Pierre  la
    prese.   Inoltre   il   conte   Rastopcìn   gli   diede   il  proclama
    dell'imperatore al popolo di Mosca, appena stampato, gli ultimi ordini
    del giorno all'esercito e il più recente manifesto.  Dando un'occhiata
    agli  ordini  del  giorno,   Pierre  trovò  in  uno  di  essi  tra  le
    informazioni sui feriti, sui caduti e sui decorati, il nome di Nikolàj
    Rostòv,  insignito della croce di San Giorgio di quarto grado  per  il
    coraggio dimostrato nel combattimento di Ostrovno; nello stesso ordine
    del  giorno  lesse  della  nomina  del  principe  Andréj  Bolkonskij a
    comandante di un reggimento di cacciatori. Sebbene gli rincrescesse di
    rammentare ai Rostòv il principe  Andréj,  Pierre  non  poté  tuttavia
    resistere  al  desiderio  di  allietare quella famiglia con la notizia
    della decorazione avuta dal figlio e,  lasciato da parte il  proclama,
    il  manifesto  e  gli  altri  fogli  degli  ordini  del  giorno,   con
    l'intenzione di portarli personalmente all'ora del  pranzo,  mandò  ai
    Rostòv l'ordine del giorno stampato e la lettera.
    La  conversazione  con  il conte Rastopcìn,  il suo tono preoccupato e
    frettoloso,   l'incontro  con  il   corriere   il   quale   raccontava
    spensieratamente  come  le cose andassero male nell'esercito,  le voci
    sulle spie trovate a Mosca e a proposito di un  foglio  che  circolava
    per la città e nel quale era detto che Napoleone prometteva di entrare
    nelle  due  capitali  prima  dell'autunno,   il  discorso  sull'arrivo
    dell'imperatore atteso per il giorno  dopo,  tutto  ciò  suscitava  in
    Pierre,  con  forza rinnovata,  quel senso di inquietudine e di attesa
    che non lo aveva più abbandonato da quando era comparsa la  cometa  e,
    specialmente, da quando aveva avuto inizio la guerra.
    Già  da  molto tempo Pierre pensava di entrare nel servizio militare e
    lo avrebbe già fatto se non glielo avesse in primo luogo  impedito  la
    sua  appartenenza  all'Ordine dei frammassoni,  a cui era legato da un
    giuramento che faceva professione della pace eterna e  dell'abolizione
    della  guerra  e,  in  secondo luogo,  dal fatto che,  vedendo il gran
    numero di moscoviti che avevano indossato l'uniforme e  propagandavano
    il  patriottismo,  si sentiva,  chissà perché,  vergognoso di compiere
    quel passo.  Ma il motivo principale per cui  non  realizzava  il  suo
    proposito  di  entrare  nel  servizio  militare  consisteva nella vaga
    consapevolezza di essere "l'russe Besuhof"  corrispondente  al  numero
    666;  che la sua parte nella grande impresa la quale doveva porre fine
    al potere di quella bestia che pronunziava parole grandi  e  bestemmie
    fosse   da   sempre  prestabilita,   e  che  perciò  egli  non  doveva
    intraprendere nulla, ma attendere ciò che doveva accadere.


    CAPITOLO 20.

    Pochi amici intimi pranzavano,  come sempre  ogni  domenica,  in  casa
    Rostòv.
    Pierre arrivò in anticipo sull'ora solita per trovarli soli.
    In   quell'anno  Pierre  era  tanto  ingrassato  che  sarebbe  apparso
    mostruoso se non fosse stato così alto  di  statura,  di  membra  così
    robuste  e  così  forte  da  portare  con  evidente  facilità  la  sua
    pinguedine.
    Ansimando e borbottando qualcosa  tra  i  denti,  salì  le  scale.  Il
    cocchiere  non  gli domandò neppure se dovesse aspettarlo.  Sapeva già
    che  quando  il  conte  si  recava  dai  Rostòv  vi  rimaneva  sino  a
    mezzanotte.   I  domestici  dei  Rostòv  si  precipitarono  lietamente
    incontro all'ospite  per  aiutarlo  a  togliersi  il  mantello  e  per
    prendergli il cappello e il bastone.  Pierre, secondo le abitudini del
    circolo, lasciava sempre in anticamera l'uno e l'altro.
    La prima persona  che  vide  entrando  fu  Natascia.  Ancor  prima  di
    scorgerla,  egli  l'aveva  udita  mentre  si  toglieva  il mantello in
    anticamera,  che stava facendo in sala esercizi di  solfeggio.  Pierre
    sapeva  che  la  fanciulla,  dal  tempo della malattia,  non aveva più
    cantato e perciò il suono della voce di lei lo colmò di letizia  e  di
    stupore.  Aprì cautamente l'uscio e scorse Natascia che, con lo stesso
    vestito viola con il quale si era recata alla Messa,  andava su e  giù
    per la stanza,  cantando. Quando Pierre aprì l'uscio, ella gli volgeva
    le spalle ma allorché si voltò di scatto e scorse  il  viso  grosso  e
    stupito di lui, arrossì e gli andò rapidamente incontro.
    - Voglio tentare di rimettermi a cantare  -  gli disse. -E' pur sempre
    un'occupazione  -  aggiunse, quasi a giustificarsi.
    - Benissimo!
    - Quanto sono contenta che siate venuto! Oggi mi sento felice  esclamò
    con quella vivacità una volta abituale in lei, ma che Pierre non aveva
    più  costatato da molto tempo.   -  Voi sapete,  vero,  che Nicolas ha
    avuto la decorazione di San Giorgio? Sono orgogliosa di lui...
    - E come no?  Sono stato io a mandare l'ordine del  giorno...  Ma  non
    vorrei disturbarvi  -  aggiunse, e fece per passare in salotto.
    Natascia lo trattenne.
    -  Conte,  faccio  male  a  cantare?    -   domandò,  arrossendo senza
    distogliere gli occhi da Pierre e fissandolo interrogativamente.
    - No... e perché? Anzi... Ma perché mi fate questa domanda?
    - Non lo so neppure io  -  rispose in fretta Natascia,    -    ma  non
    vorrei fare qualcosa che vi dispiacesse.  Ho tanta fiducia in voi. Non
    potete sapere quanta importanza avete per me e quanto avete fatto  per
    il  mio bene!   -  Parlava in fretta e non si accorgeva che Pierre era
    arrossito alle sue parole.  -  Nello stesso ordine del giorno ho letto
    che lui, Bolkonskij...  (pronunziò quel nome in fretta e a voce bassa)
    -  è di nuovo in Russia e che ha ripreso il servizio. Cosa credete?  -
    domandò,  evidentemente  affrettandosi  perché  dubitava delle proprie
    forze.-  Cosa credete? Che mi potrà un giorno perdonare? O che nutrirà
    sempre verso di me sentimenti ostili? Cosa pensate? Cosa pensate?
    - Penso...  -  rispose Pierre  -  che Bolkonskij non vi deve perdonare
    nulla. Se fossi io al suo posto...
    Per associazione di  idee,  Pierre  ripensò  al  giorno  in  cui,  per
    consolarla,  le aveva detto che, se non fosse stato quello che era, ma
    l'uomo migliore del mondo e libero,  avrebbe chiesto in  ginocchio  la
    sua mano,  e ora quello stesso sentimento di pietà,  di tenerezza,  di
    amore s'impadroniva di nuovo di lui,  e le stesse parole gli  salivano
    alle labbra. Ma Natascia non gli lasciò il tempo di parlare.
    - Ma voi...  voi...   -  disse,  pronunziando con entusiasmo la parola
    "voi"  -  voi siete un'altra cosa.  Io non conosco e so che non esiste
    un  uomo più buono,  più generoso,  migliore di voi.  Se allora non ci
    foste stato voi,  e anche adesso,  non so che cosa  sarebbe  stato  di
    me...
    Gli  occhi le si empirono di lacrime;  ella si voltò dall'altra parte,
    avvicinò al viso il foglio di musica,  e si mise a  camminare  per  la
    stanza, riprendendo a cantare.
    In quel momento Pétja entrò di corsa nel salotto.
    Pétja era ormai un bel ragazzo di quindici anni, robusto, dalle labbra
    grosse,  molto somigliante a Natascia.  Si preparava per l'università,
    ma in quegli ultimi  tempi  aveva  deciso,  in  segreto,  con  il  suo
    compagno Obolenskij di arruolarsi negli ussari.
    Pétja si precipitò verso il suo omonimo per parlargli di una faccenda.
    Lo  aveva  pregato  di  informarsi  se  lo avrebbero accettato tra gli
    ussari.
    Pierre passeggiava per la stanza, senza dar retta a Pétja.  Questi gli
    tirò una manica per costringerlo a prestargli attenzione.
    - In nome di Dio, Pëtr Kirillyc', come va la mia faccenda? La mia sola
    speranza siete voi!
    -  Ah sì...  Ia tua faccenda!  Negli ussari,  vero,  vorresti entrare?
    Vedrò, vedrò, me ne occuperò oggi stesso.
    - E allora, "mon cher", vi siete procurato il proclama?  -  domandò il
    vecchio conte,  entrando.   -  La contessa è stata alla Messa in  casa
    Razumovskij e ha udito la nuova preghiera. Dicono che sia molto bella.
    -  Me lo sono procurato  -  rispose Pierre.   -  L'imperatore arriverà
    domani.  Vi sarà un'assemblea straordinaria della nobiltà e,  si dice,
    un reclutamento del dieci per mille. Intanto mi rallegro con voi...
    - Sì, sì, sia lodato Iddio. Dunque, quali notizie della guerra?
    -  I  nostri  si  sono di nuovo ritirati.  Si dice che siano già sotto
    Smolènsk  -  rispose Pierre.
    - Mio Dio! Mio Dio!  -  esclamò il conte.  -  Dov'è il manifesto?
    - Il proclama ? Ah sì...
    Pierre si frugò nelle tasche,  ma non  riuscì  a  trovare  il  foglio.
    Continuando a cercare,  baciò la mano alla contessa, entrata allora, e
    si guardò attorno inquieto, aspettando evidentemente che Natascia,  la
    quale non cantava più, entrasse in salotto.
    - Non so davvero dove posso averlo cacciato  -  disse.
    - Eh già, lui perde sempre ogni cosa!  -  dichiarò la contessa.
    Natascia  entrò,  visibilmente intenerita e commossa,  e si sedette in
    silenzio, guardando Pierre.  Non appena ella era apparsa nella stanza,
    il  viso  di  Pierre,  sino a quel momento rabbuiato,  si rischiarò ed
    egli,  continuando a cercare quelle carte,  rivolse parecchie volte lo
    sguardo alla fanciulla.
    - Certamente l'avrò dimenticato a casa. Vado a prenderlo...
    - Già, così farete tardi per il pranzo...
    - Oh, anche il cocchiere se n'è andato!
    Ma  Sònja,  che  era  corsa a cercare i fogli in anticamera,  li trovò
    dentro il cappello di Pierre, dove egli li aveva accuratamente riposti
    e piegati. Pierre voleva leggerli subito.
    - No,  no,  dopo pranzo!   -  disse  il  vecchio  conte  che  sembrava
    ripromettersi un gran piacere da quella lettura.
    A  pranzo,  durante  il quale si brindò con lo "champagne" alla salute
    del nuovo cavaliere  di  San  Giorgio,  Scinscin  raccontò  le  ultime
    notizie  cittadine:  la malattia di una vecchia principessa georgiana,
    la scomparsa da Mosca di Métivier,  che a Rastopcìn era stato condotto
    un  tedesco,  dichiarato  "champignon"  (75) come raccontava lo stesso
    Rastopcìn,  e come questi avesse ordinato di liberare lo "champignon",
    dicendo  al  popolo  che  quello  era  semplicemente  un vecchio fungo
    tedesco.
    - Ne prendono,  ne prendono....   -  disse il conte,   -   e  io  dico
    sempre  alla  contessa  di  parlare un po' meno in francese.  Non è il
    momento!
    - E avete sentito?   -  domandò Scinscin.   -  Il principe Golitzin ha
    assunto un maestro di russo e impara il russo;  "il commence à devenir
    dangereux de parler francais dans les rues" [76.  Parlare francese per
    le strade comincia a diventare pericoloso].
    -  E allora,  conte Pëtr Kirillyc',  quando sarà mobilitata la milizia
    dovrete montare a cavallo anche voi?   -  domandò  il  vecchio  conte,
    rivolgendosi a Pierre.
    Pierre era stato taciturno e pensieroso per tutta la durata del pranzo
    e guardò il conte come se non capisse.
    - Sì, sì, dovrò andare alla guerra  -  rispose.  -  Ma no, che soldato
    potrò essere io? Del resto, tutto è così strano, così strano... Non ci
    capisco  nulla  neppur  io!  Non  so,  sono  tanto  lontano  dai gusti
    militari....  Ma già,  in questi momenti nessuno può rispondere di  se
    stesso!
    Finito  il pranzo,  il conte si sedette tranquillamente in poltrona e,
    serio, pregò Sònja, che passava per un'abilissima lettrice, di leggere
    il manifesto dell'imperatore.
    "A Mosca, nostra prima capitale.
    "Il nemico, con forze ingenti, ha varcato i confini della Russia. Esso
    sta per spargere la rovina nella nostra  Patria  amatissima",  leggeva
    Sònja con la sua vocetta acuta. Il conte ascoltava a occhi chiusi e di
    tanto in tanto traeva profondi sospiri.
    Natascia,  seduta rigida e seria, volgeva ora sul padre, ora su Pierre
    uno sguardo indagatore.
    Pierre sentiva su di sé lo sguardo della fanciulla e  cercava  di  non
    voltarsi.  La contessa,  con aria costernata e scontenta,  scuoteva il
    capo a ogni espressione solenne del manifesto. Da tutte quelle parole,
    ella capiva una cosa sola: che i pericoli in mezzo ai quali si trovava
    suo figlio non accennavano a finire. Scinscin, con la bocca atteggiata
    a un sorriso canzonatorio,  si preparava evidentemente a ridere  della
    prima cosa che si prestasse alla beffa: della lettura di Sònja, di ciò
    che  avrebbe  detto  il  conte  e persino del proclama,  se non avesse
    trovato un pretesto migliore.
    Dopo aver  letto  dei  pericoli  che  minacciavano  la  Russia,  delle
    speranze  che l'imperatore fondava su Mosca e,  in particolare,  sulla
    sua illustre nobiltà,  Sònja,  con un tremito  nella  voce,  provocato
    soprattutto dall'attenzione con cui gli altri l'ascoltavano,  lesse le
    ultime parole: "Ma noi non tarderemo a ritornare in  mezzo  al  nostro
    popolo  in  codesta  capitale  e  in altri luoghi del nostro paese per
    consultarci e guidare tutte le nostre milizie,  tanto quelle  che  ora
    sbarrano  il  passo  al  nemico quanto quelle che verranno formate per
    combatterlo in qualunque punto esso compaia.  Ricada sul suo  capo  la
    rovina  alla  quale  vorrebbe  condurci,   e  l'Europa,  liberata  dal
    servaggio, glorifichi il nome della Russia!".
    - Proprio così!  -  gridò il conte,  aprendo gli occhi umidi di pianto
    e  tirando su con il naso parecchie volte,  come se gli avessero messo
    sotto una  boccetta  di  forte  aceto  aromatico.    -    Basterà  che
    l'imperatore dica una parola, e noi faremo qualsiasi sacrificio, senza
    nulla rimpiangere!
    Scinscin  non  aveva ancora fatto in tempo a dire la facezia che aveva
    preparato sul patriottismo del conte che  Natascia,  balzata  dal  suo
    posto, corse verso il padre.
    -  Com'è  meraviglioso questo nostro papà!   -  esclamò baciandolo,  e
    guardò di nuovo Pierre con quello sguardo incoscientemente  civettuolo
    che era ricomparso in lei insieme con la vivacità.
    - Questa sì che è una patriota!  -  disse Scinscin.
    -  Non  sono  affatto  una patriota,  ma semplicemente...   -  ribatté
    Natascia, offesa.  -  Voi trovate da ridere su tutto,  ma questo non è
    davvero uno scherzo.
    -  Macché  scherzo!    -  ripeté il conte.   -  Dica una sola parola e
    andremo tutti... Non siamo mica tedeschi, noi!
    - Non avete notato che è detto "per consultarci"?  -  osservò Pierre.
    - Be', per qualsiasi cosa sia...
    In quel momento Pétja,  al quale nessuno badava,  si avvicinò al padre
    e,  tutto  rosso e con la voce che si spezzava,  ora sottile ora rude,
    disse:
    - E ora,  babbino,  ve lo dico decisamente e lo dico anche alla mamma:
    vogliate  o  no,  vi  dichiaro decisamente che mi dovete permettere di
    entrare nell'esercito perché io non... posso... ecco tutto!
    La contessa alzò al cielo uno sguardo sgomento,  battendo le palme  e,
    volta al marito, gli disse in tono irritato:
    - Ecco, è riuscito a dire anche lui la sua!
    Ma il conte,  in quel momento,  si riebbe dall'agitazione che lo aveva
    turbato.
    - Via,  via!   -  disse.   -   Anche  tu  soldato!  Smettila  di  dire
    sciocchezze: tu devi studiare.
    - Non sono sciocchezze,  babbino. Fédja Obolenskij è più giovane di me
    e si prepara a partire;  e poi,  soprattutto,  adesso non riesco più a
    imparare  nulla,  mentre...   -  Pétja si interruppe,  arrossì sino al
    bianco degli occhi ma riuscì a completare la frase  -  ...  mentre  la
    patria è in pericolo!
    - Smettila, smettila di dire sciocchezze!
    - L'avete detto anche voi che siete pronto a sacrificare tutto.
    - Pétja,  ti dico di tacere!  -  esclamò il conte, guardando la moglie
    che, pallidissima, teneva gli occhi fissi sul figliuolo più giovane.
    - E io vi dico che... E anche Pëtr Kirillovic' vi dirà...
    - Ti ripeto che sono sciocchezze!  Ha ancora il latte sulle  labbra  e
    vuol fare il soldato!  Suvvia, andiamo!  -  e il conte, presi con sé i
    fogli,  probabilmente per rileggerli ancora una  volta  nello  studio,
    uscì dalla stanza.
    - Pëtr Kirillovic', venite! Andiamo a fare una fumatina...
    Pierre era imbarazzato e indeciso. Gli occhi di Natascia insolitamente
    accesi  e  animati,  che  si  volgevano  di  continuo  a  lui  più che
    affettuosamente, l'avevano messo in quello stato.
    - No, credo che andrò a casa.
    - Come!  A casa?  Ma non dovevate passare  la  serata  con  noi?  Sono
    diventate così rare le vostre visite... E questa mia piccola  -  disse
    bonariamente il conte indicando Natascia  -  è allegra soltanto quando
    ci siete voi...
    -  Già,  ma avevo dimenticato...  devo andare assolutamente a casa per
    certi affari...  -  rispose in fretta Pierre.
    - Arrivederci,  dunque  -  rispose il conte,  uscendo  definitivamente
    dalla stanza.
    - Perché ve ne andate?  Perché siete così turbato? Perché?  -  domandò
    Natascia a Pierre, guardandolo con aria provocante.
    "Perché ti amo!",  avrebbe voluto rispondere Pierre,  ma non lo disse,
    arrossì sino alle lacrime e abbassò gli occhi.
    - Perché è meglio che io venga più di rado in casa vostra... Perché...
    no... semplicemente perché ho degli affari.
    - Ma no, perché? Parlate...  -  cominciò risolutamente Natascia, ma di
    colpo ammutolì.  Entrambi si guardavano turbati e sgomenti. Egli tentò
    di sorridere,  ma non vi riuscì: il suo sorriso esprimeva  sofferenza.
    In silenzio baciò la mano di Natascia e uscì.
    E decise che non sarebbe più andato dai Rostòv.


    CAPITOLO 21.

    Pétja,  dopo  il  definitivo  rifiuto  del padre,  si ritirò nella sua
    camera,  chiuse a chiave la porta e,  di nascosto,  pianse amaramente.
    Tutti finsero di non accorgersi di nulla quando tornò per il tè,  cupo
    e taciturno e con gli occhi gonfi.
    Il giorno successivo arrivò l'imperatore.  Alcuni domestici dei Rostòv
    chiesero  il  permesso  di andare a vedere lo zar.  Quel mattino Pétja
    indugiò a lungo a vestirsi,  a pettinarsi,  ad aggiustarsi il colletto
    come   gli   adulti.   Si   guardava  nello  specchio  aggrottando  le
    sopracciglia, gesticolava, alzava le spalle e,  finalmente,  senza dir
    nulla  a  nessuno,  mise  il  berretto  e  uscì di casa dalla scala di
    servizio, cercando di sgattaiolare senza essere visto. Aveva deciso di
    andare  direttamente  al  luogo  dove  si  trovava  il  sovrano  e  di
    dichiarare  a un qualsiasi ciambellano (Pétja credeva che l'imperatore
    fosse sempre circondato da ciambellani)  che  lui,  il  conte  Rostòv,
    nonostante  la giovane età,  desiderava servire la patria,  che la sua
    giovinezza non poteva costituire un ostacolo alla devozione e che egli
    era pronto... Mentre si vestiva, Pétja aveva preparato un bel discorso
    da fare al ciambellano.
    Egli  contava  sul  buon  esito  del  suo  tentativo  di   presentarsi
    all'imperatore proprio perché era un ragazzo (pensava, anzi, che tutti
    si  sarebbero  stupiti della sua giovane età),  ma nello stesso tempo,
    nella forma data al colletto,  nel modo di pettinarsi e  nell'andatura
    lenta e grave, voleva assumere l'aspetto di un uomo adulto. Ma, quanto
    più  andava  avanti,  tanto  più  era distratto dalla folla che vedeva
    aumentare e avviarsi al  Cremlino  e  sempre  più  si  dimenticava  di
    mantenere  l'andatura e il comportamento da persona anziana.  Arrivato
    presso il Cremlino,  cominciò a preoccuparsi di non essere schiacciato
    e,  risolutamente  e  con  aria minacciosa,  prese a farsi largo con i
    gomiti.  Ma sotto la porta  della  Trinità,  nonostante  il  suo  fare
    risoluto,  la  folla,  che evidentemente ignorava con quali intenzioni
    patriottiche egli andasse al Cremlino,  lo serrò  talmente  contro  un
    muro  che egli fu costretto a cedere e a fermarsi,  mentre le carrozze
    passavano rimbombando sotto la volta della porta.  Accanto a Pétja  si
    trovavano  una  donna  del popolo con un servitore,  due bottegai e un
    soldato in congedo.  Dopo aver atteso per un po'  di  tempo  nel  vano
    della  porta,  Pétja,  senza  aspettare  che tutte le carrozze fossero
    passate,  volle andar oltre prima degli altri e  cominciò  a  lavorare
    decisamente di gomiti, ma la donna, che gli stava accanto e alla quale
    aveva per prima sferrato qualche gomitata, gli gridò in tono irritato:
    - Ehi,  signorino, che hai da spingere? Non vedi che sono tutti fermi?
    Perché vuoi cacciarti avanti a ogni costo?
    - A questo modo si cacceranno avanti tutti  -  osservò il domestico e,
    dandosi anch'egli a lavorar di gomiti,  spinse Pétja in un  puzzolente
    angolo del portone.
    Pétja si asciugò con le mani il viso madido di sudore e si aggiustò il
    colletto tutto bagnato,  quel colletto che a casa aveva sistemato così
    bene alla maniera degli adulti.
    Il ragazzo sentiva ora di non avere  più  un  aspetto  presentabile  e
    temeva che,  se fosse comparso così ai ciambellani,  non gli avrebbero
    permesso di avvicinarsi all'imperatore.  Ma,  oppresso  com'era  dalla
    folla,  gli  era  impossibile  mettersi  un po' in ordine o trovare un
    altro posto.  In una delle carrozze passò un generale,  conoscente dei
    Rostòv. Pétja avrebbe voluto chiedere il suo aiuto, ma poi ritenne che
    non fosse un gesto degno di un uomo. Allorché tutte le carrozze furono
    passate,  la  folla si spostò e spinse Pétja sulla piazza,  gremita di
    popolo.  Non solo la piazza,  ma anche i pendii e i tetti  delle  case
    brulicavano  di  gente.  Non  appena si trovò sulla piazza,  Pétja udì
    distintamente il suono delle campane che riempiva tutto il Cremlino  e
    il gioioso vociare della folla.
    Per  un momento sulla piazza si fece un po' di largo ma,  a un tratto,
    tutte le teste si scoprirono e tutti si precipitarono in avanti. Pétja
    fu schiacciato in modo tale da non poter più respirare.  mentre  tutti
    gridavano: "Urrà!  Urrà! Urrà!". Il ragazzo si sollevò sulla punta dei
    piedi e, dando spintoni e pizzicotti,  cercava di farsi largo,  ma non
    riusciva a vedere nulla se non un mare di folla attorno a sé.
    Tutti  i  visi esprimevano entusiasmo e commozione.  Una bottegaia che
    era vicina a Pétja singhiozzava, e lacrime copiose le scendevano lungo
    le guance.
    - Padre! Angelo!  -  diceva, asciugandosi con le mani il viso inondato
    di pianto.
    - Urrà!  -  si sentiva gridare da ogni parte.
    Per un minuto la folla rimase  immobile,  poi  tornò  a  spingersi  in
    avanti.
    Pétja,  fuori di sé,  stringendo i denti, con gli occhi stralunati, si
    gettò innanzi lavorando di gomiti e gridando: "Urrà!", come se in quel
    momento fosse pronto a uccidere se stesso e gli altri,  ma di fianco a
    lui  avanzavano  altre  persone  dalle facce altrettanto stravolte che
    come lui gridavano: "Urrà!".
    "Ecco dunque cos'è l'imperatore!", pensava Pétja. "No, non è possibile
    che io gli presenti  personalmente  la  mia  domanda;  sarebbe  troppo
    audace  da  parte mia!".  Nonostante ciò,  continuava disperatamente a
    spingere,  finché al di là della schiena di  coloro  che  gli  stavano
    davanti,  scorse uno spazio vuoto,  coperto da un tappeto rosso; ma in
    quello  stesso  momento  la  folla  indietreggiò  tumultuosamente  (le
    guardie  respingevano  coloro che si erano troppo avvicinati al corteo
    dell'imperatore   che,    dal    palazzo,    passava    alla    chiesa
    dell'Assunzione),  e  Pétja  ricevette  un tal colpo al fianco,  nelle
    costole,  e si sentì così premuto dalla folla che la vista a un tratto
    gli  si  oscurò  ed  egli  perdette  i  sensi.   Quando  rinvenne,  un
    ecclesiastico con un ciuffo di capelli grigi sulla  nuca,  vestito  di
    una logora tunica azzurra,  forse un suddiacono, sorreggendolo con una
    mano sotto l'ascella cercava con l'altra di ripararlo dalla  pressione
    della folla.
    -  Hanno  schiacciato un signorino!   -  diceva l'ecclesiastico.   Che
    modo di fare è mai questo? Piano, piano... L'hanno schiacciato.
    L'imperatore entrò nella chiesa dell'Assunzione. La folla si diradò di
    nuovo, e il suddiacono condusse Pétja,  pallido e senza respiro,  sino
    allo zar-cannone (77).  Alcune persone compiangevano il ragazzo e,  ad
    un tratto,  tutta la gente si voltò verso di  lui  e  gli  fece  ressa
    attorno.  Coloro  che  gli  erano  più  vicini  lo  soccorrevano,  gli
    sbottonavano la giacca,  lo facevano  sedere  in  cima  al  cannone  e
    rimproveravano quelli che lo avevano schiacciato.
    -  A  questo  modo si può schiacciare una persona sino a farla morire!
    Che roba! Ammazzare la gente!  Guardatelo un po',  questo poverino,  è
    bianco come un cencio  -  dicevano alcune voci.
    Ben presto Pétja si riebbe,  il suo viso riprese il consueto colorito,
    il dolore  al  fianco  si  attutì  e  scomparve  e,  grazie  a  quelle
    momentanee  sofferenze,  riuscì  a  conquistare  un  posto sul cannone
    dall'alto del quale sperava di poter vedere l'imperatore quando  fosse
    passato  di  là  di  ritorno  dalla chiesa dell'Assunzione.  Pétja non
    pensava più alla istanza,  che aveva già pronta,  da  presentare  allo
    zar.  Ormai  non  desiderava  altro che vederlo: questo solo l'avrebbe
    reso felice!
    Durante la funzione  nella  cattedrale  dell'Assunzione,  dove  veniva
    officiato  un  rito di ringraziamento per il ritorno dell'imperatore e
    un Te Deum per la conclusione della pace con i  Turchi,  la  folla  si
    andò disperdendo; comparvero i venditori che gridando offrivano "kvas"
    (78), panpepato, semi di girasole, dei quali Pétja era particolarmente
    ghiotto  e  si udivano i soliti discorsi.  Una mercantessa mostrava il
    suo scialle strappato e diceva quanto  le  era  costato;  un'altra  si
    lamentava  dell'aumento  del  prezzo  di  tutte  le  stoffe  di  seta.
    L'ecclesiastico, che aveva salvato Pétja, parlava con un impiegato dei
    sacerdoti che quel giorno  avevano  officiato  con  l'arcivescovo.  Il
    suddiacono  ripeté  più volte la parola "sinodo" di cui Pétja ignorava
    il significato.  Due giovani borghesi scherzavano con alcune fantesche
    che sgranocchiavano noci. Tutti questi discorsi e, in special modo, le
    parole  scherzose  delle  fantesche (che potevano esercitare su Pétja,
    data la sua età,  un'attrattiva particolare) ora non lo  interessavano
    affatto;  seduto  sull'alto  del cannone era tutto agitato al pensiero
    dell'imperatore e della propria devozione per  lui.  Il  dolore  e  la
    paura  dell'attimo  in  cui  si era sentito soffocare,  schiacciato in
    mezzo  alla  folla,   insieme  con  l'entusiasmo  che   provava   ora,
    rafforzavano sempre di più in lui la consapevolezza di quel momento.
    A  un  tratto,  dal  lungo  fiume echeggiarono alcuni colpi di cannone
    (erano spari a salve per festeggiare la pace con i Turchi), e la folla
    si buttò freneticamente sulla riva  per  veder  sparare.  Anche  Pétja
    avrebbe  voluto  correre  laggiù,  ma il suddiacono che aveva preso il
    signorino sotto la sua protezione  non  glielo  permise.  I  colpi  si
    susseguivano  ancora  quando  dalla chiesa dell'Assunzione uscirono di
    corsa ufficiali, generali, ciambellani, poi, più lentamente uscì altra
    gente.  Di nuovo la folla si scoprì e coloro che erano andati a vedere
    i cannoni,  tornarono indietro di corsa. Finalmente comparvero quattro
    personaggi in divisa,  con il petto coperto di decorazioni.  La  folla
    gridò di nuovo "Urrà! Urrà!".
    -  Qual  è?  Qual  è?    -  domandava Pétja con voce piagnucolosa alle
    persone che gli erano attorno, ma nessuno gli rispondeva;  erano tutti
    troppo  eccitati  e  Pétja,  scelto  uno  dei  quattro personaggi che,
    attraverso le lacrime di  gioia  che  gli  colmavano  gli  occhi,  non
    riusciva  a  distinguere  bene,  concentrò  su  di  lui  tutto  il suo
    entusiasmo e, sebbene non fosse quello il sovrano,  si mise a gridare:
    "Urrà!"  con  voce  acutissima,  e  decise  in  cuor suo che il giorno
    seguente, a qualsiasi costo, si sarebbe arruolato.
    La folla,  correndo  dietro  all'imperatore,  lo  accompagnò  sino  al
    palazzo  e  poi  cominciò  a  disperdersi.  Era  già tardi.  Pétja era
    digiuno, grondava di sudore,  ma non pensava ancora a tornare a casa e
    insieme con la folla, diradata ma ancora abbastanza numerosa, rimaneva
    fermo  davanti al palazzo guardando le finestre,  al di là delle quali
    l'imperatore pranzava, come se aspettasse ancora qualcosa,  invidiando
    ugualmente  i  dignitari  che  salivano  lo scalone per partecipare al
    pranzo del sovrano e i camerieri che servivano  in  tavola  e  le  cui
    figure balenavano attraverso i vetri.
    Durante il pranzo Valnev disse, volgendosi verso una finestra:
    - Il popolo spera ancora di vedere vostra maestà!
    Il  pranzo  era  già  terminato:  l'imperatore  si  alzò  mangiando un
    biscotto e uscì sul balcone. La folla,  in mezzo alla quale si trovava
    Pétja, si precipitò verso il balcone.
    - Angelo!  Padre!  Urrà!  Urrà!  -  gridavano tutti. Pétja, le donne e
    parecchi uomini più sensibili, si misero a piangere di gioia. Un pezzo
    abbastanza grande del biscotto,  che l'imperatore teneva in  mano,  si
    spezzò,  cadde sulla ringhiera del balcone e dalla ringhiera in terra.
    Un cocchiere in "poddëvka" (79), più vicino degli altri,  si slanciò a
    raccoglierlo.  Il sovrano,  che aveva notato la scena, si fece portare
    un piatto di biscotti e si mise a gettarli dal balcone.  Gli occhi  di
    Pétja  si iniettarono di sangue,  il pericolo di venire schiacciato lo
    eccitò, e si slanciò in avanti per afferrarne uno.  Non sapeva perché,
    ma sentiva di aver bisogno di prendere uno di quei biscotti dalle mani
    dello zar e di non potervi rinunziare a nessun costo.  La veemenza con
    cui si slanciò fece cadere una  vecchietta  che  stava  afferrando  un
    biscotto. Ma la vecchietta non si diede per vinta e, benché giacesse a
    terra,  tentava  invano di raggiungere un biscotto ma non ci riusciva.
    Pétja con un ginocchio le deviò la mano,  afferrò lui il  biscotto  e,
    come  se temesse di non fare in tempo,  gridò ancora: "Urrà!" con voce
    ormai rauca.
    L'imperatore si ritirò, e la folla cominciò a disperdersi.
    - Ecco, l'ho detto io che bisognava aspettare e così ci è andata bene!
    -  diceva qua e là la gente in tono soddisfatto.
    Per quanto Pétja si sentisse felice,  provava  tuttavia  un  senso  di
    tristezza  al  pensiero che doveva tornare a casa e che tutta la gioia
    di quel giorno  era  ormai  finita.  Dal  Cremlino  però  non  rincasò
    direttamente,  ma  si  recò  dal  suo  compagno Obolenskij,  che aveva
    quindici anni e si arruolava anche lui in  un  reggimento.  Tornato  a
    casa,  dichiarò in tono deciso e risoluto che se non gli avessero dato
    il permesso di andare soldato, sarebbe fuggito.  Il giorno successivo,
    senza  ancora  cedere  del  tutto,  il  conte  Iljà  Andréevic' andò a
    informarsi come avrebbe potuto far  prender  servizio  a  Pétja  senza
    esporlo a troppi pericoli.


    CAPITOLO 22.

    La mattina del 15,  due giorni dopo la scena descritta, un gran numero
    di carrozze era fermo davanti al palazzo Slobodskij.
    Le sale erano gremite. Nella prima erano riuniti i nobili in uniforme,
    nella seconda i mercanti con le loro decorazioni,  le barbe lunghe e i
    caffettani  turchini.  Nella  sala  dei  nobili  regnava  una rumorosa
    agitazione.  A una grande tavola,  sotto il ritratto  dell'imperatore,
    stavano  seduti  su  seggioloni  dalle alte spalliere i più importanti
    dignitari,  ma la maggior parte  dei  gentiluomini  passeggiavano  per
    l'ampia sala.
    Tutti  quei  nobili,  gli  stessi  che  ogni giorno Pierre vedeva o al
    circolo o in casa loro, indossavano l'uniforme, chi di Caterina chi di
    Paolo,  chi quella nuova di  Aleksàndr,  chi  la  semplice  divisa  da
    nobile; quella caratteristica comune dell'uniforme conferiva un non so
    che  di  strano e di fantastico a quei visi vecchi e giovani,  diversi
    tra di loro,  nessuno dei quali era ignoto a  Pierre.  Particolarmente
    colpivano i vecchi,  quasi ciechi, sdentati, calvi, gonfi di un grasso
    giallognolo oppure rugosi e magrissimi.  Per lo più stavano seduti  al
    loro  posto  e  tacevano  ma,  se passeggiavano e chiacchieravano,  si
    sceglievano accompagnatori giovani. Su tutti quei visi, come su quelli
    della folla che Pétja aveva veduto nella piazza, si notava qualcosa di
    contraddittorio tra la comune attesa di un avvenimento  solenne  e  il
    riflesso dei fatti più comuni della vita di ogni giorno: la partita di
    "boston",  il  cuoco  Petruska,  la  salute di Zinajda Dmìtrevna e via
    dicendo.  Pierre,  impettito nella sua  divisa  di  nobile,  diventata
    troppo stretta,  si trovava sin dal mattino presto in quella sala. Era
    agitato; quella riunione straordinaria non solo della nobiltà ma anche
    dei mercanti,  riunione degli "états généraux" [80.  Stati  generali],
    suscitava  in  lui  una quantità di pensieri da tempo dimenticati,  ma
    profondamente radicati nel suo spirito,  attorno al "Contrat social" e
    alla  rivoluzione  francese.  Le parole del manifesto che l'imperatore
    sarebbe venuto nella  capitale  per  "consultare"  il  suo  popolo  lo
    confermavano   nella  sua  opinione.   E,   supponendo  che  si  stava
    avvicinando in tal  senso  un  avvenimento  che  egli  da  gran  tempo
    attendeva, camminava, osservava, prestava orecchio alle conversazioni,
    ma  non  riusciva  a  trovare  in nessuno l'espressione delle idee che
    occupavano la sua mente.
    Fu  data  lettura   del   manifesto   dell'imperatore,   che   sollevò
    l'entusiasmo generale;  poi tutti si dispersero, chiacchierando. Al di
    fuori dei  comuni  interessi,  Pierre  udiva  parlare  del  posto  che
    avrebbero  dovuto  occupare  i  marescialli della nobiltà all'ingresso
    dell'imperatore, dell'opportunità di organizzare un ballo in onore del
    sovrano,  se fosse meglio dividersi per  distretto  o  riunirsi  tutti
    insieme...  eccetera  eccetera;  ma  non appena si toccava l'argomento
    della guerra e dello scopo per cui la nobiltà  era  stata  adunata,  i
    discorsi  si  facevano incerti e vaghi,  e tutti preferivano ascoltare
    piuttosto che parlare.
    Un uomo di mezza età,  bello,  dall'aspetto  virile,  in  uniforme  di
    ufficiale di marina a riposo, parlava in una delle sale, circondato da
    una  folla  di  persone.  Pierre  si  avvicinò  al gruppetto formatosi
    attorno all'oratore e rimase ad ascoltare.  Il conte Iljà  Andréevic',
    che  indossava  il  suo  caffettano  dei  tempi  di  Caterina e che si
    aggirava,  sorridendo amabilmente,  tra la  folla  dove  si  trovavano
    parecchi suoi conoscenti,  si avvicinò anch'egli e,  sempre sorridendo
    con il suo buon sorriso,  rimase ad ascoltare come  ascoltava  sempre,
    cioè facendo con il capo cenni di approvazione.  L'ufficiale di marina
    a  riposo  parlava   con   molto   ardimento;   lo   si   vedeva   sia
    dall'espressione  del  viso  degli  ascoltatori  sia  dal fatto che le
    persone,  note a Pierre come le più  calme  e  le  più  remissive,  si
    scostavano   da   lui   con   cenni   di   disapprovazione  oppure  lo
    contraddicevano.
    Pierre si cacciò in  mezzo  al  gruppo,  ascoltò  e  si  convinse  che
    l'oratore  era  realmente  un liberale,  ma in un senso ben diverso da
    quello che egli aveva  pensato.  L'ufficiale  di  marina  parlava  con
    quello  speciale  tono  baritonale,  cantilenante e sonoro dei nobili,
    mangiando le consonanti.  Parlava con il tono di chi è abituato a  far
    baldoria e a comandare.
    -  Che  cosa significa che quelli di Smolènsk hanno offerto le milizie
    all'imperatore?  Forse che quelli di Smolènsk ci devono dettar  legge?
    Niente  affatto!  Se la generosa nobiltà del governatorato di Mosca lo
    ritiene necessario,  può esprimere all'imperatore la propria devozione
    con  altri  mezzi.  Abbiamo forse dimenticato le milizie del 1807 dove
    hanno trovato vantaggio solo i figli di preti e i ladri furfanti?...
    Il conte Iljà Andréevic', con il suo dolce sorriso,  approvava facendo
    cenni con il capo.
    -  E  forse  che  le  nostre milizie arrecarono qualche vantaggio allo
    stato?  Niente affatto!  Come unico risultato hanno rovinato i  nostri
    patrimoni...  Meglio la coscrizione...  se no, ci ritornano poi uomini
    che non sono né soldati né contadini,  e non  c'è  che  corruzione.  I
    nobili non risparmiano la loro vita... Siamo tutti pronti ad amare e a
    portare   anche   le  reclute,   basterà  un  cenno  del  "soano"    -
    (pronunziava così la parola "sovrano")  -  e tutti moriremo per lui  -
    aggiunse l'oratore, accalorandosi.
    Iljà Andréevic' aveva l'acquolina in bocca dal piacere e dava gomitate
    a Pierre,  ma anche Pierre voleva parlare.  Si fece avanti  sentendosi
    più  che  mai eccitato,  senza saperne il perché e senza sapere ancora
    che cosa avrebbe  detto.  Aveva  appena  aperto  la  bocca  quando  un
    senatore completamente sdentato, dal viso intelligente e rabbioso, che
    stava accanto all'oratore,  lo interruppe. Con l'evidente abitudine di
    dirigere le discussioni e di proporre argomenti,  egli prese a parlare
    piano, ma in modo chiaramente udibile:
    -  Io  suppongo,  egregio  signore,    -    disse il senatore sdentato
    biascicando le parole  -    che  siamo  stati  chiamati  qui  non  per
    giudicare  che  cosa  sia  più  vantaggioso  per  lo  stato al momento
    attuale,  se la coscrizione o la milizia;  siamo stati  convocati  per
    rispondere  al proclama con il quale il sovrano ci ha onorati.  Quanto
    al giudizio se sia più vantaggiosa la  coscrizione  o  la  milizia  lo
    lasceremo alle superiori autorità...
    Pierre  a  un  tratto trovò uno sfogo alla sua eccitazione: si indignò
    contro il senatore che portava quei rigidi e meschini punti  di  vista
    nelle imminenti decisioni dell'assemblea.  Fece qualche passo avanti e
    lo interruppe. Non sapeva che cosa avrebbe detto,  ma cominciò con una
    certa veemenza, interrompendosi di tanto in tanto con parole francesi,
    esprimendosi in un russo troppo letterario.
    - Scusatemi, eccellenza,  -  cominciò Pierre, che conosceva molto bene
    quel  senatore  ma al quale riteneva indispensabile rivolgersi in quel
    momento in forma ufficiale  -  sebbene io non  sia  d'accordo  con  il
    signore...    -   Qui Pierre s'impuntò.  Avrebbe voluto dire "mon très
    honorable préopinant"  -  con il signore... "que je n'ai pas l'honneur
    de connaître" [81. il molto onorevole signore che ha parlato prima  di
    me (...) che non ho  l'onore  di  conoscere],  suppongo  tuttavia  che
    l'ordine  dei  nobili  oltre che per manifestare all'imperatore la sua
    simpatia sia stato qui convocato per escogitare i mezzi più  opportuni
    per dare aiuto alla patria. Credo  -  soggiunse, eccitandosi sempre di
    più    -   che l'imperatore non sarebbe affatto contento se vedesse in
    noi soltanto dei padroni di contadini pronti a offrirgli...  "la chair
    à canon" [82. la carne da cannone] senza trovare gente pronta e capace
    di dargli con... con... sigli.
    Molti  si allontanarono dal gruppo,  notando il sorriso sprezzante del
    senatore e giudicando troppo libere le espressioni di Pierre. Soltanto
    Iljà Andréevic' appariva soddisfatto di quanto diceva Pierre,  come lo
    era prima di ciò che avevano detto l'ufficiale di marina e il senatore
    e come lo era, in generale, dell'ultima persona che udiva parlare.
    -  Io  penso  che  prima  di discutere su certe questioni  -  proseguì
    Pierre  -  dobbiamo chiedere all'imperatore,  chiedere ripetutamente a
    sua  maestà,   di  farci  sapere  quali  siano  esattamente  le  forze
    dell'esercito,  in quali condizioni si trovino  le  nostre  truppe,  e
    allora...
    Ma  non poté finire la frase perché fu improvvisamente assalito da tre
    parti.  Il suo più violento avversario fu  un  vecchio  conoscente  di
    solito  sempre ben disposto verso di lui,  gran giocatore di "boston",
    Stepàn Stepànovic' Adraksin.  Stepàn Stepànovic' era  in  uniforme  e,
    forse per questo o forse per chi sa quale altra ragione, Pierre vedeva
    ora  davanti  a sé un uomo completamente diverso.  Stepàn Stepànovic',
    con il viso stravolto da un'improvvisa collera senile, gridò a Pierre:
    - Anzitutto  vi  dirò  che  non  abbiamo  alcun  diritto  di  chiedere
    all'imperatore cose simili!  E poi aggiungerò che, se la nobiltà russa
    avesse tale diritto, l'imperatore non potrebbe risponderle.  Le nostre
    truppe  agiscono  conformemente alle mosse del nemico,  diminuiscono o
    aumentano di numero...
    Un'altra voce,  quella di un uomo di media statura,  sulla quarantina,
    che  Pierre aveva visto spesso presso gli zingari,  che conosceva come
    giocatore  poco  corretto  alle  carte  e  che  appariva   anche   lui
    trasformato  per  effetto  della  divisa,   si  avvicinò  a  Pierre  e
    interruppe il suo contraddittore.
    - Questo non è il momento di discutere,   -  risonò la  voce  di  quel
    nobile  -  ma di agire! La guerra è in Russia. Il nostro nemico avanza
    per  distruggere  la Russia,  per profanare le tombe dei nostri padri,
    per rapire le nostre donne e  i  nostri  figli!  E  così  dicendo,  si
    picchiava  il  petto.    -  Ma noi ci leveremo tutti,  andremo tutti a
    combattere per lo zar nostro padre!   -  gridò strabuzzando gli  occhi
    iniettati  di  sangue.  Varie  voci  di approvazione si levarono dalla
    folla.  -  Noi siamo russi e non risparmieremo il nostro sangue per la
    difesa della religione, del trono e della patria! E i sogni,  se siamo
    veramente  figli  della  patria,  bisogna  abbandonarli.  Dobbiamo far
    vedere all'Europa come la Russia sa armarsi in difesa della Russia!  -
    gridava quel gentiluomo.
    Pierre voleva ribattere,  ma non riusciva a dir nulla.  Sentiva che il
    suono   delle   sue   parole,   indipendentemente   dal  pensiero  che
    esprimevano, non si udiva come quello dell'infiammato gentiluomo.
    Iljà Andréevic'  approvava  dietro  il  gruppo,  alcuni  si  voltavano
    fieramente   verso  l'oratore  prima  che  finisse  le  sue  frasi  ed
    esclamavano:
    - Ecco, così, così! Bene!
    Pierre voleva dire che non era affatto  contrario  al  sacrificio  del
    denaro,  dei contadini, di se stesso, ma che sarebbe stato necessario,
    per dare un valido aiuto,  conoscere l'andamento delle  cose.  Ma  non
    riusciva  a  parlare.  Parecchie  voci  urlavano  e gridavano insieme,
    cosicché Iljà Andréevic' non aveva modo di approvare tutti  quanti;  e
    il gruppo aumentava,  si diradava, si riuniva di nuovo, si moveva e si
    dirigeva,  con un gran ronzio di voci,  nel salone attiguo,  verso  la
    grande tavola.  Pierre non solo non riusciva a parlare,  ma si sentiva
    contraddire  sgarbatamente,   interrompere  di  continuo;   alcuni  lo
    urtavano,  altri si scostavano da lui come da un nemico comune. Questo
    avveniva non già perché gli ascoltatori fossero di parere contrario al
    suo discorso,  già dimenticato  a  causa  del  gran  numero  di  altri
    discorsi che avevano seguito il suo,  ma perché la folla, come sempre,
    aveva bisogno, per esaltarsi, di un oggetto tangibile di amore o di un
    tangibile oggetto di odio.  Pierre era diventato  quest'ultimo.  Molti
    oratori  parlarono  dopo  il  focoso gentiluomo,  e tutti sullo stesso
    tono. Alcuni si espressero benissimo e in modo originale. L'editore de
    "Il messaggero russo",  Glinka (33),  che era stato  riconosciuto  (lo
    scrittore,  lo scrittore!  si udiva ripetere tra la folla),  disse che
    l'inferno andava respinto con  l'inferno,  che  lui  aveva  veduto  un
    bambino  sorridere al bagliore del fulmine e al rombare del tuono,  ma
    che noi non ci saremmo comportati come quel bambino.
    - Già,  già,  al rombo del tuono!   -  ripetevano,  approvando,  nelle
    ultime file.
    La  folla  si accalcò alla grande tavola presso la quale erano seduti,
    con le loro uniformi,  i vecchi  e  calvi  dignitari  settantenni  che
    Pierre aveva veduto,  quasi tutti, nelle loro case con i buffoni, o al
    circolo intenti al gioco del "boston". La folla,  sempre ronzando,  si
    avvicinò  alla  tavola.  Uno  dopo  l'altro,  e talora due alla volta,
    premuti  alle  spalle  contro  gli  alti  schienali  delle   seggiole,
    parlavano  gli oratori.  Quelli che stavano nelle ultime file notavano
    le cose che l'oratore aveva  omesso  di  dire  e  si  affrettavano  ad
    aggiungerle. Altri, in quella calca e con quel caldo, si spremevano le
    meningi   per   trovare   un'idea   qualsiasi   e  si  affrettavano  a
    manifestarla. I vecchi dignitari ben noti a Pierre,  seduti sulle loro
    sedie, guardavano ora questo ora quello, e l'espressione dei loro visi
    diceva soltanto che avevano molto caldo!  Pierre, tuttavia, si sentiva
    turbato e il generale desiderio di dimostrare che non avevano paura di
    nulla,  espresso dal rumore delle voci e dell'espressione dei visi più
    che dal suono delle parole pronunziate, si era comunicato anche a lui.
    Egli non rinnegava le sue idee,  ma si sentiva in certo modo colpevole
    e voleva giustificarsi.
    - Io ho detto soltanto che ci sarebbe più facile  fare  dei  sacrifici
    quando  sapessimo  di  che  cosa c'è bisogno!   -  gridò,  cercando di
    soverchiare le altre voci.
    Un vecchietto che gli era vicino lo guardò,  ma fu subito distratto da
    un grido che si levò dall'altra estremità della tavola.
    - Sì, Mosca sarà abbandonata al nemico! Sarà la vittima espiatrice!  -
    gridava qualcuno.
    - Egli è il nemico del genere umano!  -  urlava un altro...
    - Signori, lasciatemi parlare... Voi mi soffocate!


    CAPITOLO 23.

    In  quel  momento,  tra la folla dei nobili che faceva largo,  entrò a
    passi rapidi,  in divisa da generale,  con la fascia  a  tracolla,  il
    mento sporgente e gli occhi mobilissimi, il conte Rastopcìn.
    - L'imperatore sarà qui a momenti  -  annunziò Rastopcìn  -  Vengo ora
    di là.  Penso che nella situazione in cui ci troviamo non ci sia molto
    da discutere. L'imperatore si è degnato di riunire noi e i mercanti  -
    aggiunse, indicando la sala attigua.   -  Di là scorreranno i milioni,
    mentre  è affar nostro fornire la milizia e non risparmiarci...  E' il
    meno che possiamo fare!
    Ebbero inizio le consultazioni tra i  grandi  dignitari  che  sedevano
    attorno al tavolo. Tutto si svolse in modo più che tranquillo; gravava
    persino un senso di tristezza quando,  dopo tutto il tumulto di prima,
    si udivano quelle vecchie voci dire,  l'una: "io  sono  d'accordo!"  e
    l'altra,  tanto  per  variare:  "sono  anch'io  della stessa opinione"
    eccetera eccetera.
    Si incaricò  il  segretario  di  trascrivere  le  deliberazioni  della
    nobiltà di Mosca,  secondo la quale i Moscoviti,  come gli abitanti di
    Smolènsk,  offrivano dieci uomini  su  mille,  equipaggiati  di  tutto
    punto.  Poi  i  signori  che  avevano tenuto consiglio si alzarono con
    l'aria di chi prova un gran sollievo; tra un rumore di sedie smosse si
    misero a passeggiare avanti e indietro per la sala per sgranchirsi  le
    gambe, prendendosi sottobraccio e chiacchierando.
    - L'imperatore!  L'imperatore!   -  Questa parola percorse rapidamente
    tutte le saie, e la folla si precipitò verso l'ingresso.
    Per un largo passaggio,  tra una doppia siepe di nobili,  l'imperatore
    attraversò il salone.  Tutti i visi esprimevano una curiosità piena di
    rispetto e di timore.  Pierre era piuttosto lontano e non  poté  udire
    bene  il  discorso  del  sovrano.  Capì  soltanto,  da  ciò  che  poté
    afferrare,  che l'imperatore parlava del pericolo in cui lo  stato  si
    trovava e delle speranze che egli riponeva nella nobiltà di Mosca. Una
    voce rispose al sovrano,  esponendogli la decisione presa pochi minuti
    prima dalla nobiltà.
    - Signori!   -  risonò la voce tremante dello zar;  la folla  ebbe  un
    fremito,  di nuovo subentrò il silenzio, e Pierre udì distintamente la
    voce dolcemente umana e commossa del giovane imperatore che diceva:  -
    Io non ho mai dubitato dello zelo della nobiltà russa,  ma  in  questo
    giorno  esso  ha superato ogni mia attesa.  Vi ringrazio in nome della
    patria. Ora, signori, dobbiamo agire: il tempo è prezioso...
    L'imperatore tacque,  e la folla cominciò a  raggrupparglisi  attorno,
    mentre acclamazioni entusiastiche si levavano da tutte le parti.
    - Sì,  preziosa più di qualsiasi altra cosa... è la parola del sovrano
    -  diceva la singhiozzante voce di Iljà Andréevic',  il quale,  dietro
    agli altri, non aveva sentito nulla, ma aveva capito tutto a modo suo.
    Dalle sale della nobiltà lo zar passò in quella dei mercanti,  dove si
    trattenne per una diecina di minuti. Pierre,  come parecchi altri,  lo
    vide  uscire di là con gli occhi pieni di lacrime di commozione.  Come
    si seppe in seguito,  l'imperatore aveva appena  incominciato  il  suo
    discorso  ai mercanti quando le lacrime gli erano sgorgate dagli occhi
    e aveva finito il suo discorso con la voce  che  gli  tremava.  Quando
    Pierre lo rivide,  stava uscendo accompagnato da due mercanti.  Pierre
    conosceva uno di essi, un grosso appaltatore di lavori; l'altro era un
    uomo dalla testa piccola, il viso giallo e la sottile barba appuntita.
    Tutt'e due piangevano.  Il mercante magro aveva le lacrime agli occhi,
    ma il grasso appaltatore singhiozzava come un bambino, ripetendo senza
    posa:
    - Prendi, maestà, la nostra vita e i nostri beni!
    Pierre,  in  quel  momento,  non sentiva più altro che il desiderio di
    dimostrare che per lui  non  c'erano  ostacoli  e  che  era  pronto  a
    qualsiasi  sacrificio.  Il  suo discorso dalle idee costituzionali gli
    tornava ora alla mente come un rimprovero e cercava  un'occasione  per
    farlo  dimenticare.  Avendo  saputo  che  il  conte Mamonov offriva un
    reggimento,  Bezuchov dichiarò immediatamente al conte  Rastopcìn  che
    avrebbe dato mille uomini e il necessario per mantenerli.
    Il  vecchio  Rostòv,  che  non  poté  raccontare  alla  moglie,  senza
    piangere,  ciò che era avvenuto,  acconsentì senz'altro alle preghiere
    di Pétja e andò egli stesso a iscrivere il ragazzo.
    Il giorno successivo,  l'imperatore partì. Tutti i nobili convocati si
    tolsero le uniformi,  tornarono a disperdersi nelle loro  case  e  nei
    circoli,  e diedero ai loro amministratori ordini per il reclutamento.
    Ognuno di essi si meravigliava di ciò che aveva fatto.











    NOTE.

    N.  1.  Klemens Wenzel Lothar,  conte e poi principe  von  Metternich-
    Winneburg,  fu  uomo di stato austriaco di origine renana (1773-1859).
    Fu  ambasciatore  a  Berlino  (1803)  e  poi  a  Parigi  (1806),  dove
    sottoscrisse  la convenzione di Fontainebleau;  poi,  dal 1809 al 1848
    cancelliere   dell'impero   austriaco,   esercitando   una   influenza
    incontrastata  su tutte le vicende di Europa.  La rivoluzione del 1848
    lo costrinse a fuggire da Vienna.  Riparò prima in Gran Bretagna e poi
    nel  Belgio;  soltanto nel 1855 poté tornare in Austria.  Gli atti più
    importanti della sua politica furono: la stipulazione  del  matrimonio
    tra  Maria  Luisa  di  Austria  e  Napoleone  (1810)  che  consentì la
    ricostruzione   dell'Austria,    rimasta   neutrale   nella   campagna
    napoleonica di Russia; la dichiarazione di guerra alla Francia (1813);
    la  convocazione  del Congresso di Vienna,  nel quale pose le basi del
    dominio austriaco in Italia e in Germania e in cui fece  trionfare  il
    principio  dell'intervento;  l'alleanza  con  la  Russia  (1830)  e la
    soffocazione dei moti di indipendenza  italiani.  Fu  lui  che  definì
    l'Italia "un'espressione geografica".
    N.  2.  Charles  Maurice  Talleyrand,  principe  di Benevento,  famoso
    statista francese (1754-1830).  Vescovo di Autun sotto  la  monarchia,
    poi  presidente  dell'Assemblea  nazionale ( 1790),  fu ministro degli
    esteri durante il Direttorio, il Consolato e l'Impero; sopravvenuta la
    Restaurazione,  fu ancora ministro di Luigi Diciottesimo  e  di  Carlo
    Decimo e nel 1830 favorì la rivoluzione di luglio.  Sin dal 1804 aveva
    ottenuto dal papa un Breve di secolarizzazione. Nel 1814, ambasciatore
    di Luigi Filippo a Londra,  concluse la Quadruplice Alleanza (Francia,
    Gran Bretagna,  Spagna e Portogallo). In fin di vita fece l'abiura dei
    suoi errori.
    N.  5.  Citazione ispirata alla frase della Sacra Scrittura: "Il cuore
    del re è un canale d'acqua in mano al Signore: lo dirige dovunque egli
    vuole" (Proverbi 21,1).
    N.  7.  Maria Teresa di Napoli,  sposa di Francesco Primo,  imperatore
    d'Austria.
    N.  8.  Maria Luisa d'Asburgo-Lorena (1791-1847),  figlia di Francesco
    Primo; divenne sposa di Napoleone il 2 aprile 1810; dopo l'abdicazione
    di  Napoleone  (1814),  che  durante  la  campagna  di Russia le aveva
    concesso una limitatissima  reggenza,  si  ritirò  a  Schönbrunn;  qui
    divenne   prima  amante  e  poi  moglie  morganatica  del  maresciallo
    austriaco conte  von  Neippberg  da  cui  ebbe  due  figli;  morto  il
    Neippberg,  Maria Luisa si risposò nel 1834 con il conte di Bombelles,
    ciambellano della corte di Vienna.  Il trattato di  Fontainebleau  del
    1814 le aveva mantenuto il titolo di "Maestà imperiale" e la sovranità
    vitalizia  dei  ducati  di Parma,  Piacenza e Guastalla,  che trassero
    grandi vantaggi dal suo governo liberale e riformista.
    N. 10.  Alessandro Magno (356-323 avanti Cristo) è uno dei più celebri
    personaggi storici, nonostante la sua breve vita.
    N.  13.  Louis Alexandre Berthier, maresciallo di Francia, principe di
    Wagram (1753-1815).  Nel 1798 occupò Roma  e  vi  stabilì  il  governo
    repubblicano;  fu quindi in Egitto con Napoleone. Colmato da questi di
    onori,   fu  dei  primi  ad  abbandonarlo  dopo  il  fallimento  della
    spedizione russa.  Nel 1814, avendo accolto favorevolmente il nuovo re
    Luigi Diciottesimo, durante i Cento giorni riparò in Baviera,  dove si
    tolse la vita.
    N.  14.  La frase,  ispirata ad una sentenza di Euripide,  veramente è
    questa: "Quos Deus vult perdere, prius dementat", ossia: "A coloro che
    vuole perdere, Dio toglie prima il senno".
    N. 15. Aleksàndr Dmìtrevic' Balascëv (1770-1835),  generale russo,  fu
    capo  della  polizia di Pietroburgo e ministro della polizia dal 1810.
    E' noto soprattutto perché fu latore della lettera cui qui si  accenna
    e perché fu uno degli accusatori di Speranskij.
    N. 16. Aleksàndr Semënovic' Sciskòv (1754-1811), ammiraglio e fervente
    patriota; ministro dell'istruzione pubblica dal 1824 al 1828.
    N.    17.    Nikolàj   Ivànovic'   Saltikòv   (1736-1816),    generale
    feldmaresciallo, partecipò a tutte le campagne russe del suo tempo. Fu
    precettore di Alessandro Primo,  che nel 1812 lo nominò presidente del
    Consiglio dei ministri.
    N.  19.  Jacques  Alexandre  Bernard  Law,  conte  e  poi  marchese di
    Lauriston (1768-1828), maresciallo di Francia. Fu aiutante di campo di
    Napoleone in Italia,  nel 1800.  In missione diplomatica a  Copenaghen
    nel 1801, fu poi latore a Londra dei preliminari della pace, che venne
    firmata  ad  Amiens  nel  1802.  Generale nel 1805,  si imbarcò per la
    Martinica, poi,  dopo la battaglia di Finisterre (1805),  raggiunse la
    Grande Armata come aiutante di campo dell'imperatore.  Fece la seconda
    campagna d'Italia,  quella di Austerlitz,  e  fu  poi  governatore  di
    Venezia. Combatté in Spagna e in Austria (Wagram 1809). Ambasciatore a
    Pietroburgo,  fece la campagna di Russia, tentando invano nell'ottobre
    1812 di negoziare con lo zar Alessandro, e quella di Germania, cadendo
    prigioniero a Lipsia (1813).  Ebbe onori e incarichi anche dai Borboni
    cui si sottomise e dai quali fu creato maresciallo di Francia.
    N.  20.  Aleksàndr Borìssovic' Kurakin, (1752-1818) diplomatico russo.
    Ministro degli esteri sotto gli zar Paolo Primo e poi sotto Alessandro
    Primo,  concluse con Napoleone il trattato di Tilsit e fu ambasciatore
    straordinario  a Vienna e a Parigi.  Divenne poi senatore e membro del
    Consiglio dell'impero.
    N.  21.  Bernard Hugues Maret,  duca  di  Bassano,  (1763-1839),  uomo
    politico  e  pubblicista  francese,  fu colui che pubblicò i resoconti
    della  seduta  della  Convenzione  dando  così  origine  al  "Giornale
    Ufficiale".  Nel  1792  fu mandato in missione a Londra per tentare di
    ottenere  la  neutralità  dell'Inghilterra.  Nominato  ambasciatore  a
    Napoli, durante il viaggio fu catturato, in Piemonte, dagli Austriaci,
    che lo rilasciarono nel 1795, insieme con altri prigionieri, in cambio
    della  duchessa  di Angoulême.  Aiutò Napoleone nella preparazione del
    colpo di stato del 18 brumaio e ne fu ricompensato con  alte  cariche.
    Accompagnò Napoleone in quasi tutte le campagne e venne creato conte e
    poi  duca  di  Bassano.   Nell'aprile  1811  sostituì  Champagny  alle
    relazioni con l'estero,  ma nel 1813 dovette cedere il portafoglio  ad
    Armand de Calaincourt,  più adatto a trattare con gli Alleati.  Rimase
    tuttavia uno degli uomini di fiducia dell'imperatore. Nel 1815 preparò
    il ritorno di Napoleone dall'isola d'Elba e  durante  i  Cento  giorni
    ridivenne segretario di stato.  Esiliato, fu creato pari di Francia da
    Luigi Filippo.
    N. 31. Louis Nicolas Davoust (1770-1823), duca di Auerstadt e principe
    di Eckmühl,  maresciallo di Francia.  Sottotenente di cavalleria,  nel
    1789  abbracciò  la  causa  della  rivoluzione,  divenendo  capo di un
    battaglione di volontari.  Valoroso combattente nell'armata del  nord,
    del Belgio, del Reno, d'Egitto, generale di divisione nel 1800 comandò
    la cavalleria dell'Armata d'Italia (1800-1801).  Maresciallo nel 1804,
    il 14 ottobre mise in  fuga,  con  il  suo  solo  corpo  d'armata,  ad
    Auerstadt,   il  grosso  dei  Prussiani.   Nel  1807  governatore  del
    granducato di Varsavia,  si distinse nelle  campagne  del  1809  e  di
    Russia.  Comandante  di  Amburgo  (1813)  la  difese  contro  i  Russi
    evacuandola solo dopo la pace (1814).  Ministro della guerra durante i
    Cento  giorni,  malvisto dai Borboni,  fu tuttavia nominato pari.  Per
    l'abilità di stratega e le doti di comandante, fu probabilmente il più
    capace dei luogotenenti di Napoleone.
    N. 33. Rustàn (1780-1845), il famoso mamelucco di Napoleone, donatogli
    da uno sceicco del Cairo,  fu il domestico personale  dell'imperatore.
    Non  volle  però  seguirlo all'isola d'Elba e perciò,  durante i Cento
    giorni, venne relegato nel forte di Vincennes. Visse poi oscuramente a
    Londra, dove morì.
    N.  34.  Gérard Christophe  Duroc  (1772-1813),  gran  maresciallo  di
    palazzo  e  capo  della polizia segreta di Napoleone.  Fu ucciso nella
    battaglia di Bautzen.
    N. 37. Il 16 maggio 1812.
    N.  40.  Heinrich  von  Stein  (1757-1831),  statista  tedesco,  primo
    ministro  del re di Prussia Federico Guglielmo Terzo.  Dopo la pace di
    Tilsit (1807) cercò di restituire alla  Prussia  la  perduta  potenza;
    perseguitato  da  Napoleone si rifugiò in Russia,  attizzandovi l'odio
    contro la Francia.  Nel 1814 insistette perché  fossero  imposte  alla
    Francia dure condizioni di pace.
    N. 41. Gustave Maurice Armfeld (1757-1814), generale svedese, inviso a
    Carlo  Tredicesimo,  fu mandato ambasciatore a Napoli.  Qui si accordò
    con i Russi,  e in Russia si rifugiò dopo essere  stato  condannato  a
    morte in contumacia.  Nel 1811 l'imperatore Alessandro Primo lo nominò
    senatore e conte. Fu uno dei principali accusatori di Speranskij.
    N. 42. Michaìl Barclay de Tolly (1761-1818), generale russo di origine
    scozzese.  Prese parte alla campagna  di  Turchia  (1788),  di  Svezia
    (1790),  di  Polonia  (1794)  di Prussia (1807) e di Finlandia (1808).
    Dopo aver partecipato alla campagna nel 1812 ebbe dissensi con Kutuzòv
    e abbandonò il comando,  ma riprese servizio nel 1813  e  continuò  la
    guerra con importanti incarichi in Sassonia e in Francia.
    N.  43.  Ludwig von Pfuhl (1757-1826), di origine prussiana, passò nel
    1806 al  servizio  della  Russia.  Fu  incaricato  dall'imperatore  di
    redigere il piano delle operazioni per la campagna del 1812, ma il suo
    campo  fortificato  di  Drissa  fu  un insuccesso.  Pfuhl abbandonò il
    servizio e si ritirò a vivere in Inghilterra.
    N. 46.  Jean-Baptiste Bernadotte (1763-1844),  principe di Pontecorvo,
    maresciallo  di  Francia,  dal  1818  re di Svezia.  Dopo essere stato
    tenuto in disparte da Napoleone perché avverso al colpo di  stato  del
    18 brumaio,  ebbe poi nel 1805 il comando di un corpo d'armata. Ma nel
    1809 gli fu tolto.  Accettò allora la proposta  di  Carlo  Tredicesimo
    (1748-1818) a erede del trono di Svezia.  Partì per Stoccolma, dove si
    occupò unicamente degli interessi  della  sua  nuova  patria,  sino  a
    combattere   contro   il   suo  antico  signore.   Fu  il  capostipite
    dell'attuale casa regnante di Svezia.
    N. 49. Jean-Baptiste Bessières (1766-1813), duca d'Istria, maresciallo
    di Francia. Fu tra i migliori luogotenenti di Napoleone e fu ucciso da
    un colpo di cannone alla vigilia della battaglia di Lützen.
    N.  51.  Città dell'Ucraina dove l'8  luglio  1709  Pietro  il  Grande
    sconfisse Carlo Dodicesimo (1682-1718) di Svezia.
    N.  55.  Aleksàndr Petrovic' Tormassov (1752-1819), generale russo che
    durante la campagna del 1812,  mosse con parte delle truppe in aiuto a
    Bagratiòn,  riportò brillanti vittorie. Nel dicembre dello stesso anno
    sostituì Kutuzòv infermo. Nel 1814 fu nominato governatore di Mosca.
    N.  56.  Filippo Paolucci (1779-1849) passò dal servizio piemontese  a
    quello  francese  e  poi a quello russo.  Durante la campagna del 1812
    curò le trattative tra Russia e Prussia contro Napoleone, come capo di
    stato  maggiore  dell'armata  occidentale.   Dal  1821   fu   generale
    governatore della Lettonia e della Curlandia.
    N.  57.  Ludwig  Wohlzogen  (1774-1845),  barone e generale prussiano.
    Teorico militare, passò al servizio della Russia nel 1807.
    N. 58. Alekséj Petrovic' Ermolov (1772-1861), generale di artiglieria,
    prese parte a numerose campagne.  Nel 1812 fu nominato capo  di  stato
    maggiore  della  prima  armata  e  a  Borodinò  strappò dalle mani dei
    Francesi la batteria di Raevskij.
    N.  59.  Alexandre Michaud  de  Beauretour  (1771-1841),  generale  di
    fanteria.  Dopo  aver  servito  nell'armata  sarda,  nel 1805 passò al
    servizio della Russia e prese parte alla guerra russo-turca del  1809.
    Nel  1812  fu  tra  i  primi  a  denunziare  le  deficienze  del campo
    trincerato di Drissa.  Dal  1813  al  1814  fu  addetto  alla  persona
    dell'imperatore.
    N. 60. Aleksàndr Ivànovic' Cernyscëv (1786-1857), principe, generale e
    uomo  di stato russo.  Tra il 1808 e il 1811 fu incaricato di missioni
    diplomatiche;   nel  1825  diresse  la  commissione  d'inchiesta   sui
    decabristi;  ministro della guerra dal 1827 al 1852, nel 1848 fu anche
    presidente del consiglio di stato.
    N.   71.   Nikolài  Nikolàevic'  Raevskij  (1771-1829),   generale  di
    cavalleria.  Il  suo  nome  è  diventato celebre nella storia militare
    russa per la difesa della ridotta centrale  durante  la  battaglia  di
    Borodinò, per i fatti d'arme di Malo-Jaroslavetz e di Kràsnoe.
    N. 73. Per scaramanzia.
    N.  75.  Gioco  di  parole  intraducibile  tra "champignon" (fungo) ed
    "espion" (spia).
    N. 77. Uno dei celebri monumenti del Cremlino.
    N. 78. Bevanda di segala fermentata.
    N.  79.  Soprabito a pieghe,  senza maniche,  stretto alla vita da una
    cintura.
    N.   83.  Sergej  Nikolàevic'  Glinka  (1776-1847)  pubblicò  "Russkij
    Vestnik" (Il messaggero russo) dal 1808 al 1824.  Scrisse le  "Memorie
    sull'anno  1812".  Suo  fratello Fëdor Nikolàevic' Glinka (1786-1880),
    poeta e pubblicista,  partecipò alla  battaglia  di  Borodinò  su  cui
    scrisse  diversi  articoli;  scrisse  inoltre "Lettere di un ufficiale
    russo"; avendo partecipato alla rivolta dei decabristi, venne esiliato
    in Carelia.