Lev N. Tolstòj.
    GUERRA e PACE.


    LIBRO QUARTO

    PARTE PRIMA.


    CAPITOLO 1.

    A Pietroburgo frattanto proseguiva nelle alte sfere,  con  più  ardore
    che  mai la complessa lotta tra il partito di Rumjanzòv e i partiti di
    Màrija Fëdorovna (1),  del granduca ereditario (2) e  di  molti  altri
    ancora,  lotta  soffocata,  come  sempre,  dal ronzio dei calabroni di
    Corte. Ma la tranquilla, sontuosa vita di Pietroburgo,  tutta occupata
    soltanto  dall'apparenza  e dai riflessi della realtà,  seguiva il suo
    solito corso;  e,  di fronte a quel tenore  di  vita,  occorreva  fare
    notevoli  sforzi per avvertire i pericoli e la difficile condizione in
    cui si trovava il popolo  russo.  Continuavano,  senza  mutamenti,  le
    stesse  cerimonie,  gli  stessi  balli,  lo stesso Teatro francese,  i
    medesimi interessi di Corte,  i medesimi interessi  di  carriera  e  i
    soliti  intrighi.  Solo  nei  circoli  più  elevati si compiva qualche
    sforzo  per  far  comprendere  la  difficoltà  della  situazione.   Si
    raccontava  sottovoce  come  in  quelle  critiche  circostanze  le due
    imperatrici avessero  agito  in  modo  opposto.  L'imperatrice  Màrija
    Fëdorovna, preoccupata del benessere degli istituti di educazione e di
    beneficenza  da lei presieduti,  aveva ordinato di trasferirli tutti a
    Kazàn,  e gli arredi e  i  beni  di  tali  istituti  erano  già  stati
    sistemati  e  messi  in salvo.  L'imperatrice Elizaveta Alekséevna (3)
    invece,  quando le era stato domandato quali ordini volesse dare,  con
    il  patriottismo  russo  che  le  era proprio,  aveva risposto che non
    poteva impartire alcuna disposizione circa le  istituzioni  di  stato,
    poiché   ciò   spettava   all'imperatore;    per   quanto   riguardava
    personalmente lei,  aveva dichiarato  che  sarebbe  stata  l'ultima  a
    lasciare Pietroburgo.
    Il 26 agosto, il giorno stesso della battaglia di Borodinò, in casa di
    Anna Pàvlovna aveva luogo un ricevimento, la cui principale attrattiva
    doveva  essere  la  lettura  di una lettera scritta all'imperatore dal
    metropolita,  che accompagnava l'invio a sua maestà di un'immagine del
    santo martire Sergio (4). Quello scritto era considerato un esempio di
    eloquenza  patriottica  ed ecclesiastica.  L'avrebbe letta il principe
    Vassilij in persona,  che aveva fama di essere un abilissimo  lettore.
    (Egli  leggeva  talvolta  nel  salotto  dell'imperatrice).  L'arte del
    leggere  consisteva  nel  pronunziare   le   parole   a   voce   alta,
    cantilenante,  tra  gemiti  disperati  e  teneri  mormorii,  il  tutto
    indipendentemente dal loro significato,  cosicché  gemiti  e  mormorii
    capitavano a caso su una parola piuttosto che su un'altra.  Per quella
    lettura,  la serata in casa di Anna Pàvlovna,  come  in  genere  tutte
    quelle  che  essa  organizzava,  aveva  un  significato  politico.  Vi
    sarebbero intervenuti personaggi importanti che bisognava  svergognare
    perché frequentavano il Teatro francese, cercando di suscitare in loro
    sentimenti patriottici.  Parecchi invitati erano già riuniti,  ma Anna
    Pàvlovna non vedeva ancora nel suo salotto tutti quelli che  aspettava
    e  che le stavano a cuore,  e perciò prolungava la conversazione senza
    dare inizio alla lettura.
    A Pietroburgo,  la notizia del giorno era la malattia  della  contessa
    Bezùchova, che si era ammalata improvvisamente alcuni giorni addietro.
    La  contessa  non  era  comparsa  in  certe  riunioni  di  cui  era il
    principale ornamento e si diceva che  non  ricevesse  nessuno  e  che,
    invece  dei  più  celebri  medici  pietroburghesi  che abitualmente si
    occupavano della sua salute, avesse chiamato un medico italiano che la
    curava con un metodo nuovo, straordinario.
    Tutti  sapevano  perfettamente  che  la   malattia   dell'affascinante
    contessa   era   causata   dalla  difficoltà  di  sposare  due  mariti
    contemporaneamente e che la cura del medico  italiano  consisteva  nel
    vincere  tale difficoltà.  Ma,  in presenza di Anna Pàvlovna,  nessuno
    osava pensare a questo, e pareva che nessuno ne fosse informato.
    - "On dit que la pauvre comtesse est très  mal.  Le  médecin  dit  que
    c'est  l'angine  pectorale"  [5.  Si  dice che la povera contessa stia
    molto  male.  Il  medico  ha  dichiarato  che  si  tratta  di  "angina
    pectoris"].
    -  "L'angine?  Oh,  c'est  une maladie terrible!" [6.  Angina?  E' una
    malattia terribile!].
    - "On dit que les rivaux se sont réconciliés grace à l'angine..."  [7.
    Si dice che i rivali si siano riconciliati, grazie all'angina...].
    La parola "angine" veniva ripetuta con un certo piacere.
    -  "Le  vieux comte est touchant à ce qu'on dit.  Il a pleuré comme un
    enfant quand le médecin lui a dit que le cas était dangereux"  [8.  Il
    vecchio conte,  a quanto si dice, è commovente. Egli ha pianto come un
    bambino quando il medico gli ha detto che il caso era pericoloso].
    - "Oh, ce serait une perte terrible.  C'est une femme ravissante!" [9.
    Oh, sarebbe una perdita terribile! E' una donna affascinante!].
    -  "Vous  parlez  de  la  pauvre  comtesse"    -   disse Anna Pàvlovna
    avvicinandosi.   -  "J'ai envoyé savoir de ses nouvelles.  On m'a  dit
    qu'elle allait un peu mieux.  Oh,  sans doute, c'est la plus charmante
    femme du monde"  -  aggiunse, sorridendo per il proprio entusiasmo.  -
    "Nous appartenons à des camps différents,  mais cela ne m'empêche  pas
    de  l'estimer,  comme elle le mérite.  Elle est très malheureuse" [10.
    Voi parlate della povera contessa. Ho mandato a prendere sue notizie e
    mi è stato detto che sta un po' meglio.  Senza dubbio è la  donna  più
    incantevole  del  mondo.  Apparteniamo a campi diversi,  ma ciò non mi
    impedisce  di  apprezzarla  come  merita.   Essa  è  molto  infelice]-
    concluse Anna Pàvlovna.
    Supponendo  che  con  queste  parole Anna Pàvlovna avesse sollevato un
    poco il velo del mistero sulla malattia  della  contessa,  un  giovane
    imprudente si permise di mostrarsi stupito che non si fossero chiamati
    i  medici  famosi e che la contessa si facesse curare da un ciarlatano
    che poteva somministrarle rimedi pericolosi.
    - "Vos informations peuvent  être  meilleures  que  les  miennes"    -
    interloquì velenosamente Anna Pàvlovna,  insorgendo contro l'inesperto
    giovanotto.   -  "Mais je sais de bonne source que ce médecin  est  un
    homme très savant et très habile.  C'est le médicin intime de la Reine
    d'Espagne" [11.  Può darsi che le vostre informazioni  siano  migliori
    delle mie.  Ma io so da buona fonte che quel medico è molto bravo.  E'
    il medico della regina di Spagna].   -    E,  con  queste  parole,  il
    giovane incauto fu messo a tacere.
    Anna  Pàvlovna  si  volse poi a Bilibin il quale,  in un altro gruppo,
    increspando la pelle  sulla  fronte  e  preparandosi  evidentemente  a
    spianarla per lanciare un frizzo, stava parlando degli Austriaci.
    - "Je trouve que c'est charmant" [12.  Trovo che è una cosa deliziosa]
    -  diceva, parlando del documento diplomatico con il quale erano state
    mandate a Vienna le bandiere austriache conquistate  da  Wittgenstein,
    l'eroe di Petropoli, come lo chiamavano a Pietroburgo.
    - Com'è,  com'è,  dunque?   -  gli domandò Anna Pàvlovna, chiedendo il
    silenzio per ascoltare il frizzo che ella già conosceva.
    E  Bilibin  ripeté  le  seguenti,   testuali  parole   del   dispaccio
    diplomatico da lui stesso composto.
    - "L'empereur renvoie les drapeaux autrichiens",   -  disse Bilibin  -
    "drapeaux amis et égarés qu'il  a  trouvés  hors  de  la  route"  [13.
    L'imperatore  rimanda  le  bandiere  austriache,   bandiere  amiche  e
    sperdute,  che egli  ha  trovato  fuori  strada]    concluse  Bilibin,
    spianando la fronte.
    - "Charmant, charmant!"  -  esclamò il principe Vassilij.
    -  C'est  la route de Varsovie,  peut-être [14.  Forse è la strada che
    porta a Varsavia]  -  disse inaspettatamente ad alta voce il  principe
    Ippolìt.  Tutti  gli  occhi  si  volsero a lui: nessuno capiva ciò che
    avesse voluto dire.  Anche il principe Ippolìt si guardava attorno con
    lieto stupore. Come gli altri, neppure lui capiva il significato delle
    parole  che  aveva  pronunziato.  Durante la sua carriera diplomatica,
    aveva più di una volta notato che le  parole  buttate  là,  di  colpo,
    apparivano  molto  spiritose e per ogni eventualità aveva detto ora le
    prime che gli erano venute alle  labbra.  "Forse  andrà  molto  bene",
    pensava,  "e,  se  non  sarà  così,  sapranno  loro  sistemare tutto".
    Infatti, mentre regnava un imbarazzante silenzio, entrò un personaggio
    non abbastanza patriota,  che Anna Pàvlovna attendeva per convertirlo,
    ed  ella,  sorridendo  e  minacciando  Ippolìt con il dito,  invitò il
    principe Vassilij  ad  avvicinarsi  alla  tavola  e,  portandogli  due
    candele e il manoscritto,  lo pregò di dare inizio alla lettura. Tutti
    tacquero.
    "Graziosissima maestà imperiale!",  cominciò severamente  il  principe
    Vassilij  guardando  i  presenti come per domandare se qualcuno avesse
    obiezioni da fare in proposito.  Ma  nessuno  aprì  bocca.  "La  città
    capitale, Mosca, la nuova Gerusalemme, riceve il suo Cristo", accentuò
    la  parola  "suo",  "quale  una  madre  tra  le braccia dei suoi figli
    solleciti e,  attraverso le tenebre che si diffondono,  già prevedendo
    la  splendida  gloria  della sua potenza,  canta,  estasiata: "Osanna,
    benedetto sia colui  che  viene!"".  Il  principe  Vassilij  pronunziò
    queste parole con voce di pianto.
    Bilibin   si   guardava   attentamente  le  unghie  e  molti  parevano
    intimiditi,  come se si domandassero di che  cosa  fossero  colpevoli.
    Anna  Pàvlovna  mormorava  in  anticipo,  come  una  vecchierella,  la
    preghiera della  Comunione:  "Venga  pure  il  temerario  e  arrogante
    Golia...".
    Il principe Vassilij proseguì:
    "Venga pure il temerario e arrogante Golia dai confini della Francia a
    perpetrare nelle province della Russia gli orrori della morte; l'umile
    fede,  fionda  del  Davide  russo,  taglierà  la testa al suo orgoglio
    sanguinario.  Questa  immagine  del  venerabile  Sergio,  il  secolare
    difensore  del  bene  della  nostra  patria,  noi  doniamo alla vostra
    imperiale maestà.  Mi duole che le mie deboli forze mi impediscano  di
    godere  della  vista  della maestà vostra.  Levo al cielo le più calde
    preghiere perché l'Onnipotente dia forza alla generazione  dei  giusti
    ed esaudisca tutti i voti della maestà vostra".
    -  "Quelle  force!  Quel  style!" [15.  Che forza!  Che stile!]  -  si
    levarono voci in lode del lettore e dell'autore.
    Animati da quella lettera,  gli  ospiti  di  Anna  Pàvlovna  parlarono
    ancora  a  lungo  delle  condizioni  della  patria,  facendo  svariate
    supposizioni sull'esito della battaglia che doveva aver luogo in  quei
    giorni.
    -  "Vous  verrez"  [15  a.  Vedrete]    -  disse Anna Pàvlovna  -  che
    domani,   anniversario  della  nascita   dell'imperatore,   riceveremo
    notizie. Ho buoni presentimenti.


    CAPITOLO 2.

    Il  presentimento  di  Anna  Pàvlovna  si  avverò.  Infatti  il giorno
    seguente,  a Corte,  durante la funzione religiosa di  ringraziamento,
    celebrata   per  l'anniversario  della  nascita  dell'imperatore,   il
    principe  Volkonskij  fu  chiamato  fuori  della  chiesa,   e  gli  fu
    consegnato un plico da parte del principe Kutuzòv. Era la relazione di
    Kutuzòv  stesso,  scritta  il  giorno  della  battaglia dl Tatàrinovo.
    Kutuzòv scriveva che i Russi non avevano indietreggiato neppure di  un
    passo, che le perdite dei nemici erano superiori alle nostre, che egli
    stendeva il suo rapporto in fretta, dal campo di battaglia, senza aver
    avuto  il tempo di raccogliere le ultime notizie.  Si era dunque avuta
    una vittoria. E subito, senza neppure uscire dal tempio, furono levate
    solenni grazie al  Creatore  per  il  Suo  aiuto  e  per  la  vittoria
    concessa.
    Il  presentimento  di  Anna  Pàvlovna  si  era avverato e per l'intera
    mattinata  regnò  nella  città  un  umore  lieto  e   festoso.   Tutti
    riconoscevano  che  la  vittoria era completa,  e alcuni parlavano già
    della prigionia di  Napoleone  stesso,  della  sua  detronizzazione  e
    dell'elezione di un nuovo capo per la Francia.
    Lontano  dall'azione  e nelle condizioni della vita di Corte,  è assai
    difficile  che  gli  avvenimenti  si  presentino  in  tutta  la   loro
    compiutezza  e  in  tutta la loro vera forza.  Involontariamente,  gli
    eventi di interesse generale si  concentrano  attorno  a  una  singola
    circostanza.  Così,  ora,  la  gioia  più  grande  dei  cortigiani non
    consisteva tanto nella vittoria,  quanto nel fatto che  l'annunzio  di
    essa  fosse  giunto proprio nel giorno natalizio dell'imperatore.  Era
    come un'improvvisata ben riuscita.  Nella relazione di  Kutuzòv  c'era
    anche  un accenno alle perdite russe,  tra le quali si facevano i nomi
    di Tucikòv,  di Bagratiòn,  di Kutàjsov (16).  Anche  il  lato  triste
    dell'avvenimento  nel gran mondo di Pietroburgo si concentrava attorno
    a  un  solo  fatto:  la  morte  di  Kutàjsov.  Lo  conoscevano  tutti,
    l'imperatore gli voleva bene, era giovane e interessante. Quel giorno,
    incontrandosi, tutti si rivolgevano le stesse parole:
    -  Che caso strano!  Proprio durante la funzione!  E che grave perdita
    quella di Kutàjsov! Che peccato!
    - Che cosa vi dicevo,  io,  di Kutuzòv?    -    proclamava  adesso  il
    principe Vassilij con l'orgoglio di un profeta.  -  L'ho sempre detto,
    io, che egli solo sarebbe stato in grado di vincere Napoleone!
    Ma  il  giorno  successivo  non  si  ebbero  notizie dell'esercito,  e
    cominciò  a  diffondersi  una  generale  inquietudine.   I  cortigiani
    soffrivano per la penosa incertezza in cui si trovava l'imperatore.
    -  Che situazione,  quella del sovrano!   -  dicevano i cortigiani che
    non esultavano già  più  come  il  giorno  innanzi  e  cominciavano  a
    biasimare  Kutuzòv responsabile dell'ansietà del sovrano.  Il principe
    Vassilij non si vantava più del suo protetto Kutuzòv, ma taceva quando
    il discorso cadeva sul generalissimo.
    Inoltre,  venuta la sera,  tutto  parve  congiurare  per  gettare  nel
    turbamento  e  nell'ansia  gli  abitanti  di  Pietroburgo.  Si  sparse
    un'altra terribile notizia:  la  contessa  Elen  Bezùchova  era  morta
    improvvisamente di quel terribile male, il cui nome era così gradevole
    pronunziare.  Ufficialmente, nelle grandi riunioni, tutti dicevano che
    la contessa Bezùchova era morta per un  violento  attacco  di  "angine
    pectorale",  ma  nelle  conversazioni intime si raccontava,  con molti
    particolari,  come "le médecin intime de la  reine  d'Espagne"  avesse
    somministrato a Elen,  a piccole dosi, un rimedio qualsiasi che doveva
    produrre un certo effetto,  ma che l'ammalata,  tormentata  perché  il
    vecchio  conte  la  sospettava  e  perché il marito (quello sciagurato
    gaudente di Pierre),  al  quale  ella  aveva  scritto,  non  le  aveva
    risposto,  si  era  decisa  a  inghiottire  una  fortissima dose della
    medicina prescrittale, ed era morta tra atroci sofferenze prima che si
    fosse potuto portarle aiuto.  Si diceva che il principe Vassilij e  il
    vecchio  conte se l'erano presa con il medico italiano,  ma che questi
    aveva mostrato loro certi bigliettini della sventurata defunta che  li
    avevano indotti a lasciarlo subito in pace.
    Le  conversazioni  generali  si erano concentrate attorno a tre tristi
    avvenimenti:  l'ansiosa  incertezza  dell'imperatore,  la  perdita  di
    Kutàjsov e la morte di Elen.
    Tre  giorni  dopo  la  relazione  di Kutuzòv,  giunse a Pietroburgo un
    possidente che veniva da Mosca,  e in tutta la  città  si  diffuse  la
    notizia  che  Mosca  era  stata abbandonata ai nemici.  Era terribile!
    Quale era mai la situazione del sovrano!  Kutuzòv aveva tradito.  E il
    principe Vassilij,  durante le "visites de condoléance" [17. visite di
    condoglianza] che gli si facevano per la morte della figlia, diceva di
    Kutuzòv, che prima aveva tanto esaltato (gli si poteva perdonare, dato
    il momento doloroso in cui si trovava,  di dimenticare ciò che  diceva
    prima),  che  non  ci si poteva attendere nulla di buono da un vecchio
    cieco e dissoluto.
    - Mi stupisco soltanto che si sia potuto affidare a un uomo simile  la
    sorte della Russia!
    Finché la notizia non fu ufficiale,  si poteva ancora dubitare,  ma il
    giorno successivo giunse la  seguente  relazione,  mandata  dal  conte
    Rastopcìn:
    "Un  aiutante di campo del principe Kutuzòv mi ha portato un messaggio
    nel quale il generalissimo mi richiede  alcuni  ufficiali  di  polizia
    perché scortino l'esercito sulla strada di Rjazàn.  Dice che abbandona
    Mosca con grande rammarico.  Maestà!  Questo gesto di  Kutuzòv  decide
    della sorte della capitale e del vostro impero. La Russia fremerà alla
    notizia  dell'abbandono  della città in cui è concentrata la grandezza
    della Russia e dove riposano le ceneri  dei  nostri  avi.  Io  seguirò
    l'esercito.  Ho  portato  via  tutto.  Non mi resta che piangere sulla
    sorte della mia patria".
    Ricevuta questa relazione,  il sovrano mandò a Kutuzòv,  per mezzo del
    principe Volkonskij, il seguente scritto:
    "Principe Michaìl Ilarjònovic'!  Dal 29 agosto non ho più avuto da voi
    alcun rapporto. Intanto, il primo settembre ho ricevuto, attraverso la
    via di Jaroslàvl,  da parte del  generale  governatore  di  Mosca,  la
    triste  notizia  della  vostra  decisione  di  abbandonare  Mosca  con
    l'esercito.  Voi stesso potete immaginare quale effetto abbia prodotto
    in  me tale notizia,  e il vostro silenzio accresce la mia meraviglia.
    Con la presente vi mando l'aiutante generale, principe Volkonskij, per
    sapere da voi in quale condizione sia l'esercito e per conoscere quali
    cause vi abbiano indotto a prendere una così dolorosa decisione".


    CAPITOLO 3.

    Nove giorni dopo l'abbandono di Mosca, giunse a Pietroburgo un inviato
    di Kutuzòv  con  la  notizia  ufficiale  dell'abbandono  della  città.
    Quell'inviato  era  il francese Michaud,  che non sapeva il russo,  ma
    era,  "quoique  étranger,  russe  de  coeur  et  d'âme"  [18.  sebbene
    straniero,  russo di cuore e di animo], come egli stesso amava dire di
    sé.
    L'imperatore lo ricevette  subito  nel  suo  studio,  nel  palazzo  di
    Kàmenni-Ostròv.  Michaud,  che  non  aveva mai visto Mosca prima della
    guerra e che non conosceva il russo, si sentì tuttavia commosso,  come
    scrisse  poi,   quando  si  trovò  davanti  al  "notre  très  gracieux
    souverain" [al nostro grazioso sovrano] con la  notizia  dell'incendio
    di Mosca,  "dont les flammes éclairaient sa route" [19.  le cui fiamme
    gli illuminavano il cammino].
    Benché la fonte del "chagrin" di  "monsieur"  Michaud  dovesse  essere
    diversa da quella da cui proveniva il dolore del popolo russo, Michaud
    aveva  un  viso  così  triste,   quando  fu  introdotto  nello  studio
    dell'imperatore, che il sovrano gli domandò subito:
    - "M'apportez-vous de tristes nouvelles,  colonel?"  [20.  Mi  portate
    cattive notizie, colonnello?].
    - "Bien tristes,  sire"  -  rispose Michaud,  abbassando gli occhi con
    un sospiro:  -  "l'abandon  de  Moscou"  [21.  Molto  tristi,  sire...
    l'abbandono di Mosca]
    -  "Aurait-on  livré  mon  ancienne capitale sans se battre?" [22.  Si
    sarebbe forse abbandonata la mia vecchia capitale  senza  combattere?]
    -  disse in fretta l'imperatore, improvvisamente avvampando.
    Michaud  riferì  rispettosamente ciò che Kutuzòv gli aveva ordinato di
    far sapere e precisamente che sarebbe stato impossibile battersi sotto
    Mosca e che si era imposta la scelta tra  la  perdita  della  città  e
    dell'esercito  o  della  sola  città.  Il feldmaresciallo aveva dovuto
    scegliere quest'ultimo partito.
    L'imperatore ascoltava in silenzio, senza guardare Michaud.
    - "L'ennemi est-il en ville?" [23. Il nemico è in città?]  -  domandò.
    - "Oui,  sire et elle est en cendres à  l'heure  qu'il  est.  Je  l'ai
    laissée toute en flammes!" [24.  Sì, maestà, e ormai essa è ridotta in
    cenere.  L'ho lasciata in fiamme!]  -  rispose Michaud  risolutamente;
    ma subito, guardando l'imperatore, si spaventò di ciò che aveva fatto.
    Il sovrano respirava a stento, affannosamente; il suo labbro inferiore
    tremava e i suoi bellissimi occhi azzurri erano colmi di lacrime.
    Ma  questo durò un solo momento.  A un tratto l'imperatore aggrottò le
    sopracciglia, come biasimandosi per la propria debolezza, alzò il capo
    e con voce ferma disse a Michaud:
    - "Je vois,  colonel,  par tout ce qui nous arrive que  la  providence
    exige  de  grands sacrifices de nous...  Je suis prêt à me soumettre à
    toutes ses volontés; mais dites-moi, Michaud, comment avez-vous laissé
    l'armée,  en voyant ainsi,  sans coup férir,  abandonner mon  ancienne
    capitale?  N'avez-vous  pas  apercu  du découragement?" [25.  Capisco,
    colonnello, da tutto quanto ci accade, che la Provvidenza esige da noi
    grandi sacrifizi...  Sono  pronto  a  sottomettermi  a  tutte  le  sue
    volontà,  ma ditemi, Michaud, come avete lasciato l'esercito, che vede
    abbandonare la mia vecchia capitale  senza  colpo  ferire?  Non  avete
    notato segni di scoraggiamento?]
    Vedendo  calmarsi  il suo "très gracieux souverain",  anche Michaud si
    calmò,  ma alla diretta ed  essenziale  domanda  dell'imperatore,  che
    esigeva una diretta risposta, egli non fece in tempo a prepararla.
    -  "Sire,  me  permettez-vous  de  vous  parler  franchement  en loyal
    militaire?" [26.  Sire,  mi permettete  di  parlarvi  francamente,  da
    vecchio militare?]  -  domandò, per guadagnar tempo.
    -  "Colonel,  je l'exige toujours"  -  rispose il sovrano.   -  "Ne me
    cachez  rien,  je  veux  savoir  absolument  ce  qu'il  en  est"  [27.
    Colonnello,  lo  pretendo  sempre.  Non  nascondetemi  niente:  voglio
    assolutamente sapere come stanno le cose].
    - "Sire!"  -  rispose Michaud con un fine, appena percettibile sorriso
    sulle labbra, avendo avuto il tempo di preparare la sua risposta nella
    forma di un leggero e rispettoso gioco di parole.-  "Sire! j'ai laissé
    toute l'armée depuis le chefs jusqu'au dernier soldat sans  exception,
    dans une crainte épouvantable,  effrayante..." [28.  Sire, ho lasciato
    l'esercito, dai comandanti all'ultimo soldato, senza eccezioni, in uno
    stato di terrore spaventoso, terrificante...]
    - "Comment ca?"  -  lo interruppe il sovrano, accigliandosi.   -  "Mes
    Russes se laisseront-ils abattre par le malheur?...  Jamais!" [29.  Ma
    come?  I miei soldati si  lascerebbero  abbattere  dalla  sventura?...
    Mai!].
    Michaud  non  aspettava  che  questo  per  introdurre  il suo gioco di
    parole.
    - "Sire",   -  riprese con una espressione rispettosa e vivace    "ils
    craignent  seulement que Votre Majesté par bonté de coeur ne se laisse
    persuader de faire la paix.  Ils brûlent de combattre"  -    disse  il
    plenipotenziario  del popolo russo  -  "et de prouver à Votre Majesté,
    par le sacrifice de leur vie,  combien ils lui sont  dévoués..."  [30.
    Sire,  essi  temono soltanto che vostra maestà per bontà di cuore,  si
    lasci persuadere a fare la pace.  Ardono dal desiderio di combattere e
    di provare a vostra maestà,  con il sacrifizio della loro vita, quanto
    vi sono devoti].
    - Ah!  -  esclamò l'imperatore tranquillizzato, con un'affettuosa luce
    negli  occhi,  battendo  sulla  spalla  di  Michaud.    -    "Vous  me
    tranquillisez, colonel!" [31. Voi mi tranquillizzate, colonnello].
    L'imperatore chinò il capo e rimase alcuni minuti in silenzio.
    - "Eh bien, retournez à l'armée"  -  disse, raddrizzandosi in tutta la
    sua  persona  e volgendosi a Michaud con un gesto amorevole e maestoso
    -  "et dites à mes braves,  dites à mes bons sujets  partout  où  vous
    passerez,  que quand je n'aurai plus aucun soldat, je me battrai, moi-
    même, à la tête de ma chère noblesse,  de mes bons paysans et j'userai
    ainsi  jusqu'à  la  dernière  ressource  de mon empire.  Il m'en offre
    encore plus que mes ennemis ne pensent"    -    continuò  il  sovrano,
    animandosi  sempre  di più.   -  "Mais si jamais il fût écrit dans les
    décrets de la divine providence"  -   disse,  sollevando  al  cielo  i
    bellissimi  occhi  azzurri,  splendenti  di  commozione    -   "que ma
    dynastie dût cesser de régner sur le trône  de  mes  ancêtres,  alors,
    après  avoir  épuisé  tous  les moyens qui sont en mon pouvoir,  je me
    laisserai croître la barbe jusqu'ici"  -  (e il sovrano alzò  la  mano
    sino  a mezzo busto)  -  "et j'irai manger des pommes de terre avec le
    dernier de mes paysans plutôt que de signer la honte de ma  patrie  et
    de  me  chère  nation,  dont  je  sais apprécier les sacrifices!" [32.
    Ebbene,  ritornate all'esercito e dite ai miei prodi,  dite a tutti  i
    miei buoni e bravi sudditi,  ovunque passerete,  che quando non avessi
    più un soldato, mi metterei io stesso alla testa dei miei nobili,  dei
    miei  buoni  contadini ed esaurirei così sino l'ultima risorsa del mio
    impero.  Esso me ne offre più di quanto pensino i miei nemici.  Ma  se
    mai  fosse  scritto  nei  decreti  della divina provvidenza che la mia
    dinastia debba cessare di regnare sul trono dei  miei  antenati,  dopo
    aver  esaurito  tutti  i  mezzi  che  sono in mio potere,  mi lascerei
    crescere la barba sino qui,  e andrei a mangiare patate  con  l'ultimo
    dei  miei contadini piuttosto che firmare la vergogna della mia patria
    e della mia cara nazione, di cui so apprezzare i sacrifizi!]  -. Detto
    ciò con voce agitata,  l'imperatore improvvisamente si voltò  come  se
    volesse  nascondere  a Michaud i suoi occhi pieni di lacrime e andò in
    fondo alla stanza.  Vi rimase per un  momento,  poi  si  riavvicinò  a
    grandi  passi  a  Michaud  e con gesto energico gli strinse il braccio
    sotto il gomito.  Il bellissimo,  dolce viso  dell'imperatore  si  era
    coperto di rossore e gli occhi brillavano di una luce di risolutezza e
    di sdegno.
    -  "Colonel  Michaud,  n'oubliez pas ce que je vous dis ici: peut-être
    qu'un jour nous nous le rappellerons avec plaisir...  Napoléon ou moi"
    -    disse,  toccandosi  il  petto.    -  "Nous ne pouvons plus régner
    ensemble. J'ai appris à le connaître,  il ne me trompera plus..." [33.
    Colonnello  Michaud,  non  dimenticate  ciò  che vi dico qui: forse un
    giorno ce ne ricorderemo con piacere...  o Napoleone o io...  Noi  non
    possiamo  più  regnare  insieme,  Ho  imparato  a  conoscerlo,  non mi
    ingannerà più...].
    E tacque accigliato. All'udire queste parole e al vedere l'espressione
    di  risolutezza  negli  occhi   dell'imperatore,   Michaud,   "quoique
    étranger,  mais  russe  de  coeur et d'âme",  si sentì in quel momento
    solenne,   "enthousiasmé  par  ce  qu'il   venait   d'entendre"   [34.
    Entusiasmato  da  tutto  ciò che aveva veduto e udito],  come disse in
    seguito,  ed espresse nei termini seguenti tanto i  propri  sentimenti
    quanto  i  sentimenti  del  popolo  russo,  di  cui  si considerava il
    plenipotenziario.
    - "Sire!"  -  disse.  -  "Votre Majesté signe dans ce moment la gloire
    de la nation et le  salut  de  l'Europe!"  [35.  Sire!  Vostra  Maestà
    sottoscrive  in  questo  momento la gloria della nazione e la salvezza
    dell'Europa!].
    L'imperatore, con un cenno del capo, congedò Michaud.


    CAPITOLO 4.

    Mentre metà della Russia era invasa e gli abitanti di Mosca  fuggivano
    nei  governatorati  più  lontani,  e milizie su milizie si levavano in
    difesa della patria,  noi che non siamo vissuti in quel tempo pensiamo
    istintivamente  che  tutti  i  Russi,  dal  più piccolo al più grande,
    fossero presi dal solo pensiero di sacrificarsi,  di salvare la patria
    o  di  piangere  sulla  sua rovina.  I racconti scritti allora parlano
    tutti,  nessuno escluso,  dell'abnegazione,  dell'amore per la patria,
    della disperazione, del dolore e dell'eroismo dei Russi. In realtà, le
    cose non stavano proprio così.  Ci sembra così, perché noi vediamo nel
    passato soltanto l'interesse storico generale di quel  periodo  e  non
    vediamo tutti gli interessi individuali umani che pure ciascuno aveva.
    E tuttavia,  nella realtà,  gli interessi individuali del momento sono
    sempre a tal punto più importanti di quelli comuni che  al  di  là  di
    essi  non si sente mai (anzi,  non si nota nemmeno) quello comune.  La
    maggior parte degli uomini  di  quel  tempo  non  prestava  la  minima
    attenzione all'andamento generale degli eventi, ma si lasciava guidare
    unicamente  dagli interessi individuali del momento stesso.  E proprio
    questi uomini furono i più utili attivisti di allora.
    Gli altri, invece,  che cercavano di capire il corso degli avvenimenti
    e con l'abnegazione e l'eroismo volevano parteciparvi, furono i membri
    meno  utili  alla società;  vedevano tutto alla rovescia,  e qualsiasi
    cosa facessero per l'utilità  comune,  risultava  sempre  un'assurdità
    inutile, come i reggimenti di Pierre e di Mamonov che saccheggiavano i
    villaggi  russi,  come  le  bende  preparate  dalle  signore,  che non
    arrivavano  mai  ai  feriti,  e  via  dicendo.   Persino  coloro  che,
    desiderando dimostrarsi intelligenti ed esprimere i propri sentimenti,
    parlavano della situazione russa, mettevano involontariamente nei loro
    discorsi  l'impronta  della  finzione  e della menzogna e dell'inutile
    biasimo o del rancore verso uomini a cui essi attribuivano colpe delle
    quali  a  nessuno  si  poteva  addossare  la   responsabilità.   Negli
    avvenimenti  storici  è più evidente che mai la proibizione di mordere
    il frutto  dell'albero  della  conoscenza.  Soltanto  un'inconsapevole
    attività dà utili frutti, e l'uomo che sostiene una parte in un evento
    storico non ne comprende mai il significato. Se tenta di comprenderlo,
    viene colpito da sterilità.
    Il  significato  di  quanto  avveniva  allora in Russia sfuggiva quasi
    totalmente a coloro che vi partecipavano più da vicino.  A Pietroburgo
    e  nei  governatorati lontani da Mosca,  signore e uomini in divisa da
    militi piangevano sulla sorte della Russia e della capitale,  parlando
    di  sacrifici  e  di cose del genere,  ma nell'esercito in ritirata da
    Mosca,  di Mosca quasi non si parlava e a Mosca  non  si  pensava;  e,
    guardando  l'incendio  che  stava divorandola nessuno giurava vendetta
    contro i Francesi;  ognuno  pensava  invece  alla  paga  del  prossimo
    trimestre,  alla  prossima tappa,  a Matrëska la vivandiera e ad altre
    cose del genere.
    Nikolàj  Rostòv,   senza  alcuna   aspirazione   al   sacrificio,   ma
    assolutamente  per  caso,  dato  che  era  militare durante la guerra,
    partecipava in modo attivo e immediato  alla  difesa  della  patria  e
    perciò   considerava,   senza   disperazione   e   senza   conclusioni
    pessimistiche, ciò che avveniva allora.  Se gli avessero domandato che
    cosa pensasse delle condizioni della Russia,  avrebbe risposto che non
    aveva niente da pensare, che Kutuzòv e gli altri se ne occupavano,  ma
    che  aveva  sentito parlare della formazione di nuovi reggimenti,  che
    probabilmente si sarebbe combattuto ancora a  lungo  e  che,  date  le
    circostanze,  era possibilissimo che in un paio di anni lo nominassero
    comandante di reggimento.
    Appunto perché considerava le cose da questo punto di vista,  non solo
    non  deplorò di non poter prendere parte all'ultimo combattimento,  ma
    accolse la notizia della sua destinazione a  Voronèz  per  la  rimonta
    della  divisione,  con  un  grandissimo piacere,  piacere che egli non
    cercava di nascondere e che i suoi compagni capivano benissimo.
    Alcuni giorni prima della battaglia di Borodinò,  Nikolàj ricevette il
    denaro  e  i  documenti  e,  mandati  avanti i suoi ussari,  partì per
    Voronèz in carrozza da posta.
    Soltanto chi ha provato a vivere per alcuni mesi,  senza interruzione,
    nell'atmosfera  della  vita  militare  e  della guerra,  può capire la
    sensazione di piacere da cui  fu  invaso  Nikolàj  quando  uscì  dalla
    cerchia occupata dalle truppe,  con i loro foraggi, i loro convogli di
    viveri, la loro ambulanza e quando, senza soldati, senza carri,  senza
    le  sudicie tracce della presenza di un accampamento,  vide i villaggi
    con i contadini e le loro donne, le case padronali, i pascoli popolati
    di bestiame, le stazioni di posta con i sonnolenti mastri di posta. Ne
    provò una gioia vivissima,  come se per la prima volta  vedesse  tutte
    quelle cose.  In modo particolare lo meravigliò e lo rallegrò la vista
    di donne giovani e fiorenti,  ciascuna delle quali non era  attorniata
    da  diecine  di  ufficiali  corteggiatori,  donne  che  si  mostravano
    contente e lusingate se un ufficiale di passaggio scherzava con loro.
    Nella più allegra  disposizione  d'animo,  Nikolàj  arrivò  a  Voronèz
    durante la notte; all'albergo in cui scese, ordinò tutto ciò di cui da
    molto tempo era privo e il giorno seguente, dopo essersi accuratamente
    rasato  e aver indossato l'uniforme di parata che da tempo non metteva
    più, andò a presentarsi alle autorità.
    Il comandante delle milizie era un funzionario civile con il grado  di
    generale,  un uomo attempato che,  evidentemente, si divertiva del suo
    titolo e del suo grado.  Accolse Nikolàj bruscamente (credeva  che  in
    ciò  consistesse  la  caratteristica  dei militari) e lo interrogò con
    molto sussiego,  approvando e disapprovando,  come  se  ne  avesse  il
    diritto, l'andamento generale delle cose. Nikolàj era così allegro che
    tutto ciò gli parve soltanto divertente.
    Dopo   essere  stato  dal  comandante  delle  milizie,   si  recò  dal
    governatore,  un ometto piccolo e vivace,  molto amabile  e  semplice.
    Egli  indicò a Nikolàj gli allevamenti in cui avrebbe potuto trovare i
    cavalli,  gli diede il nome di un sensale in città e di un  possidente
    che abitava venti miglia fuori,  i quali potevano offrirgli i migliori
    quadrupedi, e gli promise tutto il suo appoggio.
    - Siete figlio del conte Iljà Andréevic'?  Mia moglie  è  stata  molto
    amica  di vostra madre.  Ogni giovedì si riuniscono in casa mia alcuni
    amici: oggi è appunto giovedì.  Vi prego di venirci a trovare,  con la
    massima  semplicità,  senza  cerimonie    -  gli disse il governatore,
    congedandolo.
    Uscito dalla casa del governatore,  Nikolàj noleggiò una  carrozza  e,
    preso  con  sé  il  suo maresciallo d'alloggio,  percorse al trotto la
    distanza  che  separava  la  città  dall'abitazione  del  proprietario
    allevatore  di  cavalli.  In  quel  primo  periodo del suo soggiorno a
    Voronèz tutto appariva a Nikolàj facile e allegro e tutto, come sempre
    accade a chi è ben disposto, si concludeva presto e bene.
    Il possidente dal quale Nikolàj si recava era un antico  ufficiale  di
    cavalleria,  scapolo,  conoscitore di cavalli,  cacciatore, padrone di
    una fabbrica di tappeti,  di  un  liquore  vecchio  di  cent'anni,  di
    vecchio vino ungherese e di stupendi cavalli.
    Nikolàj,   in  due  parole,  comperò  per  seimila  rubli  diciassette
    eccellenti stalloni, uno migliore dell'altro (com'egli diceva) e, dopo
    aver pranzato e bevuto copiosamente  del  vino  di  Ungheria,  Rostòv,
    abbracciato  e  baciato  il  possidente,  con il quale si dava già del
    "tu",   tornò  indietro  per  un'orribile  strada,   nella  più  lieta
    disposizione  di  spirito,  incitando continuamente il postiglione per
    arrivare in tempo al ricevimento in casa del governatore.
    Dopo essersi cambiato e profumato,  ed essersi  gettato  acqua  fredda
    sulla  testa,  Nikolàj,  sebbene un po' in ritardo,  ma pronto a dire:
    "vaut mieux tard que jamais" [36.  Meglio tardi che mai],  si presentò
    in casa del governatore.
    Non  si  trattava  di  un  ballo e neppure si era detto che si sarebbe
    ballato,  ma tutti sapevano che Katerina Petrovna avrebbe  suonato  al
    clavicembalo  valzer  e  "scozzesi"  e  che il ballo ci sarebbe stato;
    perciò tutti si erano recati in abiti adatti.
    La vita in provincia era nel 1812 assolutamente immutata,  con  questa
    differenza  che  in  città vi era una certa animazione per l'arrivo di
    molte ricche famiglie da Mosca e che,  come in tutto ciò che  accadeva
    allora  in  Russia,  si  notava  una  certa  particolare e spensierata
    distensione di vita  -  infischiarsi di tutto, la vada come vuole!   -
    e  con quest'altra differenza ancora,  che quella banale conversazione
    necessaria tra la gente e che prima si  aggirava  sul  tempo  e  sulle
    conoscenze  comuni,   ora  aveva  come  argomento  Mosca,  la  guerra,
    Napoleone.
    La società,  riunita in casa  del  governatore,  era  la  migliore  di
    Voronèz.
    C'erano molte signore e alcuni conoscenti moscoviti di Nikolàj, ma tra
    gli uomini nessuno che potesse, in un modo qualsiasi, rivaleggiare con
    il  cavaliere  di San Giorgio,  con l'ussaro incaricato della rimonta,
    che era il bonario e bene educato conte  Rostòv.  Fra  gli  uomini  si
    trovava un prigioniero italiano,  ufficiale dell'esercito francese,  e
    Nikolàj sentiva che la presenza di quel prigioniero accresceva il  suo
    prestigio di eroe russo.  Era una specie di trofeo. Nikolàj lo sentiva
    e gli pareva che tutti lo  considerassero  allo  stesso  modo  e,  con
    dignità e riservatezza, fu con lui cortesissimo.
    Non appena Nikolàj entrò, in uniforme di ussaro, diffondendo attorno a
    sé  aroma  di  profumi  e  di  vino,  dopo che ebbe detto e udito dire
    parecchie volte le parole: "vaut mieux tard que jamais",  tutti gli si
    strinsero attorno.  Gli sguardi di tutti si appuntarono su di lui,  ed
    egli si rese subito conto di occupare in  provincia  quella  posizione
    che gli era dovuta,  che gli riusciva sempre gradita ma che ora,  dopo
    una lunga privazione, lo riempiva di piacere.  Non solo nelle stazioni
    di  posta,  nelle locande e nella casa di quel proprietario le ragazze
    erano lusingate delle sue attenzioni, ma anche lì,  al ricevimento del
    governatore (così parve a Nikolàj),  un gran numero di giovani signore
    e di graziose fanciulle attendevano soltanto  che  Nikolàj  rivolgesse
    loro la propria attenzione.  Le signore e le fanciulle civettavano con
    lui e le persone anziane, sin dal primo giorno, si diedero da fare per
    dar moglie e sistemare quel giovane ussaro buontempone.
    Tra queste ultime era anche  la  moglie  del  governatore,  che  aveva
    accolto  Rostòv  come un parente,  lo chiamava semplicemente Nicolas e
    gli dava del "tu".
    Katerina  Petrovna  cominciò  effettivamente  a   suonare   valzer   e
    "scozzesi",  ed  ebbero  inizio  le  danze,  in  cui  Nikolàj  finì di
    incantare con la sua abilità la società del governatorato.  Meravigliò
    anche  tutti con il suo modo particolare e disinvolto di ballare,  del
    quale egli stesso fu alquanto sorpreso.  Non aveva mai ballato così  a
    Mosca  dove,  anzi,  gli sarebbe sembrato di cattivo gusto un tal modo
    troppo libero di ballare;  ma in quell'ambiente sentiva il bisogno  di
    stupire  coloro  che  lo  guardavano con qualcosa di straordinario che
    potesse essere ritenuto un'usanza della capitale ancora sconosciuta in
    provincia.
    Per tutta la serata Nikolàj  fu  particolarmente  assiduo  presso  una
    bionda  dagli  occhi  azzurri,  grassoccia  e simpatica,  moglie di un
    funzionario del governatorato.  Con l'ingenua convinzione dei  giovani
    quando si divertono,  che le mogli altrui siano fatte per loro, Rostòv
    non si allontanava di un passo da quella  signora  e  parlava  con  il
    marito  di  lei  in  tono amichevole,  un po' da cospiratore,  come se
    entrambi, sebbene non ne parlassero,  sapessero che essi  -  Nikolàj e
    la  moglie di quel marito  -  avrebbero stretto amicizia.  Pareva però
    che il marito non condividesse affatto tale convinzione e  cercava  di
    trattare Rostòv con molta freddezza.
    Ma la bonaria ingenuità di Nikolàj era così illimitata che talvolta il
    marito,  suo malgrado, si lasciava vincere dall'allegria dell'animo di
    lui.  Verso la fine della serata,  però,  a misura che il  viso  della
    moglie  si  faceva  sempre  più  acceso e animato,  il viso del marito
    diventava più triste e più serio,  come se la quantità  di  animazione
    fosse unica per entrambi, e, mentre aumentava nella moglie, diminuisse
    nel marito.


    CAPITOLO 5.

    Nikolàj,  con un sorriso che non abbandonava le sue labbra,  sedeva un
    po' curvo sulla poltrona, chinandosi verso la biondina e facendole dei
    complimenti... mitologici.
    Cambiando con disinvoltura la posizione  delle  gambe,  strette  negli
    attillati pantaloni, emanando un effluvio profumato e ammirando la sua
    dama,  se stesso,  la bella forma delle proprie gambe sotto le ghette,
    egli diceva alla biondina di progettare il rapimento di  una  signora,
    lì a Voronèz.
    - E qual è?
    -  Incantevole,  divina.  Ha  gli  occhi    -   (Nikolàj guardò la sua
    interlocutrice)    -    azzurri,  la  bocca  color  del  corallo,  una
    carnagione  candida   -  (e le guardò le spalle)  -  come la neve e la
    figura di Diana...
    Il marito si avvicinò e con aria cupa domandò alla moglie di che  cosa
    stesse parlando.
    - Ah,  Nikita Ivanyc'  -  rispose Nikolàj,  alzandosi cortesemente. E,
    come se desiderasse che Nikita Ivanyc' partecipasse ai  suoi  scherzi,
    cominciò  a  informare  anche il marito del suo progetto di rapire una
    biondina.
    Il marito sorrideva cupo, la moglie con allegria.  La buona moglie del
    governatore si avvicinò con aria di disapprovazione.
    - Anna Ignàtevna vuole vederti,  Nicolas  -  disse,  pronunziando quel
    nome in tono tale che Rostòv comprese subito che  Anna  Ignàtevna  era
    una signora molto importante.   -  Andiamo,  Nicolas.  Permetti, vero,
    che ti chiami così?
    - Oh sì, "ma tante" [37. zia mia]. Chi è?
    - Anna Ignàtevna Malvìntzeva.  Ha sentito parlare di te da sua nipote,
    che tu hai salvato... Indovina di chi si tratta...
    - Ne ho salvate tante!  -  rispose Nikolàj.
    -  La nipote di Anna Ignàtevna è la principessina Bolkònskaja.  Essa è
    qui a Voronèz, con la zia. Oh, come diventi rosso! Forse che...
    - Non ci penso neppure. Basta, "ma tante".
    - Bene, bene. Uh, come sei!
    La moglie del governatore lo condusse verso una vecchia signora,  alta
    e  molto  grossa,  in  tocco  azzurro,  che  aveva appena terminato di
    giocare a carte con le persone più ragguardevoli della città.  Era  la
    signora  Malvìntzeva,  zia  della  principessina  Màrija  per parte di
    madre,  ricca vedova senza figli,  che viveva stabilmente  a  Voronèz.
    Quando Rostòv le si avvicinò, era in piedi e stava facendo i conti del
    gioco.  Socchiuse  gli  occhi  con  aria  severa e d'importanza,  e lo
    guardò,  continuando a imprecare contro un generale che le aveva vinto
    la partita.
    -  Molto  lieta,  mio caro  -  disse,  tendendo la mano.   -  Venite a
    trovarmi, vi prego.
    Dopo aver parlato della principessina Màrija e del  defunto  padre  di
    lei (che,  lo si capiva facilmente, doveva esserle stato antipatico) e
    dopo aver ascoltato tutto ciò che Nikolàj  seppe  dirle  del  principe
    Andréj,  il  quale,  a quanto pareva,  non godeva neppur lui della sua
    benevolenza, la vecchia signora lo congedò,  rinnovandogli l'invito di
    andarla a trovare.
    Nikolàj promise e arrossì di nuovo mentre salutava la Malvìntzeva.  Al
    sentir nominare la principessina  Màrija,  Rostòv  aveva  provato  una
    sensazione, incomprensibile anche per lui stesso, di timidezza e quasi
    di paura.
    Allontanatosi  dalla  signora Malvìntzeva,  Rostòv voleva riprendere a
    ballare,  ma la piccola moglie del governatore posò una manina paffuta
    sul  suo  braccio  e,  dicendogli  che aveva bisogno di parlargli,  lo
    condusse nel salotto dei divani,  dal quale coloro che vi si trovavano
    uscirono subito per non disturbare.
    -  Sai,  "mon  cher"   -  gli disse la moglie del governatore,  con il
    piccolo viso buono atteggiato a un'espressione di serenità. - Questo è
    proprio il partito che fa per te. Vuoi che combini la cosa?
    - Quale partito, "ma tante"?  -  domandò Nikolàj.
    - Chiedo per te la mano della principessina.  Katerina  Petrovna  dice
    che  a te converrebbe Lilli ma,  secondo me,  no,  per te va meglio la
    principessina. Vuoi?  Sono sicura che la tua "maman" te ne sarà grata.
    E' una ragazza veramente deliziosa! E non è poi tanto brutta...
    - Tutt'altro  -  rispose Nikolàj,  quasi offeso.   -  Io,  "ma tante",
    come soldato non mi faccio mai avanti e non rifiuto niente  -    disse
    ancora  Rostòv prima di aver avuto il tempo di riflettere a quello che
    diceva.
    - Allora pensaci: non è uno scherzo.
    - Macché scherzo...
    - Sì, sì  -  disse la moglie del governatore, come parlando tra sé.  -
    Ma ecco ancora una cosa, "mon cher, entre nous.  Vous êtes trop assidu
    auprès de l'autre, la blonde!" [38. Mio caro, detto tra noi. Voi siete
    troppo  assiduo  presso  l'altra,  la  bionda!].  Il  marito  fa pena,
    proprio...
    - Ma no,  siamo soltanto amici!   -    obiettò  Nikolàj  con  assoluto
    candore.  Non  gli passava neppure per la mente che quello che era per
    lui un passatempo così divertente potesse non esserlo affatto  per  un
    altro.
    "Ma che stupidaggine sono andato a dire alla moglie del governatore!",
    gli  venne  di  colpo  in  mente  durante  la cena.  "Quella,  adesso,
    comincerà davvero a darsi da  fare  per  combinare...  E  Sònja?".  E,
    nell'accomiatarsi  dalla  padrona di casa,  quando questa gli ripeteva
    sorridendo: "Dunque, ricordati...", egli la trasse in disparte.
    - Ecco che cosa c'è, "ma tante", per essere sinceri...
    - Cosa c'è, cosa c'è, amico mio? Sediamoci qui.
    Nikolàj provò a un tratto il desiderio e il  bisogno  di  parlare  dei
    suoi  pensieri  più  intimi (dei quali non avrebbe rivelato nulla né a
    sua madre, né a sua sorella, né a un amico) a quella donna che per lui
    era quasi un'estranea.  In seguito Nikolàj,  quando  si  ricordava  di
    quello  slancio di inspiegabile sincerità che ebbe per lui conseguenze
    tanto importanti, aveva l'impressione (come sempre accade agli uomini)
    di aver  agito  per  stupidità;  eppure  quell'impeto  di  franchezza,
    accanto ad altre circostanze quasi insignificanti,  ebbe per lui e per
    tutta la sua famiglia enormi conseguenze.
    - Ecco di che si tratta, "ma tante".  "Maman" desidera da tempo che io
    sposi  una  donna  ricca:  ma  il  solo  pensiero  di un matrimonio di
    interesse mi disgusta.
    - Oh, capisco!  -  disse la moglie del governatore.
    - Ma per la principessina  Bolkònskaja  il  caso  è  diverso:  innanzi
    tutto,  a dire la verità,  essa mi piace molto, provo per lei una viva
    simpatia e  poi,  da  quando  l'ho  incontrata  in  circostanze  tanto
    singolari,  penso  spesso  che il nostro incontro sia stato voluto dal
    destino. Figuratevi,  "maman" già da un pezzo ci pensava,  ma prima di
    allora  non mi era mai capitato di incontrarla.  Non so perché,  ma il
    fatto si è che non ci  eravamo  mai  incontrati.  Mentre  mia  sorella
    Natascia  era  fidanzata  con  il  fratello  di lei,  non mi era certo
    possibile pensare a sposarla.  Ho dovuto incontrarla proprio quando il
    matrimonio di Natascia era andato a monte e poi tutto... Sì, ecco cosa
    c'è...  Non  ne  ho  parlato  e non ne parlerò mai a nessuno.  Lo dico
    soltanto a voi...
    La  moglie  del  governatore  gli  strinse  il  gomito  in  segno   di
    riconoscenza.
    -  Voi  conoscete  Sònja,  mia  cugina?  Io  l'amo,  le ho promesso di
    sposarla e la sposerò...  Capirete  dunque  che  non  si  può  neanche
    parlarne...    -    disse Nikolàj,  esprimendosi in modo sconnesso,  e
    arrossendo.
    - "Mon cher, mon cher", ma come ragioni?  Sònja non possiede nulla,  e
    tu  stesso  dici  che gli affari di tuo padre vanno molto male.  E tua
    madre? Questo la ucciderebbe. E per Sònja,  se è una ragazza di cuore,
    che vita sarebbe?  Tua madre disperata,  la famiglia in rovina...  No,
    no, "mon cher", tu e Sophie dovete capirlo...
    Nikolàj taceva. Gli faceva piacere ascoltare quella conclusione.
    - Eppure, "ma tante",  non può essere  -  disse con un sospiro dopo un
    breve  silenzio.    -  Infine,  resta da sapere se la principessina mi
    sposerebbe...  E poi,  adesso è in lutto...  Com'è possibile pensare a
    una cosa simile?
    -  Credi  forse  che  ti  voglia  sposare  subito?  "Il y a manière et
    manière" [39. C'è modo e modo]  -  concluse la moglie del governatore.
    - Come siete brava a combinar matrimoni, "ma tante"!  -  disse Nikolàj
    baciandole la manina grassoccia.


    CAPITOLO 6.

    Arrivata a Mosca dopo il suo incontro  con  Rostòv,  la  principessina
    Màrija  vi  aveva  trovato il nipotino con il precettore e una lettera
    del fratello Andréj,  che le  tracciava  l'itinerario  per  recarsi  a
    Voronèz,  in  casa  della  zia  Malvìntzeva.  Le preoccupazioni per il
    viaggio,  l'inquietudine per il fratello,  l'organizzazione della vita
    in una casa nuova, tra gente nuova, l'educazione del nipotino, avevano
    soffocato  nell'animo  della  principessina  Màrija quel senso come di
    tentazione che l'aveva tormentata durante la malattia e dopo la  morte
    del padre e,  in particolare,  dopo l'incontro con Rostòv. Era triste.
    L'impressione lasciata in lei dalla perdita del padre,  che  si  univa
    nella  sua  anima al pensiero della rovina della Russia,  dopo un mese
    trascorso in tranquille condizioni di  vita,  si  faceva  sentire  con
    intensità  sempre  crescente.  Era in preda a un grande turbamento: il
    pensiero dei pericoli  ai  quali  era  esposto  il  fratello,  l'unico
    parente prossimo che le fosse rimasto,  la tormentava incessantemente.
    Inoltre era preoccupata per l'educazione del nipote,  compito per  cui
    non  si  riteneva  capace;  ma  in fondo all'anima provava un senso di
    pace,  una pace che le derivava dalla consapevolezza di aver soffocato
    in  sé  i sogni e la speranza legati alla comparsa di Rostòv nella sua
    vita.
    Quando,  il giorno dopo il ricevimento,  la moglie del governatore  si
    recò  in visita dalla Malvìntzeva e le parlò dei suoi progetti (con la
    riserva,  date le circostanze  del  momento,  della  impossibilità  di
    pensare  a un fidanzamento ufficiale,  ma ritenendo tuttavia che fosse
    bene dar modo ai due  giovani  di  conoscersi)  e  quando,  dopo  aver
    ottenuto l'approvazione della zia,  parlò di fronte alla principessina
    Màrija di Rostòv elogiandolo e raccontando come si fosse  fatto  rosso
    all'udirla  nominare,  la  principessina  non  provò una sensazione di
    gioia, ma piuttosto di pena: quella sua armonia interiore non esisteva
    più, e nuovi desideri, nuovi dubbi,  nuovi rimproveri e nuove speranze
    sorsero in lei.
    Nei due giorni che passarono tra questa notizia e la visita di Rostòv,
    la  principessina  Màrija non smise di pensare al contegno che avrebbe
    tenuto con lui.  Ora desiderava di non entrare in salotto quando  egli
    fosse venuto dalla zia giacché era sconveniente, essendo in lutto così
    stretto,  ricevere  ospiti;  ora  pensava  che un gesto simile sarebbe
    stato, da parte sua,  una sgarberia dopo quanto Rostòv aveva fatto per
    lei;  ora  le  veniva  in mente che la moglie del governatore e la zia
    avessero dei progetti su di lei e su Rostòv (le  loro  occhiate  e  le
    loro  parole  le  parevano  talvolta suffragare tale ipotesi);  ora si
    diceva che lei sola,  nella  sua  depravazione,  poteva  pensare  cose
    simili, giacché esse non potevano certo dimenticare che nel suo stato,
    mentre ancora non si era tolto il lutto,  una proposta di fidanzamento
    sarebbe  stata  un'offesa  a  lei  e  alla  memoria  di   suo   padre.
    Nell'ipotesi  che si decidesse a entrare in salotto,  la principessina
    Màrija cercava di immaginare quali parole  egli  le  avrebbe  dette  e
    quali  lei  stessa gli avrebbe risposto.  Ma quelle parole le parevano
    ora ingiustamente troppo fredde,  ora troppo impegnative.  Soprattutto
    temeva  in  un  incontro  con lui di essere sopraffatta dal turbamento
    che, essa lo sentiva, l'avrebbe tradita.  Ma quando la domenica,  dopo
    la  Messa,  il cameriere entrò in salotto ad annunziare che era venuto
    il conte Rostòv, la principessina non diede alcun segno di turbamento,
    soltanto un lieve rossore le si diffuse sulle guance,  e i suoi  occhi
    si illuminarono di una luce nuova, radiosa.
    -  Voi,  zia,  l'avete visto?   -  domandò la principessina Màrija con
    voce tranquilla,  senza sapere neppur lei come potesse  apparire  così
    calma e così naturale.
    Quando  il  giovane  ufficiale  entrò  nel  salotto,  la principessina
    abbassò il capo per un momento, come per concedere all'ospite il tempo
    di salutare la zia e poi, nel momento in cui Nikolàj si volgeva a lei,
    lo rialzò e i suoi occhi luminosi incontrarono lo sguardo di lui.  Con
    un movimento pieno di nobiltà e di grazia e con un sorriso,  gli porse
    la mano delicata e sottile e prese a parlare con una voce nella quale,
    per la prima volta in vita sua,  vibrava una  nota  nuova,  di  petto,
    squisitamente femminile.  "Mademoiselle" Bourienne,  che si trovava in
    salotto,  la guardò con incredulo stupore.  La più consumata  civetta,
    lei stessa, non si sarebbe comportata meglio nell'accogliere un uomo a
    cui volesse piacere.
    "O  è  il  nero  che si addice al suo viso o essa si è veramente fatta
    tanto più bella, e io non me ne sono accorta! E,  soprattutto,  quanta
    grazia e quanto tatto!", pensava "mademoiselle" Bourienne.
    Se  la  principessina Màrija fosse stata in quel momento in condizione
    di riflettere, si sarebbe meravigliata, anche di più di "mademoiselle"
    Bourienne, del mutamento che era avvenuto in lei.  Dall'istante in cui
    aveva  veduto  quel caro volto amato,  una nuova forza di vita l'aveva
    invasa e ora la faceva agire e  parlare  indipendentemente  dalla  sua
    volontà.   Il  suo  viso,   da  quando  era  entrato  Rostòv,  si  era
    trasfigurato.  Come quando si accende a un tratto la luce  dentro  una
    lanterna  magica  dipinta e rabescata e sulle sue pareti appare in una
    inaspettata, sorprendente bellezza, il lavoro complesso,  artistico ed
    elegante,  che prima appariva rozzo, oscuro e privo di senso, così, di
    colpo,  si era mutato il viso della principessina.  Per la prima volta
    si  esteriorizzava in lei quel puro,  nobile lavorio spirituale di cui
    ella era vissuta sino allora.  Tutto il suo intimo travaglio,  la  sua
    insoddisfazione  di  sé,   le  sue  aspirazioni  verso  il  bene,   la
    sottomissione,  l'amore,  l'abnegazione,  tutto splendeva ora nei suoi
    occhi  radiosi,  nel  suo  fine sorriso,  in ogni tratto del suo volto
    dolcissimo.
    Rostòv vedeva tutto questo chiaramente,  come se gli fosse nota  tutta
    la  vita  di  lei.  Sentiva  che la creatura che gli stava dinanzi era
    diversa e migliore di quante altre ne aveva incontrate nella  vita  e,
    soprattutto, migliore di lui.
    La  conversazione fu molto semplice e insignificante.  Parlarono della
    guerra, involontariamente esagerando, come facevano tutti,  la propria
    tristezza per l'avvenimento,  parlarono del loro ultimo incontro  -  e
    a questo punto Nikolàj cercò di  cambiare  argomento    -    e  infine
    parlarono della buona moglie del governatore, dei parenti di Nikolàj e
    di quelli della principessina Màrija.
    La principessina Màrija non parlò mai del fratello, cercando, anzi, di
    cambiare discorso non appena la zia accennava ad Andréj.  Era evidente
    che essa poteva parlare delle sventure della Russia fingendo di essere
    afflitta, ma che del fratello, tanto vicino al suo cuore, non voleva e
    non poteva parlare così,  in modo superficiale.  Nikolàj lo notò come,
    in  genere,  notava,  con  una  sagacia  che  gli  era insolita,  ogni
    sfumatura  del  carattere  della  principessina   Màrija,   le   quali
    confermavano   la   sua   convinzione  che  essa  fosse  una  creatura
    assolutamente particolare e  veramente  straordinaria.  Nikolàj,  come
    accadeva  alla  principessina  Màrija,  arrossiva  e si turbava quando
    qualcuno gli parlava di lei e persino quando a lei pensava;  ma in sua
    presenza  si  sentiva  perfettamente  a  suo agio e non diceva ciò che
    aveva preparato,  ma ciò che al momento,  e sempre  a  proposito,  gli
    saliva alle labbra.
    Durante  la  sua breve visita,  facendo come si suole fare in tutte le
    case dove ci sono bambini, in un momento di silenzio,  Nikolàj ricorse
    al  figlioletto del principe Andréj,  accarezzandolo e chiedendogli se
    volesse diventare un ussaro.  Poi prese in braccio il bimbo e cominciò
    a farlo allegramente volteggiare,  e intanto guardava la principessina
    Màrija.  Lo sguardo di lei,  intenerito,  timido e felice,  seguiva il
    bimbo  diletto  tra  le  braccia dell'uomo amato.  Nikolàj notò quello
    sguardo e, quasi ne avesse compreso il significato, arrossì di piacere
    e con bonaria allegria prese a baciare il bambino.
    La principessina Màrija non andava a far visite a causa del  lutto,  e
    Nikolàj non ritenne conveniente frequentarne la casa; ma la moglie del
    governatore  continuava a darsi da fare per realizzare quel matrimonio
    e riferiva a Nikolàj ciò che di lusinghiero per  lui  aveva  detto  la
    principessina  Màrija,  e  viceversa,  e,  insistendo perché Rostòv si
    decidesse, combinò, a questo scopo,  un colloquio tra i due giovani in
    casa del vescovo, prima della Messa.
    Rostòv,  pur  avendo  detto  alla  moglie  del  governatore che non si
    sarebbe in alcun modo spiegato con la  principessina  Màrija,  promise
    tuttavia di andare.
    Come  a Tilsit Rostòv non si era permesso di dubitare se fosse un bene
    ciò che a tutti pareva buono,  anche ora,  dopo una breve  ma  sincera
    lotta tra il tentativo di costruire la propria vita secondo la propria
    ragione   e   una   docile  sottomissione  alle  circostanze,   scelse
    quest'ultimo partito e cedette a quel potere che (egli lo sentiva)  lo
    trascinava  irresistibilmente.  Sapeva  che,  dopo la promessa fatta a
    Sònja,  manifestare i  propri  sentimenti  alla  principessina  Màrija
    sarebbe  stato  ciò  che  egli  definiva  una  viltà;  sapeva  che non
    l'avrebbe mai commessa, ma sapeva anche (non lo sapeva,  ma lo sentiva
    nel  profondo dell'anima) che abbandonarsi ora alle circostanze e alle
    persone che lo guidavano,  non solo non avrebbe fatto nulla di male ma
    qualcosa di molto, molto importante, più importante di qualsiasi altro
    atto da lui compiuto sino a quel giorno nella sua vita.
    Dopo  l'incontro con la principessina Màrija sebbene,  apparentemente,
    la sua vita non fosse mutata,  tutti i piaceri di un tempo persero per
    lui  ogni  attrattiva,  ed egli spesso pensava alla fanciulla,  ma non
    come aveva pensato,  senza eccezione,  a tutte  le  signorine  da  lui
    incontrate  nel  gran  mondo,  non come in altri tempi aveva pensato a
    lungo e con entusiasmo a Sònja.  Ad ognuna di queste  signorine,  come
    quasi  tutti  i giovani onesti,  egli aveva pensato come ad una futura
    moglie,  collocandola nella sua immaginazione,  entro le  consuetudini
    della  vita  coniugale: la bianca veste da casa,  la moglie accanto al
    samovàr, la carrozza della sposina, i bimbi, "maman" e "papa",  i loro
    rapporti  reciproci  e  così  via;  e  queste  immagini del futuro gli
    procuravano piacere. Ma quando pensava alla principessina Màrija,  che
    volevano dargli in moglie,  egli non riusciva a immaginare nulla della
    sua futura vita coniugale con lei.  Se tentava  di  farlo,  tutto  gli
    risultava  deformato  e  falso.  E  si sentiva dominato da un senso di
    paura.


    CAPITOLO 7.

    La terribile notizia della battaglia di Borodinò, delle nostre perdite
    tra morti e feriti e l'ancora più terribile notizia dell'abbandono  di
    Mosca, giunsero a Voronèz verso la metà di settembre. La principessina
    Màrija,  che  aveva  appreso soltanto dai giornali che il fratello era
    stato ferito e che non aveva di lui alcuna  notizia,  si  preparava  a
    partire  per  fare ricerca di lui: così aveva sentito dire Nikolàj che
    non aveva più visto la fanciulla.
    Rostòv,  avuta notizia della battaglia di Borodinò e dell'abbandono di
    Mosca,  pur senza provare disperazione, collera, desiderio di vendetta
    o altri sentimenti del genere,  sentì che  a  Voronèz  tutto  gli  era
    venuto a noia e provava un senso di vergogna e di imbarazzo.  Tutte le
    conversazioni che  ascoltava  gli  parevano  false;  non  sapeva  come
    giudicare   gli  avvenimenti  e  si  rendeva  conto  che  soltanto  al
    reggimento avrebbe cominciato a veder chiaro  in  tutte  le  cose.  Si
    affrettava  a  completare  l'acquisto  dei  cavalli  e  spesso  andava
    ingiustamente in collera con il suo servitore  o  il  suo  maresciallo
    d'alloggio.
    Pochi  giorni  prima  della  partenza  di  Rostòv  fu  celebrata nella
    cattedrale una solenne funzione religiosa in occasione della  vittoria
    riportata dalle truppe russe,  e Nikolàj vi si recò.  Si fermò qualche
    passo dietro al governatore e,  con la gravità di chi e in servizio ma
    ha  il  pensiero  volto  alle cose più diverse,  assistette in piedi a
    tutta la funzione. Quando essa ebbe termine, la moglie del governatore
    gli si avvicinò.
    - Hai visto la principessina?  -  gli domandò,  accennando con il capo
    a una signora vestita di nero, che stava dietro il coro.
    Nikolàj  ravvisò  subito la principessina Màrija non tanto dal profilo
    che  spiccava  di  sotto  il  cappello,   quanto  da  quel  senso   di
    riservatezza,  di  timore  e  di  pietà  da cui fu subito colpito.  La
    principessina Màrija,  immersa evidentemente  nei  suoi  pensieri,  si
    stava facendo gli ultimi segni di croce prima di uscire dalla chiesa.
    Nikolàj  osservava  con  stupore il viso di lei.  Era sempre lo stesso
    viso che aveva veduto anche prima, con la stessa espressione di intimo
    lavorio  spirituale,   ma  adesso  c'era  su  quel  volto   una   luce
    assolutamente  diversa,  una  commovente espressione di tristezza,  di
    ansietà e di speranza.  Come  anche  precedentemente  era  accaduto  a
    Nikolàj in presenza di lei,  egli,  senza aspettare il consiglio della
    moglie del governatore di avvicinarlesi,  senza domandarsi se fosse  o
    no conveniente rivolgerle la parola lì,  nella chiesa, le si accostò e
    le disse che aveva saputo del suo  dolore  al  quale  partecipava  con
    tutto  il cuore.  Non appena ella ebbe udito la voce di lui,  una viva
    luce le si accese di colpo sul volto, illuminandolo insieme di gioia e
    di tristezza.
    - Lasciate che vi dica una  sola  cosa,  principessina    -    mormorò
    Rostòv.   -  Se il principe Andréj Alekséevic' non fosse più vivo,  la
    notizia sarebbe stata data dai giornali,  trattandosi di un comandante
    di reggimento.
    La  principessina  lo  guardava senza capire le sue parole,  ma felice
    dell'espressione di partecipe sofferenza che leggeva su quel volto.
    - E so da molti esempi che una ferita prodotta da  una  scheggia  (nel
    giornale è detta granata) o causa subito la morte o,  al contrario,  è
    molto leggera  -  continuò Nikolàj.  -  Bisogna sperare nel meglio,  e
    io sono certo...
    La principessina Màrija lo interruppe.
    -  Oh,  sarebbe terribile!   -  prese a dire e,  senza poter finire la
    frase per la commozione,  chinando  il  capo  con  un  gesto  grazioso
    (grazioso  come  tutto quello che ella faceva in presenza di lui),  lo
    salutò e, rivolgendogli un'occhiata riconoscente, seguì la zia.
    La sera di quel giorno,  Nikolàj non si recò a far visite e rimase  in
    casa  per  completare  alcuni  conti  con  i  mercanti che gli avevano
    venduto i cavalli.  Quando ebbe terminato il suo lavoro poiché era già
    tardi  per  andare  da qualche parte,  ma ancora presto per coricarsi,
    Nikolàj passeggiò solo,  su e giù  per  la  stanza  riflettendo  sulla
    propria vita, cosa che gli accadeva raramente di fare.
    La  principessina  Màrija  aveva  prodotto  su  di  lui  una gradevole
    impressione  già  a  Smolènsk.   Il  fatto  di  averla  incontrata  in
    condizioni  così  particolari  e il fatto che sua madre,  per un certo
    tempo, gli avesse indicato proprio la fanciulla come un ricco partito,
    avevano fatto sì che egli le rivolgesse una particolare attenzione.  A
    Voronèz,  durante la sua visita,  quell'impressione non solo era stata
    buona,  ma profonda.  Nikolàj era colpito da  quella  bellezza  morale
    tutta particolare,  che aveva notato nella principessina. Si preparava
    tuttavia a partire e non gli passava neppure per la mente  di  dolersi
    del fatto che, lasciando Voronèz perdeva ogni occasione di rivedere la
    fanciulla.  Ma  l'incontro  di quel giorno con la principessina Màrija
    (Nikolàj lo sentiva) gli era entrato nel cuore  più  profondamente  di
    quanto  avesse  previsto  e  più  profondamente  di  quello che per la
    propria tranquillità desiderasse. Quel viso pallido, triste, delicato,
    quello sguardo luminoso,  quei  gesti  calmi  e  pieni  di  grazia  e,
    soprattutto,  quella intensa e tenera tristezza soffusa nei lineamenti
    del viso di lei lo turbavano e chiedevano la sua simpatia.  Rostòv non
    poteva tollerare negli uomini l'espressione di un'alta vita spirituale
    (per  questo  non  aveva  simpatia  per il principe Andréj),  che egli
    definiva  con  disprezzo  filosofia   o   fantasticheria,   ma   nella
    principessina  Màrija,  proprio  da  quella  tristezza che rivelava la
    profondità di una  vita  spirituale,  ignota  a  Nikolàj,  si  sentiva
    irresistibilmente attratto.
    "Deve  essere  una  fanciulla straordinaria!  Un vero angelo,  ecco!",
    diceva a se stesso.  "Perché non sono libero?  Perché ho  avuto  tanta
    fretta  con  Sònja?".  E involontariamente faceva dei confronti tra le
    due donne... Nell'una la povertà, nell'altra la ricchezza di quei doni
    spirituali che  Nikolàj  non  possedeva  e  che  proprio  per  questo,
    apprezzava altamente.  Provò a immaginare che cosa sarebbe accaduto se
    fosse stato libero. Come avrebbe fatto la domanda di matrimonio e come
    lei sarebbe divenuta sua moglie?  No,  non riusciva a figurarselo.  Si
    sentiva invaso da un senso di pena,  e nessuna immagine precisa gli si
    formava nella mente. Già da un pezzo,  invece,  vedeva il quadro della
    sua vita futura con Sònja: tutto era semplice e chiaro, proprio perché
    egli  conosceva  bene Sònja;  ma non gli era possibile raffigurarsi il
    futuro con la principessina  Màrija  perché  non  la  capiva:  l'amava
    soltanto.  Le  sue fantasticherie su Sònja avevano in sé un non so che
    di allegro,  come di un gioco.  Pensare alla principessina Màrija  era
    sempre difficile e gli procurava un certo sgomento.
    "Come pregava!",  ricordò.  "Si vedeva che in quella preghiera metteva
    tutta la sua anima.  Sì,  quella è la preghiera che  può  smuovere  le
    montagne, e io sono certo che sarà esaudita. Perché non prego, io, per
    avere  ciò  di  cui  ho bisogno?  E di che cosa ho bisogno?  Di essere
    libero, di sciogliere il mio legame con Sònja. Essa diceva la verità",
    continuava  a  pensare,   ricordando  le  parole  della   moglie   del
    governatore:  "Se  la  sposassi  non  ne  nascerebbero  che  guai:  un
    pasticcio,  un tremendo pasticcio!  E un  dolore  per  "maman"...  gli
    affari...  un gran pasticcio,  insomma! E poi non l'amo. No, non l'amo
    come dovrei amarla.  Mio Dio!  liberami da questa terribile situazione
    senza uscita!",  si trovò improvvisamente a pregare. "Sì, la preghiera
    smuove le montagne,  ma bisogna aver fede e non pregare come  facevamo
    io  e  Natascia  quando  eravamo  bambini  e  chiedevamo  che  la neve
    diventasse zucchero,  e correvamo fuori in cortile a vedere se la neve
    si  fosse veramente trasformata in zucchero...  No,  ora non prego più
    per le sciocchezze",  concluse e,  mettendo in disparte  la  pipa,  si
    fermò  davanti  all'icona.  Commosso  dal  ricordo della principessina
    Màrija,  cominciò a pregare come da tanto tempo non faceva.  Aveva  le
    lacrime  agli  occhi  e nella gola,  quando entrò Lavruska che portava
    alcune carte.
    - Imbecille!  Perché entri senza essere chiamato?   -  gridò  Nikolàj,
    cambiando subito atteggiamento.
    - Da parte del governatore  -  rispose Lavruska con voce sonnacchiosa.
    -  E' arrivato il corriere con queste lettere per voi.
    - Bene, grazie. Va' pure!
    Nikolàj prese le due lettere.  Una era della madre,  l'altra di Sònja,
    le riconobbe dalla calligrafia.  Aprì per prima quella di  Sònja.  Non
    appena  ebbe  letto  qualche  riga,  impallidì  e  spalancò gli occhi,
    spaventato e gioioso a un tempo.
    - No, non è possibile!  -  esclamò ad alta voce.
    Incapace di star fermo,  si mise a passeggiare per la  stanza  con  la
    lettera in mano.  La scorse rapidamente, poi la rilesse una volta, due
    e,  dopo aver alzato le spalle e spalancato le braccia,  si  fermò  in
    mezzo alla stanza con la bocca aperta e gli occhi fissi.  La preghiera
    che aveva poco prima rivolto a  Dio,  con  la  certezza  che  Egli  lo
    ascoltasse,  era stata esaudita; ma Nikolàj ne era stupito come di una
    cosa straordinaria che non si sarebbe mai aspettata e come se, proprio
    la rapidità con cui era stata esaudita,  dimostrasse  che  non  doveva
    attribuire  il  fatto a quel Dio che egli aveva pregato,  ma a un caso
    straordinario.
    Quel nodo che gli era parso inestricabile e che legava la  libertà  di
    Rostòv,  era  sciolto da quella inattesa (pareva a Nikolàj) lettera di
    Sònja,  che nulla aveva  provocato.  La  fanciulla  gli  scriveva  che
    l'ultima sventurata circostanza, la perdita cioè di quasi tutti i beni
    dei Rostòv a Mosca, il desiderio più volte espresso dalla contessa che
    Nikolàj  sposasse  la  principessina  Bolkònskaja,  il  silenzio  e la
    freddezza di lui in quell'ultimo  periodo,  tutte  queste  cose  messe
    insieme  l'avevano  spinta a scioglierlo dalla sua promessa e a dargli
    piena libertà.
    "Mi riusciva troppo penoso pensare di poter essere causa di  dolore  e
    di disaccordo nella famiglia che mi ha beneficata", scriveva Sònja, "e
    il mio amore ha come unico scopo la felicità di coloro che amo; perciò
    vi  supplico,  Nicolas,  di  considerarvi  libero  e  di  pensare che,
    malgrado tutto, nessuno potrà amarvi quanto la vostra Sònja".
    Le lettere venivano entrambe dal monastero  di  Tròjtza.  L'altra  era
    della  contessa.  Nella  lettera  erano  descritti  gli  ultimi giorni
    trascorsi a Mosca,  la partenza,  l'incendio e la perdita di  tutti  i
    beni.  Tra  l'altro  la  contessa aggiungeva che il principe Andréj si
    trovava tra i feriti che viaggiavano con loro. Il suo stato era grave,
    ma ora il dottore diceva che vi era qualche speranza. Sònja e Natascia
    lo assistevano come infermiere.
    Il giorno successivo Nikolàj si recò dalla  principessina  Màrija  con
    quella lettera. Né Nikolàj, né la principessina dissero una parola sul
    significato  che  poteva  avere  la  frase: "Natascia lo assiste";  ma
    grazie a quella lettera,  Nikolàj entrò a  un  tratto  in  un'intimità
    quasi di parente con la principessina.
    Il  giorno  seguente Rostòv accompagnò la principessina a Jaroslàvl e,
    trascorsi alcuni altri giorni,  partì a sua volta per  raggiungere  il
    reggimento.


    CAPITOLO 8.

    La lettera di Sònja a Nikolàj, che realizzava la preghiera di lui, era
    stata  scritta  dal  monastero  di  Tròjtza.  Ecco  quali  circostanze
    l'avevano provocata.
    Il pensiero del matrimonio di  Nikolàj  con  una  fanciulla  ricca  si
    radicava  sempre  più  nella  vecchia  contessa.  Essa  sapeva  che il
    principale ostacolo al suo progetto era Sònja.  E la vita,  per Sònja,
    negli ultimi tempi e in particolar modo dopo la lettera di Nikolàj che
    descriveva  il suo incontro a Boguciàrovo con la principessina Màrija,
    era diventata penosissima. La contessa, infatti, non trascurava alcuna
    occasione per fare a Sònja allusioni crudeli e offensive.
    Alcuni giorni prima della partenza da Mosca,  sconvolta e  agitata  da
    tutto  ciò  che stava accadendo,  la contessa aveva mandato a chiamare
    Sònja e,  invece di farle rimproveri o rimostranze l'aveva supplicata,
    piangendo,  di  sacrificarsi,  rompendo  ogni  legame  con Nikolàj,  e
    ripagare così tutto il bene che le era stato fatto .
    - Non sarò tranquilla sino a  quando  non  avrò  avuto  da  te  questa
    promessa.
    Sònja,  singhiozzando  istericamente,  aveva risposto che era pronta a
    tutto,  che avrebbe fatto qualsiasi cosa,  ma non aveva  fatto  alcuna
    promessa  precisa;  in  cuor  suo  non  sapeva  decidersi a ciò che si
    esigeva da lei,  sacrificarsi  per  la  felicità  della  famiglia  che
    l'aveva  nutrita  ed  educata.  Sacrificarsi  per il bene altrui,  per
    Sònja,  era un'abitudine.  La sua  posizione  in  casa  era  tale  che
    soltanto  sulla  via  del  sacrificio  poteva  dimostrare le sue buone
    qualità, vi era abituata e amava sacrificarsi.  Sennonché,  prima,  in
    ogni   suo   atto   di   abnegazione   ella  sentiva  con  gioia  che,
    sacrificandosi,  si elevava agli occhi propri e altrui  e  si  rendeva
    sempre più degna di Nikolàj,  che essa amava sopra ogni cosa al mondo;
    ma ora il suo sacrificio doveva consistere nel  rinunziare  proprio  a
    ciò  che  costituiva per lei il compenso di ogni sacrifizio,  il senso
    stesso di tutta la sua vita. Per la prima volta provò rancore verso le
    persone che l'avevano beneficata,  per tormentarla più  dolorosamente;
    invidiò Natascia che non aveva mai provato nulla di simile, che non si
    era mai sacrificata per nessuno,  ma che costringeva gli altri a farlo
    per lei e che, nondimeno, era amata da tutti; per la prima volta Sònja
    aveva sentito che dal suo sereno,  puro amore per Nikolàj cominciava a
    crescere  un  sentimento appassionato,  più forte di ogni convenienza,
    più forte della virtù e della religione,  e la fanciulla,  dominata da
    tale sentimento, ammaestrata suo malgrado dalla sua vita di dipendenza
    dagli altri alla dissimulazione,  dopo aver risposto alla contessa con
    parole vagamente generiche, evitava ogni conversazione con lei, decisa
    ad  attendere  un  incontro  con  Nikolàj,   non  per  rendergli   con
    quell'incontro la libertà ma,  al contrario,  per legarsi per sempre a
    lui.
    La confusione e lo spavento degli ultimi giorni trascorsi a Mosca  dai
    Rostòv,  avevano  soffocato nell'animo di Sònja i cupi pensieri che la
    opprimevano.  Era contenta di  dedicarsi  a  un'attività  pratica  per
    liberarsi da quell'angoscia,  ma quando aveva saputo della presenza in
    casa Rostòv del principe Andréj, nonostante la sincera pietà che aveva
    provato per lui e per Natascia,  si era abbandonata alla superstiziosa
    speranza  che Iddio non volesse la sua rinunzia a Nikolàj.  Sapeva che
    Natascia amava soltanto il principe e che non  aveva  mai  cessato  di
    amarlo.  Sapeva che adesso, ritrovandosi in circostanze così tragiche,
    Natascia e il principe si  sarebbero  di  nuovo  amati  e  che  quindi
    Nikolàj, per il legame di parentela che ci sarebbe stato tra loro, non
    avrebbe  potuto sposare la principessina Màrija.  Malgrado l'orrore di
    tutto ciò che era avvenuto in quegli ultimi giorni e durante  i  primi
    giorni   del   viaggio,    questo   sentimento,   questa   convinzione
    dell'intervento della Provvidenza nelle sue vicende  personali,  aveva
    rallegrato Sònja.
    Al  monastero  di  Tròjtza,  i Rostòv avevano fatto la prima tappa del
    viaggio.
    Nella foresteria del convento i Rostòv occuparono tre  grandi  camere,
    una delle quali fu assegnata al principe Andréj. Quel giorno il ferito
    si sentiva molto meglio.  Natascia lo assisteva.  Nella stanza accanto
    erano il conte e la contessa che discorrevano rispettosamente  con  il
    superiore del monastero, venuto a visitare i suoi antichi conoscenti e
    benefattori.  Con loro c'era anche Sònja tormentata dalla curiosità di
    sapere ciò che si dicevano il principe Andréj  e  Natascia.  Udiva  il
    suono delle loro voci giungere dalla stanza attigua. L'uscio si aprì e
    dalla  camera  del principe uscì,  con espressione inquieta,  Natascia
    che,  senza badare al monaco che si era alzato per  andarle  incontro,
    facendo  l'atto  di  trattenere  con  la  mano  l'ampia manica del suo
    braccio destro, si avvicinò a Sònja e la prese per mano.
    - Natascia, che fai? Vieni qui  -  le disse la contessa.
    Natascia ricevette la benedizione del superiore del  convento  che  la
    consigliò di rivolgersi per aiuto a Dio e al suo santo protettore.
    Non appena il monaco fu uscito.  Natascia prese di nuovo la mano della
    sua amica e andò con lei in una stanza vuota.
    - Sònja, sì? Vivrà?   -  domandò.   -  Sònja,  se tu sapessi come sono
    felice  e infelice insieme!  Sònja cara,  tutto è di nuovo come prima.
    Purché egli viva!  Ma non può...  perché...  perché...-    e  Natascia
    scoppiò in pianto.
    - Sì, lo sapevo! Sia lodato Iddio!  -  esclamò Sònja.  -  Egli vivrà.
    Sònja  era  emozionata  non  meno della sua amica,  per il timore e il
    dolore di lei e per i suoi propri pensieri che non aveva  confidato  a
    nessuno.  Singhiozzando  baciava  Natascia  e  cercava di confortarla.
    "Purché egli viva!",  pensava.  Dopo aver pianto e parlato insieme  ed
    essersi asciugate le lacrime,  le due amiche si avvicinarono all'uscio
    della camera del principe Andréj. Natascia, apertolo cautamente, diede
    un'occhiata nella  stanza.  Sònja  le  stava  accanto  presso  l'uscio
    semiaperto. Il principe Andréj giaceva adagiato su tre cuscini. Il suo
    viso pallido era calmo, gli occhi erano chiusi e il respiro regolare.
    - Ah, Natascia!  -  esclamò Sònja a un tratto, gridando, prendendo per
    mano l'amica e ritraendosi dall'uscio.
    - Che c'è? Che c'è?  -  domandò Natascia.
    - E' che... sì, proprio così...  -  rispose Sònja, con il viso pallido
    e le labbra tremanti.
    Natascia  chiuse  pian  piano  l'uscio e si ritirò con Sònja presso la
    finestra, senza riuscire a capire che cosa la cugina le volesse dire.
    - Ti ricordi  -  diceva Sònja con una faccia sgomenta e solenne;-   ti
    ricordi  quando  guardai nello specchio in vece tua...  là a Otràdnoe,
    nei giorni dopo Natale... Ti ricordi che cosa ho veduto?
    - Sì,  sì!   -  esclamò Natascia,  spalancando gli occhi e  ricordando
    vagamente  che  allora Sònja aveva detto qualcosa del principe Andréj,
    che ella aveva visto coricato.
    - Ti ricordi?   -  continuava Sònja.   -  Lo vidi allora e lo dissi  a
    tutti,  a  te,  a  Dunjascia...  Lo  vidi sdraiato sul letto - diceva,
    facendo un gesto con il dito alzato a ogni particolare -  e aveva  gli
    occhi  chiusi,  era  coperto  da  una  coperta  rosa  e teneva le mani
    incrociate  -   diceva  Sònja,  convinta  a  misura  che  enumerava  i
    particolari  appena  visti,  che  si  trattasse degli stessi che aveva
    veduto quel giorno.
    Allora Sònja non aveva veduto nulla, ma aveva raccontato di aver visto
    ciò che le era passato per la mente;  ma quello  che  aveva  inventato
    allora  le  appariva adesso altrettanto vero e reale come un qualunque
    altro ricordo.  Quello che aveva  detto  allora  -  che  egli  l'aveva
    guardata,  aveva  sorriso,  ed  era coperto da un drappo rosso  -  non
    solo era per lei un ricordo,  ma era perfettamente  convinta  che  già
    allora  aveva detto di averlo veduto avvolto in una coperta rosa e con
    gli occhi chiusi.
    - Sì, sì, proprio rosa  -  disse Natascia, alla quale pareva adesso di
    ricordare che era stato detto rosa e,  proprio in questo  particolare,
    vedeva il più importante e misterioso aspetto della predizione.
    - Ma che significa tutto questo?  -  domandò Natascia, pensierosa.
    -  Oh,  non  lo  so!  Ma  come  tutto  è  strano!    -  esclamò Sònja,
    afferrandosi la testa con le mani.
    Qualche minuto dopo, il principe Andréj suonò il campanello;  Natascia
    ando da lui e Sònja, presa da una commozione e da una agitazione quali
    non aveva mai provato,  rimase accanto alla finestra, riflettendo alla
    stranezza dell'accaduto.

    Quel giorno si presentò un'occasione per mandare lettere all'esercito,
    e la contessa scrisse al figlio.
    - Sònja  -  disse, sollevando la testa dal foglio, mentre la nipote le
    passava vicino.   -  Sònja,  non scriverai anche tu a  Nikòlenka?    -
    domandò con voce tremante.
    Nello  sguardo  di quegli occhi stanchi che la fissavano attraverso le
    lenti,  Sònja lesse tutto ciò che la  contessa  intendeva  con  quelle
    parole.  Quello  sguardo  esprimeva  la  preghiera,  il  timore  di un
    rifiuto,  la vergogna di supplicare e un odio invincibile,  pronto  ad
    esplodere, in caso di rifiuto...
    Sònja si avvicinò alla contessa e,  inginocchiatasi dinanzi a lei,  le
    baciò la mano.
    - Scriverò, "maman"  -  disse.
    Sònja era commossa, intenerita e agitata per tutto quanto era avvenuto
    in quel giorno e in special modo per il misterioso avverarsi della sua
    predizione che aveva poco  prima  veduto.  Ora,  sapendo  che  per  la
    ripresa  dei  legami  tra  Natascia e il principe Andréj,  Nikolàj non
    poteva  sposare  la  principessina  Màrija,  ella  sentiva  con  gioia
    ritornare  in  sé  quella  disposizione al sacrifizio che essa amava e
    nella quale le piaceva vivere. Con il pianto alla gola e negli occhi e
    con la gioiosa consapevolezza  di  compiere  un  atto  generoso  essa,
    interrompendosi spesso per le lacrime che le velavano gli occhi neri e
    vellutati,   scrisse  quella  commovente  lettera  che  Nikolàj  aveva
    ricevuto e letto con stupore.


    CAPITOLO 9.

    Al corpo di guardia,  dove Pierre era stato condotto,  l'ufficiale e i
    soldati  che  lo  avevano  preso,   lo  trattavano  con  ostilità  non
    disgiunta, però, da un certo rispetto.  Si avvertiva nei loro rapporti
    con il prigioniero, sia l'incertezza sul suo vero essere (poteva anche
    trattarsi  di  una  persona molto importante) sia l'ostilità provocata
    dalla recente lotta a corpo a corpo con lui.
    Ma la mattina seguente,  quando fu cambiata la guardia,  Pierre  sentì
    che  per  il  nuovo  ufficiale  e  i  nuovi soldati egli non aveva più
    l'importanza che aveva avuto per  coloro  che  lo  avevano  catturato.
    Infatti,  in quell'uomo grande e grosso in caffettano da contadino, le
    sentinelle del secondo giorno non vedevano colui che  si  era  battuto
    disperatamente con il predone e con i soldati di pattuglia e che aveva
    pronunziato  una  frase  solenne  sul  salvataggio di una bambina,  ma
    semplicemente il diciassettesimo  russo  arrestato  e  trattenuto  per
    chissà quale motivo,  per ordine dell'autorità superiore. Se vi era in
    Pierre  qualcosa  di  particolare,   questo  qualcosa  era  costituito
    soltanto dalla sua aria per nulla intimorita,  pensosa e concentrata e
    la lingua francese in cui,  con gran meraviglia dei soldati,  egli  si
    esprimeva  benissimo.  Tuttavia,  in quello stesso giorno,  egli venne
    unito ad altre persone arrestate perché sospette,  giacché  la  stanza
    separata, che gli era stata assegnata, serviva ora a un ufficiale.
    Tutti  i  Russi detenuti con Pierre erano di umile condizione e tutti,
    riconoscendo in lui un signore, gli stavano lontani,  tanto più perché
    egli  parlava francese.  Pierre ascoltava con tristezza i loro scherni
    sulla sua persona.
    La sera del secondo giorno,  Pierre  venne  a  sapere  che  tutti  gli
    arrestati  (e  probabilmente anche lui) dovevano essere giudicati come
    incendiari.  Il terzo giorno,  infatti,  Pierre  e  gli  altri  furono
    condotti  in una casa dove si trovavano un generale francese dai baffi
    bianchi, due colonnelli e altri ufficiali con la sciarpa al braccio. A
    Pierre, come agli altri, con quella precisione minuziosa ed eccessiva,
    apparentemente al di sopra delle debolezze umane  con  cui  i  giudici
    interrogano di solito gli accusati, furono rivolte alcune domande: chi
    era? dove si trovava? per quale ragione? eccetera eccetera.
    Quelle  domande,  lasciando  da  parte la sostanza vitale del fatto ed
    escludendo la possibilità di scoprirla,  come tutte le domande che  si
    fanno nei tribunali, avevano come unico scopo la posa di quel condotto
    lungo  il  quale  i  giudici  desideravano che scorressero le risposte
    dell'imputato,  conducendolo alla  conclusione  desiderata,  ossia  al
    riconoscimento  della  sua colpa.  Non appena Pierre cominciava a dire
    qualcosa che non  soddisfaceva  ai  fini  dell'accusa,  ritiravano  il
    piccolo  condotto  e l'acqua scorreva dove le piaceva.  Inoltre Pierre
    sperimentò ciò che ogni imputato sperimenta  in  qualsiasi  tribunale:
    l'incertezza  sul  motivo  per  cui gli facevano tutte quelle domande.
    Sentiva che,  soltanto per indulgenza e  quasi  per  cortesia,  veniva
    usata  l'astuzia  del  piccolo  condotto;  sapeva  di essere in mano a
    quella gente, che solo la forza lo aveva portato lì, che solo la forza
    dava loro il diritto di esigere che egli rispondesse alle loro domande
    e che l'unico scopo di quella riunione  era  di  accusarlo.  E  poiché
    c'era  la forza e c'era il desiderio di accusarlo,  non era necessaria
    l'astuzia delle domande e del giudizio.  Era evidente che tutte le sue
    risposte  dovevano  portarlo  a  dimostrare la sua colpevolezza.  Alla
    domanda che cosa facesse quando era stato preso,  Pierre  rispose  con
    un'aria piuttosto tragica che stava portando ai genitori la loro bimba
    "qu'il  avait  sauvée  des flammes" [40.  che egli aveva salvato dalle
    fiamme].  Perché si era azzuffato con il predone?  Pierre  spiegò  che
    aveva difeso una donna,  che il difendere una donna offesa è dovere di
    ogni uomo,  che...  Lo interruppero: questo non aveva nulla a che fare
    con la domanda.  Perché si trovava nel cortile di una casa incendiata,
    dove lo avevano visto i testimoni?  Rispose che andava  a  vedere  che
    cosa  stava  succedendo  a  Mosca.  Lo interruppero di nuovo.  Non gli
    avevano  chiesto  dove  andasse,  ma  perché  si  trovasse  sul  luogo
    dell'incendio.  Chi  era?  Gli  rifecero la prima domanda,  alla quale
    dichiarò di non voler rispondere. E ripeté che non poteva farlo.
    - Male,  malissimo!  Mettetelo a verbale   -    disse  severamente  il
    generale dai baffi bianchi e dal bel viso colorito.
    Al  quarto giorno cominciarono gli incendi dalla parte del bastione di
    Zubov.
    Pierre e altri tredici detenuti furono condotti al quartiere  Krimskij
    Brod  e  rinchiuso  nella  rimessa  delle  carrozze  della  casa di un
    mercante.  Durante il tragitto,  Pierre si sentì più volte mancare  il
    respiro  a  causa  del fumo che,  a quanto pareva,  aveva invaso ormai
    tutta la città.  Si vedevano incendi da ogni parte.  Pierre non capiva
    ancora  il significato dell'incendio di Mosca e guardava con orrore la
    città in fiamme.
    Nella rimessa di quella casa di Krimskij Brod,  Pierre trascorse altri
    quattro  giorni,  durante  i  quali,  ascoltando  le conversazioni dei
    soldati francesi,  venne a sapere che,  per tutti  i  cittadini  russi
    detenuti  in  quel  luogo,  si  aspettava  da  un  giorno all'altro la
    decisione del maresciallo.  Di quale maresciallo si trattasse,  Pierre
    non  riuscì  tuttavia  a  sapere.  Per un soldato,  evidentemente,  un
    maresciallo rappresentava l'anello più alto e un  po'  misterioso  del
    potere.
    Quei primi giorni,  sino all'8 settembre,  giorno in cui i prigionieri
    subirono un altro interrogatorio, furono per Pierre i più penosi.


    CAPITOLO 10.

    L'8 settembre entrò nella rimessa dei prigionieri un ufficiale che,  a
    giudicare  dal  rispetto  che  gli dimostravano le sentinelle,  doveva
    essere   molto   importante.   Quell'ufficiale,    che   probabilmente
    apparteneva  allo  stato  maggiore,  tenendo  in mano un foglio,  fece
    l'appello di tutti i russi,  chiamando Pierre "celui qui  n'avoue  pas
    son nom" [41. colui che non dice il suo nome]. Poi, dopo aver guardato
    con  dolente  indifferenza  i  prigionieri,  ordinò  all'ufficiale  di
    guardia di farli vestire e ripulire convenientemente prima di condurli
    dal maresciallo.  Un'ora dopo giunse  una  compagnia  di  soldati  che
    condusse  Pierre  con  altri  tredici a Dévice-Pole.  Era una giornata
    serena e soleggiata;  dopo la pioggia,  l'aria era  straordinariamente
    limpida.  Il fumo non stagnava basso come nel giorno in cui Pierre era
    stato fatto uscire dal corpo di  guardia  sul  bastione  Zubov  ma  si
    alzava a colonne nell'aria pura. Non si vedevano fuochi di incendi, ma
    da  tutte  le parti si levavano colonne di fumo e tutto ciò che Pierre
    poteva vedere di Mosca era  un  unico,  immane  braciere.  Ovunque  si
    scorgevano  spiazzi  deserti con le stufe e i fumaiuoli intatti e,  di
    tanto in tanto,  i  muri  affumicati  delle  case  di  pietra.  Pierre
    osservava  attentamente  quei bracieri senza riuscire a identificare i
    noti quartieri della  città.  A  tratti  si  scorgeva  qualche  chiesa
    rimasta in piedi. Il Cremlino, illeso, biancheggiava di lontano con le
    sue  torri  e con il tempio di Ivàn il Grande.  Più vicina,  splendeva
    festosa la cupola del monastero di Novodèvice,  di  dove  giungeva  un
    sonoro  scampanio.  Esso  ricordò a Pierre che era domenica e la festa
    della Natività della Vergine.  Ma pareva che non ci fosse nessuno  che
    potesse  festeggiare  quella festività: ovunque rovina e desolazione e
    solo di tanto in tanto s'incontravano dei popolani  russi  cenciosi  e
    spaventati, che si nascondevano non appena scorgevano i Francesi.
    Si  capiva  che  il  nido  russo era distrutto e devastato;  ma Pierre
    inconsapevolmente sentiva che di là  dall'organizzazione  russa  della
    vita,  sopra  quel  nido  devastato,  già si era stabilita,  del tutto
    diversa ma salda,  l'organizzazione francese della vita.  Lo avvertiva
    nell'aspetto allegro e baldanzoso dei soldati che, in file serrate, lo
    scortavano con gli altri prigionieri;  lo avvertiva nell'aspetto di un
    alto funzionario francese che gli  veniva  incontro  su  una  carrozza
    tirata  da  una  pariglia e guidata da un soldato;  lo avvertiva nelle
    festose note della banda di un reggimento che gli giungevano dal  lato
    sinistro della piazza e, in modo speciale, lo avvertiva e lo capiva da
    quella lista di nomi, letta quella mattina dall'ufficiale francese che
    faceva  l'appello  dei  prigionieri.  Pierre era stato preso da alcuni
    soldati e condotto prima in un luogo,  poi in un altro con diecine  di
    altre  persone;  pareva che lo si potesse dimenticare e confondere con
    gli altri compagni di prigionia.  E invece no: le risposte da lui date
    durante  l'interrogatorio  gli erano tornate con l'appellativo: "celui
    qui n'avoue pas son  nom".  E  sotto  questa  denominazione,  che  gli
    ispirava  terrore,  lo conducevano adesso chissà dove,  con l'assoluta
    certezza,  che si leggeva sulle loro facce,  che lui e tutti gli altri
    prigionieri  erano  proprio  quelli  di  cui avevano bisogno e che ora
    venivano portati là dove era necessario. Pierre si sentiva una piccola
    scheggia caduta  nell'ingranaggio  di  una  macchina  incosciente,  ma
    funzionante in modo regolarissimo.
    Pierre  e  gli  altri  prigionieri furono condotti sul lato destro del
    Dévice-Pole, non lontano dal monastero,  verso una grande casa bianca,
    circondata da un grande giardino.  Era la casa del principe Scerbatov,
    che Pierre aveva conosciuto e frequentato in passato e dove ora,  come
    venne  a  sapere  dalle  conversazioni dei soldati,  era alloggiato il
    maresciallo, duca di Eckmühl.
    I prigionieri furono condotti davanti alla scalinata e ad uno  ad  uno
    introdotti  nella casa.  Pierre fu il sesto.  Attraverso la galleria a
    vetri,  il vestibolo e l'anticamera,  che  gli  erano  noti,  egli  fu
    introdotto in una lunga e bassa stanza da studio,  presso il cui uscio
    stava ritto l'aiutante di campo.
    Davoust sedeva in fondo alla stanza,  davanti a  un  tavolo,  con  gli
    occhiali inforcati sul naso. Pierre gli si fece molto vicino. Davoust,
    senza  alzare gli occhi,  era evidentemente molto intento ad esaminare
    un foglio che gli stava spiegato davanti.  Sempre con gli occhi chini,
    domandò a bassa voce:
    - "Qui êtes-vous?" [42. Chi siete?]
    Pierre taceva perché non aveva la forza di parlare.  Per lui,  Davoust
    non era semplicemente un generale francese,  ma un uomo famoso per  la
    sua crudeltà.  Guardando il viso gelido di Davoust che, come un severo
    maestro, consentiva a pazientare per un certo tempo e ad aspettare una
    risposta, Pierre sentiva che ogni secondo di silenzio poteva costargli
    la vita,  ma non sapeva che cosa dire.  Non si decideva a ripetere ciò
    che  aveva  detto  durante  il  primo interrogatorio;  rivelare la sua
    identità e la sua posizione sociale  era  pericoloso  e  anche  se  ne
    vergognava.  Quindi  tacque.  Ma  prima  che  avesse avuto il tempo di
    prendere una decisione,  Davoust alzò il capo,  sollevò  gli  occhiali
    sulla fronte strinse gli occhi e lo guardò fisso.
    -  Io  conosco  quest'uomo    -  disse con una voce misurata e fredda,
    evidentemente calcolata per spaventare Pierre.  Il brivido di gelo che
    già correva per la schiena di Pierre gli attanagliò la testa, come una
    morsa.
    - "Mon général,  vous ne pouvez pas me connaître, je ne vous ai jamais
    vu..." [43.  Generale!  Voi non potete conoscermi: io non  vi  ho  mai
    visto...].
    -  "C'est  un espion russe" [44.  E' una spia russa]  -  lo interruppe
    Davoust,  rivolgendosi a un altro generale che si trovava nella stanza
    e di cui Pierre non si era accorto. E Davoust si voltò.
    Con un inatteso scoppio di voce, Pierre prese a parlare rapidamente.
    -  "Non,  Monseigneur"    -    disse,  ricordandosi all'improvviso che
    Davoust era duca.   -   "Non,  Monseigneur,  vous  n'avez  pas  pu  me
    connaître.  Je  suis  un  officier militionnaire et je n'ai pas quitté
    Moscou" [45. No, mio signore,  voi non potete avermi conosciuto.  Sono
    un ufficiale della riserva e non ho mai lasciato Mosca].
    - "Votre nom?" [46. Il vostro nome?]  -  ripeté Davoust.
    - "Besouhof".
    -  "Qu'est-ce  qui  me  prouvera que vous ne mentez pas?" [47.  Chi mi
    proverà che voi non mentite?].
    -  "Monseigneur!"    -    esclamò  Pierre  con  voce  non  offesa,  ma
    implorante.
    Davoust  sollevò  gli  occhi  e  fissò Pierre.  Per qualche secondo si
    guardarono così l'un l'altro, e fu quello sguardo che salvò Pierre. In
    quello sguardo,  al di fuori di tutte le condizioni della guerra e del
    processo,  si  stabilì tra quei due esseri un rapporto umano.  Tutti e
    due, in quel momento, sentirono vagamente, inconsciamente una quantità
    di cose e compresero che l'uno e l'altro erano figli del genere umano,
    che erano fratelli.
    Per Davoust,  prima di aver sollevato il capo dalle carte nelle  quali
    le  azioni  e le vite umane erano classificate con dei numeri,  Pierre
    era stato soltanto una circostanza qualsiasi;  e  Davoust  lo  avrebbe
    fatto  fucilare  senza scrupoli;  ora,  invece,  egli vedeva in lui un
    uomo. Rimase pensieroso un momento.
    - "Comment me prouverez-vous la vérité de ce que vous me dites?"  [48.
    In  che  modo mi proverete la verità di quello che mi dite?]-  domandò
    Davoust, freddamente.
    Pierre si ricordò di Ramballe,  ne indicò il reggimento,  il cognome e
    la via in cui si trovava la casa.
    -  "Vous n'êtes pas ce que vous dites" [49.  Voi non siete chi dite di
    essere]  -   ripeté Davoust.
    Pierre con voce tremante e rotta cominciò a  esporre  le  prove  della
    verità di quanto affermava.
    Ma  in  quel  momento  entrò  un aiutante di campo e riferì qualcosa a
    Davoust. Questi sembrò rallegrarsi alla notizia ricevuta e cominciò ad
    abbottonarsi la giubba.  Pareva si fosse dimenticato completamente  di
    Pierre.
    Quando  l'aiutante  di  campo gli ricordò il prigioniero,  aggrottò le
    sopracciglia,  scosse il capo guardando  Pierre  e  ordinò  che  fosse
    condotto  via.  Ma  dove lo avrebbero condotto?  Pierre non lo sapeva.
    Ancora alla prigione o al luogo delle esecuzioni che i  suoi  compagni
    gli  avevano  indicato  nell'attraversare  con lui il campo di Dévice-
    Pole?
    Volse il capo e vide che l'aiutante di  campo  domandava  qualcosa  al
    maresciallo.
    - "Oui,  sans doute!" [50.  Sì,  senza dubbio]  -  rispose Davoust, ma
    che cosa significasse quel "sì" Pierre non sapeva.
    Egli non ricordò mai come,  per quanto  tempo  e  in  quale  direzione
    avesse camminato.  Nello stato di completa incoscienza e di torpore in
    cui si trovava, senza nulla vedere attorno a sé, mosse i piedi con gli
    altri sino a che tutti si fermarono e anch'egli si fermò.
    Un solo pensiero aveva  dominato  la  mente  di  Pierre  durante  quel
    tragitto:  chi,  chi mai,  insomma,  lo condannava a morte?  Non certo
    coloro  che  lo  avevano  interrogato:  nessuno  di  essi  voleva   e,
    evidentemente,  poteva  farlo.  Non  era  neppure  Davoust che l'aveva
    guardato in modo tanto  umano.  Un  solo  minuto  sarebbe  bastato,  e
    Davoust  avrebbe  capito l'errore che stavano per commettere,  ma quel
    minuto era mancato per l'ingresso  nello  studio  dell'aiutante.  Chi,
    dunque,  condannava,  uccideva,  privava della vita lui,  Pierre,  con
    tutti i suoi ricordi,  le sue aspirazioni,  le sue  speranze,  i  suoi
    pensieri? Chi faceva questo? E Pierre sentiva che non era nessuno.
    Era l'organizzazione, un concorrere di circostanze. Un certo ordine di
    cose uccideva lui, Pierre, lo privava della vita, lo privava di tutto,
    lo annientava.
    Dalla  casa  del  principe  Scerbatov,  i prigionieri furono condotti,
    attraverso il Dévice-Pole, a sinistra del monastero,  in un luogo dove
    era  infisso  un  Palo.  Dietro  il  palo  si  apriva  una larga buca,
    circondata dalla terra scavata di fresco,  e attorno al  palo  e  alla
    buca  si  accalcava  in  semicerchio  una  gran folla di gente,  folla
    composta  di  pochi  russi  e  di  molti  soldati  di  Napoleone,  non
    inquadrati: Tedeschi,  Italiani e Francesi in divise diverse. A destra
    e a sinistra del palo erano  allineati  alcuni  soldati  francesi,  in
    uniforme turchina, con le spalline rosse, le uose e il chepì.
    I  condannati  furono disposti in un certo ordine indicato nella lista
    (Pierre era il sesto) e condotti accanto al palo.  A un tratto  alcuni
    tamburi  rullarono  da due parti diverse,  e Pierre sentì che con quel
    suono gli si lacerava una parte dell'anima.  Perdette la  capacità  di
    pensare  e di riflettere.  Era soltanto in grado di vedere e udire,  e
    aveva un solo desiderio: quello che fosse compiuta al  più  presto  la
    cosa terribile che doveva accadere. E intanto guardava i suoi compagni
    e li osservava.
    I due uomini,  all'estremità della fila,  erano due ergastolani con la
    testa rasata; uno era alto e magro, l'altro nero,  peloso,  muscoloso,
    con  il  naso  camuso.  Il terzo era un servitore,  sui quarantacinque
    anni,  dai capelli brizzolati,  grasso e ben pasciuto;  il  quarto  un
    contadino, bellissimo, dalla barba folta e bionda e gli occhi neri. Il
    quinto  era  un operaio,  giovane,  giallognolo e magro,  sui diciotto
    anni, in camiciotto da lavoro.
    Pierre udì che i Francesi si consultavano sul modo di fucilarli: uno o
    due per volta?
    - Due per volta  -  rispose con gelida calma l'ufficiale più anziano.
    Ci fu uno spostamento nelle file dei soldati e si  poteva  notare  che
    tutti  si affrettavano,  e si affrettavano non come ci si affretta per
    compiere un atto compreso da tutti,  bensì come  ci  si  affretta  per
    porre fine a un lavoro sgradevole e incomprensibile, ma inevitabile.
    Un funzionario francese,  con la sciarpa a tracolla,  si pose a destra
    della fila dei condannati e lesse la sentenza in russo e in francese.
    Poi due coppie di soldati francesi avanzarono verso  i  condannati  e,
    secondo un ordine dell'ufficiale, presero i due forzati, i primi della
    fila.  Fattili  avvicinare  al palo,  si fermarono e,  mentre venivano
    preparati i sacchetti,  i due si guardarono attorno in silenzio,  come
    la  belva guarda il cacciatore che l'assale.  Uno si faceva senza posa
    segni di croce,  l'altro si grattava la schiena,  e le sue  labbra  si
    contraevano in una specie di sorriso. I soldati, con gesti frettolosi,
    bendarono  loro gli occhi,  li coprirono con i sacchetti e li legarono
    al palo.
    Dodici fucilieri uscirono dalle file a passo regolare e deciso,  e  si
    fermarono  a  otto  passi  di  distanza  dal  palo.  Pierre  si  voltò
    dall'altra parte per non vedere ciò  che  stava  per  accadere.  A  un
    tratto,  si udì un crepitio seguito da uno schianto che parve a Pierre
    il più terribile scoppio di tuono che avesse mai udito.  E guardò.  In
    mezzo al fumo,  i soldati francesi, pallidi e con le mani tremanti, si
    affaccendavano  presso  la  buca.  Furono  fatti  avanzare  altri  due
    prigionieri.  Con  lo  stesso  sguardo,  allo stesso modo anche questi
    fissarono i presenti e invano chiedevano aiuto con  gli  occhi,  senza
    capire  e  senza credere possibile ciò che stava per avvenire.  Non lo
    credevano possibile perché essi soli conoscevano quale  valore  avesse
    la  loro  vita,  e  perciò  non capivano e non potevano credere che si
    volesse privarli di quel bene.
    Pierre non voleva guardare e si voltò dall'altra parte;  ma una nuova,
    terribile  detonazione  colpì  le  sue  orecchie e nello stesso tempo,
    insieme con lo scoppio, vide di nuovo il fumo, altro sangue,  e i visi
    pallidi e spaventati dei soldati,  che ancora una volta urtandosi l'un
    l'altro, si affaccendavano con mani tremanti accanto al palo.  Pierre,
    respirando  penosamente,  si  guardava attorno come per domandare: "ma
    che succede?".  La stessa domanda era in  tutti  gli  sguardi  che  si
    incontravano con lo sguardo di lui.
    Sui  visi  della  gente russa,  sui visi dei soldati e degli ufficiali
    francesi, sui visi di tutti,  senza eccezione,  egli leggeva lo stesso
    spavento,  lo  stesso  orrore,  la  stessa  lotta che agitavano il suo
    cuore.  "Ma chi è,  dunque,  che fa questo?  Chi?  Tutti soffrono come
    soffro  io.  Chi?  Chi  dunque?",  balenò  per un attimo nell'animo di
    Pierre.
    - "Tirailleurs du 86me, en avant!" [51. Fucilieri dell'ottantaseiesimo
    reggimento, avanti!]  -  gridò una voce.
    Fu condotto al palo il quinto prigioniero,  quello che stava accanto a
    Pierre,  solo.  Pierre  non  capì subito di essere salvo,  non si rese
    conto che lui e tutti gli altri erano stati condotti lì  soltanto  per
    farli  assistere all'esecuzione.  Con crescente orrore,  senza provare
    gioia,  senza tranquillizzarsi,  guardava ciò che accadeva.  Il quinto
    era  l'operaio  in  camiciotto.  Non appena si sentì toccare,  ebbe un
    sussulto di spavento e si aggrappò a  Pierre.  (Pierre  trasalì  e  si
    staccò  da  lui).  L'operaio  non  aveva  la  forza  di camminare.  Lo
    trascinarono,  sorreggendolo sotto le ascelle,  mentre  urlava  parole
    sconnesse. Quando fu vicino al palo, ammutolì, come se di colpo avesse
    capito qualcosa. Aveva forse capito che era inutile gridare? O credeva
    impossibile che lo uccidessero? Ma restò presso il palo aspettando che
    lo  legassero e guardandosi attorno con occhi lucenti,  come una belva
    ferita.
    Pierre non poté più voltarsi né chiudere gli  occhi.  La  curiosità  e
    l'agitazione  sua e di tutta la folla di fronte a quel quinto omicidio
    erano giunte all'estremo.  Come tutti gli  altri,  anche  quel  quinto
    sembrava  calmo: si teneva chiuso sul petto il camiciotto e fregava un
    piede nudo contro l'altro. Quando gli bendarono gli occhi, si aggiustò
    da sé sulla nuca il nodo che  lo  stringeva  troppo;  poi,  quando  lo
    addossarono al palo macchiato di sangue,  si tirò indietro;  ma poiché
    quella posizione gli riusciva scomoda,  si raddrizzò e,  tesi i piedi,
    vi  si appoggiò tranquillamente.  Pierre non gli toglieva gli occhi di
    dosso e non si lasciava sfuggire alcun particolare.
    Certo fu dato un comando e certo, dopo il comando,  dovette echeggiare
    il colpo degli otto fucili.  Ma Pierre, per quanto in seguito cercasse
    di ricordare,  non udì che  il  fragore  degli  spari.  Vide  soltanto
    l'operaio  afflosciarsi  improvvisamente  sulle corde,  vide il sangue
    apparire in due punti,  le corde allentarsi sotto il  peso  del  corpo
    penzoloni  e,  infine,  vide  l'uomo  sedersi  con la testa e le gambe
    piegate in modo anormale.  Pierre corse  verso  il  palo.  Nessuno  lo
    trattenne.   Attorno   all'operaio   si   movevano  uomini  pallidi  e
    spaventati. A un vecchio francese baffuto tremava la mascella,  mentre
    scioglieva  le  corde.  Il  corpo  scivolò a terra.  Alcuni soldati lo
    trascinarono frettolosamente dietro al palo e lo spinsero nella fossa.
    Tutti,  era evidente,  sapevano di essere dei malfattori  e  di  dover
    cancellare al più presto le tracce del loro delitto.
    Pierre  guardò  nella  fossa  e  vide  che l'operaio vi giaceva con le
    ginocchia sollevate quasi sino  alla  testa  e  una  spalla  più  alta
    dell'altra. Quella spalla si abbassava e si alzava ritmicamente con un
    moto convulso.  Ma già palate di terra cadevano su tutto il corpo.  Un
    soldato con voce irritata,  cattiva  e  dolente,  gridò  a  Pierre  di
    andarsene.  Ma  Pierre  non  capì,  rimase presso il palo e nessuno lo
    scacciò.
    Quando la fossa fu totalmente colma,  si udì  un  comando.  Pierre  fu
    ricondotto al suo posto,  e i soldati francesi, che erano schierati ai
    due lati del palo,  fecero mezzo giro e a  passo  cadenzato  sfilarono
    davanti al palo.  I ventiquattro fucilieri,  che con i fucili scarichi
    stavano in mezzo al cerchio,  raggiunsero di  corsa  i  propri  posti,
    mentre le compagnie passavano davanti a loro.
    Pierre  guardava  ora  con occhi inebetiti quei tiratori che,  a due a
    due, uscivano dal cerchio. Tutti, eccetto uno,  si riunirono alle loro
    compagnie.  Un giovane soldato,  dal viso mortalmente pallido,  con il
    chepì che gli era scivolato all'indietro e il  fucile  abbassato,  era
    ancora  ritto  dinanzi  alla fossa,  nel punto preciso dal quale aveva
    sparato.  Barcollava come un ubriaco facendo alcuni passi  ora  avanti
    ora  indietro  per  mantenere in equilibrio il suo corpo tremante.  Un
    vecchio sottufficiale uscì di corsa dalle file  e,  afferrato  per  le
    spalle  il  giovane  soldato,  lo trascinò verso la sua compagnia.  La
    folla  dei  Russi  e  dei  Francesi  cominciò  a  disperdersi.   Tutti
    camminavano in silenzio, a capo basso.
    - "Ca leur apprendra à incendier!" [52.  Così impareranno ad appiccare
    incendi!]  -  disse qualcuno in mezzo alla folla.
    Pierre si voltò a guardare chi aveva parlato e vide che era un soldato
    il quale,  evidentemente,  cercava di giustificare  quello  che  aveva
    fatto,   ma   senza   riuscirvi.   Senza   poter  terminare  la  frase
    incominciata, fece un gesto con la mano e si allontanò.


    CAPITOLO 12.

    Dopo l'esecuzione,  Pierre  fu  separato  dagli  altri  prigionieri  e
    lasciato solo in una piccola chiesa distrutta e profanata.
    Verso sera, il sottufficiale di guardia entrò con due soldati e spiegò
    a  Pierre  che  era  stato  graziato  e  destinato  alle  baracche dei
    prigionieri di guerra.  Senza capire ciò che gli si diceva,  Pierre si
    alzò e seguì i soldati.  Lo condussero a certe baracche, costruite per
    i prigionieri con travi, tavole e assicelle bruciacchiate, nella parte
    più alta del Dévice-Pole e lo fecero entrare in una di esse. Nel buio,
    una ventina di persone gli si fecero attorno. Pierre le guardava senza
    capire chi fossero,  perché si trovassero lì e che cosa  volessero  da
    lui.  Ascoltava  le loro parole,  ma non ne traeva alcuna conclusione,
    alcuna spiegazione: non ne  capiva  il  significato.  Rispondeva  alle
    domande  che gli facevano,  ma non badava a chi lo ascoltava e in qual
    modo fossero capite le sue parole.  Guardava le facce e le  figure,  e
    tutte gli parevano ugualmente assurde.
    Dal  momento  in  cui  Pierre aveva assistito a quell'orrendo massacro
    compiuto da alcuni uomini che non volevano commetterlo, gli pareva che
    nell'anima gli si fosse spezzata la molla che reggeva  e  dalla  quale
    dipendeva  tutta  la sua vita,  e che tutto ormai fosse crollato in un
    mucchio di assurdo sudiciume.  Per quanto  egli  non  se  ne  rendesse
    conto,  si  era  annullata  in  lui la fede nella pace del mondo,  nel
    genere umano,  nella sua anima e in Dio.  Qualcosa  di  simile  Pierre
    aveva già provato in passato,  non mai,  però, con tanta intensità. In
    passato, quando dubbi del genere si impossessavano di Pierre,  avevano
    sempre come origine la consapevolezza di una colpa, e nel più profondo
    dell'anima  egli  sentiva  che la salvezza da quella disperazione e da
    quei dubbi era in se stesso.  Ora,  invece,  sentiva che non  era  sua
    colpa  se  il  mondo era crollato ai suoi occhi e non ne erano rimaste
    che rovine prive di senso.  Sentiva che non era in suo potere  tornare
    alla fede nella vita.
    Attorno a lui,  nella baracca semibuia, c'erano degli uomini qualsiasi
    che  forse  trovavano  in  lui  qualcosa  di  molto  interessante.  Lo
    interrogarono,  gli raccontarono qualcosa, poi lo condussero altrove e
    infine egli si trovò in un  angolo  della  baracca,  accanto  a  certi
    uomini che s'interpellavano l'un l'altro da diverse parti e ridevano.
    -  Ed  ecco,  ragazzi  miei...  quello  stesso principe "il quale"...-
    diceva calcando la voce sulle parole "il quale" una  voce  nell'angolo
    opposto della baracca.
    Seduto  silenzioso  e  immobile sopra un mucchio di paglia addossato a
    una parete, Pierre ora apriva, ora chiudeva gli occhi. Ma,  non appena
    li  chiudeva,  rivedeva davanti a sé il viso dell'operaio,  spaventoso
    nella sua semplicità,  e le facce,  ancora più spaventose  nella  loro
    inquietudine,  dei  suoi involontari assassini.  Di nuovo riapriva gli
    occhi e, smarrito, guardava attorno a se nel buio.
    Gli sedeva accanto, tutto curvo, un uomo piccolino, della cui presenza
    Pierre si era accorto dapprima soltanto per il forte odore  di  sudore
    che emanava da lui a ogni movimento.  L'ometto,  nel buio,  si dava da
    fare attorno ai propri piedi e,  sebbene Pierre  non  gli  vedesse  il
    viso,  sentiva che quell'uomo lo fissava continuamente.  Aguzzando gli
    occhi nel buio, Pierre capì che l'ometto stava scalzandosi,  e il modo
    con cui lo faceva interessò Pierre.
    Sciolti i legacci che aveva attorno a un piede,  li arrotolò con cura,
    e subito si occupò dell'altro piede,  sempre guardando Pierre.  Mentre
    una mano appendeva la cordicella, l'altra già si accingeva a srotolare
    l'altro  piede.  Nello  stesso modo accurato,  con movimenti metodici,
    ampi e rapidi che si susseguivano senza interruzione,  l'uomo si tolse
    le calzature e le appese a certi ganci infissi nel muro, proprio sopra
    la  sua  testa;  poi  tirò  fuori  un  coltello,  tagliò qualche cosa,
    richiuse il  coltello,  lo  mise  sotto  il  capezzale  e,  adagiatosi
    comodamente sul suo giaciglio, abbracciò con ambo le mani le ginocchia
    e  fissò  lo  sguardo  su  Pierre.  Pierre  avvertiva un non so che di
    simpatico,  di tranquillizzante,  di semplice in quei gesti abili,  in
    quel  sistemarsi  comodamente  dell'uomo  nel  suo angoletto e persino
    nell'odore che emanava da lui,  e anch'egli lo guardava senza levargli
    gli occhi di dosso.
    - Avete visto molte miserie,  amico mio: si soffre un'ora,  si vive un
    secolo. E' così, mio caro! E noi viviamo qui, grazie a Dio,  senza che
    nessuno  ci  faccia  del  male.  Sono uomini anch'essi: ce ne sono dei
    buoni e dei cattivi  -  continuò e,  sempre  parlando,  con  un  agile
    movimento si piegò sulle ginocchia, si alzò e, tossendo, si spostò più
    in là.
    -  Eccolo  il bricconcello,  eccolo!   -  si levò dall'altra estremità
    della  baracca  la  stessa  voce  affettuosa.    -    E'  tornato,  il
    bricconcello,  si  è  ricordato...  Su,  su,  quieto  ora...   -  E il
    soldato, respingendo un cagnolino che gli saltellava attorno,  ritornò
    al  suo posto dove si sedette.  In mano aveva qualcosa,  avvolto in un
    cencio.
    - Ecco,  signore,  mangiate  -  disse a Pierre,  riprendendo  il  tono
    rispettoso  di prima,  svolgendo l'involto e porgendogli alcune patate
    lesse.  -  A pranzo c'è stata la zuppa. Ma le patate sono eccellenti!
    Pierre non aveva preso cibo in tutta  la  giornata,  e  l'odore  delle
    patate gli parve straordinariamente invitante.  Ringraziò il soldato e
    si mise a mangiare.
    - Be',  le mangi così?   -   disse  sorridendo  il  soldato,  e  prese
    anch'egli una patata.  -  Ecco come devi fare!  -  Tirò di nuovo fuori
    il coltellino a serramanico, tagliò sul palmo della mano una patata in
    due parti, la cosparse di sale preso dal cencio e la porse a Pierre.
    - Le patate sono ottime  -  ripeté.  -  Mangiatele così...
    Pierre  ebbe  l'impressione  di  non  avere mai assaggiato un cibo più
    appetitoso.
    -  No,   per  me  poco  importa...   Ma  perché  hanno  fucilato  quei
    disgraziati? L'ultimo non aveva ancora vent'anni!  -  disse Pierre.
    -  Sst...  sst...    -    fece  l'ometto.   -  Quanti peccati,  quanti
    peccati...  -  aggiunse in fretta e,  come se le parole fossero sempre
    pronte  nella  sua  bocca  e ne uscissero a caso,  proseguì: - Perché,
    signore, siete rimasto a Mosca?
    - Non pensavo che giungessero tanto presto.  Sono rimasto per caso   -
    rispose Pierre.
    - E come mai ti hanno preso, falchetto? Nella tua casa?
    -  No,  mi  ero  recato  a vedere un incendio e lì mi hanno preso e mi
    hanno processato come incendiario.
    - Dove si giudica, c'è sempre ingiustizia  -  dichiarò l'ometto.
    - E tu,  sei qui da molto tempo?    -    domandò  Pierre,  finendo  di
    masticare l'ultima patata.
    - Io? Mi hanno preso domenica scorsa a Mosca, all'ospedale.
    - Ma tu chi sei? Un soldato?
      -    Soldato del reggimento di Apsceròn.  Per poco non sono morto di
    febbre. Non ci dissero nulla.  Là nell'ospedale eravamo una ventina...
    Non si pensava neppure che...
    - Ed è triste, per te, stare qui?  -  domandò Pierre.
    - Come vuoi che non lo sia,  falchetto!  Mi chiamo Platòn,  di cognome
    Karataev    -    aggiunse,   evidentemente  per  facilitare   la   sua
    conversazione con Pierre.   -  I compagni mi chiamano anche Falchetto.
    Come non essere triste?  Mosca,  per le altre città è  la  madre!  Per
    forza si deve essere tristi al vedere queste cose!  Il verme mangia il
    cavolo,  però muore prima di averlo mangiato tutto.  Così  dicevano  i
    nostri vecchi  -  aggiunse in fretta.
    - Come, come hai detto?  -  domandò Pierre.
    -  Io?    -    replicò  Karataev.   -  Io dico,  non secondo la nostra
    ragione,  ma secondo la volontà di  Dio    -    rispose,  credendo  di
    ripetere  ciò  che  aveva  già  detto.  E  subito proseguì:  -  E voi,
    signore,  avete delle terre?  E una casa?  Dunque,  la vostra coppa  è
    colma! Avete anche la moglie? E i vostri genitori sono ancora vivi?  -
    domandò.
    E benché Pierre, così al buio, non vedesse nulla, sentiva tuttavia che
    le  labbra  del  soldato si piegavano in un sorriso pieno di tenerezza
    mentre gli faceva tutte quelle domande.  Si capiva che era  addolorato
    perché Pierre non aveva i genitori, soprattutto la madre.
    - La moglie per un consiglio,  la suocera per accogliervi,  ma non c'è
    nessuno al mondo più caro della madre!   -  disse.   -  E avete figli?
    -  continuò a domandare.  Alla risposta di Pierre che,  era chiaro, lo
    afflisse, si affrettò ad aggiungere:  -  Ma siete ancora giovane e, se
    Dio vorrà, i figli verranno. Purché si viva in buon accordo...
    - Oh,  adesso  mi  è  tutto  indifferente!    -    rispose  Pierre  di
    malavoglia.
    - E, caro il mio uomo  -  replicò Platòn.  -  Bisaccia e galera non si
    rifiutano!   -  E,  sedutosi più comodamente, tossì preparandosi a una
    lunga narrazione.  -  E così, amico mio caro;  io vivevo ancora a casa
    mia.  La  proprietà  dei  signori  era vasta,  avevamo molta terra,  i
    contadini stavano bene e nella nostra casa, grazie a Dio,  non mancava
    nulla.  Mio  padre  usciva  con  sei figli a falciare.  Vivevamo bene.
    Eravamo dei veri cristiani.  Ma ecco che...   -    e  Platòn  Karataev
    raccontò  una  lunga storia di come fosse andato a far legna nel bosco
    di un altro e fosse stato colto sul fatto da un  guardiano,  frustato,
    processato e mandato a fare il soldato.   -  Be' falchetto,  -  diceva
    con la voce che gli si mutava per il sorriso  -  credevamo  che  fosse
    una  sventura  e  invece  fu una gioia!  Se non fosse stato per il mio
    peccato,  sarebbe toccato a mio fratello.  E il  mio  fratello  minore
    aveva cinque bambini mentre io vedi,  lasciavo solo la moglie. Avevamo
    un figliuoletto,  ma Iddio ce lo prese prima che io  andassi  soldato.
    Tornato a casa in licenza,  ti dirò,  vedo che vivono meglio di prima.
    Il cortile è pieno di bestie,  le donne restano in casa,  due fratelli
    lavorano a salario.  Solo Michailo,  il minore,  sta in casa. Il babbo
    dice: "Per me tutti i figliuoli sono uguali: qualunque dito tu  morda,
    ti fa male. Se non avessero preso Platòn, sarebbe toccato a Michailo".
    Ci riunì tutti,  ci fece mettere davanti alle icone. "Michailo", dice,
    "vieni qui,  inchinati sino  a  terra  davanti  a  lui  e  tu,  donna,
    inchinati e voi,  nipotini, inchinatevi. Avete capito?", disse. Così è
    amico mio  caro.  Il  destino  va  in  cerca  di  una  testa.  Ma  noi
    giudichiamo  sempre:  questo  non  va bene,  questo è male.  La nostra
    felicità,  mio caro,  è come l'acqua nella rete del pescatore:  se  la
    tiri, è gonfia, e quando l'hai tirata su, non c'è più niente. Così è.
    E Platòn si rigirò sulla paglia.
    Dopo un po' si alzò.
    -  Magari  vuoi dormire,  eh?   -  domandò,  e cominciò a farsi rapidi
    segni di croce e insieme a parlare:
    - Signore Gesù Cristo, santi Nicola, Floro e Lauro! (53). Signore Gesù
    Cristo,  santi Nicola,  Floro  e  Lauro!  Signore  Gesù  Cristo,  abbi
    misericordia di noi e salvaci!   -  concluse, piegandosi sino a terra;
    poi si alzò, sospirò e sedette di nuovo sulla paglia.  -  Ecco,  così.
    Fammi  giacere,  o  Dio,  come  un  sasso,  e  fammi  alzare  come una
    focaccetta  -  disse, e si sdraiò coprendosi con il mantello.
    - Che preghiera hai recitato?  -  domandò Pierre.
    - Eh?   -  mormorò Platòn,  già mezzo addormentato.   -  Che  cosa  ho
    recitato? Ho pregato Dio. Forse tu non preghi?
    -  Sì,  anch'io  prego  -  rispose Pierre.   -  Ma ti ho sentito dire:
    Floro e Lauro. Che cosa significa?
    - Ma come?   -  rispose Platòn in fretta.   -  Sono i  protettori  dei
    cavalli.  Bisogna aver pietà anche delle bestie  -  proseguì Karataev.
    -  Ah,  il bricconcello si è voltato!  Ora  si  è  riscaldato,  questo
    figlio  di  cagna   -  disse,  tastando il cane ai suoi piedi.  Poi si
    voltò e si addormentò profondamente.
    Fuori, in lontananza, risonavano grida e pianti,  e attraverso i buchi
    della baracca si scorgeva il bagliore del fuoco.  Ma dentro la baracca
    regnavano il silenzio e l'oscurità.  Pierre,  disteso  al  suo  posto,
    rimase  a  lungo  con  gli occhi spalancati,  senza riuscire a prender
    sonno,  ascoltando il respiro regolare di Platòn,  coricato accanto  a
    lui, e sentiva che il mondo, poco prima distrutto, risorgeva ora nella
    sua anima con una bellezza nuova, su nuove, incrollabili basi.


    CAPITOLO 13.

    Nella  baracca  in  cui  avevano  condotto  Pierre  e  in  cui dovette
    trascorrere  quattro  settimane,   vi  erano  ventitré  soldati,   tre
    ufficiali e due funzionari.
    Più tardi,  Pierre vedeva tutti costoro come in una nebbia,  ma Platòn
    Karataev gli rimase nell'anima per sempre,  come il ricordo più caro e
    più  vivo,  come  la  personificazione di tutta la bontà e di tutta la
    franca semplicità del popolo russo.  Quando il giorno dopo,  all'alba,
    Pierre vide il suo vicino,  sentì la conferma, in modo assoluto, della
    prima impressione di un qualcosa  di  rotondo:  tutta  la  persona  di
    Platòn,  con il cappotto francese stretto alla vita da una corda,  con
    il berretto e i calzari di tiglio,  era  rotonda;  la  sua  testa  era
    perfettamente rotonda;  la schiena,  il petto,  le spalle e persino le
    braccia,  che egli  teneva  come  se  stesse  sempre  per  abbracciare
    qualcuno,  erano  rotonde;  il  suo simpatico sorriso e i grandi occhi
    bruni, erano rotondi anch'essi.
    Platòn Karataev doveva aver passato la cinquantina,  a  giudicare  dai
    suoi  racconti  sulle  campagne  di guerra cui aveva partecipato.  Non
    sapeva egli stesso né poteva in alcun modo precisare la sua età,  ma i
    suoi  denti  forti  e candidi,  che mostrava tutti e in due semicerchi
    quando rideva (il che faceva spesso) erano intatti;  i suoi capelli  e
    la sua barba non avevano neppure un pelo bianco,  e tutto il suo corpo
    appariva agile e, soprattutto, saldo e resistente.
    Il suo viso, malgrado le minute rughe rotonde, aveva un'espressione di
    giovanile ingenuità;  la voce era  piacevole  e  cantilenante.  Ma  la
    particolarità  più  spiccata del suo linguaggio erano l'immediatezza e
    la comunicatività. Evidentemente egli non pensava mai a ciò che diceva
    e a ciò che avrebbe  detto  e  per  questo,  dalla  rapidità  e  dalla
    fermezza   delle   sue  parole,   emanava  sempre  una  invincibile  e
    particolare forza di persuasione.
    La sua forza fisica e la sua agilità nei primi tempi  della  prigionia
    erano  tali che pareva che egli non dovesse conoscere che cosa fossero
    la stanchezza e le malattie.  Ogni sera,  coricandosi diceva: "Fa',  o
    Signore,  che  io  giaccia  come  un  sasso,  fa' che mi alzi come una
    focaccetta";  e ogni  mattina,  alzandosi,  scrollandosi  sempre  allo
    stesso  modo nelle spalle,  ripeteva: "Mi sdraio e mi raggomitolo;  mi
    alzo  e  mi  scrollo".   E,   infatti,   gli  bastava  coricarsi   per
    addormentarsi  come  un  macigno e gli bastava darsi una scrollata per
    sentirsi subito pronto,  senza perdere un minuto,  a qualsiasi lavoro,
    come  i  bambini  che,  appena alzati,  cominciano a baloccarsi.  Egli
    sapeva fare di tutto, non molto bene, ma neanche male. Faceva il pane,
    cucinava, cuciva, lavorava da falegname e da calzolaio.  Era sempre in
    faccende  e soltanto a sera si permetteva di discorrere,  cosa che gli
    piaceva,  e cantare.  Non cantava come i cantori  di  professione  che
    sanno di essere ascoltati,  ma come cantano gli uccelli, evidentemente
    perché aveva  bisogno  di  emettere  dei  suoni,  così  come  gli  era
    necessario  stiracchiarsi  le  membra  e fare qualche passo;  e i suoi
    canti erano sempre sommessi, teneri, come quelli di una donna,  un po'
    tristi, e l'espressione del suo viso, mentre cantava, si faceva seria.
    Caduto prigioniero,  ed essendogli cresciuta la barba, aveva scacciato
    da   sé   ogni   elemento   estraneo,    soldatesco,    acquisito   e,
    involontariamente,   era   ritornato   al  suo  originario  carattere,
    popolaresco e campagnolo.
    - Soldato in congedo,  camicia sui  pantaloni    -    diceva.  Parlava
    malvolentieri del periodo in cui era stato soldato,  sebbene non se ne
    lamentasse,  e spesso ripeteva che in tutti quegli  anni  di  servizio
    militare  non  era  mai  stato picchiato.  Quando parlava,  parlava di
    preferenza dei suoi vecchi e cari ricordi di  "vita  cristiana",  come
    soleva  dire,  per  significare "vita contadina".  I proverbi,  di cui
    erano punteggiati i suoi racconti,  non erano quelli,  per la  maggior
    parte sconosciuti e scurrili che usano i soldati, ma erano le sentenze
    popolari  che,  prese da sole,  appaiono senza senso,  ma che assumono
    significato di profonda saggezza quando vengono dette a proposito.
    Spesso diceva cose assolutamente in contrasto  con  quelle  che  aveva
    dette prima, ma le une e le altre erano giuste. Gli piaceva parlare, e
    parlava  bene,  ornando  il  suo  discorso di termini carezzevoli e di
    sentenze che,  come pareva a  Pierre,  inventava  lui  stesso;  ma  il
    maggior fascino dei suoi racconti consisteva nel fatto che in essi gli
    avvenimenti più semplici,  a volte quei medesimi ai quali Pierre aveva
    assistito senza badarvi,  assumevano un carattere di solenne bellezza.
    Gli  piaceva  ascoltare  le  favole  (sempre  le  stesse)  che la sera
    raccontava un altro soldato ma, soprattutto,  amava ascoltare racconti
    di vera vita. Sorrideva di gioia nell'ascoltarli, intercalava parole e
    faceva  domande  che  avevano  lo  scopo  di  chiarire  a se stesso la
    bellezza di ciò che gli si  veniva  raccontando.  Karataev  non  aveva
    legami,  amicizie,  amori,  nel senso che intendeva Pierre; ma amava e
    viveva in armonia d'amore con tutto ciò a cui la vita lo avvicinava e,
    in particolare,  con l'uomo,  non un qualsiasi  uomo  determinato,  ma
    quegli uomini che aveva dinanzi agli occhi.  Amava il suo cagnolino, i
    suoi compagni, i Francesi, amava Pierre che era suo vicino,  ma Pierre
    sentiva che Karataev,  nonostante l'affettuosa tenerezza che aveva per
    lui (con la quale involontariamente rendeva  il  dovuto  omaggio  alla
    vita spirituale di Pierre), non avrebbe sofferto neppure per un minuto
    se avesse dovuto separarsi da lui.  E Pierre cominciava a provare, per
    Karataev, lo stesso sentimento.
    Per tutti gli  altri  prigionieri,  Platòn  Karataev  era  un  soldato
    comunissimo;   lo  chiamavano  Falchetto  o  Platoscia,  si  burlavano
    bonariamente di lui,  lo mandavano a fare commissioni.  Ma per  Pierre
    egli  rimase  per  sempre  quale  gli  era  apparso  la  prima  notte:
    l'inaccessibile,  rotonda ed eterna personificazione dello spirito  di
    semplicità e di verità.
    Platòn  Karataev  non  sapeva  nulla a memoria,  all'infuori delle sue
    preghiere. Quando faceva i suoi discorsi pareva che cominciandoli, non
    sapesse come li avrebbe finiti.
    Quando Pierre,  colpito talvolta dal senso di  un  suo  discorso,  gli
    chiedeva  di  ripetere ciò che aveva detto,  Platòn non riusciva più a
    ricordarselo,  così come non poteva ripetere a Pierre le parole  della
    sua  canzone preferita,  nella quale si diceva: "Diletta,  mia piccola
    betulla,  mi sento languire",  ma dalle sole parole non  veniva  fuori
    alcun  significato.  Egli  non  capiva né poteva capire il significato
    delle parole,  prese isolatamente.  Ogni sua parola e  ogni  suo  atto
    erano la manifestazione di un'attività,  a lui sconosciuta, che era la
    sua stessa vita. Ma la sua vita,  come egli la considerava,  non aveva
    alcun  significato  come vita isolata: essa aveva significato soltanto
    come piccola parte di un tutto che egli sentiva continuamente.  Le sue
    parole  e i suoi atti emanavano da lui con la stessa necessità con cui
    il profumo emana dal fiore.  Non poteva capire né  il  valore,  né  il
    senso di un atto o di una parola, presi isolatamente.


    CAPITOLO 14.

    Avuta  da Nikolàj la notizia che suo fratello si trovava con i Rostòv,
    la principessina Màrija,  nonostante  le  esortazioni  della  zia,  si
    accinse subito a partire,  e non da sola,  ma con il nipotino.  Non si
    domandava neppure, e neppure voleva sapere,  se la cosa fosse facile o
    difficile,  possibile  o impossibile: era suo dovere,  non soltanto di
    andare ad assistere il fratello forse  moribondo,  ma  di  fare  tutto
    quanto poteva per portargli il figlio,  e perciò si risolse a partire.
    Il fatto che non fosse stato  il  principe  Andréj  a  informarla,  la
    principessina  Màrija  se lo spiegava pensando che fosse troppo debole
    per scriverle o che ritenesse quel lungo viaggio  troppo  difficile  e
    pericoloso per lei e per il figlio.
    In  pochi  giorni  la  principessina  Màrija  fu  pronta a mettersi in
    viaggio.  Il suo  convoglio  era  composto  dall'enorme  carrozza  del
    principe  con  la  quale era giunta a Voronèz,  un calesse e un carro.
    Partivano con lei "mademoiselle" Bourienne, Nikòluska,  il precettore,
    la vecchia governante,  tre cameriere,  Tichòn, un giovane servitore e
    un corriere che la zia le aveva messo a disposizione.  Non  si  poteva
    neppur pensare di passare per l'ordinaria strada di Mosca, e perciò il
    giro  che  doveva  fare  la principessina Màrija per Lipetzk,  Rjazàn,
    Vladimir,  Sciuja  era  molto  lungo  e  preoccupante  a  causa  della
    difficoltà  di  trovare  i  cavalli di posta e anche pericoloso poiché
    attorno a Rjazàn (si diceva) si erano visti dei soldati francesi.
    Durante quello scabroso viaggio, "mademoiselle" Bourienne,  Desalles e
    i  domestici  della  principessina  Màrija  rimasero stupiti della sua
    energia e della sua attività.  Si coricava più tardi degli altri e  si
    alzava  prima  di tutti;  nessun ostacolo la fermava.  Grazie alla sua
    attività e alla sua energia, che contagiavano anche i suoi compagni di
    viaggio,  essi poterono giungere a Jaroslàvl dopo due settimane dacché
    erano partiti.
    L'ultimo   periodo   di   permanenza   a  Voronèz  era  stato  per  la
    principessina Màrija il più felice della vita. Il suo amore per Rostòv
    non la tormentava e non l'agitava più. Quell'amore le colmava l'anima,
    era diventato una parte  indivisibile  di  lei  stessa,  ed  ella  non
    lottava  più  per vincerlo.  In quegli ultimi tempi si era convinta  -
    sebbene non se lo fosse mai detto con parole precise  -  di amare e di
    essere amata.  Se ne era convinta dopo il  suo  ultimo  colloquio  con
    Nikolàj,  quando questi era venuto ad annunziarle che suo fratello era
    con i Rostòv.  Nikolàj non aveva accennato neppure con una sola parola
    al  fatto che ora,  se il principe Andréj fosse guarito,  le relazioni
    tra lui e  Natascia  sarebbero  probabilmente  state  riprese,  ma  la
    principessina  Màrija  gli aveva letto in viso che egli lo sapeva e lo
    pensava. E, tuttavia, il suo contegno verso di lei, attento, delicato,
    amoroso,  non solo non era cambiato,  ma egli sembrava rallegrarsi del
    fatto  che  ora la sua parentela con lei gli permettesse di esprimerle
    più  liberamente  la  sua  amicizia  amorosa,   come   talvolta   alla
    principessina Màrija veniva fatto di pensare.  La principessina Màrija
    sapeva di amare per la prima e l'ultima volta nella vita,  sentiva  di
    essere amata e da questo lato era felice e tranquilla.
    Ma  questa  felicità  di  una  parte  della  sua anima non solo non le
    impediva di soffrire intensamente per le condizioni del  fratello,  ma
    quella  sua  calma  spirituale  le permetteva,  in un certo senso,  di
    abbandonarsi meglio e più pienamente al suo sentimento verso  di  lui.
    Questo  sentimento  era  stato  così  forte  all'inizio del viaggio da
    Voronèz che coloro che la accompagnavano erano  sicuri,  guardando  il
    suo  volto  tormentato  e  sconvolto  dalla disperazione,  che essa si
    sarebbe ammalata durante il viaggio. Ma furono proprio le difficoltà e
    le preoccupazioni del viaggio,  con le quali  aveva  così  attivamente
    combattuto,  a salvare momentaneamente la principessina Màrija dal suo
    dolore e a ravvivare le sue forze.
    Come sempre accade mentre si è in viaggio, la principessina Màrija non
    faceva  che  pensare  al  viaggio,   dimenticandone  lo   scopo.   Ma,
    avvicinandosi  a Jaroslàvl,  quando le si affacciò di nuovo alla mente
    quello che l'attendeva non più  a  distanza  di  giorni,  ma  la  sera
    stessa, l'emozione della fanciulla raggiunse il culmine.
    Quando  ll  corriere,  mandato  avanti per informarsi a Jaroslàvl dove
    abitassero i Rostòv e come stesse il principe Andréj,  incontrò presso
    la  barriera  della città la grande carrozza che entrava,  si spaventò
    nel vedere il  viso  terribilmente  pallido  della  principessina  che
    sporgeva dal finestrino.
    -  Ho  saputo tutto,  eccellenza.  I Rostòv abitano sulla piazza nella
    casa del mercante Brònnikov.  Non è lontano,  proprio  sul  Volga    -
    riferì il corriere.
    La  principessina  Màrija  lo  fissava  con uno sguardo interrogante e
    spaventato,  senza capire perché  non  rispondesse  alla  domanda  più
    importante:  come  stava  suo fratello?  "Mademoiselle" Bourienne fece
    quella domanda per lei.
    - E il principe?  -  chiese.
    - Sua eccellenza è con i Rostòv, nella stessa casa.
    "Dunque è vivo!",  pensò la principessina,    e  con  voce  più  calma
    domandò:
    - Come sta?
    - I domestici dicono che è sempre nelle stesse condizioni.
    Che cosa significassero le parole "stesse condizioni" la principessina
    non domandò,  gettò soltanto uno sguardo furtivo al settenne Nikòluska
    che le sedeva di fronte e si divertiva a guardare la città,  poi chinò
    il  capo  e  lo  risollevò  soltanto  allorché  la  pesante  carrozza,
    sobbalzando e stridendo rumorosamente, non si fu fermata.  Si sentì il
    rumore dei predellini abbassarsi.
    Gli  sportelli  furono aperti.  A sinistra scorreva l'acqua del grande
    fiume;  a destra si scorgeva  una  scalinata;  sulla  scalinata  c'era
    gente:  erano  le  persone di servizio e una fanciulla dal viso roseo,
    con  una  folta  treccia  nera,   che  sorrideva,   come  parve   alla
    principessina Màrija,  in modo antipatico e forzato.  (Era Sònja).  La
    principessina salì di corsa la scala e la ragazza dal sorriso  forzato
    le disse:
    - Di qua, di qua!
    E  la  principessina  si  trovò in un'anticamera,  davanti a una donna
    anziana dal tipo orientale che,  con espressione commossa,  le  veniva
    rapidamente   incontro.   Era   la  vecchia  contessa.   Abbracciò  la
    principessina e la baciò.
    - "Mon enfant!"  -  esclamò.   -  "Je vous aime et vous connais depuis
    longtemps"  [54.  Bambina  mia,  vi  voglio bene e vi conosco da tanto
    tempo!].
    Nonostante la sua commozione,  la principessina Màrija capì che  colei
    che  le parlava era la contessa e che bisognava dirle qualcosa.  Senza
    sapere come, pronunziò in francese alcune parole gentili, dello stesso
    genere di quelle che erano state rivolte a lei e domandò:
    - Come sta?
    - Il dottore dice che non c'è pericolo  -  rispose la contessa ma, nel
    dir  così,  alzò  gli  occhi  al  cielo  sospirando  in  un  modo  che
    contraddiceva quelle parole.
    - Dov'è? Si può vederlo?  -  domandò la principessina.
    - Subito,  principessina, subito, amica mia. E questo è suo figlio?  -
    domandò la contessa,  rivolgendosi a Nikòluska che stava entrando  con
    Desalles.    -  Possiamo alloggiarvi tutti qui: la casa è grande.  Oh,
    che amore di fanciullo!
    La contessa condusse la principessina nel  salotto.  Sònja  discorreva
    con  "mademoiselle"  Bourienne,  la  contessa  accarezzava il bambino.
    Entrò il vecchio conte per salutare l'ospite. Egli era molto mutato da
    quando la principessina lo aveva veduto l'ultima volta.  Allora era un
    vecchietto arzillo,  allegro,  sicuro di sé; ora aveva l'aspetto di un
    uomo smarrito,  e faceva  pena.  Parlando  con  la  principessina,  si
    guardava attorno continuamente,  come per domandare a tutti se ciò che
    faceva andava bene...  Dopo la  rovina  di  Mosca  e  dei  suoi  beni,
    sbalzato  fuori dalla sua carreggiata,  aveva evidentemente perduto il
    senso della sua importanza e sentiva che per lui non c'era  più  posto
    nella vita.
    Nonostante  il  desiderio  di  vedere  immediatamente il fratello e la
    stizza perché,  nel momento in cui ella anelava soltanto a quello,  la
    trattenevano e lodavano senza sincerità suo nipotino, la principessina
    osservava tutto ciò che si faceva attorno a lei e sentiva la necessità
    di sottomettersi,  almeno per il momento,  a quel nuovo ordine di cose
    in cui era entrata. Sapeva che tutto ciò era necessario e,  sebbene le
    riuscisse penoso, non provava alcun rancore verso i Rostòv.
    - Questa è mia nipote  -  disse il conte,  presentando Sònja.   -  Non
    la conoscete, vero, principessina?
    La principessina Màrija si volse verso Sònja e, cercando di vincere il
    sentimento di ostilità che aveva  sentito  sorgerle  nell'animo  verso
    quella ragazza,  la baciò.  Ma cominciava a soffrire, sentendo come lo
    stato d'animo di coloro che le stavano attorno fosse così  lontano  da
    quanto le stava a cuore.
    - Dov'è?  -  domandò ancora una volta, rivolgendosi a tutti.
    -  E'  giù,  a  pianterreno.  Natascia  è  con  lui  -  rispose Sònja,
    arrossendo.    -    Sono  andati  a  informarsi.  Voi  sarete  stanca,
    principessina, vero?
    La principessina sentiva salire agli occhi lacrime di stizza. Si voltò
    verso  la  contessa  per chiederle dove potesse passare per andare dal
    fratello quando udì,  dietro la porta,  un rumore di passi  leggeri  e
    impetuosi,  quasi allegri.  Si volse e vide Natascia che entrava quasi
    correndo,  quella Natascia che in quel loro lontano incontro  a  Mosca
    non le era piaciuta affatto.
    Ma  non  appena  la  principessina  ebbe  guardato  il  viso di quella
    Natascia, subito comprese che ella era sua compagna di dolore e perciò
    sua amica.  Le corse incontro,  l'abbracciò e si mise a piangere sulla
    sua spalla.
    Appena  Natascia,  che sedeva al capezzale del principe Andréj,  aveva
    saputo dell'arrivo della principessina Màrija,  era uscita pian  piano
    dalla   camera   con  quei  passi  rapidi  e,   come  era  parso  alla
    principessina Màrija, quasi allegri, ed era corsa a lei.
    Sulla sua faccia sconvolta, quando era entrata nel salotto, vi era una
    sola espressione, un'espressione di amore,  di infinito amore per lui,
    per  lei,  per  tutto ciò che aveva qualche rapporto con l'uomo amato,
    un'espressione di dolore,  di pietà per  gli  altri,  di  appassionato
    desiderio  di dedizione di tutta se stessa per aiutarli.  Era evidente
    che in quel momento Natascia non aveva in cuore alcun pensiero per sé,
    per i suoi rapporti con lui.
    La principessina Màrija, sensibile com'era,  dal primo sguardo rivolto
    a  Natascia,  intuì  prontamente  tutto  questo e con voluttà dolorosa
    piangeva sulla sua spalla.
    - Andiamo, Marie,  andiamo da lui  -  disse Natascia,  conducendola in
    un'altra stanza.
    La  principessina  Màrija  sollevò  il  viso,  si asciugò le lacrime e
    guardò Natascia. Sentiva che da lei avrebbe saputo e capito tutto.
    - Come...  -  incominciò a domandare,  ma subito si interruppe.  Sentì
    che con le parole non si poteva né domandare né rispondere.  Il viso e
    gli occhi di Natascia dovevano dire tutto in modo  più  chiaro  e  più
    profondo.
    Natascia  la  guardava,  ma pareva intimorita e dubbiosa: doveva dirle
    tutto ciò che sapeva?  Pareva sentire  che,  davanti  a  quegli  occhi
    radiosi  che le penetravano sino in fondo al cuore,  non era possibile
    non dire l'intera verità,  quale essa l'aveva veduta.  Le tremarono le
    labbra,  delle  brutte pieghe le si formarono a un tratto attorno alla
    bocca e, singhiozzando, si coprì il viso con le mani.
    La principessina Màrija comprese tutto.  Tuttavia sperava ancora e con
    parole, nelle quali essa stessa non credeva, chiese:
    - Ma com'è la ferita? E, in complesso, come sta?
    - Vedrete, vedrete voi stessa   -   riuscì soltanto a dire Natascia.
    Si trattennero un poco a pianterreno,  accanto alla camera del malato,
    per ricomporsi e poter entrare da lui con il viso rasserenato.
    - Com'è  stato  il  corso  della  malattia?  E'  da  un  pezzo  che  è
    peggiorato? Quando è accaduto?  -  domandava la principessina Màrija.
    Natascia  raccontò che in un primo tempo era stato in pericolo a causa
    della febbre e delle crudeli sofferenze; ma al monastero di Tròjtza la
    febbre era cessata e il medico temeva una cosa soltanto: la  cancrena.
    Però anche questo pericolo era stato scongiurato. Quando furono giunti
    a  Jaroslàvl,  la ferita aveva cominciato a suppurare (Natascia sapeva
    tutto ciò che si riferiva alla suppurazione,  eccetera),  e il dottore
    aveva  detto  che  la  suppurazione  avrebbe  potuto  seguire un corso
    regolare.  Era poi sopravvenuta la febbre.  Il dottore assicurava  che
    non si trattava di una febbre pericolosa.
    -  Ma  due  giorni  fa    -  disse Natascia  -  a un tratto è accaduto
    "questo"...  -  E trattenne i singhiozzi.  -  Io non so perché, ma voi
    vedrete come è diventato.
    - E' molto indebolito?  E' smagrito?   -  domandava  la  principessina
    Màrija.
    - No, non è questo. C'è di peggio. Ah, Marie, egli è troppo buono, non
    può, non può vivere, perché...


    CAPITOLO 15.

    Quando Natascia, con un gesto abituale, aperse l'uscio della camera di
    lui  e fece passare avanti la principessina Màrija,  questa si sentiva
    già il pianto in gola.  Per quanto  si  fosse  preparata,  per  quanto
    cercasse  di  essere  calma,  sapeva che non avrebbe avuto la forza di
    vederlo senza scoppiare in lacrime.
    La principessina Màrija  capì  allora  che  cosa  avesse  voluto  dire
    Natascia  con  le parole: "questo gli è accaduto due giorni fa".  Capì
    che ciò significava che, all'improvviso, egli si era fatto più dolce e
    che quella dolcezza e quell'intenerimento erano i segni  della  morte.
    Avvicinandosi   all'uscio,   le  pareva  già  di  vedere  il  viso  di
    Andrjuscia,   quale  ella  aveva  conosciuto   nell'infanzia:   dolce,
    affettuoso, tenero, quel viso che egli aveva così di rado e che perciò
    le  faceva sempre molta impressione.  Sapeva che egli le avrebbe detto
    tenere parole,  come quelle che le aveva rivolto  il  padre  prima  di
    morire  e  sapeva  che  non  avrebbe  potuto  resistere  e che sarebbe
    scoppiata in singhiozzi. Ma presto o tardi la cosa doveva accadere, ed
    ella entrò.  I singhiozzi le serravano  sempre  più  la  gola  mentre,
    aguzzando  gli  occhi  miopi,  andava  a  mano a mano distinguendo più
    chiaramente la figura e cercava i tratti di lui; ed ecco,  gli vide il
    viso e ne incontrò lo sguardo.
    Egli era steso sul divano,  tra molti cuscini, avvolto in una veste da
    camera foderata di scoiattolo.  Era pallido e scarno.  Una mano magra,
    di  una  bianchezza  trasparente,  teneva un fazzoletto;  con l'altra,
    movendo lentamente le dita,  si accarezzava i baffi  sottili  che  gli
    erano spuntati. Gli occhi guardavano chi stava entrando.
    Vedendogli il viso e incontrandone lo sguardo, la principessina Màrija
    a  un  tratto rallentò il passo,  e sentì che le lacrime si erano a un
    tratto inaridite e  che  i  singhiozzi  erano  cessati.  Avendo  colto
    l'espressione  del  viso  e  dello  sguardo di lui,  si sentì di colpo
    intimidita e colpevole.
    "Ma di che cosa, di che cosa sono colpevole?", si chiese. "Di vivere e
    di pensare ai vivi,  mentre io...",  le rispondeva lo sguardo freddo e
    severo del fratello.
    In quegli occhi gelidi,  che guardavano non fuori ma dentro di sé,  vi
    era  quasi,   quando  si  posarono  sulla  sorella  e   su   Natascia,
    un'espressione di ostilità.
    Baciò la sorella, tenendole stretta la mano, come faceva sempre.
    - Buongiorno,  Marie,  come hai fatto ad arrivare sin qui?  -  domandò
    il principe con voce atona, estranea come il suo sguardo.
    Se egli avesse gettato un grido acuto e disperato,  quel grido avrebbe
    atterrito  la principessina Màrija meno di quanto non lo fece il suono
    di quella voce.
    - Hai portato anche Nikòluska?   -  riprese l'infermo  con  la  stessa
    voce atona e lenta e con un visibile sforzo per ricordare.
    - Come stai,  ora?  -  chiese la fanciulla, stupita ella stessa di ciò
    che diceva.
    - Questo,  mia cara,  bisogna chiederlo al dottore    -    rispose  il
    principe  e,  facendo  evidentemente  ancora  uno  sforzo  per  essere
    affettuoso, disse con la sola bocca (si capiva che non pensava affatto
    a ciò che diceva):  -  "Merci,  ma chère,  d'être venue" [55.  Grazie,
    mia cara, di essere venuta].
    La  principessina Màrija gli strinse la mano.  A quella stretta,  egli
    aggrottò in modo appena percettibile le sopracciglia.  Egli taceva,  e
    lei non sapeva che cosa dire. Aveva capito quello che gli era accaduto
    due giorni prima. Nelle sue parole, nel tono con cui le pronunziava e,
    soprattutto,  nel  suo  sguardo  freddo e quasi ostile,  si sentiva il
    distacco terribile per un uomo vivo da tutte le cose di questo  mondo.
    Si  vedeva che gli era difficile capire ciò che era vivente ma,  nello
    stesso tempo, si vedeva anche che così era,  non già perché egli fosse
    privato della capacità di comprendere,  ma perché capiva qualche altra
    cosa che non capivano né potevano capire i vivi  e  che  lo  assorbiva
    tutto.
    -  Sì,  ecco  come  il  destino ci ha stranamente riuniti!   -  disse,
    spezzando il silenzio e indicando  Natascia.    -    Essa  mi  assiste
    sempre.
    La  principessina  Màrija  ascoltava e non capiva ciò che egli diceva.
    Come poteva parlare a quel modo il delicato,  tenero  principe  Andréj
    dinanzi  a  colei che egli amava e che lo amava?  Se avesse sperato di
    vivere,  non avrebbe mai detto quelle  parole  in  tono  di  freddezza
    offensiva.  Se non fosse stato certo di morire, come non avrebbe avuto
    pietà di lei,  come avrebbe potuto dire in presenza  sua,  quello  che
    aveva detto? Una sola spiegazione era possibile, questa: che tutto gli
    era  indifferente,  e  tutto gli era indifferente perché qualche altra
    cosa più bella e più importante gli si era rivelata.
    La conversazione  era  fredda,  slegata  e  si  interrompeva  ad  ogni
    istante.
    - Marie è arrivata passando da Rjazàn  -  disse Natascia.
    Il  principe Andréj non notò che ella chiamava Marie la principessina,
    e Natascia se ne accorse per la prima volta dopo averla chiamata  così
    davanti a lui.
    - E' passata da Rjazàn? Ebbene?  -  disse egli.
    -  Le  hanno  raccontato  che  Mosca è tutta bruciata,  che,  a quanto
    pare...
    Natascia si interruppe: era impossibile parlare. Egli, era chiaro,  si
    sforzava di ascoltare, ma non ci riusciva.
    - Già,  è bruciata, dicono... Peccato!  -  mormorò il principe Andréj,
    e si mise a guardare davanti a sé,  lisciandosi distrattamente i baffi
    con  le dita.   -  E tu,  Marie,  hai incontrato il conte Nikolàj?   -
    proseguì a un tratto,  con l'evidente desiderio di farle cosa gradita.
    -    Ha  scritto  qui  che  gli  sei  piaciuta  molto  -  aggiunse con
    semplicità e con  calma,  certo  non  in  grado  di  capire  il  senso
    complicato che le sue parole avevano per i vivi.  -  Se anche tu provi
    affetto  per lui,  sarebbe una cosa molto bella...  che vi sposaste  -
    aggiunse un po' più in fretta, come se fosse contento di quelle parole
    che aveva a lungo cercate e che, finalmente, aveva trovate.
    La principessina Màrija ascoltava le  parole  del  fratello,  ma  esse
    avevano  per  lei altro significato che quello di dimostrare come egli
    fosse ormai terribilmente lontano dalla vita.
    - Perché parlare di me?   -  disse ella con calma,  e guardò Natascia.
    La fanciulla,  che sentì il suo sguardo, non lo ricambiò. E, di nuovo,
    cadde il silenzio.
    - André, vuoi...   -  disse a un tratto la principessina Màrija con un
    tremito nella voce.  -  Vuoi vedere Nikòluska? Ti ricordava sempre...
    Il  principe Andréj ebbe per la prima volta un impercettibile sorriso,
    ma la fanciulla, che conosceva bene il viso del fratello, comprese con
    terrore che quel sorriso non era di  gioia  né  di  tenerezza  per  il
    figlio,  ma un tenue, mite sorriso di scherno perché lei aveva tentato
    quel mezzo estremo,  secondo quanto credeva,  per ricondurlo  a  certi
    sentimenti da cui era ormai lontano.
    - Sì,  -  disse  -  mi farà molto piacere. Sta bene?
    Quando  Nikòluska fu condotto in camera del padre,  lo guardò con aria
    spaventata, senza però piangere, perché nessuno piangeva.  Il principe
    Andréj lo baciò, ma evidentemente non sapeva che cosa dirgli.
    Allorché  il bimbo venne condotto fuori,  la principessina si avvicinò
    di nuovo al fratello,  lo baciò  e,  incapace  di  trattenersi  oltre,
    scoppiò in lacrime.
    Egli la guardò fissamente.
    - Piangi per Nikòluska?  -  le domandò.
    La principessina Màrija,  piangendo,  fece un cenno affermativo con il
    capo.
    - Marie, tu conosci il Vang...  -  ma, all'improvviso tacque.
    - Che cosa dici?
    - Nulla, qui non bisogna piangere  -  mormorò egli,  sempre fissandola
    con il suo sguardo freddo.

    Quando  la  principessina  Màrija si era messa a piangere,  egli aveva
    capito che piangeva perché Nikòluska sarebbe rimasto senza padre.  Con
    un enorme sforzo su se stesso, aveva cercato di tornare indietro nella
    vita e di porsi nel loro punto di vista.
    "Sì,  a  loro  questo  deve  fare molta pena",  pensò.  "Eppure è così
    semplice! Gli uccelli del cielo non seminano e non mietono ma il Padre
    vostro dà loro il nutrimento", disse a se stesso, e voleva dirlo anche
    alla principessina... "Ma no, non capirebbero!  Non possono capire che
    tutti  questi  sentimenti  che a loro sono tanto cari,  tutti i nostri
    pensieri che ci sembrano tanto importanti, non sono necessari. No, non
    possiamo più capirci!". E tacque.

    Il figliuoletto del principe Andréj aveva sette  anni.  Sapeva  appena
    leggere,  ma non aveva cognizione di nulla.  Dopo quel giorno,  imparò
    molte  cose   nella   vita,   acquistando   cognizioni,   spirito   di
    osservazione,  esperienza; eppure, se avesse posseduto allora tutte le
    capacità che acquistò in seguito,  non avrebbe potuto capire meglio  e
    più  profondamente il senso della scena alla quale assistette,  tra il
    padre e la principessina Màrija e Natascia.  Egli capì tutto e,  senza
    piangere,  uscì dalla stanza,  si avvicinò in silenzio a Natascia, che
    era uscita dopo di lui,  la guardò timidamente con i  suoi  bellissimi
    occhi pensierosi;  il suo labbro superiore,  roseo e un po' sollevato,
    tremò, egli si appoggiò a lei e si mise a piangere.
    Da quel giorno evitò Desalles,  evitò la contessa che  lo  accarezzava
    sempre  e,  o  se  ne  stava solo o,  timidamente,  si avvicinava alla
    principessina Màrija e a Natascia, alla quale, a quanto pareva, voleva
    più bene che alla zia,  e dolcemente e con timidezza  cercava  le  sue
    carezze.
    La principessina Màrija, nel lasciare il principe Andréj, aveva capito
    perfettamente ciò che le aveva detto il viso di Natascia.  Non parlava
    più con Natascia della speranza di salvare la vita  del  fratello.  Si
    alternava  con  lei nel vegliare accanto al divano e non piangeva più,
    ma    pregava    continuamente,     volgendo    l'anima    all'Eterno,
    all'Incomprensibile,  la  cui  presenza  si  avvertiva  in  modo  così
    sensibile accanto a quell'uomo che moriva.


    CAPITOLO 16.

    Il principe Andréj non soltanto sapeva di dover morire,  ma si sentiva
    mancare,  ed  era  come  già  morto  a  metà.  Aveva  la sensazione di
    allontanarsi da ogni cosa terrena e quella di  una  strana  e  gioiosa
    levità  di  tutto  il  suo  essere.  Senza  impazienza  e senza ansia,
    attendeva il compimento di ciò che incombeva su di  lui.  Quella  cosa
    terribile,  eterna,  ignota e lontana di cui aveva sentito la presenza
    per tutta la vita,  gli era ormai vicinissima  e,  per  quella  strana
    sensazione di levità dell'essere, quasi comprensibile e tangibile...

    ...........

    Prima  di  allora  aveva  temuto la fine.  Per due volte aveva provato
    quell'orribile,  tormentoso sentimento della paura della morte,  e ora
    non lo capiva già più.
    Aveva avvertito la prima volta questo sentimento quando la granata gli
    turbinava  davanti  come  una trottola ed egli guardava le stoppie,  i
    cespugli,  il cielo,  pur sapendo che dinanzi a lui  c'era  la  morte.
    Quando,  dopo essere stato ferito, aveva ripreso coscienza e nella sua
    anima,  in un istante,  quasi egli si fosse liberato  dal  peso  della
    vita, era sbocciato quel fiore dell'amore eterno, libero, indipendente
    da questa vita, egli non temeva più la morte e non vi pensava.
    Quanto più, in quelle ore di dolorosa solitudine e di semidelirio, che
    aveva trascorso dopo la ferita,  rifletteva su quel nuovo principio di
    eterno amore che gli si era rivelato,  tanto più,  senza  avvedersene,
    ripudiava  la vita terrena.  Amare tutto e tutti,  sacrificarsi sempre
    per l'amore, significava non amare nessuno,  significava non vivere di
    vita  terrena.  E perciò,  quanto più era permeato da questo principio
    d'amore,  tanto più rinnegava la vita e tanto più  distruggeva  quella
    terribile  barriera  che,  quando non c'è amore,  sta tra la vita e la
    morte.  Allorché,  in quel primo tempo,  si ricordava di dover morire,
    diceva a se stesso: "Che importa? Tanto meglio!".
    Ma  dopo  quella  notte  a Mitisci quando,  quasi in preda al delirio,
    aveva visto comparire colei che egli desiderava e quando,  premendo la
    mano  di  lei alle proprie labbra,  aveva pianto silenziose lacrime di
    gioia,  l'amore per una donna era insensibilmente  penetrato  nel  suo
    cuore  e  lo aveva di nuovo legato alla vita.  E turbamenti e pensieri
    gioiosi ripresero ad affacciarsi alla sua mente. Ricordando il momento
    in cui, al posto di medicazione, aveva veduto Kuragin,  non poteva più
    tornare  ai  sentimenti  di allora.  Ora lo tormentava il dubbio: sarà
    ancora vivo? E non osava chiederlo.
    La malattia,  dal lato fisico,  seguiva il suo corso naturale,  ma ciò
    che  Natascia  aveva definito "gli è accaduto questo" era avvenuto due
    giorni  prima  dell'arrivo  della  principessina  Màrija.   Era  stata
    l'ultima lotta morale tra la vita e la morte,  e la morte era riuscita
    vittoriosa.  Era stata l'inattesa consapevolezza di  amare  ancora  la
    vita,  che si raffigurava per lui nell'amore per Natascia, e l'ultima,
    dominata crisi di orrore davanti all'ignoto.
    Era sera. Come ogni giorno, dopo pranzo, egli aveva un po' di febbre e
    una straordinaria lucidità di pensiero.  Sònja era  seduta  presso  la
    tavola.  Egli sonnecchiava.  A un tratto fu assalito da una sensazione
    di gioia.
    "Ah, è venuta lei!", pensò.
    Infatti ora,  al posto di Sònja,  era seduta Natascia,  entrata  senza
    fare alcun rumore.
    Da  quando  Natascia aveva incominciato a curarlo,  il principe Andréj
    provava la sensazione fisica della  vicinanza  della  fanciulla.  Ella
    sedeva  accanto  a  lui,  sulla poltrona,  e gli nascondeva con la sua
    persona la luce della candela.  Lavorava a maglia.  (Aveva imparato  a
    fare la calza da quando,  una volta, il principe Andréj le aveva detto
    che nessuno sapeva curare gli  ammalati  così  bene  come  le  vecchie
    governanti  che  fanno  la  calza,  e che in quello sferruzzare c'è un
    qualcosa di riposante).  Le dita sottili della fanciulla si  muovevano
    rapide  sui  ferri  che  di tanto in tanto si urtavano,  e il principe
    Andréj vedeva nettamente il profilo pensieroso  del  suo  volto.  Ella
    fece  un movimento,  il gomitolo di lana le cadde dalle ginocchia.  La
    fanciulla trasalì,  guardò il principe,  messa la  mano  davanti  alla
    candela, con un movimento cauto rapido e preciso si chinò, raccolse il
    gomitolo e riprese la posizione di prima.
    Egli,  immobile,  la  guardava  e  capiva  che,  dopo  aver fatto quel
    movimento,  ella aveva bisogno di respirare profondamente,  ma non  si
    decideva a farlo e riprendeva fiato a poco a poco.
    Al  monastero  di Tròjtza,  il principe e Natascia avevano parlato del
    passato ed egli le aveva detto che,  se Iddio gli avesse  concesso  di
    vivere,  non  avrebbe cessato di ringraziarlo perché,  grazie a quella
    ferita, era di nuovo riunito a lei; ma, da allora, non avevano mai più
    parlato del futuro.
    "Era o non era possibile che ci fosse un futuro?",  pensava egli  ora,
    guardando  la  fanciulla  e  ascoltando il lieve ticchettio dei lunghi
    aghi. "Possibile che il destino mi abbia riunito a lei in un modo così
    strano soltanto per lasciarmi morire?  E' possibile che io abbia avuto
    la  rivelazione  della verità della vita soltanto perché vivessi nella
    menzogna?  Io l'amo più di tutto al mondo.  Ma  cosa  posso  fare,  se
    l'amo?",  pensò e, all'improvviso, si mise involontariamente a gemere,
    per l'abitudine datagli dalle lunghe sofferenze.
    A quel gemito, Natascia posò il gomitolo, si chinò verso l'ammalato e,
    vedendo gli occhi lucenti di lui, gli si avvicinò di più.
    - Non dormite?
    - No,  da un pezzo vi sto guardando.  Ho sentito quando siete entrata.
    Nessuno,  come voi,  mi dà quella pace così dolce...  e quella luce...
    Vorrei piangere dalla gioia...
    Natascia si chinò ancora di più verso di lui.  Il suo viso raggiava di
    estatica gioia.
    - Natascia, io vi amo troppo. Più di tutto al mondo!
    - Anch'io!   -  esclamò la fanciulla,  e si voltò per un attimo.  - Ma
    perché troppo?  -  domandò poi.
    -  Perché  troppo?  Ebbene,  cosa  pensate,   cosa  sentite  in  fondo
    all'animo? Vivrò? Che ne dite?
    -  Ne  sono  certa!   Ne  sono  certa!    -    gridò  quasi  Natascia,
    afferrandogli tutt'e due le mani con slancio appassionato.
    Egli tacque.
    - Come sarebbe bello!  -  E, presa una mano di lei, la baciò.
    Natascia era felice e commossa;  ma subito pensò che l'ammalato  aveva
    bisogno di tranquillità.
    - Intanto non avete dormito  -  disse, soffocando la propria gioia.  -
    Cercate di dormire... ve ne prego.
    Egli,  dopo averla stretta,  lasciò la mano di Natascia, ed ella tornò
    verso la candela e sedette dov'era prima.  Due volte lo guardò  e  due
    volte vide gli occhi lucenti di lui che incontravano i suoi. Si impose
    il compito di fare un dato pezzo di maglia e di non guardarlo più sino
    a che non avesse finito.
    Difatti, poco dopo, egli chiuse gli occhi e si addormentò. Non dormì a
    lungo e ad un tratto si svegliò agitato, coperto da un sudore freddo.
    Si  era  addormentato  continuando  a pensare a ciò che tanto occupava
    allora la sua mente: alla vita e  alla  morte.  E,  soprattutto,  alla
    morte a cui si sentiva più vicino.
    "L'amore?  Che  cosa  è  l'amore?",  pensava.  "L'amore si oppone alla
    morte.  L'amore è vita.  Tutto,  tutto ciò  che  capisco,  lo  capisco
    soltanto perché amo. Tutto è, tutto esiste, soltanto perché amo. Tutto
    è legato all'amore. L'amore è Dio e morire, per me, piccola particella
    d'amore,  significa  tornare  alla  fonte  comune  ed eterna".  Questi
    pensieri gli parevano consolanti.  Ma non erano  altro  che  pensieri.
    Qualcosa vi mancava, avevano qualcosa di unilateralmente personale, di
    intellettuale,  erano privi di evidenza.  E persisteva la stessa, vaga
    inquietudine. Si riaddormentò.
    In sogno,  si vide coricato nella camera in cui si trovava  realmente,
    non  era  più  ferito,  stava bene.  Parecchie persone insignificanti,
    indifferenti,  apparivano a un tratto davanti a lui.  Egli parlava con
    loro,  discuteva  di  cose  inutili.  Esse si preparavano a recarsi in
    qualche posto. Il principe Andréj ricordava vagamente che tutto questo
    non aveva alcuna importanza, che egli aveva ben altre cose più gravi e
    preoccupanti  cui  pensare,   ma  continuava  ugualmente  a   parlare,
    sorprendendo i suoi ascoltatori con parole futili e spiritose.  A poco
    a poco, insensibilmente, tutte quelle persone cominciavano a sparire e
    tutto cedeva il posto a un solo problema: come si poteva  chiudere  la
    porta?  Egli  si  alzava e andava verso la porta,  con l'intenzione di
    spingere il paletto per chiuderla.  Dal  riuscirvi  o  meno  dipendeva
    "tutto".  Egli andava,  si affrettava, ma le gambe non si movevano, ed
    egli sapeva che non sarebbe  giunto  in  tempo  a  chiudere,  tuttavia
    tendeva  morbosamente tutte le proprie forze.  Una paura tormentosa lo
    assaliva.  Era la paura della morte: essa stava dietro  la  porta.  Ma
    mentre  egli  barcollando,  senza  più forze,  stava per giungere alla
    porta,  ecco che "quella cosa" orribile,  premendo  dall'altra  parte,
    cercava  di  spingere  per  entrare  e bisognava trattenerla.  Egli si
    afferrava alla  porta,  raccoglieva  le  ultime  forze,  non  già  per
    chiudere,   -  ormai era impossibile  -  ma almeno per trattenerla. Ma
    le  sue  forze  erano   insufficienti,   maldestre   e,   premuta   da
    quell'orrore, la porta si apre e si richiude.
    Ancora  una  volta  quella cosa premeva dall'altra parte.  Gli ultimi,
    sovrumani sforzi  erano  vani:  due  battenti  si  spalancavano  senza
    rumore.  Quella cosa era entrata,  era la morte!  E il principe Andréj
    moriva.
    Ma,  proprio nell'istante in cui moriva,  il principe  Andréj  si  era
    ricordato  che  stava  dormendo  e,  fatto  un  ultimo sforzo,  si era
    svegliato.
    "Già, quella era la morte...  Sono morto e mi sono svegliato.  Sì,  la
    morte è risveglio". La sua anima era stata, a un tratto, avvolta dalla
    luce,  e  il velo che sino a quel momento gli aveva nascosto l'ignoto,
    si era sollevato davanti allo sguardo del suo spirito.  Si sentì  come
    liberato  da  una  forza  dapprima  imprigionata dentro di lui e provò
    quello strano senso di levità che non lo abbandonò più.
    Quando, destandosi madido di gelido sudore, si era agitato sul divano,
    Natascia gli si era avvicinata e gli aveva domandato che cosa  avesse.
    Il  principe  Andréj  non  le aveva risposto e,  senza capirla,  aveva
    continuato a fissarla con uno sguardo strano.
    Ecco ciò che gli era  accaduto  due  giorni  prima  dell'arrivo  della
    principessina Màrija.  Proprio da quel giorno, come diceva il dottore,
    la febbre che lo prostrava aveva preso una brutta forma,  ma  Natascia
    non si curava di ciò che diceva il dottore; ella vedeva quei terribili
    sintomi morali, che non le lasciavano alcun dubbio.
    Pure  da quel giorno era cominciato per il principe Andréj insieme con
    il risveglio dal sonno, il risveglio dalla vita. E,  in relazione alla
    durata  della vita,  esso non gli appariva più lento del risveglio dal
    sonno in relazione alla durata di un sogno.
    Nulla  vi  era  di  terrificante  e  di  brusco  in   quel   risveglio
    relativamente lento.
    I  suoi  ultimi giorni,  le sue ultime ore trascorsero come al solito,
    molto semplicemente. E la principessina Màrija e Natascia,  che non si
    allontanavano  da  lui,   lo  sentivano.   Esse  non  piangevano,  non
    trasalivano e,  negli ultimi giorni,  avevano  la  sensazione  di  non
    assistere  più lui (egli non c'era già più,  se ne era andato),  ma il
    suo ricordo più intimo: il suo corpo.  I loro  sentimenti  erano  così
    forti   che   il  lato  esteriore  e  terribile  della  morte  non  le
    impressionava più,  ed esse non trovavano necessario eccitare il  loro
    dolore.  Non  piangevano  né  davanti  a lui né quando erano sole,  ma
    nemmeno parlavano di lui tra di loro. Sentivano di non poter esprimere
    a parole ciò che avevano compreso.
    Tutte e due vedevano come egli sempre più profondamente, in modo lento
    e tranquillo,  si allontanasse da loro,  sprofondando chissà dove,  ed
    entrambe  sapevano  che  così  doveva  essere e che era bene che fosse
    così.
    Il principe Andréj si confessò e si comunicò;  tutti vennero a  dargli
    l'ultimo addio. Quando gli condussero suo figlio, posò le labbra su di
    lui  e  volse  il  capo,  non  perché quel saluto gli fosse penoso (la
    principessina Màrija e  Natascia  lo  capivano),  ma  soltanto  perché
    supponeva che da lui non si esigesse altro.  Ma quando dissero di dare
    al figlio la sua benedizione,  egli fece ciò che gli si chiedeva e  si
    guardò attorno come per chiedere se dovesse fare ancora altro.
    Quando,  con  gli  ultimi  sussulti,  l'anima si staccò dal corpo,  la
    principessina Màrija e Natascia erano presenti.
    - E' finita?!  -  disse la principessina Màrija,  dopo che il corpo di
    lui,  raffreddandosi già da alcuni minuti,  giaceva immobile davanti a
    loro. Natascia si avvicinò, guardò quegli occhi spenti e si affrettò a
    chiuderli.  Li chiuse e non li baciò,  ma avvicinò  religiosamente  le
    labbra su quello che era l'ultimo e il più vicino ricordo di lui.
    "Dov'è andato? Dov'è ora?".
    Quando il corpo,  lavato e vestito, giacque nella bara sopra la tavola
    (56),  tutti si avvicinarono  per  dargli  l'estremo  addio,  e  tutti
    piangevano.
    Nikòluska piangeva per lo stupore doloroso che gli straziava il cuore;
    Sònja e la contessa piangevano di pietà per Natascia e perché egli non
    era  più;  il vecchio conte piangeva perché sentiva che presto sarebbe
    toccato a lui fare lo stesso tremendo passo.
    Natascia e la principessina Màrija ora piangevano  anch'esse,  ma  non
    per  i  loro dolori personali;  piangevano per la commozione reverente
    che aveva invaso le loro anime dinanzi alla coscienza del  semplice  e
    solenne mistero della morte che si era compiuto innanzi a loro.

















    NOTE.

    N. 1. L'imperatrice madre Màrija Fëdorovna.
    N.  2. Konstantin Pàvlovic' (1779-1831), fratello dello zar Alessandro
    Primo, che rinunziò ai suoi diritti di successione.
    N. 3. Elizaveta Alekséevna (1779-1826), moglie di Alessandro Primo.
    N. 4. Si tratta di San Sergio il Confessore.  Nato a Costantinopoli da
    famiglia  illustre,  dovette  comparire dinanzi all'imperatore Teofilo
    (829-842) oppure a Leone  l'Isaurico  (810-821)  a  motivo  della  sua
    venerazione  per  le  immagini.  Sottoposto  a  tormenti  venne infine
    cacciato in esilio,  dove piamente morì.  La  sua  festa  cade  il  13
    maggio.
    N.  16.  Aleksàndr  Ivànovic'  Kutàjsov (1784-1812),  conte,  generale
    russo. Prese parte alle guerre del 1806 e del 1812.
    N.  53.  San Nicola è probabilmente San Nicola o San Niccolò di  Mira,
    più  noto da noi con il nome di San Nicola di Bari.  E' certamente uno
    dei santi più popolari della  cristianità  sia  in  occidente  che  in
    oriente:  a  Costantinopoli vi erano ben 25 chiese a lui dedicate e su
    4637 chiese  esistenti  in  Grecia  nel  1910  ben  359  erano  a  lui
    intitolate.  La  storia  di  questo  santo  che visse nell'Asia minore
    all'inizio del quarto secolo non è del  tutto  sicura,  per  le  molte
    leggende  di  cui  è stata infiorata.  Questo vale ancora di più per i
    santi  Floro  e  Lauro,   vissuti  all'inizio   del   secondo   secolo
    nell'Illirico.  Il  loro  martirio viene così narrato dal Martirologio
    romano al 18 agosto: "Nell'Illirico [si festeggiano] i  santi  Martiri
    Floro e Lauro,  tagliapietre,  i quali, sotto il preside Licione, dopo
    che furono martirizzati i loro maestri,  Procolo e  Massimo,  ambedue,
    dopo molti tormenti, vennero gettati in un profondo pozzo".
    N.  56.  E'  usanza,  in  Russia,  di deporre sopra una lavola la bara
    scoperta.